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ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE

Email: gianluca.vagnani@uniroma1.it

Libro: L’impresa, fondamenti e profili economico-finanziari

CAP.1: L’IMPRESA
L’impresa è definita come l’istituzione economica organizzata ai fini della produzione e dello scambio di beni, che
vive e affonda le sue radici nei sistemi capitalistici, in quelli socialisti e comunisti infatti tutto è svolto dallo Stato.
All’interno dell’impresa ci sono i fattori produttivi organizzati e collegati tra loro: costi e ricavi si realizzano attraverso
lo scambio di beni e servizi, strumentale alla realizzazione dell’equilibrio economico, che si ha quando i ricavi
superano i costi, e dell’equilibrio finanziario, che si ha quando le entrate uguagliano le uscite.

Tra i 4 concetti chiave abbiamo:

• CONTESTO: comprende un insieme di elementi strutturali che qualificano la cornice entro la quale si svolge
l’azione dell’impresa. Esso può essere interno o esterno: quello interno comprende l’insieme dei fattori
umani, tecnici e finanziari che rientrano nella disponibilità dell’impresa, quello esterno comprende
l’ambiente generale; inoltre, nel considerare il contesto interno, l’attenzione è riservata alla singola impresa,
mentre in quello esterno, l’attenzione è riservata ad aggregati di imprese;
• DECISIONI: comprendono scelte di natura strategica, tattica e operativa;
• CONFINE: separa le combinazioni produttive che rientrano nella disponibilità dell’impresa dalle
combinazioni che rientrano nella disponibilità di altre entità. Esso varia nel tempo e nello spazio in funzione
di diversi aspetti, quali l’efficienza economica, il potere di mercato e l’innovazione;
• RISULTATI: esprimono gli esiti dell’attività dell’impresa in un arco temporale definito.

Esistono varie relazioni tra i quattro concetti, ad esempio da un lato, il contesto può influenzare la relazione tra
decisioni e risultati di impresa, da un altro lato, il contesto può spingere l’impresa ad attuare determinate decisioni e
da un altro lato ancora, l’impresa può, attraverso decisioni strategiche e tattiche, modificare anche i contesti interno
ed esterno e migliorare i propri risultati; questi ultimi possono poi influenzare le decisioni e il contesto.
Nelle imprese decisioni, contesto, confine e risultati sono interdipendenti tra loro non solo nella dimensione
sincronica (in un determinato periodo), ma anche in quella diacronica (al variare del tempo); inoltre, sono anche
influenzati dalle prospettive future.

Il processo di produzione e di consumo

▪ BISOGNO: sensazione che deriva o da uno stato di insoddisfazione avvertito dell’uomo o da uno stato di
soddisfazione che l’individuo vuole mantenere → si collega al DESIDERIO, da cui però si distingue, infatti il
desiderio è definito come l’attitudine dell’individuo verso un oggetto: per un individuo è possibile desiderare
ciò di cui non si ha bisogno e si può avere bisogno di qualcosa che non si desidera → un bisogno può essere
soddisfatto con i beni;
▪ BENE ECONOMICO: se ha tre aspetti: è idoneo a soddisfare i bisogni, è accessibile in condizioni normali ed è
scarso, cioè è disponibile in misura inferiore rispetto alle esigenze degli individui (l’aria non è un bene
economico perché è disponibile in maniera illimitata).
Distinguiamo beni di consumo (destinati ad appagare direttamente i bisogni umani) e beni capitale (che sono
strumentali alla produzione di altri beni – latte per produrre il gelato), beni materiali (dotati di una propria
tangibilità) e beni immateriali (in cui la dimensione reale è sostanzialmente assente, come i servizi che hanno lo
scopo di variare nel tempo e nello spazio da una dimensione all’altra).

Il concetto di bene economico si collega a quello di “atto economico”.


ATTO ECONOMICO: comprende le scelte che un soggetto pone in essere, liberamente e senza costrizioni per
soddisfare i bisogni umani con il criterio del minimo mezzo, che implica il minimo impiego di risorse per
l’individuo e l’assenza di sprechi.
Gli atti economici si distinguono in:
ATTO DI CONSUMO: insieme di azioni volte ad utilizzare i beni economici per appagare immediatamente i
bisogni. Possiamo distinguere:
• Beni di consumo immediato: la cui utilità si esaurisce in un solo atto di utilizzo (panino);
• Beni di consumo durevole: la cui utilità si esaurisce in più atti di utilizzo (moto);
• Beni succedanei: si possono sostituire (burro e margarina);
• Beni complementari: si possono utilizzare congiuntamente (moto e benzina);
• Beni indipendenti: si possono utilizzare indipendentemente l’uno dall’altro (auto e vestito);
ATTI DI PRODUZIONE: insieme di attività attraverso cui i beni economici, combinati in maniera voluta,
subiscono una trasformazione di stato (trasformazione di input in output), di luogo (un bene originariamente
disponibile in un luogo è reso disponibile in un altro luogo) o di tempo (un bene disponibile in un certo tempo
è reso tale in un periodo successivo – merci che rimangono in magazzino).
➢ FATTORI A FECONDITA’ SEMPLICE: la loro utilità si esaurisce in un solo atto di produzione (materie prime,
semilavorati e componenti):
• Materie prime: beni economici destinati ad essere trasformati;
• Semilavorati: beni economici che hanno già subito una prima trasformazione;
• Componenti: beni economici che hanno già subito una prima trasformazione e si prestano ad essere
assemblati con altri beni (schermo del telefono e telefono);
➢ FATTORI A FECONDITA’ RIPETUTA: la loro utilità si esaurisce in più atti di produzione (beni strumentali o capitali).
In base al momento nel quale sono considerati, i fattori della produzione possono essere:
- GRANDEZZE FONDO: consistono in valori riferiti a un momento dato;
- GRANDEZZE FLUSSO: sono determinate dalle diverse combinazioni di fattori produttivi operate
nell'azienda e misurate in un intervallo di tempo.

In riferimento alle combinazioni produttive, in cui vengono impiegati i fattori della produzione, distinguiamo:
COMBINANZIONI A CONTENUTO RICORRENTE: finalizzate a produrre un determinato bene economico;
COMBINAZIONI A CONTENUTO INNOVATIVO: finalizzate a generare nuovi beni economici.
Tuttavia, nel caso di combinazioni produttive, si crea il cosiddetto “DILEMMA DELL’INNOVAZIONE” → l’impiego di
fattori in combinazioni innovative comporta l’impossibilità di utilizzare gli stessi fattori in combinazioni ricorrenti.
Il processo di scambio
SCAMBIO → processo nel quale una parte assume, in piena libertà, l’impegno a trasferire un bene economico da lui
posseduto ad un’altra parte; quest’ultima si impegna, a sua volta, a rendere all’altra parte un corrispettivo.
Gli elementi essenziali dello scambio sono: le parti, l’oggetto e il contenuto.
PARTI: soggetti che partecipano allo scambio, con i loro interessi, aspettative e comportamenti attesi ed
effettivi. I soggetti sono il venditore e l’acquirente, che esprimono interessi contrapposti e antagonistici.
Il venditore sarà interessato a ottenere dalla controparte un corrispettivo elevato, mentre il compratore vorrà
corrispondere al venditore un prezzo basso;
OGGETTO: cambiamento di situazione che lo scambio determina. L’oggetto dello scambio può riguardare: la
cessione di beni di consumo, la compravendita di fattori della produzione a fecondità semplice e ripetuta, la
prestazione di un servizio ecc;
CONTENUTO: insieme di facoltà e di obblighi, cioè il complesso dei comportamenti che derivano dallo scambio.
Il contenuto si collega alla sua struttura contrattuale, che si distingue in:
• contratti-tipo, definiti sula base della regolamentazione vigente, in cui le clausole sono già date,
quindi si possono accettare o rifiutare, non modificare;
• standard negoziali, di natura sia regolamentare che non-regolamentare, che definiscono le
caratteristiche essenziali e di pregio dei beni oggetto di scambio.
Lo scambio può riguardare beni economici contro beni economici (baratto) oppure beni contro moneta (economia
monetaria):
BARATTO: sebbene rappresenti una delle prime forme di scambio, rende più difficile la conclusione degli
scambi stessi perché è richiesta la doppia-coincidenza dei bisogni (due parti devono essere presenti nello
stesso luogo e nello stesso istante temporale ed esprimere, allo stesso tempo, bisogni speculari).
ECONOMIA MONETARIA: la moneta è un bene con funzione di unità di conto, che presenta due
caratteristiche: non ha valore intrinseco e la sua accettazione da parte degli individui è su base fiduciaria.
L’introduzione della moneta favorisce non solo la formazione di transazioni reali, ma anche di transazioni
finanziarie, nelle quali le prestazioni e le controprestazioni sono rappresentate da attività monetarie o
finanziarie. Alle categorie di acquirente e venditore si affiancano quelle di debitore e creditore.
Tra i concetti inerenti allo scambio abbiamo:
• Valore d’uso: valore che un individuo assegna al consumo di un bene;
• Valore di scambio: quantità fisica che bisogna cedere di una merce per avere una unità di un’altra merce;
• Prezzo: valore di scambio di un bene economico nel caso di utilizzo della moneta;
• Valore percepito: massimo prezzo che il cliente è disponibile a pagare per acquistare un’unità del prodotto o
servizio offerto dall’impresa;
• Costo opportunità: prezzo minimo al quale un fornitore è disposto a cedere un’unità del prodotto offerto
dall’impresa (costo sostenuto dal venditore del bene).
C’è una relazione tra loro:
• se costo opportunità > valore percepito, allora non conviene realizzare uno scambio (es. impresa paga €20 il bene,
ma il cliente è disposto a pagare un valore massimo di €15);
• se valore d’uso > costo, allora conviene produrre un bene (es. per un consumatore un certo bene vale €10 e quel
bene costa €8, allora all’impresa conviene produrre il bene);
• se valore d’uso > valore di scambio, allora un individuo ha convenienza a consumare un bene (es. per un consumatore
un certo bene vale €10 e il suo prezzo è di €8, allora un individuo ha convenienza ad acquistare il bene).
Uno scambio potrà effettivamente concludersi solo quando il valore di scambio (o prezzo) sia contemporaneamente
inferiore al valore percepito da parte del cliente e superiore al costo opportunità sostenuto dal venditore (es. se il
prezzo di un bene è €10, il massimo valore che il cliente è disposto a pagare è €15 e il costo che il venditore sostiene
per quel bene è €8, allora lo scambio potrà concludersi). Un soggetto è disposto a scambiare un bene se e solo se
l’utilità marginale del bene ricevuto in cambio (valore percepito) sia, per lui, superiore all’utilità marginale del bene
scambiato (valore di scambio o prezzo). In un’economia senza scambi il valore d’uso è maggiore del costo.

I mercati

Il processo di scambio favorisce la divisione del lavoro e la specializzazione, che comportano però problemi di
coordinamento. I mercati rappresentano un meccanismo per risolvere il problema in questione, mettendo in
relazione domanda e offerta attraverso il MECCANISMO DEI PREZZI (se offerta > domanda, allora i prezzi si
abbassano finché offerta = domanda, se invece domanda > offerta, allora i prezzi aumentano finché domanda =
offerta). Secondo Zappa, i mercati sono “un insieme complesso di negoziazioni attuate, secondo ordinamenti definiti
e secondo consuetudini generalmente accolti dai diversi operatori”, dunque luoghi astratti dove si realizzano gli
scambi di merce in modalità organizzata. Nel Medioevo, il mercato era rappresentato da uno spazio fisico, nel quale
erano esposti i beni economici (piazza). Oggi siamo in presenza di un mercato anche quando le parti sono localizzate
in aree geografiche diverse e, nonostante questo, riescono a negoziare, cioè a concludere transazioni. Il mercato in
un sistema capitalista individua un gruppo di persone che sono in intime relazioni di affari e negoziano qualsiasi
merce. Distinguiamo vari tipi di mercato, tra cui i mercati dei capitali (monetari e finanziari), del lavoro, delle materie
prime etc… tutti con un tratto in comune: costi addizionali rispetto a quelli di produzione, chiamati costi di
transazione (ammontare dei fattori elementari della produzione che sono impiegati sia per la stipula dei contratti a
base degli scambi, sia per la ricerca delle informazioni necessarie per assumere a monte le decisioni di acquisto dei
fattori della produzione). I prezzi sono definiti come l’equivalente monetario di un bene che serve a compensare i
costi di transazione: essi svolgono un ruolo informativo, indicando il sacrificio da sostenere per acquistare il bene, e
un ruolo di coordinamento, contribuendo a coordinare le decisioni e le azioni individuali.
I mercati facilitano la riallocazione dei fattori della produzione e operano una selezione competitiva, favorendo le
imprese che offrono il bene a costi unitari medi di produzione inferiori al prezzo. Per operare in un mercato
concorrenziale bisogna avere razionalità economica (criterio del minimo mezzo), in particolare i soggetti i cui costi
unitari < prezzo di vendita tendono a generare surplus, mentre se i costi unitari > prezzo di vendita, i soggetti
tendono a generare deficit.

Le differenze tra impresa e mercato


Nelle moderne società capitalistiche l’allocazione delle risorse è coordinata non solo attraverso i mercati, ma anche
mediante le imprese. Il primo aspetto principale che differenzia l’impresa dal mercato è il concetto di “autorità”,
cioè la capacità di un soggetto (datore di lavoro) di comandare le attività che un altro soggetto (lavoratore) deve
realizzare. Strettamente legato al concetto di autorità, è il concetto di legittimità del potere del datore di lavoro, sul
quale si fonda la disponibilità del lavoratore ad accettare i comandi emessi dal datore di lavoro nei suoi confronti.
Nell’impresa, quindi, il lavoratore decide di sacrificare, in parte, la propria individualità associandosi ad un altro
soggetto, dunque, i mercati lasciano posto alle imprese quando il coordinamento delle attività economiche viene
svolto attraverso l’autorità piuttosto che mediante il sistema dei prezzi. Il secondo aspetto che differenzia l’impresa
dal mercato riguarda i “rapporti tra gli individui”, che nell’impresa, sono spesso di lungo termine mentre, nel
mercato, sono di breve termine. Altri aspetti sono l’organizzazione dei fattori della produzione, nella quale due o
più individui entrano in relazione tra loro e con gli altri fattori della produzione, l’entità giuridica, che è intestataria
dei fattori della produzione e dei rapporti contrattuali che ne discendono e il soggetto economico, cioè un organo di
governo che indirizza, guida e coordina la dinamica evolutiva dell’impresa (discrezionalità manageriale).

Le teorie sull’impresa
Le teorie sull’impresa sono:
• TEORIA DELLE QUASI-RENDITE: l’impresa è necessaria per coordinare atti economici nei quali sono presenti
condizioni di quasi rendita. La presenza di quasi-rendite crea condizioni di conflittualità tra gli individui, che
potrebbero appropriarsi di tali rendite attraverso la negoziazione (es. chiedendo condizioni di pagamento
migliori o chiedendo maggiori sconti sui beni acquistati). Al crescere dei conflitti, si ampliano i costi connessi
all’uso del mercato, i quali possono essere ridotti sostituendo il mercato con l’impresa;
• TEORIA DELL’ADATTAMENTO: l’impresa è necessaria per coordinare atti economici nei quali sono presenti
condizioni di incertezza. Quando gli esiti delle combinazioni produttive sono incerti, la ricerca della
controparte negoziale diviene più difficoltosa e l’incertezza accresce i costi connessi all’uso del mercato che
possono essere ridotti sostituendo il mercato con l’impresa;
• TEORIA DEI COSTI DI TRANSAZIONE: considera mercati e imprese come due meccanismi sostitutivi degli atti
economici. Se i costi di transazione sono maggiori dei costi di coordinamento, gli atti economici saranno svolti
internamente dall’impresa, se i costi di transazione sono minori dei costi di coordinamento, gli atti economici
saranno svolti esternamente dal mercato.
L’azienda
Come stabilito dall’art. 2555 c.c., “l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio
d’impresa”. Gli aspetti principali dell’azienda sono:
• il fatto che i fattori della produzione possono assumere carattere tecnico, umano o finanziario;
• l’organizzazione dei fattori della produzione, ovvero la presenza di regole di coordinamento e di orientamento
comune;
• la direzione unitaria dei fattori della produzione da parte di un unico organo di governo (imprenditore).
Il complesso dei beni organizzato dall’imprenditore non è frutto di un prodotto naturale, ma è il portato di decisioni di
governo (è frutto di un’azione umana, poiché è l’individuo che organizza i fattori della produzione).
Il concetto di azienda come centro di produzione organizzato, sistematico e destinato a perdurare nel tempo che
deve produrre beni e servizi, si distingue da quello di impresa, con a capo l’imprenditore, che, come stabilito dall’art.
2082 c.c., “è colui che svolge professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o servizi”. Il concetto di attività economica qui sottende, da un lato, il carattere persistente e
duraturo dell’impresa e, dall’altro, i concetti di scambio, capitale e reddito.
Il capitale è una grandezza fondo riferita ad un complesso di fattori rientrante nella disponibilità dell’impresa e si
distingue in capitale investito netto, pari al totale dell’attivo al netto dei fondi di rettifica, delle disponibilità liquide,
delle attività finanziarie a breve termine e dei debiti commerciali, e un capitale di funzionamento o capitale puro,
cioè il capitale netto determinato alla fine di ciascun esercizio; il reddito, invece, è una grandezza flusso che si
ottiene sottraendo i costi dai ricavi. Capitale e reddito sono intimamente connessi nell’economia dell’impresa, infatti
il flusso di reddito registrato in un periodo coincide con la variazione del capitale netto rilevata tra la fine e l’inizio del
periodo considerato per effetto della gestione, in questo senso “il capitale appare come un fondo dal quale il reddito
fluisce ed al quale il reddito periodicamente può aggiungersi”, dice Zappa. Il capitale concorre alla produzione del
reddito e, allo stesso tempo, quest’ultimo è il presupposto per la formazione del capitale. L’essenza dell’impresa sta,
dunque, nell’impiego di un capitale al fine di conseguire un reddito, attraverso la ricerca di una massima convenienza
nella soddisfazione dei bisogni del cliente, convenienza che si collega a prezzi di vendita atti a coprire i costi unitari di
produzione, consentendo un margine congruo per la remunerazione del capitale investito. Ultima osservazione:
l’impresa implica l’azienda, ovvero un’organizzazione economica dei fattori della produzione, ma non si esaurisce in
essa.

La differenza tra impresa e organizzazione


Tutte le imprese sono organizzazioni, ma non tutte le organizzazioni sono imprese.
• ORGANIZZAZIONE: si qualifica, in generale, per la presenza di uno scopo condiviso ed è dotata di un insieme
di fattori umani, tecnici e finanziari (es. circolo culturale, chiesa, ente militare);
• IMPRESA: si distingue dalle altre organizzazioni in quanto una parte del reddito prodotto è distribuita a
soggetti diversi (imprenditore, socio o azionista) da quelli che hanno contribuito con i propri flussi di servizio
ad alimentare i processi di produzione (lavoratori, fornitori, finanziatori ecc.);
• ORGANIZZAZIONI PUBBLICHE: organizzazioni in cui la produzione di beni economici rappresenta il fine e non
lo strumento per il conseguimento del reddito;
• IMPRESE PUBBLICHE: imprese in cui gli enti pubblici hanno conferito in tutto o in parte il capitale sociale. In
queste imprese si parla di “onere improprio” (reddito prevedibile - reddito normale), cioè un costo che lo Stato
deve sopportare se vuole conseguire il fine politico attribuito ad un particolare tipo di investimento.
Le rendite nell’economia dell’impresa
Possiamo distinguere varie rendite di cui l’impresa può appropriarsi:
RENDITE MONOPOLISTICHE: si originano quando il potere di mercato esclude la concorrenza del mercato in
cui l’impresa opera (es. monopolio naturale);
RENDITE RICHARDIANE: si ottengono facendo la differenza tra ricavi e costi (surplus) associati all’utilizzo di un
determinato fattore produttivo (es. impresa che dispone di una tecnologia innovativa che permette la
produzione di orologi a costi unitari minori rispetto a quelli del concorrente);
RENDITE MARSHALLIANE: si ottengono facendo la differenza tra il surplus ottenibile dall’impiego dei fattori
della produzione e il surplus ottenibile in impieghi alternativi;
RENDITE IMPRENDITORIALI: si riferiscono alle combinazioni innovative e si originano in presenza di una
differenza tra il valore-ricavo ex post e il valore-costo ex ante di una combinazione produttiva.

La produzione di rendite è necessaria, ma non è sufficiente, per la formazione del reddito d’impresa.

L’impresa artigiana

Fu la prima forma d’impresa ed è incentrata sulla figura dell’artigiano, cioè su colui che esercita personalmente,
professionalmente e in qualità di titolare dell’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli
oneri e i rischi attinenti, in questo senso egli assume i ruoli di imprenditore, finanziatore, amministratore, direttore
ed esecutore delle attività produttive.

Gli aspetti fondamentali dell’impresa artigiana sono:

- confusione dei patrimoni: il patrimonio dell’impresa si confonde con il patrimonio personale dell’artigiano, infatti
queste tipologie di imprese sono rappresentate da società semplici;
- opera su commessa: un atto di produzione si manifesta solo a fronte di una richiesta proveniente dal cliente;
- non c’è divisione del lavoro: l’artigiano svolge molteplici ruoli;
- non si può parlare di rapporto di lavoro dipendente: piuttosto si parla di una relazione tra maestro e discepolo, o
insegnante e apprendista, funzionale al trasferimento delle conoscenze proprie dell’artigiano.
L’impresa mercantile
Nel XIII sec, con la formazione di aree commercialmente unificate, nelle quali gli acquirenti e i veditori erano localizzati
in zone distanti, nacque la piccola impresa mercantile, incentrata sulla figura del mercante-imprenditore. Essa svolse
un processo di trasformazione in senso economico, in quanto il mercante-imprenditore iniziò ad occuparsi
dell’acquisto di merci, per poi farle lavorare a domicilio da diversi artigiani e ricevere direttamente il prodotto finito.
Quest’impresa svolge dunque un’attività di pura intermediazione commerciale, consistente nella trasformazione di
beni economici. L’aspetto fondamentale è che non c’è divisione del lavoro, infatti il mercante-imprenditore svolge
molteplici ruoli (come nell’impresa artigiana). Successivamente si affermarono le grandi compagnie di commercio,
inizialmente sostenute finanziariamente dalle famiglie, più tardi poi, a causa dei crescenti fabbisogni finanziari legati
all’acquisto di grosse partite di merci, esse si trovarono nelle condizioni di non poter più sostenere le esigenze
finanziarie dell’impresa, quindi, nacquero due nuovi soggetti: gli intermediari finanziari (fornitori del capitale di
credito) e i capitalisti (fornitori del capitale di rischio). Inoltre, a causa dei crescenti rischi connessi al trasporto delle
merci, nacquero le prime compagnie di assicurazione. La compagnia di commercio acquistò personalità giuridica
autonoma, con il patrimonio dell’ente che rimase separato da quello dei proprietari-capitalisti (cosiddetta joint-stock).
I soci-capitalisti svolgono un ruolo di controllo e di indirizzo nell’impresa: essi, per alzata di mano, nominano gli
amministratori che sono responsabili della gestione, ai quali viene concessa una gratificazione solo quando gli affari
vanno a buon fine, previo consenso dei soci stessi. I soci si riuniscono nell’assemblea dei soci, in cui ognuno ha diritto
ad un voto, estremamente personale; essi hanno, inoltre, diritto alla ripartizione periodica degli utili e al rimborso del
capitale in caso di liquidazione.
L’impresa industriale
Essa nasce con la rivoluzione industriale del XVIII sec e svolge un processo di trasformazione in senso tecnico.
Gli aspetti fondamentali dell’impresa industriale sono:
• Standardizzazione: metodo con il quale si definiscono ex-ante tipologie, dimensioni e caratteri degli input e
degli output utilizzati nei processi produttivi;
• Meccanizzazione: sostituzione del lavoro svolto dagli uomini con il lavoro svolto dalle macchine (favorita dalla
comparsa delle macchine);
• Semplificazione: procedimento volto a ridurre la varietà di approcci, metodi e strumenti impiegati nelle
combinazioni produttive.
L’impresa industriale è incentrata sulla fabbrica, dove i lavoratori svolgono compiti sempre più specifici e questo
necessariamente aumenta le abilità dell’operaio. Con l’impresa industriale si afferma la produzione per il mercato (o
per il magazzino) e viene meno la produzione per commessa, tipica delle imprese artigiane. Questo segna il passaggio
alla cosiddetta “produzione di massa” e alla concezione di impresa come istituzione che programma e svolge una
produzione a flussi di beni economici, le cui qualità e quantità sono la manifestazione di un’azione anticipatrice della
domanda del mercato. Per quanto attiene i rapporti tra impresa e lavoratori, si crea una separazione tra lavoratori
(coloro che dispongono della propria forza lavoro) e capitalisti (detentori dei mezzi di produzione). In questo contesto
si vengono a creare i primi conflitti tra classi sociali e tra capitalisti e lavoratori, problema che verrà poi analizzato da
due grandi studiosi, Marx ed Engels, i quali considerano la fabbrica una specie di luogo fisico in cui i lavoratori vengono
organizzati come soldati e non sono solo soggetti al controllo dell’impresa, ma anche al controllo delle macchine.

La grande impresa organizzata in forma di società di capitali


Nella grande impresa organizzata sotto forma di società di capitali si delinea una prima forma di separazione tra
proprietà e controllo:
➔ Da un lato si colloca un soggetto (o gruppo di soggetti) che essendo intestatario del capitale di comando è in
grado di esercitare un sostanziale potere di governo sull’impresa;
➔ Dall’altro lato, vi è un altro gruppo di soggetti che pur avendo conferito risorse a titolo di rischio dell’impresa,
non disponendo del capitale di comando, non sono in grado di esercitare alcun potere di governo sull’impresa.
Nell’impresa organizzata in forma di società di capitali emergono:
MANAGER: si occupa delle funzioni di direzione e svolge due tipi di compiti: da una parte è responsabile della
solidità a lungo termine della propria compagnia, dall’altra deve occuparsi dell’efficiente conduzione delle
attività ordinarie;
MANAGEMENT: gruppo di individui che, supportati da appropriati metodi e tecniche, assumono un ruolo
centrale nel governo e nella gestione dell’impresa.
In questa impresa sono presenti due tipi di organi:
- ORGANI DI AMMINISTRAZIONE: hanno il compito di definire gli obiettivi generali dell’impresa, nominare i dirigenti,
coordinare le attività organizzative ed esercitare il controllo;
- ORGANI DI DIREZIONE: concorrono alla programmazione delle attività, nonché al coordinamento e al controllo delle
attività lavorative.
La separazione tra proprietà e controllo è sostenuta dalla nascita delle corporation (o società di capitali), che si
caratterizzano per i seguenti aspetti:
• la personalità giuridica: si ha separazione tra patrimonio dell’impresa e quello dei proprietari-capitalisti;
• gli interessi dei proprietari sono incorporati in azioni, che conferiscono al suo possessore la qualifica di
azionista, ovvero di portatore di un titolo di credito rappresentativo del capitale di rischio dell’impresa;
• i diritti di proprietà, incorporati in un titolo di credito, sono liberamente trasferibili ed è così che si crea un
mercato per lo scambio di azioni.
La separazione tra proprietà e controllo (alcuni parlano di dissociazione della proprietà dalla proprietà, infatti nelle
società di capitali il proprietario è intestatario di un insieme di diritti insieme agli azionisti, che però non sono i
proprietari legali della società) genera dei potenziali conflitti, in particolare tra azionisti (coloro che ricevono il
trattamento preferenziale, ma residuale, nella distribuzione del reddito) e management e tra azionisti di maggioranza
e azionisti di minoranza:
AZIONISTI DI MAGGIORANZA: hanno la maggioranza assoluta delle azioni (50% + 1 di azioni) e, quindi, sono
in grado di esercitare un’influenza dominante nell’impresa, detengono infatti il capitale di comando;
AZIONISTI DI MINORANZA: non hanno la maggioranza assoluta delle azioni e, quindi, non sono in grado di
esercitare un’influenza sull’impresa (possono solo ottenere dividendi); essi detengono il capitale di controllo.
Le azioni conferiscono agli azionisti dei diritti sia a contenuto patrimoniale diretto (diritto di ottenere dividendi, diritto
di recesso) sia a contenuto patrimoniale indiretto (diritto di voto, diritto di nominare o revocare gli amministratori).
Gli azionisti di maggioranza concorrono a esprimere il cosiddetto soggetto economico, cioè colui che ha il potere di
determinare le finalità e gli indirizzi aziendali, esercitando un controllo di tipo finanziario e strategico. Gli azionisti di
minoranza, invece, sono considerati dei meri finanziatori dell’attività imprenditoriale. Coloro che detengono il capitale
di controllo, tra cui rientrano anche i soggetti non interessati alla gestione, come i risparmiatori acquirenti di azioni nel
mercato azionario, non sono soltanto interessati ad una congrua remunerazione dei mezzi investiti, ma sono anche
portatori di altri interessi, come la volontà di esplicare le proprie attitudini imprenditoriali o il desiderio di conservare
il controllo dell’azienda. In presenza di questi conflitti si formano i cosiddetti costi di agenzia, che generalmente
concorrono negativamente alla formazione del reddito di impresa. La riduzione di tali costi, mediante opportuni
meccanismi di governance, rappresenta un aspetto fondamentale nell’economia delle grandi corporation. Questi
conflitti possono essere annullati se si esclude l’idea che il proprietario azionista svolga la funzione tipica
dell’imprenditore, se l’impresa è soggetta alla disciplina della concorrenza e se i manager sono sottoposti al controllo.
Distinguiamo poi:
• IMPRESA A CONTROLLO PROPRIETARIO FORTE: caratterizzata dalla presenza di una proprietà stabile e dal
fatto che gli azionisti svolgono un ruolo di rilievo, influenzando direttamente le scelte strategiche e tattiche
dell’impresa (imprese a conduzione familiare, piccola impresa individuale);
• IMPRESA A CONTROLLO PROPRIETARIO DEBOLE: caratterizzata da un’elevata frammentazione del capitale e,
per questo, gli azionisti non sono in grado di esercitare poteri di iniziativa, decisione e controllo (public
company o large corporation). In questa impresa rientra l’IMPRESA MANAGERIALE, cioè un’impresa di grandi
dimensioni in cui il potere di indirizzo è affidato al management e in cui possono partecipare gli investitori
istituzionali, i quali non sono interessanti tanto all’impresa quanto ad ottenere un rendimento di breve
termine.
L’impresa in chiave dimensionale: approcci quantitativi
Un’altra chiave di lettura attraverso la quale indagare l’impresa è quella dimensionale: rispetto alla grandezza e alla
forma, la dimensione viene misurata attraverso l’impiego di variabili quantitative e qualitative.
Nella prospettiva quantitativa consideriamo diverse variabili:
NUMERO DI ADDETTI: presenta dei limiti perché il rapporto capitale-lavoro può cambiare tra imprese
(un’impresa potrebbe apparire più piccola di un’altra in termini di addetti solo perché la prima ricorre
all’automazione, la quale richiede minore quantità di lavoro per unità prodotta);
CAPITALE INVESTITO: si riferisce alla somma delle attività dello stato patrimoniale e presenta dei limiti poiché è
influenzato dalle pratiche contabili adottate dalle imprese, risente dell’inflazione e trascura i fattori produttivi
immateriali, come la conoscenza, l’immagine, la reputazione;
TOTALE DELLE QUANTITÀ PRODOTTE: presenta dei limiti perché non permette di confrontare tra loro attività
produttive eterogenee (difficoltà di confrontare impresa che produce aerei con una che realizza bulloni);
VALORE AGGIUNTO: si riferisce alla differenza tra valore della produzione e costi esterni e presenta dei limiti
poiché risente del grado di integrazione verticale (un’impresa potrebbe apparire più piccola di un’altra solo
perché la prima acquista materie dall’esterno e la seconda svolge le operazioni all’interno).
Poiché ogni grandezza presenta dei limiti, la prassi suggerisce di utilizzare congiuntamente più criteri.
Gli approcci qualitativi
Nella prospettiva qualitativa distinguiamo:
• IMPRESA ARTIGIANA: si fonda sul lavoro manuale e sull’estro dell’artigiano;
• IMPRESA INDUSTRIALE: è incentrata sulla fabbrica, dove il lavoro manuale lascia il posto alle macchine e
l’estro dell’artigiano lascia il posto alla standardizzazione della produzione;
• PICCOLA IMPRESA: è incentrata prevalentemente sulla figura dell’imprenditore (il potere decisionale è
accentrano nelle mani dell’imprenditore e la delega decisionale è ristretta);
• MEDIA IMPRESA: ha una struttura organizzativa nella quale il lavoro si articola in unità organizzative
caratterizzate da gradi crescenti di specializzazione e di articolazione; inoltre, ha uno scarso potere di mercato;
• GRANDE IMPRESA → ha un elevato potere di mercato grazie alla dimensione della sua scala produttiva; essa
concentra le sue attività di produzione e vendita in un determinato spazio geografico;
• IMPRESA MULTINAZIONALE → svolge le proprie combinazioni produttive in diversi spazi geografici anche
distanti gli uni dagli altri (es. Coca-cola).
I gruppi di imprese
Insieme di imprese giuridicamente autonome e distinte che, pur mantenendo un diverso soggetto giuridico, vengono
controllate da uno stesso soggetto economico, ovvero la Capogruppo. Le imprese del gruppo devono essere connesse
da legami strutturanti, come legami di natura finanziaria, che comprendono le partecipazioni al capitale di rischio
possedute da un’impresa nei confronti dell’altra, legami di natura economica, che riguardano rapporti giuridici che
creano una relazione tra un’impresa e un’altra (rapporti di fornitura esclusiva di beni, i rapporti di collaborazione tra
due imprese) e legami personali, che riguardano rapporti di parentela o professionali tra manager nelle imprese.
Nel gruppo deve essere presente un soggetto chiamato holding che, facendo leva sui legami strutturanti, esercita
un’influenza dominante, ovvero un potere di indirizzo sul governo e sulla gestione delle imprese afferenti al gruppo
stesso. Le holding posizionate al vertice del gruppo vengono indicate come capo-gruppo (o casa madre), mentre le
holding che controllano altre imprese, ma sono a loro volta controllate dalla casa-madre, si definiscono sub-holding.
In termini di natura, i gruppi di imprese possono essere di tipo industriale o di tipo finanziario; si parla anche di gruppo
bancario quando le attività svolte dall’impresa afferente al gruppo sono preordinate in via esclusiva alla raccolta e
all’impiego del risparmio.

Vantaggi del gruppo:


• consente a più imprese di raccogliere e impiegare capitali nelle attività produttive;
• consente a più imprese di accrescere il potere di mercato;
• consente alle imprese di ottenere benefici fiscali e facilitare le attività di controllo.
Svantaggi del gruppo:
• la produzione del reddito a livello di gruppo, nel suo complesso, prevale rispetto alla produzione di reddito a
livello di singola impresa (economicità super aziendale) e questo genera potenziali conflitti di interesse tra
l’azionista di controllo e l’azionista di minoranza.

CAP.2: DECISIONI D’IMPRESA


L’impresa e la sua dinamica evolutiva sono scandite da decisioni tese a migliorare o modificare le combinazioni
produttive dell’impresa o a influenzare il contesto esterno. Le decisioni sono scelte di natura diversa interdipendenti
tra loro e sono qualificate da deliberazioni o scelte singole o collegiali che hanno il fine di individuare un’alternativa
risolutiva di una problematica. È necessario prima di tutto individuare un atto volitivo, ovvero un momento nel quale
si manifesta la volontà di un soggetto di scegliere determinati corsi d’azione piuttosto che altri, in secondo luogo,
occorre che l’atto volitivo venga assunto dal decisore d’impresa che può coincidere con un individuo (manager) o con
un gruppo di individui (consiglio di amministrazione). Le problematiche dell’impresa possono essere di tipo economico
o tecnico e devono essere risolte scegliendo tra le possibili alternative di cui si conoscono ex ante le conseguenze e le
valenze in termini di impatto sul raggiungimento di uno scopo. Al crescere dell’ampiezza delle alternative disponibili
cresce la possibilità di individuare soluzioni appropriate, prese tenendo conto della creatività, dell’immaginazione,
dell’intuito, della versatilità e di tanto altro.
Le decisioni d’impresa possono riguardare la dimensione orizzontale (tra i dipendenti):
DIMENSIONE REALE: comprende le scelte di acquisizione, uso e dismissione dei fattori produttivi e riguarda
l’approvvigionamento degli input necessari per alimentare il processo di trasformazione e il collocamento
degli output sul mercato. In essa rientrano le decisioni di investimento (acquisto impianto) attraverso le quali
l’impresa è in grado di svolgere con continuità la sua attività di produzione, le decisioni collegate alla
distribuzione del prodotto, all’amministrazione dell’impresa, al controllo di gestione etc… Tra queste scelte
meritano una nota di rilievo le decisioni di investimento, finalizzate a creare i presupposti attraverso cui
l’impresa sia in grado di svolgere con continuità la sua attività di produzione di beni economici;
DIMENSIONE FINANZIARIA: comprende le scelte in materia di raccolta delle fonti necessarie per finanziare i
fabbisogni dell’impresa. Sono esempi di scelte finanziarie quelle concernenti il rapporto d’indebitamento, il
peso del capitale di credito rispetto al capitale proprio, la gestione della tesoreria, l’amministrazione del
credito mercantile (crediti e debiti commerciali) e del CCN.
Possiamo poi distinguere 3 scelte su dimensione verticale (tra il vertice e la base operativa):
SCELTE STRATEGICHE: determinano obiettivi e linee di azione e danno contenuto a determinati piani,
modificandoli, ampliandoli o riducendoli; inoltre, esse contribuiscono a modificare nel corso del tempo la
dinamica evolutiva dell’impresa. Sono assunte dagli organi di vertice (o amministrazione), si caratterizzano per
l’elevata complessità, hanno uno stampo non ricorrente e sorgono da problemi che il più delle volte sono
difficili da individuare o richiedono al decisore una particolare abilità (es. investimenti in ricerca e sviluppo,
ristrutturazione delle attività produttive);
SCELTE TATTICHE: svolgono un ruolo di attuazione delle scelte strategiche e si sostanziano nell’individuazione
di fattori della produzione che consentono all’impresa di raggiungere gli obiettivi prefissati in condizioni di
efficienza. Sono assunte dagli organi di direzione o da funzionari e dirigenti intermedi, hanno uno stampo
ricorrente, affrontano problemi di natura evidente e investono aree specifiche dell’impresa (es. organizzazione
dei flussi di materiali in ingresso e in uscita, disegno della struttura organizzativa);
SCELTE OPERATIVE: attengono ai processi necessari per realizzare il potenziale che le scelte tattiche e
strategiche hanno contribuito a creare. Sono numerose, trovano spesso riflesso nei budget e vengono assunte
da unità di livello operativo, sono frequenti e spesso risolvibili mediante algoritmi (es. definizione del budget
di produzione, promozione del prodotto).
Tra le scelte strategiche e le scelte tattiche sussiste un’interdipendenza: la prospettiva strategica guida la tattica
dell’impresa e, allo stesso tempo, la prospettiva tattica vincola o amplia la dimensione strategica; inoltre, le scelte
strategiche qualificano e danno contenuto all’area del governo dell’impresa, mentre quelle tattiche e quelle
operative rientrano tipicamente nel perimetro della sua gestione.
Le decisioni dell’impresa concorrono a definire i fatti amministrativi da cui discendono gli esiti, reali e finanziari,
dell’attività dell’impresa: i risultati permettono, poi, la revisione in chiave evolutiva delle decisioni correnti.
Esse sono caratterizzate da:

• Indivisibilità o non convessità: date due alternative appartenenti entrambe allo stesso insieme, tutte le loro
possibili combinazioni non vi appartengono;
• irreversibilità: sono difficili da cambiare nel breve termine;
• interdipendenza: si influenzano l’una con l’altra, in particolare l’assunzione di una decisione può influenzare
un’altra decisione precedente, concorrente o successiva.
Si possono, inoltre, osservare tra le decisioni relazioni di complementarietà e di sostituibilità o di trade-off.
Tutte queste caratteristiche generano alcune conseguenze: da un lato, si viene a creare un insieme di alternative nel
quale è difficile individuare una migliore in assoluto, dall’altro lato, la presenza di più alternative ottime comporta
che, ove il decisore abbia scelto di orientare i propri sforzi verso una di queste, lo stesso stia implicitamente
trascurando altre possibili opzioni (ricorda che le decisioni generano sempre dei costi opportunità nel momento in
cui, alla scelta di un’alternativa, corrisponde sempre lo scarto di un’altra).
Tutte le decisioni di impresa emergono da un processo decisionale che si articola in diverse fasi:
1. individuazione dei problemi;
2. fissazione dei traguardi;
3. raccolta di informazioni;
4. valutazione delle diverse soluzioni;
5. trasformazione della decisione assunta in azioni concrete;
6. controllo ex-post.
La conclusione del processo decisionale/manageriale, ossia il controllo ex-post, diventa input di un nuovo processo
teso a migliorare le fasi di analisi, valutazione e attuazione secondo una logica di feedback. Per essere affrontate in
modo corretto, le fasi del processo decisionale richiedono informazioni e rappresentazioni e debbono essere
coerenti con i driver generali delle decisioni e con i criteri decisionali.
Informazioni e rappresentazioni
Le informazioni sono un insieme di dati riguardanti fenomeni ai quali il decisore d’impresa assegna rilievo.
Esse possono riguardare:
• contesto interno (es. costi delle materie prime, totale dei fabbisogni finanziari e delle fonti disponibili);
• contesto esterno (es. esistenza di barriere all’entrata e all’uscita, fattori di cambiamento a livello politico,
sociale, economico e tecnologico).
Le informazioni possono assumere poi:
• carattere sintetico (es. numero totale di clienti serviti);
• carattere dettagliato (es. distinzione tra clienti serviti per classe di età, sesso etc...).
Le informazioni devono corrispondere per qualità e per quantità alle aspettative dei decisori dell’impresa e
parallelamente devono essere disponibili al momento giusto. Le informazioni disponibili vanno poi confrontate con i
fabbisogni espressi dei decisori, dal cui confronto scaturiscono simmetrie e asimmetrie di informazione.
Le rappresentazioni comprendono insieme di modelli, teorie e procedure che consentono al decisore d’impresa di
semplificare la realtà complessa e anch’esse possono riguardare sia il contesto esterno che interno.
Possiamo distinguere tra:
• DECISIONI PROGRAMMABILI: decisioni che si ripetono nel tempo e sono supportate da procedure e processi
sviluppati dall’organizzazione.
• DECISIONI NON PROGRAMMABILI: decisioni occasionali, spesso di natura strategica, che richiedono
l’utilizzo di procedimenti specifici di soluzione.

