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PROLOGO

L'osservazione della natura umana non è avalutativa, poiché implica il discernimento dei valori. I
valori vengono contrapposti ai fatti e questa continua scomposizione del nostro organismo arriva al
punto di negare l'Essere. L'uomo ha in comune con alcune specie animali il potere di modificare il
suo habitat. Tuttavia noi ci sforziamo di voler definire scientificamente il nostro fine ultimo, e
«l'uomo, nella misura in cui egli è, rimane il solo campo possibile delle nostre osservazioni».

La scienza è un sapere che tende verso la verità e tutto ciò è già evidente nel pensiero di Platone,
quando questi utilizza l'espressione «gnosis apeudè», traducibile come «conoscenza vera» o come
«conoscenza esente da errore». Nella tradizione greca la scienza si fonda su di un universo ù
ordinato e statico; e l'ordine naturale si comprende attraverso uno studio dell'interazione tra gli
elementi che ne costituiscono la struttura.

Il pensiero giudaico-cristiano prosegue e accresce questo sforzo di Dio, e in quanto tale, meritevole
di essere conosciuto. Per il mondo cristiano medievale di comprensione del mondo, l'ampliamento
della conoscenza riguardo alla verità contribuisce in modo determinante allo sviluppo scientifico.
La ricerca è sempre spinta dalla volontà di conoscere quale sia l'impetus di Dio.

L'essere umano possiede la possibilità razionale di comprendere non solo ciò che è eterno, ma
anche ciò che è in divenire nell'universo. Questo nuovo approccio fonda la cultura scientifica e
precorre una scienza moderna nella quale la sperimentazione gioca un ruolo sempre più
importante. Nel suo sviluppo, la scienza moderna, si caratterizza come un sistema di pensiero
determinista, riduzionista e realista.

È determinista, in quanto gli sviluppi futuri dell'intero sistema possono essere previsti sulla base di
una conoscenza precisa dello stato presente; riduzionista poiché tutto il sistema si costruisce a
cascata, a partire dagli elementi che lo compongono; è infine realista nel momento in cui vuole
essere una descrizione del mondo quale esso è, quindi priva di valutazioni personali e soggettive
dell'osservatore.

È storicamente innegabile che la conoscenza dell'ordine della natura abbia un enorme debito nei
confronti della matematica, e dunque nei confronti di una ragione che si sbarazza dei miti. La
complessità della natura è al centro del pensiero scientifico contemporaneo. Lo scientismo non ha
completamente abbandonato il fronte della scena politica. Si persevera, «idolatrando la scienza, a
sacralizzare la politica» e, strumentalizzando la complessità della natura delle cose», si intende
determinare la «natura della persona».

Le espressioni «natura delle cose» e «natura della persona» appartengono alla tradizione giuridica
romanista che distingue la natura della persona da ciò che costituisce la natura del suo ambiente,
come pure dalle cose da cui la persona stessa può trarre un profitto. Questa distinzione tra la
natura della persona e la natura delle cose costituisce il fondamento del diritto romano. In questa
accezione del diritto, la natura appare come una realtà fenomenica che non esclude una lettura
ontologica della persona.
Cionondimeno, è nella contingenza che si situano gli elementi che ci consentono di comprendere
l'ordine naturale senza tuttavia conoscere mai completamente ciò che lo costituisce. Con l'aiuto
della ragione l'uomo si sforza di comprendere le finalità ultime, ma celate, dell'ordine della natura.
Questo ricorso alla ragione implica una consapevolezza dei fatti, al fine di trarne una riflessione
etica finalizzata sui loro punti d'equilibrio.

Generalmente, si può sostenere che l'etica condivida con il di- ritto lo studio dei giusti
comportamenti, delle buone abitudini. Il termine latino «habitus» è infatti la traduzione del
vocabolo greco «ethos». Di contro, la parola «etica» può certamente assumere svariati significati.
Personalmente, ritengo possibile avvicinare l'etica al metodo di individuazione del diritto. In virtù
di questo punto di incontro tra l'etica ed i valori contenuti nel diritto, numerosi riferimenti giuridici
sono utilizzati in quest'opera sul divenire umano.

Nell'utilizzare le cose e nel suo rapporto con le altre persone, l'uomo non è detentore di un potere
in senso proprio. Egli si trova piuttosto in una situazione di equilibrio proprio in virtù di questo
utilizzo e di quel rapporto. Conseguentemente il diritto si definisce a posteriori, come risultato
dell'osservazione fondata sulla natura di tale utilizzo delle cose e di questo rapporto tra persone. La
natura legittima l'azione degli uomini, ma non la determina.

Esiste una connessione spontanea ordinata degli equilibri tra persone da un lato, e tra persone e
cose dall'altro. Ciononostante, questa connessione non costituisce un ordine perfetto, ma chiede
di essere riequilibrata attraverso l'intervento di un giudice che riconosca a ciascuno il suo diritto. Il
giudice può avvalersi di norme scritte o di precedenti giudiziari attinenti a casi simili, ma la fonte
del diritto resta sempre la natura. Oggigiorno, quando si parla di conoscenza della natura delle
cose, si intende la scienza in senso forte; le scienze fisiche o quelle delle biologiche vertono su di
una realtà oggettiva.

L'oggetto è studiato, e le conclusioni del suo studio possono essere prese come un modello e
riprodotte. Così, la caratteristica della scienza risiede proprio nel suo materialismo: ci si occupa
dunque dello studio delle cose, della realtà, della materia. Le conclusioni degli scienziati non sono
affatto esenti da altre influenze. La scienza della natura delle cose si fonda sul rifiuto di ogni
soggettivismo, il quale è intrinseco alle scienze che analizzano la natura della persona umana.

La volontà dei sociologi, degli storici o dei giuristi, di edificare un sistema neutrale di comprensione
dei comportamenti umani sarebbe allora solo un'illusione. Non deve ingannarci una corretta
descrizione dei fatti umani: la corrispondenza tra l'osservatore della natura della persona umana e
la sua propria natura umana è costante. Questa inevitabile corrispondenza tra l'osservatore ed il
suo oggetto di studio finisce per rendere sempre meno rigorosa l'oggettività nel diritto, nella storia
o nella sociologia.

È chiaro a tutti che la scienza ha un fascino e che la tentazione di utilizzare il metodo scientifico
moderno per spiegare la natura umana sia divenuta pressoché irresistibile. Gli Illuministi erano
molto attratti dal metodo scientifico. Nel XIX secolo questa attrazione diviene il punto di
riferimento, in particolare, dei celebri studi di Auguste Comte.
XX secolo l'austriaco Hans Kelsen studia il diritto in quanto scienza «pura»… E molti altri saranno i
giuristi che si sforzeranno di fondare il diritto su una logica formale improntata al rigorismo
matematico. L'oggettività nel diritto, tuttavia, è oggi ampiamente criticata dalla teoria del diritto.
L'ordine della natura umana si rivela dunque eccessivamente complesso per poter essere il
prodotto di una equazione di norme.

La complessità della natura delle cose dimostra anche l'illusione di una perfetta oggettività nella
scienza. L'ordine della natura è quindi qualcosa di più che il concatenarsi di elementi distinti. Agli
inizi del XX secolo, la conoscenza moderna della natura delle cose è stata parzialmente rimessa in
discussione dalla fisica quantistica. Pur essendo le loro posizioni molto differenti, scienziati come
Max Planck, Albert Einstein o Niels Bohr hanno rivisitato l'utilizzo della matematica per dare
un'ulteriore dimensione alla fisica.

Essi hanno in comune l'aver apportato una spiegazione della natura che si distacca dalla fisica
classica di Newton. Il principio d'indeterminazione di Heisenberg, caratterizzato dal rifiuto
dell'ideale newtoniano della precisione scientifica, prende oggi il posto del determinismo,
caratteristico della fisica moderna. Inoltre, la materia è intesa come un'entità che tende
gradualmente a "dissolversi", in quanto una particella non possiede un'esistenza autonoma, ma
sarebbe il risultato provvisorio di una interazione tra “campi" immateriali”.

Le "particelle" oggetto dello studio, risultano invisibili all'occhio umano: ad ogni modo è stato
possibile desumere la loro esistenza dalla matematica e dalle analisi di laboratorio attraverso cui
osserviamo il loro movimento. Tuttavia, non ci è ancora possibile giungere ad unica spiegazione
complessiva, per cui la probabilità prende il sopravvento sulla certezza, così come dimostrano, gli
studi di Kurt Gödel. La teoria aristotelica dell'horror vacui, col tempo, è risultata errata. In quanto
empirica, essa si basava esclusivamente sulla percezione sensibile e concordava a grandi linee con
l'esperienza di Newton.

Ciononostante, la teoria aristotelica non rinunciò mai alla ricerca della causa finale della natura,
qualificata come mistificatrice da Newton e dalla scienza moderna, che invece si concentra sui
mezzi e sulle cause efficienti. Il concetto aristotelico di causa finale merita una riabilitazione. Non è
certo possibile recuperare il suo metodo scientifico, ma la domanda che pone sulla finalità della
natura è riconducibile alla nozione attuale di complessità della scienza.

Le due parole d'ordine della scienza moderna, cioè "coerenza logica" e "verifica sperimentale", non
sono più il primo oggetto di attenzione da parte della fisica quantistica. La scienza della natura
delle cose di Newton e le teorie di Einstein appartengono a due diverse "biblioteche", accomunate
dallo stesso oggetto di studio, che è la natura, ed entrambe in attesa di essere completate da
nuove scoperte.

Gli studi scientifici di Einstein sono stati esplicitamente orientati dalla convinzione dell'unità delle
leggi della natura; secondo l'espressione di Niels Bohr, esisterebbe tra di esse un "principio di
complementarità". Si è comunque verificato un cambiamento. Infatti, nella rappresentazione della
fisica quantistica, la capacità previsionale non è più la caratteristica principale della ricerca. Questo
cambiamento rappresenta anche un ribaltamento filosofico: “La storia delle grandi rivoluzioni
scientifiche ci insegna almeno questa lezione: laddove si spostino significativamente le frontiere
della conoscenza, il pensiero scientifico travolgerà il pensiero nella sua interezza”. Se ci si vorrà
ancora ispirare alla natura delle cose al fine di giungere a poter spiegare la natura umana,
bisognerà allora tenere conto della complessità intrinseca della natura stessa.

L'osservazione risulta essere un'interazione con una realtà complessa e perciò sfuggente, ma allo
stesso tempo portatrice di significato. La scelta del termine "divenire fa in parte riferimento al
termine inglese "process" utilizzato da Alfred North Whitehead (1861-1947), autore di una
riflessione di matrice cristiana che integrava le scoperte della fisica quantistica.

Egli, infatti, tematizza il divenire (process) per riflettere sul flusso delle cose. In questa prospettiva,
il divenire rappresenterebbe un passaggio, nel quale il tempo è costitutivo dell'essere. Il divenire di
Whitehead si differenzia dal concetto bergsoniano di "durata", che proprio secondo Henri Bergson
avrebbe il merito di rifiutare ciò che egli stesso chiama il meccanismo radicale "in cui la totalità del
reale è bloccata nell'eternità".

Ma egli tende ad attribuire un senso poetico alla durata che si fonde nella vita e che fa
dell'intelletto una realtà secondaria. Ritengo piuttosto che si debba partire dall'intelligenza per
concepire la vita e non viceversa. Il "divenire" sarà, in tal caso, da rapportare al finalismo come
inteso nella filosofia tomistica di Etienne Gilson. Secondo tale teoria, il finalismo non avrebbe nulla
a che vedere con il fissismo della natura.

La mutabilità del vivente rappresenta una realtà incontestabile che dipende da una probabilità di
evoluzione che non è separabile dai fini della natura. Pertanto, egli scrive "l'adattamento di un
organismo all'ambiente ed alle proprie condizioni di vita sono intelligibili soltanto dal punto di vista
del loro risultato finale".

Il finalismo, secondo Gilson, non esclude quindi l'idea di una perfezione intrinseca alla natura: “Il
fine non si ridurrà quindi ad una causa che si può osservare in corso d'opera, così come accade per
la causa motrice. Per la stessa ragione, il fine non è né misurabile, né calcolabile; si potrà
solamente dire che esso c'è. In compenso, ciò si può ritenere certo poiché gli effetti di cui gli si
chiede conto sono visibili, tangibili, e percettibili con un'evidenza pari a quella della estensione e
del movimento: tali sono le strutture di questi esseri organizzati". Così come Whitehead e Gilson, il
mio intento sarà quello di riflettere sulle differenze etiche che corrono tra una lettura determinista
della natura e una lettura finalista del creato.

I quattro aspetti ritenuti fondamentali in questo libro

Origini animali e divenire umano- Quattro secoli dopo che la rivoluzione scientifica sembrava aver
compromesso qualsiasi speculazione teleologica, il flusso incessante di scoperte sempre nuove si è
straordinariamente orientato a favore del finalismo. Il fascino esercitato dalle scoperte scientifiche
tende ancora a relegare il finalismo tra le concezioni superate. Inoltre, quest'inno alla causalità
sostenuto dagli scienziati tende a ridurre l’uomo alla sua biologia più elementare. L'animale si
colloca oggi al centro di una grande attenzione giuridica che sancisce l'abbandono di ogni pensiero
finalista privilegiando il determinismo.

La fabbrica biotecnologica del divenire umano – La nascita della biotecnologia consente oggi non
solo di curare meglio gli esseri umani, ma persino di potenziarli. Il celebre caso della qualifica-
zione olimpica, nel 2008, dell'atleta sudafricano Oscar Pistorius, mostra quale sia la posta in gioco
delle promesse biotecnologiche. Un'umanità "potenziata" con l'ausilio delle modifiche
biotecnologiche applicate al corpo umano è ormai possibile. Tuttavia, la messa a punto, in futuro,
di uomini-robot, rimette in causa tutto ciò che costituisce l'etica del divenire umano. L'uomo è
molto più che materia plasmabile che possiamo ridefinire e ricomporre.

La fragilità del divenire umano - La ricerca di un'umanità migliorata nasce dalla fragilità dell'uomo.
Per contro, la vulnerabilità umana si rivela come costitutiva di ogni atto culturalmente significativo.
In contrapposizione ad una natura in cui "l'uomo è un lupo per l'uomo", la società civilizzata si
prende cura dei più deboli. Oggi, la protezione assicurata ai bambini in ambito sanitario attesta
fortunatamente la fondamentale benevolenza umana per i più deboli. La vulnerabilità dell'uomo si
pone al centro del divenire della sua identità. Le scoperte della genetica sovvertono le nostre
convinzioni e la vulnerabilità dell'ambiente dell'uomo pone di fronte a responsabilità sempre
nuove.

La Chiesa cattolica e il divenire umano – Nessuna religione più del cattolicesimo dipende da una
posizione assolutamente centrale e singolare dell'uomo nel cosmo. La protezione della natura
sacra della vita umana è un fine da perseguire, ma i mezzi per ottenerla differiscono a seconda
delle situazioni.
CAPITOLO 1

ORIGINE ANIMALI E DIVENIRE UMANO


La teoria della fisica quantistica ha rappresentato e rappresenta tuttora una novità radicale, perché
si discosta parzialmente dalla fisica di Isaac Newton, specialmente dalla sua ipotesi secondo cui vi
sarebbero uno spazio e un tempo assoluto, che conterrebbero gli oggetti nella loro natura
permanente. A partire dalle scoperte della fisica quantistica, attraverso un ritorno alla filosofia
aristotelica, occorre interrogarsi sul passaggio dalla potenzialità all'attualità degli enti naturali.

1.1 Il finalismo nella scienza


Questo cambiamento non comporta una radicale rivoluzione riguardo alla sostanza della natura,
ma si concentra sulla sua effettiva realizzazione, dal momento che, nella fisica quantistica la natura
non è costituita tanto da una “sostanza”, quanto piuttosto da un susseguirsi di eventi occasionali.
Da questo movimento continuo e discontinuo della materia, il filosofo Whitehead trae spunto per
porsi alcuni quesiti. Whitehead, sin dal principio, manifesta una totale disapprovazione rispetto alla
concezione darwiniana della vita. Il filosofo Whitehead intende invece riabilitare l'importanza di
una ricerca teologica della natura del vivente. Secondo il suo pensiero, la struttura di un essere
vivente sarebbe il risultato della combinazione dei suoi diversi elementi (come sostengono anche i
darwinisti). Egli non intende negare l'importanza della contingenza (che gioca un ruolo importante
nella Selezione Naturale), ma spiega l'evoluzione della natura come una graduale realizzazione
finalizzata ad un'organica armonia dell'universo. Il fine di ogni essere vivente, secondo questa
impostazione, torna ad essere un'ipotesi scientifica degna di credibilità.

Per Whitehead rivestono grande importanza le contingenze, dal momento che gli esseri viventi non
hanno caratteristiche stabili ed immutabili nel corso della storia. L'essere è costituito dal suo
divenire (its process, in inglese) e da un fine in movimento, che non si distacca tuttavia da ogni
riferimento (meta)fisico alla sostanza. Viene ridefinito più esattamente anche il concetto di
“sostanza”, che non è intesa come un'entità stabile, può essere descritta a partire da una serie di
avvenimenti (events) particolari del vivente: i campi di compenetrazione della materia la
costituiscono. Ma il finalismo di Whitehead non ha analogie con il determinismo.

Il divenire del vivente concerne tutta la sua natura, in virtù della trama di interazioni esistenti tra i
vari esseri viventi. Whitehead ritiene che Dio intervenga sulle origini della natura del mondo. Se
l'origine del cambiamento del vivente è in Dio, il vivente (sempre in movimento, sempre
provvisorio) non è tuttavia il risultato esclusivo di questa origine divina. Non esiste una creazione
fissa di un'entità vivente: Dio conduce il mondo verso il suo fine realizzando un'intenzione
originaria. La comprensione dell'evoluzione del vivente presuppone dunque il riferimento a Dio,
che non può essere separato da divenire naturale eterno (everlasting è il termine usato da
Whitehead). Secondo Whitehead, Dio “veglia” sui diversi stadi del divenire dell'essere vivente.
La ragionevolezza della sua ipotesi si fonda sui momenti cruciali del divenire del vivente, cioè quei
momenti in cui tutto potrebbe svanire e volgere al disordine, al caos. Ma questo poi, di fatto, non si
verifica. Al contrario, tutta la sua opera opta per una loro unione, che non porta, comunque, ad
un'unità concettuale: il messaggio biblico mantiene interamente la sua forza autonoma (in campo
teologico).

Michael Ruse nota che la fisica quantistica(con il suo indeterminismo), esclude la possibilità di una
completa comprensione della natura. La chiesa cattolica ha riconosciuto i limiti della spiegazione
biblica della natura, ma la scienza non può spiegare tutto. In quest'ottica, la celeberrima teoria del
Big Bang sull'origine del cosmo non sarebbe insuperabile, ma rappresenterebbe piuttosto un punto
posto al limite delle nostre conoscenze fisiche. La chiesa cattolica ha anche cambiato la sua
posizione sulla teoria evoluzionistica.

“Lo spirito della materia non emerge al termine di un processo evolutivo”. Le parole di Giovanni
Paolo II “le nuove conoscenze conducono a riconoscere che la teoria dell'evoluzione è più di una
ipotesi” “Più che della teoria dell'evoluzione, è opportuno parlare delle teorie dell'evoluzione”.
Questa pluralità vuol prendere al contempo in considerazione, da un lato la diversità delle
spiegazioni che sono state proposte riguardo al meccanismo dell'evoluzione e, dall'altro, le diverse
filosofie a cui esso si riferisce. Di conseguenza, le teorie dell'evoluzione che, sulla base delle
filosofie che le ispirano, considerano lo spirito come emergente dalle forze della materia vivente ho
come un semplice epifenomeno di questa materia, sono incompatibili con la verità dell'uomo”.

È scritto in Genesi I, 26- 31 che Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e gli ha dato “autorità sui pesci
del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Genesi II
5- 14, aggiunge che Dio plasmò l'uomo “con la polvere del suolo”, “gli soffiò nelle narici un alito di
vita e l'uomo divenne un essere vivente”. Quindi l'uomo è fatto di polvere come tutta la materia è
fragile ed è in costante evoluzione. Nella genesi, la scoperta della conoscenza del bene e del male è
soprattutto una presa di coscienza di sé e si manifesta nel senso di vergogna che si prova ad essere
nudi. Anche prima di essere cacciato dall'eden, l'uomo ha avuto libera scelta tra il bene e il male.

Whitehead propone ben più di una riconciliazione tra scienza e fede. Pur mettendo in evidenza il
ruolo di Dio creatore, egli assegna all'uomo la responsabilità del suo divenire; nella contingenza,
nulla è scritto in anticipo. Whitehead si riallaccia alla teoria dell'evoluzione.

Darwin sostituisce Dio con la selezione naturale, che si muove in maniera casuale. La sua opera
l'origine della specie venne pubblicata nel 1859; qui è spiegato il ruolo primordiale della selezione
naturale nel divenire del vivente. Darwin fu duramente attaccato da molti teologi cristiani in
particolare dal vescovo di Oxford. Queste critiche hanno un punto in comune: la difesa di
un'origine divina del mondo, che tende a identificare il finalismo con il determinismo. Essi
riprendono spesso temi ricorrenti nella teologia protestante anglosassone, conosciuta come
“teologia naturale”.
Questa teologia fornisce una chiave di lettura del vivente secondo cui sarebbe impossibile
conoscere lo scopo primario della vita. Questa ignoranza non impedisce tuttavia di descrivere il
comportamento (behaviour, in inglese) degli esseri viventi per potersi mettere in relazione con Dio.

William Paley, il quale sostiene, con una celebre espressione più volte ripresa, che così come non
può esistere un orologio senza l'orologiaio, nemmeno può esistere un disegno senza un
disegnatore. Questa visione meccanicistica comporta un determinismo nell'ambito della creazione:
Specie vivente è conforme ad un modello originario. Questa visione della natura innova e in effetti
si oppone alla definizione classica del movimento della creazione proposta da Aristotele.

