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I principali approcci/scuole dell’economia industriale sono:

SCUOLA DI HARVARD
I principali esponenti sono Mason e Bain. Questo approccio si basa sul paradigma “Struttura –
Condotta – Performance”, secondo cui la performance di un mercato/settore dipende dalla
condotta dei produttori e dei consumatori; la condotta a sua volta dipende dalla struttura del
mercato/settore. Questi tre elementi sono influenzati dalle politiche pubbliche.
Esistono anche dei legami causali inversi secondo cui la condotta influenza la struttura.

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SCUOLA DI CHICAGO
Gli esponenti sono Director e Stigler. Questo approccio attribuisce importanza alla teorizzazione;
analizza le inefficienze legate all’intervento pubblico; prevede l’intervento solo per impedire
riduzioni della concorrenza nel mercato; secondo questa scuola le performance dipendono dalla
capacità di innovazione e di visione strategica dei manager.
Il modello:

NUOVA ECONOMIA INDUSTRIALE


Si basa sulla teoria dei giochi ed è un approccio fortemente astratto: la struttura del mercato e la
condotta delle imprese non sono assunti come dati ma come il risultato delle azioni delle imprese
che massimizzano i profitti in un contesto di interdipendenza.

Le unità di analisi dell’economia industriale sono:


SETTORI E MERCATI
Un settore o un mercato è individuato attraverso una serie di criteri.
Si tratta di una serie di imprese che
- Utilizzano tecnologie simili e hanno esperienze e conoscenze comuni
- Utilizzano la stessa materia prima
- Hanno una rete o un sistema di distribuzione
- I prodotti soddisfano lo stesso bisogno
- Elasticità incrociata è l’indice utilizzato per l’individuazione di un settore/mercato, perché
tanto è maggiore e tanto più i prodotti sono sostituti e quindi appartengono alla stessa
industria/settore.
o Elasticità incrociata della domanda
Se > 0 i beni sono sostituti (due prodotti correlati tali che se aumenta il prezzo di uno,
aumenta la domanda dell’altro)
Se < 0 i beni sono complementi (due prodotti correlati tali che se aumenta il prezzo
di uno, diminuisce la domanda dell’altro)
o Elasticità incrociata dell’offerta
Se > 0 i beni sono il risultato di produzioni tecnicamente congiunte
Se < 0 sono beni sostituti dal lato dell’offerta

MERCATO RILEVANTE
È il più piccolo contesto in cui è possibile esercitare potere di mercato. Sotto il profilo geografico, è
l’are nella quale le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee.

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DISTRETTI INDUSTRIALI
Sono tante piccole imprese legate da relazioni verticali di cooperazione e da relazioni orizzontali di
concorrenza specializzate in industrie complementari in un’area delimitata (definizione di
Beccatini).
Porter invece introduce il concetto di cluster, definendo i distretti come una concentrazione di
imprese, in un territorio definito, interconnesse tra loro che si trovano in competizione o in
cooperazione.

CLASSIFICAZIONI INDUSTRIALI
Sono:
ISIC (International Standard Industrial Classification of All Economic Activities)
SIC (Standard Industrial Classification)
NACE (Nomenclatura generale delle Attività economiche Europea)
ATECO (classificazione delle attività economiche).

MANIFATTURA = sono i processi che costituiscono le fasi della produzione industriale di manufatti
materiali (tangibili), è il luogo in cui si eseguono le produzioni del settore secondario dell’economia.

Settore primario à Agricoltura


Settore secondario à Industria
Settore terziario à Servizi

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Concentrazione dell’offerta
La concentrazione di mercato è il numero e la distribuzione per dimensione delle imprese che
operano su uno stesso mercato e che sono in concorrenza.
Nell’approccio “Struttura – Condotta – Performance” la concentrazione è un elemento della
struttura di un mercato.
A più elevati livelli di concentrazione nel mercato corrispondono condotte strategiche da parte delle
imprese tese ad accrescere i profitti, che allontanano l’equilibrio dalla condizione di ottimo in cui P
= MC, generando così un potere di mercato.
Prima di misurare la concentrazione dell’offerta è necessario definire il perimetro del mercato
rilevante del prodotto, il quale deve includere tutti i prodotti che sono stretti sostituti l’uno
dell’altro nel consumo e nella produzione. Quindi per definire il perimetro del mercato rilevante del
prodotto si usa l’elasticità incrociata.
- Elasticità incrociata della domanda alta e positiva indica che i due beni sono sostituti nel
consumo
- Elasticità incrociata dell’offerta alta e negativa indica che i due beni sono sostituti nella
produzione.
Per definire il mercato geografico invece si usano le elasticità incrociate spaziali che misurano
l’impatto della variazione del prezzo di un prodotto in un luogo geografico sull’offerta o sulla
domanda di quel prodotto in un altro luogo. Se le elasticità incrociate spaziali sono alte e positive
allora entrambi i luoghi sono considerati parte dello stesso mercato geografico.
La concentrazione non è soltanto usata al livello di mercato per analizzare la concorrenzialità, ma è
anche usata al livello di settore per analizzare la competitività. Misurare la concentrazione settoriale
è più facile.
Per misurare la concentrazione si assume di avere N imprese in un mercato, ciascuna con una quota
sul totale dell’output (fatturato o valore aggiunto) pari a si. È possibile darne una rappresentazione
grafica attraverso la curva di concentrazione.
Hannah e Kay definiscono 4 criteri generali desiderabili:
1) Ranking condition: il mercato che ha la curva di concentrazione sopra quella di un altro
mercato è più concentrato dell’altro.
2) Sales transfer condition: un trasferimento di quota da un’impresa più piccola a un’impresa
più grande si traduce in un aumento della concentrazione.
3) Entry condition: se un’impresa di piccole dimensioni entra nel mercato si riduce la
concentrazione; al contrario, se un’impresa di piccole dimensioni esce dal mercato la
concentrazione aumenta.
4) Merger condition: la fusione tra imprese fa aumentare la concentrazione. Questo implica
che la concentrazione aumenta se diminuisce il numero di imprese.
Gli indici utilizzati per misurare la concentrazione sono:
RECIPROCO DEL NUMERO DELLE IMPRESE C = 1/n
È un indicatore che cattura la dimensione della numerosità della concentrazione. Non soddisfa i
criteri generali desiderabili 1) e 2).

RAPPORTO DI CONCENTRAZIONE RC = sommatoria (che va da 1 a n) di si


È calcolato come la somma delle n imprese più grandi nel mercato. Non garantisce il rispetto dei
criteri generali desiderabili.

INDICE DI HERFIDHAL – HIRSCHMANN HH= sommatoria (che va da 1 a N) di si2


È calcolato su tutte le N imprese presenti sul mercato. Questo indice soddisfa tutti e quattro i criteri
generali desiderabili.

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Il suo valore massimo è 1 e corrisponde a una sola impresa che produce tutto l’output.
Il suo valore minimo è 1/N corrisponde al caso in cui tutte le imprese hanno uguali quote di output.

INDICE DI HANNAH – KAY HK= sommatoria (che va da 1 a N) di si α


È calcolato su tutte le N imprese presenti sul mercato. Si tratta di una generalizzazione dell’indice
HH, che consente di dare più o meno peso alle grandi imprese rispetto a quelle piccole, a seconda
del valore di α. Questo indice rispetta soddisfa tutti e quattro i criteri generali desiderabili.

COEFFICIENTE DI ENTROPIA E= sommatoria (che va da 1 a N) di si * log(1/si)


È calcolato su tutte le N imprese presenti sul mercato. Si tratta di una misura inversa di
concentrazione perché più è basso il valore di E più è alta la concentrazione e viceversa.
Il suo valore minimo è 0 quando si = 1.
Il suo valore massimo è log(N).
Questo coeff. soddisfa tutti e quattro i criteri generali desiderabili.
Paragonando E ad HH, il coeff. di entropia è meno sensibile alla presenza di imprese leader con
grandissime quote di mercato.

COEFFICIENTE DI GINI (G)

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Questo coeff. è un indicatore di concentrazione relativa perché non tiene conto del numero assoluto
delle imprese che fanno parte del mercato, ma da peso solo all’equa distribuzione delle quote tra i
partecipanti.

Per quanto riguarda le determinanti della concentrazione dell’offerta, esistono due approcci:
1) Gli approcci deterministici del paradigma “Struttura – Condotta – Performance”:
BARRIERE ALL’ENTRATA E ALL’USCITA
L’entrata e l’uscita delle imprese dal mercato causa un cambiamento nel grado di concentrazione.
Le barriere che impediscono l’entrata e l’uscita rappresentano quindi un fattore di stabilizzazione
della concentrazione.
La variazione dell’indice di concentrazione dipende dalla dimensione dell’impresa che entra/esce
dal mercato rispetto alle altre imprese presenti:
Se entra una impresa relativamente piccola ↓ concentrazione
Se entra un’impresa relativamente grande ↑ concentrazione
Se esce un’impresa relativamente piccola ↑ concentrazione
Se esce un’impresa relativamente grande ↓ concentrazione

STRUTTURA DEI COSTI E DIMENSIONE DEL MERCATO


L’andamento dei costi al variare della quantità determina insieme alla dimensione del mercato il
grado di concentrazione.
Si ipotizza che le imprese operino nel punto che minimizza i costi medi di lungo periodo.

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REGOLAZIONE E POLITICHE DELLA CONCORRENZA
In questo contesto le politiche pubbliche intervengono per evitare situazioni in cui a causa dell’alta
concentrazione le imprese costruiscono rendite di posizione durature a discapito dei concorrenti e
dei consumatori. Le politiche pubbliche possono intervenire sulla struttura del mercato per ridurre
la concentrazione (impedendo o annullando fusioni/acquisizioni tra imprese che detengono quote
significative del mercato) o contro comportamenti lesivi della concorrenza messi in atto dalle
imprese.
Le strategie che possono essere punite sono: le strategie di prezzo, le condotte collusive,
fusioni/acquisizioni, imposizione di switching cost contrattuali o tecnologici. Le strategie messe in
atto per rafforzare il potere di mercato consentite dall’autorità sono invece: la differenziazione del
prodotto attraverso pubblicità e innovazione tecnologica.
Anche la regolazione influenza la concentrazione agendo come barriera all’entrata di tipo
amministrativo.

CICLO DI VITA DELL’INDUSTRIA (O PRODOTTO)


È composto da 4 fasi:
1) Avvio, coincide con il momento successivo al lancio del prodotto sul mercato. È disponibile
una grande varietà di prodotti sul mercato, le vendite sono poche e c’è molta incertezza
riguardo le caratteristiche del prodotto e la sua effettiva utilità perché il prodotto non è
ancora conosciuto.
2) Crescita, a questa fase corrispondono gli sviluppi associati al prodotto. È in questa fase che
la concentrazione raggiunge un punto di minimo, quando la domanda è in espansione e il
mercato è segmentato in molte varietà di prodotti.
3) Maturità, in questa fase il prodotto diventa standardizzato e il consumatore ha necessità più
chiare. Il mercato tende a cristallizzarsi. Man mano che si afferma un prodotto sul mercato
e la domanda arriva a saturazione, si riduce la frammentazione del mercato e aumenta la
concentrazione sia per effetto di acquisizione e fusioni, sia per l’uscita dal mercato e sia per
la crescita di imprese di successo.
4) Declino, è causato dall’arrivo sul mercato di un nuovo prodotto che soppianta quello già
esistente portando l’industria al declino. In questa fase alcune imprese incumbent falliscono,
altre si riconvertono e abbandonano il settore e le imprese che restano tendono a fondersi.
In questa fase quindi la concentrazione cresce ulteriormente. e

COMPETENZE DISTINTIVE
Il successo dell’impresa dipende dalla combinazione di 3 fattori (innovazione tecnologica,
architettura organizzativa, reputazione) da cui derivano le sue competenze distintive, le quali
distinguono un’impresa dalle altre e possono generare un vantaggio competitivo duraturo.

2) Gli approcci stocastici, secondo cui la misura del mercato e il livello della concentrazione
sono la conseguenza di fattori probabilistici (le determinanti stocastiche). Secondo la Legge
dell’effetto proporzionato tutte le imprese hanno la stessa probabilità di crescita %. Se si
applica la stessa % a tutte le imprese, quelle più piccole cresceranno meno delle grandi
imprese in termini assoluti.

Per quanto riguarda le determinanti del potere di mercato, abbiamo detto che la conseguenza di
un maggior grado di concentrazione è il maggiore potere di mercato delle imprese; per potere di
mercato si intende la possibilità di fissare un prezzo superiore al costo marginale, in modo da

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ottenere un extra profitto. Questa relazione è influenzata da due variabili: l’elasticità della domanda
al prezzo e il grado di coordinamento delle strategie tra le imprese nel mercato.
&&&&&&&
!"#$% !"#$%!
Il potere di mercato si misura con l’indice di Lerner L= !
= ∑(' "' !
"#
)"* +
"$
Considerando l’elasticità della domanda l’indice di Lerner diventa )
= 1/|(|
à Maggiore è l’elasticità, minore è il potere dell’impresa di fissare un markup sui costi marginali e
di estrarre extra profitto.
A questo punto, se l’impresa non tiene in considerazione la reazione dei rivali quando sceglie la
,-
quantità ottima da produrre allora: ,. = 1
%
Dopo una serie di passaggi matematici (per approfondimento vedi slide da 46 powerpoint 2) si
2 55
ottiene che ) = ∑1/ */ 0 |4| = |4|
Considerando il coordinamento strategico, rimuovendo l’ipotesi che l’impresa non tenga conto delle
reazioni dei concorrenti alla sua decisione di variare la quantità prodotta e facendo ulteriori passaggi
(278 )
matematici si ha che ) = ∑1/ */ 0 |4| % ,
dove + rappresenta la reazione dell’impresa i-esima sulla reazione in termini di quantità dei
concorrenti alle sue variazioni di quantità. Se + è positivo significa che c’è coordinamento strategico
tra le imprese.
Nel caso di imprese tutte uguali l’indice di Lerner si semplifica:
("#$)
L=
&|(|
Quest’ultima equazione dice che:
• Al crescere dell’elasticità della domanda ε, diminuisce il potere di mercato delle imprese.
• Maggiore la concentrazione (minore N) maggiore è il potere di mercato delle imprese.
• Quanto più accomodanti sono le reazioni attese dai concorrenti (quindi maggiore il
coordinamento strategico), λ, maggiore è il potere di mercato.

È possibile fare un’analisi industriale comparata tra paesi, calcolando le quote settoriali di output
(prendendo il totale della produzione di un settore e comparandolo con la produzione di altri
settori). In questo modo si misura la specializzazione settoriale.
La specializzazione settoriale si applica per:
- Studiare il cambiamento strutturale dell’offerta produttiva che accompagna lo sviluppo
economico di un paese
- Misurare i vantaggi comparati rivelati di un paese rispetto agli altri (specializzazione
relativa): se la quota settoriale di un paese è maggiore di quella di un altro paese, questo
rivela che in quel paese esiste un vantaggio economico a specializzarsi in quel settore
rispetto all’altro paese. Ciò consente di individuare i concorrenti internazionali.
- Determinare il grado di diversificazione della base produttiva

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Barriere all’ingresso
Le barriere all’entrata sono il secondo elemento che determina la struttura del mercato (dopo la
concentrazione) nel paradigma “Struttura – Condotta – Performance”. Con esse l’attenzione si
sposta sulle imprese potenzialmente interessate ad entrare nel mercato.
Esistono diverse definizioni di barriera all’entrata:
Stigler le definisce come un costo di produzione che deve essere sostenuto da un’impresa che cerca
di entrare in un mercato, ma non grava sulle imprese già presenti nell’industria.
Secondo Bain le barriere all’entrata rappresentano quanto nel lungo periodo le imprese possono
aumentare i prezzi al di sopra dei costi minimi senza indurre l’entrata nel mercato di potenziali
concorrenti.
Infine Demsetz le definisce come un impedimento di natura istituzionale all’avvio di un’attività
economica, dato dalle restrizioni del governo.
Al di la delle definizioni, il punto fondamentale è che le barriere all’entrata fanno si che non sempre
l’esistenza di extra profitti sia sufficiente a determinare l’ingresso di nuovi concorrenti.

Esiste una relazione inversa tra i costi di entrata e il numero ottimale di imprese sul mercato. Se i
costi aumentano il numero di imprese diminuisce; se i costi di entrata diminuiscono il numero di
imprese aumenta.

I tipi di barriere all’entrata sono:


- barriere economiche (hanno origine dalle forze endogene del mercato) o barriere
istituzionali (nascono al di fuori del mercato; sono licenze, autorizzazioni per l’esercizio di
attività economiche, monopoli legali, brevetti, diritti sulla proprietà intellettuale, diritti di
esclusiva, dazi, ecc.)
- barriere strutturali (agiscono sul mercato indipendentemente dalla volontà degli incumbent)
o barriere strategiche (hanno origine dalle scelte messe in atto dalle imprese presenti sul
mercato)

ECONOMIE DI SCALA
Le economie di scala si realizzano quando l’impresa riduce il suo costo medio di lungo periodo
incrementando la sua scala di produzione.
Gli incumbent hanno un vantaggio di costo sui potenziali entranti dovuto alla scala già raggiunta
dalla loro produzione. Se la domanda degli entranti non raggiunge la scala produttiva degli
incumbent, gli entranti non trovano conveniente operare nel mercato a quel prezzo perché
avrebbero una perdita.
Le economie di scala fungono quindi da barriera all’entrata quando l’entrante non riesce a
raggiungere velocemente la capacità produttiva dell’incumbent.

VANTAGGIO ASSOLUTO DI COSTO


Gli incumbent hanno un vantaggio di costo assoluto sui potenziali entranti quando possono
produrre a costi più bassi a parità di quantità. Il vantaggio di costo nasce da 3 principali fattori:
- asimmetrie informative: l’impresa incumbent opera sul mercato da più tempo e ha una
conoscenza maggiore delle criticità del processo produttivo ed è quindi più efficiente nella
gestione delle risorse.
- controllo dei fattori critici della produzione: visto che l’incumbent è arrivata prima sul
mercato potrebbe aver stretto accordi di esclusiva con i fornitori di fattori critici di
produzione oppure potrebbe esserne diventata proprietaria attraverso integrazione

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verticale. L’impresa entrante che vuole utilizzare quei fattori dovrebbe pagare all’incumbent
una fee oppure dovrebbe trovare alternative meno efficienti e di qualità inferiore.
- accesso agevolato al credito: perché chi opera sul mercato da più tempo è percepito come
soggetto a minore rischio e questo gli consente di ottenere tassi di interesse più vantaggiosi
sui prestiti.

DIFFERENZIAZIONE DEL PRODOTTO


Se i prodotti sul mercato sono percepiti come diversi e migliori di quelli che possono essere offerti
da un potenziale concorrente, allora quest’ultimo dovrà sostenere dei costi per cambiare le
preferenze dei consumatori. La differenziazione agisce quindi come barriera strutturale perché la
fedeltà dei clienti e la reputazione si acquisiscono attraverso strategie attuate in passato, ma anche
come barriera strategica perché è costruita consapevolmente dalle imprese.

SWITCHING COSTS
Sono i costi che i consumatori devono sostenere se decidono di cambiare fornitore.
Questi costi si manifestano come l’impegno per trovare un nuovo fornitore, come la paura di non
trovare il prodotto che si spera, come costi di apprendimento per il funzionamento di un nuovo
prodotto, come vincoli contrattuali imposti ai consumatori.
Sono barriere strutturali, ma possono nascere anche dalla volontà delle imprese per catturare i
consumatori impedendogli di passare al concorrente.

ESTERNALITÀ DI RETE
Si verificano quando il valore del bene per il consumatore dipende dal numero di altri consumatori
che usano quel bene.
Le esternalità di rete possono essere:
- dirette: se all’aumentare dell’utilizzo del prodotto aumenta anche il suo valore percepito. È
una barriera strutturale.
- indirette: se all’aumentare dell’utilizzo del prodotto aumenta il valore percepito di un
prodotto collegato. È una barriera strategica.

BARRIERE GEOGRAFICHE
La distanza geografica, culturale e normativa accresce i costi di ingresso in un mercato agendo da
barriera all’entrata. Un esempio di questi costi sono: i costi di trasporto, costi di adeguamento alle
normative locali, difficoltà linguistiche.

BARRIERE ALL’USCITA
Uscire dal mercato implica dei costi detti sunk costs; si tratta di costi non recuperabili una volta che
l’impresa esce dal mercato in quanto nascono da investimenti in asset che non sono trasferibili in
altri business. Ne sono un esempio i costi per l’allestimento interno dell’azienda, i costi per
macchinari dedicati, costi per lo sviluppo tecnologico di prodotti/processi.
Anche i costi amministrativi sono una barriera all’uscita.

Le strategie di dissuasione dall’entrata (barriere strategiche) sono: la strategia del prezzo limite, la
strategia dei prezzi predatori, la proliferazione delle marche.

PREZZO LIMITE

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In questa strategia si assume che al tempo t0 l’incumbent decide quantità prodotta e prezzo di
vendita, impegnandosi a non variare la quantità prodotta anche se il prezzo dovesse essere diverso
da quello comunicato.
I potenziali entranti decidono se conviene entrare nel mercato al tempo t1 osservando prezzo e
quantità stabiliti dall’incumbent.
L’incumbent può scegliere un prezzo che scoraggi l’ingresso dei concorrenti al tempo t1, pur
sacrificando una parte di profitti di monopolio.
In questa circostanza possono verificarsi due ipotesi:
ipotesi 1) l’incumbent ha un vantaggio assoluto di costo sui potenziali entranti

Se l’incumbent a t0 ignora l’ingresso a t1 degli


entranti, cerca di massimizzare i profitti di monopolio
scegliendo Pmon e Qmon. Ma così facendo
lascerebbe una domanda residua che consentirebbe
di guadagnare profitti positivi (triangolo blu). Così
facendo l’ingresso avrebbe luogo, e la concorrenza
spingerebbe i prezzi in basso fino a P*=CMeLP
entranti.

Dopo l’ingresso la quantità totale prodotta risulta


Q*, di cui Qmon offerta dall’incumbent. Al prezzo P*
l’incumbent ottiene profitti pari al rettangolo
arancione, e non anche quelli corrispondenti al
rettangolo rosa (che si avrebbero se a t1 non fossero
entrati i concorrenti). I concorrenti producono Q*-
Qmon ma senza ottenere extra-profitti.

Se invece di comunicare il prezzo Pmon, l’incumbent


scegliesse P* (e quindi la quantità Q*), non
lascerebbe domanda residua profittevole al tempo
t1. Gli entranti quindi non avrebbero interesse a
entrare nel mercato. P* quindi è il prezzo limite
(Plimite), ossia il prezzo massimo che può essere
fissato dall’incumbent senza provocare l’ingresso dei
concorrenti al tempo t1.

Scegliendo P*,Q* l’incumbent serve tutto il mercato


e ottiene profitti pari al triangolo verde. Rispetto al
caso di prima (annunciare Pmon, Qmon per poi
vedere il prezzo calare a P* a causa dell’ingresso dei
concorrenti), adesso l’incumbent ottiene profitti
maggiori. Conviene quindi all’incumbent questa
strategia di deterrenza!

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ipotesi 2) l’incumbent ha le economie di scala rispetto agli entranti

Fissando un prezzo P di monopolio,


l’incumbent indurrebbe l’ingresso
a t1 del concorrente, che potrebbe
scegliere un prezzo P* che
massimizzerebbe i suoi profitti di
monopolio sulla domanda residua.
A prezzo P* sia l’entrante sia
l’incumbent otterrebbero profitti
positivi: l’entrante pari al
rettangolo beige, l’incumbent sia il rettangolo beige sia i rettangoli arancioni.

Fissando un prezzo Plimite e


una quantità Q*, invece, in
corrispondenza del quale la
domanda residua dell’entrante
è tangente alla sua curva dei
costi medi, l’entrata è
scongiurata. Anche in questo
caso conviene la strategia del
prezzo limite piuttosto che indurre l’entrata, perché l’incumbent ottiene profitti maggiori (confronta
il rettangolo arancione di sinistra con quello della slide precedente).

NB: dalla teoria dei mercati contendibili (vedi sotto) notiamo che se la funzione di costo medio
dell’incumbent assomiglia sempre più a quella degli entranti, gli extra profitti residui si assottigliano
sempre di più.