Quanto più la decisione assume un carattere non programmabile, tanto più importanti sono la disponibilità di
informazioni e di rappresentazioni accurate a supporto della decisione; inoltre, l’ampliarsi delle informazioni
disponibili, accresce l’accuratezza della decisione. Informazioni e rappresentazioni assumono una particolare
importanza nella fase di analisi, infatti sarà proprio da esse che dipenderanno la qualità dei piani di azione e dei
meccanismi di controllo ex-post.
Driver decisionali
Oltre alle informazioni e alle rappresentazioni, il decisore è chiamato a considerare anche altri aspetti, cioè i driver
decisionali (o driver generali di decisione) che riguardano la visione, la missione, la finalità e gli obiettivi generali e
specifici dell’impresa.
Si tratta, quindi, di un driver decisionale pervasivo rispetto alla vita dell’impresa che produce effetti diretti o indiretti
su tutte le decisioni d’impresa, qualificandone il comportamento in un certo contesto competitivo.
• VISIONE: indica una prospettiva futura rispetto a ciò che l’impresa intende diventare (es. negli anni ’80 Bill
Gates stabilì come visione della Microsoft Corporation la massima diffusione dell’uso dei computer, grazie a
un software accessibile anche da persone prive di conoscenze informatiche). Dunque, la visione indica una
sorta di intenzione generale da cui discendono decisioni e azioni dell’impresa nel lungo periodo; inoltre, una
giusta visione rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente, al successo imprenditoriale;
• MISSIONE: indica il ruolo che l’impresa decide di auto-assegnarsi in un dato contesto e riguarda il tipo di
mercato in cui l’impresa vuole essere presente e la posizione competitiva che vuole assumere (es.
un’organizzazione operante nel trasporto ferroviario si pone come missione quella di diventare leader nel
mercato).
Visione e missione si qualificano come driver rispetto ai quali si collegano le altre decisioni d’impresa. Tra le due
sussiste una relazione: la missione può essere considerata come conseguenza della visione, nel momento in cui
l’attuale ruolo che l’impresa decide di auto-assegnarsi scaturisce da una precedente visione del futuro e, al contempo,
da ciò che attualmente l’impresa ambisce a diventare.
• FINALITÀ: esprime i traguardi che l’impresa intende perseguire nel lungo termine, dunque identifica un
orientamento generale che si pone a monte del processo decisionale. La finalità proviene dagli organi di vertice
che governano l’impresa e una tipica finalità dell’impresa è la continuità aziendale, cioè la capacità
dell’impresa stessa di sopravvivere nel tempo (Zappa ha sottolineato che “l’azienda vive di vita ininterrotta ed
è un istituto economico atto a perdurare”). Questa finalità di sopravvivenza dell’impresa viene perseguita
attraverso gli obiettivi generali;
• OBIETTIVI GENERALI: definiscono traguardi che sono strumentali al conseguimento del fine dell’impresa e
sono obiettivi prevalentemente economico-finanziari che vincolano l’attività d’impresa al rispetto di
determinati parametri di breve, medio e lungo termine. Esempi di obiettivi generali sono l’equilibrio
economico, l’equilibrio finanziario, la redditività e lo sviluppo dimensionale;
• OBIETTIVI SPECIFICI: sono strumentali rispetto agli obiettivi generali, ma sono, a loro volta, una guida per le
scelte dell’impresa. Essi possono essere parziali o intermedi e vengono qualificati rispetto ad un traguardo da
raggiungere, ad un indicatore che misuri il loro grado di raggiungimento, ad una soglia minima superata la
quale si ritiene che l’obiettivo sia stato raggiunto (es. 10%) e, infine, ad un tempo nel quale il traguardo deve
essere raggiunto (es. entro 3 anni).
Gli obiettivi, in generale, per essere tali debbono essere misurabili, quantificabili, riferiti ad un orizzonte temporale e
fattibili. Mentre la missione e la visione hanno la funzione di indirizzare le decisioni e le azioni d’impresa in ragione di
ciò che la stessa intende essere e diventare, il fine della sopravvivenza e gli obiettivi generali e specifici ad essa connessi
delimitano l’insieme delle alternative disponibili tra cui il decisore può selezionare quelle più appropriate in vista di
dare una soluzione ai problemi correnti e prospettici d’impresa.
In sintesi, si può affermare che nell’impresa le decisioni strategiche, tattiche e operative debbono essere alimentate
da informazioni e rappresentazioni e debbono tenere in adeguata considerazione i driver generali, rappresentati da
visione, missione, finalità dell’impresa e obiettivi generali e specifici.
Ciclo di previsione, pianificazione, programmazione e controllo
Nell’impresa il decisore può anche avvalersi, tenendo comunque conto dei driver, di tre tipi di modelli:

• Attraverso il ciclo della previsione si ipotizza il probabile futuro evolversi delle tendenze irreversibili inerenti
ai contesti interno ed esterno dell’impresa (es. previsioni ambientali, finanziarie, economiche e patrimoniali);
• Sulla base delle previsioni si innesta il ciclo della pianificazione nel quale si definisce il quadro generale di
sviluppo e il piano degli investimenti e dei finanziamenti, dove il primo individua gli obiettivi generali e specifici
dell’impresa, mentre il secondo definisce gli interventi che dovranno essere posti in essere nel prossimo e
lontano futuro al fine di modificare le combinazioni produttive correnti dell’impresa insieme con la
determinazione delle fonti finanziarie necessarie per soddisfare i fabbisogni scaturenti dai richiesti interventi;
• Attraverso il ciclo della programmazione si specificano (tenuto conto delle ipotesi e dei vincoli fissati
nell’ambito della pianificazione) le operazioni che dovranno essere avviate e svolte nel periodo considerato.
La programmazione trova riflesso nel piano di gestione, il quale si compone di piani parziali, denominati budget
di esercizio, aventi per oggetto ambiti funzionali o mercatistici (es. programma delle vendite, della produzione,
degli acquisti di materie etc…).
I piani parziali qualificano i ritmi di attività e, quindi, i rendimenti degli input, della forza lavoro e degli impianti;
inoltre, comprendono anche le operazioni, gli obiettivi e i risultati attesi che ciascun ambito di riferimento
dell’impresa deve realizzare in un dato arco temporale;
• Attraverso il ciclo del controllo l’impresa verifica periodicamente il livello di raggiungimento degli obiettivi
generali e specifici stabiliti in sede di pianificazione. Questo ciclo si fonda su due momenti: il primo momento
consiste nella misurazione dei risultati conseguiti, il secondo momento consiste invece nell’evidenziare i
possibili scostamenti e ricercare le cause che li hanno prodotti.
Criteri decisionali
Il decisore, nel definire i criteri alla base del processo decisionale, ricerca condizioni di consequenzialità e di
appropriatezza: la prima implica che il decisore, nel valutare due alternative, tenderà a preferire quella che offre i
migliori risultati d’impresa (i criteri che vi rientrano sono quelli di efficacia, efficienza e redditività), la seconda invece
implica che le decisioni devono essere coerenti con le decisioni passate/future assunte in altri contesti, esterni ed
interni (qui vi rientra il criterio della coerenza). Il criterio scelto definisce in che misura (efficacia), con quali modalità
(efficienza) e con quali benefici (redditività), tenuto conto delle interdipendenze tra decisioni (coerenza), un traguardo
può essere raggiunto.
EFFICACIA: capacità di un’alternativa decisionale di perseguire i risultati predefiniti.
𝑅𝑖𝑠𝑢𝑙𝑡𝑎𝑡𝑖 𝑜𝑡𝑡𝑒𝑛𝑖𝑏𝑙𝑖
𝑬𝒇𝒇𝒊𝒄𝒂𝒄𝒊𝒂 =
𝑅𝑖𝑠𝑢𝑙𝑡𝑎𝑡𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑟𝑎𝑚𝑚𝑎𝑡𝑖
Più vicini sono i risultati ottenibili da un’alternativa rispetto a quelli programmati, tanto maggiore sarà l’efficacia.
Rispetto agli obiettivi, essi possono essere espressi in maniera puntuale (es. quantità mensile venduta pari a 1000
unità) oppure come range di valori (es. quantità mensile venduta tra 1000 e 2000 unità); inoltre, gli obiettivi possono
essere esogeni o endogeni, nel primo caso vengono fissati a prescindere dalle caratteristiche delle alternative
decisionali, nel secondo caso variano rispetto a tali alternative. L’efficacia è esprimibile anche come la capacità di
un’alternativa di raggiungere gli obiettivi prefissati ed è un criterio che si pone come elemento fondamentale nel
quadro dell’assunzione delle scelte d’impresa, in particolare di quelle strategiche. La ricerca dell’efficacia nelle
decisioni dell’impresa passa attraverso scelte che siano coerenti con l’ambiente esterno ed in grado di tramutare le
opportunità ambientali in risultati d’impresa: soprattutto in un sistema concorrenziale, l’impresa è efficace quanto
più soddisfa i clienti e gli altri soggetti con i quali intrattiene rapporti di qualsiasi tipo. Dunque, orientare le decisioni
a traguardi di efficacia significa, in primo luogo, comprendere le mutevoli aspettative di una gamma di soggetti e, in
secondo luogo, adeguare a dette aspettative le strategie e l’operatività dell’impresa.

EFFICIENZA: misura la capacità di un’alternativa di minimizzare le risorse necessarie al conseguimento di un


risultato (es. l’aumento delle quantità prodotte, a parità di input, si traduce in un miglioramento
dell’efficienza). L’impresa raggiunge la massima efficienza quando riesce a sfruttare pienamente il potenziale
produttivo ed economico dei fattori produttivi, tecnici, umani e finanziari di cui dispone.
𝑅𝑖𝑠𝑢𝑙𝑡𝑎𝑡𝑖 𝑜𝑡𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑖
𝑬𝒇𝒇𝒊𝒄𝒊𝒆𝒏𝒛𝒂 =
𝑀𝑒𝑧𝑧𝑖 𝑖𝑚𝑝𝑖𝑒𝑔𝑎𝑡𝑖
L’efficienza può essere riferita:

- al sistema economico nel suo insieme:

efficienza allocativa, che si ha quando tutti i beni economici sono allocati ai migliori usi noti in un certo
istante temporale, dunque esprime un concetto legato alla produzione di beni e servizi senza sprechi ⇒
capacità del sistema economico di utilizzare al meglio le risorse in una situazione data;
efficienza adattiva, che esprime una qualità del sistema di sopravvivere in presenza di cambiamenti radicali
e/o incrementali) ⇒ attitudine del sistema stesso a evolvere nel corso del tempo;

- all’impresa:

efficienza analitica, che riguarda specifici fattori della produzione (es. l’efficienza delle macchine);
efficienza sintetica, che riguarda combinazioni di fattori ed è espressa tramite un rapporto tra un risultato
da conseguire (es. totale della quantità prodotta) e un complesso di fattori impiegati (es. totale delle ore
impiegate dalla macchina). Tra gli indici sintetici di efficienza si richiama la produttività globale dei fattori,
che viene riferita ad un incremento dell’output prodotto in un dato periodo che non è spiegabile da un
parallelo accrescimento del volume totale degli input utilizzati nel processo produttivo. Si considera anche
l’efficienza integrale o totale del lavoro, data dal rapporto tra il totale dell’output prodotto nel periodo t e il
totale del lavoro impiegato (con t che esprime un periodo specifico).

Distinguiamo, infine, tra:

• efficienza storica: dove gli input e gli output sono espressi attraverso dati consuntivi o mediante dati
effettivamente conseguiti;
• efficienza teorica: dove i rapporti tra input e output sono espressi rispetto a condizioni ipotetiche di migliore
utilizzo dei fattori della produzione (es. un impianto può produrre teoricamente 10 prodotti all’ora, ma per via
delle sue caratteristiche ne può produrre effettivamente 5);
• efficienza marginale (o differenziale): indica come varia l’efficienza al mutare delle combinazioni produttive.
Il criterio di efficienza spinge il decisore a preferire quelle alternative che, a parità di risorse impiegate, accrescono gli
output prodotti e quindi a parità di output prodotti riducono le risorse impiegate. Può capitare che l’impresa, nel
perseguire l’efficienza, debba rinunciare all’efficacia oppure che, nel perseguire l’efficacia, debba rinunciare
all’efficienza. Nel breve periodo il decisore d’impresa può scegliere di perseguire un criterio piuttosto che un altro;
tuttavia, nel lungo periodo l’impresa deve assumere delle decisioni che siano compatibili con entrambi i criteri.
PRODUTTIVITA’ (o efficienza tecnica): esprime il rapporto tra output e input definiti entrambi in termini di
quantità fisiche.
𝑂𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡
𝑬𝒇𝒇𝒊𝒄𝒊𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒕𝒆𝒄𝒏𝒊𝒄𝒂 =
𝐼𝑛𝑝𝑢𝑡
Tipici esempi di efficienza tecnica sono la produttività degli impianti (quantità di output divisa per le ore impiegate
dalle macchine), la produttività del lavoro (quantità di output divisa per le ore impiegate dall’uomo), la produttività
delle materie prime (quantità di output divisa per le quantità di input impiegate). La produttività può essere riferita
anche a combinazioni di fattori produttivi, dando così vita a indici sintetici, come la produttività integrale dei fattori:
sono coerenti con tale criterio tutte quelle scelte che tendono ad accrescere le quantità prodotte, e dunque l’output,
andando al contempo a diminuire gli input (es. manager di talento o investimenti in ricerca e sviluppo).
La produttività può essere accresciuta anche alle esternalità, cioè a fattori esterni all’impresa prodotti da altri
operatori (es. innovazioni tecnologiche nelle fasi a valle e a monte dell’impresa).

La produttività si distingue dai concetti di:

• coefficiente tecnico di produzione: rapporto di conversione degli input in output in termini di grandezze
fisiche o quantità di input che serve all’impresa per realizzare un certo output (es. quantità di grano
necessaria per produrre 1kg di pasta);
• coefficiente di spesa: misura l'incremento di produzione richiesto al settore i per poter
aumentare di un'unità la domanda finale del bene prodotto dal settore j.
ECONOMICITA’ (o efficienza economica): attitudine dell’impresa a ricavare dalle risorse disponibili il
massimo beneficio economico. Essa esprime il rapporto tra output prodotto e costo sostenuto e fa riferimento
al concetto di utilizzare le risorse senza sprechi.
𝑂𝑢𝑡𝑝𝑢𝑡
𝑬𝒇𝒇𝒊𝒄𝒊𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒆𝒄𝒐𝒏𝒐𝒎𝒊𝒄𝒂 =
𝐶𝑜𝑠𝑡𝑜 𝑠𝑜𝑠𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑜
Il criterio dell’economicità spinge il decisore verso un forte razionamento delle risorse, che implica il contenimento
dei costi all’interno dell’impresa.

Nell’utilizzare questo criterio occorre considerare la dimensione temporale, infatti, da una parte, l’acquisizione di un
nuovo fattore della produzione causa un peggioramento dell’economicità fino a che esso non venga pienamente
sfruttato dall’impresa, dall’altra parte, i fattori della produzione disponibili possono determinare effetti positivi
sull’economicità prospettica dell’impresa.

Tale situazione viene definita “paradosso amministrativo”, in base al quale le scelte di mantenimento, focalizzate sul
maggior sfruttamento possibile delle risorse esistenti, sono condizionate dalla ricerca dell’efficienza immediata,
indebolendo cosi la ricerca dell’efficienza futura. In generale, quindi, bisogna considerare questo criterio in termini
relativi, definendo cioè il lasso temporale entro il quale una certa decisione passa dall’essere fattore di spreco a
condizione di economicità.

REDDITIVITA’: esprime la capacità dell’impresa di generare reddito in proporzione agli stock di capitale in
essa investiti, quindi indica i frutti che il capitale investito genera.
𝐹𝑙𝑢𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 (𝑅 − 𝐶)
𝑹𝒆𝒅𝒅𝒊𝒕𝒊𝒗𝒊𝒕à =
𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑜
Ci sono due metodi per calcolare il flusso di reddito:
• METODO REDDITUALE: ricavi – costi;
• METODO PATRIMONIALE: attività – passività ⇒ è un metodo difficile, usato poiché il reddito rappresenta la
variazione del capitale di funzionamento, che non consente confronti omogenei.
Per quanto concerne il capitale utilizzato alla base del calcolo della redditività si fa sovente riferimento a:

• CAPITALE INVETITO NETTO: attivo patrimoniale – fondi di rettifica;


• CAPITALE PROPRIO: capitale sociale + riserve ± utili o perdite.

La redditività non è solo un criterio, ma è anche un tipico obiettivo generale e un risultato (es. il ROI è un indice di
redditività, ma non è un criterio di redditività).

Esempio: ipotizziamo due configurazioni di prodotto.


• la prima configurazione di prodotto porta ricavi per 10, costi per 5 (reddito = 5) e un capitale investito di 10
→ redditività = 5 : 10 = 0.5 (50%).
• la seconda configurazione di prodotto porta ricavi per 12, costi per 6 (reddito = 6) e un capitale investito di 20
→ redditività = 6 : 20 = 0.3 (30%).
Tra le due alternative considerate, la prima è preferibile alla seconda, dato anche il minor investimento di capitale.

L’importanza che la redditività riveste nelle scelte d’impresa non deve comunque trarre in inganno il decisore: le
condizioni di massima redditività potrebbero essere individuabili solo nei casi di certezza circa lo stato corrente o gli
andamenti prospettici di impresa e di sostanziale assenza di condizioni di interdipendenza tra le singole decisioni ed i
fatti che qualificano l’impresa stessa. Da qui si origina il cosiddetto “paradosso del criterio massimizzante”: le
decisioni d’impresa orientate non verso la massimizzazione della redditività, ma verso un altro obiettivo, potrebbero
far raggiungere ex post livelli di redditività maggiori di quelli ottenibili da decisioni orientate alla ricerca della
massima redditività. Fatta questa precisazione, va osservato che il criterio di redditività è strettamente connesso con
i criteri di efficacia e di efficienza: sul piano economico, le decisioni orientate all’efficienza sono motivate
dall’obiettivo di contenere i mezzi impiegati per ottenere un determinato risultato, mentre quelle di efficacia
guardano principalmente al grado con il quale l’impresa è capace di conseguire un determinato obiettivo.
Dunque, le decisioni saranno coerenti con il criterio di redditività se esiste una coerenza a monte con i criteri di
efficacia e di efficienza, in realtà, è comune che nel breve periodo ciò non avvenga, in quanto alcune decisioni
potrebbero essere coerenti solo con uno dei due criteri: è però fondamentale che la condizione di coerenza con
entrambi i criteri ci sia nel lungo termine.

COERENZA: criterio che valuta quanto le decisioni si influenzano l’una con l’altra.
Può assumere 3 configurazioni:
- COERENZA INTERNA: si ha quando una scelta assunta nel contesto interno influenza un’altra scelta collocata nello
stesso contesto (es. decisione di investire in processi produttivi flessibili per offrire un’ampia varietà di prodotti ai
clienti);
- COERENZA ESTERNA: riguarda le relazioni tra le scelte collocate nel contesto interno (scelte dell’impresa) e le
decisioni collocate nel contesto esterno (scelte di altre imprese);
- COERENZA DINAMICA: si ha quando la decisione influenza non solo le decisioni correnti, ma anche quelle successive
(es. scelta dell’impresa di accrescere gli investimenti in ricerca e sviluppo per contrastare i rischi di obsolescenza delle
proprie tecnologie).
Redditività e rischio nelle decisioni d’impresa
La redditività deve essere analizzata insieme al concetto di “rischio”, che si distingue in:
• RISCHIO ASIMMETRICO: si riferisce alla possibilità che l’attività oggetto di valutazione generi una
redditività inferiore alle attese. In quest’ottica, il rischio evidenza un potenziale pericolo ed assume una
valenza esclusivamente negativa (es. un imprenditore decide di scartare un’iniziativa che, a prescindere
dal suo potenziale reddituale, potrebbe pregiudicare la sopravvivenza della sua impresa oppure la
realizzazione di un nuovo sito produttivo viene scartata in quanto la sua localizzazione avverrebbe in
un’area soggetta a calamità naturali etc...);
• RISCHIO SIMMETRICO: si intende la dispersione positiva o negativa rispetto al rendimento atteso più
probabile. Il rischio simmetrico emerge anche come opportunità, nel senso che la probabilità di subire
perdite di natura economica è compensata dalla probabilità di ottenere risultati economici migliori
rispetto alle attese (es. investire in un prodotto radicalmente nuovo per il mercato amplifica la possibilità
che il ritorno sul capitale sia straordinariamente alto o basso). Il rischio simmetrico si lega alla cosiddetta
“logica del rischio-rendimento”, in base alla quale le attività economiche che promettono un’elevata
redditività sono più rischiose di quelle caratterizzate da una redditività più contenuta (maggiore è il rischio,
maggiore è la redditività, minore è il rischio, minore sarà la redditività).
Incertezza e ambiguità
INCERTEZZA: riguarda eventi non prevedibili (sia per via della razionalità limitata degli individui, sia per via
della mancanza di informazioni da parte dell’impresa) e può essere limitata attraverso degli indici
internazionali, i cosiddetti “EPU”, i quali misurano l’incertezza presente in diversi paesi in diversi settori.
Secondo l’economista Knight, i concetti di rischio e incertezza differiscono nettamente: mentre il rischio
esprime una volatilità misurabile, l’incertezza riguarda eventi non prevedibili, o per i quali non è, in ogni
caso, possibile definire una distribuzione di probabilità;
AMBIGUITA’: si ha quando gli eventi sono noti, ma non si riesce a stimare quale sia la probabilità che si
verifichino. L’ambiguità tende ad aumentare quando il soggetto che prende la decisione è un organo
collegiale (consiglio di amministrazione), in questo caso si parla di ambiguità di gruppo. Essa si riferisce alla
tendenza degli individui, così come delle organizzazioni, a considerare simultaneamente più probabilità per
ogni scenario esaminato: in sostanza, può essere considerata una conseguenza dell’incertezza perché la
carenza di informazioni e conoscenze spinge individui e organizzazioni a formulare diverse ipotesi circa la
probabilità di accadimento futuro di un certo evento.

Ci sono degli strumenti che tendono ad eliminare il problema dell’ambiguità e dell’incertezza (sistemi di big data).
Flessibilità e commitment
L’assunzione di decisioni in contesti incerti spinge il manager a ricercare condizioni di flessibilità.
FLESSIBILITA’ EX-ANTE: si manifesta quando emerge la facoltà di assumere decisioni strategiche in via
anticipata (attitudine dell’impresa di adattarsi agli eventi ⇒ capacità predittiva) e si realizza in condizioni di
forte incertezza;
FLESSIBILITA’ EX-POST (o flessibilità manageriale): riguarda la possibilità di adattare i processi decisionali alle
evoluzioni di contesto (l’impresa si adatta quando gli eventi si manifestano ⇒ capacità reattiva) e si realizza in
condizioni di certezza.
Alla flessibilità si collega il COMMITMENT, cioè la persistenza di un’impresa lungo un corso di azioni prestabilito anche
in presenza di incertezza (es. continuità dell’impresa a produrre sempre un certo prodotto). La flessibilità consente
all’impresa di adattarsi più facilmente alle condizioni di incertezza, ma la rende vulnerabile rispetto alla concorrenza
(l’impresa ha uno svantaggio rispetto ai concorrenti perché questi ultimi sono più specializzati nel produrre un certo
prodotto). Il commitment consente all’impresa di occupare spazi di mercato e di essere più forte rispetto alla
concorrenza ma, allo stesso tempo, rende l’impresa più rigida (Apple che ha legato tutto il suo sviluppo tecnologico
all’IPhone secondo lo stesso design dominante). Il manager ha il compito di trovare un giusto equilibrio tra
commitment e flessibilità.
Approfondimento: equilibrio economico e finanziario

EQUILIBRIO ECONOMICO: coincide con l’autosufficienza economica e consiste nell’attitudine della gestione
aziendale a generare un flusso di ricavi che, a condizioni di mercato, sia idoneo a coprire i costi dei fattori di
produzione in posizione contrattuale e a remunerare congruamente quelli in posizione residuale.
I ricavi derivano dalla somma algebrica del fatturato, della variazione dei prodotti finiti, dei valori interi e degli altri
ricavi; a sua volta, il fatturato risulta dal prodotto tra prezzo unitario e quantità vendute. È fondamentale ricordare
che l’autosufficienza finanziaria non coincide con quella economica: la prima si ha quando l’azienda è in grado di
far fronte ai propri impegni finanziari senza ricorrere ai finanziamenti (l’equilibrio finanziario non coincide con
l’autosufficienza finanziaria), la seconda invece coincide con l’equilibrio economico. Occorre dare una
qualificazione riguardante il tempo a cui riferire tale equilibrio: l’autosufficienza economica dell’impresa può
essere considerata con riferimento a diversi periodi di tempo, nel breve, nel medio e nel lungo periodo, ma può
succedere che l’impresa risulti profittevole nel breve periodo, ma non presenti prospettive di autosufficienza per il
futuro. Ruolo fondamentale ricopre la copertura dei costi, difatti, per poter asserire che un’impresa abbia
raggiunto l’equilibrio economico, non è sufficiente che la stessa abbia coperto i costi relativi ai fattori di lavoro e
capitale con un’entità di ricavi a ciò sufficiente, in quanto è richiesta anche che la copertura di tali fattori sia
adeguata (lavoro) e congrua (capitale).

EQUILIBRIO FINANZIARIO: capacità dell’impresa di recepire capitale di credito o capitale di rischio per coprire
continuamente, pienamente e convenientemente il fabbisogno finanziario derivante dall’eccedenza delle uscite
rispetto alle entrate della gestione. Questo reperimento delle risorse finanziarie nasce dal fatto che, nella
generalità dei casi, la gestione delle imprese vede precedere il sostenimento dei costi al conseguimento dei ricavi,
creando difatti uno sfasamento temporale tra gli stessi, che si traduce in un accresciuto fabbisogno finanziario.
Un’impresa sarà dunque vitale nel lungo periodo se gli incassi fronteggeranno tutti i costi sostenuti e lasceranno
un’eccedenza pari alla congrua remunerazione attesa. La capacità finanziaria dell’impresa è adeguata se consente
di soddisfare in ogni istante il fabbisogno finanziario che, una volta quantificato, può essere coperto dal:
- capitale proprio: all’interno del quale rientra l’autofinanziamento e a cui si ricorre qualora l’impresa richieda
versamenti in conto capitale dei propri soci o utilizzi, totalmente o parzialmente, il flusso reddituale prodotto dalla
gestione e quindi l’autofinanziamento, infatti, quest’ultimo è l’insieme delle risorse finanziarie provenienti dalla
gestione corrente che residua dopo aver dedotto dal flusso dei ricavi di vendita i costi che hanno dato luogo ad
uscite finanziarie;
- capitale di credito: ci si ricorre quando le coperture sono effettuate da soggetti esterni all’impresa.
È comunque fondamentale sottolineare che anche il capitale proprio è una fonte esterna, infatti il sistema di
impresa può essere dotato di capitale proprio tramite conferimenti da parte dei soci, che sono terzi rispetto
all’impresa e quindi il capitale da loro apportato rappresenta un finanziamento esterno, oppure trattenendo gli
utili conseguiti dall’impresa, che andando ad incrementare il capitale proprio, rappresentano una forma di
finanziamento interno.

L’errore fondamentale sta nel confondere il fabbisogno durevole con il capitale fisso e il fabbisogno temporale con
il capitale circolante, nello specifico sta nel ritenere che la parte durevole del complessivo fabbisogno finanziario
sia determinata dagli investimenti a lento giro (capitale fisso) e la parte temporanea sia invece determinata da
investimenti a più rapido giro (capitale circolante). Il fabbisogno finanziario non può oggettivamente essere
attribuito ad uno specifico investimento, piuttosto ad un’unitaria esigenza di capitali.
CAP.3: IL CONFINE DELL’IMPRESA
Il confine di un’impresa rappresenta un potenziale elemento di demarcazione tra le combinazioni produttive che
rientrano nella disponibilità dell’impresa (“make”) e le combinazioni produttive che invece rientrano nella disponibilità
di altre entità (“buy”). Il confine dell’impresa è variante nel tempo e nello spazio in funzione di diversi aspetti quali
l’efficienza, il potere di mercato e l’innovazione e può svilupparsi lungo la dimensione orizzontale (a questo
contribuiscono anche le scelte di diversificazione) e la dimensione verticale (a questo contribuiscono anche le scelte
di integrazione verticale). La dimensione verticale riguarda l’opportunità di organizzare le combinazioni produttive di
un sistema economico settoriale nell’ambito di una impresa oppure suddividerle tra più imprese ed utilizzare i mercati
per coordinarne i rapporti.
Nella dimensione orizzontale si palesano problematiche relative alla variazione della scala produttiva dell’impresa e
all’integrazione nella stessa di combinazioni produttive non verticalmente integrate e che quindi insistono su diversi
processi terminali settoriali. Il confine richiede sempre di considerare un punto di osservazione rispetto al quale è
possibile definire ciò che è interno o esterno all’impresa e ha natura tendenziale, ovvero tende a definire non già una
linea di demarcazione netta bensì uno spazio nel quale alcune combinazioni sono sostanzialmente qualificabili come
interne o esterne.
Esso si collega alle combinazioni produttive, che possono essere:
combinazioni produttive interne all’impresa se i fattori della produzione che la compongono sono intestati
all’impresa stessa e i flussi di servizio che scaturiscono da tali fattori sono soggetti all’autorità del suo soggetto
economico ⇒ confine interno;
combinazioni produttive esterne all’impresa se i fattori della produzione che la compongono sono intestati a
un soggetto giuridico diverso dall’impresa stessa e i relativi flussi di servizio sono acquisiti sulla base di una
transazione conclusa tra due parti ⇒ confine esterno.
Le prospettive sul confine dell’impresa che sono sbagliate:
• se una combinazione produttiva offre vantaggi competitivi deve essere mantenuta all’interno: è falso perché
se i flussi di servizio connessi alla combinazione produttiva possono essere acquistati all’esterno a costi più
bassi rispetto all’alternativa di farli internamente, la collocazione all’interno del confine dell’impresa della
combinazione non offrirebbe alcun vantaggio, ma solo costi aggiuntivi per l’impresa stessa;
• collocando combinazioni produttive all’esterno l’impresa può ridurre i costi di produzione: è falso perché i
costi sono gli stessi sia che le combinazioni produttive siano collocate all’esterno sia che le combinazioni
produttive siano collocate all’interno, semplicemente si va a sostituire un costo con un altro, infatti, si realizza
soltanto uno scambio tra costi di produzione e costi di acquisto, dove questi ultimi, nell’ipotesi di make,
includeranno i costi di produzione che un fornitore sostiene per la gestione della combinazione produttiva;
• collocando combinazioni produttive all’interno l’impresa può eliminare il margine del fornitore di servizi: è
falso perché, in questo caso, il margine di profitto è giustificato dal fatto che il fornitore sappia realizzare un
determinato componente meglio di tutti e, quindi, l’impresa ottiene un vantaggio d’efficienza che il fornitore
le fa pagare in termini di margine. Se si facesse realizzare un componente all’interno, probabilmente, esso non
verrebbe realizzato bene come dal fornitore, quindi, è vero che si ha un risparmio in termini di margine, ma si
potrebbe avere una perdita in termini di efficienza, di fatto, si eliminerebbe il margine, ma i costi sarebbero
maggiori;
• collocando combinazioni produttive all’interno l’impresa può meglio contrastare le fluttuazioni del mercato:
è falso perché l’impresa potrebbe stipulare contratti di lungo termine per limitare gli effetti connessi
all’oscillazione dei prezzi, senza necessariamente ricorrere all’integrazione di determinate combinazioni
produttive.
Alla luce di tali osservazioni, la scelta dei confini va impostata nell’impresa valutando la redditività legata alle
alternative di make o buy. Sono proposte alcune prospettive teoriche che qualificano i benefici ed i costi associati
alla scelta in tema di confini dell’impresa:

TEORIA NEO-ISTITUZIONALE: afferma che per scegliere tra make o buy l’impresa deve considerare due aspetti:

• il differenziale tra i benefici netti connessi allo svolgimento di una determinata combinazione produttiva in
un’impresa piuttosto che in un’altra;
• il differenziale tra i costi di organizzazione tipici dell’impresa e i costi di transazione connessi all’uso del
mercato.
Questa teoria afferma, inoltre, che quando l'impresa integra al proprio interno una combinazione produttiva, di fatto,
annulla i costi di transazione (essendo costi del mercato).
TEORIA DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ: afferma che i costi di transazione sono presenti sia nel mercato che nell’impresa.
Questa teoria riporta il tema del confine ad un tema di competenze, infatti, a differenza della teoria neo-
istituzionale, andrebbero svolte internamente solo quelle combinazioni produttive che l’impresa riesce a valorizzare,
mentre tutte quelle che l’impresa non riesce a gestire andrebbero fatte fare all’esterno. L’ipotesi di base è che le
imprese che sono intestatarie dei diritti di proprietà su un fattore di produzione possono appropriarsi più facilmente
dei benefici netti connessi al suo uso produttivo e ciò rappresenta un incentivo per le stesse affinché si assumano
decisioni che valorizzino al meglio il fattore stesso nell’ambito delle combinazioni produttive dell’impresa;

DEFINIZIONE DEL CONFINE IN BASE AL POTERE DI MERCATO: lo svolgimento di combinazioni produttive all’interno
dell’impresa non è funzionale ad ottenere benefici in termini di efficienza e/o efficacia, bensì ad acquisire potere di
mercato nei confronti delle entità di contesto;

DEFINIZIONE DEL CONFINE IN MANIERA DINAMICA: i manager dovrebbero includere nei benefici e nei costi
associati alle scelte in tema di confini dell’impresa anche i cosiddetti costi di adattamento, che comprendono tutti gli
sforzi che un’impresa deve sostenere ex post per variare il confine, passando da una configurazione ad un’altra.

Ci sono due aspetti importanti da considerare: l’aspetto economico e l’aspetto finanziario. Con riferimento agli
aspetti finanziari, l’integrazione di determinate combinazioni produttive nell’ambito dell’impresa genera fabbisogni
finanziari connessi all’acquisizione di fattori produttivi. Se l’impresa non fosse in grado di sostenere tali fabbisogni
non riuscirebbe a conseguire tutti i vantaggi sull’aspetto economico (benefici netti, costi transazione, potere di
mercato e/o uso delle risorse, mentre se scegliesse di produrre all’esterno, essa potrebbe limitarsi a regolare
unicamente i flussi di servizio di volta in volta acquistati da altre organizzazioni.

Economie di scala, di apprendimento e di scopo


I benefici netti, che rappresentano la differenza tra i ricavi e i costi associati alla collocazione di una determinata
combinazione produttiva nel confine di un’impresa, dipendono dalle economie di scala, di scopo o di apprendimento
che un’impresa è in grado di generare all’interno del proprio confine. Prima di queste però, è necessario considerare
il fenomeno dei costi: in primo luogo, si introduce il concetto di costo di acquisto dei fattori produttivi, che
scaturisce da una transazione posta in essere con una attività collocata in un contesto esterno da quello
dell’impresa. Il costo di produzione, invece, rappresenta la somma dei costi riconducibili ai diversi fattori produttivi,
sia a fecondità semplice che ripetuta, impiegati in una determinata attività produttiva (es. costi delle materie prime,
dei servizi). Il costo medio unitario, poi, rappresenta il costo per produrre una generica unità tra le tante ed è dato
dal rapporto tra i costi totali e le quantità prodotte. Esso si distingue dal costo marginale, cioè il costo sostenuto per
incrementare la produzione di un’unità aggiuntiva.

Le ECONOMIE DI SCALA sono collegate ad un fenomeno di crescita dei costi meno che proporzionale rispetto
all’incremento del volume produttivo, con conseguente riduzione del costo medio unitario di produzione al crescere
della quantità prodotta. Hanno un carattere potenziale, in quanto l’incremento della scala produttiva genera tale
riduzione dei costi unitari solo se esiste una domanda effettiva di mercato in grado di assorbire la produzione
dell’impresa che non trasforma l’incremento della scala produttiva in un costo totale per l’impresa. Le economie di
scala possono riguardare sia le attività produttive (economie di scala dal lato dell’offerta) sia la domanda da parte
dei clienti (economie di rete o economie di scala dal lato della domanda).

Le economie di scala originano da diverse fonti (le seguenti sono economie di scala dal lato produttivo):

- una prima fonte è rappresentata dalla presenza di fattori una-tantum (es. costi di progettazione, costi di
ingegnerizzazione), cioè costi che vengono sostenuti solo in un momento di avvio della produzione e che poi restano
fissi rispetto a variazioni della produzione;

- una seconda fonte è rappresentata dalla presenza di fattori indivisibili (es. macchinario, impianto, capannone),
infatti, al crescere del volume produttivo, il costo unitario medio si riduce a causa dei costi fissi;
- una terza fonte comprende le economie nella gestione delle scorte di materie prime e di prodotti finiti che derivano
da una domanda di elevata dimensione: in sostanza, al crescere del volume produttivo la domanda dovrebbe
assumere carattere più regolare, quindi un’impresa che fronteggia una domanda più stabile ha la necessità di
mantenere un volume minore di scorte;

- una quarta fonte è rappresentata dalle relazioni area-volumi, infatti si è osservato che nell’ambito dei grandi
impianti industriali il costo cresce in funzione della superficie dell’impianto, mentre la scala produttiva cresce in
relazione al volume. Ne consegue che la crescita del costo di produzione per grandi impianti industriali è meno che
proporzionale rispetto alla variazione del volume produttivo;

- una quinta fonte è rappresentata dalla specializzazione delle attività produttive e dall’automatizzazione delle
tecniche produttive: ciò è una possibilità che scaturisce dalla crescita dei volumi produttivi;

- una sesta fonte è rappresentata dalle economie di scala pecuniarie, che nascono dal fatto che un’impresa di grande
dimensione può richiedere riduzioni dei prezzi-costi di acquisto degli input.