Nella sua opera “Le parti degli animali”, lo stagirita offre una spiegazione della causa efficiente (in
greco eidos) che partecipa alla determinazione dell'essere vivente, ma questa causa assume la
forma del vivente orientato verso un fine (telos).

Whitehead riprende il pensiero aristotelico, attualizzandolo in relazione alle scoperte della fisica
quantistica sullo spostamento della materia. La posizione di Whitehead sul finalismo della vita è
tutt'altro che condivisa tra i filosofi odierni. Richard Dawkins e Daniel Dennett respingono la tesi
secondo cui la natura avrebbe dei fini.

Il primo di questi filosofi, R. Dawkins, nel suo testo “l'orologiaio cieco”, pone l'accento sulle
imperfezioni della natura per giungere a condannare ogni teoria sui fini della natura stessa. Per
spiegare il concetto egli utilizza la metafora del blind spot. Egli deduce che nessun Dio avrebbe mai
potuto creare un'imperfezione tanto grave. Dowkins parte dal presupposto che il design sia sempre
determinista, ma questa è una concezione simile alla teologia naturale di Paley. La sua
argomentazione non prende in considerazione la definizione di finalismo.

Dennett, insiste sul disordine che, a suo dire, caratterizzerebbe l'apparizione degli esseri viventi. In
virtù di tale disordine, non esisterebbe nessun divenire. Egli scrive: “l'evoluzione il prodotto di un
insensato processo privo di scopo”. In altri termini, l'evoluzione è il prodotto di un divenire privo di
spirito e di essenza. La vita sarebbe quindi semplicemente originata nell'eternità dei tempi, ma
avrebbe ben potuto non avere origine.

Tanto non esisterebbe alcuna teoria in grado di spiegare le origini del mondo, eccezion fatta per
quelle teorie che sostengono che la vita sarebbe semplicemente il frutto di un'incredibile
coincidenza. Dennet e Dawkins sostengono che esistono delle informazioni sulla vita, che si
trasmettono attraverso la genetica durante la selezione naturale. Dawkins, concepisce i geni come
un patrimonio di informazioni che si è accumulato nel tempo, che ha al suo interno ciò che gli
permette di sopravvivere.

Il sistema di informazione genetica consente agli organismi di adattarsi e di acquisire nuove


informazioni grazie a tipologie di comportamento istintive che vengono trasmesse dai geni. La
complessità di tali mutamenti riapre la diatriba sulla buona o cattiva organizzazione degli esseri
viventi. Se vogliamo fare un esempio, pensiamo alle termini soldato che nonostante il loro vigore
non sono in grado di nutrirsi da sole ed hanno bisogno dell'aiuto delle termini operaie. Da questa
prospettiva si riduce che c'è un miglioramento e al tempo stesso un limite alle imprese della
selezione naturale.

L'obiezione che si può muovere nei confronti della teoria di Paley riguarda l'idea di una
realizzazione eminentemente genetica della vita: quindi non esisterebbe un disegno divino
perfetto, e non sarebbe prevista una trasmissione genetica.

La complessità dell'essere vivente non rimanda all'immagine ordinata delle ramificazioni di un


albero (con il tronco e i rami che raffigurano "l'albero della vita", in inglese branch process), ma
assomiglia piuttosto ad un cespuglio di rovi, le cui estremità poggiano al suolo per divenire a loro
volta radici, o altri rovi. Possiamo allora sollevare la questione dell'importanza delle scienze per la
vita quotidiana degli uomini.

Non si tratta di discutere il peso e le significative implicazioni che le scoperte scientifiche hanno
avuto sulla nostra vita quotidiana, ma di tematizzare la loro importanza per la comprensione delle
nostre azioni. Questo problema è stato preso come punto di partenza da John Polkinghorne, nella
sua opera "Belief in God in an Age of Science".

Egli parte da una constatazione che è evidente a tutti ma che è bene ricordare: la scienza dà
spiegazioni su una parte dell'universo. Di conseguenza non può rispondere a tutti gli interrogativi
che si pongono gli uomini sul compimento delle loro azioni. L'affermazione di John Polkinghorne
rappresenta una provocazione che ha come scopo quello di contestare la cultura scientista
contemporanea. Lo studioso ricorda le celebri parole dello scrittore Conan Doyle.

Da questa battuta J. Polkinghorne deduce che una spiegazione dell'essere vivente troppo
focalizzata sugli aspetti scientifici è "povera di mondo", nel senso utilizzato da Heidegger nel
definire gli animali "poveri di mondo". Si tratta di una scienza delle cose e non delle persone, se si
vuol usare una terminologia tipica del diritto romano. Per J. Polkinghorne, lasciare la spiegazione
della vita nelle mani della scienza equivale a voler racchiudere in una scatola la complessità del
mondo.

Egli si appella ad una lettura del mondo fisico che tenga conto anche dei "cambiamenti di rotta
della volontà di Dio". Chiaramente, così come Whitehead, Polkinghorne non ritiene che la teologia
fornisca una descrizione del mondo fisico completa e razionale. Lo stesso Polkinghorne ritiene che
anche la fede in Dio possa aiutare la comprensione di alcuni aspetti della complessità del mondo
fisico.

A tal fine egli sostie- ne: "noi non stiamo studiando il mondo per trovare delle tracce sull'esistenza
di Dio, ma presupponiamo la Sua esistenza come aiuto per comprendere perché le cose si siano
sviluppate nel mondo fisico in una tal maniera e non in un'altra". Prende come esempio il "mistero
della musica", al fine di dimostrare i limiti di una spiegazione strettamente scientifica del mondo.
Infatti, egli scrive, da un punto di vista tecnico la musica non sarebbe altro che una vibrazione
d'aria che tocca i nostri timpani e stimolai neuroni del nostro cervello.
Perciò, si domanda: "com'è possibile che una semplice sequen- za di attività temporali abbia il
potere di parlare al nostro cuore di una bellezza eterna?". Per questo l'evoluzione non può
spiegarsi in maniera autoreferenziale senza prendere la piega della "povertà di mondo". La teoria
darwiniana dell'evoluzione nega ogni causa trascendente e prende le distanze da una spiegazione
del mondo che faccia riferimento alle sue finalità.

Ma per Polkinghorne, ciò equivale a rifiutare l'unità della conoscenza. Su questo punto si può dire
che il suo pensiero si allontana da quello di Whitehead. La sua teoria sull'unità della conoscenza
comprende anche la teologia, mentre la nozione di divenire (process) di Whitehead conferisce al
finalismo un'accezione più equilibrata, ma al contempo più indeterminata.

L'impegno di Polkinghorne in favore di un approccio causale-deduttivo (top down causality), a


partire dalla trascendenza è quindi più vicino alle tesi della teologia naturale di Paley. Tuttavia,
l'apporto prezioso delle riflessioni di Polkinghorne è quello di mostrarci come le incertezze
epistemologiche consentano delle aperture ontologiche tanto ampie da rimettere in discussione la
causalità del mondo, a partire dall'idea di Dio.

Anche in questo caso, è estremamente difficile definire il metodo scientifico. L'obiettivo della
comunità scientifica è incoraggiare il senso della scoperta. Eppure la diversità degli approcci e degli
ambiti scientifici non consente di fare un resoconto di tutte le teorie della conoscenza. Così, per
fare degli esempi, sappiamo che la teoria della confutazione delle circostanze (refutable
conjectures) di K. Popper, si distingue da quella sullo sviluppo progressivo di programmi di ricerca
(Pursuing progressive programmes) di I. Lakatos, o ancora da quella di B. van Fraassen sul
raggiungimento di un adeguamento empirico.

Ma nessuno di questi tre modelli ci spiega a pieno la complessità del mondo. Quindi Polkinghorne,
commentando questi tre autori, conclude che non c'è un paradigma scientifico condiviso perché
"non esiste alcun dato scientifico significativo, che non sia un fatto già interpretato”. La teoria
dell'evoluzione conferisce un peso decisivo alla casualità, ma nella sua spiegazione della
contingenza degli avvenimenti essa opera necessariamente un'interpretazione. Così Fred Hoyle e
Chandra Wickramasinghe ci mostrano matematicamente che il caso non può spiegare
adeguatamente l'origine di una catena proteica.

Essi concludono che la speranza di avere nel nostro mondo una catena proteica dovuta al mero
caso è probabile quanto sperare di realizzare un aereo completamente montato, accontentandosi
di lanciare in aria i singoli pezzi che lo compongono. Si può accettare la selezione naturale come
presupposto, a condizione di prender coscienza che essa avviene in un secondo momento.

Senza voler parlare della teoria della macroevoluzione (formazione di nuove specie), possiamo
accettare la teoria dell'evoluzione per il lungo processo delle micro evoluzioni? Tale è la posizione
di P. Johnson che attribuisce solo alle microevoluzioni (piccole modificazioni della specie esistente)
un ruolo nella selezione naturale. Pertanto, possiamo concludere che la selezione naturale operi
solo su specie già formate e che si limiti soltanto ad incrociarle? Affermare ciò equivale a conferire
ad ogni entità vivente un'informazione esistente a partire dalle origini del mondo, così come
sostiene Michael Behe, ma il rischio è quello di avere una visione predeterminata sul divenire
dell'essere vivente.

Una riabilitazione del finalismo nel divenire dell'essere vivente deve evitare gli inganni del
determinismo, sia esso creazionista o biologico. Whitehead resta estrema- mente cauto nel trarre
conclusioni riguardo al divenire del vivente.

Ad ogni modo non ostenta l'ardire del movimento creazionista nord-americano (oggi aggiornato
dalla teoria dell'Intelligent Design), il quale si sforza di fondare scientificamente la creazione,
proprio sulla base del racconto contenuto nella Bibbia. Il creazionismo scientifico ignora i contenuti
che la teoria dell'evoluzione apporta alla teologia della creazione. Vi è un'evoluzione della
creazione, dal momento che la creazione del mondo è orientata alla perfezione (stiamo parlando
di una promessa di perfezione, piuttosto che di un programma predeterminato).

L'azione di Dio non sarebbe solo il mantenimento dell'ordine iniziale, quanto piuttosto l'apporto di
nuovi elementi. E se tutti i fenomeni della vita sono ricompresi in una legge naturale, ciò vuol dire
che una logica razionale (Logos) ha la capacita di abbracciare tutti i fenomeni della natura. Il
mondo è creato dalla sapienza di questo Logos. È rispetto al logos della natura che si situano la
complessità e l'imprevedibilità proprie dei fenomeni quantici della natura. L'azione di Dio non si
riduce al mantenimento dell'ordine inizialmente posto, ma è aperta all'apporto di nuovi elementi.

Una tale visione si accorda con l'idea che Dio sia al contempo Creatore del nuovo e Colui che
conduce alla salvezza. Possiamo dunque pensare alla realizzazione di innovazioni, senza rimanere
inchiodati ad un determinato stato. Tuttavia, questo non significa che vi sia un rapporto di
continuità tra le scimmie e gli esseri umani. La teoria evoluzionistica di Darwin e dei suoi epigoni
svuota della sua sostanza la natura dell'uomo.

Il tentativo scientifico dei creazionisti resta in ogni caso imprigionato nelle spire del determinismo.
In realtà ogni recupero della teoria di Darwin si basa su uno scandalo primordiale: quello di cercare
ad ogni costo un legame parentale tra l'uomo e la scimmia. Oggi come ieri, il nodo della
controversia risiede proprio nella discendenza dell'uomo dalla scimmia. Il pensiero di Darwin è
detestato da molti per aver accreditato l'idea che l'uomo discenda dalla scimmia. La vulgata contro
Darwin vede in questa teoria un conflitto con la stessa Bibbia: l'uomo non sarebbe discendente di
Adamo ed Eva e non sarebbe il frutto di un atto di creazione speciale.

Ciò significa negare l’immortalità dell'anima e della morale, facendo venir meno il giorno del
giudizio universale. Queste sono le convinzioni anti-darwiniste dei creazionisti. Gli stessi
creazionisti hanno limitato le loro ambizioni scientifiche. Essi puntano ormai su una spiegazione
basata sulla concezione del Disegno Intelligente (in inglese, Intelligent Design) nella creazione
dell'essere vivente che li vede perfettamente in linea con la teologia naturale di Paley. A differenza
dei creazionisti di un tempo, i sostenitori moderni del Disegno Intelligente non parlano quasi mai di
Dio.
Non cercano più di dare una spiegazione scientifica del mondo che riprenda alla lettera i testi
biblici. Il loro è un metodo più velato, ma teso a stabilire l'esistenza di un determinismo
creazionista. I detrattori della teoria del Disegno Intelligente parlano metaforicamente di una
tattica ispirata alla punta di un cuneo (in inglese wedge) che fende il legno incuneando dapprima la
sua parte più appuntita, finendo poi col penetrare anche la sua parte più corposa e massiccia. E
tale tattica del cuneo mira a penetrare insidiosamente anche gli animi e le istituzioni.

Questa strategia è stata messa in atto per modificare il corso di biologia nell'insegnamento
secondario americano, al fine di ottenere un "trattamento paritario” tra la teoria dell'evoluzione e
quella del Disegno Intelligente. L'azione dei sostenitori del Disegno Intelligente cerca di sfruttare la
vulnerabilità un punto fondamentale per il sistema della formazione americana, cioè l'editoria
scolastica. In questo ambito, molte istanze legali sono state inoltrate per ottenere questa parità di
trattamento.

1.2 Giuridicità e teoria dell’evoluzione


Il primo emendamento della costituzione degli stati uniti d'America (relativo alla libertà religiosa e
alla libertà di espressione) è stato interpretato dalla Corte Suprema come garanzia della laicità
dell'insegnamento. Il riferimento al primo emendamento ha permesso di annullare le leggi che
garantivano la “parità di trattamento" nel campo dell'istruzione tra la teoria dell'evoluzione e
quella del Disegno Intelligente.

Questo principio è stato applicato più volte: nel 1981, il Governatore dell'Arkansas firmò una legge
che sanciva un trattamento paritario tra l'insegnamento del creazionismo scientifico e la teoria
evoluzionistica. Questa legge fu annullata da una corte di giustizia l'anno successivo. Il Governatore
della Louisiana adottò a sua volta una legge molto simile, anch'essa annullata nel 1987 dalla Corte
Suprema.

Più recentemente, nel 2006, il regolamento interno di un liceo è stato dichiarato anticostituzionale,
perché obbligava gli insegnanti ad iniziare il corso di biologia insegnando agli alunni che la teoria
dell'evoluzione non sarebbe dimostrata. Il ricorso al diritto per dare un riconoscimento sociale a
una spiegazione della vita non è prerogativa soltanto dei sostenitori più radicali della teoria della
creazione.

I difensori più ferventi della teoria dell'evoluzione (come lo è R. Dawkins) ambiscono ad ottenere il
riconoscimento giuridico delle loro affermazioni. In Spagna, chiedono il riconoscimento dello status
di persona alle grandi scimmie antropomorfe. Nel mese di aprile del 2006, il Gruppo Socialista dei
Deputati della Camera ha presentato in Spagna un disegno di legge in cui "si chiede al Governo
spagnolo di dichiarare la propria adesione al Proyecto Gran Simio (in inglese, Great Ape Project) e
di intraprendere le azioni necessarie a livello internazionale, per proteggere le grandi scimmie dai
maltrattamenti, dalla schiavitù, dalla tortura, dalla morte e dall'estinzione".
In questa proposta di legge, la necessità di tutelare le grandi scimmie è ripresa dal programma di
un'associazione spagnola, El Proyecto Gran Simio, che intende “fare entrare le grandi scimmie nella
categoria di persona”. Il 28 febbraio 2007, il Parlamento delle Isole Baleari ha approvato questa
proposta di legge ed ha chiesto al Governo spagnolo di dichiarare a sua volta la propria adesione al
Proyecto Gran Simio.

Il 25 giugno 2008, la commissione parlamentare per l'ambiente ha approvato la proposta di legge.


Ma allo stato dei fatti, il Governo spagnolo non ha ancora adottato misure per la sua approvazione
in Parlamento. Tal pro- posta di legge è il frutto delle forti pressioni da parte dei membri dello
stesso Progecto Gran Simio, emanazione spagnola dell'omonima organizzazione internazionale,
The Great Ape Project, fondata nel 1993.

Lo stesso anno, Peter Singer e Paola Cavalieri hanno pubblicato il testo The Great Ape Project:
Equality beyond Humanity che inizia con queste parole: «Siamo umani, ma al contempo siamo
grandi scimmie». P. Singer è uno dei membri più conosciuti di quest'organizzazione. Nei suoi diversi
scritti, egli definisce come "persona" qualsiasi animale in grado di percepire sensazioni e lo stesso
Singer denuncia la separazione artificiale tra uomini ed animali, considerandola un'autentica
discriminazione che egli chiama speciesism, fondata sull'appartenenza a una data specie.

Un membro dell'organizzazione altrettanto famoso è Ronald Dawkins. Nel suo libro “The Selfish
Gene”, egli ritiene che gli uomini e gli animali siano tutti mossi dai geni per riprodursi. Egli è anche
l'autore della teoria dei cosiddetti "meme", secondo cui la sopravvivenza dei geni non avverrebbe
necessariamente tramite l'intermediazione di istinti programmati.

Entrambi gli studiosi sono ferventi seguaci di Darwin, a tal punto che Singer propone di creare un
partito politico di sinistra darwiniana e Dawkins di negare l'esistenza di Dio sulla base delle teorie
di Darwin. Entrambi mettono infatti l'uomo al livello di un grande primate (community of equals),
appellandosi alla teoria evoluzionistica darwiniana. Gli argomenti della teoria dell'evoluzione
richiedono di essere nuovamente discussi nella misura in cui vanno a rappresentare il fondamento
scientifico del progetto di legge spagnolo.

Inoltre è preferibile parlare di teorie dell'evoluzione anziché di teoria: mettere l'accento sulla
pluralità delle teorie suggerisce la possibile rimessa in discussione di un mondo abbandonato al
caso della Selezione Naturale. L'unicità dell'uomo solleva allora una questione di senso nel
momento in cui subentra la fede in Dio, a meno che non si faccia riferimento soltanto al
patrimonio genetico degli esseri viventi.

Nell'esporre le proprie motivazioni, gli autori del disegno di Legge insistono dapprima sulla “affinità
genetica che abbiamo con i nostri parenti, ossia le grandi scimmie”. Si tratta in poche parole di
accertare se le grandi scimmie facciano parte dello stesso gruppo genetico dell'essere umano. A tal
proposito, i promotori della legge spagnola utilizzano un argomento di natura cognitiva per
legittimare l'ingresso delle grandi scimmie nella categoria giuridica della Persona.

Secondo loro, le grandi scimmie posseggono “una propria cultura e hanno la capacità di
trasmetterla ai loro discendenti, di comunicare tra loro, di utilizzare memoria a breve termine, di
entrare in empatia, di ingannare; di avere senso del tempo e consapevolezza della morte; di avere
la possibilità di instaurare rapporti amicali capaci di durare anche per tutto l'arco della loro vita”.

Da quasi trent'anni, ricerche di scienze neurologiche e primatologia vengono condotte per di


mostrare l'esistenza di una cultura propria delle scimmie. Tuttavia, nonostante i risultati
incontestabili, si è comunque ancora lontani dal poter dichiarare che le scimmie siano dei
"compagni culturali" dell'essere umano. E allora, come affrontare la questione dell'affinità tra il
patrimonio genetico dell'essere umano e quello della scimmia?

In primo luogo, dobbiamo ricordare che se Darwin è presentato come il padre della teoria
evoluzionistica, egli però utilizza raramente il termine stesso "evoluzione". E quando lo fa, è per
tornare ad un metodo utilizzato dai suoi predecessori per classificare gli esseri viventi. È anche in
nome della teoria dell'evoluzione che Darwin critica la classificazione proposta dal naturalista
Georges Cuvier (1769-1832), il quale poneva l'uomo in un ordine separato rispetto ai primati.

Darwin sostiene le tesi di Thomas H. Huxley (1825-1895), che invece promuove una discendenza
dell'uomo dalle scimmie: “Il Professor Huxley ha concluso che l'Uomo, in ogni parte della sua
struttura, differisce meno dalle scimmie superiori, di quanto queste non differiscano dai membri
inferiori dello stesso gruppo”. In questa prospettiva, sia gli esseri umani che le scimmie avrebbero
un'evoluzione comune, che si differenzierebbe soltanto a livello di stadio di sviluppo; in altri
termini, esisterebbe un antenato comune, rappresentato come il "capostipite" dei grandi primati

Questa metafora dell'albero avente un unico tronco, nel quale i rami rappresentano l'evoluzione
degli esseri viventi, è utilizzata comunemente per rappresentare la teoria evoluzionistica. Col
passare del tempo, gli individui di una specie subiscono una metamorfosi tale, da originare una
specie diversa rispetto alla precedente. Conosciamo lo scalpore che provocò Darwin quando
affermò che uomo e scimmia sarebbero derivati dagli stessi antenati.

Le "mutazioni" genetiche sarebbero quindi metodi vantaggiosi di cui nel tempo gli organismi si
sono avvalsi per prevalere sugli altri nella lotta per la sopravvivenza: ciò che Darwin chiama
selezione naturale o sopravvivenza del più adatto. Tuttavia, all'inizio degli anni '70, due
paleontologi, Stephen Jay Gould (1941-2002) e Niles Eldredge (1943-), hanno rimesso in
discussione la teoria della discendenza con mutazioni genetiche. La loro tesi è basata inizialmente
su una costatazione: è stato scoperto in uno strato geologico un gran numero di fossili molto simili
tra loro. È stato poi scoperto un altro strato di fossili anch'essi nuovamente simili tra loro.