PREZZI PREDATORI
In questa strategia l’incumbent adotta una strategia dei prezzi aggressiva verso un concorrente che
già opera sul mercato, finalizzata alla sua uscita dal mercato e a rialzi del prezzo una volta raggiunto
il monopolio.
A differenza del prezzo limite l’incumbent modifica il prezzo a seconda della presenza di concorrenti
e di conseguenza aggiusta la quantità prodotta. Questo implica sacrificare i profitti nel breve periodo
e la possibilità di andare in perdita, guadagnare profitti di monopolio nel m/l periodo.

Se l’incumbent fosse monopolista,


potrebbe scegliere Pmon e Qmon e
massimizzare i suoi profitti di
monopolio (area arancione grafico
sinistra). La presenza di rivali nel
mercato spinge invece il prezzo a
livello dei costi medi unitari,
azzerando gli extra-profitti (grafico
destra).

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Fissando un prezzo P* (prezzo predatorio) inferiore al Pcon,
l’incumbent costringe il rivale a ridurre la quantità prodotta (da
Qcon a Qe) per minimizzare le perdite. Affinché il prezzo di
equilibrio (di breve periodo) sia P*, l’incumbent deve però
anche impegnarsi a vendere sul mercato a quel prezzo la
quantità Q* - Qe.
Nota: P* è scelto arbitrariamente nel grafico riportato.
L’importante è che l’incumbent lo collochi sotto la curva del
costo medio.
L’area rossa scura è la perdita del rivale.
L’area rossa + l’area viola è la perdita per l’incumbent. Assumendo uguaglianza nelle strutture dei
costi, la perdita per l’incumbent è sempre maggiore di quella del rivale!

Questa strategia è sostenibile e può essere attuata non quando le imprese hanno strutture di costo
simili, bensì quando l’impresa incumbent gode del vantaggio della prima mossa e crea
un’asimmetria nei costi di produzione oppure migliori condizioni per accedere alle fonti di
finanziamento per sostenere le attività in perdita.
Inoltre questa strategia è conveniente solo se l’incumbent potrà recuperare le perdite una volta
usciti i rivali, ottenendo extra profitti, ma non è scontato che ciò accada.

IMPEGNO VINCOLANTE
Un investimento preventivo irrecuperabile in capacità produttiva da parte dell’incumbent può fare
da deterrente all’ingresso dei rivali sul mercato, generando un vantaggio economico per
l’incumbent.
Quello che rende credibile la fissazione di una quantità limite (come nella strategia del prezzo limite)
è il fatto che l’impresa presente sul mercato faccia un investimento preventivo irrecuperabile nella
sua capacità produttiva tale da rendere quella quantità l’ottimo per l’incumbent.
Una strategia di deterrenza simile che implica un investimento in capacità produttiva ha un costo
per l’incumbent in quanto una parte dei suoi profitti di monopolio vanno persi. Però può comunque
essere preferibile a convivere sul mercato con un concorrente.
Esistono 2 casi a seconda che l’incumbent effettui o meno l’investimento irrecuperabile:
caso 1) incumbent passivo non fa l’investimento

Pm: profitto di monopolio


Pd: profitto di duopolio

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Pw < 0: perdita in caso di guerra dei prezzi

La strategia ottimale dell’incumbent è indicata con il tratto rosso, mentre la strategia ottimale
dell’entrante è indicata con il tratto blu.
L’entrante dovrà confrontare i seguenti payoffs: Pd nel caso in cui entrasse (sapendo che
l’incumbent condividerà i profitti e non combatterà), o 0 nel caso in cui non entrasse. Ovviamente,
sceglierà di entrare.
In assenza di investimento irrecuperabile la minaccia di combattere una guerra di prezzo da parte
dell’incumbent non è credibile. Anticipando questo l’entrante deciderà di entrare. Abbiamo così
trovato l’equilibrio (di Nash) nel sotto-gioco.
caso 2) incumbent aggressivo fa l’investimento

C: costo non recuperabile, sostenuto nel caso in cui l’incumbent non decidesse di produrre al
massimo della sua capacità
Assunzione: |,- – /| > |,1|. Una volta sostenuto il costo irrecuperabile è preferibile incorrere
nella perdita Pw piuttosto che in quella Pd-C

La strategia ottimale dell’incumbent è indicata con il tratto rosso, mentre la strategia ottimale
dell’entrante è indicata con il tratto blu.
L’entrante dovrà confrontare i seguenti payoffs: Pw nel caso in cui entrasse (sapendo che
l’incumbent preferirà combattere), o 0 nel caso in cui non entrasse. Ovviamente, sceglierà di non
entrare per non incorrere nella perdita.
In presenza di investimento irrecuperabile la minaccia di combattere una guerra di prezzo da parte
dell’incumbent è credibile. Anticipando questo l’entrante deciderà di non entrare. Abbiamo così
trovato l’equilibrio (di Nash) nel sotto-gioco.

à Adesso l’incumbent deve decidere a monte se adottare una strategia passiva o aggressiva,
sapendo a quale esito andrebbe incontro nei due scenari. Deve decidere se convenga rimanere
passivo e ottenere così Pd, oppure se convenga essere aggressivo e ottenere Pm-C.
Se Pm-C > Pd, l’incumbent ha interesse ad adottare una strategia aggressiva.

PROLIFERAZIONE DELLE MARCHE


È la falsa differenziazione dei prodotti. L’impresa incumbent occupa il mercato con marchi diversi di
prodotti molto simili con lo scopo di saturare il mercato e negare all’entrante di affermare una
propria identità distintiva per il proprio prodotto.

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Teoria dei mercati contendibili
Afferma che anche nei mercati molto concentrati (vicini al monopolio) si possono osservare equilibri
simili a quelli concorrenziali grazie alla minaccia di ingresso dei rivali. Affinché la minaccia sia efficace
non devono esserci barriere all’entrata e all’uscita in modo da rendere possibili strategie “mordi e
fuggi” da parte dei rivali degli incumbent.
In conclusione le barriere all’entrata sono la vera determinante del potere di mercato delle imprese,
ancor prima della concentrazione.
Più le barriere sono basse più le imprese fanno difficoltà ad estrarre extra profitti.

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Discriminazione di prezzo
La discriminazione di prezzo è la vendita dello stesso prodotto a prezzi diversi, contraddicendo la
legge del prezzo unico (secondo cui nei mercati concorrenziali lo stesso bene deve essere venduto
allo stesso prezzo).
Affinché si verifiche la discriminazione di prezzo:
1) occorre che l’impresa abbia potere di mercato
2) non deve essere possibile l’arbitraggio da parte del consumatore
3) occorre che l’impresa conosca i prezzi di riserva dei consumatori (ossia il prezzo massimo
che ogni consumatore è disposto a spendere)
Per fare discriminazione le imprese devono classificare i clienti secondo le informazioni di cui sono
a conoscenza circa la loro disponibilità a pagare. Queste informazioni possono essere osservate dal
venditore perché conosce delle informazioni sul cliente (discrimin. 1° tipo), oppure può osservare le
caratteristiche del cliente (discrimin. 3° tipo), possono essere segnalate attraverso un auto-
selezione del consumatore che sceglie delle proposte in relazione a varie offerte del venditore sulla
quantità/prezzo o sulla qualità/prezzo (discrimin. 2° tipo).
La discriminazione di prezzo può essere di 3 tipi:

DISCRIMINAZIONE DI I GRADO
Ogni unità di prodotto è venduta ad un prezzo diverso. I prezzi possono differire a seconda del
compratore e della sua disponibilità a pagare.
Questo tipo di discriminazione è anche detta perfetta perché l’impresa conosce i prezzi di riserva di
tutti i consumatori ed è in grado di estrarre tutto il surplus dei consumatori (l’impresa si appropria
di tutto il surplus dei consumatori).
In termine di allocazione delle risorse non c’è più inefficienza, non c’è perdita secca, come invece
nel caso di prezzo uniforme. Quindi il monopolio con discriminazione di 1° tipo è una configurazione
efficiente.
Il benessere sociale è maggiore con discriminazione di 1° grado, mentre il benessere dei
consumatori è più alto in caso di prezzo uniforme.
Se la distribuzione del reddito intesa come distribuzione dei benefici tra imprese e consumatori non
è importante si può concludere che la perfetta discriminazione è socialmente preferibile perché
aumenta il benessere sociale; se invece la distribuzione del reddito è rilevante allora la
discriminazione dovrebbe essere proibita.

DISCRIMINAZIONE DI II GRADO
L’impresa propone diverse combinazioni del prodotto a prezzi diversi. Saranno i consumatori a
rivelare i propri prezzi di riserva: si tratta di auto-selezione da parte dei consumatori.
Es. sconti all’ingrosso, tariffe telefoniche, …
Il prezzo unitario non è costante e il venditore deve decidere come fissare il prezzo; una soluzione
possibile è quella di fissare un prezzo diverso per ogni unità consumata, che decresce al crescere
delle quantità consumate. Ne è un esempio la tariffa a due stadi, composta da una parte fissa e una
parte variabile proporzionale alla quantità consumata.
Possono verificarsi due ipotesi:
ipotesi 1) i consumatori hanno le stesse preferenze (e quindi la stessa curva di domanda)
Se il monopolista vuole discriminare il prezzo attuando una tariffa a due stadi può fissare il prezzo
variabile o al prezzo di monopolio Pm o al costo marginale CM.
Il prezzo variabile che massimizza i profitti lordi totali è lo stesso che massimizza il surplus totale,
detto prezzo efficiente. L’efficienza, ossia la massimizzazione del surplus totale implica che p = CM.

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Infatti nella tariffa a due stadi ottimale, quando la parte variabile è pari a p = CM è preferibile a
quando la parte variabile è pari a p = Pm.
L’introduzione di una tariffa a due stadi rispetto ad un prezzo uniforme Pm: aumenta i profitti,
aumenta il surplus totale, aumenta il surplus lordo del consumatore, diminuisce il surplus netto del
consumatore. Quindi, l’efficienza totale aumenta, ma il benessere del consumatore cala in seguito
all’introduzione di un prezzo non lineare. Tutto il surplus lordo del consumatore è catturato dal
monopolista attraverso la tariffa fissa.
ipotesi 2) i consumatori hanno preferenze diverse (un tipo di consumatore usa il bene più
frequentemente di un altro tipo)
Il venditore vorrebbe attuare una discriminazione di prezzo e vendere il bene a prezzi diversi ma un
consumatore potrebbe fingere di essere chi non è per pagare di meno. Per questa ragione il
venditore potrebbe non essere in grado di distinguere efficacemente i tipi di consumatori e la loro
disponibilità a pagare.
Per evitare che entrambi i tipi di consumatori scelgano la stessa tariffa il monopolista deve fissare
una tariffa tale che il tipo 2 non abbia convenienza al piano 1 e che ogni consumatore preferisca
pagare la parte fissa e acquistare la parte variabile per lui ottimale, piuttosto che non acquistare
affatto. Nel fare ciò il venditore deve tenere conto del fatto che ogni consumatore deve essere
incentivato a partecipare al mercato e ogni categoria di consumatori deve essere incentivata ad
utilizzare la tariffa che è stata pensata dal venditore per lui.
In genere, la tariffa dei consumatori a bassa intensità di consumo è caratterizzata da una bassa
quota fissa e un alto prezzo variabile superiore al costo marginale. Mentre la tariffa per i
consumatori ad alta intensità di consumo si compone di un’alta quota fissa e di un basso prezzo
variabile uguale al costo marginale.
Ne consegue che i consumatori ad alta intensità di domanda pagano molto la parte fissa ma di meno
la parte variabile, mentre i consumatori a bassa intensità di domanda pagano poco la parte fissa e
molto la parte variabile.
Rispetto all’ipotesi 1) con un solo tipo di consumatore, qui il monopolista deve pagare delle “rendite
informative” per selezionare i diversi consumatori attraverso l’auto-selezione. Quindi il profitto del
venditore è più basso di quello che potrebbe ottenere se si selezionassero direttamente i
consumatori o rispetto al caso in cui le preferenze dei consumatori sono uguali (ipotesi 1).

DISCRIMINAZIONE DI III GRADO


L’impresa distingue i consumatori che hanno diversi prezzi di riserva e fa una selezione attraverso
la segmentazione del mercato.
Il prezzo pagato dai compratori di uno stesso gruppo è uguale. Ma il prezzo varia fra i diversi gruppi
di acquirenti.
Di fatto è il tipo di discriminazione più diffuso, in cui si fissano prezzi diversi che massimizzano il
profitto in mercati separati.
Es. Sconti per pensionati, studenti, giovani.
Per massimizzare i profitti in un mercato diviso in parti che differiscono per l’elasticità:
• ↑ P dove l’elasticità è BASSA
• ↓P dove l’elasticità è ALTA
Se la domanda dei consumatori è elastica, più sensibile al prezzo allora l’impresa che discrimina sui
prezzi pratica un prezzo più basso per il gruppo di consumatori più sensibili al prezzo e un prezzo
più alto per il gruppo di consumatori meno sensibili al prezzo. Così massimizza i profitti.
Il monopolista massimizza il suo profitto quando spinge la produzione sino al punto in cui il ricavo
marginale è uguale al costo marginale.

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Il punto di incontro tra MC e RMC (RMC è la somma di tutte le curve del ricavo marginale perché il
costo marginale deve essere uguale al ricavo marginale in ciascun mercato) stabilisce la quantità
complessiva che deve essere prodotta per massimizzare il profitto.
Pertanto il monopolista massimizza il suo profitto praticando una discriminazione dei prezzi a
seconda dei mercati, imponendo prezzi più bassi per quel segmento di mercato a domanda più
elastica.

18
Differenziazione del prodotto
La differenziazione del prodotto è il terzo elemento del paradigma “Struttura – Condotta –
Performance”. Agisce come barriera tra segmenti dello stesso mercato e contribuisce ad aumentare
il grado di concentrazione creando segmenti di mercato dominati da singole imprese.
Secondo l’approccio delle caratteristiche di Lancaster, la differenziazione si misura in base alle
differenze negli attributi che compongono i prodotti.
La differenziazione è verticale (per qualità) quando un prodotto differisce da un altro perché ha
degli attributi ritenuti migliori.
La differenziazione è orizzontale (per varietà) quando un prodotto differisce da un altro per il
diverso mix di attributi che possiede.
NB: se il bene di più alta qualità avesse un prezzo uguale o addirittura inferiore al bene di bassa
qualità, allora la domanda si sposterebbe tutta verso il bene di alta qualità perché i consumatori lo
preferirebbero. Questo significa che a parità di prezzo non ci sarebbe mercato per il bene di bassa
qualità; ma scegliendo un prezzo più basso, il produttore del bene di qualità bassa può comunque
essere scelto dai consumatori.
Formalizzando l’approccio delle caratteristiche: u = ∑ 2 ∗ 4 − 6
v
L’utilità netta/surplus del consumatore (u) dipende dagli attributi del prodotto e dal prezzo.
u è uguale alla sommatoria delle valutazioni soggettive del consumatore sugli attributi del prodotto
(b) per (c) gli attributi del prodotto [(b) * (c) = (v) utilità lorda del consumatore, che dipende soltanto
dagli attributi del prodotto] meno il prezzo di acquisto del prodotto (p).
L’approccio delle caratteristiche è molto utile perché permette di stimare quale è il prezzo che i
consumatori sono disposti a pagare per ogni caratteristica del prodotto e consente quindi di
determinare come al variare di ogni caratteristica varia il prezzo complessivo in equilibrio. È inoltre
importante per la determinazione di molte strategie da parte delle imprese in quanto consente di
valutare il ritorno economico degli investimenti nei diversi attributi del prodotto.
La curva di domanda nell’approccio delle caratteristiche:
Quale prodotto sceglierà il consumatore?
La risposta dipende dalle sue curve di indifferenza
(combinazioni tra diverse quantità degli attributi che
garantiscono lo stesso livello di utilità).
Nel grafico è evidente che la scelta c1 sia quella preferita,
perché corrisponde a una curva d’indifferenza più alta.
Al cresce del prezzo del bene la domanda diminuisce
(perché con il budget a disposizione i consumatori
possono consumare meno unità del bene) fino ad
azzerarsi quando altri prodotti garantiscono una utilità
netta maggiore.
In linea generale, più combinazioni possibili ci sono dei vari attributi (quindi più varianti del
prodotto) minore è il grado di differenziazione tra prodotti, quindi è maggiore l’elasticità al prezzo
della domanda (più inclinata sarà la curva di domanda).

Le fonti di differenziazione dei prodotti possono essere: le distanze geografiche, la qualità dei
materiali e delle lavorazioni, il contenuto di tecnologia, il marchio, l’ignoranza del consumatore, i
servizi accessori alla vendita.

In caso di differenziazione verticale e concorrenza, immaginiamo un duopolio alla Bertrand (in cui
due imprese fissano i prezzi, i consumatori decidono di comprare una volta saputi i prezzi, le imprese

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producono le quantità corrispondenti alla domanda e hanno la stessa struttura dei costi, ma i beni
venduti dalle due imprese non sono omogenei). La qualità del prodotto dell’impresa 2 (v2) è
maggiore della qualità del prodotto dell’impresa 1 (v1). Ogni consumatore acquista una sola unità
di prodotto.

La curva u2 è più inclinata della curva u1 perché


bv2 è maggiore di bv1 (il bene 2 è di qualità
superiore, v2 > v1). La curva u2 però parte più
in basso rispetto alla curva u1 perché
dobbiamo assumere che p2 > p1 (se così non
fosse tutti i consumatori comprerebbero solo il
prodotto 2). Dall’intersezione, capiamo quali
consumatori preferiranno un bene e quali
l’altro. I consumatori con valutazione b < b*
preferiscono comprare il prodotto di qualità inferiore. Quelli con valori di b > b* preferiscono il
prodotto di qualità superiore. Per valori b < bmin l’utilità netta diventa negativa con entrambi i beni,
quindi nessun consumatore comprerà niente.
Il consumatore indifferente tra l’acquisto del prodotto 1 e quello del prodotto 2 è tale per cui
)0")2
b* v1 - p1 = b * v2 - p2, ossia 7 ∗ = ;0";2 .
Facendo ulteriori passaggi matematici (vedi da slide 16 in poi del powerpoint 5) è possibile notare
che il prezzo di equilibrio per entrambe le imprese prevede un markup sui costi marginali. Questo
conferma che con prodotti non omogenei il duopolio alla Bertrand non porta al paradosso (ossia
quella situazione in cui gli extra profitti sono nulli come nella concorrenza perfetta). Il markup è
tanto maggiore quanto maggiore è la differenziazione tra i prodotti (v2 – v1).

Nel caso della differenziazione orizzontale e concorrenza, il modello di Hotelling nasce come
modello di differenziazione geografica ma viene generalizzato per descrivere altre forme di
differenziazione negli attributi dei prodotti.
L’utilità massima che il consumatore può ottenere dal consumo è pari a 1, e diminuisce
all’aumentare dei costi di spostamento che il consumatore deve sostenere per avere il bene. Questi
costi possono essere interpretati come:
a) Percorrere lo spazio fisico che separa il consumatore dall’impresa genera un costo di
trasporto a carico del consumatore, che aumenta all’aumentare della distanza
b) Scegliere un prodotto con attributi distanti dalle preferenze del consumatore genera un
costo a carico del consumatore, che cresce al crescere dalla distanza
Se ragioniamo in termini di distanza geografica:

Se ragioniamo invece in termini di distanza tra preferenze e attributi del prodotto:

d = distanza dall’impresa
k = costo sostenuto per percorrere la distanza

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Il consumatore sceglierà il bene dell’impresa A se l’utilità netta/surplus del consumatore è maggiore
se si acquista il bene dall’impresa A (1 – (PA + kd2)) rispetto a se si acquista il bene dall’impresa B (1
– (PB + k(1 – d)2)). Ossia se il prezzo di acquisto + costo di trasporto dell’impresa A è inferiore al
prezzo di acquisto + costo di trasporto dell’impresa B.
Nel modello di Hotelling possono verificarsi 2 casi:
caso 1) differenziazione data, competizione sul prezzo
Assumiamo che le imprese si collochino agli estremi del segmento (massima differenziazione
possibile) e debbano decidere il prezzo ottimo, dato il prezzo dell’avversario.

Più i consumatori sono distanti dagli estremi 0 e


1 più è alto il costo per raggiungere le imprese.
Tutti i consumatori posti a una distanza < d’
troveranno meno costoso rifornirsi dall’impresa
A; tutti i consumatori posti a una distanza > d’
troveranno meno costo rifornirsi dall’impresa B.
I consumatori posti alla distanza d’ saranno
indifferenti.

Se il prezzo PA cresce a PA”, l’impresa A


continuerà a servire un numero di consumatori
inferiore rispetto a prima (d’’< d’); i consumatori
compresi tra d’ e d’’ troveranno invece più
conveniente comprare dall’impresa B, perché il
costo per loro è minore.

Dopo avere eseguito una serie di passaggi e calcoli matematici (vedi meglio da slide 6 della seconda
parte del powerpoint 5) si può osservare che, come nel caso precedente della differenziazione
verticale, il prezzo di equilibrio è maggiore del costo marginale e quindi l’impresa pratica un markup.
Se la differenziazione diminuisce (ossia k↓), diminuisce anche il markup delle imprese.
A differenza del caso precedente della differenziazione verticale, essendoci simmetria dei costi di
produzione le due imprese praticheranno lo stesso prezzo in equilibrio.

caso 2) prezzi fissi, scelta della localizzazione


Le imprese devono scegliere come distanziarsi l’una dall’altra per massimizzare i propri profitti. Il
prezzo è fisso e i consumatori scelgono quindi sulla base della distanza (per trovare la distanza
ottima).

21
L’impresa A potrebbe decidere di spostarsi più a
destra (nell’esempio si sposta a 0.4), mantenendo
tutti i clienti precedentemente acquisiti (quelli
entro una distanza 0.5) e rubando una parte dei
clienti dell’impresa B (quelli compresi tra 0.5 e la
linea rossa perché essa si sposta verso destra,
dovendo essere sempre a metà della distanza tra le
due imprese).

(La linea rossa demarca il limite che separa i consumatori attratti dall’una e dall’altra impresa. È
sempre a metà della distanza tra le due imprese.)

L’impresa B ragionerebbe allo stesso identico


modo.

à Entrambe le imprese quindi hanno una tendenza a


convergere al centro. Quindi quando il prezzo non è la
variabile chiave per competere, per le imprese è
conveniente scegliere un grado di differenziazione minima,
quanto basta a farsi preferire dalla propria fetta di mercato.

In conclusione, il modello di Hotelling nel caso 1) differenziazione data, competizione sul prezzo, fa
capire che la differenziazione orizzontale è uno strumento potente per far si che le imprese
oligopolistiche possano esercitare potere di mercato. Nella realtà è più difficile usare questo
modello nel caso 2) prezzi fissi, scelta della localizzazione per descrivere casi di bassa
differenziazione, almeno che non si consideri un mercato con prezzi regolati.

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Pubblicità
La pubblicità è una forma di comunicazione di massa usata dalle imprese per creare consenso
intorno alla propria immagine, con l'obiettivo di conseguire i propri obiettivi.
Essa ha funzione informativa (in quanto segnala l’esistenza di un prodotto, descrive i suoi attributi
e le condizioni di vendita) e funzione persuasiva (in quanto ha l’obiettivo di persuadere il
consumatore affinché scelga un determinato prodotto, facendo leva sugli attributi intangibili che
suscitano emozioni nel consumatore).
La funzione informativa è tanto maggiore quanto è più facile per i consumatori osservare le
caratteristiche del prodotto prima dell’acquisto. Infatti questa funzione della pubblicità è
importante solo prima del consumo.
La funzione persuasiva è tanto maggiore quanto è più difficile per i consumatori osservare le
caratteristiche del prodotto prima dell’acquisto. Questa funzione della pubblicità agisce prima e
dopo il consumo del prodotto perché serve sia ad attrarre che a fidelizzare i consumatori.
La pubblicità inoltre può essere uno strumento per informare il consumatore dell’esistenza di un
prodotto sul mercato a un prezzo più conveniente di altri. In questo caso, aumentando la
conoscenza dei consumatori si riducono gli switching costs e aumenta il grado di concorrenza.
Può anche essere uno strumento per informare o persuadere il consumatore che il prodotto
pubblicizzato è diverso dagli altri presenti sul mercato, aumentando la differenziazione, quindi le
barriere tra imprese.
Inoltre, la pubblicità può essere utilizzata dalle imprese incumbent per creare una barriera
all’entrata per potenziali rivali attraverso le asimmetrie di costo:
Nel caso di economie di scala, avendo volumi di produzione maggiori, l’incumbent può distribuire la
spesa pubblicitaria in modo più efficiente raggiungendo un punto più basso sulla funzione dei costi
medi unitari.
Nel caso di vantaggio di costo assoluto, avendo già raggiunto un certo grado di notorietà grazie alla
spesa pubblicitaria passata, l’incumbent può risparmiare sui costi pubblicitari per la creazione di un
riconoscimento del marchio e per l’iniziale fidelizzazione (assumendo che i costi per creare una base
fidelizzata siano superiori ai costi per mantenere/accrescere una base già fidelizzata).