Le ECONOMIE DI APPRENDIMENTO sono collegate alla riduzione dei costi medi unitari di produzione per effetto della
crescita della produzione cumulata nel corso del tempo. Questo effetto è legato all’effetto apprendimento: man mano
che si svolge la produzione di un determinato bene, l’impresa accumula esperienze e conoscenze che può utilizzare
per ridurre gli scarti di produzione.
Le economie di scala e le economie di apprendimento hanno lo stesso effetto (riducono il costo unitario medio di
produzione), ma è diverso il meccanismo: le economie di scala riducono il costo medio unitario attraverso la scala
produttiva (che cresce), mentre le economie di apprendimento riducono il costo medio unitario attraverso il tempo
che passa poiché, in questo tempo, l’impresa impara a produrre sempre meglio un bene o un servizio. Le economie di
scala dipendono dalla scala produttiva, le economie di apprendimento invece dipendono dalla quantità accumulata di
prodotti, cioè da quante volte l’impresa crea uno stesso prodotto nel corso del tempo (tramite l’apprendimento, il
costo unitario medio si riduce).
Le ECONOMIE DI SCOPO scaturiscono dalla possibilità dell’impresa di usufruire di fattori multiuso (es. impianto
utilizzabile per la produzione di una gamma di prodotti) e si raggiungono quando la produzione congiunta di due o più
beni economici implica un costo unitario complessivo inferiore a quello che si verrebbe a sostenere nel caso di
produzione disgiunta dei medesimi beni.
Lo svolgimento di una combinazione produttiva all’interno (make) comporta non solo benefici netti, ma anche COSTI
DI ORGANIZZAZIONE, oltre ai costi di produzione, mentre lo svolgimento di una combinazione produttiva all’esterno
(buy) comporta benefici netti e COSTI DI TRANSAZIONE. I primi, che sono costi figurativi, cioè che non si trovano nel
conto economico, servono per organizzare una combinazione produttiva, si trovano, generalmente, nelle spese
generali e amministrative e si riferiscono a:
COSTI DI AGENZIA: si spendono per controllare un agente nello svolgimento di una determinata attività e sono
legati ai potenziali conflitti di interesse che possono sorgere in presenza di attività che un manager (delegante)
deve affidare ad un terzo soggetto (delegato);
COSTI DI COORDINAMENTO: vengono sostenuti per coordinare diverse combinazioni produttive, tanto
maggiore è il numero delle combinazioni produttive, tanto più queste andranno coordinate;
COSTI DI INFLUENZA: sono legati a tutti gli sforzi che i vari decisori d’impresa attuano nei confronti degli organi
di vertice per promuovere decisioni e azioni e si generano perché c’è conflittualità tra i vari manager per
ottenere più risorse.
I secondi sono connessi all’uso del mercato, si originano per definire e negoziare un contratto e si riferiscono a tre
aspetti fondamentali:
INVESTIMENTI SPECIFICI: sono investimenti che hanno un valore positivo se la relazione esiste, mentre hanno
un valore nullo se la relazione cessa;
QUASI-RENDITA: emerge a causa dell’impiego da parte di un’impresa di investimenti specifici della produzione
e rappresenta la differenza tra il flusso di ricavi generato da un fattore produttivo e i costi connessi per il suo
mantenimento. Vi è poi la rendita pura che rappresenta invece il flusso di ricavi generato da un fattore
produttivo a prescindere dai costi connessi per il suo mantenimento, quindi genera ricavi ma non costi
(es. quadro di Picasso);
PROBLEMA HOLD-UP: si crea a causa delle quasi-rendite. Una controparte, infatti, può essere incentivata a
rinegoziare le condizioni contrattuali al fine di appropriarsi di una parte delle quasi rendite (es. impresa chiede
al fornitore di fare uno sconto).
Conviene il make (fare internamente) se: (𝐵𝑀 − 𝐵𝐵 ) + (𝐶𝑇 − 𝐶𝑂 ) > 0
Conviene il buy (fare esternamente) se: (𝐵𝑀 − 𝐵𝐵 ) + (𝐶𝑇 − 𝐶𝑂 ) < 0

𝑩𝑴 = benefici netti make 𝑩𝑩 = benefici netti buy 𝑪𝑻 = costi di transazione 𝑪𝑶 = costi di organizzazione

Quindi, se i costi di transazione sono maggiori dei costi di organizzazione e i benefici netti offerti sono maggiori dei
benefici netti potenzialmente generabili conviene il make, al contrario conviene il buy. Inoltre, a parità di benefici
netti, tanto minori sono i costi di organizzazione e tanto maggiori quelli di transazione e tanto più l’integrazione della
coordinazione produttiva nell’impresa consente di economizzare sui costi d’uso di mercato, invece, a parità di costi
di organizzazione e di transazione, quanto più una combinazione produttiva offre benefici netti ad una impresa
piuttosto che ad un’altra, tanto maggiore sarà l’incentivo dell’impresa a collocare tale combinazione all’interno del
suo confine per appropriarsi più facilmente del suo valore. Un’impresa può estendere il proprio confine in due
maniere distinte: attraverso l’estensione verticale e l’estensione orizzontale.

L’estensione verticale
L’estensione verticale è definita dall’insieme dei cicli produttivi verticalmente collegati tra loro che sono collocati
all’interno del confine di un’impresa. All’ampliamento dell’estensione verticale concorre l’integrazione verticale, che
può essere qualificata come:
• INTEGRAZIONE VERTICALE A MONTE: si ha quando l’impresa introduce all’interno dei suoi confini
combinazioni produttive che si collocano a monte di quelle svolte dall’impresa;
• INTEGRAZIONE VERTICALE A VALLE: si ha quando l’impresa introduce all’interno dei suoi confini combinazioni
produttive che si collocano a valle di quelle svolte dall’impresa;
• INTEGRAZIONE VERTICALE DIAGONALE: si ha quando l’impresa inserisce all’interno dei suoi confini
combinazioni produttive che pur non concorrendo direttamente alla trasformazione dei prodotti finiti offrono
servizi strategici a tali processi.
L’impresa può ridurre l’estensione verticale attraverso l’esternalizzazione, che si ha quando la combinazione
produttiva viene dismessa dall’impresa e i relativi flussi di servizio sono acquistati da soggetti terzi. Essa non va confusa
col decentramento produttivo, che riguarda lo svolgimento della funzione di produzione dell’impresa in differenti unità
produttive (stabilimenti). Nell’esternalizzazione di combinazioni produttive, le imprese possono ricorrere a fornitori,
che offrono flussi di servizio standard, spesso inseriti in cataloghi e disponibili in magazzino, o sub-fornitori, che offrono
flussi di servizio personalizzati, con cui possono avvenire anche scambi di informazioni, di know-how e di persone.
Nell’ambito dei rapporti con l’impresa si individuano due situazioni di esternalizzazione:

- di capacità: l’impresa che esternalizza possiede al proprio interno tutte le capacità produttive per realizzare
determinati beni economici ed utilizza il sub-fornitore per esigenze di carattere produttivo, legate a
variazioni stagionali della domanda finale;
- di specialità: il rapporto con il sub-fornitore si basa sull’acquisizione di flussi di servizio che l’impresa
esternalizzante non è in grado di produrre o comunque di prontamente acquistare da altre fonti, senza
ripercussioni sulla qualità dei prodotti finali.
L’estensione orizzontale
L’estensione orizzontale è definita dall’insieme dei cicli produttivi non verticalmente collegati (o aree d’affari) tra
loro che sono collocati all’interno del confine dell’impresa.

All’ampliamento dell’estensione orizzontale concorrono:

o CRESCITA DELLA SCALA PRODUTTIVA: può essere conseguita espandendo la capacità produttiva delle attività
correnti, come la modifica degli impianti esistenti o l’acquisto di nuove unità produttive da collocare affianco
a quelle esistenti;
o DIVERSIFICAZIONE: consiste nell’ampliamento delle aree d’affari nelle quali un’impresa è presente.
Esse sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per la variazione in senso orizzontale del confine dell’impresa,
infatti, in assenza di costi di transazione oppure di costi di organizzazione maggiori dei costi di transazione, l’impresa
potrà trovare ancora conveniente espandere la propria scala produttiva o diversificare al fine di realizzare economie
di scopo, ma avrà la tendenza ad esternalizzare, al fine di ottenere benefici. Un’area d’affari viene definita come un
insieme di prodotti e servizi che utilizzano comuni tecnologie e che sono destinati ad un gruppo ben identificato di
clienti in un determinato ambito competitivo ed è rappresentata dal trinomio “prodotto-mercato-tecnologia”.

La diversificazione non va confusa con:


DIFFERENZIAZIONE: consiste nel creare, attraverso azioni di marketing, la percezione nel cliente che il
prodotto offerto dall’impresa sia unico e distinto rispetto ai prodotti dei concorrenti;
SEGMENTAZIONE: non riguarda il prodotto, ma la clientela e la divisione del mercato, infatti, la segmentazione
è un processo attraverso il quale si suddivide il mercato in gruppi omogenei di clienti (es. uomini e donne,
bambini e adulti etc...).
Nell’ambito della diversificazione, oltre alla numerosità delle aree d’affari, assume rilievo anche il grado di comunanza
tra le aree di affari stesse. La comunanza può ravvisarsi a livello di attività di vertice e attività operative: il
trasferimento di fattori della produzione e la condivisione di flussi di servizio da un’area d’affari all’altra definisce la
comunanza a livello di vertice (es. attività di ricerca e sviluppo condivise, marchio comune), mentre la presenza di
attività produttive condivise tra le aree d’affari definisce la comunanza a livello operativo (es. impianti di produzione
condivisi, stessa rete di vendita o stesso distributore commerciale).
Perché l’impresa dovrebbe diversificare?
Ricerca di potere di mercato: nelle imprese diversificate esiste un processo che prende il nome di
“sussidiazione incrociata”, che si ha quando l’impresa può utilizzare i redditi generati in un’area d’affari per
sostenere investimenti in altre aree d’affari al fine di attuare delle azioni anti-competitive come, per esempio
la fissazione di prezzi predatori (prezzi inferiori ai costi medi unitari variabili dei concorrenti);
Accrescimento dell’efficienza mediante economie di scala e di scopo: attraverso la diversificazione l’impresa
può utilizzare meglio i fattori della produzione e cioè la capacità produttiva, riducendo così i costi unitari e
migliorando l’efficienza;
Riduzione del rischio: se l’impresa opera in diverse aree d’affari, le perdite di un’area e i guadagni in un’altra
area possono compensarsi a vicenda e, quindi, mediamente, il rischio si riduce;
Sviluppo dell’impresa e possibilità di cogliere opportunità mercatistiche;
Bilanciamento dei flussi di cassa: avendo diverse aree d’affari, l’impresa può combinare i flussi di cassa di
queste aree d’affari e, quindi, migliorare l’autofinanziamento.
Possiamo poi distinguere:
• DIVERSIFICAZIONE CORRELATA: significa che tra le aree d’affari sono presenti fattori di comunanza ai livelli di
vertice e operativo (es. si ha quando il valore della produzione si concentra per meno del 70% in una singola
area d’affari e le altre aree presentano correlazioni di natura tecnologica o commerciale con quella principale);
• DIVERSIFICAZIONE NON CORRELATA: significa che tra le aree d’affari sono assenti fattori di comunanza ai
livelli di vertice e operativo;
• DIVERSIFICAZIONE CONGLOMERATA: si ha quando un’impresa opera in molte aree d’affari che presentano
tra loro una limitatissima comunanza ai livelli di vertice e operativo.
Oltre a queste ragioni, diversificare risulta conveniente in quanto si favorisce lo sviluppo di processi di apprendimento
più rapidi che consentono all’impresa di svolgere le nuove attività in condizioni di efficienza potenzialmente superiori
rispetto ad un nuovo entrante (ricorda che la focalizzazione è l’opposto della differenziazione, infatti ci si concentra in
un'unica area di affari).
Alcuni modelli per il supporto delle scelte di diversificazione
Le scelte in materia di diversificazione trovano supporto in alcune rappresentazioni, presentate in forma matriciale e
sviluppate soprattutto intorno agli anni ‘60 da parte di società di consulenza direzionale, con l’obiettivo di focalizzare
l’attenzione del decisore su poche variabili chiave su cui fondare le scelte d’investimento in aree di affari esistenti,
piuttosto che in nuove aree di affari. Tra le variabili chiave abbiamo:
MATRICE PRODOTTO MERCATO di Ansoff, che si articola in due dimensioni rappresentate dai prodotti (si
riferiscono a caratteristiche tangibili) e dai mercati serviti dall’impresa (sono espressi attraverso il concetto di
missione, la quale individua la funzione che il prodotto intende svolgere).
In questa matrice ci sono 4 alternative:
• 1° alternativa: penetrazione del mercato, consiste nell’aumentare i prodotti venduti e accrescere il
numero di clienti;
• 2° alternativa: sviluppo del mercato, consiste nell’adattamento dei prodotti a nuove missioni (es.
impresa di trasporto aereo che adatta i suoi aerei oltre che al trasporto dei passeggeri anche al
trasporto delle merci);
• 3° alternativa: sviluppo del prodotto, consiste nell’introdurre nello stesso mercato prodotti diversi (es.
impresa che produce aerei per il trasporto civile introduce una linea di aerei bimotori con capienza
massima di 200 passeggeri);
• 4° alternativa: diversificazione, consiste nell’introdurre prodotti nuovi in mercati nuovi (es. impresa
automobilistica che produce macchine per il trasporto civile e aerei specializzati nel trasporto delle
merci). Secondo Ansoff la diversificazione è la scelta più rischiosa, infatti il processo dovrebbe essere
graduale: penetrazione del mercato ⇒ sviluppo del mercato etc...).
MATRICE BCG, legata alla curva d’esperienza, che cattura la riduzione del costo medio unitario di produzione
per effetto delle economie di scala e di apprendimento, nonché dell’innovazione tecnologica. Se l’impresa ha
una quota di mercato relativa più alta rispetto al concorrente, significa che produrrà con costi medi unitari più
bassi rispetto al concorrente stesso. La BCG si articola in due dimensioni rappresentate dalla quota di mercato
relativa e dal tasso di crescita del mercato. La matrice si compone di 4 aree d’affari o quadranti:

QUADRANTE MUCCHE CASSIERE: consente all’impresa di generare sostanziali


flussi di cassa (alta QMR e basso tasso di crescita);
QUADRANTE STELLE: pur assorbendo flussi di cassa consente all’impresa di
mantenere la sua posizione leader nel mercato (alta QMR e alto tasso di crescita);
QUADRANTE ENIGMI: consente all’impresa di ottenere un potenziale di sviluppo
nel futuro (bassa QMR e alto tasso di crescita);
QUADRANTE CANI: all’impresa conviene disinvestire (bassa QMR e basso tasso
di crescita).

Si deve mantenere un bilanciamento tra le aree d’affari collocate nei quadranti delle mucche cassiere (genera flussi
di cassa) e delle stelle (realizza investimenti per mantenere la posizione leader), investendo al contempo nelle aree
d’affari posizionate nel quadrante enigmi (che offrono potenziale di sviluppo nel futuro) e disinvestendo, invece,
dalle aree di affari considerate cani.

MATRICE MCKINSEY (3x3) rappresentata da due dimensioni:


• l’attrattività dell’area di affari, che dipende dalla redditività che un’impresa può potenzialmente
acquisire in una determinata area d’affari, a cui contribuiscono la dimensione del mercato servito, il
tasso di crescita del mercato etc…;
• la posizione competitiva che l’impresa detiene nell’area d’affari stessa, che definisce i rapporti di
forza dell’impresa rispetto ai concorrenti, a cui contribuiscono la quota di mercato assoluta e relativa,
la differenziazione del prodotto etc…

In questa matrice ci sono 3 aree: area del mantenimento


(collocate in alto a sinistra), area dell’investimento
(collocate al centro) e area del disinvestimento
(collocante in basso a destra).
Sulla base di queste due dimensioni, l’impresa dovrebbe
concentrare i propri investimenti nelle aree d’affari che
presentano medio-alta attrattività dell’industria e della
posizione competitiva, mentre le aree opposte
dovrebbero essere oggetto di processi di
disinvestimento.

Il decisore dell’organizzazione potrà valutare la convenienza ad accompagnare le scelte di diversificazione mediante


l’integrazione nel confine dell’impresa di nuove combinazioni produttive e, dunque, accrescendo l’estensione
orizzontale; viceversa, potrà scegliere di focalizzarsi su specifiche aree di affari riducendo in tal modo la
diversificazione e dunque minimizzando l’estensione orizzontale. Allo stesso modo, l’impresa potrà valutare la
convenienza a contrarre la scala dimensionale attraverso il disinvestimento di capacità produttiva e, dunque, si
associa ad una parallela contrazione del confine di impresa; d’altra parte, al venir meno delle economie di scopo e
restando ferma la scala produttiva e la diversificazione nelle aree d’affari correnti, l’impresa potrà ritenere di
allargare il confine riportando all’esterno alcune combinazioni produttive. Questo carattere duale è rinvenibile nella
circostanza che, a parità di estensione orizzontale del confine, l’impresa potrà caratterizzarsi da gradi diversi della
scala produttiva e della diversificazione e, allo stesso modo, a parità di scala produttiva e diversificazione, l’impresa
potrà essere qualificata da gradi diversi di estensione orizzontale del confine.

Alcune definizioni:

• QUOTA DI MERCATO RELATIVA (QMR): data dal rapporto tra la quota di mercato dell’impresa (Qmi) e quella
del concorrente diretto (Qmc) ed esprime la capacità effettiva dell’impresa di trasformare il potenziale
produttivo presente in un’area di affari in quantità effettivamente vendute:

𝑞𝑢𝑜𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑟𝑐𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙 ′ 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑎 (𝑸𝒎𝒊)


𝑸𝒖𝒐𝒕𝒂 𝒅𝒊 𝒎𝒆𝒓𝒄𝒂𝒕𝒐 𝒓𝒆𝒍𝒂𝒕𝒊𝒗𝒂 (𝑸𝑴𝑹) =
𝑞𝑢𝑜𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖𝑟𝑒𝑡𝑡𝑜 (𝑸𝒎𝒄)

Quando la quota di mercato relativa è alta (maggiore di 1) significa che la mia impresa è leader del mercato, quando
la quota di mercato relativa è bassa (minore di 1) significa che l’impresa concorrente è leader del mercato.
• QUOTA DI MERCATO ASSOLUTA O IN VALORE (QMA): data dal rapporto tra fatturato dell’impresa e fatturato
totale del mercato:
𝑓𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙′𝑖𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑎
𝑸𝒖𝒐𝒕𝒂 𝒅𝒊 𝒎𝒆𝒓𝒄𝒂𝒕𝒐 𝒂𝒔𝒔𝒐𝒍𝒖𝒕𝒂 (𝑸𝑴𝑨) =
𝑓𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑒𝑟𝑐𝑎𝑡𝑜 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒

• TASSO DI CRESCITA DEL MERCATO: indicatore che misura le prospettive di sviluppo del mercato, legato ai
flussi di cassa (al crescere del mercato, un’impresa dovrà investire di più e per fare questo ha bisogno di risorse
finanziarie, quindi più cresce il mercato, più l’impresa tende a generare fabbisogni finanziari):
𝐷2020 − 𝐷2019
𝑻𝒂𝒔𝒔𝒐 𝒅𝒊 𝒄𝒓𝒆𝒔𝒄𝒊𝒕𝒂 (𝒈) =
𝐷2019

• QUOTA DI MERCATO IN QUANTITÀ: rapporto tra le quantità vendute da un’impresa e le quantità totali
vendute dal settore:
𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à 𝑣𝑒𝑛𝑑𝑢𝑡𝑒 𝑑𝑎𝑙𝑙 ′ 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑎
𝑸𝒖𝒐𝒕𝒂 𝒅𝒊 𝒎𝒆𝒓𝒄𝒂𝒕𝒐 𝒊𝒏 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒊𝒕à =
𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑖𝑡à 𝑣𝑒𝑛𝑑𝑢𝑡𝑒 𝑑𝑎𝑙 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒
Modalità di estensione orizzontale verticale delle imprese

L’estensione orizzontale e verticale del confine dell’impresa può essere attuata con diverse modalità, ad esempio
un’impresa potrà diversificare integrando nel proprio confine combinazioni produttive i cui flussi di servizio erano, in
precedenza, acquistati tramite scambi di mercato; a sua volta, può essere perseguita mediante lo sviluppo per via
interna o per via esterna. Rientra nello sviluppo per via interna l’impiego di risorse da parte dell’impresa nell’ambito
di combinazioni produttive alternative atte a consentirne l’ingresso in nuove aree d’affari. Rientra, invece, nello
sviluppo per via esterna l’acquisizione di altre imprese presenti nel mercato oppure la loro integrazione nel confine
dell’impresa mediante processi di fusione. In alternativa allo sviluppo per vie interna o esterna, l’impresa può
utilizzare le forme ibride come consorzi, cartelli o joint ventures. Queste forme alternative di sviluppo del confine si
formano quando i manager di differenti imprese giuridicamente autonome ritengono conveniente assumere impegni
reciproci e comuni, che consentano di instaurare aree di cooperazione laddove esisteva lo scambio o la concorrenza,
per esempio, anziché integrarsi verticalmente un’impresa potrebbe decidere di stipulare con i propri fornitori
accordi di lungo termine sulla base dei quali vengono stabilite le condizioni negoziali grazie alle quali le future
transazioni dovranno essere concluse (relazioni di franchising o di coopetition se tra concorrenti).
Tra le forme di coopetition ci sono le comuni organizzazioni, che si sostanziano in un accordo orizzontale tra imprese
mercantili con lo scopo di svolgere diverse attività orientate all’acquisto di beni economici per conto e a favore
esclusivo delle imprese partecipanti all’accordo: in questo modo gli aderenti accrescono il loro potere di influenza
sulle imprese e ottengono benefici in termini di riduzione dei costi unitari di acquisto di beni economici. Quanto
appena detto è una forma di quasi-integrazione, in quanto le imprese non perdono la loro individualità e autonomia.
Allo stesso tempo le imprese possono immettere nel proprio contesto interno meccanismi tipici del mercato,
attraverso la creazione di unità organizzative con autonome responsabilità di reddito oppure creare mercati interni
nei quali le varie unità organizzative scambiano beni e servizi: in questo caso si parla di un quasi-mercato
nell’impresa. L’affermarsi di forme di quasi-integrazione nei rapporti di scambio e di quasi-mercato nell’impresa apre
la strada a nuove modalità di organizzazione della produzione industriale. Da queste forme emergono due
importanti forze che limitano alcuni tipici costi di organizzazione dell’impresa: la storia passata e le prospettive
future. La prima può creare le condizioni per le parti di apprendere reciprocamente, di sviluppare fiducia, di creare
pratiche condivise e, in definitiva, di sviluppare investimenti specifici che si correlano con il raggiungimento di elevati
livelli di redditività (la creazione di investimenti specifici nelle relazioni tra imprese crea problemi di hold-up,
favorisce la formazione di quasi-rendite e incrementa i costi di transazione); le seconde, invece, favoriscono il
mantenimento di condizioni nelle quali i benefici legati ai comportamenti opportunistici di breve termine potrebbero
non essere in grado di compensare i mancati guadagni, che sono impliciti nel venire meno di una relazione di lungo
termine. La storia passata e le prospettive future consentono, dunque, a due o più imprese di replicare condizioni di
coordinamento, cooperazione e controllo che sono tipicamente osservabili all’interno dei confini di una singola
impresa integrata.

CAP.4) IL CONTESTO INTERNO


Il contesto interno comprende l’insieme dei fattori umani, tecnici e finanziari e le modalità con le quali questi fattori
sono tra loro organizzati. Per quanto riguarda l’attività di organizzazione possiamo dire che l’impresa può usufruire
del flusso di servizio generato dal lavoratore, ma non può disporre di un diritto di proprietà sullo stesso, al contrario
delle macchine, poiché i lavoratori hanno una propria libertà individuale.

Il contributo del lavoratore risente di diverse problematiche:


• la volontà di continuare a fornire la propria prestazione nell’impresa piuttosto che in altre (problema della
fedeltà);
• il livello di sforzo impiegato nello svolgimento di determinate attività (problema del contributo);
• la modalità con cui la prestazione di servizio viene svolta (problema del coordinamento);
• la disponibilità a modificare il modo in cui le attività lavorative sono svolte (problema dell’adattamento).
L’assunzione da parte di un lavoratore delle quattro decisioni appena indicate ha effetti non solo per lui, ma anche per
l’impresa, l’organizzazione dovrebbe incentivare la creazione di un contesto interno favorevole nel quale le scelte
discrezionali del lavoratore siano funzionali allo scopo dell’ impresa, cioè dovrebbe creare le condizioni affinché le
persone garantiscano il supporto continuo all’impresa, mantengano alto il livello di impegno e garantiscano
adattamento e giusto coordinamento degli sforzi rispetto allo scopo comune che si vuole raggiungere.

Due funzioni, tra loro interdipendenti, cioè connesse l’un l’altra, molto importanti sono:
• la funzione di organizzazione ha il compito di stabilire quale soggetto ha il potere di prendere le decisioni,
predisporre i fattori della produzione, definire le strutture, i rapporti, i sistemi e le procedure necessarie a
consentire il migliore impiego dei fattori produttivi; inoltre, l’organizzazione crea il contesto favorevole per
perseguire determinati risultati, dunque crea i presupposti affinché l’impresa vada nella direzione prefissata
(le scelte tattiche sono tipiche della dimensione organizzativa);
• la funzione di direzione contribuisce alla fissazione dei traguardi da raggiungere e, allo stesso tempo, dirige e
indirizza l’organizzazione affinché il potenziale incorporato nell’impresa si trasformi in effettiva capacità di
raggiungere determinati traguardi (le scelte strategiche sono tipiche dell’amministrazione della direzione).
Ci sono alcune problematiche tipiche della gestione del personale:
• equilibrio organizzativo: equilibrio tra le prestazioni che l’organizzazione rilascia e le aspettative che i
lavoratori hanno, che serve per incanalare la libertà del lavoratore verso l’impresa e si ha quando
l’organizzazione rilascia prestazioni che sono maggiori delle aspettative dei lavoratori;
• divisione del lavoro: favorisce la specializzazione, la quale accresce la produzione di economie di
apprendimento e, quindi, il conseguimento di incrementi di efficienza sia tecnica che economica. Da un lato,
la divisione del lavoro e la specializzazione consentono ai lavoratori di esprimere i propri talenti, dall’altro lato,
esse accrescono sia i costi di coordinamento che i costi di agenzia, che devono essere limitati dalla funzione di
organizzazione;
• capacità generiche e specifiche: il fattore umano può essere portatore di diverse capacità, le capacità
generiche, che si possono utilizzare in tutte le imprese (es. buona comunicazione orale, buona conoscenza
della lingua inglese etc...) e le capacità specifiche, che valgono per un’impresa, ma non valgono per
un’altra (es. conoscenze di come le cose vengono fatte in un’organizzazione). Le risorse umane portatrici di
capacità generiche sono facilmente acquistabili dal mercato, cioè dalle imprese, al contrario, le risorse umane
portatrici di capacità specifiche sono difficilmente acquistabili dal mercato e, cioè, dalle imprese. Quindi, solo
le capacità specifiche rappresentano per l’impresa una fonte attraverso la quale il reddito viene prodotto;
• adattamento: genera i “costi di adattamento”, che devono essere limitati dalla funzione di organizzazione,
tanto maggiori sono tanto più sarà rilevante per un’impresa il problema del cambiamento. Le capacità
specifiche danno luogo ai cosiddetti “costi sommersi”, cioè quei costi che il lavoratore perderebbe se
decidesse di cambiare tipo di attività e tanto maggiori sono le capacità specifiche, tanto maggiori sono i costi
sommersi e tanto più le persone creano ostacolo al cambiamento.
Quindi la funzione di organizzazione ha 4 particolari compiti: deve tenere presenti il sostenimento di investimenti
legati alla creazione di un sistema di incentivazione e alla progettazione di una politica di strutturazione e di
integrazione, deve creare un contesto interno atto a consentire una sostanziale divisione del lavoro senza che però
questa induca un eccessivo accrescimento dei costi di coordinamento e di agenzia e allo stesso tempo deve creare i
presupposti per sviluppare condizioni di fiducia, deve creare un appropriato contesto interno che consenta
all’impresa di favorire la crescita e l’accumulo di capacità specifiche che non diano luogo a sostanziali costi di
adattamento. Infine, l’attività di organizzazione allinea il contesto interno alle scelte dell’impresa, in particolare a
quelle strategiche, e considera il contesto esterno, creando un ambiente interno all’impresa in grado di rispondere
correttamente alle attese e alle pressioni che derivano da esso.
Le componenti del sistema organizzativo interno
La funzione di organizzazione ha il compito di definire un contesto interno nel quale coesistano divisione del lavoro e
limitati costi di coordinamento e di agenzia così come formazioni di individui con capacità specifiche per l’impresa e
limitati costi di adattamento; l’attenzione è rivolta anche a mantenere una coerenza tra organizzazione, decisioni e
contesto esterno. Nello svolgere questo complesso compito la funzione dell’organizzazione può agire su quattro
fattori: struttura, persone, incentivi e cultura.
1) STRUTTURA: qualifica l’insieme delle posizioni lavorative, definite ai livelli micro e macro, e delle relazioni
formali tra le stesse. La struttura rappresenta lo schema formale di relazioni e interazioni, processi decisionali,
procedure e sistemi nell’ambito di un complesso di fattori produttivi: un’impresa include una struttura
organizzativa, ma non si esaurisce in essa.
Nella struttura organizzativa sussistono altre due strutture:

• struttura formale: consente di dare ordine e disciplina al funzionamento organizzativo e si sostanzia nelle
regole e nelle norme (si trova nei mansionari, nelle procedure aziendali);
• struttura informale: consente alla struttura formale di operare in modo corretto ed è composta da ruoli e da
relazioni non codificate (rapporti di amicizia tra colleghi).
La struttura organizzativa contiene al suo interno:
• nucleo tecnico: attraverso il quale l’impresa produce beni e servizi in condizioni di efficacia, efficienza e
redditività;
• nucleo istituzionale: ha lo scopo di creare una condizione di legittimità dell’impresa e della sua organizzazione
nel contesto di riferimento.
Il collegamento della struttura organizzativa e del suo nucleo tecnico rispetto alle combinazioni produttive dell’impresa
può essere reso più esplicito introducendo i concetti di:
❖ COMPITO: attività (a carattere manuale e mentale) svolte da una persona;
❖ POSIZIONE INDIVIDUALE: raggruppamento di compiti omogeni e complementari rispetto alle attività;
❖ UNITA’ ORGANIZZATIVE: ufficio, reparto, direzione.
A questi concetti si affiancano quelli di:
❖ MANSIONE: insieme di compiti che una persona deve svolgere;
❖ RUOLO: insieme di conoscenze e attività operative che caratterizzano lo svolgimento di una mansione;
❖ QUALIFICA: posizione organizzativa assegnata alla persona (dirigente, funzionario, operaio, impiegato).
In sintesi, i concetti di compito, posizione e unità collegano la struttura organizzativa con le combinazioni produttive il
cui svolgimento è supportato da un insieme di compiti, i quali a loro volta sono aggregati all’interno di mansioni, che
sono infine assegnate a ciascuno dei membri di un’organizzazione. Gruppi omogenei di compiti concorrono a definire
le posizioni organizzative, le quali possono assumere un carattere più o meno specializzato e standardizzato e possono
essere inquadrate in una linea gerarchica più o meno centralizzata e formalizzata (i legami tra due componenti
dell’organizzazione si basano su una relazione gerarchica, che sottende condizioni di potere e di autorità).
Ulteriori concetti che possiamo introdurre sono:

MICROPROGETTAZIONE: si parte dai compiti, da cui si ottengono le posizioni, da cui si ottengono le unità;
MACROPROGETTAZIONE: si parte dalle unità, da cui si ottengono le posizioni, da cui si ottengono i compiti.
Una struttura organizzativa può assumere un carattere di specializzazione più o meno accentuato in relazione al
numero di compiti in cui viene suddiviso il complesso delle combinazioni produttive e al numero di compiti assegnati
a ciascuna persona. Possiamo distinguere:
• SPECIALIZZAZIONE ORIZZONTALE: insieme di attività conferite ad una posizione;
• SPECIALIZZAZIONE VERTICALE: separazione tra la fase di assunzione della decisione e la fase di attuazione
della stessa, in cui le attività vengono suddivise a seconda della tipologia di decisione da prendere e della
relativa autorità/responsabilità.
Una struttura organizzativa sarà tanto più specializzata in senso orizzontale quanto più elevato sarà il numero di
compiti e il numero di persone alle quali sono stati assegnati i singoli compiti elementari; inoltre, la ripetitività dei
compiti consente di ridurre i costi di coordinamento, di accrescere gli effetti di apprendimento e di favorire lo sviluppo
di nuove tecnologie di supporto e di controllo delle attività. Al contrario la specializzazione verticale sarà tanto più
specializzata quanto più si osserva una separazione tra la fase di decisione e la fase di attuazione, quindi quanto più
l’impresa sarà caratterizzata da individui che sono focalizzati sull’esecuzione di alcune specifiche attività operative,
individui che hanno il compito di pianificare queste attività e altri individui ancora che sono responsabili della loro
programmazione e controllo. Tuttavia, gradi crescenti di specializzazione implicano maggiori problemi di
coordinamento e di controllo, con il connesso potenziale accrescimento dei costi di coordinamento e di agenzia.
La struttura organizzativa può essere qualificata da gradi diversi di:
- CENTRALIZZAZIONE: distribuzione del potere decisionale nell’organizzazione. Al fine di qualificarla, occorre
distinguere tra relazioni di “line”, che configurano un rapporto di autorità-responsabilità in direzione
verticale tra due posizioni individuali e definiscono la cosiddetta catena di comando gerarchica intercorrendo
sempre tra un capo e un subordinato e relazioni di “staff”, che individuano, invece, posizioni ausiliari che
svolgono funzioni consultive e/o di messa a disposizione di conoscenze specialistiche utili per assumere
decisioni su temi chiave. Sulla base di questi due concetti è possibile affermare che un alto livello di
centralizzazione comporta che le decisioni più importanti sono concentrate in pochi e selezionati individui
che ricoprono spesso posizioni di vertice, mentre le scelte meno importanti sono delegate a posizioni
collegate da rapporti di “line” con quelle di vertice. Sebbene la centralizzazione favorisca la riduzione dei
costi d’agenzia, in quanto la delega decisionale è ristretta, si possono creare problemi di efficienza legati al
disallineamento tra la persona che decide e la persona che attua la decisione;
- FORMALIZZAZIONE: consiste nel tradurre tutte le regole sulle quali si fonda l’organizzazione dentro manuali
scritti. Sebbene accresca l’efficienza e favorisca la riduzione dei costi di coordinamento e di agenzia, può
favorire lo sviluppo di costi sommersi, collegati all’apprendimento degli individui di determinate regole nello
svolgimento dei compiti;
- STANDARDIZZAZIONE: esprime il modo in cui è definito il contenuto dei compiti, con particolare riferimento
alla possibilità che questi siano svolti in maniera più o meno regolata rispetto ad uno standard e ripetibile
secondo schemi ben definiti. Ha come vantaggi quelli di favorire la controllabilità delle attività e lo sviluppo
di economie di apprendimento, garantite dalla ripetitività delle attività, ma ha lo svantaggio di rallentare lo
sviluppo di capacità a carattere specifico.

Possiamo poi distinguere:


❖ struttura organica: caratterizzata da bassa specializzazione, bassa centralizzazione, bassa standardizzazione e
bassa formalizzazione;
❖ struttura meccanica; caratterizzata da alta specializzazione, alta centralizzazione, alta standardizzazione e alta
formalizzazione.
Ricorda che qualsiasi struttura si scelga, è difficile poi cambiarla.

Completano la struttura organizzativa i cosiddetti meccanismi di integrazione, i quali hanno la funzione di rendere
operativo il disegno di base dell’organizzazione, indirizzando il comportamento degli individui verso gli obiettivi
aziendali; essi comprendono i sistemi di pianificazione e controllo, che definiscono un ambito nel quale le decisioni
strategiche e tattiche possono essere assunte e definisce il complesso di operazioni che risulta più conveniente
attuare nel breve e nel lungo termine.

Approfondimento 1

JOB ENLARGMENT (dimensione orizzontale): si ha quando una posizione viene arricchita di più compiti inclusi
nella dimensione orizzontale del processo produttivo, ne consegue che l’impresa riduce la specializzazione;
dunque, se l’impresa vuole ridurre la specializzazione, dovrà aumentare il job enlargment, se vuole aumentare
la specializzazione, dovrà ridurre il job enlargment;
JOB ENRICHMENT (dimensione verticale): si ha quando una posizione viene arricchita di più compiti di
coordinamento e di controllo inclusi nella dimensione verticale del processo produttivo e anche in questo caso
ne consegue che l’impresa dovrà ridurre la specializzazione per aumentare il job enrichment;
JOB ROTATION: si ha quando la stessa persona passa da una posizione all’altra nel corso del tempo e questo
serve all’impresa per ridurre i costi di adattamento, in quanto, il soggetto, sviluppando più competenze,
diventerà più flessibile.
Approfondimento 2
Le strutture macro organizzative sono:
o struttura funzionale: prevede l’attribuzione di specifici compiti alle funzioni aziendali (es. produzione, finanza
e controllo, etc...). Tale struttura fa leva sulla specializzazione delle funzioni, che dipendono dalla direzione
generale, che rappresenta il vertice strategico, supportata da organi di staff, chiamati Internal Auditing. La
struttura funzionale è tipica delle aziende di medie dimensioni che operano in contesti ambientali non
particolarmente complessi oppure che producono una gamma di prodotti non eccessivamente diversificata.
Le imprese in cui mediamente è conveniente usare la struttura funzionale sono tipicamente quelle a bassa
diversificazione, che ricercano economie di scala (essendo la struttura funzionale una struttura fortemente
specializzata per funzione). La struttura funzionale garantisce lo sviluppo di processi di apprendimento a
livello di funzione, dunque favorisce la crescita dell’efficienza;
o struttura multi-divisionale: si basa sulle divisioni che possono riguardare il prodotto, l’area geografica o la
clientela. In questo modello le divisioni dipendono dalla direzione generale e il secondo livello di ciascuna
divisione è organizzato per funzioni aziendali. La struttura divisionale è tipica delle aziende di grandi
dimensioni che adottano strategie di differenziazione del prodotto (criterio per prodotto), oppure operano in
più continenti o nazioni (criterio per area geografica) o ancora si rivolgono a categorie di clienti caratterizzate
da esigenze diversificate (criterio per clientela);
o struttura matriciale: include un duplice criterio per la scomposizione delle attività produttive. In questa
struttura le attività al di sotto della direzione generale sono scomposte in relazione sia ai prodotti/mercati
serviti sia alle funzioni da svolgere. La struttura matriciale è tipica delle aziende di grandi dimensioni che si
occupano contemporaneamente di più progetti i quali richiedono una costante attenzione ai clienti (es.
costruzione su commessa di aerei), lo svantaggio risiede infatti nella sua elevata complessità, con conseguenti
costi elevati di coordinamento;
o struttura ibrida: include diversi criteri di scomposizione delle attività al di sotto del vertice. Tipiche strutture
ibride sono le strutture organizzative per progetto, dove su una struttura funzionale alcune persone sono
collocate in specifiche unità organizzative finalizzate alla creazione e alla gestione di un determinato progetto.

La struttura organizzativa è rappresentabile attraverso gli organigrammi, cioè dei grafici nei quali sono evidenziate le
singole posizioni organizzative e i loro legami (di line o di staff).

2) PERSONE: con le loro attitudini, aspettative, capacità e competenze influenzano la produzione del reddito
nell’impresa. Nell’ambito dei processi di selezione, sviluppo e formazione delle persone assumono rilievo i loro
tratti di personalità, nonché i loro bisogni, motivazioni, aspettative e valori. A questi elementi si aggiungono le
capacità e le competenze di cui sono portatori gli individui, dove sono rilevanti:
Capacità manageriale: capacità di negoziare, controllare, dirigere e limitare i rischi nell’impresa (basso
coinvolgimento emotivo, infatti il focus deve essere sul come le attività vengono svolte piuttosto che sul loro
perché);
Capacità imprenditoriale: creatività, immaginazione e spiccata abilità nel creare nuove opportunità di
sviluppo dell’impresa e nel trasformare le opportunità in possibilità produttive, dunque un individuo dotato di
competenze imprenditoriali non è solo un abile inventore, ma anche un innovatore;
Capacità di leadership: capacità di persuadere e di guidare, di modificare le idee, i problemi e il carattere
stesso dell’organizzazione. Queste capacità di leadership assumono rilevanza nell’ambito dell’impresa in
quanto consentono, da un lato, di enfatizzare aspetti quali l’organizzazione, la programmazione, la stabilità e,
dall’altro lato, di iniettare contenuti di innovazione nell’impresa e di mantenere vivi elementi quali la creatività;
inoltre, assumono rilevanza anche nell’ambito dei processi istituzionali, favorendo il mantenimento di
condizioni di legittimità dell’impresa.
Un ulteriore elemento di attenzione riguardante il contesto interno dell’impresa concerne la composizione del
personale e, soprattutto, il carattere di prevalente omogeneità (contesto in cui si facilita la creazione di rapporti
durevoli e si facilitano i canali comunicazione) o eterogeneità (contesto in cui si facilitano gli individui ad abbracciare
diverse prospettive, sviluppando processi creativi e capacità maggiori di risoluzione dei problemi) delle capacità e
competenze.
3) INCENTIVI: rappresentano un insieme di meccanismi finalizzati ad accrescere gli sforzi degli individui verso il
conseguimento degli obiettivi dell’impresa.
Si possono distinguere:
❖ incentivi monetari (pagamento di somme di denaro) ≠ incentivi non monetari (utilità diverse dal denaro);
❖ incentivi individuali (assegnati ad una singola persona) ≠ incentivi di gruppo (assegnati a più individui);
❖ incentivi legati ai comportamenti posti in essere (rispetto delle regole nello svolgimento di un compito) ≠
incentivi legati ai risultati conseguiti (produzione di 100 pezzi in un mese).
Gli effetti degli incentivi possono essere:
• estrinseci: insieme di benefici o sanzioni che l’individuo può ricevere dall’ambiente organizzativo in cui è
inserito (riconoscimento da parte di un superiore);
• intrinseci: insieme di benefici o sanzioni legati esclusivamente allo svolgimento di un compito (soddisfazione
personale nell’aver svolto il compito).
Gli incentivi possono anche configurarsi come forme di partecipazione delle persone alle scelte strategiche
dell’impresa, mediante la diretta cessione di titoli rappresentativi del capitale di rischio oppure attraverso la
concessione di diritti ad acquistare tali titoli (stock options). Se ben utilizzati, gli incentivi dovrebbero essere capaci di
influenzare la catena sforzi – compiti – effetti, accrescendo la percezione nel lavoratore che gli sforzi influenzano il
conseguimento dei risultati cui si associano poi effetti ai quali il lavoratore stesso attribuisce sostanziale rilevanza.
Inoltre, è importante sottolineare che le persone valutano in maniera negativa la possibilità che, a parità di sforzi,
altri individui ottengano benefici maggiori e che quindi con sforzi minori possano ottenere gli stessi benefici del
soggetto stesso; a tal proposito, la percezione di iniquità riduce la motivazione e, quindi, gli sforzi profusi da un
individuo nello svolgimento di un compito specifico.