Partendo da questa osservazione, S.J. Gould e N. Eldredge hanno avanzato l'idea che sia sempre
attraverso situazioni d'isolamento di un piccolo gruppo di esemplari che una nuova caratteristica
genetica può esser trasmessa e diffusa rapidamente all'interno di una popolazione. Questa teoria è
detta "teoria dell'equilibrio punteggiato" e implica la formazione di nuove specie, mettendo in
discussione l'esistenza di forme intermedie tra più specie differenti. Ma questa teoria non esclude
che l'uomo e la scimmia abbiano un antenato in comune.
Gould non ritenne mai superata la teoria darwiniana. Infatti, sia nella teoria dell'evoluzione che in
quella degli "equilibri punteggiati", l'uomo è collocato in una posizione di contingenza. Entrambe
iscrivono l'uomo in un regno che è privo di scopo: egli sarebbe una forma di vita tra le altre e
dunque un semplice fenomeno organico.

Che "la natura faccia dei salti” come ritiene Gould, o che proceda dalla selezione naturale come
sostiene Darwin, solo il caso ha un impatto significativo sul risultato del processo evolutivo. Da qui,
la grande lotteria della vita con tutti i limiti di cui abbiamo già parlato e che può esser descritta
dalle parole di Jacques Monod (1910-1976): "L'origine della vita stessa e la comparsa dell'uomo sul
nostro pianeta, non possono essere concepite se non come il risultato di una fantastica lotteria. La
vita avrebbe potuto non nascere mai e, in ogni caso, il cosmo insondabile che ci circonda sarebbe
sorto come per incanto"

Da questa "lotteria" sappiamo che la teoria dell'evoluzione postula l'esistenza di un antenato


comune all'uomo e alle grandi scimmie. I sostenitori del disegno di legge in Spagna si ispirano
evidentemente a questo postulato. Essi enfatizzano però questa ipotesi fino al punto di affermare
che l'uomo non solo discenderebbe dalle scimmie, ma sarebbe addirittura una scimmia.

Anche la teoria detta dell'East Side Story cerca di spiegare l'apparizione dell'uomo come risultato di
un adattamento fortuito delle grandi scimmie al loro ambiente. Secondo questa teoria, il crollo
della Rift Valley in Africa orientale avrebbe originato la savana, che avrebbe a sua volta creato
condizioni per avvantaggiare nella selezione naturale i primati portatori di mutazioni genetiche
orientate al bipedismo. Per i sostenitori dell'East Side Story, gli uomini sarebbero fuoriusciti per la
prima volta dalla foresta ai tempi di Lucy circa 3,2 milioni di anni fa.

La teoria dell'East Side Story rimane discutibile. In ogni caso, è difficile negare l'importanza degli
elementi biologici che l’uomo condivide con gli altri esseri viventi. Più semplicemente, è
importante mostrare che la teoria darwiniana dell'evoluzione resti opinabile: infatti, come
abbiamo già detto, esistono più teorie dell'evoluzione.

Inoltre, la teoria darwiniana sull'adattamento è stata criticata dai genetisti, negli anni '80 e '90 del
secolo scorso. Essi proponevano delle classificazioni basate su marcatori genetici e sulle modalità
evolutive. Questi studi hanno evidenziato una stretta relazione filogenetica tra uomini e scimmie.
Da una lettura di scoperte genetiche più recenti, possiamo affermare che il 99% dei 3 miliardi di
coppie di basi che formano la doppia elica del nostro DNA sono identiche i 97 geni a quelle degli
scimpanzé.

Gli autori di uno studio condotto presso la Wayne University di Detroit (USA) hanno proposto di
classificare il Pan troglodytes (scimpanzé) e il Pan paniscus (bonobo) nel genere Homo, di cui
l'Homo Sapiens sarebbe l'unico rappresentante ad oggi vivente. Tuttavia, una semplice obiezione
biologica può essere mossa a questa ricostruzione dei fatti: l'Homo Sapiens non può riprodursi né
con lo scimpanzé (Pan troglodytes) né con il bonobo (Pan paniscus). Sarebbe quindi difficile
accettare la proposta di classificare tutti nello stesso genere Homo.
La separazione definitiva tra Homo Sapiens e Pan troglodytes si basa quindi su tale impossibilità di
riproduzione. Tale argomento è stato utilizzato anche in paleontologia genetica per distinguere
l'uomo dalle grandi scimmie, distinzione che risalirebbe a circa 4,8 milioni anni fa. Pertanto,
l'argomento della somiglianza genetica (utilizzato dai membri del Great Ape Project), tra l'uomo e
la scimmia per giustificare eguale trattamento giuridico, risulta essere ben poco convincente.

Se proseguiamo il nostro ragionamento su un piano puramente biologico, possiamo inoltre


sottolineare che nell'arco di alcuni milioni di anni il cervello umano ha triplicato il suo volume
rispetto a quello della scimmia. Un'argomentazione fondata esclusivamente su fenomeni biologici
rimane estremamente fragile dal punto di vista empirico e la stessa proposta di trasformare le
grandi scimmie in "Compagni genetici dell'umanità" appare molto rischiosa da un punto di vista
teoretico.

Essa evidenzia una nuova tentazione eugenetica che potrebbe reintrodurre argomenti razziali o
razzisti. Nel negare che tra umani e ominidi vi sia un'identità genetica, denunciamo il trattamento
discriminatorio nei confronti di un Altro, identificato come Altro in ragione di una somiglianza
genetica del tutto relativa. Il criterio di somiglianza genetica potrebbe infatti essere utilizzato anche
per evidenziare le differenze genetiche tra le varie “razze” umane.

Sulla base della frequenza degli alleli riscontrata nei campioni di DNA analizzati, si potrebbe
proporre una genetica razziale degli esseri umani. Volendo tener conto delle dimensioni del
cervello si può poi insistere sul fatto che il cervello di un orientale sia in media più voluminoso di
quello di un occidentale? Vediamo allora chiaramente che è estremamente pericoloso
strumentalizzare i caratteri biologici per una causa politica.

Questo tentativo di includere le grandi scimmie nella categoria giuridica di persona porta il marchio
dello scientismo, laddove "si recluta la scienza al servizio di una concezione della politica (...). Una
volta arruolata, la scienza non può più essere sé stessa ". La questione della prossimità culturale tra
uomini e grandi scimmie è tra gli argomenti sostenuti dai fautori del progetto di legge spagnolo.

Questi fanno riferimento a ricerche che studiano il comportamento delle scimmie. L'insieme delle
doti intellettive che li caratterizzano dovrebbero convincerci che i primati siano nostri compagni a
livello mentale. Possiamo tuttavia chiederci se stiamo confondendo un comportamento con uno
stato d'animo. È vero che le capacità cognitive delle grandi scimmie sono troppo spesso
sottovalutate.

Possiamo prendere ad esempio Habermas: “Gli scimpanzé non sanno individuare due oggetti simili
tra loro né sanno utilizzarli. Gli uomini invece sanno farlo perché apprendono grazie alla
cooperazione e all'educazione”. Fino a poco tempo fa, come dimostrato dalla letteratura, lo
scimpanzé era considerato un possibile animale da compagnia. Nel romanzo di Edgar R. Burroughs,
Tarzan delle scimmie (1912), il protagonista vive in compagnia dei primati, ma la sua superiorità
sulle scimmie che lo hanno cresciuto è evidente in tutta la storia.

E nel romanzo di Pierre Boulle, Il pianeta delle scimmie (1963), i grandi primati sono simili agli
esseri umani solo a partire dal momento in cui essi divengono pienamente bipedi, dotati di
capacità linguistiche articolate, tanto da essere in grado di costituire un'autonoma società. In
questa società immaginaria di scimmie, ogni specie ha il suo settore di specializzazione, in una
finzione che ha caratteristiche antropomorfe.

L'etnologo Desmond Morris ha fatto di uno scimpanzé chiamato "Congo", la stella di uno show
televisivo sugli animali e si è convinto, mentre lo guardava intento a dipingere, che le scimmie
abbiano una sensibilità artistica.

Negli ultimi trenta anni, alcuni ricercatori hanno cercato di rimettere in discussione l'unicità
cognitiva dell'uomo. Secondo loro, anche le grandi scimmie avrebbero la capacità di dividere in
componenti distinte gli oggetti che le circondano e di assegnare a ciascuno dei nomi o simboli di
riconoscimento. Così, le grandi scimmie vedrebbero il mondo come un continuum e sarebbero in
grado di utilizzare i simboli mentali relativi ad esso.

L'etologia applicata al comportamento delle grandi scimmie ha conosciuto un certo successo, al


punto da essere divenuta una disciplina accademica detta "primatologia", definita anche come lo
studio dei primati non umani. Dal 1978, sulla base di un articolo rimasto celebre di David Premack
e Guy Woodruff, siamo arrivati ad interrogarci sulla possibilità che gli scimpanzé abbiano o meno
una teoria dello spirito che possa funzionare in modo non dissimile da quella degli uomini.

Ma cosa dobbiamo intendere per "Spirito"? Il neurologo Jean-Pierre Changeux tenta una
riconciliazione tra il pensiero di Kant e le sue scoperte in neurologia. Lo studioso propone una
schematizzazione della conoscenza della Critica della Ragion Pura di cui egli crede di aver trovato
conferma in quel processo conoscitivo, che egli ha potuto analizzare nella funzione neurologica del
cervello umano.

Changeux sostiene che, secondo Kant, lo spirito si costituirebbe attraverso un processo in tre gradi,
distinguendo:

1) la sensibilità attraverso cui si percepiscono le sensazioni direttamente dagli organi sensoriali

2) la comprensione che procede alla sintesi delle impressioni sensoriali, per giungere alla

3) ragione generatrice di principi.

J.-P. Changeux conclude con gli altri punti della sua ana- lisi cognitiva:

“1) l'elaborazione della rappresentazione a partire dagli oggetti del mondo esterno;

2) la loro astrazione in idee;

3) l'organizzazione di tali concetti in un'astrazione di ordine più elevato”

In questa prospettiva, il pensiero dell'uomo è soltanto il risultato di un'attività neuronale. Pertanto,


lo spirito non è caratteristica propria dell'uomo, in quanto non esiste. Ma allora, come può il
pensiero in se stesso diventare oggetto di studio della scienza? Può essere spiegato attraverso le
neuroscienze? J.-P. Changeux non è il solo ad affermarlo, perché su questo punto trova concordi il
padre della scoperta del DNA, Francis Crick, e il filosofo Daniel C. Dennett.

Lo spostamento semantico dal termine conoscenza a quello di cognizione non è neutrale e si


ritiene che integri il concetto di funzione: il funzionalismo definisce il pensiero come elaborazione
delle informazioni che risulta da una elaborazione di simboli, secondo regole logiche. Notiamo che,
in questa prospettiva, il pensiero è non solo un prodotto biologico, ma implica anche un processo
di intellegibilità.

Nel processo cognitivo di rappresentazione della realtà, non si può ignorare la tesi fondamentale
della sociobiologia, per cui dietro l'attività delle nostre sinapsi, si trova sempre quella dei nostri
geni. È ormai da diversi anni che questa discussione vede contrapposti gli studiosi R. Dawkins e D.
Dennett, con quest'ultimo propenso a ritenere che il funzionamento della mente sia assimilabile al
software di un computer.

Il pensiero funzionalista è stato fortemente criticato da John Searle e definito come privo di senso.
Si può trovare troppo riduttiva la tesi che riconosce una manifestazione del pensiero nella
elaborazione programmata di simboli. Ma i primatologi non hanno mai smesso di indagare sulle
capacità cognitive delle grandi scimmie. I primatologi attribuiscono al termine “cultura" una
definizione estremamente ampia, intendendola come "l'insieme di Tutte le conoscenze e delle
competenze che un individuo acquisisce dal momento della nascita" per porre sullo stesso piano le
abilità e le capacità intellettive delle scimmie e quelle degli uomini.

Tra tutti gli argomenti proposti per dimostrare le significative capacità cognitive delle scimmie, il
più significativo è senza dubbio riguardante la relativa padronanza del linguaggio dei sordomuti.
L'esempio più emblematico è quello di una femmina di scimpanzé chiamata Washoe, deceduta nel
2007, che era in grado di utilizzare circa 250 parole secondo il modello ASL (American Sign
Language). Tuttavia la sua capacità di usare tale linguaggio era molto limitata. Essa non rifletteva
alcuna capacità d'astrazione, e nemmeno alcuna interazione o formulazione.

Le domande che la scimmia poneva erano concrete, ma al contempo sommarie, senza una
costruzione ben ordinata. Più di recente, un gruppo di primatologi di Atlanta ha pubblicato uno
studio sull'uso della "comunicazione" da parte di un bonobo chiamato Kanzi. Siamo quindi tentati
di chiederci se le scimmie non abbiano un linguaggio strutturato, dal momento che sembrano in
grado di imparare le basi di una forma umana di linguaggio umano. Generalmente, i primatologi
sostengono che questo "linguaggio scimmiesco" esiste, ma non siamo ancora in grado di decifrarlo.

Si tratta in questo caso di comunicazione o di una vera e propria lingua? Di nuovo, tutto dipende
dal significato che si vuol dare alle parole e la definizione risulta talmente ampia da divenire
problematica. Un'analoga incertezza semantica ha portato anche alcuni primatologi ad evidenziare
un sentimento di altruismo nelle scimmie. La collaborazione che un esemplare riesce a dare ai suoi
simili, segue una legge fondamentale propria dell'evoluzione: quella della sopravvivenza del
gruppo.
Auguste Comte poteva già meravigliarsi del fatto che "l'animale, offre molto spesso esempi
ammirabili di sacrificio ". Tuttavia, nel leggere Darwin, vediamo che l'uomo ha "un amore
disinteressato per tutti gli esseri viventi, che è la qualità più nobile dell'essere umano". Così,
l'uomo ha saputo andare contro la legge della Selezione per aiutare i soggetti umani più
vulnerabili.

Questa svolta evolutiva dell’Uomo (chiamata da Patrick Tort “effetto reversibile dell’evoluzione”)
caratterizza l'impresa morale e istituzionale dell'altruismo: così, invece di eliminare i soggetti meno
adatti a sopravvivere, sopraggiunge un dovere di assistenza nei loro confronti. Dal punto di vista di
Darwin, l'altruismo degli uomini non sarebbe una questua di aiuti reciproci per favorire la
sopravvivenza dell'individuo o del gruppo.

L'altruismo umano è unico, almeno in quanto appare attraverso la civiltà che lo istituzionalizza.
Secondo il Primatologo Franz de Waal, il punto consiste nel conoscere "ciò che è differente nel
modo in cui ci comportiamo e che fa di noi degli esseri morali". Una risposta può essere trovata
nella problematica dell'immagine di sé, quindi della coscienza di sé

Diversi studi hanno cercato di analizzare il riconoscimento del proprio corpo, cioè di quell'Io che
uno scimpanzé potrebbe avere guardandosi allo specchio. Ma non è facile dare una definizione del
contenuto di questa rappresentazione. Si può rilevare un cambiamento del comportamento della
scimmia di fronte alla propria immagine, l'aumentata ripetizione di uno stesso gesto.

Questa forma di rappresentazione permette di stabilire una correlazione tra stati interni ed esterni,
ma ciò non significa che sia presente una vera e propria capacità di "pensare", né tantomeno che si
tratti di una presa di coscienza di sé. Questo tipo di correlazione riguarda soltanto lo stato
sensoriale dei neuroni che adattano il comportamento al mondo esterno. Lo stato sensoriale è
presente sia negli esseri umani, che nei cani o nei topi che imparano ad interiorizzare un pericolo
proveniente dal mondo esterno.

Si può dunque parlare di sofisticazione di uno stato mentale tale da permettere loro di avere
un'immagine di ne (quasi) umana? Ancora una volta, la risposta è negativa. A questo proposito, si
può anzitutto far riferimento ad uno studio scientifico condotto dal neurologo Todd Preuss" a
dimostrare che il cervello umano (nella sua zona primaria della corteccia cerebrale, che riguarda il
processo di visualizzazione) abbia un’architettura neurale che non si trova in alcuna scimmia.

In una prospettiva filosofica, il riflesso di se in uno specchio è un simbolo della conoscenza


dell'essere umano e questo simbolo dei simboli ha una dimensione inaccessibile alle grandi
scimmie. Lo specchio aiuta l'uomo a capire il suo essere e il suo ambiente. Uno dei primi utilizzi
dello specchio era quello di riflettere le stelle per consentire di acquisire delle conoscenze sul cielo.

Il riflesso delle cose apre le porte della conoscenza, ma questa è una conoscenza indiretta e quindi
soggetta ad errore. Come per le ombre del Mito della Caverna di Socrate, i riflessi dello specchio
non rappresentano delle verità. Il riflesso è una rappresentazione rovesciata della verità è ciò che
appare non coincide la realtà. Lo specchio offre il suo messaggio in un’immagine invertita è l'uomo
deve perciò diffidare dal simulacro del suo riflesso.
Lo specchio ci mostra che il negativo vive a ridosso del positivo e che la manifestazione diventa il
riflesso inverso del principio. Questa idea del doppio di sé, data dalla nostra immagine riflessa nello
specchio, possiede anche un valore euristico. Tale tentazione è ricorrente nella storia: Platone
trovava interesse nel constatare da un lato la costituzione fisica dell'uomo e, dall'altro, la ricerca di
significato che egli dà alla sua vita.

Riprendendo il discorso sulla proposta di legge spagnola, che intende equiparare lo status giuridico
delle grandi scimmie a quello dell'essere umano, possiamo constatare i mezzi impropri con i quali
si vuole affermare una certa interpretazione della teoria dell'evoluzione. Anzi, è di follia giuridica
che si dovrebbe in realtà parlare, di un ritorno al folle gesto dell'Imperatore Calligola

In larga misura, le sfide della scienza restano ancora grandi interrogativi dell'uomo
contemporaneo. Oggi, l'idea che la scienza possa portare al miglioramento del benessere materiale
dell'umanità è ben lungi dall'essere un'idea dominante nell'opinione pubblica. La scienza non è più
percepita come fonte inesauribile di benessere. Si cerca al contrario di dominarla, al fine di
preservare l'uomo dai suoi eccessi.

Così, l'opinione pubblica diffida dalla manipolazione genetica ed è sempre più preoccupata per la
crescente distruzione ambientale. Ancora una volta, questo "dubbio" sui benefici della scienza non
deve indurci a respingerla. Dobbiamo anzitutto raggiungere una sana padronanza della scienza. Ad
esempio, sarebbe opportuno guidare le scelte individuali per ogni tipo di "potenziamento"
biotecnologico.

Ma possiamo pensare che qualsiasi progresso delle nostre capacità motorie e sensoriali sia un
semplice “diritto di disporre del proprio corpo per ragioni personali” assimilabile alla chirurgia
estetica? Il divenire dell'umanità entra in gioco, con il rischio di un appiattimento dell'uomo sulla
sua condizione animale, minacciato inoltre dal fascino esercitato delle scoperte biotecnologiche. In
entrambi i casi, passa sotto silenzio tutta la ricchezza ontologica dell'uomo.
CAPITOLO 2

LA FABBRICA BIOTECNOLOGICA DEL DIVENIRE UMANO

Nel marzo del 2004, nell’Università inglese di Oxford, si è costituita la James Martin 21st Century
School, la cui missione è quella di "promuovere un pensiero innovativo che dovrà affrontare le
nuove sfide del mondo contemporaneo". L'attenzione è focalizzata soprattutto sull'incalzante
progresso delle biotecnologie e sulle ripercussioni che queste possono avere sulla natura, in
particolar modo sulla specie umana. Scopo di questo centro di ricerca è quello di studiare tutti i
pericoli che potrebbero minacciare il futuro del genere umano.

A tal proposito, la James Martin 21st Century School ha creato un Istituto sul futuro dell'umanità il
cui direttore è il filosofo Nick Bostrom. Il primo interesse della ricerca è quello di sapere come
“utilizziamo scienza, medicina e tecnologia, al fine di migliorare le funzioni umane”. In sintesi,
l'obiettivo di Bostrom è quello di ricreare (artificialmente) la natura umana con l'aiuto delle
biotecnologie.

Questa fabbrica di esseri umani di nuovo tipo darebbe presto inizio all'era del transumanesimo, il
quale è reso possibile grazie al continuo progresso delle biotecnologie. Le biotecnologie
dovrebbero permettere l'avvento di una transumanità. La transumanità sarebbe il prodotto di
un'umanità potenziata grazie a modifiche bio-tecnologiche applicate al corpo umano. In altre
parole, si tratterebbe di creare veri e propri uomini-robot. Il primo impatto con un progetto del
genere può sembrare surreale, fantascientifico.

Tuttavia, il fatto che una prestigiosa università come quella di Oxford possa istituire un centro di
ricerca sul transumanismo lascia perplessi e merita la nostra attenzione, così come il fatto che tale
ricerca riceva persino dei finanziamenti dalla Commissione Europea. Inoltre, anche il M.I.T. realizza
ricerche sul transumanism.

L'idea di pervenire (nel breve periodo) a questa simbiosi tra uomo e macchina, è sostenuta anche
da uno dei pionieri dell'intelligenza artificiale, lo scienziato Marvin Minsky. Senza sapere se
l'avvento del transumanesimo sia prossimo da un punto di vista scientifico, già adesso possiamo
discutere le teorie etico-giuridiche sostenute da questi tecno-profeti che vogliono rivoluzionare il
divenire naturale del corpo umano.
2.1 Nanotecnologie e modifiche del divenire umano

Da un punto di vista scientifico, i bio-profeti auspicano che le nuove scoperte biotecnologiche


consentano loro, a breve termine, di fabbricare un uomo nuovo. Ai loro occhi, le nanotecnogie
dovrà essere il principale vettore di progresso in questo ambito.