L’investimento pubblicitario di un’impresa cresce


- quanto maggiore è l’elasticità della domanda dei consumatori alla spesa pubblicitaria
- quanto maggiore è il markup che l’impresa ottiene dalla vendita di unità aggiuntive grazie
alla pubblicità (e quindi quanto minore è l’elasticità della domanda dei consumatori al
prezzo).
NB: il markup è funzione inversa dell’elasticità della domanda al prezzo di vendita.
Per scegliere il budget pubblicitario ottimo che rappresenta un costo fisso per l’impresa si fanno una
serie di passaggi matematici (vedi slide 20-21 della seconda parte del powerpoint 5) da cui si ottiene:

Quindi, il rapporto a/pq (cioè il budget pubblicitario) ↑ quando η ↑, e quando |(| ↓.

23
Innovazione d’impresa
Esistono 4 tipologie di innovazione:
Ø Innovazione di prodotto: riguarda forma, prestazioni, forme di utilizzo, qualità dei materiali,
etc…
Ø Innovazione di processo: riguarda metodi di produzione e di distribuzione
Ø Innovazione organizzativa: riguarda pratiche, routine e procedure che attengono alla
gestione organizzativa dell’azienda, compresa la gestione del personale.
Ø Innovazione di marketing: riguarda nuove strategie, concetti, strumenti utilizzati per la
commercializzazione.
Le innovazioni di prodotto e di marketing sono tese ad accrescere la qualità del prodotto da parte
dei clienti, quindi si riflettono in cambiamenti nella curva di domanda dell’impresa (che si sposta in
alto).
Le innovazioni di processo e organizzative invece incidono sulla struttura dei costi rendendo
l’impresa più efficiente (abbassando la curva dei CMe).

Queste 4 tipologie di innovazione determinano un vantaggio competitivo sui rivali e alterano


l’equilibrio del mercato.
• Se le innovazioni sono operate da imprese incumbent, il loro effetto sarà quello di rendere
ancora più sbilanciata la concentrazione
• Se le innovazioni sono operate da imprese nascenti, nel qual caso si tratta spesso di
innovazioni radicali e il loro effetto è quello di ridurre in modo significativo il potere di
mercato esercitato dagli incumbent.
• Se le innovazioni sono facilmente imitabili dai rivali, l’impatto sul grado di concorrenzialità
sarà marginale.
• Se, di contro, l’innovazione crea una barriera tecnologica duratura, allora l’impresa
innovatrice accrescerà il proprio potere di mercato.

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Diversificazione
La diversificazione è una strategia attuata dall’impresa quando decide di ampliare la gamma di
prodotti o il numero di mercati raggiunti.
La diversificazione può essere:
- geografica (ad es prima vendo solo in Italia, poi anche in Germania)
- di settore/canale di sbocco del prodotto (ad es un produttore di lampade che prima
rifornisce solo il settore automobilistico e poi anche il settore nautico)
- di prodotto, a sua volta può essere:
o verticale, se la diversificazione avviene in produzioni a valle o a monte di quella già
operata. Questa si chiama anche integrazione verticale.
o orizzontale, se la diversificazione avviene in produzioni non a valle o a monte di
quella già operata, entrando in una filiera diversa da quella già presieduta. Nella
diversificazione correlata le nuove produzioni sono correlate con quelle già
presidiate dal lato delle tecnologie di produzione o dal lato della domanda; in quella
non correlata/conglomerale le nuove produzioni non sono correlate con quelle già
presidiate.
La filiera produttiva è la sequenza di attività economiche che vanno dall’approvvigionamento delle
materie prime alla vendita del prodotto al consumatore finale.

Per quanto riguarda le determinanti della diversificazione orizzontale, l’impresa diversificata


attinge a rendite di posizione nel mercato per ottenere vantaggi competitivi rispetto ai rivali
specializzati in altri mercati/prodotti. In questo modo il potere di mercato si estende
progressivamente attraverso la cross subsidization (sussidi incrociati) e attraverso le strategie di
tying (abbinamenti) dei prodotti. Attraverso la cross subsidization l’impresa diversificata finanzia
strategie aggressive di prezzo difficilmente replicabili da un rivale non dominante nel mercato (ne
sono un esempio la strategia dei prezzi predatori e le strategie di differenziazione del prodotto
realizzate attraverso massicci investimenti pubblicitari). Nel tying invece, a fronte dell’acquisto di
un prodotto trainante il consumatore acquista anche un prodotto collegato detto trainato. Con
questa strategia l’impresa incumbent nel mercato del prodotto trainato può rafforzare la posizione
di mercato in un prodotto decidendo di diversificare la sua offerta entrando nel mercato del
prodotto trainante in cui esistono concorrenti non diversificati. L’incumbent potrebbe così vendere
il prodotto trainante a un prezzo competitivo con lo scopo di imporre ai consumatori l’acquisto del
prodotto trainante,
trainato dove ha potere di mercato.
La diversificazione può determinare economie di gamma/di diversificazione quando il costo di
produrre congiuntamente diversi prodotti è inferiore al costo di produrli separatamente. In altre
parole le economie di gamma consistono nel grado di beneficio in termine di riduzione di costi totali
che l'azienda può ottenere se produce due determinati beni insieme anziché separatamente.
Le economie di gamma scaturiscono quindi dalla condivisione di costi indivisibili riguardanti il
processo produttivo, le funzioni di supporto, asset immateriali.
La diversificazione dell’impresa tra mercati/prodotti che subiscono fluttuazioni della domanda
correlati negativamente riduce il rischio dell’investitore e permette una gestione migliore dei flussi
di cassa, che aumenta la capacità di autofinaziamento. Quando l’impresa diversificata è quotata in
borsa si può creare una divergenza di interessi tra l’azionista di controllo e gli operatori finanziari;
questo comporta un costo in termini di minor valore delle azioni per l’impresa diversificata quotata.
Un’impresa che raggiunge una posizione dominante su un mercato maturo può decidere di
reinvestire gli extra profitti diversificando le sue attività produttive. In questo caso si può utilizzare
come strumento di analisi la matrice “Boston Consulting Group”.

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La matrice BCG è definita combinando due informazioni: da un lato il tasso di crescita del mercato
in cui l’impresa opera, dall’altro la quota di mercato detenuta dall’impresa in quel mercato.
Otteniamo così quattro quadranti:
Situazione punto interrogativo: caratterizza un’impresa che opera in un mercato in forte crescita
ma senza aver ancora raggiunto una quota di mercato rilevante. In questo caso l’impresa non
diversifica ma si concentra sullo sviluppo del business o, nella peggiore delle ipotesi, lo abbandona.
Situazione Star: l’impresa domina un mercato in espansione. È la situazione ideale per continuare a
investire nel mercato. In questo caso l’impresa non diversifica ma si concentra sullo sviluppo del
business.
Situazione Dog: l’impresa non ha una posizione dominante nel mercato e quest’ultimo ha domanda
stagnante. In questo caso, non conviene continuare a investire nel business perché esso non genera
per l’impresa un ritorno economico significativo. Piuttosto, la scelta è quella di dismettere le attività,
per rifocalizzarsi su altri business.
Situazione cash cow: L’impresa occupa una posizione dominante, da cui quindi ricava extra-profitti,
in un mercato stabile. È la situazione ideale per diversificare, perché l’impresa ha risorse extra da
investire sullo sviluppo di nuovi business (verso situazioni question mark).

È possibile diversificare
- sviluppandosi per vie interne: l’impresa espande la sua attività evolvendo le sue core
competences per adattarle a nuovi mercati/processi produttivi. Per fare ciò l’impresa deve
fare un investimento che è tanto maggiore quanto più distante è il fabbisogno di risorse
richiesto dalla diversificazione. Questi investimenti possono essere quindi rilevanti
(comprendono investimenti in ricerca e sviluppo, nel marchio, nella creazione di una rete di
distribuzione, ecc.) e il loro ritorno è incerto.
- sviluppandosi per vie esterne: l’impresa entra in nuovi mercati/produzioni acquisendo
imprese già presenti in quei mercati/produzioni. Affinché la diversificazione per vie esterne
sia conveniente, il valore di cessione degli asset da parte del venditore deve essere inferiore
al valore che l’acquirente ritiene di generare da quegli asset dopo l’acquisizione. Ciò implica
che bisogna saper quantificare il valore delle sinergie che si potrebbero generare dopo
l’acquisizione, le quali devono trasformarsi in valore effettivo per l’acquirente. Spesso questa
operazione crea inizialmente uno shock organizzativo in quanto non è affatto semplice da
realizzare.

Esiste una relazione positiva tra dimensione dell’impresa e diversificazione, perché la


diversificazione è una strada per crescere dimensionalmente.

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Innovazione tecnologica
L’innovazione tecnologica è l’attività delle imprese e delle istituzioni tesa a introdurre nuovi prodotti
e nuovi servizi, nonché nuovi metodi per produrli, distribuirli e usarli.
Di innovazione tecnologica parlano molti economisti:
Smith afferma che il progresso tecnico nei beni capitali favorisce la divisione del lavoro e la
specializzazione ed è alla base della crescita della produttività da cui deriva la crescita economica.
Questa idea è ripresa da Kaldor secondo cui il settore manifatturiero ha un ruolo centrale nello
sviluppo economico, in quanto il processo industriale è il luogo dove investire in capitale per
realizzare la divisione del lavoro e gli aumenti di produttività.
Ricardo introduce la teoria della compensazione che affronta il tema del rapporto tra cambiamento
tecnologico e livelli occupazionali. Secondo questa teoria i sacrifici che i lavoratori affrontano per
effetto del progresso tecnico sono compensati dai vantaggi derivanti dalla creazione di nuove
imprese che si occupano di costruire macchine che assorbono la manodopera in eccesso dagli altri
settori.
Marx sottolinea che la pressione competitiva sui mercati e l’ampiezza della domanda sono due
fattori che incentivano il cambiamento tecnologico da parte dei capitalisti. Per Marx l’innovazione
è un processo sociale che sfocia nel conflitto di classe tra capitalisti e lavoratori, perché ipotizza che
ci sia una caduta tendenziale del saggio di profitto al crescere del capitale investito che i capitalisti
cercano di rallentare riducendo il costo del lavoro creando così tensioni sociali con i lavoratori.
Schumpeter è il primo ad affrontare in modo approfondito il ruolo dell’innovazione tecnologica
nell’economia industriale. Tra i suoi concetti chiave:
- L’innovazione è diversa dall’invenzione. L’invenzione è una nuova idea non ancora realizzata
che spesso non nasce da scopi economici. L’innovazione tecnologica è la realizzazione
dell’invenzione in un prodotto/processo produttivo e del suo sfruttamento commerciale;
essa comprende la progettazione, realizzazione e la commercializzazione dell’invenzione.
- L’innovazione determina un profitto temporaneo
- I mercati sono in continua evoluzione grazie alla spinta dell’innovazione.
- L’innovazione può scaturire sia dalle piccole sia dalle grandi imprese
o L’imprenditore è l’attore principale del progresso. In questo caso l’innovazione è un
processo di distruzione creativa, nel senso che nuove piccole imprese entrano sul
mercato con nuove idee che sostituiscono quelle vecchie rimescolando così le
posizioni raggiunte dalle imprese sul mercato e i loro saperi.
o Le grandi corporation generano l’innovazione tecnologica grazie ai loro laboratori di
ricerca. In questo caso l’innovazione è un processo di accumulazione creativa, nel
senso che le grandi imprese stabilite sul mercato innovano sulla base della
conoscenza accumulata fino a quel momento.
- L’innovazione è un processo ad esito incerto
- L’innovatore ha razionalità limitata in quanto non è possibile calcolare esattamente una
soluzione ottimale
- L’innovazione non si distribuisce in modo uniforme nel tempo e tra i settori.
Gli studi di Schumpeter sull’innovazione hanno contribuito a mettere il cambiamento tecnologico al
centro dell’analisi economica.

Alla base del cambiamento tecnologico c’è la conoscenza, ossia la comprensione, elaborazione e
assimilazione delle informazioni che provengono dall’interno e dall’esterno dell’impresa.
Esistono 4 tipi di conoscenza:

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Ø Know what: è la conoscenza dei fatti. Coincide con l’informazione, essendo un insieme
codificato di dati.
Ø Know why: è la conoscenza delle regole che spiegano i fenomeni naturali e il funzionamento
delle cose. Si tratta di conoscenza in parte codificata (esplicita) ma che richiede capacità di
elaborazione e apprendimento da parte degli individui.
Ø Know how: è l’abilità nel fare le cose. È tacita per definizione (ossia consiste nel sapere
posseduto dalle persone che nasce dall’esperienza ed è difficile da trasmettere ad altri).
Ø Know who: è la conoscenza di chi fa cosa. Si tratta di conoscenza in parte codificata ma che
richiede capacità di elaborazione e apprendimento da parte degli individui.
La conoscenza è firm specific, ossia specifica di ogni impresa perché dipende dalle esperienze
accumulate al suo interno. Le esperienze dipendono dalle scelte che l’impresa prende al livello
organizzativo. A tal proposito, le routine organizzative sono regole decisionali e procedure
comportamentali di tipo meccanico e ripetitivo che riguardano tutti gli aspetti operativi della vita
aziendale.

La conoscenza a sua volta definisce l’apprendimento, che è la fonte dell’innovazione tecnologica,


definito come l’acquisizione e accumulazione di nuova conoscenza.
È path dependance in quanto ogni impresa segue una traiettoria di apprendimento frutto della sua
storia.
È firm specific in quanto si trova all’interno di ogni impresa ed è un processo accumulativo che
richiede tempo. È inoltre frutto di diverse attività complementari.
Esistono diversi tipi di apprendimento che sono il prodotto di altre attività: learning by doing (più
si produce più si impara a produrre in modo efficiente); learning by using (nasce dall’utilizzo ripetuto
dei mezzi di produzione); learning by searching (nasce dalle attività dedicate alla creazione di
conoscenza, cioè dalla R&S); learning from interacting (collegato all’interazione a monte e a valle
con fornitori o utilizzatori, ma anche alla cooperazione con altre imprese dello stesso settore).

La ricerca e sviluppo (R&S) è un’attività organizzata da parte dell’impresa finalizzata all’introduzione


di innovazioni tecnologiche.
Possiamo distinguere 3 fasi della R&S:
• Ricerca di base (svolta da università e centri di ricerca, e gratuita): attività di esplorazione
scientifica. Serve ad allargare la base della conoscenza scientifica grazie alle scoperte.
• Ricerca applicata (svolta dall’impresa o acquistata): utilizza la conoscenza scientifica per
inventare nuovi prodotti o processi.
• Sviluppo (svolta dall’impresa o acquistata): attività di ingegnerizzazione dell’invenzione in
un’applicazione industriale.

Il processo di generazione dell’innovazione generalmente segue il modello a catena di Kline e


Rosemberg. L’idea espressa da questo modello è che nel processo innovativo al livello di impresa
- Le relazioni tra fasi sono bidirezionali e la sequenza delle fasi può cambiare (le fasi sono
ricerca, invenzione, sviluppo, produzione, commercializzazione)
- Le innovazioni nascono per soddisfare i bisogni del mercato, e le imprese utilizzano
conoscenze già note e soltanto se queste non bastano le imprese investono in R&S.
La sequenza centrale è il cuore del processo d’innovazione tecnologica, che parte
dall’individuazione di un bisogno, passa attraverso il design analitico, poi quello di dettaglio, poi si
trasforma in innovazione, che viene poi distribuita sul mercato.
In ognuna di queste fasi possono esistere flussi bidirezionali con la ricerca, che innescano un
cambiamento nelle conoscenze delle imprese.

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Infine esistono i feedback che dalle fasi a valle forniscono utili indicazioni per le fasi più a monte.

Un elemento importante per incentivare le imprese ad intraprendere investimenti in innovazione


tecnologica è il grado di appropriabilità dei risultati dello sforzo innovativo.
Tuttavia la conoscenza generata ha caratteristiche che la rendono un bene quasi pubblico in quanto
è non rivale e parzialmente non escludibile. Un bene è non rivale se il suo utilizzo da parte di un
individuo non riduce la possibilità di utilizzo da parte di un altro individuo. Un bene è non escludibile
se non è possibile impedirne l’utilizzo.
In queste circostanze, si crea un problema di scarsa appropriabilità e quindi di scarso incentivo ad
intraprendere attività di ricerca. Lo stato può incentivare l’attività di ricerca scientifica sussidiando
la R&S delle imprese, proteggendo l’invenzione trasformando la conoscenza in un bene privato
attraverso i brevetti, sostituendo la R&S privata con quella pubblica.

È possibile misurare l’innovazione tecnologica delle imprese attraverso


- indicatori di input innovativo, ossia le fonti di innovazione. Gli indicatori più utilizzati sono
gli addetti dedicati alla R&S e la spesa in R&S. Questi indicatori hanno però problemi di
sottostima del reale sforzo innovativo.
- indicatori di output innovativo, ossia l’esito del processo di innovazione tecnologica. Gli
indicatori più utilizzati riguardano i brevetti, in particolare il numero di brevetti depositati e
il numero di citazione per i brevetti depositati. Questi indicatori hanno però problemi di
corretta misurazione del fenomeno.

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Funzioni di costo – LEZIONE 14
L’andamento dei costi unitari in funzione delle quantità prodotte evidenzia le variazioni delle
quantità degli input al variare della produzione e le variazioni dei loro prezzi. Ciò può essere
rappresentato dagli isoquanti di produzione, che sono la proiezione sul piano K, L di una quota del
livello della superficie di produzione, corrispondente a dati valori di K, L. L’isoquanto corrisponde
alla massima efficienza tecnicamente raggiungibile per ogni valore e combinazione di K, L.
I prezzi relativi invece sono rappresentati dalla retta di isocosto, che definisce il costo totale degli
input.
La combinazione che minimizza i costi è rappresentata dal punto di tangenza tra l’isoquanto e la
retta di isocosto più bassa.

Nel lungo periodo la capacità produttiva si amplia e ci saranno molti isocosti e isoquanti che formano
un sentiero di espansione delle imprese, che definisce la soluzione efficiente per ogni livello di
input.
Le singole curve di costo unitario (Cu) che corrispondono alle possibili scale produttive possono
essere rappresentate in sequenza. L’inviluppo di queste curve è la curva dei costi unitari di lungo
periodo (Culp). Questa curva ha un punto di minimo detto dimensione ottima minima (DOM), in cui
le imprese raggiungono un valore di input per unità di output che è il minimo possibile data la
tecnologia disponibile. Inoltre la Culp è tangente a tutte le curve di costo e consente di
rappresentare graficamente le economie di scala (è la relazione tra aumento della scala di
produzione e diminuzione del costo unitario del prodotto). Oltre una certa quantità prodotta non si
può più produrre se non a costi unitari maggiori, perciò la Culp implica anche diseconomie di scala.
Se interpretiamo la Culp in senso temporale, come effettivo percorso dell’impresa che si espande,
allora essa coincide con il sentiero di espansione.
Definire la scala di produzione significa scegliere quali impianti con dimensioni diverse utilizzare per
la scala di produzione; questo implica che le economie di scala sono un concetto statico.
I costi unitari di lungo periodo si possono ridurre come conseguenza di rendimenti di scala crescenti
oppure come conseguenza di economie di dimensione (ovvero prezzi più bassi associati all’acquisto
di volumi maggiori di input). Le economie di dimensione possono spostare la curva dei prezzi relativi
(K e L), rendendoli quindi endogeni alla variazione della dimensione.
Se la Culp ha un tratto ascendente a destra del punto DOM significa che ci sono diseconomie di
scala: cioè i costi unitari possono essere crescenti anche nel caso in cui non ci siano vincoli nella
disponibilità dei fattori produttivi. Affinché questo avvenga deve esserci una teoria che dimostri che
l’aumento della scala di attività comporta l’emergere di inefficienze produttive, anche se in generale
non c’è ragione per ritenere che ci siano rendimenti decrescenti di lungo periodo. In generale la
Culp a destra del punto DOM si può considerare graficamente orizzontale.
Per quanto riguarda la rappresentazione grafica della curva Culp, visto che in realtà la tecnologia è
discontinua la curva è rappresentata “a festoni”. Se l’impresa non ha una domanda tale da saturare
un impianto più grande (ovvero se la domanda non è tale da far raggiungere il punto DOM) l’impresa
si trova di fronte a una scelta:
- deve rinunciare a una quota di mercato
- aumenta la produzione ma a costi crescenti subendo una compressione dei margini di
profitto
- compra un impianto più grande e lo fa lavorare in modo sub ottimale producendo ad un
livello inferiore a quello della dimensione ottima minima (DOM).
Le economie di scala possono essere misurate attraverso:
- analisi statistica, con un confronto dei costi medi effettivamente sostenuti da imprese di
diversa dimensione

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- stime ingegneristiche, basate sulla valutazione di manager, ingegneri, ecc.
- metodo della sopravvivenza, secondo cui esiste una fascia dimensionale di impresa ottimale
e le imprese che appartengono a questa fascia aumentano nel tempo l’output prodotto. Si
misurano le variazioni delle quote di output nel tempo, calcolate per diverse fasce
dimensionali e si verifica l’esistenza della concentrazione.
Le economie di scala possono essere valutate valutate a livello di prodotto specifico, di impianto
specifico, di impresa. La struttura dei costi unitari va riferita a un oggetto di indagine diverso.
Quando ci si riferisce all’intera impresa e si tratta di imprese multiprodotto possono verificarsi le
economie di gamma/di varietà/di scopo: si hanno quando il costo totale della produzione
congiunta di due beni è inferiore della somma dei costi se i beni fossero prodotti separatamente.
Esiste una dimensione dinamica dei rendimenti crescenti a livello di impresa, rappresentata dalle
curve di apprendimento, secondo cui il livello dei costi è funzione della produzione cumulata in
quanto facendo sempre le stesse cose si impara a farle sempre meglio. In questo caso si verifica lo
spostamento della funzione di costo nel tempo, e non più spostamenti lungo le funzioni di costo. Si
tratta quindi di un concetto dinamico e non più statico: nel modello statico venivano comparate
diverse funzioni nello stesso istante, mentre nel modello dinamico si confronta una stessa funzione
a diverse date nel tempo.

INTEGRAZIONE VERTICALE
Con l’integrazione verticale l’impresa integra all’interno della propria attività un maggior numero di
passaggi intermedi necessari per l’ottenimento del prodotto.
Analizzando l’integrazione solo dal punto di vista dei costi, è importante il trade off tra economie di
scala e flessibilità dell’impresa: la grande dimensione può comportare una riduzione dei costi ma
anche un loro eccessiva rigidità (ossia un’incidenza dei costi fissi sul totale troppo elevato).
Il grado di integrazione è influenzato dalla struttura dei costi e dalla domanda.
L’attività di un’impresa è composta da fasi produttive diverse, ciascuna con una propria struttura di
costo che può essere diversa dalle altre (nel senso che il punto DOM di una curva Culp può
coincidere casualmente o meno con quello di un’altra curva). Di conseguenza tenere insieme tutte
le linee di produzione all’interno dell’impresa necessita di molta efficienza dal punto di vista dei
costi, e la convenienza a tenere dentro l’impresa una fase produttiva dipende da dove si colloca il
suo punto di dimensione ottima minima (DOM).
Se la quantità si trova a sinistra del punto minimo dei costi unitari della produzione, ossia il Cu è
maggiore di quello minimo possibile, dal punto di vista economico può convenire esternalizzare
(outsourcing) quella fase. Esternalizzare significa decidere di comprare anziché produrre l’output di
quella fase.
Esternalizzare è conveniente quando
- la produzione è appaltata a un fornitore che riesce a raggiungere un livello di costi inferiore
a quello dell’impresa
- chi produce lo fa per molti clienti e quindi produce tanto da superare il punto di dimensione
ottima minima (DOM) di quella fase. Questo secondo caso è stilizzato da Stigler: se la Cu di
un’impresa è l’insieme di tante Cu quante sono le fasi di produzione ed esse sono separabili,
l’impresa può abbandonare una fase in cui si trova al di sotto della quantità di dimensione
ottima minima (DOM) e lasciare quella fase ad un’altra impresa che può specializzarsi in
quella funzione. Affinché questo accada è necessario che il mercato sia grande abbastanza.
La convenienza è influenzata da 3 determinanti: la prima è l’espansione del mercato, la seconda è il
grado di rigidità dei costi (determinata dalla pendenza della Cu a destra e sinistra), la terza è il grado
di incertezza della domanda.