4) CULTURA: insieme di artefatti, valori condivisi e assunzioni che forniscono standard di comportamento agli
individui che fanno parte di un’impresa (assemblee, meeting). Organizzazioni caratterizzate da una impronta
culturale decisa e condivisa tendono a raggiungere gli obiettivi con livelli di efficacia ed efficienza maggiori, in
quanto essa facilita il coordinamento tra gli individui e riduce il conflitto di interesse, con conseguenti
benefici in termini di costi di agenzia. Inoltre, in un ambiente a cultura decisa, gli individui sono più propensi
ad accrescere il proprio sforzo nell’ambito dello svolgimento dei compiti e quindi saranno più propensi allo
sviluppo di capacità specifiche e al restare nell’organizzazione d’appartenenza: questo avviene perché si
intravede una sostanziale congruenza tra i valori personali e la cultura dell’organizzazione.

Costruire una cultura solida richiede molto tempo: questo può rappresentare un ostacolo al cambiamento.

I processi produttivi
I quattro aspetti appena analizzati (struttura, persone, incentivi e cultura) vanno considerati in connessione
reciproca e con le altre dimensioni dell’impresa, soprattutto con le scelte strategiche, i processi produttivi, lo stadio
evolutivo dell’impresa ed il contesto esterno.

I processi produttivi si possono distinguere in:


❖ processi discreti: riguardano combinazioni produttive in grado di produrre una moltitudine di beni economici
e possono riguardare la produzione di beni per commessa (si parla di processi job-shop) o per il magazzino, sia
per piccole serie che per grandi lotti;
❖ processi continui: riguardano combinazioni produttive in grado di produrre una moltitudine di prodotti in
modo continuo.

Nei processi discreti su commessa il contesto interno dovrebbe essere caratterizzato da una struttura organizzativa a
bassa standardizzazione e formalizzazione, così che ci sia facile adattabilità alle richieste provenienti dai clienti. Nei
processi discreti per grandi lotti e per i processi continui l’impresa potrà ricercare un contesto interno caratterizzato
da una struttura organizzativa con elevata specializzazione, standardizzazione e formalizzazione, al fine di accrescere
il potenziale di economia di scala e di apprendimento. L’organizzazione interna deve attenersi anche con lo stadio
evolutivo impresa.
Il problema del cambiamento
Le tendenze irreversibili di fondo, così come i cambiamenti radicali, possono emergere sia dal contesto esterno (es.
nuove tecnologie, variazione delle preferenze del consumatore) che dal contesto interno dell’impresa (es. modifica
delle combinazioni produttive, evoluzione delle competenze individuali). Indipendentemente dalla fonte, i
cambiamenti richiedono spesso alle organizzazioni di adattarsi alle nuove condizioni, mantenendo comunque
condizioni di coerenza sia interna, con le proprie attività, che esterna, con i criteri di efficacia, efficienza e redditività.
Il cambiamento richiede un sistema organizzativo interno qualificato da bassa specializzazione, bassa
standardizzazione, bassa centralizzazione e bassa formalizzazione (struttura organica).

La possibilità dell’impresa di rispondere rapidamente al cambiamento dipende innanzitutto dalla natura del
cambiamento, infatti possiamo distinguere varie forme intermedie di innovazione:

❖ INNOVAZIONI RADICALI: sono le più difficili da realizzare in quanto cambiano le componenti e l’architettura
dei prodotti (es. introduzione del computer al posto delle macchine da scrivere);
❖ INNOVAZIONI INCREMENTALI: sono le più semplici da realizzare (es. introduzione di varianti di motore a
scoppio);
❖ INNOVAZIONI ARCHITETTURALI: es. introduzione delle auto elettriche al posto di quelle tradizionali che hanno
il motore a scoppio;
❖ INNOVAZIONI MODULARI: es. introduzione di apparecchi più avanzati per il computer.

La possibilità di un’impresa di rispondere rapidamente al cambiamento è ostacolata dall’esistenza di:

❖ inerzie strutturali: impediscono il cambiamento anche quando gli individui sono consapevoli della sua
necessità ed importanza. Questi impedimenti sono legati alla presenza di:
- costi sommersi: costi che il decisore non ritiene più recuperabili in presenza di un processo di adattamento.
Al crescere degli stessi, il decisore ritiene erroneamente che il cambiamento dovrà comportare benefici che
siano in grado di coprirli insieme ai costi di cambiamento, se poi questa condizione non si verifica, ci può
essere una tendenza del decisore stesso a rinunciare ad adattarsi;
- costi di coordinamento: la presenza di cambiamenti in alcune parti dell’organizzazione (es. persone,
posizioni, incentivi) può comportare problemi di coordinamento all’interno dell’impresa e di conseguenza
aumentarne i costi, in quanto si vanno a recidere i rapporti di complementarietà formatesi nel tempo, già
ormai incorporati nel sistema organizzativo;
- incentivi individuali: il cambiamento può confliggere con gli interessi di alcune parti dell’organizzazione così
come di specifici individui, dunque quest’ultimi e gli incentivi a cui sono esposti (es. problemi di carriera)
possono far ritenere altamente conveniente per l’impresa non dar luogo ad alcun cambiamento.
❖ Inerzie cognitive: legate all’incapacità di un’impresa di capire come e quando adattare l’organizzazione al
cambiamento (es. convinzioni del manager rispetto ai prodotti).

Le considerazioni appena formulate portano a far ritenere che il sistema organizzativo può indurre rigidità e creare
un contesto nel quale l’impresa palesa difficoltà nel cambiamento: tali difficoltà sono sempre più crescenti quanto
più si cerca di modificare gli aspetti più persistenti e durevoli dell’impresa. Solitamente, l’organizzazione o è
efficiente o è innovativa, non è possibile realizzare entrambe (trade-off tra efficienza e innovazione) perché il
modello organizzativo di cui ha bisogno l’organizzazione per realizzare l’efficienza o l’innovazione è totalmente
diverso: se l’organizzazione punta all’efficienza deve ricorrere ad una struttura meccanica, se punta all’innovazione
deve ricorrere ad una struttura organica. Per questo motivo si creano le STRUTTURE ORGANIZZATIVE AMBIDESTRE,
che hanno il compito di combinare efficienza e innovazione tramite:

• separazione strutturale: si creano due imprese, in particolare un’impresa punta all’innovazione, mentre l’altra
punta all’efficienza;
• separazione temporale: si alternano periodi in cui l’organizzazione si concentra sulle combinazioni esistenti
(efficienza) e periodi in cui si concentra sullo sviluppo di nuove combinazioni (innovazione);
• strutture ibride/modulari: strutture intermedie tra le strutture organiche e le strutture meccaniche, in cui si
hanno dei moduli che hanno una certa autonomia, sono collegati gerarchicamente tra di loro e sono soggetti
a frequenti cambiamenti.
Comunque, il cambiamento è difficile da realizzare, ma è necessario e in questo senso la funzione di organizzazione
ha l’ulteriore compito di creare nel contesto interno un equilibrio tra lo sviluppo delle coordinazioni produttive
esistenti e l’integrazione delle nuove sintesi produttive.

CAP.5) IL CONTESTO ESTERNO


Il contesto esterno comprende l’insieme dei soggetti, oggetti e condizioni che sono potenzialmente in grado di
influenzare l’impresa e la sua dinamica evolutiva in un determinato ambito geografico di riferimento (es. organizzazioni
dei consumatori che attraverso degli strumenti di pressione, come le class action, possono esercitare un’influenza
sull’impresa nel caso in cui quest’ultima abbia leso gli interessi dei consumatori oppure un’impresa che introduce sul
mercato un farmaco dannoso e i consumatori possono costringerla a ritirare il prodotto dal mercato). Nel considerare
il contesto interno, l’attenzione è riservata alla singola impresa, all’unità produttiva o a gruppi di imprese, in quello
esterno, l’attenzione è invece riservata ad aggregati di imprese, quali settori, industrie e comparti.
Il contesto esterno comprende:
• l’ambiente generale, che racchiude le influenze proiettate sull’impresa dagli ambienti politico, economico,
sociale, tecnologico, ambientale e legale;
• l’ambiente specifico, che racchiude le influenze proiettate sull’impresa da parte di fornitori, concorrenti
attuali o potenziali, clienti e produttori.
I fattori del contesto esterno generale sono generalmente esogeni (esterni), tranne il caso in cui un’impresa può
modificare il contesto esterno attraverso tecnologie di rottura, cioè tramite fenomeni innovativi, ed è per questo che
tali fenomeni e tendenze possono stimolare comportamenti aziendali di breve periodo volti a modificare gli aspetti
più persistenti e a ricercare una compatibilità con le condizioni del contesto esterno.
A livello specifico, il contesto esterno si compone di due ambiti:
• l’ambito transazionale: riguarda il complesso di relazioni contrattuali che l’impresa instaura con una pluralità
di soggetti, quali i fornitori nell’ambito dell’approvvigionamento e i clienti nell’ambito dei mercati di
collocamento;
• l’ambito competitivo: riguarda il complesso di relazioni contrattuali che l’impresa instaura con i concorrenti
attuali o potenziali e con i produttori di beni sostituti o complementari.
Le due dimensioni del contesto esterno sono interdipendenti, difatti, la dipendenza dal contesto esterno a carattere
generale di una singola impresa può essere amplificata o mitigata in ragione sia del contesto specifico in cui essa
agisce e sia dai fattori specifici di natura strategica, finanziaria ed organizzativa di cui l’impresa dispone. I fenomeni a
livello generale dell’impresa sono normalmente filtrati dalle caratteristiche del contesto specifico.

Il settore
Il settore costituisce l’insieme di imprese tra le quali vi è un elevato grado di omogeneità e si qualifica come una
porzione del sistema economico, composta da raggruppamenti di imprese tra loro simili, in quanto accomunate dai
beni economici che producono, dai mercati di riferimento, dagli input produttivi, dalla tecnologia e dai processi
interni. Al settore possono essere interessati soggetti diversi, tra cui il decisore pubblico, che indaga i settori al fine
di intraprendere interventi di politica industriale, l’intermediario finanziario, che analizza i settori al fine di
comprendere e prevedere la solvibilità delle imprese, che esprime l’attitudine di un’impresa a rimborsare con
regolarità i finanziamenti richiesti, il ricercatore (o studioso) e il decisore dell’impresa, cioè il soggetto economico
della stessa, che è interessato alla raccolta di informazioni e allo sviluppo di rappresentazioni utili all’assunzione di
decisioni in vista del conseguimento degli obiettivi dell’impresa stessa.

Occorre qualificare il denominatore comune in termini di:

- criterio di ampiezza: secondo cui un denominatore comune troppo ampio rende la concorrenza irrilevante,
sommando nello stesso settore imprese assai differenti tra loro, difficilmente comparabili, al contrario un
denominatore comune ristretto fa sottostimare la concorrenza effettiva, considerando un numero limitatissimo o
addirittura insignificante di organizzazioni che occupano lo stesso settore;
- criterio di demarcazione: secondo cui si considerano gli aspetti prettamente merceologici, dunque imprese che
producono lo stesso bene o servizio, ma in realtà, la similarità merceologica non implica necessariamente
un’omogeneità tra le rispettive imprese produttrici, in quanto gli stessi prodotti possono essere realizzati con
tecnologie diverse, possono essere offerti a clienti diversi o distribuiti in aree geografiche e/o canali di distribuzione
differenti, per questo motivo due beni potrebbero essere sostituti sebbene difformi sul piano merceologico.

Questo ha spinto diversi studiosi a ricercare nuove vie per qualificare i settori: a riguardo, lo studioso Bain pone al
centro dell’attenzione il tema della sostituibilità dei prodotti offerti da imprese diverse quale parametro per
identificare il settore, dunque secondo egli due imprese appartengono allo stesso settore se i prodotti sono tra loro
succedanei, cioè sostituibili.

La sostituibilità si può manifestare:


• in termini di prodotti offerti, cioè quando i consumatori possono scegliere un bene offerto da un’impresa
piuttosto che un altro offerto dall’impresa concorrente;
• in termini di aree geografiche servite, cioè quando i consumatori possono scegliere di acquistare un prodotto
in una determinata area piuttosto che in un’altra.
Altri studi pongono invece l’accento sulle combinazioni produttive e sulle tecnologie adottate: l’impresa, a prescindere
dal tipo di bisogno, appartiene ad un certo settore piuttosto che ad un altro in base al processo produttivo e alle
tecnologie che adotta. Questa prospettiva sposta il focus dalla sostituibilità del prodotto alla sostituzione tra
tecnologie di produzione (es. imprese informatiche, tra loro differenziate in ordine ai software, ma simili sul piano
tecnologico). Altri ancora considerano lo stadio produttivo, rispetto al quale si introducono i concetti di:
- processo terminale settoriale (o diagramma di flusso produttivo settoriale): si qualifica come un insieme di stadi
produttivi che partendo da un determinato input consentono la realizzazione di un output;

- sistema economico settoriale: si qualifica come un’aggregazione dettata da inscindibili legami funzionali tra il
processo terminale settoriale e l’insieme delle attività che allo stesso tempo forniscono input operativi e strategici.

In quest’ottica, tenendo conto della sostituibilità, il settore può essere definito in ciascuno degli stadi della
produzione: materie prime, approvvigionamento, trasformazione, ottenimento dei prodotti, imballaggio e
magazzinaggio e distribuzione commerciale.
In conclusione, si considera la distinzione tra i concetti di settore, industria, mercato e comparto: nella prassi, settore
e industria vengono utilizzati come sinonimi, l’industria, in senso tecnico, è un settore in cui vi sono solo imprese i
cui processi di trasformazione utilizzano la modalità industriale, mentre il settore ingloba le imprese i cui processi di
trasformazione utilizzano sia la modalità industriale che la modalità artigiana, quindi, di fatto, il settore comprende le
imprese industriali e artigiane, mentre l’industria comprende solo le imprese industriali. Per quanto riguarda la
relazione tra settore e mercato quest’ultimo va inteso come un settore definito dal lato della domanda e in questo
senso il mercato si differenzia dal settore, in quanto il primo è influenzato dalla differenziazione dei prodotti, mentre
il settore potrebbe ignorare questo aspetto. In altre parole, mentre la definizione di mercato si incentra
sull’omogeneità dei prodotti offerti, il settore potrebbe includere anche prodotti eterogenei, ma sostituibili tra loro.
Settore e mercato coincidono quando si fa riferimento a imprese a unico prodotto operanti in un mercato
perfettamente competitivo, perché in tal caso le imprese aggregate in base al prodotto appartengono tutte ad un
medesimo settore e vendono tutte sul medesimo mercato. Il comparto, invece, si qualifica come un sub-settore di
un settore più ampio, cioè esso è una sotto articolazione del settore (es. nel settore delle auto vi sono il comparto
delle auto sportive, il comparto delle auto utilitarie etc...).

Elasticità incrociata come indicatore della sostituibilità tra prodotti


Il termine elasticità si riferisce alla sensibilità di una variabile dipendente rispetto ad una variabile indipendente ed
indica l’intensità con cui varia la domanda di un dato bene per ogni variazione del suo prezzo unitario di vendita.
Kaldor è stato uno dei primi economisti a utilizzare l’elasticità incrociata come parametro quantitativo per
∆𝑄𝑦 𝑝
circoscrivere i settori, calcolata come 𝜺𝒙,𝒚 = 𝑄𝑦
∙ ∆𝑝𝑥 , dove 𝛆𝐱,𝐲 è l’elasticità incrociata dei beni x e y, Q y è la quantità
𝑥
domandata del bene y e px è il prezzo unitario del bene x.
In particolare:
• se 𝜺𝒙,𝒚 > 0: c’è un certo grado di sostituibilità tra i beni x e y, infatti l’aumento del prezzo del bene x (∆𝑝𝑥 > 0),
causa una crescita della domanda del bene y (∆𝑄𝑦 > 0) e viceversa (beni sostituti);
• se 𝜺𝒙,𝒚 < 0: c’è un certo grado di complementarietà tra i beni x e y, infatti l’aumento del prezzo del bene x
(∆𝑝𝑥 > 0), causa una riduzione della domanda del bene y (∆𝑄𝑦 < 0) e viceversa (beni complementari);
• se 𝜺𝒙,𝒚 = 0: i beni non sono né sostituti, né complementari, pertanto la domanda del bene y è del tutto
indipendente dal prezzo del bene x.
Prospettive sul settore
Le prospettive nell’ambito del settore sono tre:
• 1° prospettiva: la redditività dell’impresa è connessa con le caratteristiche del settore;
• 2° prospettiva: nello stesso settore possono esservi imprese con elevata redditività e imprese con minore
redditività per via dell’efficienza della singola impresa, in particolare per la sua dimensione in termini di scala
produttiva e di quota di mercato (es. imprese di grandi dimensioni beneficiano di economie di scala e di
apprendimento, operando con costi unitari di produzione più bassi e beneficiando, così, di maggiori livelli di
redditività);
• 3° prospettiva: nello stesso settore possono esservi imprese con elevata redditività e imprese con minore
redditività per via delle caratteristiche specifiche dell’impresa (persone con spiccate capacità manageriali e di
leadership).
Le tre prospettive richiamate sono state oggetto di analisi e di studi al fine di verificare in che misura le caratteristiche
del settore potessero incidere sulla redditività aziendale, in particolare gli economisti Schmalensee e Rumelt osservano
che sebbene la specificità dell’impresa sia il primo elemento determinante della redditività aziendale, le caratteristiche
del settore sono parimenti influenti e concorrono a determinare circa il 15% della redditività dell’impresa.
Profittabilità potenziale del settore
Il potenziale di reddito del settore, ovvero la sua profittabilità potenziale, indica la differenza tra il valore percepito
dal cliente per i beni offerti dalle imprese operanti nel settore e il costo opportunità connesso con la produzione di
tali beni. La differenza rappresenta il margine massimo potenziale che, moltiplicato per la quantità, fornisce il reddito
potenziale massimo, che si trasforma in reddito dell’impresa solo attraverso il processo competitivo (solo in caso di
monopolio il reddito potenziale coincide con il reddito d’impresa. Si tratta di una grandezza dinamica in quanto
cambia nel tempo e da settore a settore, più è alta più le imprese hanno possibilità di generare reddito. In termini
grafici, il valore percepito si ottiene dalla curva di domanda dell’industria mentre, allo stesso modo, allineando i costi
opportunità per la produzione di ogni unità incrementale di prodotto si ottiene la curva di offerta dell’industria, che
rappresenta il minimo costo che l’impresa deve sostenere per acquistare i fattori della produzione. L’area collocata
al di sopra della curva di offerta ed al di sotto di quella di domanda rappresenta la profittabilità potenziale di un
determinato settore, che può accrescersi o ridursi in relazione alle dinamiche nell’ambito della domanda e
dell’offerta, quali ad esempio l’ampliarsi del numero di clienti, la riduzione della loro sensibilità ai prezzi oppure la
contrazione dei costi unitari per effetto di innovazioni tecnologiche. La capacità di un’impresa di generare flussi di
reddito dipende non solo dalla profittabilità potenziale, ma soprattutto dalla capacità dell’impresa di partecipare alla
distribuzione del settore in misura maggiore rispetto alle concorrenti: tale fase è definita di appropriazione del
profitto. In tale fase assume rilievo il concetto di concorrenza o competizione, che esprime un processo attraverso il
quale ciascuna impresa ricerca, attraverso azioni e decisioni, di acquisire una quota della redditività potenziale
prodotta a livello di settore.

Tale concetto viene analizzato da due diversi modelli:

MODELLO STRUTTURA – CONDOTTA – RISULTATI: fornisce un importante chiave di lettura delle relazioni tra
impresa ed ambito competitivo, basata su una particolare prospettiva che prende il nome di strutturalismo. Secondo
questo modello la struttura del settore influenza le condotte delle imprese (riguardanti la qualità dei prodotti, la
fissazione dei prezzi etc…) e le condotte influenzano, a loro volta, i risultati (riguardanti l’economicità, la redditività e
il progresso tecnologico). In questo modello, la struttura dell’industria è definita da un insieme di fattori strutturali di
carattere qualitativo/quantitativo, difficilmente modificabili nel breve periodo (fattori semipermanenti
tendenzialmente stabili). Il modello struttura-condotta-risultati è condizionato, inoltre, dalla presenza di fattori
esogeni, primo fra tutti le decisioni di natura pubblica, finalizzate a regolamentare il complesso di tutte le attività
economiche. Tra gli elementi di un settore che esprimono sostanzialmente il livello di competizione attuale e
potenziale del settore e che considerano che al crescere della competizione si riduce la capacità di ciascuna impresa
di appropriarsi di fette maggiori del potenziale di profitto generato dal settore, si trovano la concentrazione e la
differenziazione, che riguardano la concorrenza attuale, e le barriere all’entrata, che riguardano la concorrenza
potenziale.

CONCENTRAZIONE: riguarda il numero e la dimensione delle imprese e può essere massima, quando si hanno poche
imprese, ma di grandi dimensioni (monopolio), o minima quando si hanno molte imprese di eguale dimensione
(concorrenza perfetta), in particolare al crescere del numero delle imprese e con una sostanziale uniformità della
distribuzione dimensionale delle stesse, si amplia la competizione corrente tra le imprese presenti nel settore. Si è
osservato che un settore è concentrato se è limitato il numero di imprese che vi operano e se esistono alcune imprese
che prevalgono significativamente rispetto alle altre. Nel valutare la concentrazione di un settore è necessario
considerare tre diversi aspetti:
1) oggetto della misurazione: la concentrazione può essere qualificata in senso tecnico, se ci si riferisce alle unità
produttive, in senso economico, se ci si riferisce alle unità decisionali, dunque alle imprese, oppure in senso
finanziario se ci si riferisce ai gruppi di imprese;

2) variabile rispetto alla quale la misura viene riferita: la concentrazione può essere espressa mediante indicatori di
struttura (es. numero di addetti, capacità produttiva, capitale investito netto) ed indicatori di risultato (es. quantità
venduta, fatturato, valore della produzione, valore aggiunto);

3) criteri di misurazione: la concentrazione può assumere la configurazione parziale, se considera solo le prime n
imprese (in tal caso, la concentrazione consiste nell’individuare le imprese di maggior dimensione nel settore,
ordinarle dalla più grande alla più piccola e, su la base di questa distribuzione ordinata, calcolare gli indici X e Y) o
totale se considera tutte le imprese del settore.

La concentrazione si può calcolare attraverso 3 indici:


• indice X e Y (indice di concentrazione parziale): se, ad esempio, si prende in considerazione il valore della
produzione come variabile, l’indice x esprime la quota di valore della produzione complessiva del settore
detenuta dalle prime n imprese, l’indice y, invece, esprime il numero di imprese necessarie per realizzare una
certa percentuale del valore della produzione;
• indice di Hirshmann - Herfindahal (indice di concentrazione complessiva): si calcola andando a considerare
un coefficiente di variabilità delle imprese presenti in un settore ed è espresso come somma dei quadrati
delle quote di mercato delle singole imprese presenti nel settore:
𝑵

𝑯 = ∑ 𝐬𝒊𝟐
𝒊=𝟏
L’indice di concentrazione viene poi determinato aggiungendo uno alla somma dei quadrati e dividendo il
risultato per il numero di imprese presenti nel settore, ottenendo un indice compreso tra 0 ed 1: quando è
pari a 0, il coefficiente di variabilità risulta minimo e quindi la concentrazione stessa sarà nulla e la
competizione massima, mentre quando è pari ad 1 il coefficiente di variabilità sarà massimo, così come la
concentrazione e dunque la competizione sarà nulla;
• indice di Gini (indice di concentrazione complessiva): si esprime la quota di mercato e sulla base di questa si
costruisce una distribuzione ordinata che va dall’impresa più piccola all’impresa più grande. Questa
distribuzione ottenuta, spesso indicata con la curva di Lorenz, viene confrontata con una distribuzione
ipotetica nel caso di equi-distribuzione, ottenendo così un indice che varia tra 0 ed 1: quando è pari a 0, le
imprese avrebbero tutte la stessa dimensione, dunque la concentrazione sarebbe nulla e la competizione
massima, mentre quando è pari ad 1 si ha il caso monopolistico, dunque la concentrazione è massima e la
concorrenza minima.

DIFFERENZIAZIONE: consiste nel creare la percezione nel cliente che il prodotto offerto dall’impresa sia unico e
distinto rispetto ai prodotti delle imprese concorrenti.
Essa può basarsi su:
• aspetti tangibili del bene (es. qualità, funzionalità del prodotto);
• aspetti intangibili del bene (es. marchi, immagine, segni distintivi);
• relazioni con i clienti (es. servizi di assistenza pre e post-vendita).
La presenza di caratteristiche tangibili, intangibili e di relazioni con i clienti è condizione necessaria, ma non sufficiente
per la differenziazione del prodotto, infatti occorre che queste caratteristiche distintive vengano percepite come tali
dal cliente.

Inoltre, la differenziazione può distinguersi in:

• differenziazione orizzontale: i consumatori non riescono ad ordinare su una scala di valutazione un insieme
di prodotti differenti poiché ogni gruppo di clienti preferisce diverse tipologie di prodotto (es. alcuni
preferiscono il gelato altri lo yogurt);
• differenziazione verticale: i consumatori riescono ad ordinare i prodotti su una scala di valutazione, dunque,
se i prodotti hanno prezzi uguali, i consumatori tenderanno tutti a concentrarsi su quei prodotti che hanno la
migliore qualità percepita.
La differenziazione dei prodotti influenza sia l’intensità che le modalità attraverso cui la competizione si manifesta:
assente ogni forma di differenziazione, i prodotti offerti dalle diverse imprese in un settore sono in forte
competizione tra loro per soddisfare le esigenze della clientela. Inoltre, in questo caso, l’omogeneità dei prodotti
offerti porterà ad avere lo stesso valore percepito per tutti i consumatori, dunque la competizione si esplica
attraverso la leva dei prezzi: gli acquisti dei consumatori si spostano verso quei prodotti che sono offerti al prezzo
più basso. In presenza di differenziazione dei prodotti, invece, la concorrenza si manifesta in maniera più intensa in
riferimento ai beni che il consumatore percepisce come similari e meno rispetto ai beni che sono percepiti come
sostanzialmente differenti: la competizione assume un carattere locale tra i prodotti che sono percepiti come
sostanzialmente similari. In questo caso, le scelte dei consumatori si basano sia sul prezzo che sulle caratteristiche
del prodotto stesso, quindi la competizione tra le imprese potrà basarsi più su leve commerciali e marketing e meno
sul prezzo.

BARRIERE ALL’ENTRATA: mentre la concentrazione qualifica la concorrenza effettiva e la differenziazione qualifica


le modalità attraverso le quali essa si manifesta, le barriere all’entrata riguardano la cosiddetta concorrenza
potenziale, ovvero la concorrenza esercitata sulle imprese del settore da parte delle potenziali entranti, cioè delle
imprese esterne al settore che hanno la capacità di ridurre la quota di mercato delle imprese già operanti nel settore.
Le barriere all’entrata proteggono, dunque, il settore rispetto al rischio di nuovi concorrenti, ponendo i potenziali
entranti in condizioni di svantaggio rispetto alle imprese già operanti nel settore. Più sono forti, maggiore sarà la
profittabilità potenziale del settore.
Esse si possono misurare attraverso:
• prezzo di deterrenza: prezzo massimo che le imprese esistenti possono fissare senza che ciò induca l’ingresso
di nuovi entranti nel settore. Se prezzo di deterrenza ≤ costo unitario medio di produzione, i nuovi entranti
non hanno incentivo ad entrare nel settore. Il margine massimo percentuale viene calcolato sottraendo al
prezzo di deterrenza il costo medio unitario (se è positivo le imprese esistenti hanno dei vantaggi rispetto ai
nuovi entranti). Se in un settore le barriere all’entrata sono nulle, il prezzo di deterrenza è uguale al costo
unitario medio di produzione;
• prezzo di induzione all’ingresso: prezzo minimo che le imprese esistenti possono fissare per indurre l’ingresso
di nuovi entranti nel settore. Se prezzo di induzione all’ingresso > costo unitario medio di produzione, i nuovi
entranti hanno incentivo ad entrare nel settore.

Le barriere all’entrata possono scaturire da barriere di carattere strutturale:


❖ fabbisogno di capitale: l’ingresso in settori ad alta intensità di capitale è proibitivo per molte imprese, in
ragione degli investimenti elevati necessari per competere con le imprese già presenti;
❖ economie di scala: consolidano le posizioni acquisite dalle imprese già operanti nel settore, in ragione del
fatto che l’ingresso nello stesso in condizioni di efficienza necessita della capacità di operare su larga scala e
quindi di acquisire un’elevata quota della domanda presente nel settore. In tal caso, se la scala produttiva
necessaria per operare in condizioni di costo minimo è elevata e la domanda del settore è già soddisfatta da
quelle presenti, i nuovi entranti saranno costretti ad operare nel settore con livelli di costo unitario superiori
rispetto a quelli tipici delle imprese che già vi operano. Dall’altro lato, l’ingresso dei nuovi entranti potrebbe
comportare un’espansione dell’offerta complessiva e dunque, data la domanda, esercitare una pressione
verso il ribasso dei prezzi, con conseguente riduzione del profitto atteso da parte delle imprese entranti e di
quelle già operanti. A tali osservazioni va aggiunta la possibilità che le imprese esistenti fissino prezzi di
vendita ad un livello inferiore rispetto ai costi unitari medi dei nuovi entranti i quali, qualora decidessero di
entrare nel settore, sarebbero così indotti a subire perdite d’esercizio. Queste barriere sono tipiche degli
oligopoli;
❖ economie di scopo: si manifestano in presenza di possibilità di utilizzare i medesimi input nella produzione di
due o più beni, dunque lo svantaggio delle nuove entranti consiste nella difficoltà di entrare nel settore con
un’adeguata gamma di prodotti e produrre con gli stessi costi unitari;
❖ economie di esperienza: riguardano la possibilità di migliorare l’efficacia e l’efficienza dell’attività operativa
mediante un processo di apprendimento continuo, dal quale scaturisce una costante riduzione dei costi medi
unitari. Lo svantaggio dei potenziali concorrenti risiede proprio nel fatto che non hanno ancora sviluppato un
certo percorso di miglioramento continuo e di apprendimento nell’ambito dei processi di produzione e di
distribuzione del bene;
❖ vantaggi assoluti di costo: gli oneri sostenuti per l’acquisizione di input tendono ad essere inversamente
correlati all’affidabilità di un’impresa e alla sua notorietà, dunque le imprese già esistenti sosterranno costi
minori, in quanto, avendo già avuto rapporti con fornitori e distributori, sarà più facile per loro ottenere
delle condizioni di costo favorevoli rispetto ai nuovi entranti;
❖ barriere istituzionali e legali: dipendono da politiche governative volte a regolamentare l’ingresso in
determinati settori (a volte, si deve ottenere una licenza o un brevetto specifico per svolgere l’attività di
produzione). Tipicamente si manifestano in presenza di rigide legislazioni in tema di licenze, brevetti, marchi
e copyright.

Oppure da barriere di carattere comportamentali:


❖ accesso ai canali distributivi: per i dettaglianti l’acquisizione di un nuovo fornitore non affermato comporta
elevati rischi di fornitura, mentre, l’instaurazione di rapporti commerciali con un nuovo produttore comporta
per il dettagliante costi fissi addizionali che, se troppo elevati, rendono l’operazione economicamente
svantaggiosa;
❖ possibili ritorsioni azionabili dalle imprese presenti nel settore: ad esempio, l’intensificazione degli
investimenti pubblicitari e la riduzione dei prezzi se considerati troppo consistenti possono un danno dal lato
dell’offerta del settore: tali ritorsioni agiscono negativamente sulla profittabilità del settore perché
accrescono le difficoltà di ordine economico-finanziario per le unità entranti;
❖ politiche aggressive da parte di imprese esistenti, in quanto le imprese esistenti possono attuare politiche
aggressive nei confronti dei nuovi entranti (intensificando gli investimenti pubblicitari o riducendo i prezzi);
❖ differenziazione stessa: quando essa si associa a comportamenti persistenti dei consumatori verso prodotti
associati ad imprese ad elevata reputazione e alla presenza di relazioni privilegiate tra consumatori e
produttori può rappresentare una barriera all’entrata. Nelle richiamate circostanze, i nuovi entranti
dovrebbero investire molto sia nella ricerca di un design innovativo rispetto a quelli già esistenti sia nel
ricercare nuove forme di relazione con i consumatori; è per questo motivo che conta non solo il prezzo, ma
anche la differenza tra valore percepito e prezzo.

Concludendo, maggiori sono le barriere all’entrata in un settore, minore sarà la convenienza per un’impresa appena
formatasi ad entrare nel settore, maggiore sarà la possibilità per le imprese esistenti di appropriarsi della profittabilità
potenziale del settore stesso che non dovrà essere condivisa con i potenziali nuovi entranti.
BARRIERE ALL’USCITA: esprimono i costi che un’impresa esistente in un settore deve sostenere per cessare la sua
produzione e uscire dal settore stesso. Si collegano ai costi sommersi (sunk costs), che emergono dal momento in cui
l’entrata in un settore richiede elevati investimenti non recuperabili in fase di uscita. Ne consegue che tanto più sono
alti i costi sommersi, tanto più è alto il disincentivo delle imprese esistenti ad uscire dal settore.
Tra i regimi competitivi si ha:

• concorrenza perfetta: è caratterizzata da un livello di concentrazione tendenzialmente nullo, assenza di


differenziazione e limitatissime barriere all’entrata. In concorrenza perfetta P = C = R, dunque non si
realizzano extra-profitti, infatti la competizione attuale e potenziale è intensa e il reddito potenziale viene
suddiviso tra le molteplici imprese.
L’appropriazione del profitto potenziale generato a livello di settore consegue a scelte di prezzo delle singole
imprese, scelte che sono vincolate dai meccanismi di incontro tra domanda ed offerta;
• monopolio: è caratterizzato da un livello di concentrazione massimo (c’è infatti una sola impresa), elevata
differenziazione e molte barriere all’entrata. Nei settori caratterizzati da regimi monopolistici, la concorrenza
attuale e potenziale è sostanzialmente nulla, cosicché l’impresa dominante potrà fissare prezzi e quantità al
fine di appropriarsi dell’intera profittabilità potenziale del settore. Nel monopolio il reddito potenziale è uguale
al reddito dell’impresa, dunque si realizzano extra-profitti (opposto della concorrenza perfetta);
• oligopolio: è caratterizzato da un livello di concentrazione alto per via delle poche imprese di grandi
dimensioni che operano nel settore, elevata differenziazione e presenza di barriere all’entrata medio/alta.
La competizione attuale e potenziale è limitata e si possono realizzare extra-profitti; la competizione sui
prezzi si spinge fino al punto in cui non emerge la convenienza a limitare eccessive spinte concorrenziali che
potrebbero pregiudicare la profittabilità del settore. Ne conseguono i cosiddetti cartelli spontanei, cioè
accordi taciti originati da un interesse comune a mantenere alto il livello dei prezzi in condizioni di stabilità
della domanda.

Possiamo concludere affermando che una maggiore concentrazione del settore si collega a fenomeni di sostituzione
di unità produttive di minore dimensione e inefficienti con unità produttive di maggiori dimensioni e più efficienti;
inoltre, un grado di concentrazione elevato segnala un potenziale potere di mercato da parte delle imprese, che
riusciranno così a determinare i prezzi e le quantità, appropriandosi di una fetta consistente della profittabilità
potenziale del settore e migliorando la loro redditività. Settori a elevata concentrazione e con alte barriere
all’entrata sono qualificati da maggiori livelli di efficienza rispetto a settori a bassa concentrazione con limitate
barriere l’entrata; dall’altro lato però una bassa concentrazione e contenute barriere all’entrata mantengono accesa
la dinamica competitiva, che rappresenta un fattore di stimolo per le imprese a ricercare condizioni di efficienza al
fine di sopravvivere in tali contesti.

MODELLO DELLE 5 FORZE COMPETITIVE O MODELLO DI PORTER: consente di studiare l’attrattività di un dato
settore e di ampliare il concetto di competizione (riferito nel modello struttura-condotta-risultati ai soli concorrenti
effettivi e potenziali) alle influenze esercitate dai produttori di beni sostituti, ai clienti e ai fornitori (ricorda che per
applicare questo modello si deve definire l’industria focale, cioè l’industria di riferimento). Anche questo modello
assume che l’appropriarsi della profittabilità potenziale generata dal settore decresce all’aumentare della
competizione.
FORZE ORIZZONTALI: sono rappresentate dai nuovi
entranti, che hanno più potere se le barriere sono
basse, e dai prodotti sostituti (es. aereo e treno).
• il potere dei sostituti dipende dal rapporto tra
prezzi e prestazioni (es. tratta Roma-Pechino,
se vado in treno ci metto molto di più che se
vado in aereo) e dalla presenza di costi di
cambiamento (o switching costs), cioè di costi
che un cliente deve sostenere per passare da
un’offerta ad un’altra.

I nuovi prodotti sostituti sono in grado di appropriarsi di una parte della profittabilità del settore, che si traduce con
uno spostamento delle preferenze dei consumatori a favore di beni e servizi alternativi a quelli già offerti. Il grado di
innovazione di questi beni potrebbe comportare la fine di un certo settore, in quanto il divario di prestazioni tra beni
sostituti e beni correnti non è compensabile dal lato dei prezzi, in quanto la necessaria riduzione dei prezzi non è
economicamente sostenibile. Il danno che genera una situazione simile è rappresentato dai costi di riconversione
della produzione. Se i prodotti sostituti aumentano poi l’elasticità negativa della domanda rispetto al prezzo, si
riduce la manovrabilità dei prezzi verso l’alto e, quindi, diminuiscono i margini per le imprese del settore.
FORZE VERTICALI: sono rappresentate dai clienti e dai fornitori.

• il potere dei clienti (con un discorso analogo per i fornitori) dipende dalla sensibilità rispetto al prezzo di
vendita (se è bassa, non varia la domanda in funzione del prezzo) e dal potere negoziale, cioè il potere che
hanno i clienti di contrattare il prezzo. I principali fattori che incidono sul potere contrattuale dei clienti sono
la dimensione media degli acquirenti, la concentrazione e la diffusione di informazioni. La dimensione
strutturale ed economica dal lato della domanda accresce la forza contrattuale degli acquirenti, cioè se il
mercato di sbocco si compone di grandi imprese che rappresentano un target ambito da molti produttori è
evidente che gli acquirenti possono contare su un’elevata forza contrattuale, dovuta all’ampia possibilità di
selezione della controparte commerciale; i produttori, dal canto loro, in tali condizioni hanno ristretti margini
di trattativa in quanto le alternative possibili sul mercato sono limitate. La soddisfazione delle esigenze
dell’acquirente rappresenta un obiettivo primario del settore, che non può sopravvivere a lungo se il
mercato di sbocco è insoddisfatto dei prezzi e delle caratteristiche del prodotto. I clienti e i fornitori possono,
dunque, appropriarsi della profittabilità di un settore quando hanno un potere di mercato superiore rispetto
a quello di una certa industria, in particolare il cliente chiedendo maggiori sconti, il fornitore aumentando i
prezzi degli input.

In sostanza, queste cinque forze competitive agiscono sulle condotte delle imprese, in particolare su prezzi, costi,
quantità e qualità dei prodotti e investimenti e, quindi, sui loro risultati. Suddette forze agiscono in modo diverso in
ragione delle caratteristiche strutturali del settore. In ogni caso, tali forze esercitano, in maniera combinata, effetti
negativi sulle dinamiche settoriali e aziendali: tanto più potente è una forza competitiva, tanto minore è la redditività
del settore e delle imprese ad esso appartenenti. Inoltre, le imprese che, attraverso le loro condotte, possono
influenzare la struttura del settore, migliorandone o salvaguardandone la redditività di lungo termine, sono dette
imprese leader, considerate però un’arma a doppio taglio, perché possono distruggere o migliorare, con la stessa
rapidità, la struttura e la redditività di un settore. In conclusione, è necessario osservare che la competizione può
riguardare anche soggetti che offrono beni considerati tra loro complementari. In questo caso la competizione
assume un carattere peculiare: da un lato, i produttori devono cercare tra loro momenti di cooperazione al fine di
accrescere i benefici netti creati dall’utente della combinazione di beni tra loro complementari, dall’altro lato, i
produttori di beni complementari competono tra loro in vista di appropriarsi di una quota maggiore del reddito
potenziale creato.

