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Nel mondo globalizzato, dove l’omologazione incalza, la differenza diventa un valore. Per questo la
caratterizzazione nazionale di un gruppo o una tendenza può risultare utile alla sua affermazione.
Questo è accaduto ad esempio negli anni Ottanta con i pittori tedeschi noti come Neuen Wilden
(nuovi selvaggi) e con la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, che non a caso fu inizialmente
lanciata col nome di Transavanguardia Italiana, e con l’accompagnamento di un volume- pubblicato
nel 1980 da Politi, l’editore di Flash Art - dalla copertina tricolore. Tanto i tedeschi che gli italiani
recuperavano la manualità e i mezzi tradizionali del dipingere, facendo spregiudicato ricorso agli
stili del passato, privati però dei loro significati culturali, ridotti a puri significanti vuoti di
contenuto: stili che cambiavano a seconda del paese, perché la caratterizzazione nazionale, il
“genius loci” (come lo definisce Bonito Oliva), lo spirito del luogo, era una delle parole d’ordine
del decennio. Il gruppo della Transavanguardia comprendeva Sandro Chia, Francesco Clemente,
Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino (ma De Maria non divenne mai veramente noto
fuori d’Italia, a differenza degli altri quattro che conobbero un successo internazionale), e i suoi
riferimenti erano Carrà e De Chirico; in America, invece, si guardava al contesto massmediale,
mentre in Germania i Neuen Wilden si rifacevano all’espressionismo, che del resto costituiva un
precedente importante anche per gli altri, tanto è vero che un consistente filone del ritorno alla
pittura viene anche etichettato come “neoespressionismo”. In realtà, però, l’urgenza
dell’espressione, la pressione delle pulsioni interiori, cedono il posto qui al compiacimento di un
ritrovato mestiere pittorico, unito spesso e volentieri a connotazioni ironiche e umoristiche.
Tra i membri del gruppo, Chia è tra quelli che più dichiaratamente hanno attinto alla tradizione
figurativa italiana degli anni Venti-Trenta; dopo i primi successi internazionali, l’artista è stato
penalizzato dalla vendita in blocco di una serie di sue opere da parte di Charles Saatchi, gesto che
ne ha fatto crollare le quotazioni e ha compromesso la sua considerazione critica. Le figure che
meglio hanno resistito al passare del tempo sono quelle di Clemente – mistico-contemplativo,
influenzato dalle culture orientali – e di Paladino, autore di opere di intonazione primitivista,
cariche di risvolti ieratici e sacrali, sviluppate anche in interessanti interventi ambientali.
Chia, L’incendiario, 1980
Chia, Gioco di mano, 1982
Cucchi, Caccia mediterranea, 1980
Cucchi, Musica ebbra, 1982
Cucchi, senza titolo, 1987 (matita su cartone e ferro battuto)
Clemente, Autoritratto, 1978
Clemente, Fuoco, 1982
Clemente, Perseveranza, 1981
Paladino, Senza titolo, 1982
Paladino, Piccolo animale della notte, 1984
De Maria, Viaggio nel regno dei fiori dentro il pittore, 1982
Un caso eclatante di ricorso alla strategia dell’identità nazionale è quello dei giovani artisti inglesi
emersi verso il 1990. Questi sembrano aver capito anche troppo bene come per vincere il confronto
con la cultura di massa l’arte abbia sempre più bisogno di farsi notare: hanno infatti mobilitato
senza risparmio le risorse della provocazione, dello scandalo, della trasgressione. Grazie a queste
strategie, negli anni Novanta sono riusciti a ‘vendersi’ collettivamente, addirittura quasi con un
marchio, YBA (Young British Artists), e a conquistare il mercato internazionale. Inizialmente erano
un gruppo di giovani abbastanza sfigati, usciti dal Goldsmiths College di Londra, ansiosi di inserirsi
subito nel mondo dell’arte, senza fare la fila, e determinati a riuscirci. Non gruppo né tendenza, ma
pubblicizzati come tali, esordiscono con la mostra Freeze, organizzata da loro stessi in uno spazio
industriale dismesso nei Docklands; è la prima di una serie di mostre in spazi alternativi, nelle quali
riescono ad attirare il meglio della critica, dei galleristi e dei collezionisti. Charles Saatchi comincia
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a collezionarli e contribuisce non poco al loro successo. Hanno in comune l’atteggiamento anti-
intellettualistico (benché tirati su a pane, poststrutturalismo e psicanalisi, affettano ignoranza e
difficoltà d’espressione), la consapevolezza del potere dei media e di un buon marketing della
figura dell’artista prima ancora che della sua opera. In pochi anni riescono a modificare
l’atteggiamento del pubblico inglese nei confronti dell’arte contemporanea: questa occupa le pagine
dei giornali popolari e della televisione, gli YBA sono celebrità come cantanti o calciatori. Una
trasformazione coronata nel 2000 dai 5 milioni di visitatori richiamati dalla Tate Modern nel suo
primo anno di apertura (e dire che Londra prima non ce l’aveva neppure un museo dedicato al
contemporaneo!).