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Il grado di integrazione verticale si misura con l’indice di Adelman, che consiste nel rapporto tra
valore aggiunto e produzione a prezzi costanti. Questo indice è tanto maggiore quanto più l’impresa
è integrata (se l’impresa è molto integrata vuol dire che il ricorso ad acquisti esterni è molto basso);
viceversa, tanto più l’impresa delega una linea produttiva all’esterno tanto più il valore dell’indice è
basso.

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Natura e confini dell’impresa. Il paradigma Coase-Williamson e i costi di
transazione. L’integrazione verticale e il principio di autorità. Mercato, gerarchia e
forme intermedie. – LEZIONE 15
Paradigma Coase – Williamson
Secondo la teoria dei costi di transazione elaborata da Coase, il coordinamento dell’attività
economica può essere
• affidato al mercato, dove l’attività produttiva è svolta da molti agenti che si coordinano tra
di loro attraverso il meccanismo dei prezzi
• svolto all’interno dell’impresa, dove vale il principio di autorità; questo tipo di
coordinamento è definito tramite la gerarchia.
Per Coase il mercato è il modo attraverso cui organizzare le transazioni (ricorso al mercato =
esternalizzare = decidere di acquistare anziché produrre); ma il ricorso al mercato comporta dei
costi per acquistare il bene e oneri di monitoraggio del mercato. Coase introduce quindi i costi di
transazione/costi di uso del mercato, che sono i costi che devono essere sostenuti per gestire il
processo di acquisto. Quando questi costi diventano troppo alti la produzione del bene viene
internalizzata (integrata).
La soppressione del meccanismo dei prezzi è la soluzione all’inefficienza del mercato: vale a dire che
in quel momento e in quella produzione la soluzione di mercato non è quella più efficiente. Quando
la transazione viene integrata il meccanismo dei prezzi non è più valido. Il coordinamento all’interno
dell’impresa segue un principio diverso che è il principio di autorità.
Nella sua teoria Coase non specifica quando i costi di transazione diventano abbastanza alti al punto
di decidere di integrare. A questo tema che Coase non affronta si propone di rispondere Williamson,
indicando due ragioni che riguardano il comportamento degli agenti (gli agenti sono i soggetti che
sono parte dell’impresa) e tre ragioni che riguardano la natura delle transazioni.
Per quanto riguarda il comportamento degli agenti, Williamson parla di
- razionalità limitata: gli agenti hanno una capacità limitata di ricevere ed elaborare le
informazioni; dunque per quanto essi si sforzino di prendere decisioni razionali non sono in
grado di tenere conto di tutte le possibili situazioni future.
- Opportunismo: gli agenti possono avere degli atteggiamenti opportunistici quando
antepongono i loro interessi personali all’organizzazione delle transazioni
Per quanto riguarda invece la natura delle transazioni, Williamson fa riferimento a
- specificità degli asset (investimenti dedicati): chi effettua un investimento ha forte interesse
a mantenere la relazione perché incorrerebbe in una perdita se decidesse di uscire dal
contratto. Entrambe le parti sono come bloccate dentro il contratto e di conseguenza la
specificità degli asset contribuisce a rendere stabile la relazione di mercato.
- incertezza: se l’ambiente è incerto le imprese preferiranno integrare l’attività al loro interno
piuttosto che avventurarsi in relazioni sul mercato instabili.
- frequenza delle transazioni: maggiore è la frequenza delle transazioni maggiore sarà
l’incentivo a integrare.
Nella teoria di Williamson la decisione di integrare (optare per la gerarchia e non per il mercato)
riduce i costi di uso del mercato dovuti alla razionalità limitata e all’opportunismo, nel caso di
transazioni frequenti che richiedono asset specifici in una situazione di incertezza.

Richardson e la cooperation

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La dicotomia tra mercato e gerarchia non esaurisce lo spettro delle modalità di organizzazione della
produzione e quindi c’è qualcosa che sta tra mercato e gerarchia, ovvero esistono altre forme
organizzative.
Infatti Richardson spiega che esiste una terza modalità organizzativa della produzione: si tratta delle
cooperation. Nelle cooperation gli scambi tra imprese di beni intermedi dedicati sono regolati da
accordi contrattuali (collaborazioni) e non dal meccanismo dei prezzi, perché per questo tipo di beni
non esiste una domanda di mercato ma un’unica impresa che è l’unico acquirente. Affinché ciò
avvenga è necessario che le imprese sappiano fare cose diverse ma che possano collocarsi lungo lo
stesso asse verticale della produzione. In questo quadro assumono una posizione centrale le
competenze dell’impresa, a sostegno della tesi secondo cui il modo naturale di organizzare le attività
economiche non è quello del mercato perché le aziende vengono prima di tutto e prima
dell’instaurarsi di una partnership.
Con questo approccio l’unità di indagine si estende all’insieme delle imprese a cui l’impresa è legata
sul piano produttivo attraverso accordi di collaborazione produttiva.

Hybrids
Esistono ulteriori forme ibride di organizzazione della produzione tra imprese legalmente
indipendenti tra di loro su cui un’unica impresa effettua il controllo effettivo. Le forme ibride sono
difficilmente classificabili.

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L’impresa come coalizione di soggetti e come organizzazione. Da Berle e Means al
“managerialismo”: i contributi di Baumol, Williamson, Marris, Galbraith. L’impresa
che “non ottimizza”: il programma di ricerca Carnegie Mellon e i contributi di Simon,
Cyerth, March. – LEZIONE 16/17
Modelli manageriali
I modelli del comportamento d’impresa sotto descritti si presentano tra gli anni 50 e 60 negli USA
per fornire una risposta al fenomeno della grande impresa managerializzata. Questo tipo di impresa
è guidato da un management autonomo che massimizza funzioni obiettivo in cui i profitti
compaiono solo come vincoli, definisce in modo sequenziale obiettivi parziali, sconta un
adattamento all’ambiente sempre in completo, e pianifica il futuro sulla base di previsioni che
devono essere continuamente riviste. Tutto questo è in contraddizione con la microeconomia
marginalistica.
marginalista
Le teorie manageriali assumono che le imprese grandi crescano per loro natura più delle imprese
piccole.

BERLE E MEANS
Secondo Berle e Means l’impresa era di proprietà di singoli individui ed è stata sostituita da grandi
aggregati, le public company, la cui proprietà è diffusa ad azionisti. Questo modello è definito
modello americano perché viene osservato negli USA negli anni 20.
Berle e Means sottolineano la separazione della proprietà (azionisti) dal controllo (manager) che fa
emergere la possibilità di un comportamento discrezionale da parte dei manager, cioè un conflitto
strutturale dovuto alla divergenza di obiettivi tra proprietà e controllo.
Prima di Berle e Means, Rathenau era giunto a questa stessa conclusione in Germania.
Il formarsi di una classe dirigente autonoma rispetto ai titolari del potere fa si che si verifichi una
autonomizzazione dei manager, a cui Burnham da il nome di rivoluzione manageriale. Questo
fenomeno segna il passaggio dalla società capitalistica alla società manageriale.

MODELLO DI BAUMOL
Baumol concepisce il profitto come un vincolo che deve garantire il consenso della proprietà. Il
management concentra i suoi sforzi nella massimizzazione del fatturato sotto il vincolo di un tasso
di profitto minimo.
Per Baumol il livello di output che massimizza le vendite (in cui il ricavo marginale = 0) può essere
diverso dal punto in cui si massimizza il profitto totale (dove profitto marginale = 0).
L’impresa trova il suo equilibrio in funzione del livello minimo di profitto che gli stockholder sono
disposti ad accettare. Quindi dipende tutto dal livello di profitto che accontenta gli stockholder, ma
non c’è un criterio economico che definisce quale è esattamente il punto in cui gli stockholder sono
soddisfatti. Perciò non c’è un modo per determinare il vincolo, né una teoria che spiega come
manager e stockholder interagiscono.

MODELLO DI WILLIAMSON
Williamson basa la sua teoria sulle stesse premesse dei modelli di Berle e Means e di Baumol:
separazione della proprietà dal controllo, profitto concepito come un vincolo, razionalità degli
agenti, funzione di utilità autonoma dei manager la quale può essere scritta come U = f (S, πd)
Dove l’utilità è funzione di s = spese per lo staff dirigente e πd = quota dei profitti gestita
discrezionalmente dal management.
L’ampiezza di πd è funzione inversa del grado di concorrenza: può esserci discrezionalità solo in
assenza di una forte concorrenza nel mercato del prodotto e dove la separazione della proprietà dal

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controllo è sostanziale. Viceversa in condizioni di concorrenza perfetta il modello converge agli
stessi risultati di un modello basato su ipotesi di massimizzazione del profitto.
Il modello di Williamson è dunque un modello che analizza imprese medio grandi, con molto potere
di mercato e con un management autonomo, che caratterizzano l’industria americana.

Graficamente il modello può essere


rappresentato con le curve di indifferenza
manageriale per cui ad ogni livello di output la
combinazione delle spese per i dipendenti e dei
profitti discrezionali è per i manager indifferente;
viene poi definita la relazione funzionale tra
come varia il profitto discrezionale (πd) in
rapporto al variare della spesa per lo staff (S),
assumendo che le imprese spingano l’output fino
al punto in cui i ricavi marginali siano uguali ai
costi marginali, in modo che risultino crescenti sia
il profitto discrezionale sia le spese per lo staff. Oltre quel punto le spese per lo staff (S) continuano
ad aumentare mentre il profitto discrezionale (πd) tende a decrescere. L’equilibrio si trova nel punto
in cui la funzione del profitto discrezionale è tangente alla curva di indifferenza manageriale più alta,
cioè a destra del punto di massimizzazione del profitto discrezionale (πd), dove il management
preferisce sacrificare una quota del profitto discrezionale all’aumento delle spese per lo staff (S). Le
spese per lo staff (S) sono sempre superiori al livello che corrisponde alla massimizzazione del
profitto discrezionale (πd).

MODELLO DI MARRIS
Marris elabora un modello di comportamento dell’impresa basato su una microeconomia
alternativa in contrapposizione alla microeconomia marginalista. Il suo studio parte dalla premessa
che proprietà e controllo nell’impresa sono separati e introduce una funzione di utilità autonoma
dei dirigenti. Inserisce tra le determinanti del comportamento d’impresa anche variabili finanziarie
in modo che siano incorporate nel processo decisionale dell’impresa anche le sue politiche
finanziarie, considerate come uno strumento strategico.
L’impresa definita da Marris interagisce con il mercato dei suoi prodotti attraverso la leva dei prezzi,
ma anche con il mercato dei capitali e con le istituzioni finanziarie.
Questo modello tratta quindi una realtà più complessa e più realistica, in quanto viene costruita una
teoria completa della grande impresa in cui sia il suo assetto finanziario sia quello reale hanno un
ruolo determinante.
L’analisi si applica alla società per azioni (joint stock company) la cui proprietà è contendibile sul
mercato dei capitali.
La funzione di utilità dei manager è espressa come Um = f (Gd)*s
Dove
Gd = crescita della domanda
s = parametro che misura il grado di sicurezza della posizione assunta all’interno dell’impresa.
à l’utilità dei manager è funzione della crescita dell’impresa, cui corrispondono crescenti
remunerazione, potere, prestigio sociale. Ma il conseguimento di questo tipo di benefici sconta un
vincolo relativo alla sicurezza della posizione raggiunta.
La sicurezza può essere minacciata dal fatto che il valore di mercato dell’impresa in relazione al
valore dei suoi asset scenda sotto il livello che la protegge da un’acquisizione ostile. Primo elemento

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fondamentale, che ha il compito di assicurare la stabilità dell’attuale proprietà, dunque è quello di
instaurare una politica che mantenga stabile il valore di mercato dell’impresa.
Altro elemento fondamentale del modello di Marris è la domanda. Per Marris la domanda non è
esogena e la curva di domanda può essere spostata. L’impresa non è passiva ma svolge un ruolo
attivo nel modificare l’ambiente dal lato dalla domanda: per diventare più grande deve diversificare
la produzione perché senza diversificazione non c’è crescita; ma la diversificazione ha un costo
perché richiede costi di R&S, spese di promozione, ma anche perché è funzione del tasso di successo
delle nuove iniziative.
Essendo lo sviluppo funzione della diversificazione, graficamente le curve di sviluppo sono curve
crescenti ma asintotiche. Al crescere delle curve lo sviluppo è maggiore e i profitti minori (> spese
vendita, < successi).
Nella sua teoria Marris si serve del vincolo Penrose, legato alla velocità con cui la disponibilità di
risorse manageriali possono aumentare. Questo vincolo fa sì che al crescere della diversificazione il
rapporto K/Y aumenti esponenzialmente.
Nel tempo si pone un problema di compressione della più importante fonte di finanziamento (cioè
i profitti non distribuiti) dovuto al fatto che al crescere del tasso di sviluppo (che dipende dalla
diversificazione) il tasso di profitto in un primo momento aumenta ma poi diminuisce; questo
comporta a sua volta una contrazione del tasso di distribuzione degli utili dell’impresa che tende a
far diminuire il prezzo delle azioni. Questo fenomeno è misurato dal rapporto di valutazione, anche
detto valuation ratio = valore di mercato/valore contabile.
L’impresa potrebbe o emettere nuove azioni per finanziarsi, ma in questo caso il rischio che cambino
gli equilibri proprietari crescerebbe e si ridurrebbe il livello di sicurezza del management, oppure
aumentare l’indebitamento, ma anche in questo caso c’è la possibilità che si verifichi un effetto leva
negativo.
L’esistenza di un vincolo finanziario dipende negativamente dal grado di indebitamento e dal tasso
di distribuzione dei profitti.
I profitti non determinano in maniera diretta le strategie del management e, diversamente da
quanto teorizzato da Baumol, non c’è un vincolo legato alla soddisfazione degli stockeholders ma
uno che agisce indirettamente attraverso l’effetto negativo che un volume troppo basso di dividendi
può avere sulla valutazione di mercato dell’impresa. Questo può far scendere l’impresa al di sotto
del valore contabile del suo capitale (ciò che interessa ai proprietari) incentivando una scalata
dall’esterno attraverso un cambio di proprietà che probabilmente porta alla sostituzione del
management.
Le strategie del management non sono condizionate dagli attuali proprietari dell’impresa ma da
quelli nuovi potenziali che potrebbero prendere il controllo dell’impresa.
Il tasso di crescita dell’impresa compatibile con un rapporto di valutazione che garantisca la
sicurezza dei manager è quello per cui il tasso di crescita del fatturato (Gd) è uguale al tasso di
crescita dell’offerta di capitale (Gc) à G* = Gd = Gc, e graficamente è definito dall’intersezione delle
curve di sviluppo e dell’offerta di capitale.
Per Marris quindi l’impresa è guidata da due obiettivi: la crescita e la sicurezza rispetto al rischio di
cambio di proprietà. Il suo modello può considerarsi dinamico perché l’obiettivo è la
massimizzazione della crescita, che però risulta incompatibile con la massimizzazione del profitto. Il
profitto svolge semplicemente un ruolo strumentale al conseguimento dei due obiettivi.
I manager svolgono quindi il ruolo fondamentale di gestire l’incompatibilità tra la massimizzazione
della crescita e la massimizzazione del profitto.

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GALBRAITH
Galbraith formula un’idea di stato industriale guidato dalle grandi società (large corporation), in cui
sono le grandi organizzazioni produttive a decidere cosa produrre e non più il consumatore.
Le grandi organizzazioni produttive, in quanto gruppidisoggetti, prendono da Galbraith il nome di
technostructure. Questo diventa il soggetto dominante nel sistema produttivo, che decide in modo
autonomo attraverso la pianificazione i costi, i prezzi, i ricavi e i profitti.
In questa visione si mette da parte la microeconomia standard e la massimizzazione del profitto.
Galbraith pone particolare attenzione sulla struttura della grande impresa manageriale americana
che deve cambiare organizzazione in ragione della sua dimensione. Questa organizzazione è sempre
meno condizionata da vincoli di mercato della concorrenza e ha sempre maggiore controllo sulla
domanda e sull’offerta.

I principali attori del programma di ricerca del Carnegie Institute of Technology sono stati Simon,
Cyert e March:
SIMON
Simon parla di bounded rationality (razionalità limitata) perché nel mondo reale non sempre
l’equilibrio può essere raggiunto in quanto il comportamento delle imprese è fortemente vincolato
da limiti di informazione e di capacità di calcolo che rendono impossibile trovare soluzioni ottimali.
In questa circostanza, come visto anche con Coase, le organizzazioni seguono regole diverse da
quelle del mercato. Ma c’è una differenza importante:
- per Coase il modo naturale di organizzare le transazioni è il mercato, mentre l’impresa
interviene solo per gestire attraverso il principio di autorità le transazioni che il meccanismo
dei prezzi rende troppo costose.
- Per Simon l’impresa è il modo naturale di organizzare le transazioni, e la maggior parte delle
transazioni avvengono all’interno dell’impresa piuttosto che sul mercato. Sono i dipendenti
a produrre.
Secondo Simon le imprese sono caratterizzate al loro interno da contratti di lavoro
incompleti e il comportamento effettivo dei dipendenti è funzione di un complesso di
variabili; questo implica che i dipendenti di un’organizzazione non si comportano tutti allo
stesso modo.
Ci sono inoltre 4 ragioni che tengono i dipendenti all’interno dell’impresa e che garantiscono
che essi lavorino efficientemente:
1) autorità: i dipendenti si impegneranno tanto più nel loro impiego quanto più saranno
motivati dal vertice
2) ricompensa: la remunerazione conta ma è difficile misurare il contributo specifico di ogni
singolo individuo
3) lealtà: gioca un ruolo importante in questo ambito l’identificazione con gli obiettivi
dell’impresa, ovvero l’assunzione di responsabilità per i risultati aziendali anziché seguire
semplicemente le regole
4) coordinazione: le organizzazioni favoriscono forme di coordinamento potenti e dirette. I
contratti effettivamente stipulati tra imprese richiedono un grande scambio di
informazioni tra le parti che rendono la transazione attraverso il mercato spesso
inefficiente.

CYERT E MARCH

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Cyert e March parlano di comportamentismo: si tratta del fatto che l’organizzazione è una
coalizione di soggetti che hanno ordini di preferenze diversi e l’impresa paga i membri della
coalizione che sono in conflitto tra loro.
Questo meccanismo causa un aumento eccessivo delle spese che sarebbero sufficienti per far
funzionare l’organizzazione e viene definito da Cyert e March organizartional
organizational slack (OS). L’OS misura
un grado di inefficienza dovuto dalla natura stessa dell’organizzazione, che svolge una funzione di
stabilizzazione importante per trarre risorse quando l’impresa è in difficoltà.
Come visto anche con Simon, l’impresa risponde ogni volta a problemi urgenti prendendo decisioni
in modo sequenziale in modo che la decisione successiva sia condizionata da quella precedente. La
ricerca di informazioni avviene quindi ogni volta per stadi successivi come risposta al problema
specifico che deve essere affrontato in quel momento finché la politica adottata produce risultati
soddisfacenti.

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Ulteriori prospettive teoriche sull’impresa e la sua scala produttiva – LEZIONE 18
Kaleki e la teoria del rischio crescente
La teoria di Kaleki si basa sull’idea che lo sviluppo dell’impresa sia vincolato dalla disponibilità di
capitale imprenditoriale.
Kaleki assume che esista un imprenditore che vuole massimizzare il suo profitto che fisserà il livello
del suo investimento al livello in cui il tasso marginale di profitto è uguale alla somma del tasso di
interesse (8) e del tasso di rischio (9). Se questa somma (8 + 9) è costante, l’ammontare del capitale
investito può essere limitato soltanto dal fatto che oltre un certo livello dell’investimento il tasso di
profitto cade.
(L’impresa infatti quando investe sul terreno produttivo procede per integrazione verticale e così
facendo prende a carico una quota di costi fissi. Quindi se il rischio fosse costante rispetto alla scala
produttiva, l’impresa sarebbe spinta a espandersi all’infinito e l’unico vincolo che limita la sua
espansione può essere il fatto che oltre un certo livello il tasso di profitto inizia a decrescere.)
Nella realtà le imprese non investono illimitatamente perché vanno incontro ad un limite che
dipende da diversi fattori esogeni. Alcuni di questi fattori che spiegano la relazione negativa tra
investimento e rendimenti sono le diseconomie di dimensione e la concorrenza imperfetta. Secondo
Kaleki le diseconomie di scala riguardano solo le gradi imprese industriali che hanno una dimensione
molto maggiore delle imprese considerate “normali”, mentre la concorrenza imperfetta può essere
valida solo quando si parla di un ambito definito; quindi la spiegazione agli investimenti limitati delle
imprese va cercata in altre ragioni. Il limite alla capacità di diversificare, per Kaleki, risiede nel grado
di rischio che è direttamente correlato alla scala di investimento. Maggiore è l’investimento
maggiore sarà la contrazione del reddito che l’impresa ricava dal suo capitale quando il tasso di
profitto cade al di sotto del tasso di interesse, quindi la curva del tasso di profitto non è decrescente
al crescere dell’investimento ma è orizzontale (a indicare che i rendimenti sono costanti) mentre la
curva che rappresenta la somma del tasso di interesse e del grado di rischio che è crescente.
L’idea di Kaleki è che il limite all’espansione dell’impresa sta nella disponibilità di capitale proprio,
infatti il limite è dato dal rischio crescente implicato nell’indebitamento che espone l’impresa a un
effetto leva negativo nel momento in cui il livello dei profitti scenda al di sotto del tasso di interesse.
Con questo concetto Kaleki spiega anche perché ci siano imprese che hanno diverse dimensioni. Il
livello dei profitti svolge quindi un ruolo rilevante perché è grazie ad essi che l’imprenditore è in
grado di ampliare le dimensioni del suo capitale e di finanziare l’investimento senza ricorrere
all’indebitamento.

Robinson e la complessità organizzativa


Robinson si concentra sul ruolo che svolgono i fattori che agiscono internamente dal lato
dell’offerta. Il suo obiettivo è fornire una spiegazione economica per cui mano a mano che la scala
aumenta l’espansione è frenata da un vincolo endogeno.
Questa teoria parte dal presupposto che la difficoltà di organizzare un’attività cresce più che
proporzionalmente all’aumentare della sua scala.
Le imprese in quanto organizzazioni necessitano di un’architettura amministrativa che deve essere
ridisegnata quando si espande la scala di attività. Ma la costruzione di un’architettura
amministrativa richiede risorse specifiche ed ha un grado di difficoltà che è funzione crescente della
scala delle attività svolte.
La complessità viene definita in termini di numero di variabili che sono considerate rilevanti per la
gestione dell’impresa. Più è grande il numero di variabili rilevanti maggiori saranno le informazioni
e i relativi costi, chiamati costi di gestione dell’organizzazione (questi costi sono l’opposto dei costi
di transazione di Coase, anche detti costi di gestione del mercato). All’aumentare della scala di
attività aumentano anche i costi di gestione dell’organizzazione.
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Il modello di Robinson si basa anche su un altro presupposto secondo il quale la funzione produttiva
non è l’unica a definire l’insieme di attività di un’impresa; quest’ultimo è infatti compiutamente
definito quando l’organizzazione è rappresentata da un complesso di funzioni.
Quando la scala delle attività si espande l’impresa affianca alla funzione produttiva ulteriori funzioni
aziendali orientate al mantenimento e al miglioramento dell’organizzazione.
Il problema più rilevante per l’impresa è dunque quello di tenere insieme le sue parti all’aumentare
della scala produttiva, evitando così che l’ingresso di nuove attività e una maggiore complessità la
destabilizzi.
Quindi l’espansione delle dimensioni dell’impresa comporta un cambiamento della sua
organizzazione interna, dovuto al fatto che all’impresa si presentano delle opportunità di sviluppo
e la scelta di cogliere queste opportunità chiama l’impresa ad inventare una nuova organizzazione
adatta a sostenere il cambiamento. Ciò implica anche che le proporzioni tra le parti dell’impresa
cambino e che si realizzi uno spostamento di risorse verso l’area amministrativa. Questo modello
può essere considerato uno dei modi possibili di interpretare la relazione tra “managerializzazione”
e scala produttiva, per cui l’espansione della funzione amministrativa è considerata una quota
crescente dell’espansione dell’impresa stessa.