Il ciclo di vita del settore

Il settore si compone di elementi invarianti, ma soggetti a cambiamenti (i settori sono dinamici, non statici, in quanto
possono cambiare nel tempo), pertanto, i decisori necessitano di informazioni e rappresentazioni per comprendere
in tempo tali cambiamenti al fine di predisporre le opportune scelte strategiche e tattiche. Nell’ambito dei settori
assume pregnante significato la variabile tecnologica, che definisce i beni che possono formare oggetto di
combinazioni produttive e specifica gli input che possono essere utilizzati per la produzione dei beni.

La curva S, che serve a rappresentare la dinamica


evolutiva della tecnologia di un settore, coglie
l’evoluzione nel corso del tempo di una
determinata tecnologia, evidenziando i periodi di
stabilità e di crescita. Giunti ad un certo punto, il
miglioramento delle prestazioni della tecnologia
è interrotto da una discontinuità, che porta la
tecnologia a cambiare radicalmente (es.
passaggio dall’iPhone 4 all’iPhone 6).

A fronte dell’affermarsi di una tecnologia innovativa di rottura, nel breve periodo sono osservabili alcune potenziali
reazioni da parte delle imprese esistenti, consistenti nell’investire nella tecnologia corrente cercando di aumentarne
le prestazioni. Nel lungo periodo, invece, il processo di innovazione tecnologica può comportare modifiche nella
struttura di un settore, dando vita al cosiddetto ciclo di vita del settore, scandito da fasi peculiari, ciascuna
caratterizzata da tipiche scelte di investimento, ingressi e uscite di imprese, prezzi, tassi di adozione della nuova
tecnologia e così via. Esso considera i settori come fenomeni naturali, ossia come entità che nascono, si sviluppano,
si stabilizzano e, salvo fattori che li rivitalizzino, vanno in declino fino a scomparire.
Nel valutare il ciclo di vita del settore occorre, inoltre, tenere fermo il denominatore comune.
Il ciclo di vita del settore si articola in diverse fasi:
1. creazione del settore: questa fase è caratterizzata da tecnologia limitata. I livelli di vendita sono contenuti in
virtù del fatto che i beni economici, visto il carattere innovativo, non sono ancora sufficientemente noti per
essere distribuiti;
2. era del fermento: in questa fase la prospettiva di nuove tecnologie spinge le nuove imprese ad entrare nel
settore e impiegare fattori della produzione per migliorare la tecnologia esistente, quindi la domanda qui è in
crescita, nonostante l’incertezza sia ancora levata;
3. emergenza del design dominante: in questa fase le imprese iniziano a competere con gli stessi prodotti, per
questo esse sviluppano il design dominante al fine di battere la concorrenza e di accresce i ricavi di vendita,
infatti le imprese che non adottano un design dominante sono destinate ad uscire dal mercato (selezione
naturale all’interno del settore);
4. miglioramenti incrementali: in questa fase, attraverso gli investimenti, le imprese iniziano ad apportare
miglioramenti incrementali alle tecnologie e la concorrenza diventa sempre più accesa (le imprese tendono
all’accrescimento della quota di mercato relativa). Per effetto delle economie di scala e di apprendimento, i
costi medi unitari tendono ad essere contenuti e l’incertezza inizia a diminuire. In questa fase, le imprese
sopravvissute ottengono ricavi sempre più consistenti, con conseguente affermazione di alcune imprese
dominanti che rendono il regime competitivo una sorta di oligopolio, caratterizzato da alta concentrazione,
sostanziale differenziazione del prodotto e medio/alte barriere all’entrata;
5. maturità: in questa fase, nonostante gli investimenti delle imprese, i ricavi iniziano a decrescere a causa dei
rendimenti tipicamente decrescenti degli avanzamenti tecnici e delle preferenze dei consumatori che si
contraggono progressivamente dopo aver provato il bene innovativo, la domanda tende quindi a saturarsi,
dunque iniziano a sopravvivere solo le imprese con costi medi unitari di produzione molto bassi;
6. discontinuità: in questa fase il settore tende al declino, dove le imprese legate alle vecchie tecnologie iniziano
a scomparire dal mercato perché la tecnologia diventa obsoleta, mentre le imprese che sostituiscono le
vecchie tecnologie con le nuove tendono a svilupparsi. La fase di declino è irreversibile se le imprese non si
adattano ai cambiamenti, in questo caso esse dovrebbero fare nuove innovazioni tecnologiche al fine di
riavviare la crescita della domanda.
L’introduzione della curva di sviluppo della tecnologia e del ciclo di vita del settore sottolineano l’esigenza delle
imprese di considerare non solo la struttura del settore vigente, ma di immaginare la dinamica evolutiva del settore,
predisponendo per tempo scelte strategiche e tattiche volte a mantenere un’armonia tra l’impresa e il suo contesto
esterno.
Approfondimento
La cosiddetta concorrenza cooperativa tra due imprese si ha in presenza di una concomitanza di cooperazione e
competizione. La logica generale è quella di considerare la complessità delle relazioni tra le imprese, combinando
l’intensità della concorrenza con il manifestarsi di azioni collaborative, quali ad esempio i cartelli spontanei e/o
spontanee di interdipendenze positive nei processi di creazione del valore economico. In generale, ogni impresa
assume la duplice veste di attore complementare e competitivo e, al contempo, beneficia o subisce le strategie
adottate dalle altre imprese che possono porsi sia in una posizione di cooperazione che competitiva.

CAP.6: RISULTATI DELL’IMPRESA


In un contesto in cui le imprese, per loro natura, fondano le loro condizioni di efficienza e di sopravvivenza sullo
svolgimento di una attività economica organizzata al fine della produzione o allo scambio di beni e servizi, i risultati si
palesano come informazioni e rappresentazioni che esprimono con angolature e sottolineature diverse, sebbene
sempre imperfette, l’esito dell’attività dell’impresa. I risultati d’impresa sono elementi essenziali, alla base del ciclo
della previsione, pianificazione, programmazione e controllo e qualificano gli esiti delle scelte strategiche, tattiche ed
operative che sono alla base dei cicli di pianificazione e programmazione e, inoltre, alimentano il ciclo del controllo,
permettendo al decisore di valutare la conformità dello svolgimento delle combinazioni produttive rispetto ai piani e
ai programmi dell’impresa. È necessario osservare che i risultati concorrono in misura rilevante anche all’allocazione
delle risorse alle diverse unità organizzative e alla definizione degli incentivi da assegnare al personale e, soprattutto,
agli organi di amministrazione. I risultati di impresa concorrono, ancora, alla formazione della volontà degli azionisti
e degli investitori istituzionali di intervenire nel capitale di rischio delle imprese, sia nella fase iniziale di costituzione
che nelle fasi successive, a titolo di partecipazione ad aumenti di capitale sociale. Per ultimo, essi sono significativi
per la partecipazione dell’impresa a bandi pubblici, in vista di stipulare contratti con la Pubblica Amministrazione.

I risultati d’impresa possono riguardare:


DIMENSIONE REALE: collega i risultati d’impresa all’equilibrio economico, le cui componenti sono i costi e i
ricavi;
DIMENSIONE FINANZIARIA: collega i risultati di impresa all’equilibrio finanziario, le cui componenti sono le
entrate e le uscite.
Per comprendere al meglio le due dimensioni si introduce il concetto di fatto amministrativo che si origina nell’ambito
dei diversi cicli di impresa per effetto ed in conseguenza di scambi conclusi tra l’impresa e le entità collocate nel suo
contesto esterno (es. acquisto dei fattori della produzione, vendita di prodotti o servizi, pagamento dei debiti, incasso
dei crediti, distribuzione dei dividenti etc…). Essi comportano variazioni numerarie (o finanziarie), che comportano
entrate e uscite monetarie con conseguente formazione di crediti e debiti, e variazioni economiche di natura sia
reddituale, da cui si formano costi e ricavi, sia patrimoniale, da cui conseguono variazioni del capitale dell’impresa. In
considerazione delle variazioni economiche e numerarie, i fatti amministrativi determinano le condizioni di operatività
e dunque gli esiti dell’attività dell’impresa.
I fatti amministrativi originano i cicli aziendali:
ciclo dei finanziamenti: si apre con il conferimento di un capitale di rischio o di credito. Si originano
variazioni numerarie positive (entrate) e, in seguito, variazioni numerarie negative (uscite) a titolo di
rimborso di tali finanziamenti ottenuti. Inoltre, si generano variazioni economiche di natura reddituale
relative agli oneri finanziari che l’impresa deve corrispondere a fronte delle disponibilità finanziarie acquisite;
ciclo degli investimenti: si apre quando le disponibilità finanziarie, originate dal ciclo dei finanziamenti,
trovano impiego nell’acquisizione di fattori a fecondità ripetuta (es. impianti, fabbricati). Si originano
variazioni numerarie negative (uscite) e variazioni economiche patrimoniali positive (si accresce il capitale).
Una volta costituiti i fattori produttivi a fecondità ripetuta, l’impresa può avviare il suo processo di
produzione, i cui fatti amministrativi inizialmente riguardano l’acquisizione dei fattori produttivi a fecondità
semplice, che al momento dell’acquisto generano una variazione numeraria negativa. Questi fattori a
fecondità semplice, una volta che sono disponibili in capo all’impresa al tempo 𝑇0 , possono essere
mantenuti nel magazzino dei materiali in ingresso nell’attesa di essere avviati nella produzione al tempo 𝑇𝑎 .
L’intervallo di tempo ∆𝑇𝑎,0 = 𝑇𝑎 − 𝑇0 definisce così il ciclo del magazzino materiali in ingresso. I fattori
produttivi a fecondità semplice, mediante l’attività di produzione, sono trasformati in prodotti finiti al tempo
𝑇𝑐 . L’intervallo di tempo ∆𝑇𝑎,𝑐 = 𝑇𝑐 − 𝑇𝑎 rappresenta il ciclo della produzione. Si ipotizza che al tempo 𝑇𝑏
l’impresa provveda al pagamento dei fattori produttivi a fecondità semplice di cui ha acquisito la
disponibilità al tempo 𝑇0 . Questo fatto amministrativo genera sia una variazione numeraria positiva, relativa
alla riduzione del debito commerciale, sia una variazione numeraria negativa connessa alla riduzione della
cassa. Il periodo che si colloca tra 𝑇0 e 𝑇𝑏 definisce il ciclo del debito commerciale. Una volta che i prodotti
finiti sono realizzati, questi possono restare in magazzino in attesa di essere ceduti, al tempo 𝑇𝑑 agli
acquirenti. L’intervallo incluso tra 𝑇𝑐 e 𝑇𝑑 è espressione del ciclo del magazzino dei prodotti finiti. Con la
cessione dei prodotti finiti al tempo 𝑇𝑑 , si origina una variazione numeraria positiva, dovuta al sorgere di un
credito commerciale, ed una variazione economica a carattere residuale positiva rappresentata dal ricavo
scaturente dalla vendita dei beni.
Si ipotizza che al tempo 𝑇1 l’impresa incassi quanto dovuto dalla vendita dei suoi prodotti/servizi. Tale
incasso genera una variazione numeraria positiva qualificata da una entrata ed una parallela variazione
numeraria negativa conseguente alla riduzione del credito commerciale. Infatti, il periodo compreso tra 𝑇𝑑 e
𝑇1 rappresenta il ciclo del credito commerciale.
ciclo monetario: comprende il periodo compreso tra il pagamento dei fattori della produzione a fecondità
semplice al tempo 𝑇𝑏 e l’incasso derivante dalla vendita dei prodotti finiti al tempo 𝑇1 ;
ciclo economico: comprende l’intervallo compreso tra l’acquisizione della disponibilità dei fattori della
produzione a fecondità semplice 𝑇0 e la cessione dei prodotti finiti al tempo 𝑇𝑑 .

L’unione di questi ultimi due cicli è rappresentata dal periodo compreso tra 𝑇1 e 𝑇0 e prende il nome di ciclo
economico-finanziario.
La rapidità con cui si svolgono tali cicli è indicatrice della bontà della gestione reale e della gestione economico-
finanziaria, difatti, per un’impresa che vuole restare sana i cicli monetari devono essere più brevi possibili. Il ciclo
economico e le collegate variazioni economiche indotte dai fatti amministrativi sono alla base delle formazioni di
ricavi e costi e, dunque, del reddito d’impresa. Il reddito d’esercizio passato, da un lato, influenza la valutazione
dell’impresa nell’ambito dei mercati dei capitali e, dall’altro, ciò che non viene distribuito concorre alla formazione
delle fonti finanziarie disponibili ed utilizzabili per coprire i fabbisogni di periodo dell’impresa, che derivano
soprattutto dagli investimenti in attività commerciali. Tali investimenti generano la produzione del bene, la sua
vendita e la formazione di ricavi che, contrapposti ai costi di produzione, vanno a formare il reddito relativo
all’esercizio corrente. La natura anticipata della formazione dei costi rispetto alla manifestazione dei ricavi induce un
elemento di rischio tipico dell’impresa, infatti, i costi anticipatamente sostenuti per gli investimenti, così come
l’acquisizione dei fattori produttivi a fecondità semplice, potrebbero non trovare adeguata copertura attraverso i
successivi ricavi. Tale rischio tende ad accrescersi man mano che la durata del ciclo economico si allunga, potendosi
manifestare con maggiore probabilità eventi avversi (es. cambiamenti tecnologici); in considerazione di tali rischi,
alcune imprese ricorrono a strutture negoziali con i propri fornitori e clienti in vista di avvicinare il più possibile la
manifestazione dei costi alla realizzazione dei ricavi. Il ciclo monetario e le associate variazioni numerarie scaturenti
dai fatti amministrativi determinano la dinamica delle entrate e delle uscite e, dunque, qualificano la dimensione
finanziaria della performance d’impresa. Il ritardo temporale che intercorre tra l’uscita monetaria per l’acquisto di
una risorsa e l’entrata monetaria corrispondente alla vendita del prodotto ottenuto con quella risorsa costituisce un
investimento di capitale per l’impresa e, contemporaneamente, è causa di fabbisogno finanziario che l’impresa deve
fronteggiare per acquisire la risorsa in questione. In questo periodo di tempo il capitale investito nella risorsa è
immobilizzato, infatti non può essere riconvertito in forma liquida senza determinare un’interruzione traumatica
della produzione. Alla copertura di tali fabbisogni finanziari concorre il ciclo dei finanziamenti, che influenza anche il
reddito di esercizio attraverso gli oneri finanziari. Alla copertura dei fabbisogni finanziari concorre anche il ciclo
economico, che può produrre fonti finanziarie addizionali mediante sia la generazione di utili poi non distribuiti ed
accantonati a riserva, sia attraverso l’opportuno concorso dei cicli analizzati.

La prospettiva reale
Le grandezze della prospettiva reale sono due: reddito e capitale. Il capitale esprime un fondo di valori disponibili
all’impresa in un certo istante. I valori compresi nel capitale possono essere attivi (liquidità, crediti, scorte,
immobilizzazioni) e passivi (debiti a breve termine, debiti a lungo termine).

Il capitale può essere distinto in:

CAPITALE INVESTITO NETTO (CIN): pari al totale dell’attivo al netto dei fondi rischi, delle disponibilità
liquide, delle attività finanziarie a breve termine e dei debiti commerciali; più in particolare, è pari alla
somma della posizione finanziaria netta + i mezzi propri (CIN = PNF + mezzi propri = Debiti finanziari - Attività
finanziarie - Liquidità + mezzi propri). Il capitale investito netto qualifica la ricchezza netta che entra nella
disponibilità di un’impresa e può essere negativo, soprattutto in imprese che hanno un forte indebitamento:
se i debiti commerciali sono molto alti significa che l’impresa finanzia le proprie immobilizzazioni con
l’indebitamento. Ciò che non può essere mai negativo, invece, è il totale attivo, che deve essere
strettamente maggiore o uguale a 0;
CAPITALE DI FUNZIONAMENTO (capitale proprio o di rischio o patrimonio netto): pari alla somma del capitale
sociale, delle riserve, degli utili o delle perdite d’esercizio e degli utili portati a nuovo. Il capitale di
funzionamento può essere negativo poiché le perdite d’esercizio possono erodere il capitale fino a renderlo
nullo.
Il capitale dell’impresa è costituito solo da beni monetari, cioè beni acquistati tramite scambi di mercato o per i quali
l’impresa ha sostenuto un costo per la sua produzione, allo stesso modo, si comprendono nel reddito tutte le
operazioni di gestione i cui risultati sono esprimibili in termini monetari (es. costi e ricavi che si originano dagli
scambi dell’impresa).

Il reddito è la variazione di valore che il capitale di funzionamento ha subito tra la fine e l’inizio di un periodo per
effetto della gestione: si qualifica come un flusso, cioè una differenza tra ricavi e costi che, se positiva dà luogo ad un
utile, se negativa dà luogo ad una perdita. Il reddito prodotto può essere accantonato a riserva andando ad
incrementare il capitale stesso dell’impresa o essere distribuito non solo ai diversi interlocutori sociali dell’impresa,
ma anche a coloro che hanno conferito capitale di rischio (es. imprenditore, socio, azionista), avendo cura però che,
in quest’ultimo caso, sia preservato non solo il capitale iniziale, ma anche la sua redditività, cioè la capacità dell’impresa
di fornire un reddito futuro, e che non venga preclusa la possibilità dell’impresa di sopravvivere nel tempo (principio
della continuità aziendale). Rispetto ai momenti della produzione e della distribuzione, i diversi interlocutori
dell’impresa tendono ad esprimere aspettative e posizioni diverse. In particolare:
➢ nel momento della produzione, gli interlocutori dell’impresa spingono affinché il reddito sia massimo: gli
interessi sono sostanzialmente convergenti;
➢ nel momento della distribuzione, gli interlocutori sono rivali poiché uno riceve di più e uno di meno: gli
interessi sono conflittuali e divergenti.
Il capitale è una grandezza fondo, il reddito è una grandezza flusso: essi sono elementi intimamente connessi e
interdipendenti tra loro, il capitale concorre alla produzione del reddito e, allo stesso tempo, il reddito è il
presupposto per la formazione del capitale. Zappa afferma che il reddito rappresenta l’accrescimento che, in un
determinato periodo di tempo, il capitale di un’impresa subisce per effetto della gestione (si riferisce al capitale
proprio). La relazione tra il capitale ed il reddito assume tratti ancora più stringenti ove si consideri il cosiddetto
capitale economico dell’impresa, che coincide con il valore attuale dei flussi di reddito attesi futuri. In questa
accezione, il reddito è presupposto per la formazione del capitale e l’attualizzazione dei flussi futuri ed attesi del
reddito conferisce consistenza economica al capitale di funzionamento. In conclusione, i concetti di capitale e di
reddito trovano esplicita rendicontazione nei sistemi contabili basati sulla logica della partita doppia: dunque, i vari
fatti amministrativi troveranno allocazione sia nell’ambito di conti patrimoniali, che accolgono i valori delle attività e
delle passività dell’impresa, sia di conti di reddito, nel quale trovano indicazione costi e ricavi. Essi sono tra loro
interdipendenti: le variazioni dei valori patrimoniali trovano riflesso nei conti di reddito cosi come i flussi di ricavi e
costi trovano riflesso nei conti patrimoniali e nelle loro variazioni tra un periodo all’altro.

Equilibrio economico ed equilibrio finanziario


Per equilibrio finanziario si intende la capacità dell’impresa di reperire capitale di rischio o capitale di credito per
coprire il fabbisogno finanziario. Questo bisogno di reperire di risorse finanziarie nasce dal fatto che, in generale, nelle
imprese i costi anticipano i ricavi (principio di inerenza dei costi ai ricavi). Una volta qualificato il proprio fabbisogno
finanziario, l’impresa può scegliere tra due alternative di copertura: il capitale proprio (all’interno del quale rientra
l’autofinanziamento) e il capitale di credito. Quest’ultima è una tipica fonte esterna, ma anche parte del capitale
proprio rappresenta una fonte esterna, infatti l’impresa può essere dotata di capitale proprio tramite i conferimenti
da parte di soci oppure trattenendo utili conseguiti: la prima modalità rappresenta una fonte esterna, la seconda
incrementa il capitale proprio e rappresenta, quindi, una fonte interna di finanziamento (autofinanziamento).
L’equilibrio economico (o autosufficienza economica) consiste nell’attitudine della gestione aziendale di generare un
flusso di ricavi idoneo a coprire i costi dei fattori in posizione contrattuale (si legano all’impresa in forza di un contratto,
ad es. capitale di credito) e a remunerare congruamente i fattori in posizione residuale (non sono legati all’impresa in
forza di un contratto, ad es. capitale di rischio). Non bisogna confondere l’equilibrio economico con l’utile netto perché
quest’ultimo riguarda solo i costi contabili e non tutti i costi opportunità della produzione, cioè i costi espressi in
termini economici. Si ha quindi equilibrio economico quando i ricavi sono maggiori di tutti i costi opportunità che
l’impresa ha sostenuto in un certo periodo, ivi compresa anche la congrua remunerazione del capitale di rischio.
Inoltre, l’equilibrio economico è un equilibrio multi-periodale (riguarda più periodi).
Ricavi e costi
È possibile esprimere il reddito come differenza tra flussi di ricavo e flussi di costo, differenza che se espressa sulla
base dei sistemi contabili aziendali, possiamo denominare anche come risultato d’esercizio. Nello specifico, i ricavi
esprimono la valorizzazione della produzione conseguita attraverso transazioni concluse dall’impresa con i clienti
nell’ambito dei mercati di collocamento. In sostanza, tale grandezza cattura le quantità di prodotti dell’impresa che i
clienti hanno acquistato sulla base di un determinato valore di prezzo o di scambio: tale componente viene
tipicamente definita fatturato o volume d’affari. Alla componente del fatturato se ne aggiunge un'altra qualificata
dalle quantità prodotte che, pur essendo potenzialmente oggetti di uno scambio, non ne hanno fatto parte in un
periodo per assenza di soggetti disposti ad acquistarli. In tal caso, tali prodotti sono mantenuti in giacenza o in
magazzino e sono valorizzati ad un prezzo di presunto realizzo futuro: il contributo di tali beni economici alla
formazione dei ricavi totali è dunque soltanto sperato e questa speranza è legata alla possibilità di vendere tali beni
del magazzino ad un determinato prezzo atteso (𝑷 ̃ 𝑽 ) ⇒ 𝑹𝑰𝑪𝑨𝑽𝑰(𝑹) = 𝑷𝑽 ∙ 𝑸𝑽 + 𝑷 ̃ 𝑽 (𝑸𝑷 − 𝑸𝑽 ).
In generale, i costi esprimono i sacrifici e gli sforzi che l’impresa deve sostenere per l’acquisizione della disponibilità
dei fattori della produzione necessari per la formazione dei ricavi. Rispetto a quest’ultima definizione, i costi possono
assumere qualificazioni diverse.

I costi possono essere sostenuti:


• ex-post: si collegano al sacrificio che un’impresa deve sostenere nel momento in cui un’alternativa è stata già
selezionata dal decisore (costi a consuntivo);
• ex-ante: si riferiscono all’opportunità che l’impresa potrebbe perdere qualora il decisore scelga un
determinato corso di azioni piuttosto che un altro (costi a preventivo).
I costi possono essere classificati in:
COSTO PRIMO: comprende il costo di acquisto dei fattori impiegati direttamente nella produzione (costi di
materie prime, semilavorati, attrezzatura specifica, manodopera diretta);
COSTO TOTALE DI FABBRICAZIONE: si ottiene aggiungendo al costo primo i costi indiretti o generali industriali,
comprensivi degli ammortamenti (costi generali di fabbricazione, costi per il mantenimento dei fattori della
produzione);
COSTO DI PRODUZIONE: si ottiene aggiungendo al costo totale di fabbricazione i costi indiretti o generali
amministrativi, commerciali e tecnici. Questo costo è espressione della gestione operativa e comprende tutti
i costi relativi al ciclo acquisto-trasformazione-vendita dell’impresa;
COSTO TOTALE AZIENDALE: si ottiene aggiungendo al costo di produzione gli oneri finanziari al netto dei
proventi finanziari, gli oneri straordinari al netto dei proventi straordinari, e gli oneri tributari, che
comprendono le imposte e le tasse di esercizio (fitti figurativi, salario dell’imprenditore). Si può anche tener
conto degli oneri figurativi.

Nell’impresa si possono distinguere inoltre:


COSTI SPECIALI: costi direttamente imputabili ad una determinata combinazione produttiva (es. servizi di
assistenza diretta al prodotto X);
COSTI COMUNI: costi che concorrono congiuntamente a più combinazioni produttive e quindi sono imputabili
a tali combinazioni solo attraverso un metodo di allocazione.
Tra i metodi di allocazione dei costi comuni distinguiamo:
• Il metodo tradizionale (su base unica): tutti i costi comuni sono assegnati ad un unico centro di costo;
• il metodo a doppio stadio (su base multipla): tutti i costi comuni sono preventivamente raggruppati su base
omogenea in diversi centri di costo, il che consente una maggiore capacità di incorporare le differenze e le
diversità nel consumo di fattori produttivi da parte dell’impresa;
• l’ABC (activity based costing): i centri di costo sono rappresentati dalle attività svolte dall’impresa, quindi,
l’impresa è anzitutto suddivisa in un insieme di attività, che hanno il ruolo di trasformare gli input in output;
successivamente vengono identificati i costi, complessivamente associati allo svolgimento delle singole
attività. Fatto ciò, il costo totale di ciascuna attività è ripartito tra le diverse combinazioni produttive in
funzione del loro utilizzo, qualificato attraverso le transazioni intervenute in un periodo specifico tra la singola
attività e le specifiche combinazioni produttive dell’impresa.
Possiamo concludere affermando che i costi hanno natura sostanzialmente rigida, in quanto derivano dalla necessità
di disporre dei fattori produttivi in maniera anticipata rispetto alla produzione dei ricavi, e generalmente sono
anticipati rispetto a questi ultimi, invece i ricavi hanno natura sostanzialmente elastica, in quanto riflettono quei
cambiamenti, temporanei o permanenti, nei gusti, nelle preferenze e nel reddito disponibile destinabile al consumo
degli acquirenti e generalmente sono posticipati rispetto ai costi.
Reddito, budget d’esercizio e dinamica evolutiva dell’impresa
Il reddito può assumere diverse configurazioni:
VALORE AGGIUNTO: differenza tra il totale dei ricavi e i materiali diretti;
MARGINE OPERATIVO LORDO (EBITDA): differenza tra il valore aggiunto e la manodopera diretta e gli altri
costi accessori di diretta imputazione alla formazione dei ricavi;
MARGINE OPERATIVO NETTO (EBIT): differenza tra il margine operativo lordo e i costi indiretti o generali
amministrativi, commerciali e tecnici, comprensivi degli ammortamenti e degli accantonamenti;
RISULTATO LORDO ANTE-IMPOSTE: differenza tra il margine operativo netto e gli oneri finanziari netti;
RISULTATO D’ESERCIZIO: differenza tra il risultato lordo ante-imposte e gli oneri tributari (imposte e tasse).
Il risultato d’esercizio può non essere espressione della capacità di reddito dell’impresa che invece, come sostengono
alcuni studiosi, sarebbe meglio espressa dal risultato economico d’esercizio (i due concetti coincidono solo nel lungo
periodo): il risultato d’esercizio è un dato contabile che si esprime come la differenza tra costi e ricavi desumibili dal
conto dei profitti e delle perdite, mentre il risultato economico d’esercizio si ottiene rettificando il risultato
d’esercizio dei costi opportunità e delle variazioni attese nel valore delle attività e passività patrimoniali. Inoltre, dal
punto di vista del risultato d’esercizio i ricavi e i costi sono relativi a fatti e condizioni verificatesi nell’esercizio
corrente, mentre dal punto di vista del risultato economico d’esercizio i ricavi e i costi sono relativi a fatti e
condizioni la cui realizzazione non è circoscritta alla competenza dell’esercizio corrente. Anche il fattore tempo, in
concatenazione con la politica dei dividendi dell’impresa e le associate variazioni del capitale di funzionamento, è un
importante elemento di distinzione tra risultato di esercizio e risultato economico. Assume rilievo anche il concetto
di sovra-reddito, che rappresenta la differenza tra il livello di reddito conseguito dall’impresa ed un livello di reddito
considerato normale. In particolare, quest’ultimo valore viene riferito mediante un’ottica benchmark al reddito
medio realizzato dalle imprese che operano nel settore oppure mediante un confronto interno tra un reddito medio
annuo normale ed il totale del capitale investito.

Il reddito può essere letto:


• a consuntivo: come reddito effettivamente conseguito;
• a preventivo: come reddito previsto sulla base delle informazioni detenute dall’impresa in un determinato
istante 𝑇 = 𝑇−1 − 𝑇𝑜 . Tenuto conto dei driver e dei criteri decisionali, il manager progetterà la dinamica
evolutiva dell’impresa nel periodo ∆𝑇 = 𝑇1 − 𝑇𝑜 , insieme ai correlati risultati attesi. Il reddito a preventivo
trova riflesso nel budget.

Il BUDGET si qualifica come una rappresentazione contabile organizzata degli obiettivi e dei vincoli aggregati
dell’impresa. Esso implica una rappresentazione, seppur imperfetta, dello stato di operatività prospettico
dell’impresa ed è per questo che si qualifica come un programma che guida e responsabilizza i manager verso
obiettivi di breve periodo; nonostante tale natura prospettica, il budget include anche avvenimenti passati quali
decisioni assunte e risultati conseguiti. Con riguardo alle sue caratteristiche, il budget ha natura temporalmente
definita, in quanto il quadro degli obiettivi, le linee di azioni e le attribuzioni dei poteri e delle responsabilità in esso
contenuti sono riferiti a periodi ben definiti e svolge una funzione di guida per l’impresa, una funzione di
integrazione e coordinamento e una funzione di incentivazione (quando si raggiungono gli obiettivi vengono dati dei
premi). Il budget d’esercizio si distingue dal budget flessibile, che esprime i costi che l’impresa avrebbe dovuto
sostenere in relazione ai volumi produttivi effettivamente realizzati in un dato periodo e impiega, dunque, i dati a
consuntivo concernenti le quantità prodotte e vendute per individuare i corrispondenti livelli attesi di costi e ricavi, e
dai costi standard, che delineano i costi che l’impresa avrebbe sostenuto in condizioni ideali di operatività.
I singoli budget, compresi nel piano di sviluppo, concorrono a qualificare gli stanziamenti disponibili attraverso i
quali è possibile mantenere la potenzialità dell’impresa a evolversi, modificando il proprio stato di operatività.
A dare sviluppo a questo alternarsi dello stato di operatività concorre l’azione di governo, che rappresenta un codice
comportamentale che contribuisce a definire i tempi e le modalità attraverso cui si realizzano le transizioni degli stati
di operatività dell’impresa, concorrendo a correggere, aggiornare e rinnovare le proiezioni economico-finanziarie
contenute nei budget d’esercizio correnti e prospettici inclusi nel piano di sviluppo dell’impresa.

Modello costi, ricavi, margine di contribuzione e reddito

Nell’ambito del budget di esercizio è possibile trovare alcune grandezze che qualificano lo stato di operatività
dell’impresa, basate sull’analisi del punto di pareggio o “break-even analysis”, che consiste nel rappresentare in
maniera semplificata le relazioni pro-tempore invarianti dei ricavi e dei costi in funzione delle quantità prodotte e
vendute di un’impresa.
Quest’analisi si basa su alcune assunzioni di fondo:
1. costi e ricavi dipendono dalle quantità;
2. i costi sono distinti in fissi e variabili;
3. le quantità prodotte tendono a coincidere con le quantità vendute.
Distinguiamo a tal proposito:
• COSTI VARIABILI: costi che variano al variare della quantità prodotta (es. materie prime), che hanno un
andamento che può essere proporzionale, più che proporzionale o meno che proporzionale. Il costo variabile
unitario è il costo unitario del fattore della produzione, che dipende dal prezzo unitario dell’input e dal
coefficiente tecnico di produzione, dove 𝑞𝑖 è la quantità di input acquistata e 𝑞𝑝 la quantità di input prodotta,
che rappresenta la quantità di input che serve all’impresa per realizzare un certo output:
𝑞𝑖
𝒄𝒗 = 𝑝𝑎.𝑖. ∙
𝑞𝑝
• COSTI FISSI: costi che non variano al variare della quantità prodotta, a condizione che non si superino i limiti
della capacità produttiva (es. impianti, capannoni ecc.), che hanno un andamento a gradoni, infatti nel lungo
periodo tutti i costi variano, poiché la stabilità del costo rimane tale entro un ben definito limite della
capacità produttiva. I costi fissi sono pari al prodotto tra il flusso di servizio negoziato dall’impresa con il
fornitore, indipendentemente dalle quantità prodotte e vendute, e il prezzo unitario di tale flusso di servizio:

𝑪𝑭 = 𝑞𝑓 ∙ 𝑝𝑎.𝑓.

• COSTI TOTALI: somma dei costi fissi e dei costi variabili totali:

𝑪𝑻 = 𝐶𝐹 + 𝑐𝑣 ∙ 𝑞𝑝

In un’impresa, i RICAVI, invece, sono dati dalla formula 𝑅 = 𝑝𝑣 ∙ 𝑞𝑣 : qualora però l’impresa impiegasse dei
distributori commerciali nella vendita dei prodotti, il prezzo di vendita finale dovrebbe essere incrementato della
percentuale (𝜂) riconosciuta a tali imprese mercantili per lo svolgimento di tale funzione di intermediazione
𝑝′
commerciale, dunque, il prezzo di vendita praticato all’acquirente finale sarà pari a: 𝑝𝑣′ = 𝑝𝑣 (1 + 𝜂) ⇒ 𝑝𝑣 = (1+𝜂)
𝑣
.
Occorre ora calcolare il reddito P, determinato dalla differenza tra ricavi e costi, che può essere assimilato ad un
risultato netto d’esercizio o ad un margine operativo netto, in funzione dell’inclusione o meno di altre componenti di
costo quali oneri finanziari netti, oneri straordinari netti ed oneri tributari.

All’equazione del reddito si affiancano alcuni vincoli di natura mercatistica:

- massima quantità vendibile: è esprimibile dal prodotto tra la domanda complessiva presente nel mercato e
la quota di mercato massima acquisibile dall’impresa (quest’ultima dipende dalla concorrenza, nel
monopolio è pari a 1, mentre nella concorrenza perfetta è pari a 1/n). Essa dipende anche dalle condizioni
del contesto esterno, dalle caratteristiche dei mercati di sbocco sia dal lato della domanda che dell’offerta e
anche dal potenziale delle politiche di marketing: 𝑄𝑉𝑚𝑎𝑥 = 𝑄𝑇𝑀 ∙ 𝑞𝑚𝑀 ;
- valore percepito: coincide con il massimo prezzo che il cliente è disposto a pagare per acquistare un’unità di
prodotto offerto dall’impresa. Anche questo vincolo è influenzato dalle caratteristiche del cliente, dal suo
reddito disponibile e dalle politiche di marketing adottate in base a tali comportamenti, per cui: 𝑃𝑣 ≤ 𝑉𝑃.

… e altri di natura produttiva:

- massima quantità producibile dall’impresa: può essere espressa dal prodotto tra la capacità produttiva
istallata (cioè quella teorica) ed il grado di utilizzo massimo della stessa.
Essa dipende dalla disponibilità quantitativa e qualitativa dei materiali in ingresso necessari per alimentare il
processo produttivo e dalle condizioni tecniche ed economiche di svolgimento dei processi produttivi:
𝑄𝑃𝑚𝑎𝑥 = 𝐶𝑃 ∙ 𝑔𝑢𝑀 ;
- costo opportunità: rappresenta un prezzo minimo al quale il fornitore è disposto a cedere una determinata
quantità di prodotto all’impresa. Il fornitore ha convenienza a produrre un bene se il prezzo d’acquisto copre
i costi variabili unitari + una quota dei costi fissi (se il fornitore non avesse costi fissi, il costo opportunità
coinciderebbe con il costo variabile unitario), l’impresa dovrà quindi fissare un prezzo d’acquisto almeno pari
ai costi variabili unitari del fornitore;
- coefficienti tecnici di produzione: devono essere compatibili con le condizioni di efficienza massima
dell’impresa, ovvero con il massimo tasso di conversione dei materiali all’ingresso ottenuto in condizioni
ideali di operatività (𝑘𝑚 ).

Si arriva dunque all’espressione del reddito P, data la differenza tra R, CT e i vincoli:


𝑝𝑣′ ≤ 𝑉𝑃 𝑞𝑝 ≤ 𝑄𝑃𝑚𝑎𝑥
𝑞𝑖
𝑞𝑣 ≤ 𝑄𝑉𝑚𝑎𝑥 𝑝𝑎.𝑖 ≥ 𝐶𝑂𝑖
𝑃 = 𝑝𝑣 ∙ 𝑞𝑣 − 𝑝𝑎.𝑖 ∙ ∙ 𝑞𝑝 − 𝑝𝑎.𝑓 ∙ 𝑞𝑓 con i vincoli: 𝑝𝑎.𝑓 ≥ 𝐶𝑂𝑎.𝑓 𝑝𝑣 ∙ 𝜂 ≥ 𝐶𝑂𝑑
𝑞𝑝
𝑞𝑎
{ ⁄𝑞𝑝 ≥ 𝑘𝑚

L’analisi del punto pareggio

È possibile ora derivare graficamente il punto


di pareggio o “break even point”: una volta
rappresentate le funzioni dei costi totali, dei
ricavi totali e del reddito incluse nel budget
di esercizio, il punto di pareggio coincide con
la quantità 𝑄𝐵𝐸 rispetto alla quale si ha il
reddito di esercizio pari a 0 e di conseguenza
l’uguaglianza 𝑅 = 𝐶𝑇.

Per calcolare analiticamente 𝑄𝐵𝐸 (o 𝑞 ∗) si parte dal fatto che le rimanenze di prodotti non variano in maniera
significativa tra l’inizio e la fine del periodo considerato, dunque le quantità prodotte e quelle vendute tendono a
coincidere nell’ambito di un dato budget di esercizio: 𝑞𝑣 = 𝑞𝑎 = 𝑞. Partendo dall’espressione del reddito (P) in
funzione della quantità P (q) = pv ∙ q – cv ∙ q – CF = q ∙ (pv – cv) – CF e imponendo la condizione P = 0, otteniamo: q*∙
CF
(pv – cv) – CF = 0, da cui q* ∙ (pv – cv) = CF, quindi q* = pv−cv , dove pv – cv rappresenta il margine di contribuzione
MC, che è indicatore della capacità dell’impresa a valorizzare le combinazioni produttive attraverso scambi sul
mercato, realizzando un differenziale che l’impresa può destinare alla copertura dei costi fissi (se MC < 0 non
conviene produrre perché significa che l’impresa non riesce a coprire i costi fissi). Il punto di pareggio o di equilibrio
CF
si può esprimere anche in funzione dei ricavi: R* = 1 −cv , dove 1- cv/pv rappresenta il tasso di contribuzione TC, che
𝑝𝑣
esprime la percentuale unitaria dei ricavi che, coperti i costi variabili unitari, è destinabile alla copertura dei costi fissi
(assume sempre valori minori o uguali ad 1). Poiché l’analisi richiede che ci sia un unico valore di quantità e ricavi di
pareggio è necessario che venga rispettata la condizione che 𝑞 ∗ sia inferiore al minore tra il vincolo mercatistico
𝑄𝑉𝑚𝑎𝑥 ed il vincolo produttivo 𝑄𝑃𝑚𝑎𝑥 , altrimenti l’impresa produrrebbe per il magazzino senza generare ricavi.
Sia il tasso di contribuzione che il margine di contribuzione possono essere negativi dal punto di vista contabile,
tuttavia, dal punto di vista economico, non sono sostenibili perché significherebbe accettare un ricavo inferiore al
costo sostenuto, dunque più l’impresa produrrebbe e più avrebbe perdite, quindi in tale circostanza l’impresa
avrebbe convenienza a dismettere l’attività produttiva. Mentre se q < q* l’impresa ha, nel breve termine,
convenienza a continuare la produzione perché i margini positivi (margine di contribuzione e tasso di contribuzione)
comunque prodotti potranno essere utilizzati, sempre nel breve termine, per coprire, in parte, i costi fissi.
Nel lungo termine questo non è sostenibile perché, a lungo andare, le perdite eroderanno il patrimonio netto fino a
renderlo nullo.