La nanoscienza e le sue applicazioni, le nanotecnologie, costituiscono un cambiamento


sorprendente e al tempo stesso inquietante nel campo della conoscenza. Le nanoscienze sono
raggruppate in virtù della loro appartenenza a uno stesso ordine di grandezza spaziale: il
nanometro. La materia, a partire dai 50 nm, segue le leggi della fisica quantistica in cui regnano
l'incertezza e ignoto.

Ma va detto che la stragrande maggioranza delle applicazioni delle nanotecnologie segue le leggi
della fisica newtoniana e si riferiscono a dimensioni superiori a 50 nm. La nanotecnologia è
considerata la terza rivoluzione tecnologica: la prima è stata su scala di un millesimo di metro (con
l'invenzione del motore nel XIX secolo); la seconda è stata su scala di un milionesimo di metro (nel
XX secolo, con l'invenzione del computer).

Indubbiamente, la nanotecnologia è un settore emergente, estremamente innovativo e capace di


offrire numerose opportunità in ambiti molto diversi, quali l'elettronica, il settore tessile e infine la
medicina. La nascita del termine Nanotecnologia e il suo campo di applicazione sono piuttosto
recenti: il termine è stato coniato nel 1974 dallo scienziato giapponese Norio Taniguchi.

L'osservazione su scala nanometrica per l'uomo è stata resa possibile a partire dal 1981, con
l'invenzione da parte di Gerd Binnig e Heinrich Rohrer del microscopio ad alta risoluzione detto "a
tunnel", che permise di vedere per la prima volta gli atomi. Nel 1989, il fisico Donald M. Eigler è
stato il primo a manipolare gli atomi. Tale manipolazione di oggetti su scala nanometrica è quindi
una possibilità abbastanza recente e i suoi effetti sono ancora ad uno stadio sperimentale.
Attualmente si cerca di inserire dei nano-materiali in prodotti già esistenti.

In ambito medico, si spera che la nanotecnologia possa migliorare le terapie e consentire la


creazione di nuovi tipi di trapianti che possano ridurre disabilità congenite o acquisite. È proprio
questo aspetto che i bio-profeti studiano con grande attenzione. La nanotecnologia può entrare in
sinergia con l'ingegneria genetica per ideare e realizzare trapianti d'organo che assicurino una
elevata compatibilità e risultati migliori rispetto agli attuali.

Una convergenza scientifica tra genetica e nanotecnologia consentirebbe quindi di praticare


trapianti ibridi che possano non solo curare, ma persino potenziare le capacità funzionali del corpo
umano. In conclusione, queste biotecnologie potrebbero ripristinare e perfino accrescere le
capacità di funzione motoria. Sarà proprio questa convergenza tra nanoscienza e genetica a
segnare il XXI secolo.

Queste due scienze stanno ancora sperimentando le prime applicazioni biotecnologiche, ma


l'esempio della rapida applicazione delle conoscenze genetiche dimostra la rapidità della loro
diffusione.
Anche la genetica infatti è da considerarsi una nuova scienza: la struttura del DNA fu scoperta nel
1953 da James Watson e Francis Crick. La scoperta della possibilità di suddividere il DNA risale al
1970, ma da allora la manipolazione genetica di organismi diversi non ha cessato di crescere. La
convergenza tra applicazioni della genetica e nanotecnologie, in realtà, è già esistente in medicina:
si può effettuare una a diagnosi sul DNA utilizzando un chip capace di trattare volumi di fluidi
estremamente piccoli, o immettendo capsule all'interno del corpo umano.

Tuttavia, è soprattutto nell'ambito terapeutico dei trapianti che riscontriamo una convergenza tra
le nanotecnologie e l'ingegneria genetica, come auspicato dai bio-profeti. Nel 2002, il professor
Kevin Warwick, un pioniere dei nano-trapianti, si è fatto impiantare dei nano-impianti collegati ad
un computer, che gli consentivano di muovere un braccio artificiale. Inoltre, nell'ingegneria dei
tessuti, sono stati creati materiali ibridi composti dalla combinazione di materiali nano-strutturati e
cellule viventi; che evitano il rischio di rigetto nel caso di organi ibridi, oppure garantiscono una
migliore tenuta meccanica con l'osso.

Sono attualmente in fase di sperimentazione vari progetti la creazione di neuro-protesi. Da una


decina di anni, vengono condotte ricerche per stabilire una connessione tra un dispositivo
elettronico e le cellule viventi al fine di creare dei neurochips. Lo scopo originario era quello di
destinarli a superare su scala nanometrica i limiti funzionali di qualsiasi manufatto meccanico. Si è
quindi pensato di impiantarli sul vivente per accrescerne le capacità. Il primo neurochip fu creato
nel 1997, da Jerome Pine e Michael Maher.

Dal 2003, un gruppo guidato da Theodore Berger lavora su un neurochip progettato per diventare
la protesi dell'ippocampo. La scelta è caduta proprio sull'ippocampo perché è il luogo in cui si
conserva la memoria a lungo termine. Dal 2006, la neuro-protesi è diventata una realtà: infatti, il
13 luglio 2006, la rivista Nature ha pubblicato la fotografia di Matthew Nagle, al quale sono stati
impiantati degli ibridi nano-neuronali collegati ad un computer.

L'esperimento effettuato su questo giovane, si inserisce nel quadro di una serie di ricerche che
hanno in comune il fine di coordinare le potenzialità del corpo umano con l'utilizzo del computer.
Queste ricerche si concentrano su ciò che oggi chiamiamo BCI (Brain Computer Interfaces ). Negli
Stati Uniti queste ricerche sono svolte principalmente da un'agenzia militare chiamata DARPA.

Queste ricerche sono state precedute da numerosi test sugli animali. Per citarne solo alcuni,
ricordiamo il caso delle scimmie che si nutrono con un braccio meccanico comandato da un
nanochip. Studi meno invasivi sono quelli effettuati servendosi di un casco che raccoglie le onde
cerebrali della scimmia, per poi trasmetterle al computer.

L'azienda leader in questo mercato è la Cyberkinetics, la quale offre una vasta gamma di trapianti
ibridi nanoneuraliche consentono una comunicazione diretta. Sullo stesso Mattew Nagle è stata
utilizzata una tecnica Brain Gate della Cyberkynetics. La creazione di neurochips e di impianti ibridi
nano-neuronali non soddisfa soltanto esigenze in campo medico, ma anche in campo ludico.

Nella misura in cui questi trapianti nano-tecnologici sono destinati a curare le persone malate,
vengono chiaramente in rilievo i principi generali della bioetica. Tuttavia, se lo scopo di tali
applicazioni non fosse più la terapia, ma il miglioramento delle capacità funzionali del corpo
umano, le dimensioni del problema sarebbero più ampie. In una certa misura, tecniche mediche
migliorative esistono già. Il salto qualitativo che i nano-trapianti ibridi sono chiamati a realizzare
costituisce però un'evoluzione senza precedenti nella storia.

Non si tratta in questo caso di una tecnica migliorativa delle protesi, bensì di una tecnica di
potenziamento delle capacità umane. Fino a questo momento, l'idea di mettere in "connessione"
la materia organica con la materia inorganica ha rappresentato soltanto un vecchio ritornello per
film fantascientifici. La crescita delle capacità dei computer ha aggiunto un elemento a questa
convergenza: l'intelligenza artificiale, unita alle nanotecnologie e alle modificazioni genetiche, è il
terzo pilastro della possibile trasformazione dell'essere umano.

A tal proposito, i bio-profeti, per sottolineare l'esponenziale crescita delle conoscenze


informatiche, fanno riferimento alla celebre legge di Gordon Moore, secondo cui le prestazioni dei
processori raddoppierebbero ogni diciotto mesi. In sintesi, un tale continuo potenziamento,
potrebbe conferire al computer un vantaggio intellettuale sull'essere umano, a meno che l'uomo
non proceda all'impianto di micro chip nano-genetici che gli consentano di sfruttare la potenza
dell'intelligenza artificiale.

Ricorrendo alla legge di Moore, i bio-profeti vogliono metterci di fronte all'evidenza che
l'intelligenza umana sarà presto superata da quella artificiale. Parliamo di legge, nel senso che essa
fonda un paradigma basato su un'osservazione. In particolare, la legge di Moore è stata ripresa
dall'esperto in tema intelligenza artificiale Hans Moravec, secondo cui: "prima della metà di questo
secolo, una quarta generazione di robot con capacità mentali umane sarà in grado di compiere
astrazioni e riflessioni generali".

Tale profezia di Moravec rafforza ulteriormente la previsione di Moore, tenendo inoltre presente
che il forte aumento della potenza dei computer è effettivamente raddoppiato per tutto il periodo
degli anni '90. Tenendo questo ritmo, si prospettava che nel 2010 i computer avrebbero presto
raggiunto la capacità del cervello di una lucertola, e nel 2040 addirittura quella del cervello umano.

Tale previsione era condivisa da Raymond Kurzeil il quale prevedeva il superamento


dell'intelligenza umana da parte di quella artificiale. Si doveva quindi fornire una nuova peculiarità
tecnica all'umanità, che allora sarebbe divenuta transumanità, la quale avrebbe prevalso
nell'ambito delle conoscenze sull'umanità stessa. L'avvento di questa intelligenza artificiale che
supererà le capacità mentali degli esseri umani dovrà soprattutto consentire una simbiosi tra uomo
e macchina.

Accanto a questa constatazione scientifica, i bio-profeti sostengono un'altra affermazione,


anch'essa qualificata come legge: la Legge di Dennis Gabor. Tale Legge è di ordine sociale e
sancisce che "tutto ciò che si potrà tecnicamente fare si farà" e "tutte le combinazioni possibili
saranno tentate". Il sistema delle tecniche è un insieme in cui tutte le risorse sono prima poi messe
in comunicazione tra loro. In altri termini, “la storia della tecnologia ci appare non come un
accumulo permanente, quanto piuttosto come una ristrutturazione costante".
In realtà, infatti, la Legge di Gabor ha una portata del tutto immorale: tutto ciò che è tecnicamente
realizzabile sarà fatto, costi quel che costi sul piano morale. Ciononostante, i bio-profeti non
trascurano affatto la questione "morale", poiché difendono l'idea "morale" di trarre profitto dalle
innovazioni biotecnologiche per migliorare l'essere umano. In realtà, essi lottano strenuamente per
confutare tutte le obiezioni morali che ostacolino il loro proposito.

Anche Bostrom, assieme ad altri, non ha dubbi sul fatto che nulla fermerà l'incalzante sviluppo
della biotecnologia GNR e l'avvento del transumanesimo. Soltanto un limite economico potrà
rallentarne la diffusione. Agli occhi dei difensori della trans-umanità, l'utilizzo delle biotecnologie
GNR rappresenta un vantaggio non solo a livello economico, ma anche morale.

2.2. L’etica del transumanesimo

Nel 2001, Bostrom ha redatto un codice etico sui principi riguardanti la creazione di intelligenze
artificiali ,nel quale afferma il diritto a divenire uomini-robot, che non sarebbe altro che una nuova
tipologia di diritto alla salute, in quanto migliorativo della nostra (fallibile) natura umana. Egli
aggiunge che, una volta raggiunta la crea- zione del transumano, dovremo evitare discriminazioni
tra l'essere umano e il soggetto transumano, per evitare di ripetere discriminazioni analoghe a
quelle razziali.

L'analogia è al tempo stesso audace e conveniente: ricordiamo che la stessa correlazione viene
utilizzata dai sostenitori del Great Ape Project al fine di giustificare una parità giuridica tra uomini e
scimmie. Bostrom esalta l'applicazione delle biotecnologie GNR perché in grado di migliorare le
nostre possibilità "di mantenersi in salute, di essere intelligenti, avere talento, di mantenere il
controllo e molti altri benefici che aprono più prospettive di quelle che chiudono".

Il pensiero del transumanesimo è profondamente caratterizzato dal desiderio di liberare la mente


dal fardello del corpo umano; è qui evidente il recupero di grandi tematiche della filosofia di
Platone. Infatti Bostrom dichiara che: «I nostri limiti cognitivi tendono a rinchiuderci all'interno
della Caverna di Platone». Platone scrive nel Fedone che il corpo è una prigione per l'anima:
«L'anima è incatenata, strettamente legata al corpo, e costringe la persona a guardare la realtà
filtrata dai suoi occhi ». Una tale condanna del corpo comporta il disprezzo per ciò che appartiene
al mondo sensibile; al contrario, Bostrom punta proprio al miglioramento delle nostre capacità
sensibili.

Even- tualmente, possiamo pensare che l'accusa nei confronti del corpo, del suo peso e della sua
fragilità che limita le nostre azioni, sia simile a quella contenuta nel Cratilo di Platone, in cui questi
gioca con l'etimologia del termine "corpo": sệma starebbe a si- gnificare "tomba" e al contempo
"segno". Nello stesso Cratilo, gli Orfici concepiscono il corpo come "qualcosa in grado di preser-
vare" l'anima per l'espiazione delle sue colpe.
Platone conclude sostenendo che il corpo sia un fardello per l'anima, in quanto sarebbe proprio
questo a farle compiere del male. L’unico rimedio possibile sarebbe la filosofia. Bostrom ritiene che
le biotecnologie GNR possano migliorare le nostre capacità cognitive, ma cade nell'errore di
confondere la mente con l'elaborazione delle informazioni. Da un punto di vista strettamente
materiale, si può prospettare un accostamento tra la concezione del corpo secondo l'accezione
platonica e quella di Bostrom.

In realtà, questa visione della filosofia di Platone risulta piuttosto riduttiva poiché, per il filosofo, la
cura del non è fine a sé stessa, ma finalizzata alla cura dell'anima. Platone ritiene eccessivo contare
soltanto sullo sviluppo della forza fisica. Bostrom, considera il transumanesimo come una tappa. Il
potenziamento dell'uomo lo dovrebbe definitivamente liberare dal proprio corpo, per giungere
finalmente al rango di post-umano: il nuovo demiurgo vuol consacrare la li berazione dalle tare del
corpo umano, trasferendo su computer tutto ciò che costituisce la sua mente ...

Il messaggio di Bostrom rappresenta una prospettiva dal carattere messianico, che conferisce alla
biotecnologia GNR un'impronta sacra, tale da renderci artefici dell'uomo del futuro. Lo stesso
Bostrom non nasconde la sua preoccupazione per la sorte di questo suo progetto di
transumanesimo. Egli si scaglia contro coloro (i bio-conservatori) che criticano tale possibilità di
creare uomini-robot transumani, i cyborg.

Negli Stati Uniti d'America il tema del transumanesimo è al centro di critiche, soprattutto da parte
di studiosi che mettono in dubbio le capacità delle biotecnologie GNR di creare effettivamente dei
cyborg. Questi autori temono che l'avvento del transumanesimo possa concretizzarsi. Il più
radicale e il più criminale tra questi scienziati, è lo scienziato Théodore Kaczynski, il cui percorso
accademico è sorprendente. Dominique Lecourt lo descrive come "ex alunno di Harvard, brillante
matematico "

Questo "genio" passò tuttavia dalla parte della violenza, divenendo un terrorista (i media lo
chiamarono Unabomber) che combatteva contro lo sviluppo delle biotecnologie che avrebbero
potuto ridurre in schiavitù l’intera umanità. T. Kaczynski condivideva le conclusioni della Legge di
Moore, ma ne traeva riflessioni opposte a quelle di Bostrom, Kurzeil o Moravec. Ai suoi occhi,
l'inevitabile sviluppo delle applicazioni biotecnologiche non avrebbe contribuito al miglioramento,
bensì alla distruzione del genere umano.

A suo avviso, sarebbe un'illusione pensare che l’umanità possa salvarsi con l'aiuto di leggi, codici
etici o manifestazioni pacifiche, per disciplinare l'uso delle biotecnologie. Per Kaczynski questo tipo
di atteggiamento condurrebbe alla dominazione delle macchine (e quindi anche dei cyborg tanto
cari a N. Bostrom ) sugli esseri umani. Egli giunge alla conclusione secondo cui il (bio)terrorismo
sarebbe l'unico modo per proteggere la nostra libertà umana.

Egli si fa sostenitore dell'anarchismo individualista che esalta l'azione violenta e privilegia il ritorno
ad una vita quasi primitiva. Questa idea secondo cui l'uomo moderno sarebbe corrotto, per cui gli
sarebbe interdetta una vita integra, evoca il pensiero di Nietzche, per il quale "bisogna vivere in
accordo con la vita".
Kaczynski non menziona mai Nietzsche espressamente nel suo Manifesto, ma la sua dichiarata
appartenenza all'anarchismo che rifiuta il potere statale ed il suo esser cultore della violenza lo
riconduce a questo filone di pensiero, che esalta il corpo e critica la pretesa della scienza di
controllare il corpo per liberare lo spirito. Esistono altri scienziati americani che, pur non
condividen- do il bio-terrorismo, condividono le preoccupazioni di Kaczynski.

Hugo de Garis mostra una certa inquietudine nei confronti del progressivo miglioramento delle
capacità dei computer. La sua opera verte sui rischi per l'umanità derivanti dalle nanotecnologie.
Tali timori sono successivamente ripresi da Bill Joy e da Edward Fredkin, i quali condividono ciò
che Lecourt definisce bio-catastrofismo, cioè l'idea che le biotecnologiche GNR possano giungere
all'annientamento dell'umanità. Secondo Lecourt, occorre interrogarsi sul vero motivo del
malessere che possiamo avvertire nei confronti delle biotecnologie.

La risposta a questo malessere può essere offerta dalla filosofia che possa farci accettare il
progresso biotecnologico senza consentirgli di snaturare la nostra corporeità. Abbiamo già visto
che i bio-profeti sono soliti rifarsi alla filosofia di Platone per fondare il loro disprezzo per il corpo
umano; al contrario, i bio-catastrofisti si ispirano alla filosofia di Nietzsche, che invece esalta il
corpo umano.

Il punto di equilibrio potrebbe risiedere nell'evitare il contagio della tecno fobia, senza cioè lasciare
che le tecnologie GNR "snaturino" radicalmente il corpo umano. La dignità dell'uomo si confonde
con la sua corporeità ed esiste un forte legame tra emozione e ragione. Il transumanesimo ne è
consapevole e si impone di migliorare la prima, per poi trasformare la seconda. Rifiutare la
modificazione irreversibile del nostro corpo, ad opera delle biotecnologie GNR, è un modo per
difenderne l'intangibilità.

Questa tematica rappresenta il nocciolo delle riflessioni di Fukuyama, il quale però non condanna
sistematicamente le biotecnologie. Il suo timore riguarda piuttosto la possibilità di trasformare il
corpo umano in un mostro bio-tecnologico. La caratteristica del mostro è quella di discostarsi dalla
forma ordinaria del corpo umano. Il Transumanesimo vorrebbe produrre dei mostri, trasformando
volontariamente il corpo umano in qualcos'altro, un'identità tutta nuova, che trasfigurerebbe
radicalmente la dimensione intrinseca della nostra cor- poreità.

Proprio come accade con le chimere, il transumano è posto al limite dell'umano. Il corpo umano si
trova direttamente coinvolto nella costituzione del nostro Essere umano. Bostrom intende invece
fare del nostro corpo un contenuto biotecnologico. La minaccia che incombe a causa del
transumanismo sul divenire del corpo umano riguarda la natura del nostro spirito. I bio-profeti non
vedono, né sono in grado di vedere, tutte le "riserve relative alla carne e alle sue sensazioni, che
frenano l'infinita avidità dello spirito”.

I bio-profeti pensano di superare la fragilità dei nostri corpi ricorrendo alle biotecnologie. La
fallibilità è però un concetto che indica un tempo e un limite alle nostre aspirazioni. La vulnerabilità
umana è quindi un divenire indispensabile per costituire la nostra identità.
CAPITOLO 3

LA FRAGILITÀ DEL DIVENIRE UMANO


La precarietà dell'esistenza è un fenomeno preoccupante, soprattutto nei momenti della vita in cui
essa si rende più evidente. L'investimento sulla nostra esistenza è finalizzato ad utilizzare al meglio
ogni singolo istante del nostro vivere. La nostra aspettativa di vita è oggi un punto fermo, l'unica
misura attendibile del tempo. Ma, oltre a questa, che è nelle società secolarizzate l'accezione
dominante, si tende ad affermare la negazione della convinzione cristiana per cui esisterebbe una
vita oltre la morte.

La vita umana oggi è comunemente percepita come un lungo susseguirsi di fasi esistenziali, in cui
la morte biologica rappresenta lo stadio ultimo; la vita è un succedersi continuo di malattie, ma
essa stessa non è una malattia che la morte può guarire. Nel pensiero contemporaneo la morte
non è in grado di portare guarigione, ma solo annientamento. Le malattie devono pertanto essere
curate e soprattutto guarite, per continuare a vivere più a lungo possibile. L'unico oggetto del
desiderio umano è oggi la durata dell'esistenza su questa terra.

La finitudine dell'esistenza comporta un bisogno impellente di proteggere la vulnerabilità che


l'uomo vive durante la sua esistenza. Tra i tempi dell'esistenza troviamo l'infanzia, caratterizzata da
un intreccio di fragilità sia fisica che giuridica. Ma giunge anche il momento in cui cerchiamo di
definire la nostra identità, nel quale alla domanda "chi sono io?", possiamo trovare delle risposte
nel patrimonio genetico.

Bisognerà poi tenere conto delle preoccupazioni per il divenire delle generazioni future e delle
modalità con cui intendiamo proteggere il nostro ambiente. Tante sono le domande che
condizionano la nostra esistenza e molteplici gli interrogativi sulla vulnerabilità umana, che nel
diritto trovano un inizio di risposta. D'altronde, la caratteristica più innovativa nella storia del
diritto del secolo scorso è l'ampliamento della protezione giuridica nei confronti dei soggetti
deboli. Il quadro normativo riflette i dubbi esistenziali della società.
3.1. La fragilità del minore in ambito medico

L’infanzia è la prima fase dell'esistenza umana; è caratterizzata dalla fragilità e può essere oggetto
di attacchi, per cui è salvaguardata da molte tutele giuridiche. Un esempio di queste tutele è l'idea
secondo cui il minore non dovrebbe lavorare, ma per la sua formazione avrebbe diritto ad essere
educato. Questo è il modello di fanciullo che Jean-Jaques Rousseau propone nella sua opera Emile.