Penrose e il vincolo manageriale


Affinché avvenga la crescita è necessario che ci sia un eccesso di risorse manageriali nel momento
in cui si manifesta l’opportunità di espandersi. Queste risorse emergono dall’accumularsi di un
sapere collettivo in una determinata impresa e la loro assenza nel momento del bisogno rende
impossibile una crescita efficiente. Penrose evidenzia così il trade off esistente tra crescita e
efficienza.
Il sapere collettivo implica che all’interno dell’impresa sia presente un gruppo di individui che ha
maturato un’esperienza di lavoro comune. Ne deriva che l’impresa dispone di risorse uniche che
misurano il suo vantaggio competitivo rispetto alle altre imprese e la dotazione di risorse
manageriali costituisce un limite all’espansione nel breve periodo in quanto questo tipo di risorse
matura lentamente all’interno delle imprese e prima che diventi efficiente occorre tempo (le risorse
manageriali non possono essere quindi acquistate all’esterno da un momento all’altro).
Il vincolo è quindi firm specific e quindi le risorse differiscono tra le imprese in quanto derivano dalla
conoscenza e dalle esperienze delle singole imprese e maturano con tempi diversi. Questo spiega
perché non tutte le imprese crescono e non tutte nella stessa misura e allo stesso tempo. Le imprese
hanno possibilità di crescita differenti.

Sah e Stiglitz, gerarchia e poliarichia


Parlando di gerarchia e poliarchia si fa riferimento ad uno schema suggerito da Sah e Stiglitz, che
afferma che in un sistema economico ci sono un insieme di agenti che accettano o rifiutano progetti.
I progetti possono essere “good project” se contengono idee profittevoli, oppure “bad project” se
generano risultati economici negativi.
Chi prende le decisioni inevitabilmente è esposto al rischio di poter commettere valutazioni errate
e dunque di compiere scelte sbagliate: progetti che dovrebbero essere accettati vengono rifiutati e
viceversa.
Un sistema evolve in positivo quanto minore è la % di bad project accolti e quanto maggiore è la %
di good project realizzati.
Le architetture che descrivono come gli agenti prendono le loro decisioni e come vengono trasmesse
le informazioni sono:
- La POLIARCHIA è composta da piccole organizzazioni di piccole dimensioni che selezionano
in forma indipendente l’una dall’altra quali progetti accogliere e quali rifiutare.
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Il processo decisionale viene svolto in parallelo e in un arco temporale limitato. Particolarità
di questa modalità di scelta è inoltre che nel caso un progetto venisse rifiutato da
un’organizzazione può essere accolto da un’altra.
- La GERARCHIA è composta da poche organizzazioni (di solito una sola) di grandi dimensioni
che sviluppano all’interno un processo di selezione sequenziale delle opportunità.
Le decisioni finali sono di competenza di un’unica autorità centrale che riceve le valutazioni
di agenti che hanno già espresso un giudizio sui progetti; il processo è quindi articolato in più
fasi sequenziali e richiede più tempo. In ogni fase del processo decisorio possono essere
accettati solo i progetti accolti nella fase precedente e quelli rifiutati sono definitivamente
esclusi e abbandonati.
Nelle modalità di decisione possono essere fatti dagli agenti degli errori di valutazione:
• errore di 1° tipo: rifiutare progetti che dovrebbero essere accolti perché profittevoli
• errore di 2° tipo: accogliere progetti che dovrebbero essere rifiutati perché non sono
profittevoli.
Nella POLIARCHIA (decisioni in parallelo) la probabilità di errori di primo tipo è minima perché
un’idea rifiutata da un primo agente può essere accolta da un altro agente; il rischio sta anzi nel
fatto che potrebbero essere accolti numerosi “bad project” (errore di 2° tipo).
Nella GERARCHIA (selezione sequenziale) è ridotto il rischio dell’errore di 2° tipo, ma è più alto
invece il rischio che vengano rifiutati progetti profittevoli per la divergenza di opinioni tra gli agenti
chiamati a decidere (errore di 1°tipo).
La POLIARCHIA è preferibile quando il numero dei “good project” supera quello dei “bad project”.
La GERARCHIA è più conveniente invece quando il portafoglio di progetti è mediamente scadente,
cioè la proprozione di good project sul totale è bassa, e quindi la gerarchia seleziona meno progetti
e li valuta più approfonditamente uno ad uno.

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L’impresa come insieme di saperi accumulati. La competence perspective e
l’approccio evoluzionista. L’eterogeneità delle imprese – LEZIONE 19

La fase industriale del secolo scorso si concentrava sul core business. Le imprese infatti cercavano
di ridurre i costi fissi attraverso la selezione di attività che consideravano non strategiche. Questo
processo ha avuto molteplici conseguenze:
- aveva spostato fuori dalle imprese molte competenze, facendo così diminuire le dimensioni
ma anche i saperi che venivano distribuiti lungo le catene di fornitura e alimentando una
crescita dei mercati intermedi.
- aveva dato vita ad una frammentazione eccessiva delle catene di fornitura e ad una
inadeguatezza nel rispondere alla domanda finale che era sempre più articolata. Ai fornitori
importava principalmente di essere in grado di assicurare flessibilità di costo.
Nel mentre i mercati a valle erano diventati più esigenti e richiedevano una produzione intermedia
di qualità, più veloce e più flessibile nella capacità di passare da un prodotto all’altro (quindi non
soltanto caratterizzata da flessibilità di costo).
A partire da questo secolo si verificano dei cambiamenti:
- le imprese tornano a concentrarsi sullo sviluppo dei loro saperi interni
- si passa dalla riduzione della rigidità dei costi ad una logica di investimento permanente
orientato all’aumento dell’output nel lungo periodo.
Il fulcro della questione è l’eterogeneità, in quanto l’attenzione sulle competenze produttive come
elemento di differenziazione tra imprese implica che le imprese non sono tutte uguali e non
reagiscono tutte allo stesso modo e la loro competitività è funzione della natura delle competenze
detenute e non è funzione del livello dei costi. Ciò pone nuovamente al centro dell’attenzione
l’analisi dell’impresa intesa come organizzazione produttiva e di quello che rende ogni impresa
diversa dalle altre.
Questo approccio si fonda sull’idea che le imprese non sono tutte uguali e si differenziano tra loro
grazie a una diversa dotazione di competenze possedute al loro interno. La dotazione di competenze
è frutto di un processo di accumulazione di conoscenze di tipo path-dependent.
Il ritorno alla visione dell’impresa basata sulla sua funzione produttiva avviene attraverso diversi
approcci teorici quali: Resource Based Theory of the Firm, Dynamic Capabilities Theory, Knowledge
Based Theory. Questi approcci sono racchiusi nella Competence Perspective (CP). Tutte le teorie
appena elencate condividono l’idea che la capacità di competere dell’impresa sia funzione del suo
sapere interno e sono concordi nell’attribuire un’importanza strategica primaria agli asset specifici
dell’impresa che sono legati alla conoscenza e sono intangibili, taciti e difficili da scambiare.
Questa prospettiva si differenzia dalla microeconomia tradizionale e dai modelli manageriali. In
particolare la differenza con la microeconomia neoclassica riguarda l’ipotesi di massimizzazione del
profitto come motore dell’attività di impresa, la logica allocativa del processo produttivo, la
centralità del concetto di equilibrio, l’isolamento dell’elaborazione teorica in un tempo logico
(anziché storico) in cui tutto si svolge meccanicamente. Questa nuova teoria di impresa, invece di
sfruttare ciò che è già conosciuto, ha il compito di scoprire o inventare ciò che è sconosciuto.
I fondamenti teorici di questa visione derivano da:
- PENROSE, che suggerisce un principio della dotazione delle risorse manageriali firm specific.
Questo principio definisce l’impresa, costituita da un gruppo di individui che ha maturato
un’esperienza di lavoro comune. Ne deriva che l’impresa dispone di risorse uniche che
misurano il suo vantaggio competitivo rispetto alle altre imprese e la dotazione di risorse

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manageriali costituisce un limite all’espansione nel breve periodo in quanto questo tipo di
risorse matura lentamente all’interno delle imprese e prima che diventi efficiente occorre
tempo (le risorse manageriali non possono essere quindi acquistate all’esterno da un
momento all’altro).
- RICHARDSON, secondo cui il comportamento delle imprese è definito dalla natura dei
rapporti che esse hanno con altre imprese. Questo comportamento è determinato dalla
specializzazione (ossia dalle competenze relative). La specializzazione implica che l’impresa
abbia al suo interno un capitale già accumulato di conoscenze, che per l’appunto si accumula
seguendo un processo path dependent.
- CYERT E MARCH, NELSON E WINTER elaborano il concetto di routine su cui si basa
l’approccio evoluzionista. Questo approccio si caratterizza per il fatto che le imprese
rispondono ai cambiamenti dell’ambiente adattandosi ad essi; si tratta quindi di un
approccio dinamico che pone al centro dell’attenzione il cambiamento.
Il punto essenziale del comportamento delle imprese sono le routine, definite come
l’immagazzinamento delle specifiche competenze operative di un’organizzazione che
riflettono i saperi degli individui che ne fanno parte. Le routine appartengono all’impresa
nella sua totalità e non sono la somma delle conoscenze degli individui, infatti esse sono
indipendenti dai singoli attori che le eseguono e sono in grado di mantenersi nel tempo
definendo così l’identità dell’organizzazione. Sono inoltre ereditabili e selettive. Includono
tutte le componenti dell’impresa che rendono il suo comportamento prevedibile e
determinano quindi quali opzioni l’impresa cercherà di selezionare.
- L’ultimo fondamento consiste nell’idea che lo sviluppo della conoscenza richiede che
l’impresa sia in grado di gestire la tecnologia che serve a sviluppare i prodotti nel lungo
periodo. Il sapere dell’impresa viene concepito in senso dinamico. Questo punto è
fondamentale perché se il sapere non evolve l’impresa non è in grado di competere nel
tempo. Quindi la capacità di generare apprendimento è lo strumento attraverso cui
l’impresa è in grado di produrre.
Il carattere dinamico delle competenze esclude che un vantaggio competitivo possa
determinare una condizione di equilibrio.
Prahalad e Hamel definiscono le caratteristiche delle core competences:
1. Si tratta di un sapere in grado di consentire un accesso potenziale ad una varietà di mercati
e deve dunque essere un sapere di base
2. Deve essere in grado di dare un contributo significativo ai benefici percepiti dal consumatore
del prodotto finale
3. Deve essere difficile da imitare
Ciò che differenzia il comportamento dell’impresa è la sua capacità di coordinare diverse capacità
di produzione e di integrare molteplici flussi di tecnologie.

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La governance dell’impresa negli approcci neoistituzionalisti: l’impresa come nexus
of contracts e la teoria dell’agenzia. – LEZIONE 19
L’impresa come nexus of contracts
Questa teoria assume che i soggetti che interagiscono tra loro nell’impresa seguono regole identiche
a quelle degli agenti che interagiscono sul mercato. I sostenitori di questa teoria sono Alchian e
Demsetz che affermano che l’impresa sia appunto un nexus of contracts, cioè un insieme di contratti
tra tutti gli agenti che la compongono.
In questa teoria entrambi le parti del contratto (datore di lavoro e lavoratore) hanno lo stesso potere
di decidere liberamente se proseguire la relazione o meno; non c’è quindi un superiore e un
subordinato.
In questo schema il principio di autorità di Coase scompare, così come scompaiono anche le teorie
di Simon che spiegano il funzionamento interno dell’impresa.
L’elemento che rende l’impresa di Alchian e Demsetz un soggetto collettivo è l’idea che si tratti di
un team il cui output è maggiore della somma degli output prodotti individualmente dai suoi
membri.
Il riconoscimento del contributo dei singoli è svolto da un soggetto detto “specialist” che è l’unico
ad avere rapporti con tutti e quindi conosce la remunerazione che spetta a ciascuno. Ciò gli
permette di rivedere i termini dei contratti se necessario, in modo che ciascuno lavori
efficientemente.
Lo specialist ha interesse a svolgere questo ruolo perché la sua remunerazione è ricavata in via
residuale dalla riduzione delle inefficienze dovute ai comportamenti scorretti che si
verificherebbero in sua assenza. La sua figura è assimilabile a quella di un imprenditore/manager
che esercita un potere strutturalmente diverso da quello degli altri, assicurando il funzionamento
dell’impresa con un attento controllo.

Modello principale – agente (teoria dell’agenzia)


Questo modello presuppone l’esistenza di due categorie di soggetti: il principale e l’agente, che
sono legati da un rapporto di lavoro. Il potenziale conflitto tra queste due categorie risiede nel fatto
che l’agente può comportarsi in maniera da non massimizzare la funzione di utilità del principale.
I problemi principali derivano da asimmetrie informative. Questo perché una delle parti dispone di
informazioni di cui l’altra non ne è a conoscenza; ciò può determinare comportamenti
opportunistici. Ne consegue che, se il contratto non ha avuto ancora luogo, si avranno esiti di
selezione avversa. Se invece l’asimmetria informativa si manifesta dopo la stipula del contratto, si
parla di azzardo morale.
Questo modello ha somiglianze con la logica dell’impresa manageriale proposta da Berle & Means,
ovviamente in chiave rivisitata, sottraendole l’assunzione di un comportamento strutturalmente
diverso dell’impresa rispetto al modello marginalista. Nel modello manageriale il management che
guida l’impresa è autonomo, massimizza funzioni obiettivi in cui i profitti compaiono solo come
vincoli, definisce obiettivi di volta in volta parziali e di conseguenza anche l’adattamento
all’ambiente risulta parziale, vive in un tempo “storico” (contrapposto al tempo “logico”) basando il
futuro sulla base di previsioni che devono essere sempre riviste.
Nella teoria dell’agenzia c’è un superamento di alcuni aspetti dell’impresa manageriale. Tutto viene
visto in chiave di una logica ottimizzante. Il problema è capire in che modo il conflitto potenziale
può essere gestito e di conseguenza risolto attraverso meccanismi di enforcement (rinforzo), cioè
attraverso incentivi che minimizzano il comportamento scorretto da parte dell’agente. I costi
impiegati nella gestione del conflitto tra principale e agente sono detti “costi di agenzia”.
Il principale deve sostenere dei costi:

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- per identificare gli incentivi che possono preservarlo dai comportamenti opportunistici
dell’agente
- per controllare l’operato dei manager in modo da poter anticipare i comportamenti
opportunistici
- per la divergenza dei comportamenti effettivamente adottati dall’agente quando questi non
coincidono con quelli che massimizzano la sua funzione obiettivo, nonostante i meccanismi
di enforcement.

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Sviluppo delle imprese: determinanti della crescita e logica del cambiamento
organizzativo – LEZIONE 20
L’espansione della scala di attività di un’impresa può essere intesa:
- in termini della sua crescita (fenomeno che riguarda la dimensione fisica dell’impresa)
- come il complesso di cambiamenti che avvengono nel corso della sua storia e che ne
modificano l’assetto iniziale e ne determinano lo sviluppo.
È importante ipotizzare che la crescita dell’impresa è una variabile casuale non soggetta a fattori di
condizionamento. La crescita dell’impresa può essere quindi spiegata accogliendo il principio
secondo cui la crescita dipende dal caso.
Legge di Gibrat
L’ipotesi di Gibrat parte dalla constatazione empirica secondo cui la distribuzione delle imprese per
dimensione presenta sempre un profilo “J shaped” in un qualunque sistema economico. La
distribuzione è il risultato di un processo stocastico in cui la struttura dimensionale è il risultato di
un lungo periodo di percorsi individuali di crescita da considerarsi casuali.
Gibrat articola la sua legge in 3 postulati:
1) Le cause della variazione dimensionale sono numerose
2) Nessuna delle cause esercita un’influenza prevalente sul fenomeno
3) L’effetto delle cause è indipendente dalla dimensione raggiunta dall’impresa (non esistono
fattori di condizionamento)
Questi tre postulati implicano che il tasso di crescita dell’impresa è random e segue quella che Gibrat
definisce legge dell’effetto proporzionale, secondo cui il tasso di crescita è lo stesso per tutte le
imprese qualunque sia la scala che esse hanno raggiunto.
Nella realtà le imprese non crescono tutte, non crescono sempre, non crescono tutte nella stessa
misura. Per crescere servono infatti delle ragioni e delle intenzioni da parte dell’impresa. Esistono
inoltre 4 tipologie di fattori che disincentivano l’espansione delle imprese:
1) Le imprese non hanno bisogno di crescere (o hanno addirittura convenienza a decrescere)
anche in presenza di un’espansione della domanda.
In molti casi prevale la soluzione di mercato del problema produttivo. L’ambiente esterno
infatti offre soluzioni più efficienti della crescita e conviene di più non integrare la produzione
di cui si ha bisogno. Succede quando il mercato funziona meglio della gerarchia.
Questo fenomeno può essere ulteriormente rafforzato dal ruolo che le istituzioni intermedie
hanno svolto a livello locale (es. camera di commercio locale, l’assessorato alle industrie
locale, l’associazione industriale, la banca locale in cui c‘è grossa conoscenza del territorio).
Queste hanno svolto un ruolo importante nella creazione di beni pubblici appropriabili dalle
imprese.
2) Willingness to grow = L’impresa ha la possibilità di crescere ma chi la guida non vuole
crescere (vincolo interno 1).
Ciò accade per il timore di perdere il controllo dell’impresa nel caso in cui l’espansione
comporti l’introduzione di un management esterno oppure per il piacere della “vita
tranquilla”.
(Kaleki) In particolare quando mancano le fonti di finanziamento l’impresa deve scegliere
tra ampliare il capitale facendo entrare in società nuovi soci, oppure restare così com’è. Se
il manager ha il timore di perdere il controllo della proprietà può rinunciare a crescere.
(Robinson) Anche quando c’è disponibilità di risorse interne generate
dall’autofinanziamento c’è comunque il problema di dover governare un’architettura più
complessa e per farlo servono manager esterni a cui delegare il controllo.

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Infine nel caso del “piacere della vita tranquilla”, in assenza di preoccupazioni, il manager
potrebbe semplicemente non essere interessato a crescere. Infatti secondo la willingness to
grow, la crescita è un atto di volontà.
In questo quadro l’impresa non è un agente passivo come afferma la microeconomia standard.
Affinché ci sia espansione è necessario che ci sia un soggetto a decidere, che attivi un processo e
che risolva dei problemi i quali richiedono risposte creative. La sola decisione di espandere la scala
di attività non porta all’espansione effettiva, ma comporta l’avvio di un processo orientato
all’espansione. L’espansione comporta una modifica dell’assetto produttivo dell’impresa la quale
subisce uno shock.
Per parlare di sviluppo di impresa bisogna partire dal principio secondo cui l’impresa è
un’organizzazione che per funzionare ha bisogno di un’architettura organizzativa gerarchica
regolata dal principio di autorità (secondo Coase e Williamson); non si tratta quindi di nexus of
contracts (come definito da Alchian e Demsetz) o di una semplice funzione di produzione. Il
problema principale da fronteggiare quando ci sono opportunità di crescita è la costruzione di un
set di risorse manageriali che ha il compito di definire dove e come arrivare; non è quindi importante
definire incentivi con meccanismi di enforcement adatti ad evitare conflitti tra soggetti.
3) L’impresa ha la possibilità di crescere ma non è capace di farlo (vincolo interno 2).
Questo è il problema posto da Robinson secondo cui chi gestisce l’impresa potrebbe non
essere in grado di affrontare le complessità che l’espansione comporta. Il grado di
complessità di un’organizzazione cresce esponenzialmente all’aumentare della sua scala e
diventa esponenzialmente più difficile gestirla.
Per gestire questo processo di cambiamento l’impresa deve cambiare la sua forma
organizzativa costruendo un’architettura amministrativa, in modo da svilupparsi come un
insieme di funzioni.
Anche se la complessità di gestire un’impresa cresce con la scala, non significa che le grandi
imprese siano inevitabilmente le più inefficienti.
Esiste però una prospettiva che deriva dalla teoria dell’organizzazione che si ricollega ai
ragionamenti fatti da Berle e Means. Secondo loro se la proprietà dell’impresa è diffusa e
non esiste un gruppo di controllo, chi la governa può perseguire obiettivi propri diversi da
quelli della proprietà (esiste quindi un comportamento discrezionale). Su questa premessa
Downs afferma che l’esistenza della gerarchia determina una perdita di autorità dovuta al
fatto che ad ogni livello della gerarchia gli obiettivi individuali sono diversi da quelli di chi è
sopra all’interno della gerarchia. Secondo questa chiave di lettura appartenente alla teoria
dell’organizzazione, si può pensare che l’impresa più grande sia comunque più inefficiente.
Sempre a partire da Berle e Means e dal comportamento discrezionale è possibile ricavare
anche la tesi managerialista di Williamson, Marris e Galbraith secondo cui l’inefficienza della
grande impresa managerializzata è dovuta a politiche deliberatamente perseguite da chi
controlla l’impresa che massimizza la crescita anziché i profitti; in questo caso il mancato
perseguimento della massimizzazione del profitto non vincola l’espansione, ma è anzi il
presupposto.
Da un punto di vista statico e nel lungo periodo è probabilmente vero che ad una dimensione
maggiore corrisponde un’inefficienza crescente dell’organizzazione, ma questo difficilmente
può essere considerato un limite all’espansione perché le economie sono ancora fortemente
regolate e i vantaggi competitivi statici legati all’esistenza di barriere all’entrata di tipo
oligopolistico permettono l’estrazione di margini di profitto abbastanza alti da assorbire
qualsiasi inefficienza organizzativa.
Come studiato invece da Penrose un vincolo che limita la crescita può verificarsi nel breve
periodo e sul piano dinamico. L’attenzione in questo caso è rivolta alla crescita e al fatto che

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un’insufficiente dotazione di risorse manageriali possa vincolare l’espansione di una precisa
impresa in un preciso momento.
4) Le imprese vogliono e sanno crescere e hanno l’opportunità di mercato, ma sono bloccate
da vincoli esterni, i quali possono essere di natura istituzionale o di natura economica. Al
crescere della scala aumentano anche gli adempimenti obbligatori e le norme imperative da
rispettare.

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SINTESI degli approcci teorici (visti finora) per analizzare l’integrazione verticale:
1) STIGLER
Fa riferimento ai costi di produzione e assume che il grado di integrazione è funzione della misura
in cui l’impresa riesce a minimizzare i suoi costi unitari di lungo periodo in ragione dei volumi di
produzione che riesce a ottenere (ovvero dipende dalla forma e dalla struttura dei costi di
produzione). La tesi di Stigler è che l’integrazione diminuisce quando si espande il mercato.