Un ulteriore margine è il cosiddetto margine di sicurezza MS, dato dalla differenza tra la quantità che si intende
produrre e vendere q e la quantità di equilibrio q*: tanto maggiore è il margine di sicurezza, tanto più probabile è la
circostanza che l’impresa possa registrare una quantità prodotta e venduta effettivamente superiore alla quantità di
equilibrio. Il margine di contribuzione, il margine di sicurezza e il reddito sono collegati tra di loro da un’espressione:

P = (pv – cv) ∙ (q – q*)


Quest’espressione evidenzia che a parità di margine di contribuzione, tanto maggiori sono le quantità prodotte e
vendute rispetto alla quantità di equilibrio q*, tanto maggiore sarà il reddito P. Possiamo, inoltre, calcolare il reddito
massimo che esprime la capacità di reddito prospettica dell’impresa e deve convenientemente assumere un valore
maggiore di 0, infatti in tale circostanza, lo stato di operatività di una impresa registra un surplus che potrà essere
opportunamente distribuito tra i portatori d’interesse:

𝑷𝒎𝒂𝒙 = 𝑉𝑃 ∙ 𝑚𝑖𝑛 {𝑄𝑉𝑚𝑎𝑥 , 𝑄𝑃𝑚𝑎𝑥 } − 𝐶𝑂𝑖 ∙ 𝑘𝑚 ∙ 𝑚𝑖𝑛 {𝑄𝑉𝑚𝑎𝑥, 𝑄𝑃𝑚𝑎𝑥 } − 𝐶𝑂𝑓 ∙ 𝑞𝑓


• se prezzi-ricavi < VP, l’impresa rilascia parte del surplus ai clienti: 𝑉𝐶 = (𝑉𝑃 − 𝑝𝑣′ ) ∙ 𝑞𝑣 ;
• se prezzi-costi > CO, l’impresa rilascia parte del surplus ai fornitori: 𝑉𝐹 = (𝑝𝑎.𝑖 − 𝐶𝑂𝑖 ) ∙ 𝑞𝑎 + (𝑝𝑎.𝑓 − 𝐶𝑂𝑓 )𝑞𝑓
• l’impresa che utilizza i distributori commerciali per la vendita dei propri prodotti rende una parte del reddito
massimo a tali soggetti in misura: 𝑉𝐷 = (𝑝𝑣 ∙ 𝜂 ∙ 𝐶𝑂𝑑 ) ∙ 𝑞𝑣 .
I valori positivi resi dall’impresa a clienti e fornitori definiscono nel complesso il livello delle riserve mercatistiche
dell’impresa stessa. Si consideri ora che l’impresa abbia costi fissi nulli, una quantità prodotta e venduta uguale a
quella massima e un livello di produttività pari a 𝑘𝑚 . Imponendo la condizione 𝑃𝑚𝑎𝑥 = 𝑃, conseguentemente tutto il
reddito massimo sarà oggetto di distribuzione di dividendi e/o di accantonamento a riserva, con 𝑃 = 𝐷𝐼𝑉 + 𝑉𝐼, si
avrà dunque: (𝑉𝑃 − 𝐶𝑂𝑖 ∙ 𝑘𝑚 ) ∙ 𝑞 = (𝑝𝑣 − 𝑝𝑎 ∙ 𝑘𝑚 ) ∙ 𝑞 ⇒ (𝑉𝑃 − 𝐶𝑂𝑖 ∙ 𝑘𝑚 ) ∙ 𝑞 − (𝑝𝑣 − 𝑝𝑎 ∙ 𝑘𝑚 ) ∙ 𝑞 = 0 ⇒
(𝑉𝑃 − 𝑝𝑣 ) ∙ 𝑞 + (𝑝𝑎 − 𝐶𝑂𝑖 ) ∙ 𝑞 ∙ 𝑘𝑚 = 0. L’espressione ottenuta alla fine si annulla, data la positività di q e k e nel
rispetto dei vincoli precedentemente citati, quando 𝑉𝑃 = 𝑝𝑣 e 𝐶𝑂𝑖 = 𝑝𝑎 . Quest’ultima condizione rappresenta
l’operare di una impresa in presenza di riserve mercatistiche pari a zero. Dalla formula derivano alcune osservazioni:
𝑃𝑚𝑎𝑥 > 𝑃 implica necessariamente che 𝑉𝑃 > 𝑝𝑣 e 𝐶𝑂𝑖 > 𝑝𝑎 , dunque l’impresa sarà caratterizzata da uno stato di
operatività in cui il livello delle riserve mercatistiche è positivo, se 𝑘 > 𝑘𝑚 , con riserve mercatistiche nulle, come
richiesto dai vincoli, si dovrebbe avere necessariamente che 𝑃𝑚𝑎𝑥 > 𝑃, difatti, si avrebbero riserve mercatistiche
negative se 𝑃𝑚𝑎𝑥 = 𝑃, in quanto sarebbero conseguenti le condizioni 𝑉𝑃 < 𝑝𝑣 e 𝐶𝑂𝑖 < 𝑝𝑎 . Le condizioni appena
enunciate vengono riassunte da una formula ottenuta con vari passaggi algebrici: (𝑉𝑃 − 𝑝𝑣 ) ∙ 𝑞 + 𝑝𝑎 ∙ (𝑘 − 𝑘𝑚 ) ∙
𝑞 + 𝑘𝑚 ∙ (𝑝𝑎 − 𝐶𝑂𝑖 ) ∙ 𝑞 = 0. L’impresa potrà dunque distribuire dividendi e/o accantonare utili a riserva, nel rispetto
dei vincoli mercatistici, in presenza di riserve mercatistiche nulle se e solo se 𝑃𝑚𝑎𝑥 = 𝑃′ , con 𝑃′ = 𝑃 − 𝑝𝑎 ∙ 𝑞 ∙ (𝑘 −
𝑘𝑚 ) e di conseguenza 𝑃′ = 𝐷𝐼𝑉 + 𝑉𝐼. Ove l’impresa volesse operare con un certo grado di sicurezza, mantenendo
livelli positivi di riserve mercatistiche, il reddito netto d’esercizio dovrebbe essere assunto in misura assai inferiore
rispetto al reddito massimo, ovvero 𝑃𝑚𝑎𝑥 >> 𝑃 (molto maggiore). Le riserve palesi che concorrono
all’accrescimento del capitale di funzionamento dell’impresa attraverso utili non distribuiti sono talora sostituite da
riserve occulte, che sono nascoste in una sottovalutazione di attività o in una sopravvalutazione di passività, dunque
si costituiscono mediante la rilevazione di componenti passivi di reddito o mediante l’accrescimento di componenti
negativi (es. minori valori attribuiti alle immobilizzazioni). Evidenziare tali perdite può favorire il decisore d’impresa
che, in vista della loro copertura, può acquistare risorse addizionali rispetto a quelle strettamente necessarie per
l’equilibrio economico e finanziario.

Elasticità della domanda


ELASTICITA’ DELLA DOMANDA: rapporto tra la variazione percentuale della quantità domandata e la variazione
∆𝑞/𝑞 ∆𝑞 𝑝 ∆𝑞 𝑝
percentuale del prezzo: 𝜺 = = ∙ ∆𝑝 = ∆𝑝 ∙ 𝑞 . Normalmente l’elasticità della domanda ha segno negativo
∆𝑝/𝑝 𝑞
perché c’è una relazione inversa tra q e p (al crescere del prezzo, diminuisce la quantità domandata e viceversa).
Questo vale però per i beni comuni, infatti vi è un’eccezione per i beni di lusso (al crescere del prezzo, aumenta la
quantità domandata da parte dei ricchi). C’è una grande differenza tra la pendenza e l’elasticità della curva di
domanda: la prima esprime la variazione della quantità per effetto di una variazione unitaria del prezzo, mentre la
seconda definisce la variazione della quantità domandata in relazione ad una variazione percentuale del prezzo.
In ipotesi di domanda lineare, la prima sarà sempre costante e pari a 𝑏1 = ∆𝑞 / ∆𝑝, mentre la seconda si modificherà
in relazione al prezzo e alle quantità iniziali.
Si distinguono 3 diversi casi:

- 𝜺 < −1 ⇒ |𝜺| > 1 ⇒ 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑒𝑙𝑎s𝑡𝑖𝑐𝑎: gli aumenti o le


riduzioni di prezzo provocano riduzioni o aumenti più che
proporzionali della quantità domandata;
- 𝜺 = −𝟏 ⇒ |𝜺| = 𝟏 ⇒ 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑎𝑑 𝑒𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑖𝑡à 𝑢𝑛𝑖𝑡𝑎𝑟𝑖𝑎: gli
aumenti o le riduzioni di prezzo provocano riduzioni o aumenti nella
stessa proporzione della quantità domandata;
- 𝜺 > −𝟏 ⇒ |𝜺| < 1 ⇒ 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑎𝑛𝑒𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑎: gli aumenti o le
riduzioni di prezzo provocano riduzioni o aumenti meno che
proporzionali delle quantità domandata.

In base a quello descritto precedentemente, è possibile esprimere i ricavi nel periodo compreso tra 𝑡𝑜 e 𝑡1 tramite la
formula: ∆𝑅 = 𝑅𝑡1 − 𝑅𝑡0 = 𝑝𝑡1 ∙ 𝑞𝑡1 − 𝑝𝑡0 ∙ 𝑞𝑡0. Sommando e sottraendo all’espressione la quantità 𝑝𝑡1 ∙ 𝑞𝑡0 si
ottiene: ∆𝑅 = 𝑝𝑡1 ∙ 𝑞𝑡1 − 𝑝𝑡0 ∙ 𝑞𝑡0 + 𝑝𝑡1 ∙ 𝑞𝑡0 − 𝑝𝑡1 ∙ 𝑞𝑡0 = 𝑞𝑡0 ∙ (𝑝𝑡1 − 𝑝𝑡0 ) + 𝑝𝑡1 ∙ (𝑞𝑡1 − 𝑞𝑡0 ) = 𝑞𝑡0 ∙ ∆𝑝 + 𝑝𝑡1 ∙
∆𝑝∙𝑞𝑡0
∆𝑞, ovvero ∆𝑅 = 𝑞𝑡0 ∙ ∆𝑝 + 𝑝𝑡1 (𝜀 ∙ 𝑝𝑡0
). Da quest’ultima formula è possibile stimare la variazione di prezzo
limite, oltre la quale l’effetto complessivo di un incremento dei prezzi sulla variazione dei ricavi ha segno negativo, in
𝜀∙𝑝𝑡1 ∙∆𝑝∙𝑞𝑡0 𝑞 ∙∆𝑝 𝑝 𝑝 ′ 𝑝𝑡0 𝑝𝑡0
particolare si ottiene: 𝑞𝑡0 ∙ ∆𝑝 + 𝑝𝑡0
= 0 ⇒ 𝜀 = − (𝑞𝑡0 ∙∆𝑝) ∙ 𝑝𝑡0 = − 𝑝𝑡0 ⇒ 𝑝𝑡1 =− 𝜀
=
|𝜀|
.
𝑡0 𝑡1 𝑡1
′ 1
Richiamando che ∆𝑝 = 𝑝𝑡1 − 𝑝𝑡0 e fissando 𝑝𝑡1 = 𝑝𝑡1 si ottiene la seguente formula: ∆𝑝′ = 𝑝𝑡0 ∙ (− 𝜀 − 1) =
1 ′
𝑝𝑡0 ∙ (|𝜀| − 1), dove 𝑝𝑡1 e ∆𝑝′ indicano il prezzo finale e la variazione di prezzo cui corrisponde l’annullamento dei
ricavi (∆𝑅 = 0) nel periodo compreso tra 𝑡𝑜 e 𝑡1 .

Ciò significa che, posto il vincolo di ricavi crescenti o quanto meno costanti, dunque ∆R ≥ 0, e dato l’ulteriore
vincolo p < VP, si hanno diverse situazioni:

- nell’ipotesi di domanda a elasticità unitaria, il prezzo unitario di vendita non è manovrabile, in quanto 𝜀 = −1 = |1|
e dunque si avrà ∆𝑝′ = 𝑝𝑡0 ∙ [(1⁄1) − 1] = 0;

- nell’ipotesi di domanda anelastica, poiché 𝜀 > −1 = |𝜀| < 1, la variazione limite di prezzo sarà sempre positiva,
1
dunque 𝑝𝑡0 ∙ (|𝜀| − 1) > 0: questo significa che si ha convenienza ad aumentare i prezzi per accrescere i ricavi;
- nell’ipotesi di domanda elastica, poiché 𝜀 < −1 ⇒ |𝜀| > 1, variazione limite di prezzo sarà sempre negativa,
1
dunque 𝑝𝑡0 ∙ (|𝜀| − 1) < 0: questo significa che si ha convenienza a ridurre i prezzi per accrescere i ricavi.

La variazione del prezzo ottima (∆p*) indica la variazione del prezzo unitario di vendita che massimizza la variazione
∆𝐩′
dei ricavi ed è pari alla metà della variazione limite di prezzo: ∆p* = .
𝟐
La leva operativa
Il concetto di leva operativa si riferisce al potenziale economico e al rischio collegati ai fattori della produzione che
originano costi fissi: da questo punto di vista, le leve aziendali rappresentano dei “driver interni” che il management
può manovrare per aumentare o ridurre le aspettative di reddito e la connessa esposizione al rischio di impresa. Sono
state concettualizzate varie forme di leve, che si differenziano in ragione del tipo di fattori produttivi cui si riferiscono
e alla natura della performance oggetto di osservazione: si distinguono la leva operativa, finanziaria ed economica. Ci
si concentra sulla leva operativa quale misura dell’elasticità del margine operativo netto (EBIT) rispetto all’andamento
dei ricavi, cioè misura quanto è sensibile l’EBIT rispetto alle variazioni dei ricavi (es. se LO = 3 e ∆R = 100% significa che
∆𝐸𝑏𝑖𝑡/𝐸𝑏𝑖𝑡 ∆𝐸𝑏𝑖𝑡 𝑅 ∆𝐸𝑏𝑖𝑡 𝑅
l’EBIT varia del 300%). Essa si calcola nel seguente modo: 𝐿𝑂 = ∆𝑅/𝑅
= ∙
𝐸𝑏𝑖𝑡 ∆𝑅
= ∆𝑅
∙ 𝐸𝑏𝑖𝑡 .
La leva operativa dipende dall’incidenza dei costi fissi operativi CFO sui costi totali di produzione (effetto moltiplicatore:
maggiori sono i costi fissi operativi, maggiore è la leva operativa). La leva operativa assume normalmente un valore
positivo, essendo i ricavi collegati positivamente con la formazione del margine operativo netto; tuttavia, la leva
operativa può assumere anche valori negativi, in presenza di tale condizione: 𝐸𝐵𝐼𝑇 < 0 , ∆𝐸𝐵𝐼𝑇 > 0 , ∆𝑅 > 0.
Se l’impresa investe in costi fissi avrà un doppio effetto: aumenta la quantità di equilibrio e aumenta la leva operativa,
quindi, i costi fissi rappresentano al contempo un’opportunità perché consentono all’impresa di investire e un rischio
perché aumentano la quantità di equilibrio.
In ogni caso, la leva operativa identifica un’opportunità e al contempo un rischio: il livello di LO si qualifica, da un lato,
come determinante positivo del grado di sfruttamento delle economie di dimensione nelle fasi di ricavi crescenti,
dall’altro come amplificatore della concentrazione del risultato operativo in presenza di ricavi decrescenti. È possibile
esprimere la natura della LO tramite una matrice che rappresenta i livelli alto e basso di leva operativa, che identificano
potenziali benefici e danni per l’impresa in ragione dell’andamento atteso dei ricavi:

- il quadrante “A”, così come il quadrante “D”, mostrano


una condizione ottima dovuta alla coerenza tra il grado di
leva operativa e la dinamica attesa dei ricavi: nel
quadrante “A” l’impresa tende verso l’accrescimento
sostanziale dell’EBIT in presenza di ricavi crescenti, grazie
ad un adeguato sfruttamento delle economie di
dimensione, mentre il quadrante “D” esprime il beneficio
per l’impresa che è riconducibile ad un effetto
relativamente contenuto della decrescita dei ricavi sulla
contrazione dell’EBIT;

- il quadrante “B”, così come il quadrante “C”, evidenziano una sorta di disallineamento tra il grado di leva operativa
e la dinamica attesa dei ricavi: nel quadrante “B” la combinazione tra alta leva operativa e contrazione dei ricavi
implica necessariamente una forte riduzione dell’EBIT, mentre il quadrante “C” è espressione di un costo
opportunità connesso alla scarsa capacità di trasformare, attraverso la leva operativa, le potenziali variazioni dei
ricavi in variazioni dell’EBIT.

Per comprendere al meglio il concetto di LO si introduce quello di leva operativa potenziale 𝑳𝑶𝒑 , nella quale si
considerano costanti le determinanti del margine operativo netto, fatta eccezione per le quantità vendute: ∆𝐶𝐹𝑂 =
0, ∆𝑝 − ∆𝑐𝑣 = 0 e ∆𝑞 ≠ 0 . L’andamento del margine operativo netto è espresso in funzione della quantità prodotta
∆𝑞∙(𝑝𝑡0−𝑐𝑣𝑡0 ) 𝑝𝑡0 ∙𝑞𝑡0 𝑞𝑡0 ∙(𝑝𝑡0 −𝑐𝑣𝑡0)
e venduta, ovvero ∆𝐸𝑏𝑖𝑡 = 𝑓(∆𝑞). Nel periodo compreso tra 𝑡0 e 𝑡1 : 𝐿𝑂𝑝 = 𝐸𝑏𝑖𝑡𝑡0
∙ 𝑝 ∙∆𝑞 = 𝐸𝑏𝑖𝑡𝑡0
=
𝑡0
𝑅𝑡0 −𝐶𝑉𝑡0 𝐸𝑏𝑖𝑡𝑡0 +𝐶𝐹𝑂 𝐶𝐹𝑂
𝐸𝑏𝑖𝑡𝑡0
= 𝐸𝑏𝑖𝑡𝑡0
⇒ 𝐿𝑂𝑝 = 1 + 𝐸𝑏𝑖𝑡 . Tale formula ci permette di comprendere che, supposti 𝐸𝐵𝐼𝑇 > 0 e
𝑡0
𝐶𝐹𝑂 > 0 e nel caso di 𝐿𝑂𝑝 > 1, sussiste un margine di potenziale sfruttamento economico delle risorse disponibili,
che trovano rappresentazione nei costi fissi sul piano economico e negli investimenti in fattori produttivi a fecondità
ripetuta sul piano patrimoniale.

Inoltre, sussiste una relazione inversa tra 𝐿𝑂𝑝 e 𝐸𝐵𝐼𝑇:


se da un lato la leva operativa agisce come
moltiplicatore (positivo o negativo) dell’EBIT, dall’altro
lato il valore dell’EBIT, che viene man mano
contabilizzato, agisce negativamente sul valore di 𝐿𝑂𝑝 ,
dunque a parità di costi fissi, all’aumentare dell’EBIT si
riduce la leva operativa potenziale e viceversa.

Sussiste anche una relazione inversa tra 𝐿𝑂𝑝 il margine di sicurezza: essi sono inversamente correlati, poiché essendo
che la leva esprime un rischio, una leva più alta esprime un margine di sicurezza più basso, quindi, da un lato i costi
fissi aumentano la leva operativa potenziale, dall’altro riducono il margine di sicurezza.
Per concludere:
o se i ricavi sono attesi in decrescita (R < 0), la leva operativa deve essere bassa perché questo consente
all’impresa di proteggere il suo equilibrio economico;
o se i ricavi sono attesi in crescita (R > 0), la leva operativa deve essere alta perché questo consente all’impresa
di cogliere le opportunità con rischi sostanzialmente nulli.
L’analisi della varianza del reddito
L’analisi delle grandezze caratteristiche, espressione dello stato di operatività dell’impresa, tenuto conto della leva
operativa, che esprime in che misura le variazioni dei ricavi si riflettono sulle variazioni del margine operativo netto,
può essere arricchita considerando gli scostamenti tra le previsioni contenute nel budget d’esercizio e i risultati
reddituali registrati dall’impresa nel corso della sua dinamica evolutiva. Gli scostamenti tra risultati previsti e
registrati sono determinabili attraverso la seguente espressione: ∆𝑷 = 𝑷𝑩 − 𝑷𝑪 = ∆𝑹 + ∆𝑪𝑽 + ∆𝑪𝑭.

Per quanto riguarda i ricavi, si considerano gli scostamenti nella domanda di mercato (𝑄𝑇 ) e nella quota di mercato
(𝑞𝑚 ), che esprime il rapporto tra le quantità vendute 𝑞𝑣 e la domanda totale di mercato 𝑄𝑇 . Si introduce così il
concetto di ricavo in funzione della quota di mercato e della domanda totale:
𝑞𝑣
𝑅 = 𝑝𝑣 ∙ ∙ 𝑄 = 𝑝𝑣 ∙ 𝑞𝑚 ∙ 𝑄𝑇 ⇒ ∆𝑅 = 𝑝𝑣𝐵 ∙ 𝑞𝑚
𝐵
∙ 𝑄𝑇𝐵 − 𝑝𝑣𝐶 ∙ 𝑞𝑚
𝐶
∙ 𝑄𝑇𝐶
𝑄𝑇 𝑇
Questi scostamenti possono nascere da un effetto prezzo, un effetto quota di mercato o un effetto quantità:

• effetto quantità: se la domanda totale prevista è inferiore a quella attesa, questo genera un ricavo conseguito
inferiore alle attese, dunque l’impresa dovrebbe, per esempio, concedere più credito, fare più pubblicità al
fine di stimolare la domanda;
• effetto quota di mercato: se la quota di mercato prevista è inferiore a quella attesa, questo genera un ricavo
conseguito inferiore alle attese, dunque l’impresa dovrebbe, per esempio, differenziare di più il prodotto al
fine di competere meglio con i concorrenti;
• effetto prezzo: se i prezzi di vendita previsti sono inferiori a quelli attesi, questo genera un ricavo conseguito
inferiore alle attese, dunque l’impresa dovrebbe, per esempio, regolamentare meglio gli sconti dati ai clienti.
Per quanto riguarda i costi variabili, si considerano gli scostamenti di volume, di produttività e di prezzo. Si parte dal
𝑞
considerare l’espressione del costo variabile totale, indicando in via sintetica 𝑘 = 𝑖⁄𝑞𝑝 :
𝑞𝑖
𝐶𝑉 = 𝑝𝑎 ∙ ∙ 𝑞𝑝 ⇒ ∆𝐶𝑉 = 𝑝𝑎𝐵 ∙ 𝑘 𝐵 ∙ 𝑞𝑝𝐵 − 𝑝𝑎𝐶 ∙ 𝑘 𝐶 ∙ 𝑞𝑝𝐶
𝑞𝑝

Questi scostamenti possono nascere da un effetto prezzo, un effetto quantità e un effetto coefficiente tecnico:

• effetto prezzo: se i prezzi di vendita previsti sono superiori a quelli attesi, questo genera un costo superiore
alle attese, dunque l’impresa dovrà rinegoziare con i fornitori i prezzi e riportarli negli standard contrattuali;
• effetto quantità: se la domanda totale prevista è superiore a quella attesa, l’impresa ha prodotto con gli stessi
input una quantità minore di output, questo genera un costo superiore alle attese, dunque l’impresa dovrà
ridefinire la produzione, diminuendo i costi;
• effetto coefficiente tecnico: se il coefficiente tecnico è superiore a quello atteso, l’impresa ha sprecato risorse,
questo genera un costo superiore rispetto a quello atteso, dunque l’impresa dovrà intervenire migliorando
l’efficienza e riducendo il coefficiente tecnico.
Per quanto riguarda i costi fissi, gli scostamenti tra i valori di budget ed i valori consuntivi sono riconducibili sia ad un
diverso assorbimento di tali costi, in relazione alle quantità effettivamente prodotte, sia ad un diverso prezzo-costo
sostenuto per l’acquisizione dei fattori produttivi i cui costi sono appunto fissi. Si parte dalla mera differenza tra i CF
a budget e CF a consuntivo e si va poi ad aggiungere e sottrarre il prodotto tra il rapporto dei costi fissi rispetto alle
quantità prodotte a budget e le quantità prodotte a consuntivo e si ottiene così l’espressione finale di ∆𝐶𝐹:
𝐶𝐹 𝐵 𝐶𝐹 𝐵 𝐶𝐹 𝐵 𝐶𝐹 𝐵
∆𝐶𝐹 = 𝐶𝐹 𝐵 − 𝐶𝐹 𝐶 ⇒ ∆𝐶𝐹 = 𝐶𝐹 𝐵 − 𝐶𝐹 𝐶 + 𝐵
𝑞𝑝
∙ 𝑞𝑝𝐶 − 𝐵
𝑞𝑝
∙ 𝑞𝑝𝐶 ⇒ ∆𝐶𝐹 = (𝐶𝐹 𝐵 − 𝐵
𝑞𝑝
∙ 𝑞𝑝𝐶 ) ( 𝐵
𝑞𝑝
∙ 𝑞𝑝𝐶 − 𝐶𝐹 𝐶 )

Questi scostamenti possono nascere da un effetto volume o da un effetto spesa:

• effetto volume: l’impresa ha prodotto o venduto meno rispetto al previsto e, quindi, i costi fissi si sono ripartiti
su una base di quantità più piccola e ciò ha creato un surplus di costi fissi, dunque l’impresa dovrà produrre e
vendere di più;
• effetto spesa: l’impresa ha pagato i fattori fissi con un prezzo più alto di quello previsto nel budget, dunque
l’impresa dovrà ridurre eventuali eccessi di costo.
Alla luce delle analisi svolte, le grandezze caratteristiche dei prezzi-ricavi, dei prezzi-costi, dei coefficienti tecnici e delle
quantità prodotte e vendute possono, nel corso del tempo, subire delle variazioni ovvero degli scostamenti rispetto ai
livelli fissati nell’ambito del budget d’esercizio, assumendo segni positivo o negativo: assumono segno positivo quando
si registrano a consuntivo livelli dei ricavi superiori nonché costi variabili e costi fissi inferiori ai livelli previsti nel
budget, al contrario assumono segno negativo quando si registrano a consuntivo livelli dei ricavi inferiori nonché costi
variabili e costi fissi superiori ai livelli previsti nel budget d’esercizio.
Tra tutti gli scostamenti distinguiamo:
scostamenti significativi (non tollerabili): scostamenti di natura persistente che superano certe soglie di
tolleranza;
scostamenti che rientrano nelle fasce di tolleranza (tollerabili): l’impresa fissa delle soglie di tolleranza dove
lo scostamento diventa significativo solo quando supera queste soglie.
Vi sono poi gli scostamenti ciclici, cioè quegli scostamenti che in un periodo sono positivi e nell’altro sono negativi,
che non sono significativi perché nel periodo si annullano.
Gli scostamenti non sono indipendenti, ma sono combinatori, infatti esiste la tecnica di correlazione (o analisi della
covarianza) che studia la correlazione tra il verificarsi di uno scostamento e un altro. Questo significa che alcuni
scostamenti possono manifestarsi congiuntamente, anche se questo crea un problema per l’impresa che va a creare
una concorrenza di eventi negativi (es. quando la quota di mercato dell’impresa si riduce, aumentano i prezzi
d’acquisto degli input, l’impresa ha meno potere di mercato e i fornitori le applicano sconti minori).
Concludiamo affermando che l'analisi degli scostamenti del reddito consente al decisore di monitorare la dinamica
evolutiva dell’impresa e a porre in essere delle azioni di governo strategiche e tattiche tese a ricondurre tali
scostamenti entro gli ambiti di tolleranza; se poi tali soglie vengono superate numerose volte allora si provvederà al
cambiamento del piano di sviluppo.
Azione di governo e dinamica evolutiva dell’impresa
L’azione di governo nell’ambito evolutivo dell’impresa è stata spiegata dal modello di Golinelli, che ha introdotto,
innanzitutto, il concetto di costo fisso come costo di capacità espressione della struttura specifica dell’impresa. Ad una
struttura specifica i-esima si associano poi diverse configurazioni denotate mediante grandezze contenute
nell’espressione 𝑴𝑪 ∙ 𝒒∗ = 𝑪𝑭𝒊 , questo perché le diverse configurazioni della struttura dell’impresa si identificano
con i livelli di margine di contribuzione (𝑀𝐶 = 𝑝𝑣 − 𝑐𝑣 ) e della quantità 𝑞 ∗ compatibili con il costo fisso 𝐶𝐹𝑖 .

Si distinguono 3 tipi di azioni di governo:

❖ ADEGUAMENTI: sono azioni di governo che, in condizione di sostanziale costanza della struttura specifica,
agiscono sulle componenti più mutevoli e periferiche del margine di contribuzione, dunque quest’ultimo
varia e di conseguenza variano anche le quantità di equilibrio a parità di costi fissi. Essi sono rappresentati
graficamente con uno scorrimento dello stato di operatività dell’impresa lungo una curva di iso-costo
(iperbole equilatera), dalla configurazione 1 a quella 2, in cui la grandezza 𝑞 ∗ decresce al crescere di 𝑀𝐶;
❖ TRASFORMAZIONI: interventi che modificano la dimensione e la composizione del costo fisso e, dunque,
apportano variazioni alle componenti più durevoli della struttura specifica dell’impresa. Esse sono
rappresentate graficamente come passaggio da una curva di iso-costo di struttura ad un'altra, muovendosi
dalla configurazione strutturale 2 a quella 3;
❖ RISTRUTTURAZIONI: interventi che, oltre a modificare il costo fisso e dunque la struttura specifica,
conseguono a stati di crisi, ossia stati di difficoltà per l’impresa, di adempiere alle proprie obbligazioni.
Gli adeguamenti si palesano come interventi di portata più limitata,
tesi a meglio sfruttare i fattori della produzione, che cercano di
andare a modificare la struttura specifica pro-tempore dell’impresa;
essi, poiché agiscono sulle componenti più facilmente modificabili,
producono effetti sui risultati dell’impresa nell’immediato e sono
facili da realizzare perché non implicano investimenti ingenti. È
necessario però osservare che continui interventi di adeguamento,
prolungati nel tempo, espongono l’impresa al rischio di
obsolescenza rispetto alle innovazioni del tempo di riferimento.

Le trasformazioni sono, invece, interventi di più ampia portata, idonee a creare le condizioni di rinnovo nel tempo
delle capacità incorporate nell’impresa e dunque di aprire l’impresa a nuove vie di sviluppo; tuttavia, tendono a
generare per l’impresa effetti di più lungo periodo, a carattere più incerto e sono interventi difficili da realizzare
perché implicano ingenti investimenti. Attraverso un’adeguata composizione di adeguamenti e di trasformazioni nel
corso del tempo, l’impresa può essere in grado di percorrere una dinamica evolutiva caratterizzata da perduranti
condizioni di equilibrio economico e finanziario, anche in presenza di tendenze avverse, riducendo così la necessità
di dare corso a eventi più radicali di ristrutturazione.

… sulla componente produttiva del reddito massimo


L’azione di governo che ha come oggetto la componente produttiva del reddito massimo consiste nel variare i vincoli
a cui l’impresa è sottoposta. Distinguiamo:

❖ INTERVENTI DI INNOVAZIONE: si propongono di ampliare il potenziale di reddito variando il differenziale tra


il valore percepito e i costi opportunità in misura maggiore rispetto ai concorrenti, al fine di erodere
nell’immediato le loro quantità vendibili e quindi la loro quota di mercato. Nel quadro dell’azione di governo,
abbiamo trovato due tipi di interventi innovativi:
- strategie competitive di differenziazione: incrementano il VP, cioè il valore percepito dai clienti senza
accrescere i costi opportunità medi unitari delle attività produttive. Nella pratica, ciò avviene mediante
investimenti nelle politiche commerciali, nella reputazione, ossia sfruttando economie di scala dal lato della
domanda (cosiddette economie di rete) o anche creando in capo ai clienti costi del cambiamento e costi
sommersi. In tutti i casi considerati, il valore complessivamente assegnato dal cliente ad un determinato
prodotto si modifica in funzione delle economie di rete, degli switching costs e dei sunk costs;
- strategie competitive di leadership di costo: contengono i costi medi unitari senza penalizzare
eccessivamente il valore percepito da parte dei clienti. Nella pratica, ciò avviene mediante lo sviluppo di
frizioni nei mercati attraverso l’innalzamento dei costi di ricerca di controparti alternative all’impresa per i
fornitori, mediante la formazione di barriere negoziali che creano disconnessione tra i fornitori e l’impresa
oppure creando costi di transazione. Tutte queste azioni concorrono a ridurre il CO, cioè il costo opportunità
riferibile ai diversi fornitori, stante che, in presenza di elevati costi di ricerca, barriere negoziali e costi di
transazione, un fornitore o non avrà alternative disponibili rispetto alle quali ricollocare i propri prodotti
finiti o lo stesso dovrà sostenere rilevanti sacrifici, in termini di perdita di valore dei propri investimenti.

In aggiunta alle strategie di natura competitiva, gli interventi di governo innovativi sulla componente
produttiva del reddito massimo possono realizzarsi anche attraverso innovazioni strategiche, favorite da
investimenti in nuove tecnologie di processo e di prodotto, con la creazione da parte dell’impresa di nuovi
spazi di mercato.

❖ INTERVENTI DI REPLICAZIONE: consistono nello sfruttamento, nel corso del tempo, del potenziale di reddito
generato in eccesso rispetto a quello dei concorrenti per allentare il vincolo mercatistico ed aumentare le
quantità vendibili massime. Grazie ai precedenti interventi innovativi, è possibile che un’impresa riesca sia ad
aumentare le sue quantità massime vendibili e sia diminuire quelle dei concorrenti, offrendo, ad esempio, un
maggiore valore ai clienti rispetto ai concorrenti.
Le due componenti, innovativa e di replicazione, che sono alla base dell’azione di governo sulla componente
produttiva del reddito massimo, possono essere formalizzate attraverso l’espressione del costo di opportunità medio
𝐶𝑂𝑖 𝑘𝑚 𝑚𝑖𝑛{𝑄𝑉𝑀𝐴𝑋 ,𝑄𝑃𝑀𝐴𝑋 }+𝐶𝑂𝑓 ∙𝑞𝑓
unitario dell’impresa: 𝑐𝑜 = , da cui possiamo ricavare e semplificare il reddito
𝑚𝑖𝑛{𝑄𝑉𝑀𝐴𝑋 ,𝑄𝑃𝑀𝐴𝑋 }
massimo 𝑃𝑀𝐴𝑋 = (𝑉𝑃 − 𝑐𝑜) ∙ 𝑞𝑀𝐴𝑋 , con 𝑀𝐶 ′ = (𝑉𝑃 − 𝑐𝑜) = reddito massimo unitario prodotto dall’impresa.
Ciò permette di comprendere che gli interventi agiscono, da un lato, sullo sviluppo della quantità prodotta e venduta
massima, con un conseguente miglior sfruttamento degli spazi di mercato consentiti dalla domanda corrente e
prospettica, e, dall’altro lato, sull’accrescimento della differenza tra il valore percepito dal cliente e il costo di
opportunità medio unitario. Si rileva che un’impresa avrà una posizione di vantaggio se, come nel caso di innovazioni
strategiche, nel mercato non sono presenti concorrenti e lei, dunque, opera da monopolista; in presenza di
concorrenti, infatti, tale vantaggio sussisterà soltanto se il reddito massimo unitario sarà maggiore di quello prodotto
dai concorrenti stessi.

… sulla componente distributiva del reddito massimo

Il potenziale di reddito, una volta creato, per trasformarsi in un reddito per l’impresa, deve essere oggetto di
successive azioni di governo di natura distributiva. Si introduce dunque questa espressione ∆𝑷𝒎𝒂𝒙 = ∆𝑽𝑪 + ∆𝑽𝑭 +
∆𝑫𝑰𝑽 + ∆𝑽𝑰, dove ∆𝑉𝐶 è la variazione del valore reso ai clienti, ∆𝑉𝐹 è la variazione del valore reso ai fornitori,
∆𝐷𝐼𝑉 è la variazione dei dividendi distribuiti e ∆𝑉𝐼 è la variazione del risultato d’esercizio accantonato a riserva.

Nel qualificare l’azione di governo sulla componente distributiva del reddito massimo è necessario porre in essere
alcune ipotesi:

- se ∆𝑃𝑚𝑎𝑥 = 0, ciò significa che ogni incremento di valore reso ad un soggetto implica una parallela riduzione del
valore reso ad altri soggetti. A parità di mix produttivo l’impresa potrà, da un lato, accrescere i prezzi-ricavi mediante
incrementi al listino prezzi dei prodotti inclusi nel proprio assortimento e, dall’altro, l’impresa potrà operare sul
versante dei prezzi-costi variando il prezzo unitario di acquisto dei materiali in ingresso. Nell’attuare queste decisioni
l’impresa potrebbe trovarsi in una situazione di svantaggio rispetto ai propri concorrenti, infatti tendendo a ridurre il
valore complessivo reso ai clienti e ai fornitori per accrescere il risultato d’esercizio, dunque la quota destinabile a
dividendo e/o a riserva, potrebbe perdere quota di mercato nei mercati di collocamento:

∆𝑉𝐶 + ∆𝑉𝐹 + ∆𝐷𝐼𝑉 + ∆𝑉𝐼 = 0 ⇒ ∆𝑉𝐶 + ∆𝑉𝐹 < 0 𝑒 ∆𝐷𝐼𝑉 + ∆𝑉𝐼 > 0
Nel caso in cui 𝑃𝑚𝑎𝑥 ≫ 𝑃, è possibile che la distribuzione del surplus riguardi solo gli azionisti e non vada ad intaccare
clienti e fornitori, dunque ∆𝑉𝐶 = ∆𝑉𝐹 = 0: si deve notare che la minore distribuzione di dividendi ai fornitori di
capitale a titolo di rischio può avere conseguenze limitate se non nulle in termini di potenziale di accordo tra imprese
e fornitori, a patto che minori dividendi possano essere compensati da un accrescimento del valore patrimoniale
della quota di capitale sociale detenuta dall’impresa. Non a caso il rafforzamento del capitale di funzionamento
dell’impresa permette a quest’ultima di proteggersi da eventuali e future perdite, ma ciò può avvenire solo in
presenza di azionisti pazienti e non fortemente orientati alla distribuzione di dividendi;

- se ∆𝑃𝑚𝑎𝑥 > 0: l’impresa ha un accresciuto margine di discrezionalità nell’ambito delle azioni di distribuzione dei
dividendi, senza incorrere in problematiche di giustizia distributiva. In tali condizioni, l’azione di governo potrà agire
sulla componente distributiva o dando corso alla formazione di riserve mercatistiche (espresse, a parità di condizioni,
distribuendo reddito massimo in eccesso rispetto a quello creato da fornitori e clienti e quindi ∆𝑉𝐶 > 0 𝑒 ∆𝑉𝐹 > 0)
o dando corso alla formazione di un adeguato reddito di riserva (∆𝑉𝐼 > 0) oppure dando corso ad una maggiore
distribuzione dei dividendi (∆𝐷𝐼𝑉 > 0);

- se ∆𝑃𝑚𝑎𝑥 < 0: l’impresa dovrà necessariamente distribuire la variazione negativa tra i vari soggetti. se si volesse
mantenere costante il valore reso ai clienti e ai fornitori, in vista di preservare i livelli delle riserve mercatistiche,
l’impresa potrebbe trovarsi nella condizione di dover ridurre i prezzi-ricavi e aumentare i prezzi-costi con conseguente
potenziale formarsi di perdite d’esercizio. Queste ultime potrebbero trovare copertura attraverso la riduzione del
capitale di funzionamento, consentendo così all’impresa di mantenere la sua posizione nei mercati di
approvvigionamento in attesa di riportare il livello del reddito massimo nel giusto sentiero tramite azioni di governo
innovative.
Dunque, possiamo concludere che un’azione di governo che sia in grado di comprendere e di considerare le
interdipendenze tra la componente produttiva e quella distributiva del reddito massimo e, allo stesso tempo, sia
favorevolmente orientata alla ricerca di un’opportuna distribuzione di tale reddito massimo tra i vari portatori di
interesse dell’impresa, mantenendo e accrescendo, ove possibile, il livello delle riserve mercatistiche, permette
all’impresa di meglio assorbire gli effetti negativi connessi al manifestarsi di eventi avversi, garantendo continuità allo
svolgimento dei suoi cicli economico-monetari nel corso del tempo. Afferma, infatti, Zappa che un’ampia ed equa
distribuzione del reddito tra i vari portatori d’interesse dell’impresa può dirsi cagione non ultima di una produzione
economicamente efficace.
CAP.7: I RISULTATI DELL’IMPRESA NELLA DIMENSIONE FINANZIARIA
Alla luce di quanto osservato finora, assume pregnante significato la lettura dei risultati dell’impresa nella
dimensione finanziaria, oltre che nella sua dimensione reale, incentrata sul reddito, definito come incremento del
capitale, in particolare quello di funzionamento, intervenuto in un determinato periodo per effetto della gestione e
sull’equilibrio economico come obiettivo generale, che consegue alla capacità dell’impresa di generare un surplus in
un processo diacronico che va dall’acquisizione delle risorse alla loro valorizzazione tramite la vendita.

I risultati finanziari, pur collegandosi ai risultati reali, si fondano su fatti amministrativi che possono avere carattere:

- originario o numerario certo: assumendo uno specifico valore numerario collegato ad incassi e pagamenti, dunque
a variazioni di disponibilità liquide;

- derivato o numerario assimilato: in quanto scaturente da variazioni di crediti e di debiti.