Hanno assimilato la lezione dell’appropriazionismo americano e hanno capito che sul readymade si
può sempre contare: se si rubano le idee non fa niente. Un readymade è in fondo
Hirst, Mother and child, divided, 1993
Così come
Hirst, The physical impossibility of death in the mind of someone living, 1991
Hirst, Hymn, 1996
Hirst, A thousand years, 1990
Una teca contiene delle mosche che si nutrono di una testa di mucca in putrefazione e vengono
uccise da un apparecchio elettrico per ammazzare le zanzare. Nel 1995, un critico calcolava che già
60 generazioni di mosche si erano succedute all’interno della teca, e speculava sulla profondità
delle riflessioni circa la vita e la morte stimolate dal lavoro. In realtà, è stato osservato da Julian
Stallabrass, la morte nelle opere di Hirst non è tanto la morte reale quanto quella dei film
dell’orrore: le mosche vengono da Dracula, lo squalo fa pensare al film omonimo più che a una
minaccia concreta (chi ha paura degli squali nella vita reale? Semmai del cancro o dell’infarto). La
novità è rinchiudere tutto questo splatter in vetrine minimaliste, cucinarlo con una freddezza
formale che è innegabilmente elegante. Al di là della sorpresa che generano (e forse con l’eccezione
di A thousand years) questi lavori sono vuoti. “A volte sento che non ho niente da dire, spesso
voglio comunicare questo”, afferma Hirst, e non c’è motivo per non credergli. Anche i titoli delle
sue opere sono deliberatamente vacui.
Per la vendita diciamo così al dettaglio, fa anche quadri, gli spot paintings (griglie regolari di pois, i
cui colori sono presi dalla pittura industriale per interni)
Hirst, Opium, 2000
e gli spin paintings (quadri realizzati buttando il colore sul quadro mentre questo è fatto ruotare in
velocità).
Hirst, Senza titolo. Spin painting, 2001
A realizzarli in grande quantità sono gli assistenti (pare ne abbia nove). I quadri sfruttano la
celebrità dell’autore, sono una specie di logo del prodotto Hirst.
Un’altra celebrità di marca YBA è Tracey Emin, il cui lavoro si incentra esclusivamente sulla sua
vita privata, che comprende passate esperienze di sesso precoce, stupro, aborto, depressione e
alcolismo. Alé!
Emin, Everyone I have ever slept with (1963-1995), 1995
Una tenda in cui sono ricamate dediche ai suoi amanti, al suo fratello gemello, alla nonna, a un
orsacchiotto e al suo feto abortito. Insiste che il suo lavoro è assolutamente sincero, che non c’è
ironia e che va preso alla lettera.
Emin, My bed, 1998
Emin, I’ve got it all
Emin si atteggia a primitiva, il che si riflette sulla grafia delle scritte dei suoi disegni, deformata e
piena di errori. L’artista è in effetti un personaggio: crede nella reincarnazione, sostiene che dopo
morta andrà a far parte del sole, afferma che tutti in famiglia sono dei medium, ecc. Il fatto che sia
diventata ricca e famosa chiaramente le mette dei problemi, dato che il suo lavoro attinge totalmente
all’ambito personale. Ecco perché continua a parlarci della sua disastrata vita precedente, ignorando
quanto è successo dopo.