2) COASE-WILLIAMSON
Il paradigma fa riferimento al fatto che la soluzione di mercato del problema produttivo non è
gratuita: gestire il mercato ha infatti dei costi di cui l’impresa deve tenere conto, e comprare anziché
produrre implica oneri di “gestione del mercato”.
L’integrazione ↑ quanto più:
• è stringente il vincolo della razionalità limitata
• è elevato l’opportunismo
• è elevata la specificità degli investimenti
• sono ricorrenti le transazioni
• è elevata l’incertezza

3) ROBINSON
Secondo Robinson la frammentazione è funzione dell’esigenza di ridurre il grado di complessità
dell’organizzazione per renderla compatibile con una sua gestione efficiente nel caso in cui
l’insorgere di nuovi problemi di contesto determini un incremento verticale della “domanda di
coordinamento” (dei costi di gestione dell’organizzazione).
Quando ↑ l’incertezza (e si inasprisce la concorrenza) l’integrazione ↓

4) SAH E STIGLITZ
Secondo loro la logica del processo decisionale fa sì che se lo spazio per progetti «profittevoli» è
ampio il sistema produttivo si sviluppi attraverso l’aumento del numero delle iniziative
imprenditoriali (poliarchia).
In questo caso il grado di integrazione è funzione inversa della quantità di nuove iniziative che il
sistema produttivo è in grado di generare.

5) PENROSE E RICHARDSON
Si basa sulla teoria dello sviluppo dell’impresa di Penrose e sulla teoria della cooperazione di
Richardson, e riguarda i saperi dell’impresa, ovvero l’esistenza di economie di specializzazione,
ovvero il fatto che:
• internalizzare una fase richiede di disporre delle conoscenze necessarie a gestirla (la cui
acquisizione comporta costi elevati e tempi lunghi).
• alcune cose le sanno fare alcune imprese e non altre.
• il grado di integrazione è una funzione diretta (↑) del carattere “strategico” delle
conoscenze di cui un’impresa dispone: se le conoscenze sono distribuite, sull’integrazione
prevale la cooperation.

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Il grado di integrazione verticale dei sistemi manifatturieri sviluppati nel lungo
periodo. Storia dell’alternativa tra mercato e gerarchia nella soluzione del problema
produttivo. Ascesa e declino della grande dimensione di impresa. Dalla Golden Age
all’era della frammentazione. – LEZIONE 21

Golden Age
Oggetto di studio sono i cambiamenti di lungo periodo che caratterizzano il grado di integrazione
verticale e il ruolo della grande impresa nella manifattura nei sei grandi paesi industriali che hanno
guidato lo sviluppo della manifattura mondiale nel dopoguerra. La Golden Age (periodo che va dal
dopoguerra agli anni 70) è stata la fase in cui questi paesi sono stati caratterizzati da un ruolo
crescente della grande impresa verticalmente integrata.
La fase che segue la Golden Age (e che va dagli anni 70 fino a fine secolo) è chiamata fase della
deregolazione.
Confrontando le caratteristiche della Golden Age con quelle della deregolazione, si nota che:
- la Golden Age era caratterizzata da una crescita forte e stabile, da un'accelerazione della
produttività, da una crescente industrializzazione, bassa inflazione e bassa disoccupazione
basso grado di integrazione internazionale, stabilità finanziaria e forte regolazione.
- la deregolazione era caratterizzata da una crescita bassa, uno slowdown della produttività,
da deindustrializzazione, da alta inflazione e alta disoccupazione, da una crescente
integrazione e globalizzazione, da instabilità finanziaria e da una graduale deregolazione in
tutti i mercati.
La Golden Age è stato un regime verificatosi eccezionalmente (una volta sola) nella storia dello
sviluppo economico dei paesi industriali.
Dal lato reale la Golden Age è principalmente su base nazionale in quanto il commercio estero
svolge un ruolo non ancora importante. Un'ulteriore spinta alla crescita è assicurata dalla
ricostruzione post bellica agevolata dagli aiuti del Piano Marshall. La Golden Age riguarda anche il
catching up (recuperare il ritardo) delle economie europee nei confronti degli USA. L'espansione dei
consumi interni ha sostenuto fortemente l'offerta garantendo un tasso di crescita della domanda
stabile e in modo da consentire agli operatori di prevedere investimenti anche nel lungo periodo,
garantendo quindi di espandere la scala. In questo periodo l’elasticità della domanda di beni
manufatti è elevata e crescente.
W ß π à R
↓ ↕ ↓
C à Y ß I
La crescita della produttività (π) è così forte che consente contemporaneamente un aumento dei
salari (W) e della redditività (R). I salari si portano dietro un aumento dei consumi (C), mentre la
profittabilità (R) si porta dietro un aumento degli investimenti (I). Consumi e investimenti
retroagiscono positivamente sul reddito (Y) alimentandolo. La crescita molto forte dell’output si
porta dietro una crescita altrettanto forte della produttività per un effetto legato a quella che va
sotto il nome di legge di Kaldor. Si tratta di un circolo virtuoso basato su una crescita molto forte e
molto stabile.
Seconda legge di Kaldor
Riprende la legge di Verdoorn. Può essere scritta come πm = f (Ym)
Dove il tasso di crescita della produttività della manifattura (πm) è funzione del tasso di crescita
dell’output della manifattura (Ym).

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La seconda legge di Kaldor si collega ai rendimenti crescenti di tipo dinamico, a livello
macroeconomico e attraverso l’approccio learning by doing (i costi unitari delle imprese
diminuiscono al crescere cumulativo dell’output).

Dal lato finanziario le istituzioni nate con gli accordi di Bretton Woods svolgono un ruolo molto
importante: esse hanno il compito di contenere al minimo la speculazione contribuendo a
mantenere bassi i costi di raccolta dell’informazione esterna all’impresa e mantengono prevedibili i
rendimenti attesi.
Questo contesto è ideale per la crescita di un’organizzazione in quanto in queste condizioni il
problema principale per l’impresa è quello di stabilizzare l’offerta e non la domanda, che è già
stabile; i costi fissi non sono quindi un problema. Inoltre la minimizzazione del rischio consiste
nell’integrare tutte le attività possibili all’interno di un’unica organizzazione.
Lo sviluppo industriale si realizza quindi attraverso un processo di crescente verticalizzazione
produttiva e di aumento della dimensione che necessita di un maggior controllo diretto dell’impresa
sulle attività legate a quella principale. In questo contesto favorevole all’espansione e caratterizzato
da prevedibilità degli eventi, l’organizzazione può adottare una logica procedurale in cui tutti i
manager si comportano allo stesso modo.
In questo contesto caratterizzato da eventi ripetitivi, la riduzione del rischio viene attuata attraverso
la diversificazione delle attività in modo che possa svilupparsi anche l’impresa in senso
conglomerale: l’impresa entra in attività indipendenti dal core business e ciò contribuisce ad
aumentare le dimensioni dell’impresa.
Nel corso della Golden Age avviene quindi una progressiva concentrazione delle attività all’interno
di grandi imprese verticalmente integrate; si tratta di un processo di inclusione di nuove attività
all’interno dell’impresa. Questa modalità di organizzazione della produzione prevede che l’impresa
sia sottoposta al coordinamento di tipo gerarchico garantito dal principio di autorità.
Ma ad un certo punto si verifica un’inversione di tendenza dello sviluppo dimensionale delle imprese
che porterà alla frammentazione delle imprese e vedrà il riemergere della produzione su piccola
scala soprattutto in Italia. Questo cambiamento strutturale riflette il dissolversi della Golden Age e
l’emergere di un nuovo quadro di riferimento che porta ad un cambiamento radicale e al passaggio
dalla gerarchia al mercato.
Nei primi anni 70 si verificano numerosi shock che colpiscono le economie industriali e che
modificano il contesto macroeconomico: sul piano reale gli shock più gravi sono rappresentati dai
due shock petroliferi nel 1973 e nel 1979; sul piano finanziario gli shock più grandi si hanno con
l’abbandono del sistema di Bretton Woods e dei cambi fissi tra il 1971 e il 1973 e l’ingresso in una
fase di turbolenza sul mercato dei cambi che provoca un periodo di forte instabilità finanziaria e
speculazione. In particolare con l’abbandono dei cambi fissi l'onere di monitorare l'oscillazione dei
cambi si posa sulle imprese e si forma una grande speculazione.
Questo fenomeno causa un forte rallentamento del processo di accumulazione dovuto ad un
grandissimo aumento della volatilità dei cambi, dei tassi di interesse e dei tassi reali. Cresce il
problema di gestione dell’inflazione e della disoccupazione.
Lo sgretolarsi della Golden Age ha effetti sulla struttura dimensionale. Dal lato reale, lo sviluppo era
trainato principalmente dalla domanda interna di beni industriali ma con lo sviluppo industriale
cresceva la pressione concorrenziale da integrazione internazionale che implicava che una quota
rilevante dei consumi dipendesse da un numero sempre maggiore di produttori influenzati
dall’andamento dei cambi e dei prezzi relativi. La domanda diventò più volatile per questo motivo,
ma anche perché con lo sviluppo dell’economia aumentava il grado di differenziazione che rendeva
la domanda meno prevedibile, faceva aumentare la concorrenza tra produttori (il mercato rilevante
non era più quello nazionale) e il rallentamento della crescita si rifletteva in consumi meno dinamici.

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L’inasprimento della concorrenza ha molteplici effetti:
- Comprime l’impiego dell’input lavoro, facendo così diminuire la dimensione delle imprese in
termini di occupati
- Comprime i margini di profitto, in presenza di rigidità salariale
- Spinge le imprese a concentrarsi sul core business e porta le imprese a dismettere le attività
conglomerate
Dal lato finanziario, i cambi cominciano a oscillare, l’inflazione esplode, aumentano i tassi di
interesse nominali e sorge il problema di valutare quelli reali, i mercati dei capitali si liberalizzano.
Si passa quindi dal rischio all’incertezza; anche l’incertezza spinge verso il core business. L’incertezza
di mercato (minore prevedibilità della domanda) e l’incertezza finanziaria (il costo di raccolta
dell’informazione esterna all’impresa aumenta) fanno sì che i grandi investimenti vengano
scoraggiati e che emerga un’ossessione da costi fissi: dove le funzioni di costo sono separabili il
processo produttivo viene dis-integrato in senso verticale.
L’impresa è quindi costretta a ridimensionare la scala delle sue attività riducendola almeno al livello
che mantiene invariati i costi di gestione dell’organizzazione.
L’esaurirsi della Golden Age è accompagnato da alcuni fattori di cambiamento rappresentati da
shock esogeni (oil effect, salto tecnologico) e shock endogeni (shock salariale, conflittualità
sindacale, affievolimento della loyalty di Simon, frammentazione della domanda). Finisce così l’era
della mass production e nasce quella della domanda differenziata che è più compatibile con la
produzione su piccola scala (small scale production).
Inoltre l’esaurirsi della Golden Age può essere notato in alcuni indicatori che registrano gli effetti
del cambiamento di paradigma; tra essi ci sono: aumento strutturale del grado di integrazione
commerciale tra i paesi industriali che implica maggiore concorrenza; esplosione della variabilità dei
tassi di cambio (prima fissi poi volatili); aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse nominali;
crollo dei tassi medi annui di crescita del GDP; aumento della varianza dei tassi di crescita del GDP.
All'esaurirsi della Golden Age corrisponde un cambiamento del modello di industrializzazione dei
paesi sviluppati: nella metà degli anni 70 la crescita della produttività risulta maggiore a quella
dell’output, mentre durante la Golden Age era inferiore. Il rapporto che lega le variazioni della
produttività e del prodotto si inverte e ne deriva una contrazione del livello dell'occupazione
manifatturiera a fronte di una minore espansione dei volumi.
Si spezza così la relazione che lega le variazioni della produttività a quelle dell'output nell'ottica della
legge di Kaldor e Verdoorn.
Inoltre riducendo la scala e “buttando fuori” le attività non ritenute strategiche, le aziende perdono
saperi e competenze.
L’emergere della small scale production rappresenta un cambiamento della struttura dimensionale
che ha determinato il passaggio da un’economia manageriale a un’economia imprenditoriale in cui
il mercato garantisce la composizione efficiente di una pluralità di comportamenti individuali. In
questo contesto è importante assicurare l'istantaneità di risposta di fronte a eventi caratterizzati da
forte incertezza e quindi la velocità di reazione degli operatori agli shock diventa più alta.
Quale modello di comportamento dell’impresa è in grado di spiegare perché il sistema produttivo
si orienta verso la soluzione organizzativa della small scale production? Il paradigma Coase-
Williamson non ci può aiutare a capire, ma ci aiutano Robinson e Penrose.
Infatti secondo il paradigma Coase-Williamson gli eventi di cui si è parlato finora dovrebbero
spingere le imprese verso un grado di integrazione maggiore (e non minore come invece accade).
Nel paradigma Coase-Williamson l’integrazione è la soluzione perfetta che l’impresa adotta in
risposta all’esigenza di neutralizzare l’inefficienza del mercato e l’incertezza; visto che è certo che
l’incertezza aumenta nel periodo preso in considerazione, allora l’integrazione dovrebbe aumentare

53
ma questa soluzione proposta dal paradigma procede nella direzione opposta a quella dei fatti
(perché invece si verifica la produzione su piccola scala).
Partendo invece dall’analisi di Robinson e del vincolo Penrose è possibile definire lo schema del
comportamento di impresa in grado di spiegare il ridimensionamento delle imprese industriali che
accompagna lo scomparire della Golden Age. Questo schema si basa sul presupposto secondo cui la
difficoltà di organizzare un’attività cresce più che proporzionalmente all’aumentare della sua scala;
in altre parole assume che una dimensione maggiore implichi un aumento della complessità dei
problemi che l’impresa deve affrontare.
La complessità viene definita in termini di numero di variabili che sono considerate rilevanti per la
gestione dell’impresa. Più è grande il numero di variabili rilevanti maggiori saranno le informazioni
e i relativi costi, chiamati costi di gestione dell’organizzazione (questi costi sono l’opposto dei costi
di transazione di Coase, anche detti costi di gestione del mercato).
Si può assumere che le imprese fossero arrivate al culmine della Golden Age con costi di gestione
dell’organizzazione molto alti per effetto dell’elevato livello di integrazione che avevano raggiunto
in quel periodo, ma anche per effetto dell’incertezza (anche finanziaria) e dell’aumento della
concorrenza.
I cambiamenti principali che hanno riguardato la struttura industriale dopo la fine della Golden Age
consistono nella contrazione dell’occupazione dislocata nelle grandi imprese e nell’aumento della
numerosità delle imprese. In altre parole la dis-integrazione verticale che caratterizza la
deregolazione (la quale fa seguito alla Golden Age), implica che si riducano le dimensioni medie
delle imprese e che ne aumenti al tempo stesso il numero; è quindi necessario che altre imprese
entrino nel mercato per svolgere le attività che sono state esternalizzate. Questo fenomeno è stato
definito outsourcing.
L’outsourcing si trasformerà in offshoring quando la frammentazione della produzione diventerà
possibile anche su base internazionale alimentando la nascita e lo sviluppo delle global value chains.

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INDUSTRIALIZZAZIONE E DEINDUSTRIALIZZAZIONE. – LEZIONE 22
Il ruolo della manifattura nello sviluppo dei sistemi economici e il cambiamento
strutturale.
Le ragioni dell’industrializzazione.
I meccanismi del processo di sviluppo della manifattura: dis-equilibrio,
interdipendenze e processi di causazione cumulativa (Hirschman, Myrdal, Kaldor).
L’ampliamento della matrice dell’offerta e la complexity.

Lo sviluppo economico ruota attorno all’industrializzazione. Un paese che vuole svilupparsi deve
necessariamente trasformare la sua struttura produttiva interna. Questa logica di sviluppo è la
stessa vista per le imprese. In questa logica il sistema economico è quindi soggetto continuamente
a delle trasformazioni e non è mai in equilibrio (a differenza di quanto affermato dalla
microeconomia neoclassica secondo cui i sistemi economici tendono per loro natura all’equilibrio).
Il principio dei processi di sviluppo industriale intesi come processi di trasformazione si basa su
feedback positivi (e non negativi*) tali per cui un cambiamento genera altri cambiamenti che si
cumulano innescando una trasformazione del sistema il quale diventa diverso da quello che era
prima.
* I feedback negativi invece sono quelli tali per cui un fenomeno è destinato a scomparire per
l’azione uguale e contraria di un altro fenomeno che automaticamente lo compensa, riportando così
il sistema a una condizione di equilibrio.

La crescita economica è collegata a un processo di cambiamento strutturale. Al crescere dell’output


la forza lavoro e la produzione del settore primario vengono riallocate verso l’industria
manifatturiera e dalla manifattura verso i servizi. Seguendo lo schema di Kuznets, questo
spostamento intersettoriale di risorse che si manifesta nel corso dello sviluppo è il risultato di
meccanismi che agiscono dal lato della domanda e dal lato dell’offerta.
Dal lato della domanda, la legge di Engel assume che al crescere del reddito la struttura della
domanda cambia in quanto la domanda inizialmente è rivolta a beni alimentari, poi ai beni manufatti
e infine ai servizi. Di conseguenza nelle fasi iniziali dello sviluppo la produzione si concentra sul
settore primario (agricoltura) per spostarsi nell’industria e poi nei servizi.
Dal lato dell’offerta, il cambiamento strutturale deriva da differenziali nel ritmo di crescita della
produttività tra i settori e dalle implicazioni sulla struttura dei prezzi relativi dei beni/servizi.
In particolare l’industrializzazione è il risultato di una crescente produttività manifatturiera rispetto
a quella dell’agricoltura e di una domanda crescente di beni manufatti rispetto a quelli agricoli.
Analogamente la produttività nei servizi è inferiore alla produttività della manifattura: è possibile
ottenere un output manifatturiero con input di lavoro sempre minori ma questo nel caso della
produzione di servizi non è possibile. Di conseguenza l’occupazione manifatturiera si riduce mentre
nei servizi non cambia; il risultato è che una quota crescente dell’occupazione e della produzione
viene assorbita dai servizi a discapito della manifattura e si osserva così una deindustrializzazione
nell’economia.
Fin qui la deindustrializzazione è il semplice risultato dello sviluppo, ma può anche consistere in un
processo di indebolimento del sistema industriale dovuto all’inefficienza del settore manifatturiero.
In questo caso è importante che a livello aggregato un sistema industriale riesca a compensare
attraverso le vendite all’estero l’accrescimento delle importazioni, indipendentemente dalla natura
dei prodotti che esporta e che importa (= A livello aggregato il sistema deve essere in grado di
compensare le importazioni con le esportazioni. Quando questo non accade si crea un processo di
de-industrializzazione). L’industria è efficiente quando l’integrazione con altre economie avviene in

55
assenza di una caduta della domanda estera; se questo risultato non viene ottenuto si innesca la
deindustrializzazione.
àQuindi l’espansione dell’attività economica di un paese dipende dalla sua capacità di competere
con gli altri paesi con cui si realizza il processo di integrazione a saldi commerciali almeno costanti.

Le ragioni dell’industrializzazione
Come visto per lo sviluppo delle imprese, anche affinché emerga un sistema industriale occorre
l’intenzione di costruire una manifattura. Lo sviluppo economico e manifatturiero non è meccanico
ma occorre un obiettivo definito di industrializzazione e gli strumenti per realizzarlo.
L’avvio di questo processo di sviluppo è funzione della capacità di costruire dinamicamente i
fondamenti di una manifattura competitiva basata su conoscenze proprietarie in un’ottica di
“guardare avanti”. È importante saper creare vantaggi comparati dinamici.
(Questa logica è diversa da quella allocativa dei vantaggi comparati statici, secondo cui la crescita
aggregata avviene grazie al fatto che ogni paese internazionale produce quello che sa fare meglio.)
I paesi che si sono industrializzati hanno seguito la logica dell’emulazione, di protezione
dell'industria nascente per farsi strada verso il progresso tecnologico. Hanno cioè replicato quello
che è stato fatto da chi li ha preceduti. L’emulazione porta con sé l’avvio di un percorso di
trasformazione produttiva, ossia di acquisizione di vantaggi competitivi che prima non c’erano.
Questo principio spinge il sistema industriale verso un allargamento della matrice della sua offerta.
In questo contesto i fattori istituzionali assumono un ruolo decisivo. Per fattori istituzionali si
intende la politica industriale, intesa come intervento dello Stato orientato a favorire lo sviluppo del
sistema industriale.
Le economie emergenti crescono più velocemente di quelle emerse perché partono da valori minimi
e quindi le variazioni percentuali dei livelli produttivi mostrano incrementi molto alti, e inoltre
perché le fasi iniziali dello sviluppo sono per loro natura caratterizzate da livelli di crescita molto
sostenuti.
Non è scontato però che lo sviluppo si manifesti. Si può osservare infatti solo nel caso in cui in un
paese si sia effettivamente avviato un processo di espansione dell’attività economica.
Inoltre possono coesistere paesi caratterizzati da tassi di crescita molto diversi tra loro.

I meccanismi dello sviluppo: dis-equilibrio, interdipendenze e processi di causazione cumulativa


Gli approcci di analisi dello sviluppo industriale hanno in comune l’idea che i sistemi economici siano
caratterizzati dal disequilibrio e dalla path dependence dovuta ai feedback positivi.
I feedback positivi sono molto importanti nello sviluppo industriale e manifatturiero perché la
manifattura è caratterizzata da rendimenti crescenti dinamici che danno luogo a una crescita
cumulativa e localizzata, dunque squilibrata.
Gli approcci allo sviluppo industriale si devono a 3 economisti:
1) HIRSCHMAN
Basa la sua teoria su due assunti.
Il primo assunto è che lo sviluppo è sempre squilibrato in quanto consiste in una serie di fenomeni
che creano sempre nuove condizioni di disequilibrio e non sono previsti eventi che svolgono una
funzione riequilibratrice.
In un sistema sviluppato composto da un settore agricolo, un sistema industriale e da attività di
servizio, queste attività non si sviluppano contestualmente ma alcune prima e altre dopo.
Il secondo assunto afferma che affinché lo sviluppo di una base manifatturiera sia endogeno è
necessario che ci sia interazione con l’economia locale attraverso i forward e backward linkages (=
è necessario che ci sia un’attività produttiva in grado di attivarne altre attraverso il mercato).

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Per quanto riguarda i backward linkages, l’industrializzazione ha luogo se esiste una domanda finale
e quindi consiste in nuove imprese che si stabiliscono e producono direttamente per il mercato. Si
crea così un mercato per gli input produttivi, in quanto la creazione di nuova domanda attiva sempre
una nuova offerta locale o estera.
I forward linkages sono invece legami a valle che derivano dal fatto che un’attività non destinata
esclusivamente alla domanda finale rende possibile utilizzare i suoi input ad altre imprese. In questo
caso però non si tratta di un attivatore diretto della domanda.
L’intensità di questi legami è una misura del grado di articolazione dell’offerta e dello sviluppo
industriale.

2) MYRDAL
Myrdal utilizza il concetto di causazione cumulativa per spiegare il persistere del sottosviluppo,
affermando l’esistenza di un circolo vizioso.
Nelle nazioni povere le persone più dotate si trasferiscono altrove per trovare migliori occasioni di
lavoro. Lo stesso succede per i risparmi che tendono a spostarsi all’estero alla ricerca di rendimenti
maggiori. Così l’economia interna è stagnante e le altre economie si arricchiscono a discapito delle
economie più deboli. Secondo Myrdal questa è la spiegazione del persistere dei divari di sviluppo
tra diversi sistemi economici.
In questo contesto inoltre le forze di mercato generano diseguaglianze e accrescono gli squilibri
esistenti senza compensarli. Esiste quindi un meccanismo cumulativo che tiene insieme
ineguaglianza e povertà.
Myrdal utilizza questo concetto per spiegare il carattere cumulativo dei processi di sviluppo virtuosi,
partendo dall’idea che esistano effetti di riflusso detti backwash effects. Gli effetti di riflusso
agiscono verso il centro attraverso la capacità di attrazione che hanno le aree in cui è stata avviata
un’attività di successo. Queste aree attirano forza lavoro, capitale e flussi commerciali in quanto in
esse si creano rendimenti crescenti.
Gli effetti di riflusso possono essere contrastati da effetti di diffusione che agiscono nel senso
opposto, diffondendo lo sviluppo all’esterno delle aree di successo. Gli effetti di diffusione
comunque non sono mai tali da controbilanciare gli effetti di riflusso riportando il sistema in
equilibrio.
Affinché il meccanismo cumulativo agisca è necessario che le forze messe in atto siano consistenti.