La protezione giuridica del minore si fonda sul rifiuto di concepire il bambino come un adulto in
miniatura, anche se esiste ancora un ambito in cui questa impostazione non è pienamente
riconosciuta, che è l'ambito medico. Circa la metà dei farmaci destinati ai minori non vengono
clinicamente testati tenendo conto della fascia di età a cui appartengono coloro ai quali saranno
somministrati. Possiamo infatti constatare che il dosaggio del medicinale si riduce esclusivamente
in rapporto al peso e all'età.

Nell'Unione europea sebbene l'infanzia (dalla nascita alla maggiore età) non sia considerabile
come un gruppo omogeneo, bisogna riconoscere che questa fascia della popolazione è
caratterizzata sia da incapacità giuridica che da una certa vulnerabilità sociale. Per poter porre fine
a quest'erronea visione del bambino come adulto in miniatura, il Consiglio ed il Parlamento
europeo 2006 hanno adottato un regolamento con l'obiettivo di migliorare sia la qualità della
ricerca pediatrica, che l'immissione in commercio dei relativi farmaci.

Il Consiglio ed il Parlamento europeo hanno scelto di avvalersi dell'atto normativo gerarchicamente


più elevato del diritto comunitario ordinario: il regolamento. A differenza delle direttive, esso è
immediatamente obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è self-executing, ossia direttamente
applicabile in tutti gli Stati membri dell'Unione europea. Di conseguenza, tutti gli Stati membri
dell'UE devono modificare la loro legislazione interna in questo settore per renderla conforme a
tale Regolamento.

Secondo il modello della piramide di Kelsen, prendiamo in considerazione la gerarchia delle norme,
troviamo il Regolamento al secondo posto (dopo i Trattati). Nell'UE, la gerarchia tra gli atti
normativi permette di regolare i rapporti tra le varie istituzioni comunitarie, nel quadro più ampio
delle relazioni con i singoli Stati membri. Il ricorso al Regolamento pone in risalto la volontà politica
comunitaria di proteggere la salute dei minori.

Il Regolamento del 2006 stabilisce che: "prima di essere immesso nel mercato da uno o più Stati
membri, un farmaco deve esser oggetto di uno studio approfondito”; in ambito scientifico, vi è
scarsa conoscenza del significato di "medicinale ad uso pediatrico". Troppo spesso, si evidenzia,
"molti dei farmaci attualmente impiegati dalla popolazione pediatrica non sono stati studiati o
autorizzati a tal fine"; "tra i problemi che risultano dalla mancanza di farmaci idonei all'uso
pediatrico è doveroso citare: rischi più elevati di reazioni avverse, tra cui il decesso; mancata
disponibilità per la popolazione pediatrica di terapie avanzate ".
Da un punto di vista etico-giuridico, il problema è quello di riuscire a conciliare una ricerca con i
minori, coinvolgendoli al fine di migliorare le qualità dei farmaci per i minori, così come dichiara a
proposito il Considerando 7 del Regolamento: "Le preoccupazioni circa le sperimentazioni sulla
popolazione pediatrica andrebbero bilanciate con le preoccupazioni etiche riguardanti la
somministrazione di farmaci a una popolazione sulla quale i farmaci stessi non sono stati
adeguatamente sperimentati".

Tuttavia, il desiderio di offrire ai minori dei farmaci di migliore qualità, porta al contempo il timore
di trovarci di fronte al preoccupante scenario in cui essi diventano soggetti-oggetti della ricerca
biomedica. Ogni bambino che partecipi ad una ricerca clinica gode di particolari diritti sanciti da
una Direttiva del 2001. Questa Direttiva, la cui lettura è integrata dal Regolamento del 2006,
chiarisce da un punto di vista giuridico cosa si debba intendere per protezione speciale del minore.

È evidente che il primo principio che ai medici sperimentatori s'impone è quello di far prevalere
l'interesse del minore rispetto a quello del progresso scientifico e sociale. A questo obbligo
generale, si aggiunge poi una protezione speciale, che impone ai medici di effettuare sul minore
soltanto le ricerche che si riferiscono direttamente alla sua situazione clinica. Occorre inoltre
richiedere il consenso informato dei genitori e il rispetto dell'autonomia del minore coinvolto.

Nel Rapporto Belmont (uno dei testi fondamentali della bioetica riguardo alle sperimentazioni
cliniche), il principio di autonomia viene presentato in questi termini: "Il principio del rispetto delle
persone si divide (...) in due esigenze morali distinte: riconoscere l'autonomia e proteggere coloro i
quali hanno un'autonomia limitata". Il principio d'autonomia si oppone al modello paternalistico in
cui è il curante a scegliere cosa sia preferibile per il bene del suo paziente.

Il diritto sancisce la presunzione d'incapacità giuridica fino ai 18 anni d'età, anche se ciò non
significa che il minore non abbia diritto ad esser ascoltato: piuttosto, il suo parere sarà preso in
considerazione. Una certa autonomia viene quindi riconosciuta al minore, tenendo ovviamente
conto delle sue capacità di discernimento e del suo interesse.

Il diritto minorile sottintende in ogni sua disposizione la nozione di "interesse del minore", così
come sancito dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo (1959) nel suo principio numero 2: "Il
fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base
alla legge e ad altri provvedimenti in modo da essere in grado di crescere in modo sano e normale”

Nell'adozione delle leggi rivolte a tal fine si dovrà sempre "tener conto dell'interesse prioritario del
fanciullo". Questo principio è stato riaffermato dalla Convenzione sui diritti dell'infanzia delle
Nazioni Unite il 20 novembre 1989. Inoltre, la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea
(2000), all'articolo 24 dispone: "I bambini hanno diritto ad essere protetti a ricevere le cure
necessarie per il loro benessere. Possono esprimere liberamente la loro opinione "

A questo punto occorre stabilire da quale età in poi il minore possa comprendere l'importanza del
suo assenso e partecipare in tal modo a un progetto di ricerca clinica, nell’ambito di un Piano
d'Investigazione Pediatrica disciplinato dal Regolamento del 2006, in applicazione della Direttiva
del 2001. L'Agenzia Europea per la Medicina (EMEA) ha offerto al riguardo un’indicazione sulle
soglie d'età, secondo cui: “La prima fase neonatale è da 0 a 27 giorni di vita, la fase del lattante è
da 1 a 23 mesi, l'infanzia va da 2 a 11 anni e l'adolescenza dai 12 ai 18 anni”. Le soglie stabilite
dall'Agenzia Europea di Medicina sono sorprendenti soprattutto quella relativa allo sviluppo.
Considerando la questione da un punto di vista non biologico, ma focalizzandoci sullo sviluppo
psicologico, sappiamo che tra un bambino di 2 anni, uno di 7 ed uno di 11 la capacità di
discernimento varia notevolmente. Lo stesso vale per la fascia d'età che va dai 12 ai 18 anni.

Inoltre, l'Agenzia Europea di Medicina non considera rilevante in nessun caso la soglia dei 16 anni.
Certamente, queste direttive verranno in realtà applicate con un approccio casistico, attento alla
reale capacità di intendere del minore coinvolto in uno studio clinico. con un Un'etica della
responsabilità è senza dubbio presente in entrambi i testi di diritto europeo sulle sperimentazioni
pediatriche.

In caso di danni al minore che si verificano durante l'esecuzione di test clinici, il consenso
informato conferito non è certamente sufficiente ad evitare eventuali condanne. La giurisprudenza
riconosce il minore come soggetto vulnerabile in sé e proprio per questo gli offre una protezione
rafforzata. La responsabilità professionale del medico può verosimilmente essere alquanto
onerosa.

Il diritto civile francese, in tema di colpa, mostra un progressivo allontanamento dal concetto di
colpa penale e ciò comporta da un lato dei vantaggi per il danneggiato sul versante del
risarcimento, mentre riduce il margine di errore tollerabile per il medico laddove sia dimostrato il
nesso eziologico con il danno in questione. Da ciò possiamo dedurre che la tutela rafforzata del
minore comporta una responsabilità maggiore per lo sperimentatore che, nel corso della ricerca,
abbia cagionato un danno al minore stesso.

Per attuare gli obiettivi del Regolamento del 2006 è necessario, dunque, che si conducano test
clinici sui minori, per consentire lo sviluppo qualitativo di farmaci per i minori. E per consentire
questo miglioramento si dovrà parallelamente rafforzare la responsabilità dei medici che
conducono sperimentazioni pediatriche sui minori. Qui la figura paterna della responsabilità si
coniuga con la dimensione femminile della cura.

Il principio di responsabilità di Hans Jonas fonda l'etica sulla difesa dei soggetti più esposti al
rischio e quindi più deboli. In particolare, in esso si dichiara che il modello di ogni responsabilità
etica è quello del buon padre di famiglia nei confronti dei suoi figli. E Jonas fonda l'agire morale
non sulla legge morale, ma su un “appello del bene in-sé-possibile nel mondo". Il lavoro di cura,
che in bioetica risponde al principio di beneficenza , fonda l'attività normativa del legislatore sullo
sforzo di protezione del soggetto più debole.

Prendendo in considerazione il paziente, egli sarà doppiamente vulnerabile: sia in ragione della sua
condizione fisica in quanto malato; sia in ragione delle suo essere tecnicamente impreparato a
comprendere il suo quadro clinico.
Al contrario, il medico ha la forza del sapere, un sapere che può salvare la vita. Nello spirito degli
autori anglosassoni dell'etica della cura, le esperienze cosiddette femminili promuovono dei valori
diversi rispetto a quelli che dominano nell'etica della responsabilità. Senza necessariamente
abbracciare le concezioni femministe di N. Noddings o di C. Gilligan , per le quali la cura è di genere
opposto alla morale maschile, non si può ridurre l'etica della cura a una mera percezione morale
empatica incentrata su situazioni particolari.

Al fine di associare la delicatezza dell'etica della cura al rigore dell'etica responsabilità, dobbiamo
prendere in considerazione la Direttiva del 2001 sulle sperimentazioni, secondo cui: "Nel caso di
soggetti incapaci di conferire il proprio consenso (...) l'inclusione nelle sperimentazioni cliniche
avverrà in base a criteri ancor più restrittivi (...) inoltre, prima di iniziare qualsiasi sperimentazione
clinica di questo tipo, occorrerà il consenso scritto del rappresentante legale del paziente ".

Il riferimento a tale sinergia fa del medico curante, a mio avviso, il miglior intermediario per
conciliare l'etica della responsabilità con l'etica della cura. Più precisamente, grazie alla conoscenza
personale che ha del minore, unita alla competenza medica, egli può valutare la sua idoneità
psicologica, quella dei suoi genitori e il livello di rischio clinico sostenuto.

Egli può inoltre svolgere il ruolo di mediatore tra la famiglia del minore ed i medici sperimentatori
durante lo svolgimento dei test clinici pediatrici. In tal modo, egli consentirebbe di rendere più
agevole la partecipazione dei minori alle sperimentazioni necessarie alla produzione di medicinali
per i minori. Tuttavia, la nozione di "cura", intesa come attenzione che una madre nutre per i suoi
bambini, non deve essere confusa con l'altruismo utilitarista. Un'etica della cura non è semplice
altruismo, vago disinteresse o banale sentimento empatico con il prossimo.

Robert Spaemann sostiene che la cura è vera benevolenza quando è il riconoscimento della
"costituzione teleologica dell'essere vivente". Robert Spaemann giudica infatti l'identità umana
considerando i suoi fini costitutivi della misura del bene. Il bene è dato al prossimo proprio in
ragione del nostro essere e del nostro divenire umano. L'ontologia dell'uomo è al centro della
questione riguardante la sua vulnerabilità ed ogni pretesa di comprendere tutti gli elementi che
costituiscono l'essere umano finisce per ridurre la ricchezza che invece lo caratterizza.

La riduzione dell'uomo ad una delle sue caratteristiche costitutive minaccia la sua profonda
identità. L'empirismo delle scienze mediche rimane prigioniero una visione in cui tutto si fonda sul
piano dell'esperienza. La percezione della vulnerabilità di un minore deve superare lo stadio
dell'esperienza per trasformarsi in un'etica della responsabilità: in altri termini non bisogna
identificare il fine del divenire umano con lo stadio finale dello sviluppo della persona.

La vulnerabilità del minore rapisce la nostra attenzione perché sentiamo naturalmente il bisogno di
proteggerlo. L'identità del bambino è fragile e mutevole per natura; la sua stessa costituzione
necessita di una protezione. Se ogni tipo d'identità umana è fragile e mutevole, quella del minore
lo è ancor di più e richiede una maggiore presa in carico. La sua identità prefigura l'identità umana.
La nostra vulnerabilità biologica e psicologica mostra la potenzialità dell'identità umana; la nostra
identità si afferma gradualmente per mezzo delle sue manifestazioni esistenziali, ma possiede fin
dalla sua origine un valore in sé. La questione dell'identità apre lo scenario della nostra
vulnerabilità e pone la questione dell'affermazione di sé. Secondo una visione riduzionista, sarebbe
possibile descrivere l'identità in un dato momento.

Dobbiamo rigettare ogni tentativo di riduzione della nostra profonda identità, la quale è costituita
fin dall'inizio, ma in continuo divenire. Parte dell'attuale legislazione si oppone fermamente ad
ogni forma di discriminazione basata su un solo particolare dell'identità individuale. È il caso delle
discriminazioni sulla base della razza o dell'orientamento sessuale. La questione della
discriminazione razziale è certamente emblematica di ciò che comporta un giudizio parziale
sull'identità. Oggi, il discorso sulla vulnerabilità riguarda anche la nostra identità genetica.

3.2. La fragilità dell'identità genetica umana


L'articolo 2 della Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani (1997) presenta
l'identità genetica della come una potenziale minaccia per la sua dignità: "Ogni individuo ha diritto
al rispetto della propria dignità e dei propri diritti, qualunque siano le sue caratteristiche genetiche.
Questa dignità impone di non ridurre gli individui alle loro caratteristiche genetiche e di rispettare
il carattere unico di ciascuno e la sua diversità"

Un esempio di uso riduttivo dell'identità genetica riguarda il valore predittivo delle informazioni
genetiche che certe compagnie di assicurazioni sanitarie vorrebbero ottenere per avere una
conoscenza più precisa degli eventuali rischi che si corrono nel sottoscrivere un'assicurazione sulla
vita o sulla salute. Tuttavia, l'identità genetica di una persona per fini prognostici o predittivi può
essere riconosciuta come rilevante in termini etici e quindi essere protetta dal diritto.

3.3. Identità genetica e diritto di famiglia


Il patrimonio ereditario del minore rappresenta soltanto un esempio della posizione acquisita dalla
genetica nel diritto. Un primo caso riguarderà la problematica della paternità. Se, come attesta
l'antico brocardo latino mater semper certa est, pater numquam, in passato era impossibile
stabilire in modo certo la paternità biologica, questo oggi non è più vero grazie ai test genetici.
All'occorrenza, mediante una semplice estrazione di DNA da un capello, o da un tampone orale, è
possibile stabilire la reale paternità di una persona. A livello pratico, effettuare tali test è
semplicissimo, perché numerosi siti internet offrono tali servizi a prezzi molto accessibili.

Riteniamo tuttavia opportuno in questa sede denunciare il carattere illegale e immorale del
commercio della sanità umana su internet. La filiazione genetica può essere necessaria per
accertare l'identità di un bambino nato da un parto anonimo. Un minorenne che è stato adottato
può inoltre avere interesse a ricercare l'identità dei suoi genitori naturali. Una tale esigenza si può
verificare anche nei casi di procrea- zione medicalmente assistita (PMA) in cui il donatore è terzo
alla coppia.

L'articolo 7 della Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia adottata il 20 settembre 1989
dall'Assemblea generale dell'ONU dispone che "il fanciullo è registrato immediatamente al
momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella
misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e ad essere allevato da essi”. In Francia, il Comitato
Nazionale Consultivo d'Etica nel parere Accesso alle origini, anonimato e segreto della filiazione si è
interrogato sulla distinzione tra le due dimensioni della azione quella biologica e quella sociale.

Queste due facce della stessa medaglia coesistono sia nei concepimenti avvenuti fuori dal
matrimonio, che nel caso dell'adozione. Ma, come ha giustamente affermato Jean-Louis Brugués,
la biologia o la genetica non sono un fondamento neutro su cui poter costruire una personalità
come prodotto delle relazioni culturali instaurate. Infatti, la nostra personalità è anche il prodotto
della conoscenza del patrimonio genetico ereditato ma che nondimeno risulta determinante.

Bruguès prosegue nella sua analisi spiegando che il suo corpo discende dai suoi antenati e da tutti
coloro che lo hanno preceduto. Il corpo è visto come un patrimonio genetico col quale si convive
per tutta la propria esistenza. Ed è proprio questo stesso corpo a ricordare all'individuo che ogni
uomo possiede una sorta di "memoria" genetica e che tutte le sue scelte di vita vanno a formare la
sua "memoria esistenziale".

La persona è il risultato di una sintesi tra queste due identità: quella genetica e quella esistenziale.
L'immanenza genetica è iscritta nei gameti, che esprimono una genealogia la cui ignoranza può
costituire un danno che il diritto sarà chiamato a correggere. Se l'accesso alla propria identità
genetica costituisce un diritto personale, allora è opponibile a tutte le convenzioni private che lo
limitano.

A tal proposito, si auspica che la Dichiarazione Universale sul genoma umano e i diritti dell'uomo
venga presto emendata ed integrata col diritto a conoscere la propria identità genetica. Questa
Dichiarazione dell'UNESCO analizza il tema dell'identità genetica in una prospettiva negativa, come
fosse soltanto fonte di discriminazione. Niente viene detto sul diritto a conoscere la propria
identità genetica.

3.4. Identità genetica e diritto al lavoro

La discriminazione di una persona in ragione della sua identità genetica è un problema reale ed è
oggetto di studio per il diritto del lavoro. Il problema è capire se l'identità genetica di una persona
possa essere o meno un criterio di discriminazione, al momento dell'assunzione. Sia il Comitato di
Bioetica della Germania che la Commissione europea mostrano tutta la loro difficoltà
nell'affrontare il problema. 20 Ormai è sempre più facile acquisire informazioni sullo status
genetico di una persona e tali dati possono anche essere utilizzati in una forma eticamente
lodevole.

Infatti, l'indagine genetica può contribuire a dare una maggior sicurezza alla persona, attribuendole
una mansione che prevenga l'insorgere di date malattie genetiche. I due pareri sopraccitati
riconoscono l'importanza dell'identità genetica del lavoratore come un mezzo per prevedere il suo
stato di salute futuro o la sua predisposizione a certi rischi legati al proprio ambiente lavorativo.
Allo screening genetico si può aggiungere il monitoraggio genetico del lavoratore dipendente.

In seguito all'assunzione, può essere consigliabile un monitoraggio sullo stato genetico di un


lavoratore che abbia predisposizione al rischio. Tuttavia, esiste solo un numero esiguo di test
genetici in grado di fornire sia al datore di lavoro che al lavoratore informazioni che possano essere
utilizzate validamente per prendere decisioni sul tipo d'impiego lavorativo. È probabile che questa
situazione possa cambiare in futuro.

Allo stato attuale del diritto positivo francese, un emendamento (del 2002) all'articolo 226-25 del
codice penale, vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata su dati genetici “aventi ad oggetto
una malattia che non sia ancora stata diagnosticata o una predisposizione genetica a una malattia”
In compenso, la legge italiana sulla protezione dei dati personali (2003) sancisce che i dati genetici
possono essere trattati quando questi siano indispensabili per la protezione dell'integrità fisica e la
salute della persona ma in ogni caso con il consenso scritto del soggetto. La sicurezza della persona
appare dunque legata alla conoscenza della sua identità genetica.

3.5. Identità genetica e diritto alla libera circolazione delle persone

A partire dall'adozione del Regolamento europeo del 13 dicembre 2004, i Paesi dell'Unione
europea sono obbligati a fornire i cittadini di un passaporto con un microchip elettronico che, in
futuro, conterrà elementi biometrici. La biometria ha per oggetto la misurazione di dati morfologici
che consentono l'identificazione della persona.

La biometria utilizza diversi parametri morfologici di identificazione. In un futuro prossimo, i dati


genetici potranno completare il ventaglio di criteri utilizzati per l'identificazione della persona, il
ricorso alle tecniche biometriche non comporta una riduzione della vita alle varie componenti
fisico-chimiche o molecolari del corpo umano; tuttavia, comporta la strumentalizzazione dei corpi
per fini d'ordine pubblico. Ha quindi come principale vantaggio quello di evitare il furto d'identità.

Il sistema biometrico possiede comunque una certa soglia di fallibilità che deve essere messa in
discussione. Da un punto di vista tecnico il margine d'errore è molto basso. L'esperienza cinese del
certificato d'identità genetica, dimostra che il possessore del docu- mento d'identità in questione
può essere identificato tra sei miliardi di altri esseri umani nel mondo. Questo certificato d'identità
genetica contiene una foto a colori del titolare, la sua data di nascita, la sua nazionalità, il sesso, e
18 locus genici, individuati nella lunga catena del DNA.

In Francia, il tema dell'accertamento di identità per fini di sicurezza è stato oggetto di accesi
dibattiti. L'Assemblea Nazionale francese ha adottato una legge sull'immigrazione in cui un articolo
dispone che il riavvicinamento familiare venga facilitato dalla presentazione di test genetici
comprovanti la filiazione genetica. Questo articolo può esser giudicato "immorale" in quanto dà
una definizione di "famiglia" solo su base biologica ma in realtà lo scopo della norma è un altro.