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La strategia di gruppo che è riuscita così bene agli inglesi è stata molto invidiata dagli italiani. Dopo
il breve exploit della Transavanguardia, infatti, questi non hanno avuto lo stesso successo
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internazionale e sono tuttora sottovalutati, come rivela la loro scarsa presenza alle grandi mostre
internazionali. Il loro problema è quello di un’identità debole, non abbastanza eclatante. Gli unici
che abbiano conseguito uno status internazionale indiscusso sono Maurizio Cattelan e Vanessa
Beecroft
Vanessa Beecroft, VB 1998
Beecroft, 2000
Beecroft 2001
Beecroft 2002
Beecroft, Navy seals, 1999
Le performance della Beecroft potrebbero essere accostate ai 100 cinesi della Pivi, con la differenza
che qui la sorpresa è fuori gioco, essendo questo diventato il trademark dell’artista, la sua cifra
personale e inconfondibile. Le modelle, in vari stati di seminudità o di nudità, mettono lo spettatore
di fronte alla loro presenza muta e impassibile, non incontrano mai il suo sguardo, e finiscono per
produrre una sensazione di disagio. La variazione da performance a performance sta più che altro
nell’acconciatura delle ragazze e nella loro disposizione nello spazio. Solo una volta, per una
performance al Guggenheim di New York nel 1998, la Beecroft si è servita di marinai americani.
Quanto a Cattelan, sostenuto a spada tratta dalla rivista Flash Art, è una specie di eroe nazionale nel
piccolo mondo dell’arte italiana. Padovano, la sua biografia registra che ha fatto mille mestieri,
dalla “donna delle pulizie” al cuoco, giardiniere, becchino. Ha anche disegnato per qualche tempo
mobili, e alcuni sono tuttora in produzione. Comincia a fare arte a metà degli anni Ottanta, ma in
realtà si direbbe che tutto il suo percorso sia stato un lungo tentativo di sottrarsi al ruolo di artista, o
meglio, di cavarsela nei panni dell’artista con mille espedienti. Nel 1989 esponeva un Certificato
medico che attestava che non poteva partecipare alla mostra; nel 1992 mette in mostra la denuncia
alla polizia del furto di un’opera invisibile, e in un’altra occasione mette in scena una simbolica
fuga dalla galleria con una corda di lenzuola
Cattelan, Una domenica a Rivara, 1992
Nel 1993 vende il suo spazio alla Biennale di Venezia a una ditta di profumi che lo usa per farsi
pubblicità. A metà anni Novanta si fa finanziare una pretesa Biennale dei Caraibi, in realtà pretesto
per una vacanza al mare in compagnia di una serie di noti artisti internazionali, senza opere né
esposizione di sorta. Il suo ruolo di ragazzaccio, trickster, buffone che manda all’aria tutta la pretesa
serietà dell’arte è dichiarato in
Cattelan, Senza titolo, 1996 (Fontana-zorro)
Il trattamento che riserva ai suoi galleristi sa di scherzo goliardico più che di critica delle istituzioni
del mercato.
Cattelan, Errotin, le vrai lapin, 1995
Cattelan, A perfect day, 1999
Come molti altri protagonisti di questo momento, anche lui gioca la carta dell’identità nazionale.
Cattelan, Novecento, 1997
Variazione sul tema del monumento equestre, ma con un cavallo chiaramente da lavoro. Il titolo,
Novecento, fa pensare al film di Bertolucci e alla sua epopea di un’Italia contadina ormai
scomparsa, così come hanno fatto il loro tempo i monumenti equestri.
Cattelan, Senza titolo, installazione a Rivoli 1998
Un ennesimo readymade. Anche qui fa leva sull’idea dell’italianità: l’olivo, pianta mediterranea, è
trapiantato nel museo con terra e radici. La solitudine dell’emigrante trasportato in un mondo a lui
estraneo, le radici bene in vista, ad altezza dell’occhio dello spettatore ecc. ecc. L’idea è
semplicissima, ma indubbiamente efficace dal punto di vista visivo (fa venire in mente l’Arte
Povera, il che costituisce una ulteriore connotazione italiana, essendo stata l’Arte Povera il solo
movimento italiano recente che abbia avuto visibilità internazionale a parte la Trnasavanguardia) e
si presta ad essere investita di sensi simbolici.