3) KALDOR
Kaldor rifiuta l’equilibrio e basa la sua analisi dello sviluppo sui rendimenti crescenti di tipo dinamico
che derivano dalla divisione del lavoro.
Kaldor afferma che all’aumentare della produzione aumenta il grado di specializzazione delle
imprese, cioè aumentano gli investimenti dedicati e i lavoratori specializzati. Ciò fa aumentare la
produttività che a sua volta fa espandere il mercato (produttività à output à salari à consumo).
Ma la crescita dell’output comporta un aumento dell’intensità di capitale K/L. A ciò si aggiunge
l’effetto learning by doing che agisce nel tempo a parità di scala e specializzazione.
Questo meccanismo produce uno sviluppo endogeno e path dependent, in cui il sistema cambia
allontanandosi sempre di più dall’equilibrio iniziale.
La teoria di Kaldor è formalizzata in 3 leggi:
1° legge di Kaldor Yt = f (Ym)
Il tasso di crescita del PIL (Yt) è funzione del tasso di crescita della manifattura (Ym).
Più cresce la manifattura e più cresce il sistema economico. Questo è legato al fatto che i rendimenti
crescenti sono massimi all’interno della manifattura.
Yt = f (πt )

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2° legge di Kaldor (legge di Verdoorn) πm = f (Ym)
Il tasso di crescita della produttività nella manifattura (πm) è funzione del tasso di crescita
dell’output manifatturiero (Ym).
3° legge di Kaldor πt = f (πm)
Il tasso di crescita della produttività per il totale dell’economia (πt) è funzione del tasso di crescita
della produttività manifatturiera (πm).

Le ragioni che spiegano il funzionamento delle tre leggi di Kaldor sono due: la prima è che la crescita
di Ym (tasso di crescita della manifattura) implica che una quota crescente di lavoro venga sottratta
al settore agricolo, per effetto del cambiamento strutturale, e quando il cambiamento strutturale
spinge l’occupazione nei servizi (la cui produttività πt è anch’essa minore di quella della manifattura)
– come accade nei sistemi economici sviluppati – la crescita torna a rallentare.
La seconda ragione è che all’interno della manifattura è massima la possibilità di dividere il lavoro
(Hirschman) e dunque sono massimi i rendimenti crescenti.
È fondamentale il ruolo della domanda di beni manufatti che determina il livello dell’output e quindi
il tasso di crescita della produttività, alimentando il processo di crescita cumulativo.

(FUORI PROGRAMMA?) Il cambiamento strutturale all’interno della manifattura


Esiste un altro fatto interno al settore manifatturiero che caratterizza lo sviluppo del sistema
economico.
Il cambiamento strutturale che avviene all'interno della manifattura dipende dai cambiamenti
nell’ampiezza della matrice dell'offerta (ovvero il grado di articolazione settoriale della produzione
manifatturiera). Nello sviluppo della manifattura possono individuarsi due fasi, perché prima la
matrice dell'offerta si allarga per effetto della domanda interna e poi si restringe intorno alle
produzioni di vantaggio comparato per effetto della domanda estera.
Nella prima fase di ampliamento l'oggetto di analisi è la crescita quantitativa del numero di beni che
ogni economia produce (extensive margin). La trasformazione strutturale consiste quindi anche in
un’estensione del numero di prodotti e nell’aumento del grado di complessità della struttura
produttiva. Il grado di complessità di un sistema economico di un paese può essere considerato una
funzione diretta del numero di prodotti che esporta e una funzione inversa del numero di paesi che
esportano a loro volta quel prodotto.
L’indice di complessità economica (ECI) misura il grado di sviluppo delle conoscenze di un sistema
economico applicate alla produzione di beni a partire dalle informazioni sulla struttura delle sue
esportazioni.
Questo indice considera sia la numerosità di beni che un paese riesce a produrre/esportare, sia
quanti altri paesi riescono a eguagliare la sua performance in termini di esportazioni di quegli stessi
beni. L’effetto della prima variabile (numerosità dei beni) è diretto, quello della seconda
(esportazioni di altri paesi) è inverso. La numerosità dei prodotti che un paese esporta influisce
positivamente sulla complessità, ma da sola non è sufficiente a definire se una economia sia più
complessa di un’altra: ai fini della determinazione del valore dell’indice, insieme al numero dei
prodotti esportati è importante individuare anche quanti altri paesi esportino gli stessi prodotti
(quanto esclusiva sia la specializzazione), e la stessa struttura delle loro esportazioni (quanto
complessi essi siano a loro volta).

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SVILUPPO INDUSTRIALE NEGLI ANNI DELLA GLOBALIZZAZIONE – LEZIONE 23
Il nuovo mondo industriale. L’emergere di nuovi sistemi manifatturieri agli inizi del
nuovo secolo.
Nel lungo periodo, assumendo livelli uguali di PIL pro capite in tutto il mondo, il livello di produzione
e di esportazioni è destinato ad essere quasi uguale a quello della popolazione.
Il processo attraverso cui si è avviato lo sviluppo industriale nel mondo che prima era invece
sottosviluppato è guidato da una serie di fatti accaduti a livello di organizzazione della produzione.
Lo sviluppo di un paese è funzione del grado di industrializzazione. E l’industrializzazione ha bisogno
di tempo, di obiettivi e di una domanda di beni industriali. Il punto è proprio che un paese
sottosviluppato questa domanda non ce l’ha e si usa il termine “laggard” per indicare che la
domanda interna è ai livelli minimi e per uscire dal sottosviluppo ci si affida alla domanda estera.
In un arco di tempo abbastanza breve nuove aree economiche sono entrate a far parte del mondo
globale e hanno messo a disposizione delle economie già emerse un nuovo mercato del lavoro
caratterizzato dalla disponibilità di manodopera a bassissimo costo. Ciò ha portato ad una
trasformazione radicale del sistema industriale al livello mondiale, che a sua volta ha provocato una
frammentazione (unbundling) delle catene del lavoro. I paesi sottosviluppati sono così potuti
entrare in alcune fasi del processo produttivo grazie alla nascita delle catene globali del valore
(global value chains). Esse sono tutte le attività economiche in cui la produzione di un bene/servizio
è ripartita tra diverse nazioni.
Questo processo avviene sulla base della liberalizzazione degli scambi su base multilaterale (tutti
commerciano con tutti) ed è stato alimentato dall’offshoring (trasferimento all’estero di una parte
della produzione interna) e dagli investimenti diretti da parte dei paesi sviluppati.
Le sole Global Value Chains non bastano però ad avviare uno sviluppo manifatturiero endogeno; è
infatti necessario attivare i forward e backwards linkages proposti da Hirschmann.

La globalizzazione da un lato rende possibile il trasferimento di attività manifatturiere e dall’altro


lato obbliga alla specializzazione chi accoglie le attività manifatturiere, imponendo la rapida
acquisizione di un vantaggio comparato. In un contesto di apertura dei mercati, i paesi ritardatari
non hanno avuto la possibilità di diversificare la loro produzione e sono stati soggetti ad una
concentrazione settoriale anticipata, hanno inoltre avuto a disposizione meno tempo per sfruttare
le economie di specializzazione e i rendimenti crescenti dinamici. Questo è accaduto perché lo
sviluppo manifatturiero dei paesi emergenti è vincolato ad un orientamento che favorisce la
concentrazione dove la competitività è più alta.
Ciò determina una matrice dell’offerta che rimane stretta e il tasso di industrializzazione rimane
basso. In questo caso più è piccolo il paese coinvolto nel processo di industrializzazione più è forte
l’effetto, mentre paesi molto grandi come l’India o la Cina hanno comunque un mercato interno e
un grande range di domanda soddisfatto anche dalla produzione locale.

Questa logica dell’organizzazione industriale ha fatto si che siano state le ragioni dello sviluppo
industriale a definire il profilo del commercio mondiale, e non le preferenze dei consumatori.

Oggi la struttura del commercio mondiale presenta 3 nuclei distinti: un’area asiatica, un’area
nordamericana, un’area europea e può osservarsi anche un piccolo nucleo di economie africane. Da
questa struttura si desume che il commercio ha mantenuto una configurazione regionale
sostanzialmente per due motivi:
- Perché la struttura degli scambi commerciali mondiali risente del regionalismo, ossia degli
accordi regionali, e le 3 aree identificate esistevano da prima che iniziasse la globalizzazione.

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L’impronta regionalista rimane nonostante gli scambi siano molto diffusi. Sono più forti gli
scambi regionali-continentali.
- Perché i legami produttivi tra imprese di paesi diversi dipendono dalla distanza geografica
dei commercianti. Quando si creano i forward e backward linkages in un determinato
territorio la catena del valore si estende in quell’ambito territoriale.

La Globalisation Age è stata un regime (come la Golden Age, anche se ha avuto un comportamento
opposto) basato sulla deregolazione di tutti i mercati e sul multilateralismo, che ha legato per la
prima volta Nord e Sud definendo una sorta di ordine mondiale. Ha segnato una fase in cui il Sud
del mondo è entrato nel mondo industriale, legandosi ai paesi già industrializzati. Ha garantito il
boom dei consumi del Nord con la produzione che avveniva al Sud.
La Globalisation Age è finita perché:
- Ha limiti intrinseci per le economie emergenti e per le economie industrializzate
Per le economie emergenti l’enfasi sulla domanda estera in un contesto di alta concorrenza
mondiale può comprimere la specializzazione e il tasso di industrializzazione. Inoltre la ricerca di
competitività spinge le economie emergenti a comprimere i costi comprimendo così i livelli salariali
e impedendo lo sviluppo della domanda interna. La ricerca di competitività può anche rendere
preferibile importare gli input intermedi, sfavorendo l’emergere di una produzione intermedia
propria.
Le economie industrializzate invece cercano la domanda che gli serve all’estero e cercano di essere
più competitive facendo offshoring (trasferendo il problema nel mondo emergente) e facendo
deflazione interna, facendo diminuire così i salari e di conseguenza la domanda.
Questo è ciò che ha fatto l’L’Europa: i singoli paesi europei si sono mossi come paesi individuali per
quanto riguarda lo sviluppo industriale. Si sono cercati la domanda su base individuale, ma essendo
piccoli hanno dovuto richiederla all’esterno. Hanno incentrato le loro strategie sul processo che
porta all’output (il contrario della seconda legge di Kaldor), con l’idea che se si aumenta l’input
aumenta anche l’output. Se tutti i paesi europei comprimono la loro domanda interna, dal momento
che la maggior parte dell’esportazione va verso altri paesi europei alla fine si comprime anche la
domanda estera.
- Gli effetti di questi limiti cominciano a manifestarsi sul piano politico e sul piano strutturale
Sul piano politico la globalizzazione ha causato diseguaglianze che hanno modificato le società e le
politiche di liberalizzazione. Le politiche commerciali americane sono diventate selettive e neo-
protezioniste, e hanno iniziato a discriminare i partner. I partner si discriminano escludendoli
facendo protezionismo, oppure facendo accordi di tipo bilaterale (su scala regionale). Il commercio
internazionale ha subito un forte rallentamento.
Sul piano strutturale invece si verificano effetti di pay-back. Il processo di off-shoring conseguente
all’aumento del mercato del lavoro non era sostenibile a quei ritmi. Cominciano processi di back-
shoring, cioè tentativi di riportare in patria produzioni che precedentemente erano state
esternalizzate (collegamento con i costi di uso del mercato di Coase: quando il mercato diventa
globale questi costi si moltiplicano e diventa difficile monitorarli). C’ è un rallentamento del ritmo di
crescita degli investimenti diretti esteri (IDE) che comporta una minore crescita degli scambi
internazionali.

In conclusione si è verificata una serie di discontinuità, dovute a fenomeni eccezionali che si sono
verificati nel giro di pochi anni, che hanno creato una situazione irripetibile in cui Nord e Sud del
mondo sono entrati in collegamento sul piano produttivo, hanno cominciato a cooperare
determinando legami molto forti. L’esaurirsi di questo fenomeno ha determinato una situazione in

60
cui il commercio internazionale è rallentato moltissimo, e il rallentamento sembra essere destinato
a rimanere.
Il modello di sviluppo basato sulla globalizzazione delle catene del valore e incardinato sul
multilateralismo e sul ruolo strategico della domanda estera non è più un modello in espansione, e
tutte le aree industriali devono fare oggi affidamento sul mercato interno anche se quest’ultimo nel
frattempo è stato penalizzato molto.

61
Lo sviluppo industriale nel mondo emergente – LEZIONE 24
Riassunto di Kaldor
Il problema dello sviluppo economico ruota intorno al problema dell’industrializzazione. Non esiste
paese sviluppato che non disponga di un sistema industriale avanzato, perché la manifattura è il
regno dei rendimenti crescenti dinamici che originano dalla divisione del lavoro (cioè dalla
specializzazione = divisione del processo in fasi, ciascuna delle quali può essere svolta da imprese
separate o da un’unica impresa ma specializzata) e all’aumentare della domanda, crescono le
opportunità di specializzazione e quindi di apprendimento. Cresce così la produttività, e si liberano
risorse produttive.
L’azione di questo meccanismo produce un processo di sviluppo economico endogeno di tipo path-
dependent.

Riassunto di Hirschman
La maggiore domanda di beni manufatti rivolta a un’impresa attiva un processo di ricerca e
apprendimento che genera nuove conoscenze, consentendo di migliorare le tecnologie di
produzione (rendimenti crescenti dinamici che abbassano le curve di costo medio di lungo periodo).
Ma la maggiore domanda per l’impresa innesca processi di specializzazione e di accumulazione delle
conoscenze a monte (backward linkages), ossia anche per i suoi fornitori.
Le nuove tecnologie di produzione sviluppate dalle imprese entrano poi nei processi di produzione
a valle (forward linkages), migliorando l’efficienza anche delle imprese acquirenti.

Affinché ci sia industrializzazione è necessario che


- Ci sia una domanda di beni manufatti tale da innescare la divisione del lavoro
- Ci siano conoscenze capaci di intercettare la domanda
- Ci siano incentivi affinché le imprese sviluppino nuove conoscenze nell’ambito industriale
piuttosto che investire altrove.
I paesi in via di sviluppo che non si sono ancora industrializzati riscontrano dei problemi perché il
potere di acquisto dei consumatori è basso e di conseguenza la domanda di beni industriali è bassa;
non ci sono necessarie conoscenze tecniche; e le imprese sono più incentivate a investire nei settori
tradizionali che già conoscono e su cui hanno già accumulato competenze (come l’agricoltura)
perché seguono processi di apprendimento path dependent.
Quando un paese si vuole industrializzare in uno scenario internazionale aperto agli scambi
(economia aperta) ci sono ulteriori problemi perché la domanda interna può essere facilmente
intercettata dai produttori esteri, che nei paesi avanzati hanno già sviluppato conoscenze produttive
e hanno raggiunto elevati livelli di efficienza su quelle produzioni. Il rischio è che una potenziale
offerta domestica venga spiazzata dalla concorrenza internazionale. In un regime di concorrenza
questo significa che l’impresa domestica, a meno che non sia protetta da barriere, non potrà restare
sul mercato.
Un altro problema è il concetto di vantaggio comparato, cioè il vantaggio di specializzazione relativa.
Se si interagisce con un altro paese conviene specializzarsi in qualcosa in cui si è maggiormente
efficienti rispetto ai concorrenti. Un paese che nasce agricolo non ha accumulato conoscenze in
ambito manifatturiero, e se si fronteggia con un paese che è già industrializzato, avrà un vantaggio
relativo a specializzarsi in un settore agricolo, che è quello dove già presiede. àUn paese
sottosviluppato aumenterà quindi la produzione in un settore tradizionale che lo rende forte.
C’è anche un ulteriore problema che riguarda la conoscenza: qualora un paese potesse avvalersi di
conoscenze già sviluppate all’esterno, la parte di conoscenza codificata è solo una parte della
conoscenza necessaria. Quindi è comunque necessario un processo endogeno di accumulazione di
conoscenza. Al riguardo la teoria dei vantaggi dell’arretratezza di Gershenkron afferma che i paesi

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meno avanzati possono accorciare i tempi del proprio sviluppo attraverso l’adozione di tecnologie
di punta create preventivamente, ma ciò per realizzarsi necessita di politiche industriali.

Il grafico “network view of economic development”


mostra il “product space”, ossia la mappa della
prossimità tecnologica tra prodotti sull’osservazione
di ciò che i paesi esportano. Rappresenta il tema della
complessità, cioè tutte le diverse produzioni che
possono essere realizzate.
Nel grafico ci sono delle parti più centrali e altre più
periferiche. La distanza che separa un punto (che
corrisponde a una produzione) da un altro,
rappresenta anche la distanza in termini tecnologici.
Maggiore è la distanza tra due punti maggiore è il salto
tecnologico richiesto per passare da una produzione a
un’altra.
I paesi sottosviluppati sono specializzati in settori
primari, che sono tutti periferici ed esterni nel grafico.
Mentre i settori manifatturieri (tranne alcuni
elementari che troviamo anche nei paesi sottosviluppati) sono più centrali, questo significa che un
paese sottosviluppato per spostarsi deve percorrere un lungo cammino. Mentre per chi ha già
conoscenze nella parte densa è molto più semplice spostarsi e attuare un processo di
diversificazione. È raro che un paese sottosviluppato riesca a raggiungere il livello dei paesi già
sviluppati. La strada per l’industrializzazione presenta dei gradini molto alti, il punto è capire come
superare questi gradini e come fare questi salti.
Un paese sottosviluppato non può fare affidamento sulle forze di mercato, ha bisogno di fattori
correttivi rispetto al mercato. Questi fattori non sono altro che le politiche industriali.

In un’ottica dinamica il problema del sottosviluppo diventa con il passare del tempo sempre più
drammatico in termini di disuguaglianze di sviluppo, perché nel tempo la distanza in termini di
benessere tra un paese sottosviluppato e uno avanzato aumenta.
La tesi di Prebisch-Singer si focalizza proprio sul rischio di rimanere intrappolati nel sottosviluppo.
Le ragioni di scambio tra beni agricoli e manufatti tendono a peggiorare nel tempo, quando il
processo tecnologico avanza e porta ad un aumento della distanza tra paesi sottosviluppati e
avanzati. Le produzioni industriali tendono a concentrarsi in mercati oligopolistici e questo
comporta una stabilità dei prezzi o al più una crescita degli stessi anche con l’apertura agli scambi
internazionali. Invece le produzioni in settori primari (dette “commodity”) sono omogenee e
soggette a forte concorrenza internazionale, cosa che le rende ancora più svantaggiate per quanto
riguarda i prezzi. La concorrenza sulle materie prime è la concorrenza alla Bertrand. Le materie sono
omogenee agli occhi dei consumatori, l’unica cosa importante è comprare al prezzo più basso, cosa
che aumenta molto la concorrenza tra i prodotti e fa sì che i prezzi rimangano molto bassi, a
differenza dei beni industriali il cui andamento dei prezzi cresce nel tempo.
Questo giustificava negli anni 50 (nel dopoguerra) l’urgenza dei paesi sottosviluppati di avviare un
percorso di industrializzazione, considerando che erano sottosviluppati rispetto ad altre parti del
mondo.
L’industrializzazione non ha riguardato tutti i paesi:
Prebisch dice che fino agli anni 50 lo sviluppo industriale è una cosa che appartiene a pochi. Si è
realizzato in modo lento e irregolare partendo dall’Inghilterra (dove avvenne la prima rivoluzione

63
industriale), poi in Europa, poi si espande negli USA e poi raggiunge Cina e Giappone. C’era poi una
grossa periferia attorno ai grandi distretti industriali che si erano formati che dal processo
industriale non aveva guadagnato nulla.
Hausmann invece osserva che al giorno d’oggi i gap tra paesi ricchi e poveri non sono diminuiti, ma
anzi si sono ampliati. Afferma che questi gap corrispondono ai gap delle conoscenze produttive che
si sono accumulate in maniera molto disuguale tra le diverse parti del mondo (in alcune parti del
mondo si, in altre no). Si sono fondamentalmente accumulate nei paesi in cui già negli anni 50 si
producevano beni manufatti e poi si sono allargate comprendendo alcune altre nazioni del sud est
asiatico.
Tra il ’50 ed oggi non tutto è rimasto invariato. Alcuni paesi, come ad esempio la Cina e la Malesia,
sono riusciti a fare dei passi in avanti. L’India invece è rimasta fuori dall’industrializzazione. Quindi
dal ’50 ad oggi non è cambiato moltissimo, ma qualcuno ce l’ha fatta.
Alcune economie emergenti che negli anni 50 non erano neanche citate nelle economie industriali,
oggi sono molto più industrializzate di molte economie avanzate. Per esempio la Corea del Sud, ad
oggi è il secondo paese più industrializzato, dopo la Germania. Nel complesso si è trattato di un
successo molto selettivo.

Tutte le storie di industrializzazione hanno un elemento comune: cioè la consapevolezza che le sole
regole del mercato non avrebbero generato industrializzazione. Quindi c’è la necessità da parte
dello stato di giocare un ruolo attivo centrale nel processo di sviluppo manifatturiero. Si parla di
Stato sviluppista o in inglese Developmental State e si intende che lo stato si fa promotore dello
sviluppo. Lo stato deve rompere l’equilibrio del sottosviluppo che ha costretto buona parte del
mondo a rimanere specializzata in settori non industriali.
L’intervento dello stato assume declinazioni diverse, per esempio:
- Nel blocco comunista ripudia la logica del mercato, sostituita da una logica di allocazione dall’alto
delle risorse, operata dallo stato.
- In America Latina, Sud-est Asiatico vengono sviluppate da zero industrie intere. Per far sì che lo
sviluppo avesse luogo, le industrie sono state protette dalla concorrenza internazionale. Sono state
elevate barriere all’ingresso nei mercati che erano invalicabili per le produzioni estere. Questo
meccanismo è detto “protezionismo di infant-industry”, cioè delle industrie nascenti. Esse non solo
sono state protette, ma si è cercato anche di indirizzare gli investimenti di queste realtà verso
obiettivi di policy.
La logica del Developmental State è quella di allocare risorse per convogliarle verso un processo
forzoso di industrializzazione. C’è una contrapposizione tra la logica dei vantaggi comparati statici
(cioè cosa conviene fare oggi pensando a quello che già si sa fare) con una logica dei vantaggi
comparati dinamici (cioè nella prospettiva di che cosa si saprà fare un domani).
Invece di focalizzarsi sugli obiettivi economici di breve periodo, si investe nella specializzazione di
cose che ad oggi non si sanno fare ma che un domani si potrebbero saper fare meglio degli altri.
Per passare ad una logica di vantaggio comparato statico a uno dinamico bisogna che lo Stato
intervenga in maniera attiva.

MODELLO ASIATICO (Corea del Sud, Cina, Malesia, Taiwan)


Le politiche industriali in questi paesi si basavano su due elementi:
1) import-substitution, è un meccanismo volto ad evitare che le importazioni spiazzino la
nascente industria manifatturiera. Viene sostituito quello che fino a ieri era stato importato
con produzioni nazionali che iniziano da zero o quasi. Questa strategia è proiettata su un
orizzonte futuro: quello di sviluppare industrie che ad un certo punto diventano così
competitive da diventare esportatrici verso il resto del mondo. Ha un orizzonte di “export-

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oriented”, cioè un domani dovranno essere in grado di intercettare non solo la domanda
interna ma anche di reggere la concorrenza internazionale. Ad un certo punto verranno
abbattute le barriere e le aziende, visto che sono state costruite per rendere le industrie
competitive, che a quel punto saranno in grado di reggere la concorrenza.
2) ricerca costante dell’upgrading produttivo e tecnologico attraverso investimenti sulla
formazione e sulla ricerca tecnico-scientifica. Si parte dalla creazione di industrie che
devono essere propedeutiche alla nascita di altre che svolgono il lavoro produttivo in
maniera più complessa. Nella mappa della Complexity questi paesi nascono nelle zone
periferiche e a tappe forzate attuano un percorso di avvicinamento verso il centro del
network. Questo significa un rinnovamento e rafforzamento continuo della matrice
dell’offerta. Questo meccanismo viene sostenuto con politiche dell’innovazione e della
formazione (cioè investimento in capitale umano: per poter gestire la complessità di
produzioni che si trovano al centro dello spazio bisogna avere ingegneri, informatici,
chimici...). I paesi sottosviluppati di norma non hanno una grande quantità di capitale umano
altamente competente, e questa strategia ha un cardine importante sulla formazione del
capitale umano qualificato.
Questa politica industriale è impostata su piani di intervento pubblico dalla durata di 5 anni. In
questi 5 anni si scelgono le industrie che devono essere privilegiate e questo sostegno da parte dello
Stato è introdotto nella misura in cui le imprese raggiungono gli obiettivi prefissati dallo Stato stesso.
Gli aiuti sono dunque selettivi e condizionali.