Si tratta di un procedimento di polizia amministrativa che non ha interesse alcuno a dare una
definizione di famiglia e piuttosto si concentra sulla veridicità o meno della dichiarazione di
paternità. Al di là di ogni discorso ideologico è ragionevole convenire che l'identità genetica
consente di evitare il furto d'identità. Il controllo dell'identità genetica rappresenta una misura
amministrativa di polizia, che non pretende in alcun modo di ridurre la persona al suo patrimonio
genetico.

Il diritto può servirsi di tecniche di screening e monitoraggio genetico sia per l'elaborazione dei
dati che per la difesa della persona. È auspicabile resistere alle fobie anti-lombrosiane o ai timori di
una vittoria della socio-biologia quando trattiamo questioni giuridiche sull'identità genetica di una
persona. Il dibattito sul patrimonio genetico ereditario, sulla forma- zione dell'identità personale e
quindi del divenire umano, verte su tematiche vaste e di grande attualità.

Sigmund Freud utilizzò per la prima volta la parola "psicanalisi" nel trattato l'eredità e l'eziologia
della nevrosi(1896), per evitare di dare all'ereditarietà (diversamente da J.-M. Charcot) un ruolo
preponderante nella definizione dell'identità personale e delle sue nevrosi. Questo vasto dibattito
su ciò che definisce una persona non deve però trascurare gli enormi vantaggi apportati dalla
genetica nel campo diritto. Tutto sta nell'uso che ne vogliamo fare.

La necessità di identificare geneticamente una persona non lede i diritti umani. Si devono porre
limiti ai test genetici quando essi violino i diritti fondamentali, ma sarebbe errato pensare che il
divenire umano possa essere utilizzato nella sua primordiale vulnerabilità quando facciamo ricorso
all'identità genetica. La tutela della nostra identità richiede di elaborare nuove concezioni del
divenire umano.

La coscienza dell'uomo deve mantenere corrette relazioni con le scoperte della natura umana e
con la natura nel suo complesso. La nostra vulnerabilità esistenziale assume allora un significato
più ampio, comprendendo il nostro mondo e la nostra responsabilità nei confronti del divenire
dell'ambiente in cui viviamo, che è essenziale per il divenire umano.

Questa responsabilità è stata evidenziata dall'articolo 17 della dichiarazione universale di bioetica e


dei diritti dell'uomo dell’UNESCO (2005) secondo cui: “Le interconnessioni tra gli esseri umani e le
altre forme di vita, l'importanza di un accesso e un utilizzo appropriati delle risorse biologiche e
genetiche, il rispetto per i saperi tradizionali e per il ruolo degli esseri umani nella protezione
dell'ambiente, della biosfera e della biodiversità devono essere tenuti nella dovuta considerazione”

3.6. Fragilità dell'ambiente degli uomini

I diritti dell'uomo costituiscono nei fatti una riserva di argomenti utilizzabile in pressoché ogni
occasione. Ma con l'affermato diritto “ad una ecologia umana” ci troviamo di fronte ad una nuova
categoria di diritti dell'uomo, destinata a restare invece sulla carta? Non credo; ma al fine di
argomentare tale risposta negativa, è interessante esaminare il senso di tale categoria, per
verificarne l'importanza.

A differenza degli altri diritti dell'uomo (di prima generazione, come i diritti di libertà, o di seconda,
come il diritto di sciopero), i quali si determinano in capo ad un soggetto, il diritto a vivere in un
ambiente sano si riferisce anzitutto alle cose che di tale ambiente sono parte. Ancora, si noti che
ciò che costituisce l'ambiente ha certamente un impatto sulla dignità umana.

La tutela dell'ambiente non è un'esigenza nuova, dato che le grandi religioni monoteiste
impongono sistematicamente ai loro fedeli di rispettare l'ambiente, che è frutto dell'opera
creatrice di Dio. E tuttavia, si assiste oggi ad una esaltazione della "naturalità" della natura, a fronte
della esecrazione della natura "civilizzata" dall'uomo. In questa prospettiva ecologista, che
possiamo qualificare come ecocentrica, l'uomo è separato da ogni trascendenza.

Le religioni monoteiste incitano continuamente i loro fedeli a rispettare l'ambiente, in quanto


creazione di Dio. E così, l'Islam impone la tutela dei frutti della creazione divina: "tutte le cose che
avete ricevuto sono solo in usufrutto". Ne deriva l'idea di un equilibrio necessario fra le diverse
componenti della creazione; nel Corano, l'intreccio delle relazioni fra i frutti della creazione divina
va di pari passo con l'affermazione di una gerarchia alla cui sommità è collocato l'uomo, al quale è
affidata la gestione di tutto.

Nella tradizione giudaico-cristiana, è noto che nel primo libro della Bibbia vi sia l'affermazione:
"siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del ma- re ...". I
termini usati, soggiogare e dominare, non debbono però indurre in errore, poiché mettono in
evidenza la responsabilità dell'uomo verso la natura, il suo necessario prendersene cura: abitare
nella casa (domus-dominio) che l'uomo costruisce sulla terra. Il secondo testo della Genesi
riprende un racconto babilonese relativo alla creazione dell'uomo con la terra. Dio, soddisfatto
della sua opera, rivela all'uomo la premura che ha per essa: "Dio pose l'uomo nel giardino
dell'Eden, per coltivarlo e custodirlo".

E nella tradizione cattolica, basti citare la figura emblematica di San Francesco d'Assisi, il quale
proclama la pace con tutta la Creazione. La cristianità pone allora l'uomo alla sommità della
creazione, ma sarebbe riduttivo definirlo, con ciò, un pensiero antropocentrico, almeno se si
accetta la tradizione tomista; Tommaso d'Aquino riconosce il suo inserimento nella natura (è il
noto tema dell'uomo-microcosmo).

Nell'art. 1 della quaestio 91, nella prima parte della Summa Theologica, prende come punto di
partenza l'affermazione che Dio, nella creazione, diffonde la sua Bontà a ciascun livello della realtà.
L'uomo partecipa alla creazione divina in modo eminente, ma imperfetto; la sua superiorità
rispetto al resto della natura si manifesta nell'unità sostanziale che trova nell'uomo la sua struttura
ultima: "chiamiamo l'uomo un microcosmo, perché tutte le creature del mondo si trovano in un
certo modo in lui".

La conoscenza comincia in lui attraverso la percezione dei sensi, e non si estende mai alla totalità
del reale: "l'uomo non possiede la conoscenza naturale di tutte le cose nella creazione". Seguendo
Aristotele, Tommaso riprende il tema dell'immanenza della natura nell'uomo, che egli trascende
attraverso il suo spirito; la preminenza dell'uomo sulle altre creature è perciò stabilita perché egli è
il solo fra tutti i viventi a giungere ad una comprensione concettuale di sé stesso e del mondo.

Ne deriva una comprensione antropocentrica della natura, che però non separa l'uomo dalla
materia; un tale approccio monista segna l'indipendenza dell'uomo e della natura, ed obbliga ad
abbandonare il paradigma dell'abitabilità, in favore di quello della possibilità di vita nella natura. E
così, il grado di inserimento dell'uomo nella natura è determinato dall'intersezione fra le esigenze
dello spirito e le precondizioni di un'esistenza naturale.

Senza rinunciare all'affermazione della primazia dell'uomo nella natura, il pensiero tomista pone
all'interno della sua ontologia la responsabilità dell'uomo sulla natura: l'uomo non può
semplicemente rendere la natura abitabile senza preoccuparsi di null'altro, ma deve assicurare la
possibilità stessa della vita nella natura. Ecco allora che il tema della responsabilità si fonda su tale
monismo tipico dell'ontologia tomista.

Il pensiero tomista sulla creazione non tende ad affermare la soggezione della materia allo spirito.
E in più, non ha la pretesa di credere che tutte le leggi che Dio ha iscritto nella creazione si
identifichino con le verità scientifiche. Questa connessione tra l'opera di Dio e la ricerca scientifica,
operata da Cartesio ha favorito lo sviluppo delle scienze, ma trova oggi il suo limite nella pretesa
smisurata della conquista sulla natura.

L'approccio antropocentrico alla natura è altresì radicalmente differente da quello di Tommaso.


L'ontologia cartesiana esalta il ruolo dello spirito e ne fa l’elemento che domina sulla materia,
come è fatto palese dal celebre imperativo di renderci “signori e padroni della natura". Se si vuole
far riferimento alla contrapposizione moderna fra spiri- to e natura, allora (come ha mostrato
Hegel nella Filosofia della natura) essa deve essere intesa come uno spirito che si materializza
nell'uomo; in questa prospettiva, tale rapporto si svolge in senso discendente (dallo spirito alla
natura) e non in senso ascendente, collocando l'uomo all'interno di una ontologia naturalista, qual
è quella che è propria della prospettiva evoluzionista.
Il pensiero darwinista nega infatti ogni preminenza all'uomo nella natura. Mediante un
rovesciamento della tesi cartesiana, ogni essere vivente si trova in una condizione di eguaglianza
dal punto di vista biologico; l'uomo e gli altri animali hanno una vicenda di evoluzione comune, che
differisce solo per il grado. In altri termini, esiste un antenato comune. Questa rappresentazione
dell'evoluzione implica che nel tempo gli individui di una stessa specie si modifichino al punto di
determinare la nascita di una nuova specie; più che un'evoluzione graduale bisognerebbe parlare
di una "discendenza con dei mutamenti".

L'uomo e i grandi primati vanterebbero una medesima discendenza. Tali mutamenti rappresentano
altrettanti vantaggi evolutivi dei quali gli organismi si sarebbero giovati a discapito degli altri nella
lotta per la sopravvivenza: è ciò che Darwin chiama la "selezione naturale" o la "sopravvivenza del
più adatto". L'uomo deve assicurare una protezione della vita tale da permetterne una
sopravvivenza all'interno di un ambiente che tende a distruggere; tale ontologia centrata sulla
materia pone l'uomo nell'immanenza del vivente, ma lo priva di ogni trascendenza.

Si confonde pertanto l'uomo con la natura, giungendo a fare dell'uomo nulla più di un animale
come gli altri. Senza la modalità specifica con cui l'uomo partecipa della natura, non ci sarebbe mai
stata la civiltà, ma solo la natura; che qui non è più una materia messa a disposizione dello spirito,
ma il suo opposto: è ormai l'uomo che deve mettersi a disposizione della natura.

Tale esaltazione della natura in senso meramente biologico, e il disprezzo per la natura come
mondo per gli uomini, è dunque al cuore delle prospettive ecologiche che, oggi, possiamo
qualificare come ecocentriste. La visione ecocentrica della natura pone l'uomo al di sopra del
regno animale e vegetale, pur se esistono differenze anche profonde: basti pensare a quella tra la
Deep Ecology e la Shallow Ecology.

Entrambe hanno infatti in comune l'integrazione di animali e piante entro una medesima comunità
di vita; la differenza è però che per la Shallow Ecology la natura non ha alcun valore intrinseco, che
invece viene riconosciuto nell'altra prospettiva. Ma la stessa Shallow Ecology è in realtà
un'etichetta dietro la quale si celano approcci differenti; una visione di tipo utilitaristico, che
riconosce all'uomo un potere su tale comunità naturale fra i viventi, e sui loro interessi.

O ancora, v'è una prospettiva che fa perno sulla teoria dei diritti individuali per elaborare l'idea di
una tutela delle specie e degli ecosistemi, i quali sono riconosciuti titolari di diritti in quanto
soggetti viventi in senso generale.

La Deep Ecology non si accontenta di fondare la necessità di tutelare la natura, ma sottolinea la


crisi che caratterizza i rapporti fra uomo e natura, ritenendo che essa non possa risolversi se non
esaltando i valori propri della natura medesima, della quale l'uomo è parte integrante. Tale
prospettiva fa capo a A. Naess, il quale propone una concezione olistica della natura; insiste, cioè,
sulla rilevanza di un equilibrio naturale, dotato di valore intrinseco, e sulla necessità di rispettarlo.

Per M. Serres, si dovrebbe parlare di un Contratto naturale, un accordo tra l'uomo e la natura
fondato su un equilibrio tra la nostra potenza attuale e la forza della natura. Tali autori traggono
dal darwinismo l'idea che la natura sia frutto di un processo autonomo e vivente; l'uso della parola
"biosfera" rinvia precisamente alla natura come realtà vivente globale. Si tratta difatti di un
termine ecocentrico, impiegato nel quadro dell'ipotesi Gaia che viene tematizzata già nel 1970 da
J. Lovelock.

Egli afferma che la terra è un pianeta vivente, caratterizzato da un ambiente che funziona come
una macchina; la dimostrazione che ne dà riposa sull'osservazione banale di come la Terra,
sofferente a causa dell'azione dell'uomo, si vendichi in un istinto di autodifesa mediante le
catastrofi naturali. E dunque la crescita economica è denunciata come portatrice di distruzione e di
valori artificiali.

Senza accettare la tesi di una thanocrazia nello sviluppo economico, è incontestabile che
l'ecologismo ci ha reso familiare l'idea della protezione necessaria della natura. E dunque, ha
convinto tutti della necessità che l'uomo si faccia Signore e tutore della natura. Lo spettacolo della
distruzione dell'ambiente e dell'estinzione delle specie contribuiscono a forgiare una coscienza
comune più sensibile verso tale compito ed è certo che l'uomo d'oggi abbia smesso di guardare al
progresso con un entusiasmo senza freni.

Come scrive J.P. Séris, “il rischio tecnologico non cessa questionari non solo i pensieri degli uomini,
ma anche la loro storia”. Se si può riferire all'ecocentrismo il pensiero di H. Jonas, che ritiene
l'uomo un perturbamento della natura in sé, si può però lodare la sua euristica della paura nella
misura in cui affida all'uomo il compito di proteggerla e di farsene responsabile. Lo scopo di tale
protezione è noto: garantire alle generazioni future la possibilità di godere delle ricchezze della
natura, che sono minacciate dall'attività umana.

Con le parole di Jonas, l'imperativo è pertanto: "agisci in modo che gli effetti della tua azione siano
compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra". Ma Jonas non rifiuta
la possibilità che l'uomo agisca sulla biosfera ma chiede che tale azione sia segnata da uno spirito
solidaristico e morale; in tal senso può vedersi un imperativo etico a consentire l'esistenza di
ciascuna specie vivente, sotteso alla Convenzione sulla Biodiversità di Rio (1992).

Una tale azione dell'uomo sulla natura è tematizzata dallo spirito umano (e perciò si parla di
Noosfera), e controllata dalla tecnica (da cui la Tecnosfera). La natura è pertanto una casa, sulla
quale dominiamo, è la dimora dell'essere di cui parla Heidegger; l'etimologia greca del termine
ecologia ci insegna infatti che essa è un discorso (Logos) sulla casa (Oikos).

Per gli epigoni dell'ecocentrismo, l'uomo abita naturalmente la terra, e non ha alcun bisogno di
umanizzarla; essi vedono infatti nell'azione dell'uomo uno snaturamento, destinato a distruggere
le specie. Essi adottano il punto di vista della natura, fino ad appiattire il mondo umano su un
livello di animalità immanente privo di ogni dimensione trascendente. Il difetto costitutivo
dell'ecocentrismo è di pensare che l'uomo si sia tardivamente scoperto abitante della terra, e che
debba accordare tutte le sue attività alle esigenze della natura; l'ecocentrismo abbandona la con-
contrapposizione spirito-materia per un monismo incentrato sulla materia.

Nell'ipotesi Gaia, l'uomo infatti non possiede più alcuna dimensione ontologica propria; il senso e
la cura di sé si identificano con il senso e la cura della terra. L'uomo è al servizio di Gaia, poiché
essa agisce sulle nostre più profonde inclinazioni. L'ecocentrismo ci porta a credere che l'anima
dell'uomo sia parte integrante di una più grande anima del mondo, e il discorso prende una piega
inevitabilmente mistica, di una nuova mistica (New Age) che rompe radicalmente con l'ontologia
trascendentale cristiana.

Per opporsi a questa nuova forma di pensiero è necessario ribadire che l'uomo non viola affatto la
terra quando abita il proprio mondo. L'ethos (habitus-habitat) dell'uomo trae tutto il suo
significato dalla libertà con cui si rapporta alla natura. La sua responsabilità, oggi, è ancora
maggiore che nel passato, poiché egli deve abitare la terra per farne un mondo, dovendo altresì
garantire la possibilità che essa sia un luogo ancora ospitale e vivibile (perché un mondo inabitabile
sarebbe un non-mondo, Unwelt, secondo Heidegger).

Si può desiderare che la natura sia preservata, lasciata alla propria dinamicità sì da preservare la
biodiversità. Si può voler evitare uno sfruttamento smisurato delle risorse energetiche inquinanti.
Si può anche auspicare una modifica nei metodi di produzione. Si può volere tutto ciò sì da farsi
signori e tutori della natura, ma bisogna farlo senza pretendere di attribuire alla natura stessa dei
diritti.

Un diritto ad un'ecologia umana ha senso per l'uomo se si tiene lontano dall'ambiguità di tale
espressione; bisogna perciò abbandonare la tesi dell'ecocentrismo, e rifiutare l'idea che la natura
abbia diritti propri. L'uomo ha il diritto di abitare in un mondo in cui è possibile vivere, ma ciò non
attribuisce alcun diritto alla realtà che ci circonda. Il diritto ad una ecologia umana chiede non solo
di essere ancora precisato ma altresì di essere applicato.

Un esempio può essere tratto dall'ordinamento francese; nel 2005, è stata adottata una Carta del-
l'ambiente, dotata di valore costituzionale e tale da collocarla allo stesso livello della Dichiarazione
dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, e del preambolo della Costituzione del 1946. Tale
Carta viene presentata come la terza fase di un cammino di affermazione dei diritti e delle libertà
fondamentali, per l'appunto successiva ai testi del 1789 e del 1946.

Essa enuncia dei diritti, come quello sancito all'art. 1: "Ognuno ha il diritto di vivere in un ambiente
equilibrato e salubre”; e pone dei doveri, come quello di cui all'art. 4: "Ogni persona deve
contribuire al risarcimento dei danni causati all'ambiente, nei modi stabiliti dalla legge".

Sulla base di tale articolo 4, il 16 gennaio del 2008, il Tribunale di Parigi ha deciso sul caso
dell'Erika; per la prima volta in Francia, la prospettiva eco- logica, nel caso di danni ambientali, è
stata riconosciuta: "le comunità territoriali, possono chiedere il risarcimento dei danni causati
all'ambiente di quel medesimo territorio". Questa decisione giudiziaria dà corpo e realtà al diritto
ad una ecologia umana. Bisogna sperare che possa costituire un precedente tale da orientare la
giurisprudenza. Il dominio ad oltranza dell'ambiente è dunque condannato; la scoperta brutale
della distruzione del nostro ambiente pone infatti l'uomo contemporaneo davanti ai limiti che la
natura impone alla sua azione manipolatrice.
CAPITOLO 4

LA CHIESA CATTOLICA E IL DIVENIRE UMANO

La Costituzione pastorale Gaudium et Spes (1965) definisce l'uomo come un'unità di corpo e anima
che, per sua stessa condizione corporate, rappresenta la sintesi dell'universo delle cose. L'unità
della persona è il cuore dell'enciclica Evangelium Vitae (1995) di papa Giovanni Paolo Il sul valore e
l'inviolabilità della vita umana. Egli pone l'accento sulla responsabilità specifica attribuita ai
professionisti sanitari.

In quanto tali, essi dovranno scongiurare con ogni mezzo la messa in pericolo della vita umana
stessa. In caso di dubbio, qualsiasi atto medico che possa intaccare il valore della sacralità di
quest'ultima dovrà essere evitato. Questa disposizione della Chiesa si riassume net brocardo in
dubio pro vita, che rappresenta una misura dell'azione fondata sul principio dell'inviolabilità della
vita umana.

L'adagio in dubio pro vita non è soltanto un mezzo per evitare la violazione del quinto
comandamento, ma è assimilabile al brocardo in dubio pro reo, posto quindi a tutela di un bene
indisponibile, in questo caso la vita umana. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, e
successivamente in quello di Benedetto XVI, la Chiesa cattolica ha insistito sulla inviolabilità della
vita umana (e ciò ha comportato una condanna dell'aborto e dell'eutanasia).

4.1. La sacralità della vita umana


La sacralità della vita umana è un principio indiscutibile in sé (in dubio pro vita). La questione verte
allora sulla sua interpretazione. Se al principio diamo un'interpretazione rigida, entriamo nel
campo del tuziorismo, che vieta ogni azione suscettibile di porre fine alla vita umana. Siamo in
presenza di un approccio determinista che risulta equiparabile alla teoria del "rischio zero"
riguardo all'applicazione del principio di precauzione in materia ambientale.

Il brocardo in dubio pro vita può peraltro essere interpretato in senso più ampio, parlando allora di
probabilismo. Esso rinvia al concetto di proporzionalità o ad una moderazione dell'azione medica
quando sia in gioco la vita umana. La tutela della vita umana è un fine che bisogna perseguire ed i
mezzi per raggiungerlo differiscono a seconda delle situazioni.

Nel tuziorismo, la necessaria tutela della vita umana è posta attraverso un ragionamento deduttivo
che omette di considerare i fatti contingenti. Nel probabilismo, la logica è invece induttiva e
procede innanzitutto da un'osservazione della situazione, che è poi risolta alla luce di principi
generali.
si può affermare che il tuziorismo abbia una struttura verticale (laddove il vertice è costituito dai
principi che determinano la soluzione dei fatti) mentre il probabilismo avrebbe una struttura
orizzontale (che mostra dei fini ultimi che si rivelano attraverso una lettura per tentativi dei fatti).
Nel dibattito attuale sulle precauzioni da prendere in campo medico, la Chiesa cattolica oscilla tra
questi due orientamenti. La sacralità della vita è riaffermata con forza nell'enciclica evangelium
vitae (1995).