Così come costi e ricavi si correlano all’equilibrio economico, entrate e uscite si correlano all’equilibrio finanziario,
qualificato come la capacità dell’impresa di realizzare in ogni istante una sincronia stabile tra i fabbisogni che
originano da uscite-pagamenti e le fonti che discendono da entrate-incassi (passaggio obbligato nei processi di
trasformazione della ricchezza). Mentre le grandezze reali sono il portato di scelte e conseguenti azioni tese alla
produzione, mediante scambi, del reddito e alla sua distribuzione tra vari soggetti, le grandezze finanziarie
conseguono da scelte che sono orientate sia alla conveniente preordinazione e combinazione di entrate ed uscite
monetarie (gestione monetaria), sia all’opportuna composizione dell’attivo e del passivo (gestione finanziaria), in
vista di offrire alla gestione economica i fondi necessari al suo svolgimento. Ciò significa che, nonostante
nell’impresa si distinguano i tre momenti (momento finanziario, momento economico e momento monetario), essi e
le grandezze che li sottendono presentano sostanziali correlazioni: non a caso, la formazione dei ricavi si correla con
variazioni numerarie positive quando il soggetto acquirente paga nell’immediato (pagamento a pronti), mentre nel
caso di dilazioni di pagamento i ricavi sono controbilanciati, sul piano patrimoniale, da nuovi crediti commerciali che
emergono come liquidità potenziale (il loro incasso si manifesta solo successivamente rispetto al momento della
vendita). A loro volta, i costi di acquisto danno luogo a variazioni numerarie negative o alla formazione di debiti e al
loro successivo pagamento.

Le grandezze reali e finanziarie, nonostante siano collegate e connesse, possono esprimere andamenti divergenti
nell’ambito della dinamica evolutiva dell’impresa, a causa della differenza tra i principi contabili, in cui distinguiamo:

a) principio della competenza economica: principio alla base della contabilizzazione delle grandezze reali, dunque
dei costi e dei ricavi, colti nei momenti delle rilevazioni amministrative (ovvero dell’ordinazione a cui conseguono
ricavi per fatture da emettere e costi per fatture da ricevere) e contabili (ovvero della fatturazione attiva per ricavi e
passiva per i costi), rispetto ai quali i flussi monetari possono essere concorrenti con il momento dell’ordine, quindi
anticipati rispetto alla fatturazione, concorrenti con il momento della fatturazione, quindi posticipati rispetto
all’ordinazione, o successivi sia all’ordinazione che alla fatturazione, in funzione dei tempi di dilazione;

b) principio dell’accertamento: principio alla base della contabilizzazione delle grandezze finanziarie.

Non tutte le variazioni concernenti la liquidità potenziale (o assimilata) ed effettiva trovano contropartita nel flusso
di reddito e, quindi, non tutte traggono la loro origine nella gestione economica dell’impresa; difatti, così come i
ricavi e i costi si legano con le variazioni nella disponibilità di cassa o nei regolamenti numerari assimilati costituiti da
crediti e debiti, la dinamica finanziaria e monetaria dell’impresa non evolve esclusivamente in funzione di quella
economica: nel quadro della gestione finanziaria, le variazioni delle componenti attive e passive del capitale sono
anch’esse correlate ai flussi di entrate ed uscite in senso monetario o finanziario.

Alla luce di quanto detto, si possono immaginare:

- imprese con elevato volume di ricavi, ma con problemi sia monetari (difficoltà di incasso dei crediti maturati dalla
vendita dei prodotti) che finanziari (limitata affidabilità dei debitori e dunque registrazione di perdite su crediti negli
esercizi);

- imprese che, pur operando in una condizione di equilibrio economico, non sono in grado di far fronte con le
disponibilità correnti alle uscite finanziarie con scadenze prestabilite, a causa di concentrazione di pagamenti per
fornitori e ritardo nell’incasso dai clienti;

- imprese con redditi molto limitati e crescita dei ricavi modesta se non negativa, ma che sono in grado di far fronte
regolarmente alle proprie obbligazioni (ricorda che la copertura di un debito in scadenza con l’accensione di un
nuovo debito deve essere una soluzione pro-tempore rispetto all’obiettivo di compensare una variazione numeraria
negativa con la creazione di una nuova entrata monetaria).

Le due grandezze che fanno parte della dimensione finanziaria e si collegano all’equilibrio finanziario sono:
LIQUIDITA’: indica la quantità di risorse in forma monetaria e, quindi, le attività immediatamente utilizzabili
nelle combinazioni produttive per fronteggiare le uscite finanziarie;
SOLVIBILITA’: indica l’attitudine dell’impresa a rimborsare con regolarità i finanziamenti richiesti ed è
importante perché dà l’idea al mercato che l’impresa sia un soggetto affidabile a cui prestare risorse.
L’equilibrio finanziario può essere perseguito attraverso la componente auto-generata (autofinanziamento) oppure
mediante il ricorso a fonti esterne, che vengono raccolte attraverso il sistema finanziario, in particolare sfruttando
quegli operatori che hanno il compito di intermediare tra unità in surplus e unità in deficit: questi sono gli intermediari
finanziari, cioè imprese che attuano un processo di intermediazione finanziaria che parte dalla raccolta del risparmio
dalle unità in surplus, sottoforma di depositi, e impiega tali risorse nelle imprese attraverso la concessione di
finanziamenti.
Dunque, possiamo distinguere:
• unità in surplus: soggetti che hanno un eccesso di risparmio ed hanno bisogno di investire risorse finanziarie
(es. famiglie), dunque offrono risorse;
• unità in deficit: soggetti che hanno un difetto di risparmio ed hanno bisogno di risorse finanziarie (es. imprese),
dunque domandano risorse.
Le unità in deficit possono entrare in contatto con le unità in surplus mediante il canale diretto, negoziando
direttamente le transazioni finanziarie, o il canale indiretto, avvalendosi degli intermediari finanziari. Il sistema
finanziario si compone anche di autorità con funzioni di vigilanza e di indirizzo, operanti a livello nazionale (es. Banca
d’Italia e Consob) e internazionale (es. Banca centrale e FMI): esse non svolgono attività di intermediazione finanziaria,
ma contribuiscono al funzionamento del sistema finanziario, mediante politiche di regolamentazione.
Grandezze finanziarie, budget e dinamica evolutiva
FABBISOGNI: complesso di risorse di capitale necessarie per sviluppare l’attività d’impresa, che consistono in
aumenti di attività e riduzioni di passività patrimoniali registrate in un esercizio (es. aumento delle
immobilizzazioni, dei crediti verso i clienti, degli investimenti in attività finanziarie). I fabbisogni devono essere
coperti con le adeguate fonti di finanziamento;
FONTI: in un’ottica strettamente patrimoniale, originano da riduzioni di attività e aumenti di passività
patrimoniali e possono essere esterne (es. capitale di credito) o interne (es. autofinanziamento, che si ha
quando l’impresa copre i fabbisogni finanziari senza ricorrere all’acquisizione di nuovi finanziamenti).
Un’eccedenza delle fonti rispetto ai fabbisogni genera un eccesso di risorse finanziarie che possono essere impiegate
per accrescere la liquidità dell’impresa e/o per ampliare la sua capacità di credito; in egual misura, la condizione di
equilibrio finanziario in condizioni di instabilità potrebbe essere raggiunta mediante l’utilizzo del fondo di liquidità
disponibile in un certo istante oppure tramite lo sfruttamento di tale capacità di credito: in questo caso si parla di
capacità di credito come fonte.
Possono essere analizzati in una:
LOGICA STATICA: è incentrata su grandezze fondo che trovano qui riflesso nel concetto di capitale che, in
quest’ottica, comprende il complesso disponibile di attività (fabbisogni-fondo) ed il complesso disponibile di
passività (fonti-fondo) riferite ad un determinato istante: dal loro confronto nasce l’equilibrio finanziario;
LOGICA DINAMICA: è incentrata su grandezze flusso e si basa sul confronto tra uscite ed entrate che originano
da fabbisogni-flusso e fonti-flusso nel corso del tempo; a loro volta i flussi che concorrono alla formazione
dell’equilibrio finanziario, originano sia dalla gestione economica, quindi da ricavi e costi, sia dalla gestione
finanziaria e monetaria, quindi da variazioni di attività e passività patrimoniali.
È necessario ricordare che le grandezze flusso concorrono alla formazione delle grandezze fondo che, a loro volta,
sostengono e consentono il manifestarsi successivo delle grandezze flusso, dunque il flusso non è altro che la
variazione del fondo nell'intervallo di tempo; in particolare, le grandezze-fondo consistono in valori riferiti ad un
momento dato, mentre le grandezze-flusso sono determinate dalle diverse combinazioni di fattori produttivi operate
nell'azienda e misurate in un intervallo di tempo. Sono esempi di fondo la consistenza patrimoniale, la consistenza
delle scorte, la disponibilità di moneta, sono esempi di flusso il reddito, l'investimento, la produzione.

Fabbisogni e fonti possono poi essere analizzati:


• a consuntivo, cioè rispetto ai risultati finanziari conseguiti dall’impresa in un determinato periodo di tempo;
• a preventivo, cioè rispetto ai risultati finanziari previsti (nell’ambito dei budget).
I fabbisogni e le fonti analizzati a preventivo si servono del:
- PIANO FINANZIARIO: ha una durata corrispondente al piano di sviluppo dell’impresa e comprende l’insieme
delle fonti e dei fabbisogni che originano dal complesso di scelte prospettiche dell’impresa, identificando al
contempo le loro provenienze e le loro destinazioni. Esso serve a verificare se il complesso dei fabbisogni
finanziari trova appropriata copertura nelle fonti e consente la verifica della fattibilità globale finanziaria del
piano di sviluppo: se fabbisogni = fonti, il piano di sviluppo è fattibile, se fabbisogni > fonti, il piano di sviluppo
non è fattibile;
- BUDGET FINANZIARIO: esprime lo stato di operatività dell’impresa in riferimento alla dimensione finanziaria
e verifica se, nei singoli periodi, i fabbisogni sono coperti dalle fonti, dunque se si verifica la fattibilità locale
finanziaria del piano di sviluppo;
- BUDGET DI CASSA (o di tesoreria): descrive il fondo di cassa aziendale disponibile istante per istante
(compreso nel budget finanziario).
Nello specifico, la seguente figura evidenzia la formazione, in un’ottica previsionale e con una logica dinamica, del
budget di cassa collegandolo al budget di esercizio:

È possibile notare che tutti i budget, finanziari ed


economici, concludono nel budget di cassa. A livello
operativo, nel quadro del budget commerciale si delineano
i costi commerciali e maturano i ricavi di vendita che sono
compresi nel budget dei ricavi, dal quale si possono
generare disponibilità liquide per attivare un nuovo ciclo
economico. Nel budget di produzione e nel budget delle
altre aree si delineano i costi diretti di produzione e le spese
generali che concorrono alla formazione del costo totale
aziendale, che viene dettagliato nel rispettivo budget dei
costi di esercizio.

Ulteriori variazioni dei flussi compresi nel budget di cassa originano sia dal budget degli investimenti, visto le uscite
connesse all’impiego di fattori produttivi a fecondità ripetuta, e sia dal budget dei finanziamenti, per effetto
dell’accensione di nuovi debiti finanziari a titolo di credito e/o aumenti di capitale sociale. È fondamentale
sottolineare che alla formazione del budget di cassa concorrono negativamente anche i dividendi, corrisposti
dall’impresa ai fornitori di capitale di rischio, in quanto riducono la cassa.
In conclusione, il budget di cassa consente al decisore sia di programmare che di regolare, in maniera puntale, il
mantenimento dello stock di liquidità aziendale, in relazione ai target fissati dal piano finanziario, e sia di impostare
la scelta tra soluzioni finanziarie alternative per soddisfare fabbisogni emergenti. Il budget di cassa si inserisce anche
nel ciclo del controllo, in quanto permette di verificare la congruenza dei risultati finanziari consuntivi rispetto a
quelli previsionali.

Le grandezze finanziarie nella logica di analisi dei fondi


Nel considerare le grandezze finanziarie dell’impresa nella logica statica dei fondi si devono introdurre i concetti di
attività e passività patrimoniali. Il prospetto patrimoniale accoglie due sezioni: attivo, che accoglie fabbisogni-fondo,
e passivo, che accoglie flussi-fondo.
In vista di correlare la durata temporale delle due sezioni, gli elementi inclusi nel prospetto patrimoniale possono
essere composti e rappresentati in ordine di liquidità (per l’attivo) e di esigibilità (per il passivo):
• attività correnti sono liquidabili entro 12 mesi ≠ attività consolidate, liquidabili oltre 12 mesi;
• passività correnti sono esigibili entro 12 mesi ≠ passività consolidate, esigibili oltre 12 mesi.

Con riferimento alla sezione dell’attivo, la liquidità è


composta da risorse finanziarie mantenute in forma
monetaria e quindi immediatamente liquidabili (es.
cassa). Affianco ad esse si trovano le attività
finanziarie immateriali (es. marchi, brevetti),
materiali (es. terreni, macchinari) e finanziarie (es.
investimenti durevoli in attività finanziarie) che
hanno un grado minimo di liquidità, essendo
necessari tempi superiori all’esercizio amministrativo
per trasformare tali attività in equivalente monetario:

ATTIVO CORRENTE: somma delle liquidità immediate e differite e delle rimanenze (liquidità differite e rimanenze
sono espresse al netto dei fondi di rettifica); quest’ultime comprendono ratei o risconti attivi;
IMMOBILIZZAZIONI NETTE: totale delle attività immobilizzate al netto del relativo fondo di ammortamento.
Per quanto riguarda la sezione del passivo, va specificato che l’iscrizione di un debito fra le passività consolidate o fra
le passività correnti dipende dal grado di apprezzamento che viene assegnato in merito alla possibilità di un loro
rinnovo: un eventuale rischio di non rinnovo porta all’iscrizione nella voce del passivo corrente, la situazione opposta
porta all’iscrizione nella voce del passivo consolidato:
PASSIVO CORRENTE: somma dei debiti commerciali (es. debiti verso fornitori, cambiali passive, anticipi da clienti),
dei debiti finanziari a breve, dei fondi a breve (es. fondi spese ed oneri) e dei ratei o risconti passivi;
MEZZI CONSOLIDATI: somma dei mezzi propri (capitale sociale, riserve ed utili e perdite portati a nuovo), dei
debiti finanziari durevoli (es. prestiti obbligazionari, mutui ipotecari) e dei fondi durevoli (es. TRF). Essi
stabilizzano le fonti di finanziamento e si qualificano, quindi, come il complesso delle risorse finanziarie allocabili
a favore degli investimenti immobilizzati. La componente più rilevante è sicuramente quella dei mezzi propri, che
si qualificano come fonte di finanziamento a favore della crescita e dell’innovazione dell’impresa e come risorsa
di ultimo presidio posta a copertura del rischio di fallimento.

Le grandezze fondo hanno:


• natura finanziaria, se scaturiscono da transazioni finanziarie (debiti finanziari, crediti finanziari);
• natura operativa, se scaturiscono da transazioni reali (crediti v/clienti, debiti v/fornitori).
Nell’ambito delle attività e delle passività patrimoniali si possono rilevare anche grandezze-fondo di natura
strettamente finanziaria (es. impieghi in titoli di stato, in titoli obbligazionari o azionari oppure debiti verso banche).

Il prospetto patrimoniale è strettamente bilanciante: ad ogni istante temporale il totale dell’attivo è uguale al totale
del passivo, ma nonostante ciò esso può assumere diverse configurazioni dovute ai vari gradi di elasticità.
In particolare, si distingue:
𝑨𝑻𝑻𝑰𝑽𝑰𝑻𝑨′ 𝑪𝑶𝑹𝑹𝑬𝑵𝑻𝑰
- elasticità dell’attivo o dei fabbisogni-fondo: 𝑬𝒂 = 𝑻𝑶𝑻𝑨𝑳𝑬 𝑫𝑬𝑳𝑳𝑬 𝑨𝑻𝑻𝑰𝑽𝑰𝑻𝑨′
𝑷𝑨𝑺𝑺𝑰𝑽𝑰𝑻𝑨′ 𝑪𝑶𝑹𝑹𝑬𝑵𝑻𝑰
- elasticità del passivo o delle fonti-fondo: 𝑬𝒑 =
𝑻𝑶𝑻𝑨𝑳𝑬 𝑷𝑨𝑺𝑺𝑰𝑽𝑰𝑻𝑨′

In conclusione, si può ritenere che l’equilibrio finanziario nella logica statica possa essere conseguito in presenza di
un livello di elasticità dell’attivo prossimo a quello del passivo.

Il capitale circolante netto (CCN)


Il capitale circolante netto è dato dalla differenza tra attività e passività correnti.

• le componenti attive del CCN sono: la liquidità immediata, le attività finanziarie a breve (rientrano nella
liquidità differita LD), i crediti commerciali verso clienti e le rimanenze, che comprendono ratei e risconti attivi
a breve;
• le componenti passive del CCN sono: i debiti finanziari verso banche in conto corrente, gli altri debiti finanziari
a breve, i debiti commerciali verso fornitori, i ratei e i risconti passivi a breve.
CCN = LI + LD + RIM – PC = AC – PC = Attività Correnti – Passività Correnti
Questo CCN è misurato in senso ampliato, dunque comprende attività e passività correnti sia di natura finanziaria sia
di natura operativa: tramite esso il decisore può capire meglio l’effettiva e complessiva solvibilità finanziaria
dell’impresa espressa dalla già richiamata capacità di far fronte alle proprie obbligazioni alle scadenze stabilite. Il CCN
operativo è, invece, la differenza tra le attività e le passività correnti di natura solo operativa, e che, come tali,
scaturiscono direttamente dalla gestione del ciclo acquisto-trasformazione-vendita. Il CCN in senso ampliato dipende
sia da fattori generali di tempo (rallentamento della domanda con conseguente formazione di scorte di magazzino) e
di spazio (settori nei quali le imprese operano per il mercato e, quindi, la dimensione delle scorte è essenziale per
incontrare la domanda dei clienti) che da fattori specifici, quali:
• il tempo di giacenza media dei materiali in ingresso, cioè dei fattori produttivi a fecondità semplice, definito
dal reciproco del tasso di rotazione del magazzino dei materiali in ingresso, dato dal rapporto tra i consumi dei
materiali in ingresso e il valore della loro giacenza media;
• il tempo di giacenza media dei prodotti finiti, definito dal reciproco del tasso di rotazione del magazzino
prodotti finiti, dato dal rapporto tra il fatturato dato dai prodotti finiti e il valore della loro giacenza media;
• la durata del ciclo di trasformazione dei materiali in ingresso in prodotti finiti;
• la durata delle dilazioni dei crediti commerciali, definito dal reciproco del tasso di rotazione dei crediti
commerciali, dato dal rapporto tra il fatturato dato dai prodotti finiti e il livello medio dei crediti commerciali
in giacenza;
• la durata delle dilazioni dei debiti commerciali, definito dal reciproco del tasso di rotazione dei debiti
commerciali, dato dal rapporto tra i costi di acquisto dei materiali in ingresso e il livello medio dei debiti
commerciali in giacenza.
Dato il livello complessivo di costi e ricavi, una rotazione dei crediti commerciali più alta, quindi una durata più
contenuta della dilazione concessa ai clienti, rispetto alla rotazione dei debiti commerciali, quindi in confronto alle
dilazioni che l’impresa concede ai fornitori, tende, a parità di condizioni, a ridurre la dimensione del CCN nel corso
del tempo. Allo stesso modo, la dimensione del CCN sarà ampliata se ci saranno tassi di rotazione più lenti delle
giacenze dei materiali in ingresso e dei prodotti finiti ed una maggiore durata del ciclo di trasformazione dei materiali
in ingresso in prodotti finiti.

Alla luce di quanto osservato, si osserva che un CCN positivo implica un avanzo delle attività correnti sulle passività
correnti e, allo stesso tempo, un livello dei mezzi consolidati (MCO) superiore al totale delle immobilizzazioni nette
(IN). Difatti, poiché la somma tra attività correnti ed immobilizzazioni nette deve eguagliare la somma tra passività
correnti e mezzi consolidati, si ottiene la formula: AC + IN = PC + MCO, da cui ne deriva che il CCN può anche essere
espresso come differenza tra mezzi consolidati e immobilizzazioni nette: CCN = MCO – IN.
Riguardo alle cause, si evidenzia che un CCN positivo è valutabile positivamente in un contesto di una politica di
riserva di liquidità, nel quale il decisore sceglie di costruire una sorta di cuscinetto a protezione del rischio d’impresa
e/o prontamente attivabile per cogliere il potenziale emergere di opportunità innovative. In assenza di incertezza e
di ambiguità, la riserva della liquidità può essere precisamente calcolata attraverso la formula:

RDL = nuovi investimenti + rimborso dei debiti – disinvestimenti – redditi prodotti e ritenuti.

La riserva di liquidità, dunque, permette all’impresa di fronteggiare situazioni di incertezza che emergono dalla
valutazione dei nuovi investimenti, in quanto possono far nascere fabbisogni addizionali, dei debiti correnti (sia di
natura operativa che finanziaria), poiché sebbene siano debiti a breve termine, per effetto di continui rinnovi
assumono una durata a lungo termine (es. debiti v/fornitori), dei disinvestimenti, infatti, in presenza di fenomeni di
obsolescenza, il valore dei fattori a fecondità ripetuta potrebbe contrarsi, limitando i flussi di entrate-pagamenti che
l’impresa potrebbe ottenere dal loro disinvestimento e dei redditi prodotti e ritenuti, infatti la quota di reddito
accantonata a riserva è soggetta ai rischi tipici della gestione dell’impresa. Al crescere dell’incertezza e soprattutto
dell’instabilità nelle posizioni debitorie a breve termine, deve accrescersi anche la riserva di liquidità in vista di
garantire le condizioni di equilibrio finanziario in presenza di eventi avversi; d’altro canto, l’accumulazione di una
eccessiva riserva di liquidità comporta degli oneri finanziari non necessari o il rallentamento del ritmo di espansione
dell’impresa. Il prezzo dell’assoluta certezza è talvolta così elevato da non essere ragionevolmente sopportabile.

Considerando il suo segno, possiamo distinguere:

• CCN > 0: evidenzia la capacità dell’impresa di coprire l’indebitamento a breve mediante le attività che si
rendono liquide entro l’esercizio (liquidità immediata, liquidità differita e rimanenze) e le immobilizzazioni
nette mediante i mezzi consolidati (AC > PC, da cui MCO > IN). Un CCN positivo rappresenta, quindi, un indice
di solidità dell’impresa, soprattutto in imprese che sono in crescita e generano utili elevati; tuttavia, un valore
positivo troppo elevato del CCN deve destare una certa attenzione in imprese che non sono in crescita e
generano utili modesti in quanto può essere segno di un’inefficienza nella gestione delle rimanenze e nella
gestione del credito commerciale;
• CCN < 0: determina una condizione di potenziale carenza di liquidità effettiva e potenziale, dato che le attività
correnti non sono sufficienti a coprire le passività correnti (PC > AC, da cui MCO < IN). Inoltre, un CCN negativo
indica che l’impresa finanzia le immobilizzazioni nette mediante le passività correnti, cioè attraverso una
successione di rinnovi del debito a breve e ciò la espone al rischio di insolvenza; tuttavia, un CCN negativo
determina una condizione ancor più critica soprattutto quando il reddito è negativo, poiché se il reddito è
negativo significa che l’impresa genera perdite o per via della sua incapacità di conseguire ricavi sufficienti o
per via di un’eccessiva rigidità dei fabbisogni-fondo rispetto alle fonti-fondo: le perdite riducono i mezzi propri,
che a loro volta riducono i mezzi consolidati e, quindi, aumentano le passività correnti che diventano maggiori
delle attività correnti. Mentre l’effetto economico negativo sul CCN è diretto ed istantaneo, l’effetto
patrimoniale negativo sul CCN è indiretto ed emerge come driver negativo del reddito, mediato da valutazioni
soggettive degli stakeholder con cui l’impresa intrattiene rapporti finanziari e commerciali: i due effetti
possono combinarsi, infatti se i ricavi sono inferiori ai costi, questo genera un CCN negativo, il quale segnala
una debolezza finanziaria/patrimoniale dell’impresa. L’individuazione delle cause all’origine di un CCN
negativo assume rilevanza sia in termini di mero controllo di gestione sia rispetto alle azioni di governo da
intraprendere al fine di ristabilire PC = AC;
• CCN = 0: indica una condizione di equilibrio tra attività e passività correnti, così come tra mezzi finanziari
consolidati e immobilizzazioni nette; poiché tale condizione esprime un’assenza di eccedenze di liquidità e al
contempo l’adeguatezza della stessa rispetto all’indebitamento a breve termine è auspicabile che il CCN sia
sempre positivo e pari ad un margine di sicurezza (𝜇), che consenta al manager di fronteggiare inattese
riduzioni delle AC e/o aumenti delle PC.

L’analisi del CCN è spesso integrata dal margine di tesoreria (MT) e dal margine di struttura (MS):

MARGINE DI TESORERIA: offre un’indicazione sul grado di rigidità del magazzino, dunque se negativo è un
indicatore di una gestione delle scorte poco accurata, che crea forti immobilizzi nelle scorte e può condurre a
potenziali crisi di liquidità: MT = CCN – RIM;
MARGINE DI STRUTTURA: rileva il grado di patrimonializzazione dell’impresa rispetto alla dimensione degli
investimenti durevoli, dunque se negativo significa che l’impresa non copre, con i mezzi propri, le
immobilizzazioni nette, al contrario, se positivo significa che l’impresa copre, con i mezzi propri, le
immobilizzazioni nette: MS = MP – IN. Al crescere di questo indice l’impresa acquisisce una maggiore
capacità di assorbimento del rischio di perdite inattese e quindi una più ampia discrezionalità per le scelte di
investimento: l’eccedenza dei mezzi propri rispetto al capitale fisso protegge le immobilizzazioni da possibili
minusvalenze.

La posizione finanziaria netta


La posizione finanziaria netta misura l’indebitamento netto aziendale ed esprime il saldo tra fonti-fondo e
fabbisogni-fondo di natura prettamente finanziaria. Essa è data dalla differenza tra i debiti finanziari e le attività
finanziarie (PFN = PF – AF), dunque avere un indebitamento pari a 0 non significa che i debiti sono nulli, ma che i
debiti finanziari sono uguali alle attività finanziarie. Attività e passività devono essere omogenee sia dal punto di
vista temporale che in termini finanziari, dunque devono essere interdipendenti e avere una scadenza coerente.

La posizione finanziaria netta può assumere diverse configurazioni:

PFN DI BREVE PERIODO: vengono analizzate le voci finanziarie con scadenza entro l’anno ed è data dalla
differenza tra le passività finanziarie a breve, le attività finanziarie a breve e la liquidità immediata (< 3 mesi);
PFN DI MEDIO-LUNGO PERIODO: vengono analizzate le voci finanziarie con scadenza oltre l’anno ed è data
dalla differenza tra le passività finanziarie a lungo e le attività finanziarie a lungo;
PFN COMPLESSIVA: rappresenta la somma delle prime due configurazioni.
La differenza tra attività e passività finanziarie a breve individua la capacità delle prime di contribuire, insieme ai cash
flow operativi, all’adempimento delle seconde, limitando l’esposizione finanziaria a breve dell’impresa. Inoltre:
• se la PFN di breve è negativa è positivo per l’impresa perché significa che le attività finanziarie sono superiori alle
passività finanziarie (l’impresa ha un indebitamento netto negativo);
• se la PFN di breve è molto positiva è negativo per l’impresa perché significa che le passività finanziarie sono
superiori alle attività finanziaria, cioè indica un forte indebitamento dell’impresa nel breve termine, dunque più è
alta la PFN, più l’impresa è indebitata.
Grazie alla posizione finanziaria netta è possibile valutare:
• il livello di indebitamento dell’impresa;
• la solidità della struttura patrimoniale, se confrontata con i mezzi propri (rapporto di indebitamento o leverage
finanziario = posizione finanziaria netta/mezzi propri = PFN/MP: se il rapporto di indebitamento è 4, significa
che l’impresa ha 4 parti di debiti e 1 di mezzi propri);
• la capacità di restituzione dei debiti, se rapportata con il fatturato (tasso di assorbimento dell’indebitamento
= posizione finanziaria netta/ricavi = PFN/R).
L’analisi della posizione finanziaria netta viene integrata dal tasso di copertura degli interessi, dato dal rapporto tra il
margine operativo netto e gli oneri finanziari netti: quando è minore di 1 significa che gli oneri finanziari sono maggiori
del margine operativo netto, cioè l’impresa non è in grado di pagare né il capitale né gli interessi.
Sapendo che il capitale investito netto è K’ = PFN + MP, possiamo definire il rapporto di indebitamento come d =
PFN/MP, da cui PFN = d ∙ MP, che sostituendola nell’equazione del capitale investito netto si ottiene K’ = (1+d) ∙ MP.
Partendo dalla variazione del capitale investito netto ∆𝐾 = 𝐾1′ - 𝐾0′ e facendo delle sostituzioni otteniamo ∆𝑲 =
∆𝑴𝑷 ∙ (𝟏 + 𝒅𝟏 ) + 𝑴𝑷𝟎 ∙ ∆𝒅.
Consideriamo 3 ipotesi:
• ipotesi 1: se 𝑑0 = 𝑑1 = 0 e PFN = 0, otteniamo ∆𝐾 = ∆𝑀𝑃, dunque l’impresa finanzia gli investimenti
interamente con i mezzi propri senza ricorrere all’indebitamento;
• ipotesi 2: se 𝑑0 = 𝑑1 > 0 e PFN > 0, otteniamo ∆𝐾 = ∆𝑀𝑃 ∙ (1 + d), dunque l’impresa intende finanziare il
proprio sviluppo industriale a parità di rapporto di indebitamento (quindi ∆𝑑 = 0). Questa circostanza implica
una minore dipendenza dai mezzi propri dell’impresa;
• ipotesi 3: se ∆d > 0 e PFN > 0, otteniamo ∆𝐾 = ∆𝑀𝑃 ∙ (1 + d) + 𝑀𝑃0 ∙ ∆d, dunque l’aumento del rapporto di
indebitamento esercita un effetto moltiplicativo rispetto alla variazione dei mezzi propri e determina un flusso
finanziario aggiuntivo (𝑀𝑃0 ∙ ∆d), quindi rende più facile la fattibilità globale del piano di sviluppo.
Tuttavia, lo sviluppo dell’indebitamento ha dei limiti:
• presenza di vincoli di mercato, dati dall’assenza di soggetti disposti a fornire finanziamenti;
• allocazione del rischio, che si ha quando in presenza di ampi rischi i finanziatori aumentano il costo del
finanziamento, rendendo il finanziamento maggiormente oneroso;
• riduzione della discrezionalità manageriale, che si ha quando i conflitti d’interesse tra fornitori di capitale di
credito (banche) e fornitori di capitale di rischio (azionisti) riduce la discrezionalità manageriale di quest’ultimi;
• problemi di solvibilità e di accrescimento del rischio di fallimento, che si hanno quando un elevato
indebitamento induce l’impresa a condizioni di insolvenza (incapacità di rimborsare i finanziamenti richiesti) e
accresce il rischio del fallimento.
Le grandezze finanziarie nella logica di analisi per flussi
L’analisi finanziaria per fondi è utile a verificare condizioni statiche di equilibrio temporale tra fabbisogni-fondo e
fonti-fondo e deve essere integrata da analisi dinamiche avente ad oggetto i flussi finanziari avvenuti in un arco
temporale. Il prospetto fabbisogni-fondi emerge come complesso delle risorse di capitale necessarie ad attivare,
mantenere e sviluppare l’attività dell’impresa e a far fronte alle passività esigibili.

Esso comprende due sezioni:

- la sezione dei fabbisogni-flusso accoglie:


• aumenti di attivo (se l’impresa acquista un macchinario, quest’ultimo deve essere pagato e questo genera
fabbisogni);
• riduzioni di passivo (se l’impresa chiede un prestito, prima o poi lo deve rimborsare e questo genera
fabbisogni);
• flusso della gestione economica negativo.
- la sezione delle fonti-flusso accoglie:
• riduzioni di attivo (se l’impresa vende un impianto, deve essere pagata e quindi ottiene risorse finanziarie);
• aumenti di passivo (se l’impresa chiede un prestito, ottiene risorse finanziarie);
• flusso della gestione economica positivo.
Rispetto alle variazioni dell’attivo, occorre osservare che una parte delle attività (es. immobilizzazioni e crediti
commerciali) sono iscritte al netto di quote di ammortamento/accantonamento maturate nel corso dell’esercizio,
così come al netto di eventuali rettifiche di valore (es. rivalutazioni o svalutazioni) intervenute nel medesimo
periodo. Di conseguenza, indicando con “A” una generica attività patrimoniale, con “a” un
ammortamento/accantonamento generico e con “r” una rettifica di valore, il fabbisogno finanziario viene calcolato
come variazioni delle attività tra due periodi, convenzionalmente definiti come 0 ed 1, in base alla seguente
equazione: FF = A1 – A0 + a – r.

In base a questa impostazione, è possibile analizzare i seguenti casi specifici:

- immobilizzazioni nette: si consideri, ad esempio, un investimento per un nuovo macchinario (X).


Confrontando i valori delle immobilizzazioni nette presenti nello stato patrimoniale prima e dopo il nuovo
investimento, si ottiene, in presenza di rettifiche contabili (a e r), una variazione grezza dell’attivo
immobilizzato diversa da X. Difatti, in assenza di nuovi investimenti, le immobilizzazioni nette si ridurrebbero
nella misura degli ammortamenti maturati nell’ultimo periodo amministrativo ed aumenterebbero in misura
di eventuali rivalutazioni riferite al medesimo periodo. Si ottiene, dunque, X = FF = ∆I + a – r;
- fondi per rischi ed oneri: sono iscritti al passivo e non sono imputabili a rettifiche di attività patrimoniali,
come il fondo di trattamento di fine rapporto. Dunque, indicando con “F” un generico fondo iscritto al
passivo, si avrà che: ∆𝐹 = 𝐹1 − 𝐹0 = a. Dunque, nel caso di una liquidazione ai dipendenti del fondo TFR per
un importo pari ad 𝑋′, si avrà: FF = ∆F’ = ∆TFR – a. In generale, gli accantonamenti così come gli
ammortamenti periodali assumono segno negativo nella formazione del reddito e allo stesso tempo positivo
rispetto alla formazione dell’autofinanziamento improprio, dovuto a quei costi che non si traducono in flussi
finanziari negativi, difatti, l’autofinanziamento improprio non emerge come capitalizzazione del reddito
netto non distribuito, bensì scaturisce da quei costi che non generano effetti finanziari negativi;
- mezzi propri: in considerazione dell’esigenza di separare i flussi finanziari che originano dalla formazione del
reddito di esercizio da quelli che nascono da variazioni patrimoniali (in pratica separare la parte
autogenerata), nel considerare le variazioni dei mezzi propri bisogna attuare un procedimento diverso da
quello dei precedenti: è necessario sottrarre dalla variazione dei mezzi propri l’importo del reddito netto
(𝑅𝑁1 ) maturato nell’esercizio e che, al netto dei dividendi distribuiti, è riportato a nuovo e/o accantonato a
riserva: 𝐹𝐹 = ∆𝑀𝑃′ = ∆𝑀𝑃 − 𝑅𝑁1 . Ciò significa che ∆𝑀𝑃′ > 0 esprime un’eccedenza degli aumenti di
capitale rispetto alla somma tra riduzioni di capitale e distribuzione dei dividendi, mentre ∆𝑀𝑃′ = 0 implica
l’assenza di variazioni di capitale sociale e di distribuzione dei dividendi e quindi la variazione complessiva dei
mezzi propri corrisponde all’utile o alla perdita di esercizio (∆𝑀𝑃 = 𝑅𝑁1 ).

Con riferimento al flusso della gestione economica, si sottolinea che, ove non siano già sottratti nel suo calcolo, i
dividendi dovranno essere iscritti nella sezione dei fabbisogni, mentre gli oneri finanziari netti e gli oneri straordinari
netti andranno iscritti nella sezione fabbisogni se di segno negativo (ovvero quando gli oneri finanziari sono maggiori
dei proventi finanziari) e nella sezione fonti se di segno positivo. Nel prospetto fabbisogni-fonti, il flusso della
gestione economica può assumere diverse configurazioni e può avere segno positivo, qualificandosi come fonte, o
segno negativo, qualificandosi come fabbisogno: in quest’ultima configurazione, il complesso dei costi risulta essere
maggiore del volume dei ricavi. I flussi economici si distinguono dai flussi finanziari perché i flussi economici hanno al
proprio interno delle poste meramente contabili (es. accantonamenti, ammortamenti, svalutazioni, rivalutazioni).
Tutte queste poste contabili generano costi e ricavi, ma non variazioni finanziarie o monetarie (gli ammortamenti e
gli accantonamenti sono costi non monetari). Tutti i flussi monetari hanno natura finanziaria, ma non tutti i flussi
finanziari hanno natura monetaria, in quanto vi è una parte legata ai crediti e ai debiti (es. se vendo un prodotto e
concedo al cliente un pagamento a 60 giorni, in questo caso vi è una componente finanziaria, cioè il credito, ma non
monetaria).

Dal prospetto fabbisogni-fonti, che è un prospetto bilanciante, in quanto in ogni istante il totale dei fabbisogni è
uguale al totale delle fonti, è possibile, dunque, calcolare i flussi e i deflussi finanziari prodotti dalla gestione
relativamente ad un dato esercizio, in particolare, l’analisi si concentra sul flusso di capitale circolante netto, sul cash
flow e sul free cash flow.

Il flusso di capitale circolante netto


Senza fare il rendiconto finanziario, il flusso del capitale circolante netto si può calcolare come differenza tra il capitale
circolante netto al tempo 1 e il capitale circolate netto al tempo 0. Il capitale circolante netto è espressione dei flussi
finanziari e il rendiconto finanziario, prospetto contabile che presenta le variazioni positive e negative delle
disponibilità liquide o finanziarie avvenute in un certo esercizio, si basa proprio su tre flussi:
FLUSSI ECONOMICI: nascono dalle variazioni di costi e ricavi; tuttavia, non tutti i flussi economici sono rilevanti
ai fini dell’analisi finanziaria, infatti sono rilevanti solo i flussi di ricavi e costi che hanno una manifestazione
monetaria o finanziaria;
FLUSSI MONETARI: nascono esclusivamente da variazioni di cassa (aumenti o riduzioni di cassa);
FLUSSI FINANZIARI: nascono da variazioni di cassa, ma anche da variazioni di crediti e debiti.
Il flusso di CCN, che deriva dal rendiconto finanziario, si può calcolare con il metodo diretto, andando a calcolare
direttamente tutte le variazioni finanziarie (questo approccio può comportare delle complicazioni dal punto di vista
applicativo, soprattutto se l’analisi viene svolta da analisti esterni) oppure con il metodo indiretto o sintetico, grazie
al quale per calcolare il flusso di circolante netto, si parte dal reddito netto, si aggiungono gli ammortamenti, le
svalutazioni, le variazioni dei fondi a lungo termine e si sottraggono le rivalutazioni: in questo modo si depura il reddito
d’esercizio da tutte quelle componenti di carattere non finanziario, cioè dalle variazioni di costi e ricavi che non
generano effetti finanziari o monetari (questa prima parte rappresenta la variazione del CCN avente natura
economica). Successivamente, si aggiunge la variazione dei mezzi propri (al netto del reddito d’esercizio), la variazione
delle passività consolidate (debiti di lungo termine), si sottrae la variazione delle immobilizzazioni nette, si aggiungono
gli ammortamenti e le svalutazioni e si sottraggono le rivalutazioni (questa seconda parte rappresenta la variazione
del CCN avente natura non economica o strutturale).
∆𝑪𝑪𝑵 = 𝑅𝑁 + 𝐴𝑚𝑚 + 𝑆𝑣𝑎 + ∆𝐹𝐿 − 𝑅𝑖𝑣 + ∆𝑀𝑃 − 𝑅𝑁 + ∆𝐷𝐿 − (∆𝐼𝑁 + 𝐴𝑚𝑚 + 𝑆𝑣𝑎 − 𝑅𝑖𝑣)
∆𝑪𝑪𝑵 = 𝑅𝑁 ′ + ∆𝑀𝑃′ + ∆𝐷𝐿 − ∆𝐼′
Il valore di 𝑅𝑁′ può assumere significato diverso a seconda del suo segno:

- se RN’ = 0 significa che l’impresa può coprire i fabbisogni con i mezzi propri, con i debiti o con la cassa (quando
la cassa si annulla, l’impresa diventa insolvente);
- se RN’ > 0 l’impresa crea un flusso autogenerato di CCN, derivante dalla capacità dell’impresa di produrre
reddito che, essendo un tipico obiettivo dell’impresa, permette all’incremento di CCN di avere segno positivo
quando dipende proprio da 𝑅𝑁′.
Possiamo inoltre individuare:
• un flusso di CCN economico da gestione tipica (Ebit*) che è dato dalla somma dell’Ebit, degli ammortamenti,
delle svalutazioni, delle variazioni dei fondi a lungo al netto delle rivalutazioni.
𝐸𝑏𝑖𝑡 ∗ = 𝐸𝑏𝑖𝑡 + 𝐴𝑚𝑚 + 𝑆𝑣𝑎 + ∆𝐹𝐿 − 𝑅𝑖𝑣
L’Ebit* esprime la capacità dell’impresa di generare flussi finanziari attraverso la gestione economica, grazie ad
adeguati livelli di efficienza, efficacia e coerenza raggiunti dall’impresa nella sua dimensione reale.
• un flusso di CCN economico da gestione extra-tipica, dato dalla differenza tra RN’ – Ebit*.
Il flusso non economico o strutturale emerge dal combinarsi di decisioni di investimento, disinvestimento e
finanziamento ed è negativo quando lo sviluppo degli investimenti durevoli eccedono la possibilità di reperire nuove
risorse finanziarie in termini di capitale di rischio: in questo caso il flusso di CCN risulterà essere maggiore o uguale a
zero soltanto se la sua componente autogenerata ecceda o quanto meno pareggi il disavanzo strutturale.