Cattelan, La nona ora, 1999
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Tutta la sua carriera insomma gioca sullo stereotipo dell’italiano esperto nell’arte di arrangiarsi, e in
quest’opera anche cattolico. In ogni caso, l’artista gioca sull’ambiguità: il papa abbattuto da un
meteorite rispecchia l’angoscia per la crisi della religione o è il riflesso di un sentimento di
inveterato anticlericalismo? Cattelan ci lascia nel dubbio. A sentire lui, la statua era già pronta
quando decise di buttarla a terra con un masso. A questo punto, comunque, Cattelan, ormai
trasferitosi a New York (per la sua prima mostra aveva esposto un asino vivo, che riproporrà
quando a Trento qualche anno dopo gli daranno la laurea ad honorem) e lanciato in campo
internazionale, è già passato dalla semplicità elementare dei suoi primi interventi ad opere
visivamente più complesse e impegnative da realizzare, e nell’insieme più spettacolari. Cattelan ha
capito che la strategia dello scandalo è quella che paga di più in termini pubblicitari. Si direbbe che
abbia ragionato così: cosa, essendo italiano, posso usare di più noto a livello internazionale? Il Papa.
Che ne posso fare per levare un bel polverone? Buttiamolo giù, letteralmente. Come? E qui
s’inventa il coup de théatre del meteorite che schiaccia a terra il Pontefice, penetrando nella sala
espositiva attraverso un vetro rotto del lucernario, i cui cocci sono sparsi a terra sul tappeto rosso da
prima classe.
Cattelan, performance alla Biennale di Venezia 1999 (fachiro)
Un vero fachiro, seppellito per 2 o 3 ore.
Cattelan, Him, 2001
Mette in scena Hitler, l’icona della paura del XX secolo. Da notare che i manichini di cera utilizzati
in queste opere vengono commissionati all’artista da un artigiano di Parigi, non escono dal suo
studio come quelli di altri artisti (ad es. Robert Gober). Cattelan non ce l’ha neppure, uno studio. Il
ricorso ai manichini in cera, così come quello alla tassidermia (che usa in Bidibodidoo, in
Novecento e in altre opere), è caratteristico degli anni Novanta. Se ne servono molti artisti, dagli
americani Robert Gober e Kiki Smith (nel suo caso però non si tratta di immagini illusionistiche),
all’australiano Ron Mueck (che ha lavorato, prima di arrivare al successo nell’arte, come modellista
nel cinema) all’inglese Gavin Turk, e come abbiamo visto ai fratelli Chapman.
Ron Mueck, Dead Dad, 1996
Nel raffigurare il padre morto, in quest’opera esposta a Sensation, Mueck gioca sull’alterazione
delle proporzioni: piccole, in modo da suggerire un’inattesa fragilità-
Gavin Turk, Pop, 1993
Turk si autoritrae nei panni di Sid Vicious, nella posa di Elvis che fa il cowboy in un film, così
come l’ha serigrafato Warhol. Anche l’autoritratto è un altro tema ricorrente in un periodo in cui la
personalità dell’artista è arrivata a sovrastare l’opera. Si tratta di una tendenza che non riguarda solo
l’arte contemporanea, ma si estende retrospettivamente sui maestri del Novecento, a cominciare da
Picasso, la cui biografia viene correntemente usata come chiave interpretativa privilegiata per
leggerne l’opera. Su Picasso, Cattelan imbastisce un’opera
Cattelan, performance al Moma (Picasso), 1998
Un Picasso “alla maniera di Walt Disney” attende i visitatori e stringe loro la mano sulla soglia del
museo. Quando il museo chiude, il Picasso di Cattelan chiede l’elemosina sulla strada. Chiara
frecciata alla commercializzazione sfrenata dei musei americani, e in generale al ruolo giocato dal
museo nella legittimazione (e quindi nel successo commerciale) dell’arte contemporanea. Allo
stereotipo del genio novecentesco Cattelan oppone la figura della talpa che si infiltra nel sistema
dell’arte per metterne in crisi i meccanismi
Cattelan, Senza titolo, installazione al Bojimans Van Beuningen, Rotterdam, 2001
Ma è evidente che si tratta di un altro stereotipo, della costruzione di un personaggio ad uso dei
media, sui quali Cattelan ha impostato tutta la sua carriera.
Un altro prodotto italiano, ma con caratteristiche diverse da quelle ruspanti e working class di
Cattelan, è Francesco Vezzoli, arrivato rapidamente alla notorietà con un ciclo di film, An
embroidered Trilogy, 1997-1999, in cui l’ossessione del ricamo si accoppia a quella della celebrità
e a atmosfere decadenti alla Luchino Visconti, filtrate da una sensibilità tipicamente gay.
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