In essa Giovanni Paolo II promuove la bioetica che difende la "cultura della vita". La vita umana è
sempre intesa come un Bene. Essa possiede un valore intrinseco ed ogni corpo umano vivente
deve essere rispettato in nome dell'amore (caritas) per la vita. Secondo Giovanni Paolo II,
l'inviolabilità della vita umana rappresenta il segno distintivo di una cultura della vita che si oppone
a una cultura della morte.

L'espressione “cultura della morte" ben individua il rischio di reificare la vita umana nelle nostre
società contemporanee, nelle quali sopprimere un essere umano rappresenta una scelta medica
tra le tante. Dall'inizio del suo pontificato, Benedetto XVI ha più volte citato l'enciclica Evangelium
vitae, che ha definito come chiave di volta del magistero della Chiesa. Per la Chiesa cattolica,
l'inviolabilità della vita umana non possiede soltanto un valore teologico, ma rappresenta anche un
principio morale della legge naturale inscritta nel cuore di ciascun uomo.

Secondo la tradizione cattolica, la legge naturale consente un dialogo tra credenti e non credenti,
tra teologi, filosofi, giuristi e scienziati. La sua ricchezza offre al legislatore una preziosa riflessione
sulla protezione della vita umana. La difesa di essa è un Bene che ogni ragione umana è in grado di
comprendere. Tuttavia, questa concezione risulta molto lontana dalla posizione ortodossa, o
almeno da quella di Hugo Tristram Engelhardt jr., che oppone un'etica pubblica ad un'etica
religiosa.

La definizione di legge naturale accolta dalla Chiesa cattolica deve molto agli studi di S. Tommaso
d'Aquino. Nella Summa Theologica, l'Aquinatela descrive come la capacità che l'intelletto possiede
di saper riconoscere il bene umano nei suoi principi fondamentali. Tuttavia, egli sottolinea che più
ci si avvicina al bene nel concreto, più il rischio di errore aumenta.

La legge naturale deve essere attualizzata in funzione delle situazioni specifiche, per rimanere un
orizzonte morale possibile le leggi della società non devono proibire ogni vizio, ma soltanto quelli
più gravi, e soprattutto bisognerà punire “quelli che nocciano ad altri”. Si può agevolmente
collegare tale divieto di nuocere alla celebre prescrizione di etica medica primum non nocere, la
quale postula che il medico non possa recare danno al proprio paziente.

Su questo fondamento il brocardo in dubio pro vita trova la sua giustificazione non soltanto nel
Magistero, ma anche nella ragione di ogni uomo. Nella sua definizione di Bene Tommaso d'Aquino
fa riferimento alla Prudenza aristotelica, la quale esige un'applicazione graduale della conoscenza
del Bene stesso. Bisognerà allora discutere le diverse situazioni al fine di operare una distinzione
tra il particolare e l'universale: il primo è il completamento del secondo.
L'adeguamento dei mezzi dell'azione medica alle finalità morali può peraltro ricevere soluzioni
differenti a seconda dell'interpretazione del brocardo in dubio pro vita che viene accolta. Una
lettura restrittiva del brocardo conduce ad un rigorismo morale che si ricollega ad una tradizione
teologico-morale detta "tuziorismo".

Il tuziorismo deriva etimologicamente dal termine latino Tueor, che significa difendere, sorvegliare;
e in quanto verbo deponente, possiede solo una forma passiva. L’aggettivo Tutus indica ciò che è
sicuro. Il vocabolo si applica sia alle opinioni sia alle questioni concrete.

All'origine, il tuziorismo è legato a diversi brocardi tra cui il più celebre è in dubio pars tutior
eligenda est. traducibile come "in caso di dubbio, si scelga la via più sicura”. Dal secolo XIII, tale
brocardo puntualizzala distinzione tra il concetto di sicurezza e quello di certezza: infatti la certezza
è un concetto di ordine teorico, mentre la sicurezza è di ordine pratico.

Il Decreto di Papa Gregorio IX (1234), o le sue Compilationes secondo cui: “In caso di dubbio, è
preferibile la via più sicura, e nel caso di specie, è preferibile esortare un prete peccatore a non
partecipare alla Messa". In un passo del Commento alle Sentenze, san Tommaso d'Aquino dichiara
che, in caso di allontanamento materiale di un coniuge, è preferibile tutelare quello che resta.

Il termine Tutior o Sicuro in questo contesto non indica ciò che è senza pericolo o ciò che è certo:
successivamente Tutior si identificherà con la certezza. Il tuziorismo è legato al pensiero di John
Sinnich, il quale propone dei principi di moralità pratica caratterizzati da un forte rigore che si eleva
contro ogni lassismo morale.

Egli porta ad una evoluzione del significato del brocardo in dubio pars tutior eligenda est, nella sua
accezione più autoritaria secondo cui bisogna seguire la via prevista e disciplinata da una legge.
Nell'ambito morale, il sicuro è quello che può compiersi con la certezza di non commettere alcun
peccato e questo ulteriore significato di Tuziorismo, come osserva Clacys Bouuaert nel sostenere
che "Jean Sinnich (fu il) difensore di Giansenio". Il Tuziorismo sarà in seguito ripreso da Pascal, in
un estratto del Provinciale V(1656), in cui scrive: "io non mi accontento del probabile, voglio il
certo".

4.2. La protezione del nascituro


La portata del principio di protezione della vita umana ha da sempre diviso i cattolici. Il principio di
protezione della vita innocente non è stato messo in discussione; tuttavia, la sua interpretazione
varia a seconda del ricorso ad una lettura verticale determinista (Tuziorismo) o ad un approccio
orizzontale finalista (Probabilismo). La pubblicazione dell'Istruzione Dignitas personae su alcune
questioni di bioetica, avvenuta nel settembre 2008, ha perfettamente illustrato la tensione che si
può istaurare tra l'approccio tuziorista e quello probabilista riguardo alla protezione della vita sin
dal suo primo istante.
Tale Istruzione ripercorre quella intitolata Donum Vitae pubblicata il 22 settembre1987, dalla
Congregazione per la Dottrina della Fede. I punti cardine dell'Istruzione Donum Vitae sono poi stati
inseriti nell'enciclica Evangelium Vitae e nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Entrambe le
Istruzioni di cui stiamo parlando sono documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede,
fondata nel 1542 da Papa Paolo III con la Costituzione Licet abinitio con il nome di Sacra
Congregazione della Romana e Universale Inquisizione.

Il suo scopo è quello di promuovere la dottrina cattolica e gli studi destinati ed accrescere la
comprensione della fede. L’istruzione Donum Vitae porta la firma di Joseph Ratzinger, in qualità di
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Nel corso dei vent'anni che sono passati
dalla sua pubblicazione, la scienza biomedicale ha fatto numerosi progressi, aprendo nuove
possibilità terapeutiche e sollevando ulteriori problemi etici.

Per questa ragione, Papa Benedetto XVI ha incaricato la suddetta Congregazione di aggiornare
questa Istruzione. Si può dire che la nuova Istruzione della Congregazione per la Dottrina della
Fede si inserisca sulla scia della precedente. Peraltro, nei molteplici documenti pubblicati dagli
autori cattolici o dalle istituzioni come la Pontificia Accademia per la Vita, si è potuto riscontrare un
approccio un po' meno improntato al tuziorismo.

Gli studi della Pontifica Accademia per la Vita sono spesso caratterizzati da una lettura rigorosa dei
principi della teologia. Essa fu fondata l’11 febbraio 1994 da Giovanni Paolo II con lo specifico
compito di difendere la vita umana di fronte all'incalzare dei progressi della scienza medica. La sua
attività fa riferimento al Magistero della Chiesa. Diverso è lo scopo della Pontificia Accademia delle
Scienze, fondata nel 1936 da Pio XI per promuovere il progresso scientifico.

La nomina dei membri della Pontificia Accademia delle Scienze non è subordinata all'appartenenza
religiosa. La nuova Istruzione non poteva opporsi ai principi dell'Istruzione Donum Vitae. La
prospettiva teoretica della Donum Vitae è chiaramente intangibile: si tratta del dono della vita che
Dio, Creatore e Padre, ha affidato all'uomo imponendogli di prendere coscienza del suo valore
inestimabile e di assumersene le responsabilità.

Questo principio fondamentale deve essere posto al centro della riflessione per far luce e risolvere
i problemi morali sollevati dagli interventi artificiali sulla vita nascente e sul procedimento della
procreazione. Se i principi della Donum Vitae, frutto di una riflessione attenta sull’insegnamento
del Magistero e su una riflessione attenta sull'insegnamento del magistero e sui dati razionali, non
potevano assolutamente essere rimessi in discussione.

Le due Istruzioni hanno condannato ogni forma di procreazione medicalmente assistita (PMA).
L'Istruzione Donum Vitae è stata scritta circa dieci anni dopo la nascita del primo bambino
concepito con l'aiuto di queste tecniche. La nascita di Louise Brown, nel 1978, ha rappresentato il
coronamento di più anni di ricerca medica sulla fecondazione umana in vitro (FIV) ed ha aperto
una grandissima speranza per tutte quelle donne destinate a rimanere sterili.
Trent'anni dopo questo evento, circa un milione di bambini sono stati concepiti con le tecniche di
PMA. Tale progresso in campo medico permette quindi di rispondere al desiderio insopprimibile di
avere un figlio, insopprimibile poiché insito nella natura dell'uomo. L'Istruzione Domum Vitae
condanna la PMA, perché tale tecnica antepone il desiderio di avere un figlio al dono della vita.
Quando una donna trasforma il suo legittimo desiderio di avere un figlio in un vero e proprio
diritto, pone il nascituro in una condizione di "oggetto" che riflette il suo essere donna.

La donna e l'uomo si lasciano sopraffare dalla “trappola" del narcisismo, laddove l'amore per sé
stessi si soddisfa per mezzo dell'altro. Bisogna respingere il richiamo di Narciso. Questa è la portata
dell'insegnamento dell'Istruzione Donum Vitae: “il desiderio di un figlio è una richiesta
moralmente necessaria responsabile procreazione umana. Ma queste intenzioni non sono
sufficienti per conferire un nuovo apprezzamento morale positivo sulla fecondazione in vitro tra
coniugi".

Le due Istruzioni condannano inoltre la fecondazione assistita con un donatore terzo alla coppia.
L'unità del matrimonio e il diritto del nascituro ad essere concepito e cresciuto nell'ambito del
matrimonio sono posti a fondamento della condanna. Inoltre, l'aborto è condannato senza indugi
dal Magistero. Possiamo tuttavia interrogarci sulle conseguenze personali e sociali di queste
interdizioni.

La rigorosa preservazione della vita umana fin dal suo inizio lascia un piccolissimo margine per
l'interpretazione da parte del cattolico praticante. Senza voler entrare nelle questioni del diritto
canonico che vertono sulla violazione dei comandamenti possiamo nondimeno interrogarci sulle
conseguenze della posizione del Magistero nella società, almeno nell'Unione europea o negli Stati
Uniti d'America, in cui il pluralismo culturale e la ricerca del piacere vanno a scontrarsi con i
dettami della Chiesa.

Un approccio probabilista al principio dell'inviolabilità della vita dal suo inizio avrebbe potuto
condurre ad altre riflessioni, anche nella prospettiva del diritto canonico. Tutto l'ordinamento
canonico è fondato sul diritto divino, dunque sui principi giuridici contenuti nella Rivelazione e su
quelli trasmessi da Dio all'uomo in quanto creatura fatta a Sua immagine. Il diritto canonico offre ai
fedeli la Salvezza per la Vita Eterna.

Di conseguenza, come sancito dal canone 1752 del Codex iuris canonici del 1983. "La Salvezza delle
anime sia sempre la legge suprema della Chiesa". Papa Benedetto XVI ha d'altronde scritto nella
sua enciclica Caritas in Veritate: "La carità eccede la giustizia, perché amare è donare; ma non è
mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è 'suo' ". Il diritto canonico partecipa
alla verità dell'amore, indicando la giusta direzione per la salvezza delle anime.

Si può comunque obiettare che il diritto non sa amare, ma solo sanzionare. Tuttavia, il diritto
canonico sa riconoscere il valore infinito della persona, poiché senza questa consapevolezza
nessun atto d'amore è possibile. Il diritto canonico costituisce il corpo della Chiesa: è quell'insieme
di regole, di istituzioni e consuetudini vincolanti attraverso le quali la Chiesa diviene un corpo nella
vita terrena. Ma tale corpo risulta incomprensibile, se si prescinde dall'amore.
Se si creasse un diritto canonico costituito da consuetudine e conformismo otterremmo l'esatto
opposto del Trionfo di Cristo e del Regno dei Cieli. Il dono della vita è una questione di amore e
giustizia. Il desiderio legittimo di una donna di avere un figlio non deve fare mai dimenticare che la
vita è un dono. Medicalizzando la creazione si determina la nascita di una persona.

Non rendiamo allora giustizia alla dimensione triadica della famiglia la quale è alla base dell'amore
familiare. Così, se il desiderio della donna di avere un figlio deve essere ascoltato, l'interesse
primario resterà quello in quanto la sua innocenza merita la più alta delle protezioni. Il tema
dell'innocenza costituisce il cuore dell'enciclica Evangelium Vitae di papa Giovanni Paolo II; la vita è
concepita come un dono di Dio, e in quanto tale, è fuori dell'arbitrio della volontà umana.

Il concepito incarna una vita innocente ed inviolabile. In questa prospettiva il diritto a vivere non è
dunque riservato al bambino già nato, ma vale anche per l'embrione. L'esigenza di una protezione
della vita umana dal momento del concepimento è affermata nell'Istruzione Donum Vitae in questi
termini: "Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine". La tematica dell'innocenza
rifiuta una lettura biologica della vita e insiste sul senso intrinsecamente giusto della protezione del
concepito.

Si comprende allora come la diagnosi prenatale risulti lecita (secondo le due Istruzioni), ma
unicamente nella misura in cui è orientata alla salvaguardia o alla guarigione individuale
dell'embrione. È invece condannata quando conduce alla sua soppressione. L'assimilazione
dell'embrione a una persona, sin dai primi istanti della sua esistenza, è affermata con forza dalle
due Istruzioni.

L'allora Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, Monsignor Elio Sgreccia, ha sempre
adottato un approccio tuziorista al problema, riferendosi espressamente al brocardo in dubio pars
tutior eligenda est, per difendere con forza l'inviolabilità della vita umana.

Nel 2001 egli citava lo stesso brocardo in un articolo relativo all'illiceità morale delle manipolazioni
delle cellule staminali: "La vita umana nasce dal momento del concepimento, per cui attentare
all'integrità dell'embrione equivale ad assumersi la responsabilità di ledere gravemente ai diritti e
alla dignità di un essere umano; è necessario studiare questo argomento partendo da una regola
antica fondamentale ossia: in dubio pars tutior eligenda est".

Nel 2006, egli riprendeva questo argomento in un ulteriore articolo: "Il principio di precauzione,
introdotto nelle trattazioni sulle biotecnologie ha a che fare con il dubbio sull'eventuale rischio di
danno alla salute che una determinata tecnologia può comportare [...] Il tuziorismo, invece si
applica di fronte ad una situazione in cui, mentre si sta per compiere un atto distruttivo su un
obiettivo, insorge il dubbio di fatto se si tratti di un individuo umano o no. ". La sua analisi ci porta
all'esame del caso dei pre-zigoti 2n (c.d. ootide). Dal punto di vista medico, il concepimento è
l'unione del gamete maschile con quello femminile; si tratta però di una unione che avviene
gradualmente, per cui è lecito domandarsi quale sia il primo istante di vita dell'essere vivente.
La nuova vita nasce quando si forma quell'unica identità genetica chiamata zigote. Di conseguenza,
prima della fusione dei due patrimoni genetici siamo in grado di parlare già di vita umana?
Considerare la fase "zigote" come il primo momento di vita umana significa ammettere che, nel
lasso di tempo necessario perché avvenga tale fusione dei gameti (circa 30 ore), si possa
distruggere l'ootide e presumere di non aver disobbedito ad un divieto morale.

Elio Sgreccia si oppone a una tale concezione. A partire da un'interpretazione tuziorista del
brocardo in dubio pro vita, afferma: "Di fronte all'ootide c'è il forte dubbio che si tratti di un essere
umano, tuttavia, per me e per molti altri, ciò costituisce una certezza". Una simile interpretazione
non è tuttavia condivisa all'unanimità tra i teologi cattolici. Il cardinal Martini ha contestato tale
approccio rigorista in un articolo del 29 aprile 2006.

Egli ritiene che la nascita dello zigote sia il primo momento della vita umana; è inoltre favorevole a
un'ulteriore interpretazione del brocardo in dubio pro vita in tema di protezione della vita umana
dal momento dalla sua nascita. Bisogna dire che la sua posizione è conforme all'Istruzione Donum
Vitae, che su questo punto si apre al probabilismo: "Pertanto il frutto della generazione umana dal
primo momento della sua esistenza, e cioè a partire dal costituirsi dello zigote, esige il rispetto
incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità".

Il probabilismo si fonda su religione rivelata e ragione. È un insegnamento delle leggi divine e


umane alle quali dobbiamo conformare i nostri atti, se vogliamo perseguire la salvezza. Allo stesso
tempo, il probabilismo non lascia che il dubbio inibisca un'azione, ma propone di rimuovere il
dubbio attraverso un approccio fondato su ciò che appare come una soluzione morale probabile.

Il probabilismo fu formulato nel 1577 dal domenicano Barthélemy di Medina, il quale ritiene che in
presenza di un ventaglio di opinioni contraddittorie sia lecito e permesso scegliere l'opinione meno
probabile, poiché questa resta in ogni caso possibile, allorquando venga avallata dall'autorità di un
saggio. Medina insiste sul libero arbitrio dell'uomo e sul margine di errore possibile anche in una
lettura restrittiva dei testi sacri.

Si può scegliere una condotta non conforme alla legge, se è probabile che questa sia moralmente
accettabile e ciò anche laddove esistano argomenti plausibili in favore di una condotta alternativa.
Secondo Sant'Alfonso Maria de' Liguori, il probabilismo avrebbe il pregio di sapersi mantenere nel
giusto mezzo. Tra la legge e la libertà, converrà determinare quale dei due concetti "proceda" da
un a priori più favorevole.

In caso di dubbio, spetterà all'altra parte portare la prova e fornire un'altra certezza in suo favore.
Tutto ciò presuppone un notevole sforzo di riflessione e la capacità di ponderare ciascuno degli
elementi in gioco. Un esempio di rifiuto dell'approccio probabilistico si può notare nell'Istruzione
Dignitas Personae riguardo alla sorte degli embrioni congelati e in seguito abbandonati prima
dell'impianto in utero.
Essi non hanno più prospettive di vita. Prima o poi, la loro crioconservazione finirà per non
mantenerli più in vita. Escludendo la loro utilizzazione per scopi di ricerca biomedica, si può
almeno ragionevolmente proporre che possano essere dati in "adozione". Concretamente, ciò
significa che la donna, in una coppia sposata, possa richiedere l'impianto in utero di un embrione
congelato.

L'interesse iniziale alla conservazione della vita dell'embrione e la possibilità di vederlo crescere in
una famiglia appare conforme alla morale cristiana. Negli Stati Uniti d'America tale pratica è legale
e promossa da numerosi cristiani. Malgrado tutto ciò, l'Istruzione Dignitas Personae condanna tale
possibilità. La possibilità di adottare un embrione congelato è rifiutata in base alla logica tuziorista:
tale fattispecie è assimilata all'impianto in una madre surrogata, una pratica già condannata a suo
tempo dall'Istruzione Domum Vitae.

Si è voluto inoltre insistere sull'origine illecita della creazione dell'embrione congelato, che
impedirebbe l'accettazione morale del pianto in utero; tuttavia, si perde di vista il concetto di
innocenza dell'embrione. Da un punto di vista scientifico, la crioconservazione è una "tecnica
extra-ordinaria" mantenere in vita l'embrione. Tale espressione appartiene al contenuto del
Magistero ed indica una tecnica artificiale e sproporzionata rispetto al normale corso della natura,
allo scopo di mantenere in vita una persona.

Il Magistero accetta la sospensione del mezzo extra-ordinario. L'embrione è crioconservato per


poter mantenere la sua vitalità. Tanto la prosecuzione che la sospensione di tale tecnica porterà al
risultato di una morte inevitabile. Una cultura della vita non dovrebbe anzitutto prendere atto che
questi embrioni crioconservati giacciono in uno stato di attesa? E allora, non sarebbe il caso di
impiantarli per poter permettere loro di condurre la loro esistenza? Abbandonarli una seconda
volta al loro destino rifiutandone l'adozione da parte di coppie coniugate significa condannarli a
una lenta distruzione.

Si può disapprovare la pratica della crioconservazione degli embrioni, ma dal momento che
esistono, non trovare la strada giusta per finalizzare la loro vita significa negare loro la dignità. La
sorte degli embrioni congelati è una questione morale estremamente delicata. Si può rifiutare ogni
intervento, in particolare il loro utilizzo a fini di ricerca. La buona riuscita di una ricerca scientifica
non potrà mai giustificare il male che discende dall'uccisione degli embrioni.

Dal momento che la loro sorte è segnata dalle circostanze, possiamo accettare come un male
minore la loro utilizzazione per fini di ricerca? Per un duplice effetto, come quando si preferisce la
vita della madre a quella del figlio laddove il parto risulti difficile e metta a rischio la vita di uno dei
due, una scelta di questa portata assume sempre un connotato tragico.