Il flusso monetario o di cassa (cash flow)


Il flusso di cassa si può calcolare come differenza tra le liquidità immediate al tempo 1 e le liquidità immediate al tempo
0. La differenza tra il flusso circolante netto e il flusso di cassa può essere spiegata con un esempio: se l’impresa vende
prodotti e concede una dilazione di pagamento, avrà dei ricavi, questo genererà flussi finanziari e quindi contribuirà al
flusso di CCN, ma non genererà flussi monetari e, quindi, non contribuirà al flusso di cassa. Anche il flusso di cassa si
può calcolare con il metodo diretto se si calcolano direttamente tutte le variazioni monetarie (questo approccio può
comportare delle complicazioni dal punto di vista applicativo, soprattutto se l’analisi viene svolta da analisti esterni)
oppure con il metodo indiretto o sintetico, grazie al quale per calcolare il cash flow auto-generato (o avente natura
economica), si parte dal flusso di capitale circolante netto economico e si sottrae la variazione del capitale circolante
netto di funzionamento, poiché dobbiamo togliere le partite debitorie e creditorie:
𝑹𝑵′′ = 𝑅𝑁 ′ − ∆𝐶𝐶𝑁𝑓 = 𝑅𝑁 + 𝐴𝑚𝑚 + 𝑆𝑣𝑎 + ∆𝐹𝐿 − 𝑅𝑖𝑣 − (∆𝐶 + ∆𝑅𝐼𝑀 − ∆𝐷)
Con riferimento alla componente non economica o strutturale del cash flow, occorre ricavare ∆𝑀𝑃′′ , che coincide con
la variazione ∆𝑴𝑷′ al netto della variazione dei crediti verso i soci (∆𝑪𝒔) ed aumentata della variazione dei debiti verso
i soci (∆𝑫𝒔 ):
∆𝑴𝑷′′ = ∆𝑀𝑃′ − (∆𝐶𝑠 − ∆𝐷𝑠 )
Occorre poi considerare la variazione totale dei debiti finanziari, comprensiva della variazione dei debiti a lungo e a
breve termine e dei debiti in conto corrente:
∆𝑫 = ∆𝐷𝐿 + ∆𝐷𝐵 + ∆𝐷𝑐/𝑐
Occorre poi incrementare la variazione finanziaria delle immobilizzazioni in funzione del flusso netto conseguente a
investimenti/disinvestimenti in titoli a breve:
∆𝑰′′ = ∆𝐼 ′ − ∆𝑇𝐵
Successivamente si aggiunge al cash flow auto-generato il flusso di cassa che nasce dalla componente strutturale
(variazione dei mezzi propri, variazione dei debiti e variazione delle immobilizzazioni).
𝑪𝒂𝒔𝒉 𝒇𝒍𝒐𝒘 = 𝑅𝑁 ′′ + ∆𝑀𝑃′′ + ∆𝐷 − ∆𝐼 ′′ = 𝐿𝐼1 − 𝐿𝐼0
Se il cash flow è negativo significa che la liquidità al tempo 1 dell’impresa è minore della liquidità al tempo 0: se
l’impresa ha dei cash flow negativi, ad un certo punto, la liquidità diventerà pari a 0 e, quindi, diventerà insolvente.
Quest’espressione esprime anche il vincolo di liquidità, ovvero il momento fino a cui l’impresa può sopravvivere e cioè
generare flussi di cassa negativi attingendo alla liquidità.
• quando CCN > 0, poiché aumentano i crediti e le rimanenze, il flusso di cassa diminuisce poiché significa che
l’impresa ancora non ha incassato i crediti o venduto le merci;
• quando CCN < 0, poiché aumentano i debiti, il flusso di cassa aumenta poiché significa che l’impresa non ha
ancora pagato i debiti.
Possiamo individuare:
• un flusso di cassa operativo (o tipico), che riguarda i movimenti monetari netti, originati da operazioni della
gestione ordinaria e tipica e identifica dunque un flusso di natura economica legato al normale ciclo industriale
e commerciale dell’impresa. Esso si ottiene sottraendo all’Ebit* la variazione del capitale circolante netto
operativo, il quale comprende crediti, rimanenze, debiti di natura solo operativa e ratei e risconti attivi e
passivi:
𝑪𝑭𝑶 = Ebit ∗ −∆𝐶𝐶𝑁𝑂 = 𝐸𝑏𝑖𝑡 + 𝐴𝑚𝑚 + 𝑆𝑣𝑎 + ∆𝐹𝐿 − 𝑅𝑖𝑣 − ∆𝐶𝐶𝑁𝑂
• un flusso di cassa extra-operativo (o extra-tipico), che è espresso dalla variazione numeraria che emerge dalla
combinazione tra i flussi/deflussi monetari originati da costi e ricavi non appartenenti all’area della gestione
tipica e flussi/deflussi monetari non aventi natura economica:
𝑪𝑭𝑬 = 𝑅𝑁 ′′ − 𝐶𝐹𝑂 + ∆𝑀𝑃′′ + ∆𝐷 − ∆𝐼 ′′
′′
La differenza 𝑅𝑁 − 𝐶𝐹𝑂 esprime la differenza tra ricavi atipici incassati e costi atipici liquidati e, ove presenti,
anche gli oneri straordinari netti liquidati.
Il cash flow è dato, infine, dalla somma del flusso di cassa operativo ed extra-operativo: CF = CFO + CFE. Esso assume
pregnante significato al fine di valutare la normale capacità dell’impresa di produrre flussi di cassa, mediante il
completamento del ciclo economico originato da operazioni tipiche.
L’importanza del CFO può essere considerata in due diverse ottiche:

- ottica interna: se calcolato a consuntivo, il CFO offre indicazione circa la qualità delle scelte assunte dal
management, con particolare riferimento all’impatto delle decisioni strategiche, tattiche ed operative sulla
componente monetaria dei risultati operativi. Inoltre, l’analisi del CFO assume importanza anche in ottica
previsionale, nel senso che il CFO atteso rappresenta un criterio per orientare le decisioni sull’accrescimento
dei flussi economici e monetari;
- ottica esterna: la capacità dell’impresa di generare flussi di cassa è oggetto di analisi e giudizi da parte di
stakeholders esterni all’impresa, soprattutto creditori finanziari e fornitori di input a fecondità semplice, il
cui principale interesse è l’adeguatezza del CFO in relazione al servizio di debito. Si determina così uno
stretto collegamento tra la capacità dell’impresa di raggiungere condizioni di equilibrio monetario grazie alla
produzione di CFO e la possibilità di accedere al capitale di credito e limitarne il suo costo, cioè il suo tasso di
interesse.

Che sia in ottica interna o esterna, il CFO va comunque analizzando prendendo in considerazione anche il CFE.
Difatti, posto che per le ragioni già citate la condizione 𝐶𝐹𝑂 > 0 è un obiettivo primario dell’impresa, l’avanzo del
CFO potrebbe essere assorbito da un disavanzo di CFE. Non a caso, nelle imprese non finanziarie nelle quali si
manifesta la condizione 𝐶𝑎𝑠ℎ 𝑓𝑙𝑜𝑤 < 0 𝑒 𝐶𝐹𝑂 > 0 è dovuta ad un eccesso di oneri finanziari, dunque per ristabilire
l’equilibrio monetario complessivo 𝐶𝐹𝑂 + 𝐶𝐹𝐸 = 0 l’impresa deve agire sulla composizione delle fonti di
finanziamento, riducendo la dimensione dei debiti finanziari rispetto al totale dell’attivo patrimoniale.

Il free cash flow


Il free cash flow è il flusso di cassa che l’impresa può utilizzare per remunerare i creditori finanziari e gli azionisti, una
volta rispettato il vincolo di rinnovamento, ossia la ricostituzione delle attività correnti ed immobilizzate in vista di
consentire all’attività produttiva di svolgersi senza soluzione di continuità (cioè dopo aver coperto le spese
operative). In particolare, quando un’impresa è in una fase di stabilità, il vincolo di rinnovamento coincide con il
consumo delle attività nell’ultimo periodo amministrativo, quando l’impresa è invece in una fase di
crescita/decrescita, tale vincolo risulta essere superiore/inferiore alla ricostituzione dell’attivo circolante e
immobilizzato precedentemente consumato dall’impresa.
Esso può assumere due configurazioni:

FREE CASH FLOW TO FIRM: individua la ricchezza che l’impresa produrrà in futuro e che verrà condivisa tra
azionisti e creditori finanziari. Per calcolarlo occorre misurare le imposte rispetto all’Ebit, di modo tale da
ottenere il Nopat (Net operating profit after tax, cioè il risultato operativo una volta remunerato lo Stato), che
rettificato degli ammortamenti, degli accantonamenti e delle variazioni del CCN operativo coincide con il free
cash flow to firm;
FREE CASH FLOW TO EQUITY: porzione di liquidità incrementale spettante agli azionisti sotto forma di
dividendi. Per calcolarlo occorre che il risultato netto di gestione sia aumentato in funzione delle rettifiche
contabili, ridotto (o aumentato) degli incrementi (o riduzioni) del flusso di CCN, nonché del saldo tra nuovi
investimenti e disinvestimenti e corretto dall’incremento (o riduzione) della PFN.
Il free cash flow è influenzato notevolmente dalla dinamica evolutiva dell’impresa e dal suo contesto esterno. Le
imprese che attraversano una fase di crescita ed operano in settori ove emergono molte possibilità di progetti di
investimento tendono a realizzare livelli di free cash flow più contenuti rispetto ad imprese che operano in settori
più maturi, in quanto esse tenderanno a investimenti conservativi e vincoli di rinnovamento nei limiti dei beni
consumati per effetto della funzione di produzione. Con particolare riferimento al free cash flow to equity, il nesso
tra la dinamica evolutiva dell’impresa e le strategie di investimento della stessa si riflette sulla politica dei dividendi.
Ai nostri fini, assume rilievo la distinzione tra due approcci generali alla politica dei dividendi e degli investimenti
quali conseguenza dello stato evolutivo dell’impresa:

politica residuale dei dividendi o politica espansiva degli investimenti: si manifesta quando l’impresa,
operante in un contesto dinamico, considera prioritario lo sfruttamento di emergenti opportunità di
investimento e quindi distribuisce i dividendi solo se residuano una volta autofinanziati gli investimenti
necessari a cogliere queste opportunità;
politica residuale degli investimenti o politica espansiva dei dividendi: è tipica delle imprese operanti in
settori maturi, si manifesta nel caso in cui sia prevalente l’obiettivo di soddisfare sul piano monetario i
detentori di quote di capitale di rischio.

La leva finanziaria
La leva finanziaria esprime l’elasticità della variazione percentuale del reddito netto (RN) rispetto alla variazione
percentuale del margine operativo netto (Ebit).
∆𝑅𝑁/𝑅𝑁 ∆𝑅𝑁 𝐸𝑏𝑖𝑡0
𝑳𝑭 = → 𝑳𝑭 = ∙
∆𝐸𝑏𝑖𝑡/𝐸𝑏𝑖𝑡 ∆𝐸𝑏𝑖𝑡 𝑅𝑁0

Se la leva finanziaria è pari a 3, significa che una variazione dell’Ebit del 10% si trasforma in una variazione del Reddito
netto del 30%. Questo è possibile perché la leva finanziaria dipende dagli oneri finanziari, infatti:

• quando l’Ebit aumenta, se gli oneri finanziari sono molto alti, la leva finanziaria cresce e, quindi, una variazione
incrementale dell’Ebit genera una grande variazione del reddito netto; inoltre, se l’impresa è in fase di crescita,
può includere nel C.E. gli oneri finanziari perché questo crea effetti leva positivi;
• quando l’Ebit diminuisce, se l’impresa è in fase di declino, non può includere nel C.E. gli oneri finanziari perché
questo crea effetti leva negativi.
Quindi, la leva finanziaria, come quella operativa, è un indice di rischio e di opportunità.
Considerando che il reddito netto (RN) è la differenza tra il margine operativo netto, gli oneri finanziari netti e gli oneri
tributari, avendo presente che gli oneri tributari sono dati da OT = ot ∙ (Ebit – OF), possiamo scrivere:
RN = Ebit – OF – ot ∙ (Ebit – OF) = Ebit – OF – ot ∙ Ebit + ot ∙ OF = (1 – ot) ∙ Ebit – (1- ot) ∙ OF = (1 – ot) (Ebit – OF)
Dato che il reddito netto è funzione lineare del margine operativo netto, la variazione ∆𝑅𝑁/∆𝐸𝑏𝑖𝑡 è pari, a parità di
condizioni, al termine (1 − 𝑜𝑡). Dunque, assumendo la condizione di costanza del prelievo fiscale tra i periodi
considerati (quindi 𝑜𝑡0 = 𝑜𝑡1 = 𝑜𝑡), è possibile scrivere:
∆𝑅𝑁 𝐸𝑏𝑖𝑡0 𝐸𝑏𝑖𝑡0 𝐸𝑏𝑖𝑡0
𝑳𝑭 = ∙ = (1 − 𝑜𝑡) ∙ ⇒ 𝑳𝑭 =
∆𝐸𝑏𝑖𝑡 𝑅𝑁0 (1 − 𝑜𝑡) ∙ (𝐸𝑏𝑖𝑡0 − 𝑂𝐹0 ) 𝐸𝑏𝑖𝑡0 − 𝑂𝐹0
Ciò implica che la condizione 𝐿𝐹 > 1 richiede che il margine operativo netto iniziale sia positivo e maggiore degli
oneri finanziari netti: LF è tanto maggiore quanto più il valore degli oneri finanziari è prossimo rispetto all’Ebit. Un
livello elevato di oneri finanziari netti ha invece due principale effetti: amplia, attraverso la leva finanziaria, il
potenziale dell’impresa di trasformare variazioni positive del margine operativo netto in variazioni più che
proporzionali del reddito netto e aumenta il rischio dell’impresa che, di fronte a variazioni negative di Ebit, queste si
amplifichino generando forti contrazioni del redito netto.

La leva finanziaria è collegata anche alla redditività dell’impresa, che viene espressa da 2 indicatori:
• dalla redditività operativa o ROI (Return on investment), dato dal rapporto tra margine operativo netto e
capitale investito netto. Esso è un indice di rendimento del capitale investito e un indicatore di redditività
industriale o operativa: più è alto il ROI, migliore è la gestione.
𝑀𝑎𝑟𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑛𝑒𝑡𝑡𝑜 (𝐸𝑏𝑖𝑡)
𝑹𝑶𝑰 =
𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑡𝑡𝑜
Il ROI può dipendere dal ROS o Return on Sales, dato dal rapporto tra il margine operativo netto e i ricavi di vendita.

• dalla redditività netta o ROE (Return on equity), dato dal rapporto tra reddito netto e mezzi propri (capitale
proprio). Esso è un indice di rendimento del capitale proprio e un indicatore di redditività economico-
finanziaria: più alto è il ROE, migliore è la gestione.
𝑅𝑒𝑑𝑑𝑖𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑡𝑡𝑜
𝑹𝑶𝑬 =
𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜
La leva finanziaria dipende dalle variazioni della redditività netta (∆𝑅𝑂𝐸) e dalle variazioni della redditività operativa
(∆𝑅𝑂𝐼), infatti può essere espressa:
∆𝑅𝑂𝐸 𝑅𝑂𝐼0
𝑳𝑭 = ∙
∆𝑅𝑂𝐼 𝑅𝑂𝐸0
In quali condizioni una variazione del rapporto di indebitamento (d) può accrescere la variazione del ROE rispetto al
ROI (effetto leva finanziaria)? Partiamo dalla relazione che lega ROI e ROE:
ROE (d, i, ot, ROI) = (1 – ot) ∙ [ROI + (ROI – i) ∙ d]
• d = rapporto di indebitamento = PFN/MP;
• i = costo del capitale di credito = OF/PFN;
• ot = tasso di prelievo fiscale = OT/Ebit – OF (reddito imponibile).
Supponiamo che l’impresa decida di fare un progetto di investimento con l’obiettivo di accrescere il ROI (∆𝑅𝑂𝐼 > 0)
e di finanziarlo con due alternative: in costanza del rapporto di indebitamento (d = 0) e in presenza di modifica del
rapporto di indebitamento (d > 0). Come si fa a scegliere tra queste due alternative?
• indicando con ∆𝑅𝑂𝐸 ′′ la variazione del ROE in presenza di modifica del rapporto di indebitamento (d > 0),
abbiamo:
∆𝑅𝑂𝐸′′ = 𝑅𝑂𝐸(𝑑1 , 𝑖, 𝑜𝑡, 𝑅𝑂𝐼1 ) − 𝑅𝑂𝐸(𝑑0 , 𝑖, 𝑜𝑡, 𝑅𝑂𝐼0 )
• indicando con ∆𝑅𝑂𝐸′ la variazione del ROE in costanza del rapporto di indebitamento (d = 0), abbiamo:
∆𝑅𝑂𝐸′ = 𝑅𝑂𝐸(𝑑0 , 𝑖, 𝑜𝑡, 𝑅𝑂𝐼1 ) − 𝑅𝑂𝐸(𝑑0 , 𝑖, 𝑜𝑡, 𝑅𝑂𝐼0 )

Considerando ∆𝑅𝑂𝐸 = ∆𝑅𝑂𝐸 ′′ − ∆𝑅𝑂𝐸 ′ e sostituendo, otteniamo ∆𝑅𝑂𝐸 = (1 – ot) ∙ ∆𝑑 ∙ [ROI − 𝑖].
Da quest’espressione notiamo che il rapporto d’indebitamento crea un effetto leva positivo, cioè aumenta la
redditività rispetto ad un’ipotesi di costanza di indebitamento quando:
• ∆𝑑 > 0;
• ot < 1, cioè non si abbia una tassazione del 100%;
• ROI > 𝑖.
Se l’impresa deve finanziare un progetto, conviene usare l’indebitamento oppure no? Dipende dalla redditività del
progetto: se la redditività industriale (ROI) del progetto d’investimento è maggiore del costo dell’indebitamento (i),
ogni qualvolta che si aumenta il rapporto d’indebitamento (d), questo crea un effetto positivo sul ROE.
In generale, si ha un effetto leva positivo solo se il ROI1 > 𝑖1 (ROI finale del progetto di investimento è maggiore del
costo dell’indebitamento).

Se variano il rapporto di indebitamento e il costo del capitale di credito, l’effetto leva finanziario sarà positivo o
negativo?

∆𝑅𝑂𝐸 = (1 − 𝑜𝑡) ∙ [(𝑅𝑂𝐼1 − 𝑖1 ) ∙ ∆𝑑 − 𝑑0 ∙ ∆𝑖] ovvero 𝑅𝑂𝐼1 > 𝑖1 + 𝑑0 ∙ (∆𝑖/∆𝑑)


(ipotesi di variazione del rapporto d’indebitamento)
Quest’espressione ci dice che quando aumenta il costo del capitale di credito (i), affinché si abbia un effetto leva
finanziaria positivo, non è sufficiente che 𝑅𝑂𝐼1 > 𝑖1 , ma è necessario che 𝑅𝑂𝐼1 sia ampiamente superiore a 𝑖1 , dove
questa ampiezza dipende da quanto il costo del capitale di credito è sensibile alle variazioni del rapporto di
indebitamento, quindi, in presenza di un aumento del costo del capitale di credito, l’effetto leva finanziaria positivo è
più difficile da realizzare.

Combinando gli effetti della leva finanziaria e operativa, otteniamo la leva totale definita in funzione del rapporto tra
le variazioni percentuali del reddito netto e dei ricavi. La variazione percentuale dei ricavi si trasforma in una
variazione percentuale del reddito netto in funzione della leva totale, espressa dal prodotto tra leva operativa e leva
∆𝑹𝑵 ∆𝑅
finanziaria: = 𝐿𝐹 ∙ 𝐿𝑂 ∙ . Un livello elevato di leva totale consente all’impresa di mantenere un’attitudine a
𝑹𝑵 𝑅
trasformare variazioni positive dei ricavi in sostanziali variazioni del risultato netto. Allo stesso modo, un alto livello
di leva totale espone l’impresa al rischio che le variazioni negative dei ricavi, data la natura sostanzialmente rigida
dei costi costanti e degli oneri finanziari netti, si possano riflettere in maniera sostanziale sul risultato netto.

CAP.8) MODELLO UNITARIO DI ANALISI DEI RISULTATI D’IMPRESA


La misurazione della performance, ovvero dei risultati d’impresa, rappresenta un tema chiave nell’ambito
dell’economia e della gestione delle imprese, in particolare l’importanza del tema si lega alla considerazione che
sussiste un nesso tra la performance e il migliore andamento economico dell’impresa, infatti la rilevazione della
performance esprime la capacità e la tendenza della moderna impresa capitalistica a perdurare nel tempo.
Il modello della Total Performance View è un modello di misurazione dei risultati d’impresa in un’ottica unitaria, che
si compone di due livelli:
• livello superiore: evidenzia i risultati dell’impresa nel suo complesso;
• livello inferiore: spiega le cause dei risultati osservati nei livelli superiori.
Il modello riporta, inoltre, tre vincoli:
• la liquidità aziendale;
• la creazione di valore nella prospettiva degli shareholders (azionisti);
• il grado di allineamento tra le priorità dell’impresa, degli azionisti e degli altri portatori di interessi
(stakeholders).
Il modello indica, infine, un indicatore unico e finale dei risultati aziendali, che verrà ripreso successivamente, che è
rappresentato dal Total Performance Index (TPI).
Ci sono tre dimensioni essenziali per rilevare la performance complessiva dell’impresa:
PRIMA DIMENSIONE: riguarda lo scostamento dei ricavi (o delle vendite) ed è tesa a valutare la capacità
dell’impresa di raggiungere i propri obiettivi di vendita in termini di quantità e di fatturato.
Gli indicatori che si utilizzano per costruire lo scostamento delle vendite sono:
• la quota di mercato assoluta: fatturato dell’impresa rapportata al fatturato complessivo del mercato ovvero
numero di prodotti venduti dall’impresa rapportato al numero di prodotti venduti nel mercato;
• la quota di mercato relativa: quota di mercato dell’impresa rapportata alla quota di mercato del concorrente.
Quest’ultima è ulteriormente scomponibile in:
- quota trattanti (o quota cliente): fatturato dell’impresa realizzato sui clienti correnti rispetto al fatturato
totale generato da tali clienti rispetto alla categoria di prodotti offerti dall’impresa; in altre parole questa
quota rappresenta quanto l’impresa riesce a servire i clienti attuali;
- copertura ponderata, rapporto tra numero di clienti serviti e numero di clienti totali del mercato.
Ci sono poi altri indicatori di carattere strategico, in quanto esprimono il potenziale che ha l’impresa di generare ricavi
e fatturato:
• grado di soddisfazione percepito o dichiarato dal cliente;
• tasso di riacquisto (o indice di fedeltà): quanto tempo un cliente sta con un’impresa;
• apprezzamento del brand (o indice di notorietà).
Quando lo scostamento delle vendite è pari ad 1, significa che l’impresa ha raggiunto l’obiettivo vendite attese =
vendite conseguite. Più ci si scosta dall’obiettivo, più lo scostamento segnala che l’impresa ha mancato l’obiettivo.
SECONDA DIMENSIONE: riguarda lo scostamento dei costi e misura lo scostamento tra il livello di costo-
obiettivo e il livello di costo effettivamente conseguito. Anche qui, quando lo scostamento di costo è pari ad
1, significa che l’impresa ha raggiunto l’obiettivo costo atteso = costo conseguito. Questo scostamento si
riferisce sia ai costi fissi che a quelli variabili, difatti si indica con ∆CT = ∆CV + ∆CF e mira a misurare elementi
utili alla formulazione di giudizi circa il grado di efficienza tecnica (o produttività) e di efficienza economica (o
economicità) delle risorse allocate;
TERZA DIMENSIONE: volta ad esplicitare il riflesso sui risultati aziendali del legame tra scelte strategiche,
tattiche ed operative. Essa induce i decisori a focalizzarsi in un’ottica di crescita e riguarda lo sviluppo
sostenibile, stabilendo qual è la prospettiva di sviluppo dell’impresa nel corso del tempo. Per poter compiere
operazioni in questa terza dimensione ci si focalizza su alcuni elementi essenziali:
- tasso atteso di crescita del fatturato aziendale: capacità di tenuta delle quantità vendute nel caso di
prospettive mercatistiche ed economiche avverse;
- numero e qualità di progetti di ricerca e di sviluppo (R&S);
- crescita o sviluppo sostenibile: la sostenibilità va ricercata sul piano economico-finanziario, dunque
potrebbe tradursi con l’aspirazione all’indipendenza finanziaria dell’organizzazione o al contenimento del
ricorso a fonti finanziarie esterne.

Il modello dello sviluppo sostenibile ha l’obiettivo di evidenziare il tasso di crescita raggiungibile da un’impresa senza
modificare le condizioni economico-finanziarie interne di partenza e concerne due varianti:
❖ modello reddituale: in questo caso si parla di crescita sostenibile poiché l’impresa finanzia lo sviluppo del
capitale investito netto attraverso la variazione dei mezzi propri, cioè attraverso l’autofinanziamento e,
∆𝐾 ∆𝑀𝑃
quindi, non si crea un aumento dell’indebitamento 𝐾
= 𝑀𝑃
, dove la variazione dei mezzi propri è data dalla
formula ∆𝑀𝑃 = 𝑅𝑁 − 𝐷𝐼𝑉 + ∆𝐶𝑆, in cui i dividendi (quota di reddito netta distribuita agli azionisti) sono
dati da Por x RN.
Attraverso una serie di passaggi, ricaviamo la formula del saggio di crescita complessivo sostenibile:

𝒈 = [𝑅𝑂𝐼 + (𝑅𝑂𝐼 − 𝑖) ∙ 𝑑] ∙ (1 − 𝑜𝑡) ∙ (1 − 𝑃𝑜𝑟) + 𝑅𝑐


• ROI = redditività tecnica o industriale del capitale investito (risultato operativo/capitale investito netto);
• i = costo effettivo medio dell’indebitamento finanziario netto (oneri finanziari netti/PFN);
• d = leverage o grado di indebitamento finanziario netto (PFN/mezzi propri oppure indebitamento finanziario
netto/capitale investito netto);
• ot = tasso medio effettivo di pressione fiscale;
• Por = tasso di dividendo o di distribuzione;
• Rc = tasso di ricapitalizzazione dell’impresa (variazione del capitale sociale/mezzi propri).
Questa equazione ci dice che il tasso di crescita g dipende dalla redditività, tanto più è alta la redditività dell’impresa,
tanto più l’impresa potrà crescere, invece, tanto più sono alti la pressione fiscale ot e il tasso di dividendo Por, tanto
minore sarà il tasso di crescita sostenibile (in questo caso se l’impresa vuole crescere deve indebitarsi). Dunque, la
redditività ha un effetto positivo sul tasso di crescita, mentre le tasse e i dividendi hanno un effetto negativo. Tuttavia,
il modello reddituale ha dei limiti, in quanto non considera solo gli aspetti monetari.
❖ modello finanziario o monetario: in questo caso, il fabbisogno finanziario non coperto da fonti esterne (FE)
viene espresso come differenza tra la variazione del CIN e l’autofinanziamento, cioè la quota dei flussi di cassa
auto-generata: 𝐅𝐄 = ∆𝐊 − 𝐀
Possiamo introdurre, al riguardo, due indici:
• l’indice di intensità del capitale (ic), dato dal rapporto tra la variazione del CIN (∆K = K1′ − K ′0 ) e la variazione
dei ricavi (∆R), che esprime il fabbisogno finanziario complessivo indotto dalla variazione dei ricavi di
un’impresa nel corso di un certo periodo di tempo;
• il tasso di crescita dei ricavi (gr).
Dato ic, la variazione del CIN può essere espressa come ∆K = ic ∙ (R1 − R 0 ), da cui, alla fine, otteniamo 𝐅𝐄 = 𝐑 𝟎 ∙
(𝐢𝐜 ∙ 𝐠𝐫 − 𝐀𝟎 ). In particolare, l’impresa si finanzia senza ricorrere a fonti esterne (FE = 0) quando l’indice di intensità
del capitale (ic) moltiplicato per il tasso di crescita dei ricavi (gr) è uguale al tasso di autofinanziamento A0, che indica
il rapporto tra l’autofinanziamento maturato nel periodo compreso tra 𝑡1 e 𝑡0 ed i ricavi relativi a 𝑡0 . Essendo in
un’ottica monetaria, tale autofinanziamento coincide sostanzialmente con il free cash flow al netto dei dividendi agli
azionisti e dei capitali necessari al rinnovo delle immobilizzazioni:

𝐴0 = 𝑖𝑐 ∙ 𝑔𝑟

Considerando questa uguaglianza, si ottiene:


1
𝑔𝑟 = 𝐴0 ∙
𝑖𝑐
Quindi, se l’impresa vuole crescere più del tasso gr, dato l’autofinanziamento, deve indebitarsi. In questa prospettiva,
l’assorbimento di risorse monetarie, generato dallo sviluppo, è “autosostenuto” quando i fabbisogni finanziari sono
integralmente coperti dall’autofinanziamento.

Tutti e tre gli indicatori (scostamento delle vendite, dei costi e dello sviluppo sostenibile) sono sviluppati in maniera
standardizzata, cioè, hanno:
• un punteggio pari a 1 quando il risultato è stato conseguito;
• un punteggio pari a 0 quando il risultato non è stato conseguito.
Assunto un modello di crescita, specificato in ottica sia reale (in termini di crescita di capitale netto investito) che in
ottica finanziaria (in termini di crescita dei ricavi), si introduce lo scostamento SD, espresso dalla differenza tra il saggio
di crescita effettivamente registrato dall’impresa e il saggio di crescita obiettivo identificato.
Vincoli e condizioni essenziali per la misurazione della performance d’impresa nella TPV
Affianco agli indicatori di risultato rappresentati dallo scostamento dei ricavi, dei costi e dello sviluppo sostenibile si
aggiungono dei vincoli da rispettare, che sono disposti secondo un’apposita gerarchia logica:
• vincolo di liquidità: costituisce un vincolo prioritario in quanto rappresenta un fattore di operatività
imprescindibile ed immediato per l’impresa. Ciò significa che l’impresa deve continuamente disporre di una
riserva di liquidità che, nel breve termine, le consenta di rispettare l’equilibrio monetario, ovvero
l’uguaglianza tra le entrate e le uscite di cassa. Tuttavia, un’eccessiva detenzione di liquidità rispetto agli
impieghi immediati o prevedibili nel breve termine, risulta un’inefficienza, in quanto si tratta di un impiego di
risorse finanziarie improduttivo. Qualora la verifica del vincolo della liquidità fornisse un esito molto negativo
o preoccupante, l’attuazione del disegno strategico vigente dovrebbe essere messo in discussione,
indipendentemente dagli altri vincoli;
• vincolo di consonanza con gli shareholders (o azionisti): significa che l’impresa deve rilasciare un valore agli
azionisti e, cioè, remunerare congruamente il capitale proprio. Il rendimento degli azionisti è costituito da due
componenti: il dividendo, cioè la quota di utile assegnata agli azionisti, e il guadagno in conto capitale (o capital
gain), cioè l’apprezzamento di valore delle azioni possedute dagli azionisti. Creare valore per gli azionisti
significa che il rendimento totale garantito agli stessi (dividendo + capital gain) deve essere maggiore
dell’aspettativa di rendimento attesa dagli stessi, infatti, se l’impresa non remunera congruamente gli azionisti,
quando ci sarà bisogno di aumentare il capitale, essi non saranno disposti a conferirlo;
• vincolo di consonanza con gli stakeholders (o altri portatori d’interessi): questo vincolo nasce da un principio
di sostenibilità e significa che l’impresa deve rilasciare un valore agli altri portatori d’interesse, come fornitori,
clienti etc... Sappiamo, ad esempio, che l’impresa rilascia valore ai clienti se il prezzo di vendita è inferiore al
valore percepito oppure rilascia valore ai fornitori se il prezzo di acquisto è maggiore del costo opportunità.

Questi vincoli hanno un diverso orizzonte temporale: il vincolo di liquidità è un vincolo stringente ed ha effetti
immediati, i vincoli di consonanza con gli azionisti e gli stakeholders hanno invece effetti di lungo termine.
I 3 vincoli, unitamente agli indicatori di efficienza, efficacia e sviluppo sostenibile definiscono il quadro complessivo
dei risultati dell’impresa.
Il Total Performance Index o TPI
Il modello della TPV evidenzia la possibilità di pervenire al Total Performance Index o TPI come qualificazione unica
ed unitaria della complessiva performance dell’impresa, in grado di fornire una misura unitaria ed integrata dei
risultati aziendali: esso si configura come un’aggregazione di misure in grado di sintetizzare le tre essenziali
dimensioni del livello superiore del TPV, tenendo comunque conto del superamento dei tre vincoli. Assumendo che
tutti i vincoli siano rispettati adeguatamente, l’indicatore può essere formulato in questo modo:

𝑻𝑷𝑰∗ = 𝛼 ∙ (𝜀 ∙ 𝑆𝑉 + 𝛾 ∙ 𝐶𝑉) + 𝛽 ∙ 𝑆𝐷

• SV = scostamento delle vendite o dei ricavi;


• CV = scostamento dei costi;
• SD = scostamento dello sviluppo sostenibile;
• 𝛂 = coefficiente di ponderazione applicato alle due dimensioni di breve termine (SV e CV);
• 𝜷 = coefficiente di ponderazione applicato alla dimensione di lungo termine (SD);
• 𝜺 = coefficiente di ponderazione applicato allo scostamento delle vendite (SV);
• 𝜸 = coefficiente di ponderazione applicato allo scostamento dei costi (CV).

Questa formula comprende i pesi (alfa, epsilon, gamma e beta) e i vari scostamenti (di costo, di ricavi e di sostenibilità).
In particolare, possiamo evidenziare che 𝛼 + 𝛽 = 1 (o 100%) e 𝜀 + 𝛾 = 1 (o 100%). Se il decisore fissa 𝜀 > 𝛾, vuol dire
che si dà più peso allo scostamento dei ricavi che allo scostamento di costi, mentre se il decisore fissa α > 𝛽, vuol dire
che si dà più attenzione ai risultati a breve termine rispetto a quelli di lungo termine.
Ciascun componente dell’indicatore totale può assumere varie configurazioni:
- 0%: mancato conseguimento dell’obiettivo;
- 0% < componente < 100%: parziale conseguimento dell’obiettivo;
- 100%: pieno conseguimento del target.

Normalmente si tende ad assegnare un peso più importante ai risultati di breve termine piuttosto che ai risultati di
lungo termine per diverse motivazioni:

• legge di equivalenza finanziaria: tende a conferire agli importi più distanti nel tempo un’incidenza inferiore
sul valore attuale netto determinato all’istante temporale odierno;
• prudenza nello stimare il terminal value (o valore terminale): poiché la prospettiva futura rappresenta il
valore futuro dell’impresa, assegnando α > 𝛽 significa che la componente futura è più incerta.
Limite: il total performance index non è idoneo a soddisfare l’ottica dell’auto-valutazione intesa come
rappresentazione descrittiva della performance dell’impresa nel suo complesso, dunque non consente una
comparazione approfondita tra due o più imprese.

𝛼 ∙ (𝜀 ∙ 𝑆𝑉 + 𝛾 ∙ 𝐶𝑉) + 𝛽 ∙ 𝑆𝐷
𝑆𝑒 𝐼𝑚 > 𝑂𝑚
𝑻𝑷𝑰 = { }
𝑆𝑒 𝑆𝑉𝐴 > 𝑂
𝑆𝑒 𝑃𝑚 > 𝐴𝑚

Nella prima equazione si hanno i risultati correnti e prospettici, mentre nelle altre equazioni si hanno i vincoli: il
primo esprime il vincolo di liquidità (input e output monetari e finanziari), il secondo esprime il vincolo di consonanza
con gli azionisti (indicatore di valore aggiunto per gli azionisti su base annuale o pluriennale), il terzo esprime il
vincolo di consonanza con gli stakeholders (prestazioni rilasciate dall’impresa rispetto alle aspettative espresse dai
vari portatori d’interesse). L’impresa avrà un risultato positivo se la prima equazione tenderà ad 1 e se i vincoli
saranno congiuntamente rispettati. Dunque possiamo concludere dicendo che questo indicatore sintetico di
avanzamento o di progressione tende ad aggregare questi indicatori (scostamento vendite, costi e sviluppo
sostenibile), dati i vincoli, in un’unica metrica di risultato. È un indicatore che tiene conto non solo delle
caratteristiche dell’impresa e dei suoi risultati (correnti e prospettici), ma tiene conto della dimensione, delle
aspettative di contesto e, in particolare, delle pressioni degli azionisti e degli stakeholders.
Una critica fatta a questo modello è che non consente un confronto nel tempo e nello spazio perché avendo dei pesi,
se essi cambiano non si può più fare il confronto.
Il principio di equivalenza temporale
Nel comparare i flussi monetari di entrate e di uscite nel corso del tempo occorre tener presente che il valore
corrente di un flusso di cassa che matura nel futuro è inferiore al valore di un flusso di cassa che matura nel tempo
presente: ciò comporta che non è possibile confrontare direttamente flussi di cassa che si riferiscono a diversi istanti
temporali. Come si fa quindi a confrontare valori finanziari nel corso del tempo?
Attraverso il principio di equivalenza temporale, secondo cui dato il tasso d’interesse ir, è possibile scrivere che il
valore di un flusso di cassa FC maturato al tempo T sia pari al tempo T+1 a:

FCT+1 = FCT ∙ (1 + ir)


Se invece avessimo avuto un flusso di cassa FC maturato al tempo T+1, volendolo riportare al tempo T avremmo
dovuto scrivere:
FCT+1
FCT =
(1 + ir)
Nel primo caso si parla di capitalizzazione di un flusso di cassa corrente al futuro, mentre nel secondo caso si parla di
attualizzazione di un flusso di cassa futuro al corrente (ricorda che 1+ir è il coefficiente di capitalizzazione).
Nei processi di capitalizzazione e attualizzazione si fa riferimento spesso al costo medio ponderato del capitale, cioè
un costo medio del passivo dell’impresa, costituito da:

- costo medio del capitale proprio: tasso di rendimento del capitale proprio, cioè il tasso di rendimento
minimo richiesto dai fornitori del capitale di rischio di un’impresa;
- costo medio del capitale di credito: costo corrente che l’azienda sopporta quando finanzia i propri
progetti con fondi presi a prestito a titolo di credito.

Posto di conoscere il costo medio del capitale proprio (𝒌𝒄 ) e il costo medio del capitale di credito (𝒌𝑖 ), la formula del
costo medio ponderato del capitale è:
𝑆 𝐷
𝑾𝑨𝑪𝑪 = 𝑘𝑐 ∙ + 𝑘𝑖 ∙ ∙ (1 − 𝑜𝑡 ′ )
𝑆+𝐷 𝑆+𝐷
• S: valore di mercato del capitale proprio;
• D: valore di mercato dell’indebitamento;
• S+D: valore totale dell’impresa;
• 𝒐𝒕′: aliquota fiscale associata al cosiddetto scudo fiscale, che assume un valore contingente rispetto alle
normative vigenti a livello di sistema nel Paese, in tema di deducibilità degli oneri finanziari dal reddito
disponibile.

Il WACC può essere impiegato sia per determinare il valore attuale netto di un investimento, espressione dei flussi di
cassa netti prospettici dell’investimento attualizzati al tempo T, sia per qualificare una soglia minima di redditività
che un investimento deve generare per essere conveniente sotto il profilo economico.

Il livello basso del Total Performance View


Nella parte bassa del modello, obiettivi, misure, target e azioni sono definiti in maniera più dettagliata ed analitica in
funzione del complesso delle scelte attuate dal management ed incorporate nel piano di sviluppo. Il legame tra i due
strati, alto e basso, viene sviluppato con il supporto delle mappe strategiche, che collegano le azioni previste ai
potenziali risultati conseguibili in termini di costi e di ricavi e di flussi e di deflussi finanziari e monetari, dunque
collegano gli obiettivi generali con quelli specifici. Mentre le mappe strategiche esplicano i legami tra azioni e
risultati, le cosiddette carte dei risultati o score card sono dei documenti che tracciano l’obiettivo da seguire, le
modalità attraverso le quali misurare il raggiungimento dell’obiettivo ed il target/soglie da considerare per l’obiettivo
da raggiungere. Questo modello ha un grande vantaggio: si riescono sempre a capire le cause che hanno generato
certi risultati insoddisfacenti a livello d’impresa nel proprio complesso, infatti viene utilizzato nei cicli di
pianificazione, programmazione e controllo.

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