Dovremmo accontentarci quindi dei principi, per determinare le nostre condotte morali
(tuziorismo) oppure dobbiamo adattarli, pre- servando le finalità dei principi medesimi
(probabilismo)? Sarà preferibile che la risposta venga data valutando caso per caso e a partire da
una situazione che ci spinga a compiere delle azioni concrete per preservare la vita.
Bisognerà anche pronunciarsi sulla sorte dell'embrione "agamico"; esso è il frutto di tecniche di
clonazione. La clonazione è un metodo di riproduzione asessuato che crea questo tipo di embrioni.
Ci domandiamo se sia da considerarsi o meno un'azione riprovevole il volerli utilizzare per fini
scientifici. L'intenzione è buona, ma in sé stessa non può giustificare un atto. L'oggetto di questa
azione riguarda ancora una volta degli embrioni destinati alla distruzione.

Gli embrioni agamici sono finalizzati alla creazione di una vita, anche se un tale metodo non esiste
in natura. Essi possiedono la stessa dignità degli embrioni congelati. La condanna del loro uso per
fini terapeutici o scientifici è dunque la migliore strada da percorrere? La situazione non è
certamente delle migliori. Il sacrificio della loro vita non è del tutto vano se ciò permetterà di
salvarne altre; quindi, un effetto negativo ne produrrà uno positivo soltanto nel secondo caso.

L'importante è fare attenzione a non produrre ancora embrioni congelati in eccesso e opporsi alla
creazione di embrioni agamici. Soltanto la creazione di embrioni per scopi esclusivamente
scientifici appare ai nostri occhi come qualcosa di completamente immorale a priori.
Esemplificando, si può rifiutare la creazione di un embrione selezionato geneticamente con il solo
scopo di curare un bambino già nato affetto da una malattia. Nell'ipotesi in cui l'embrione sia stato
congelato precedentemente alla nascita del bambino malato, la fattispecie è diversa.

Non si tratta in questo caso di un progetto di una nuova vita determinato dal bisogno di creare un
bambino farmaco. All'epoca in cui sono stati creati, questi embrioni eran finalizzati alla vita. La
differenza non è solo retorica, ma riguarda la coscienza e l'intenzione.

Ci possiamo interrogare sull'interdizione del Magistero riguardo alla scelta di procedere a una
diagnosi genetica prenatale o preimpianto. In entrambi i casi, la tecnica biomedica permette di
evitare problemi di salute. Il desiderio di avere un figlio in buona salute implica la distruzione degli
embrioni che darebbero luogo alla nascita di un bambino portatore di handicap. Non bisogna mai
perdere di vista il valore intrinseco di ogni vita umana.

È fuori discussione la possibilità di definire i portatori di malattia genetica come dei "fallimenti"
della natura e, per questa ragione, negare loro addirittura il proprio diritto alla vita. La questione
sulla portata dell'inviolabilità della vita innocente è in parte risolta se la si accetta come finalità
dell'agire umano; in altri termini, come un orizzonte di perfezione morale da raggiungere. Questa
visione si oppone ad un approccio rigorista che applica in modo verticale tale principio per tutti i
tipi di situazione.

Il Magistero non è entrato nel merito delle situazioni contingenti della vita umana. Ciononostante,
la rigidità delle sue conclusioni in tema di inviolabilità della vita umana dimentica la natura
fluttuante delle situazioni. Un tale rigore non viene sempre adottato in altre questioni relative
all'etica del divenire umano.
4.3. Il momento della morte

Nel definire la morte biologica dell'uomo, la Chiesa cattolica adotta il criterio della morte
cerebrale, che mostra un approccio probabilistico alla difesa della vita umana. Quello della morte
cerebrale è un criterio che si è affermato gradualmente nel mondo durante gli ultimi quarant’anni.
Precedentemente, il momento della morte si riteneva coincidesse con la cessazione irreversibile
del battito cardiaco e della respirazione.

Una delle ragioni che spiegano questo cambiamento è di carattere medico: la possibilità di
mantenere artificialmente la respirazione e l'attività cardiaca ha determinato che la definizione
medica di morte umana fosse ampliata. L'accertamento della morte sulla base di criteri cardiaci
non individua l'istante preciso della morte del corpo umano, la quale sopravviene in seguito alla
cessazione definitiva dei battiti cardiaci. Il criterio della morte cerebrale non comporta maggiore
certezza sull'istante della morte.

La cessazione irreversibile delle attività cerebrali risponde a diversi protocolli medici, ma bisogna
dire che nessuno di questi è in grado di determinare il momento esatto della morte; quello che è
possibile fare è soltanto una stima. Il criterio cardiorespiratorio prevede un'osservazione dei 20
minuti successivi alla cessazione delle attività cardiache e respiratorie prima di poterne decretare
l'irreversibilità. Al termine di questo controllo, la certezza di avere davanti a sé ormai solo un
cadavere non lascia spazio a nessun dubbio.

A poco a poco, le legislazioni del mondo hanno integrato tale criterio, per conoscere il momento in
cui certamente si sarebbe potuta dichiarare la morte di una persona. Perché? La risposta non va
cercata tanto nella necessità di affinare le conoscenze scientifiche sul momento preciso della
morte, ma è piuttosto di ordine pratico. Il mantenimento artificiale delle attività cardiache e
respiratorie permette di mantenere funzionanti gli organi vitali.

Essi possono essere prelevati e trapiantati, mentre ciò sarebbe impossibile con il mantenimento in
vigore del solo criterio cardiorespiratorio di accertamento della morte. La morte cerebrale dà
meno certezze sulla morte rispetto alla morte cardiaca. È evidente come gli organi in un cadavere
siano inutili. Al contrario, possiamo sia espiantarli che trapiantarli da un corpo tenuto
artificialmente in vita. Il vantaggio portato dal nuovo concetto di morte cerebrale è stato
sicuramente quello di permettere l'espianto di organi per i trapianti.

La donazione di essi post mortem permette di salvare altre vite umane. Tutto ciò fu accolto
positivamente da Giovanni Paolo II nella sua enciclica Evangelium Vitae in questi termini: "C'è
l'eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o grandi gesti di condivisione che alimentano un'autentica
cultura della vita. Tra questi gesti, merita particolare apprezzamento la donazione di organi
compiuta in forme eticamente accettabili ".

La morte cerebrale è prima di tutto una costruzione sociale che si fonda sulla probabilità di un
processo di morte per permettere ad altre persone di continuare a vivere grazie al trapianto di
organi. Non vi è dunque alcun determinismo in ciò: il tutto riposa su una valutazione medica
finalizzata alla donazione degli organi.
Nonostante la donazione di organi sia moralmente degna di lode, degli autori cattolici
rimproverano al criterio della morte cerebrale di essere una mera costatazione affrettata della
morte. Secondo loro, protocolli per l'accertamento della morte cerebrale non tengono conto
dell'attività svolta dal tronco encefalico. Inoltre, il metodo del "test di apnea" si rivela un metodo
che arreca gravi danni cerebrali.

Il paziente, una volta sottoposto a tale test, ha una probabilità di sopravvivenza purtroppo molto
bassa. Da questa prospettiva, la morte cerebrale sottrae al paziente una possibilità di continuare a
vivere e ciò risulta in netto contrasto con una applicazione rigorista della difesa della vita umana.
Oltre a questo, bisogna aggiungere che l'esame elettroencefalografico (EEG) non è sempre
richiesto, come ad esempio nel caso del Regno Unito.

Inoltre, è oggi scientificamente dimostrato che una residuale attività elettroencefalografica possa
durare circa 168 ore dopo la diagnosi di morte cerebrale. Da un punto di vista epistemologico,
bisogna tener presente che ciò che appariva come "irreversibile" qualche tempo fa, attualmente
non lo è più Bisogna dunque convenire, come R.D. Ruog, che “la sfida più ardua da superare per il
concetto di 'morte cerebrale' è quella di rafforzare l'idea che a volte uccidere possa risultare una
necessità giustificata dal bisogno di avere organi da trapiantare"

La morte cerebrale, nonostante le imprecisioni riguardanti la diagnosi medica, è una stima


probabilistica sul momento del decesso che consente di salvare altre vite. Questo criterio è
accreditato dalla maggior parte delle legislazioni occidentali e del Medio Oriente. Tuttavia, il
dubbio resta in Paesi orientali come il Giappone, in cui il trapianto di organi non si concilia con la
tradizione buddista della reincarnazione dei corpi.

La Città del Vaticano non ha paradossalmente riconosciuto il criterio di morte cerebrale nel suo
ordinamento giuridico interno, preoccupandosi evidentemente di garantire una rigorosa
protezione della vita umana. Riscontriamo un'oscillazione tra probabilismo e tuziorismo. Oltretutto
la definizione di morte cerebrale alimenta l'idea che la vita umana possa coincidere con l'attività
cerebrale.

Questa concezione determina una visione biologica encefalocentrica del pensiero, della coscienza
e perfino dell'anima dell'essere umano. La discussione sul criterio della natura morte cerebrale
assume di conseguenza un connotato filosofico. Secondo il filosofo cattolico Robert Spaemann, “vi
è un'ampia possibilità che l'anima continui a vivere in un corpo che ha un cervello ormai
danneggiato”.

In un articolo pubblicato su L'Osservatore Romano il 3 settembre 2008, Lucetta Scaraffia ha


rilanciato il dibattito sulla validità del concetto di morte cerebrale per la Chiesa cattolica. La storica
richiama le tesi di Hans Jonas, il quale fu ostile sin dal principio al criterio stesso. Un'ulteriore
tensione si profila tra l'approccio tuziorista e quello probabilista in tema di eutanasia ed
accanimento terapeutico.
Il Magistero ha condannato senza indugio qualsiasi forma di eutanasia, definita da Giovanni Paolo
II come "uno dei sintomi più allarmanti della cultura di morte', che avanza soprattutto nelle società
del benessere ". Tuttavia, sottolinea Giovanni Paolo II, quando "la morte appaia imminente ed
inevitabile" è moralmente legittimo sospendere le cure mediche.

Da qui, la condanna dell'accanimento terapeutico che si fonda su due criteri: da un lato


l'imminenza e dall'altro l'inevitabilità della morte. Questi sono criteri molto complessi da verificare
nel concreto in ambito medico. In lingua inglese si può tradurre l'espressione "accanimento
terapeutico" con futile cares ed è impossibile per la medicina individuare a priori e con certezza il
momento in cui le cure diventano superflue; possiamo al più dirlo con un certo grado di
probabilità.

Per quanto riguarda lo stato vegetativo (detto) permanente, la posizione della Chiesa cattolica
attesta ancora una volta quanto sia delicata la determinazione delle giuste precauzioni da prendere
a difesa della vita umana. Il Magistero sostiene che un paziente in stato vegetativo permanente
resta sempre una persona con la sua dignità umana fondamentale, alla quale devono essere rivolte
le cure ordinarie e proporzionate al suo stato di salute. Al contrario, la Chiesa cattolica sembra non
opporsi all'eventualità di una persona gravemente malata, tuttavia ancora cosciente, che rifiuti la
somministrazione di acqua e cibo, seppur con elevato rischio di decesso.

4.4. Pluralismo culturale e obiezione di coscienza


Come dovrebbe schierarsi la Chiesa anche di fronte alle legislazioni che consentono la clonazione
per scopi terapeutici, la diagnosi genetica preimpianto o la ricerca sul- le cellule staminali? Queste
leggi, giudicate ingiuste da parte della Chiesa, vanno criticate e combattute apertamente o sarebbe
meglio affidarsi alla sola obiezione di coscienza?

L'enciclica Evangelum Vitae insiste sulla "necessaria conformità della legge civile a quella morale"
riguardo alla protezione della vita, rifiutando come intrinsecamente ingiuste tutte quelle leggi che
disconoscano il diritto fondamentale ed originario alla vita.

La legge ingiusta non obbliga in coscienza, in quanto “si pone in contraddizione con l'ordine morale
e con la retta ragione”. Il diritto all'obiezione di coscienza può tuttavia non essere riconosciuto dal
diritto positivo e opporsi ad esso diviene un atto di disobbedienza civile. La Chiesa cattolica
conferisce a tale disobbedienza una dimensione pubblica che non appartiene alla sfera individuale.

Si deve sempre rispettare l'ordine pubblico. Non si deve mai evadere una parte dell'imposta con la
giustificazione che essa contribuisce alle spese mediche necessarie per l'aborto. Tuttavia, la
disobbedienza alla legge ingiusta deve avvenire in modo pacifico al fine di non degenerare in una
rivolta contro le istituzioni.
Secondo la dottrina della Chiesa cattolica, tutte le norme che non riconoscano importanza alla
protezione della vita, dovranno essere contrastate tenendo conto del quadro politico del Paese. Ad
ogni modo, si tratta di una situazione molto delicata ed è consigliabile agire con prudenza.
Soprattutto, possiamo trovarci in difficoltà quando l'ingiustizia della legge non sia pienamente
evidente.

La giustizia valorizza la finalità di ricerca nei rapporti sociali, ma è al contempo vero che tale ricerca
non potrà essere effettuata a discapito del valore supremo che è la difesa della vita. Sulla scia di
Pascal, il relativismo storico, attraverso un'analisi antropologica, mostra che ciò che è vero al di qua
dei Pirenei, è falso al di là. È comunque auspicabile che queste varianti culturali fondate sulle
tradizioni storiche, non finiscano per illuderci.

Come ha scritto perfettamente Michel Henry, non possiamo accettare "questo sentimento di
drammatica impotenza che ogni uomo colto prova al giorno d'oggi dinanzi ai fatti". Dire no
all'ingiustizia, significa rifiutare le manifestazioni culturali che attentano la vita. La difesa della vita
è un atto di cultura non assimilabile ad una convenzione. La vita è un valore oggettivo. Connotare
la cultura di un valore convenzionale rappresenta un pericolo.

Decretare l'uguaglianza di tutte le culture, come fece C. Levi Strauss, equivale a privarle di qualsiasi
fondamento oggettivo. Dovremo allora cedere al "culturalismo", il quale viene sostenuto da
Samuel Huntington", al fine di affermare la peculiarità della cultura occidentale. Questa peculiarità
può essere condivisa, ma in tale prospettiva è chiaro che essa perde ogni valore oggettivo. La
cultura non si riduce a mera convenzione, così come la difesa della vita non è da considerarsi una
semplice questione di opinioni.

La «razionalizzazione diffusa» (la durchrationalisierung di Max Weber) delle autorità non significa
certo che va bene tutto; come affermano i sociologi americani e i fautori del relativismo valoriale.
La difesa della vita non è solamente un insegnamento della Chiesa cattolica, perché possiede
anche un significato antropologico. Il suo insegnamento è un contributo prezioso per la difesa di un
approccio pluralistico della cultura contemporanea, senza tuttavia sacrificare un'unità finale.

L'insegnamento della Chiesa cattolica non deve intendersi unicamente come un ordine
proveniente dall'alto ma deve tener conto adeguatamente dell'esperienza chi è malato o di chi
soffre. Lebouché propone un ripensamento della recezione del Magistero: il suo intento è quello di
dare maggiore spazio alla dimensione ministeriale, che riveste un ruolo di mediazione. Lo stesso
Magistero non dovrà cedere all'accattivante richiamo della “cultura della morte”. Tuttavia,
l'applicazione dei principi del Magistero deve necessariamente essere mediata da una morale
pastorale che tenga conto delle diverse situazioni in cui versa ciascun essere umano.
EPILOGO

Il divenire umano risponde al progressivo ordine della vita. Ciascun individuo si presenta
essenzialmente in diversi livelli di sviluppo. L'individuo è quindi un uomo, per un rapporto di
analogia che costituisce la sua appartenenza all'Umanità. L'uomo si colloca nell'ordine graduale
della natura. Tuttavia, la sua natura non può essere conosciuta soltanto attraverso un'analogia
scientifica con gli altri esseri viventi. Le caratteristiche essenziali degli esseri viventi non devono
celare l'essenza propria dell'essere umano.

I buoni comportamenti, così come anche quelli cattivi, appartengono in maniera strutturale
all'uomo. Anche le azioni malvagie appartengono all'uomo, anche se vanno contro la sua natura e
la sua essenza. Il comportamento degli animali rimane ad un livello primitivo naturale. La stessa
natura umana raggiunge un alto livello di ragione, il cui fine è il compimento di una vita fondata
sulla bontà morale: un'etica del suo divenire umano.

L'uomo è dunque in grado di concepire la vita solo quando riesce ad apprezzarla, perché pensare è
ringraziare. Egli benedice il dono della vita, poiché egli soltanto è animato da un pensiero sulla
morte. Heidegger utilizza un gioco di parole, denken ist danken (pensare è ringraziare), per
evidenziare che "saper ringraziare" vuole dire “essere in grado di pensare"; quindi "dire grazie"
significa aver la consapevolezza di aver ricevuto un dono. Riflettere sulla vita e proprio della natura
umana. Al contrario, gli animali non ringraziano, non sono in grado di pensare la vita.

Senza consapevolezza del dono ricevuto, non possiedono una coscienza per poter riflettere
neanche sulla morte; per questa ragione sono detti “poveri di mondo", weltram, secondo
Heidegger. Certamente gli animali non sono privi di mondo ma sono prigionieri del loro ambiente;
essi vivono senza essere in grado di sviluppare la fantasia, la bontà o la creatività, qualità che la
dimensione umana possiede.

L'adeguamento tra l’uomo e il suo il milieu ambientale non costituisce un semplice gioco di
interazioni, piuttosto racchiude una profonda riflessione sul divenire umano. Il divenire umano è la
consapevolezza del dono della vita e del cammino che ogni vita umana (gradualmente) deve
compiere. Il determinismo dei comportamenti istintivi ed acquisiti si ferma all'esistenza biologica;
per contro, l'uomo è consapevole della propria finitudine: più che sulla padronanza e sull'utilizzo
del linguaggio, l'uomo proietta il suo divenire umano al di là della morte per continuare a vivere.

Solo l'uomo è in grado di concepire la vita dopo la morte in termini di cultura e di speranza. Tale
aspettativa attribuisce all'uomo uno spazio simbolico che gli e proprio. Oggi, la scienza tende a
medicalizzare la morte, promette di ritardare il più possibile l'attimo fatale, perdendo così di vista il
reale valore simbolico della morte.

La decostruzione clinica della morte, che pretende che non si muoia più, ma che si muoia soltanto
per qualche causa, porta ad una visione meccanicistica della vita. La morte è oggi allontanata dalla
vita, nessuno vuole più sentir parlare della sua ineluttabilità. La morte non è più insita nella vita.
Ancorata alla biologia, la morte offre un'analisi materiale della vita, che ha come risultato
l'impoverimento del nostro mondo culturale.
L'unico nostro interesse diviene perciò quello di vivere appieno la nostra vita terrena. Il pensiero è
ridotto ad una mera rappresentazione informativa neuronale, il cervello detiene ormai il controllo
della vita, così come viene mostrato dal concetto di morte cerebrale. La "biologizzazione" della
cultura e la “medicalizzazione” della vita sono già in essere.

La fragilità della vita atterrisce i nostri animi. Ogni impresa tecno scientifica ha il solo scopo di far
dimenticare la morte, poiché non si è trovato un modo per evitarla del tutto. La salute è la nuova
salvezza e la speranza di una vita sana ha rimpiazzato la speranza di una buona vita. Il potere sulla
salute, il “biopotere” secondo la celebre espressione di Michel Foucault, si basa sul controllo
statale della salute nella sua funzione di guardiano statale di ciò che è buono per la salute di
ognuno.

Questa situazione si afferma durante la Seconda Guerra Mondiale. Il volto buono del biopotere si
mostra in Inghilterra attraverso l'assicurazione sociale (Plan Beveridge, 1942), quello cattivo si
mostra in Germania con la soluzione finale (conferenza di Wannsee, 1942). Queste due espressioni
del biopotere hanno in comune il fatto di aggiungere una seconda funzione allo Stato; oltre a
quella di mantenere la sicurezza politica, lo Stato deve poter offrire anche una sicurezza sanitaria ai
suoi cittadini.

Il dono della vita è ovviamente inesistente in queste due ipotesi. Si tratta evidentemente di una
disquisizione secolarizzata. Tuttavia, come afferma Foucault, in entrambi i casi si tratta di garantire
la sicurezza e la salute a tutti gli esseri umani. L’aberrante progetto di sterminio degli ebrei ad
opera del nazismo è giustificato da un ragionamento biologico che sembra predisposto da
allevatori di bestiame.

La decostruzione clinica della morte pone l'uomo in un divenire spaccato, in un "frazionamento"


biologico di sé stesso. La medicalizzazione della vita, di conseguenza, fa travisare il senso del
termine stesso "vita" il quale, in una prospettiva escatologica, sembra dover prendere
consapevolezza della sua finitezza. La morte biologica deve essere soppressa, ed i bioprofeti
annunciano che ciò sarà possibile solo grazie ad una clonazione post mortem.

Essi ritengono che il nostro pensiero ben presto solo l'archiviazione delle nostre passate emozioni e
questi "dati" potranno essere raccolti in un computer nell'attesa della resurrezione medicale di
tutti i corpi crioconservati. Esso snatura l'uomo ponendolo in una dimensione di povero di mondo
come accade per gli animali e reifica i nostri corpi attraverso l'uso della tecnica.

Il disgusto per la morte è comprensibile, ma solo la consapevolezza di essa offre all'uomo il senso
della vita e dell'amore. Le inquietudini esistenziali ed il succedersi di dispiaceri che attraversano le
nostre vite non troveranno certo una soluzione nei sogni dei bioprofeti. L'illusione biotecnologica si
approfitta di noi, addormentando i nostri spiriti. Per il cristiano, la resurrezione è una convinzione,
una fede nell'amore di Dio che tornerà per giudicare buoni e cattivi. Nella parusia dei bioprofeti ad
ogni modo non c'è nulla di buono o cattivo in sé, ma conta solo l'amor proprio ed il fatto di
sopravvivere. Da ciò si evince che il loro migliore mondo possibile, sarà povero di mondo.

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