Per poter produrre cose che non si sanno produrre bisogna acquisire la conoscenza. I paesi per
acquisire conoscenze che non hanno attirano investimenti diretti esteri (IDE) da parte di paesi
avanzati che hanno quelle conoscenze e cercano di limitare la libertà di azione delle multinazionali
insediate.
Affinché la strategia dell’attrazione degli investimenti riesca, cioè crei industrie locali in grado di
competere, questi investimenti esteri sono delimitati da diversi vincoli. Per prima cosa le
multinazionali devono operare nei settori che decide lo stato. Inoltre le multinazionali non possono
entrare in diretta concorrenza con imprese locali che operano nello stesso settore, perché i loro
prodotti non sono destinati al mercato locale ma all’esportazione. Altra cosa fondamentale,
necessaria per forzare il trasferimento della conoscenza nel tessuto produttivo locale, è che le
multinazionali hanno l’obbligo di rifornirsi da imprese locali, che vengono individuate dallo Stato.
Infine c’è un vero e proprio trasferimento coatto della tecnologia e delle competenze. La forma più
semplice è imporre alle multinazionali soggetti, provenienti dai paesi locali, che risiedano nel board
che controlla l’industria. Man mano che si sviluppa conoscenza autonoma la dipendenza dalla
multinazionale tende ad allentarsi e nascono “campioni nazionali” indipendenti rispetto alle
multinazionali grazie alle quali sono nati.

Le risorse per investire derivano in parte dall’export. I proventi delle esportazioni vengono in parte
reinvestiti per ampliare la base produttiva locale. Le aziende non avendo necessità di vendere sul
mercato locale, si basano su una leva che consente di mantenere molto bassi i consumi per questi
paesi e quindi generare un risparmio privato, che attraverso il sistema bancario pubblico, viene
canalizzato negli investimenti scelti dal governo. Queste aziende multinazionali si prefiggono
l’obiettivo di produrre localmente, per avviare un processo di creazione endogena della conoscenza,
ma non hanno la possibilità di vendere localmente. Il loro mercato di riferimento non è quello locale
ma quello internazionale. Il mercato locale protetto rimane artificiosamente compresso (in termini
di domanda interna) e questo fa sì che si generi un accumulo di risparmio privato, che viene
utilizzato dall’operatore pubblico per investire nella creazione di nuove imprese.

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MODELLO LATINOAMERICANO
Gli strumenti utilizzati dal Developmental State in America Latina sono gli stessi usati nel modello
asiatico: dazi, quote di importazione per proteggere il mercato domestico dalla concorrenza
internazionale, partecipazione diretta dello Stato nei settori strategici, il sistema bancario è
pubblico, si attraggono IDE per acquisire le conoscenze mancanti.
Nonstante gli strumenti siano gli stessi, esistono delle differenze negli obiettivi: innanzitutto non c’è
nessun orientamento all’export di queste produzioni, quindi le imprese dall’estero vengono invitate
a produrre nei paesi ma non con l’obiettivo di riesportare i prodotti né con l’obiettivo di far nascere
localmente nuove aziende in quei settori in grado di competere internazionalmente. Questi paesi
ricercano una forma di autarchia: vogliono alimentare il mercato domestico attraverso produzioni
domestiche, non c’è uno sguardo verso la concorrenza internazionale. Le strategie latinoamericane
sono infatti “inward-looking”.
Altra differenza è che non c’è selettività nei settori, visto che questi regimi puntano all’autarchia.
Autarchia significa che vengono privilegiate produzioni domestiche rispetto a esportazioni estere.
Tutto ciò che può sostituire un’importazione con la produzione locale viene facilitato, a prescindere
che i settori siano strategici o meno. Inoltre non c’è nessuna condizionalità nell’erogazione del
sostegno pubblico. Gli aiuti da parte dello stato vengono dati ma non vengono mai tolti e questo
genera anche problemi di corruzione. Le aziende, a prescindere dal risultato, sono protette dalla
concorrenza internazionale.
Inoltre a differenza del modello asiatico, non ci sono vincoli di trasferimento tecnologico imposti
alle multinazionali, né requisiti stringenti per l’approvvigionamento di input intermedi da imprese
locali. Questo comporta la quasi totale assenza di forward and backward linkages con il tessuto
produttivo locale, che rimane così sganciato dalle traiettorie di sviluppo tecnologico delle
multinazionali insediate nel territorio.
Il modello latinoamericano risulta però non essere un modello efficiente di industrializzazione
perché non era orientato all’export ma allo stesso tempo aveva necessità di importare la tecnologia
da fuori per insediare conoscenze che i paesi non avevano. Si verifica così un disquilibrio tra le risorse
che escono dal paese per attirare investimenti diretti esteri, e le risorse che non entrano, perché il
paese non esporta.
Lo squilibrio tra import ed export genera un disequilibrio della bilancia commerciale che determina
un debito estero elevato, coperto fino agli anni ’70 da flussi di capitali da parte degli USA. Quando
cambiano le condizioni dei mercati finanziari, i flussi di capitali cessano di entrare e il deficit non
viene più coperto, facendo scoppiare una crisi del debito negli anni ’80. A questo si aggiunge il fatto
che negli anni ’80 le economie avanzate che dall’America Latina compravano beni, rallentano
l’acquisto di questi prodotti, rendendo ulteriormente insostenibile questo modello.

A seguito di questa crisi la soluzione individuata è smantellare il Developmental State,


liberalizzando tutto ciò che si può liberalizzare. Annullare tutte le rigidità fino a quel momento
imposte è l’unico modo per uscire dalla crisi. Le aziende pubbliche vengono privatizzate, così come
il sistema bancario, si abbattono le barriere commerciali, si riduce la spesa pubblica. Inoltre i settori
inefficienti vengono abbandonati e sostituiti dalle importazioni, queste economie tornano a
concentrarsi sui settori tradizionali a basso contenuto tecnologico e poco esposti alla concorrenza
estera.
Lo squilibrio tra import (in crescita) ed export (che non cresce) genera nuove crisi di debito verso la
fine degli anni ’90.

MODELLO COMUNISTA

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All’interno dei paesi comunisti lo Stato aveva assunto un ruolo centrale nel processo di
industrializzazione. Possedeva i mezzi di produzione e decideva cosa produrre, in che quantità e con
quali ragioni di scambio trasferire i prodotti da un paese all’altro dell’area comunista. Con questo
modello si assiste ad una divisione del lavoro pianificata tra i paesi comunisti, guidata dal COMECON.
La divisione del lavoro segue la logica dei vantaggi comparati ed è affiancata da necessità
geopolitiche che vogliono garantire l’autosufficienza tecnologica in quanto i flussi commerciali e i
prezzi non erano liberi.
Anche questo sistema non ha funzionato, perché il fatto che fosse completamente isolato ha fatto
sì che importare tecnologia, che nel frattempo si stava sviluppando in maniera più efficiente, fosse
complicato. Il modello comunista non potendo intercettare la domanda mondiale, non ha potuto
importare tecnologia, né tanto meno esportare tecnologia fuori dall’area del COMECON. Il modello
ha quindi accumulato così un forte ritardo tecnologico.
Anche in questo caso come soluzione viene proposto di liberalizzare tutto, stravolgendo un modello
che era fondato sui principi opposti (modello dirigista). Quando le imprese entrano in contatto con
la concorrenza internazionale mostrano tutta la loro inefficienza, gran parte del sistema produttivo
sparisce e viene sostituito da importazioni, e questo provoca un tracollo a livello economico.
Non tutti i paesi appartenenti a quest’area però fanno la stessa fine. Questa divergenza si spiega
per diversi motivi. Certamente la vicinanza geografica e culturale ha pesato e giovato ad alcuni paesi.
I paesi dell’est erano specializzati in industrie leggere che all’inizio sono state spazzate via dalla
concorrenza, ma poi con il tempo sono riusciti a recuperare le proprie conoscenze e competenze
stabilendo i loro insediamenti. Diverso è il caso della Russia che per sua scelta si era lasciata come
campo di specializzazione il settore agricolo, le materie prime e gli armamenti che sono industrie
che nel complesso sono state difficili da convertire. Per questo la Russia ha avuto un grave tracollo
dell’economia.

67
Imprese multinazionali e IDE investimenti diretti esteri
L’impresa multinazionale è un’impresa che controlla e gestisce stabilimenti localizzati in almeno
due paesi. È un’impresa che possiede una quota azionaria significativa di un’altra impresa che opera
in un altro paese.
Esempio: sono multinazionali Coca Cola, Nestlè, Nike, Intel, Apple, ecc

Un investimento diretto estero (IDE) è un investimento internazionale volto all’acquisizione di


partecipazioni durevoli in un’impresa estera (M&A = fusioni e acquisizioni) o alla costituzione di una
filiale all’estero (può essere nella forma greenfield se la costituzione avviene in un’area che non era
precedentemente utilizzata, o nella forma brownfield se la nuova filiale è il risultato di una
riconversione), che comporti il coinvolgimento dell’investitore nella direzione dell’impresa.
L’investimento diretto estero può essere:
- IDE in entrata (nell’ottica del paese di destinazione) si realizza quando un’impresa estera
compra un’impresa nazionale o apre una nuova filiale nel paese di destinazione.
Esempio: se la Coca Cola apre uno stabilimento in Italia questo è un IDE in entrata per l’Italia che è
il paese di destinazione. Se la Fiat compra un’impresa tedesca che produce motori questo sarebbe
per la Germania un investimento in entrata perché la Germania è il paese di destinazione.
- IDE in uscita (nell’ottica del paese di origine) si realizza quando l’impresa nazionale compra
un’impresa estera o apre una nuova filiale nel paese estero.
Esempio: se la Coca Cola apre uno stabilimento in Italia questo è un IDE in uscita per gli USA che
sono il paese di origine. Se la Fiat compra un’impresa tedesca che produce motori questo sarebbe
per l’Italia un investimento in uscita perché l’Italia è il paese di origine.
- IDE ORIZZONTALE si realizza quando l’impresa investe all’estero nello stesso settore in cui
opera all’interno. (Un'azienda espande le sue operazioni nazionali in un paese straniero. In
questo caso l'azienda svolge le stesse attività ma in un Paese estero.)
Esempio: l'apertura di ristoranti di McDonald's in Giappone; la costruzione di un impianto Coca Cola
in Italia; Benetton compra un’altra impresa che opera nell’impresa dell’abbigliamento.
- IDE VERTICALE si realizza quando l’impresa investe all’estero in un settore diverso da
quello in cui opera all’interno. (Un'azienda si espande in un paese straniero spostandosi a
un livello diverso della catena di fornitura. In altre parole, un'azienda svolge diverse attività
all'estero ma queste attività sono ancora legate all'attività principale.)
Esempio: McDonald's potrebbe acquistare una fattoria su larga scala in Canada per produrre carne
per i suoi ristoranti; Nokia realizza l’assemblaggio di smartphone in Cina; Benetton compra
un’azienda che lavora il cotone, prima il cotone lo comprava sul mercato, ora invece lo produce lei
stessa.

C’è stato del tempo fino alla crisi del 2007-2008 per far crescere gli IDE ad un tasso di crescita più
forte dell’esportazioni e del Pil mondiale.
Le esportazioni e gli IDE sono due forme di internalizzazione, ma differenti in quanto gli IDE sono
una forma più complessa di internalizzazione rispetto alle esportazioni.
Gli IDE hanno origine prevalentemente nei paesi avanzati e sono diretti prevalentemente ai paesi
avanzati ma la quota dei paesi in via di sviluppo è andata crescendo.
Le fusioni e le acquisizioni occupano la quota maggiore degli IDE soprattutto nei paesi ad alto
reddito.
Gli IDE sono concentrati in settori ad alta intensità di conoscenza e di tecnologia.
Lo scopo di investire in un altro paese è quello di ridurre i costi di produzione e di commercio. Gli
IDE fondamentalmente hanno l’obiettivo di sfruttare i diversi vantaggi comparati dei paesi. I
vantaggi possono essere sia tecnologici, sia in termini di salari più bassi, sia altri fattori determinanti.

68
Le imprese multinazionali sono in media più grandi e più produttive delle imprese nazionali. La
produttività del lavoro indica quanto sono efficienti i lavoratori e la quantità che si riesce a produrre
con x ore di lavoro. Si misura prendendo l’output prodotto / quante ore sono state richieste per
produrre l’output finale.
Nelle imprese multinazionali i lavoratori producono di più, dunque le multinazionali sono più
produttive delle domestiche. Inoltre le multinazionali pagano salari più elevati delle imprese
nazionali e le multinazionali hanno un effetto negativo sui salari delle imprese nazionali.
Le imprese multinazionali sono sempre più coinvolte in reti di produzione internazionale. È un modo
più complesso di organizzare la produzione.

Esempi di frammentazione globale della produzione:


• La Toyota è principalmente impegnata in IDE orizzontali. Il suo sistema di produzione si basa
su impianti di assemblaggio completamente di sua proprietà che usano componenti
acquistati da fornitori esterni.
• L’Intel è impegnata principalmente in IDE verticali. Mentre la parte del processo di
produzione ad alta intensità di lavoro qualificato si trova nei paesi sviluppati, la parte ad alta
intensità di manodopera non qualificata si trova nei paesi in via di sviluppo. Tutti gli impianti
di produzione sono di proprietà di Intel.
• La Nike è principalmente impegnata in offshoring (delocalizzazione = dislocare la produzione
in stati diversi). Le scarpe da ginnastica Nike non sono prodotte negli Stati Uniti né da un
impianto di produzione di proprietà di Nike. Nike subappalta tutta la sua produzione di
calzature a imprese indipendenti di proprietà e gestione estera.
• McDonald opera principalmente in franchising internazionale. Più del 75% dei ristoranti
McDonald in tutto il mondo non sono né proprietà, né gestite dal gruppo McDonald.

Hymer e Dunning spiegano attraverso il paradigma OLI (Ownership, Localization, Internalization)


perché esistono le imprese multinazionali:
Proprietà: le multinazionali devono avere dei vantaggi competitivi per operare in un ambiente poco
familiare (i vantaggi possono riguardare la tecnologia, economie di scala, fattori specifici, ecc.). Le
imprese diventano multinazionali per vantaggi intangibili o tangibili, ad es. il marchio, che gli
permette di avere una certa reputazione.
Localizzazione: deve esserci un motivo per operare in più di una localizzazione (possono esserci
differenze nel prezzo degli input, nella loro qualità, costi di trasporto, accesso al mercato…).
Internalizzazione (= mantenere un’attività all’interno dell’azienda): se le multinazionali decidono di
internalizzare deve esserci un motivo (dovuto ad esempio a costi di transazione, incertezza, ecc). La
scelta è tra operare all’interno dell’impresa oppure affidarsi al mercato (a fornitori indipendenti).

IDE ORIZZONTALI
Se un’impresa vuole servire al meglio un mercato estero ha due possibilità:
1) produrre un bene internamente ed esportarlo. Il vantaggio è che l’impresa può sfruttare le
economie di scala.
2) fare un IDE orizzontale e produrre quindi il bene direttamente nel paese di destinazione. Il
vantaggio è che l’impresa risparmia i costi di commercio (trasporto, tariffe, ecc).
Gli IDE saranno tanto maggiori quanto elevati sono i costi di trasporto, e tanto minori quanto elevate
sono le economie di scala. Questa è nota come “proximity concentration hypothesis” di Brainard.
Quindi gli IDE orizzontali hanno lo scopo principale di ridurre i costi di commercio, ma anche di voler
essere vicini al mercato e di adattarsi ai gusti locali; essi sono definiti anche come market seeking
(cioè l’impresa va alla ricerca del mercato, lo potrebbe servire esportando, invece lo va direttamente

69
a servire nel paese estero, dunque riduce il costo di commercio, che al suo interno contiene il costo
di trasporto e le eventuali barriere doganali).

IDE VERTICALI
(*Tutte le attività che contribuiscono alla creazione del bene finale sono dette catena del valore)
Se un’impresa vuole produrre un bene minimizzando i costi ha due possibilità:
1) svolgere l’intera catena del valore* nel paese di origine. Il vantaggio è che l’impresa non deve
sostenere i costi di commercio.
2) svolgere alcune attività della catena del valore all’estero (questo è l’IDE verticale). Il
vantaggio è che l’impresa può sfruttare le differenze tra paesi nel costo di fattori.
L’impresa potrebbe localizzare le attività ad alta intensità di lavoro qualificato (come marketing e
vendita, R&S, ecc) nei paesi che hanno lavoro qualificato, mentre potrebbe localizzare le attività ad
alta intensità di lavoro non qualificato (come montaggio, assemblaggio, ecc) nei paesi che non
hanno lavoro qualificato. Questo fa crescere la domanda di lavoro qualificato sia nel paese d’origine
sia in quello di destinazione, facendo crescere i salari relativi, perché le attività trasferite all’estero
sono “low skill” nel paese di origine ma “high skill” in quello di destinazione. Si verifica così una
disparità di reddito.
Per i paesi avanzati lo spostamento di produzione in paesi a basso reddito porta a un aumento della
disoccupazione, mentre nei paesi a basso reddito le imprese multinazionali sfruttano la
manodopera locale pagando salari bassissimi e imponendo ritmi di lavoro e condizioni di lavoro
difficili per produrre beni per i paesi avanzati. Questi lavoratori vengono pagati poco poiché in questi
paesi il livello salariale è molto basso; se non ci fosse la multinazionale, questi lavoratori
lavorerebbero di meno. Il problema è che ciò viene chiamato sfruttamento del lavoro poiché va a
beneficio dei consumatori dei paesi industrializzati e genera una certa inquietudine, preoccupazione
e indignazione.
Nel caso di IDE verticali, le economie di scala sono meno importanti perché le attività svolte nel
paese d’origine sono diverse da quelle svolte nel paese estero. Perciò il trade-off non è, come nel
caso dell’IDE orizzontali tra economie di scala e riduzione dei costi di trasporto, ma è tra costi di
commercio (svantaggio) e riduzione dei costi di produzione (vantaggio di efficienza).
Gli IDE verticali avvengono soprattutto tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo; essi hanno
lo scopo principale di ridurre i costi di produzione e sono definiti resource seeking (l’impresa va alla
ricerca di risorse diverse; tutto si basa sul concetto che paesi diversi hanno vantaggi comparati
diversi).
Quindi con gli IDE verticali l’impresa va alla ricerca di risorse diverse collocate in altri paesi. Questa
divisione del processo produttivo in zone diverse fa sì che l’impresa possa risparmiare i costi di
produzione e possa essere più efficiente nella realizzazione del prodotto finale che, avendo un costo
di produzione più basso, può essere anche commercializzato sul mercato ad un prezzo più basso e
di conseguenza aumenterà la competitività sul mercato internazionale.

INTERNALIZZAZIONE
Internalizzare significa realizzare diverse fasi tutte all’interno della stessa impresa. Sia quando si
tratta di IDE orizzontali che verticali la produzione avviene nei confini dell’impresa perché gli IDE
sono una forma di internalizzazione.
Se non si fanno IDE, ma si stipulano contratti e quindi l’impresa opera in modalità franchsing o
offshoring, ne derivano molti rischi e responsabilità, oltre che vari costi di transazione che derivano
dal fatto che l’impresa utilizza il mercato e i contratti.

70
Dall’altro lato l’impresa potrebbe decidere di produrre al suo interno azzerando i costi di
transazione, ma avrebbe lo svantaggio di diventare un’impresa più complessa e meno specializzata
(non può concentrarsi su una precisa fase produttiva).
Questo sarebbe il trade off al quale deve sottostare l’impresa che decide se fare tutto internamente
o di fornirsi sul mercato.
à Utilizzare il mercato ha come svantaggio i costi di transazione, mentre fare tutto all’interno
dell’impresa ha lo svantaggio di essere meno flessibile come impresa, dunque porta ai costi di
gerarchia.
Le imprese quindi esistono perché è profittevole utilizzare i meccanismi di mercato, cioè i costi legati
ad esso (Coase). Un importante costo di transazione menzionato da Coase è quello di specificare
ogni evenienza in un contratto di lungo periodo. Il costo sarà maggiore se la transazione riguarda
grandi trasferimenti di know-how e tecnologia. Altro costo di transazione è il sottoinvestimento che
deriva dalla specificità delle relazioni (problema di hold up). È un costo alto se il grado di specificità
dell’investimento è alto.

Quando internalizzare o fare offshoring? I benefici di usare il mercato (offshoring) anziché di


internalizzare (IDE verticale) sono:
- maggiore grado di flessibilità
- pochi costi fissi
L’internalizzazione è più probabile quando i costi di transazione sono molti alti e i problemi di hold
up sono molto forti, cioè quando vi è forte interdipendenza tra utilizzatore e fornitore.
Ci si aspetta che i costi di transazione sono alti e l’hold up è alto nei settori ad alta tecnologia, cioè
in settori ad alta intensità di capitale.
Gli IDE verticali sono maggiori rispetto all’offshoring in settori complicati e complessi, cioè ad alta
intensità di capitale e non alta intensità di lavoro.

Problema di hold up (“essere catturato da”)= vi è una forte interdipendenza tra fornitore e cliente
e molto probabilmente fornitore e cliente diventano un’unica impresa, cioè ha luogo quel processo
di integrazione verticale dove l’impresa controlla più fasi del processo produttivo per la produzione
di un prodotto finale. Dunque è più probabile che ci sia un IDE verticale, dunque internalizzazione
quando ci si trova in un settore ad alta tecnologia e dove ci sono prodotti complessi e quando sono
molto specifici.

N:B: più il bene è complesso, più è importante per l’azienda internalizzare e dunque compiere IDE
verticali. L’internalizzazione e la volontà di ridurre i costi di transazione è più probabile che ci sia
quando si hanno prodotti complessi e molto specifici (dunque dipende dal grado di specializzazione
del prodotto).
Esempio: laddove i settori sono a più intensità di capitale (es. chimico) sono ad alto livello di
integrazione verticale (cioè IDE) invece il settore tessile (con basso rapporto capitale-lavoro) ha un
basso livello di investimenti diretti all’estero; questo settore fa capo a contratti o sul mercato,
aumentando i costi di transazione.

Gli IDE producono diversi effetti, raggruppabili in 3 principali categorie:


- effetti sul mercato dei prodotti: se l’investimento aumenta la concorrenza questo
implicherà dei prezzi minori per i consumatori. Se invece l’IDE provoca un aumento della
concentrazione, dovuta per esempio al fatto che un’impresa locale viene acquisita, allora i
prezzi saranno più alti per i consumatori. Inoltre gli IDE comportano uno spiazzamento di
imprese locali meno efficienti.

71
- effetti sul mercato dei fattori (lavoro e capitale): nel caso di IDE in entrata, essi generano
un afflusso di capitali nel paese ospite, oltre a provocare un aumento dei salari nei paesi
ospiti e una riduzione degli stessi nel paese d’origine. Nel caso di IDE in uscita, essi possono
determinare una diminuzione della domanda di lavoro e una conseguente diminuzione dei
salari.
- spillover di conoscenze: Gli IDE infine comportano trasferimenti di tecnologia, competenze
(dovuta al trasferimento di lavoratori qualificati) e una domanda di beni intermedi a
contenuto tecnologico più elevato. È importante notare che il trasferimento di tecnologie
avviene solo quando il paese ospitante è in grado di assorbirne le conoscenze e ha una
grande dotazione di capitale umano.

Gli IDE in entrata e in uscita causano effetti diretti (all’interno del settore in cui avviene l’IDE) e
indiretti (nei settori collegati a monte o valle col settore in cui avviene l’IDE):
- per il paese ospitante
o effetti positivi: aumento di capitale e aumento della domanda di lavoro; creazione di
posti di lavoro in settori collegati; aumento dei salari; effetti di spillover e best
practice adottati dalle multinazionali che vengono imitati dalle piccole e medie
imprese domestiche.
o effetti negativi: perdita di posti di lavoro; spiazzamento della produzione locale se
l’impresa estera che compra uno stabilimento nel paese ospitante importa le materie
prime di cui ha bisogno anziché comprarle; introduzione di pratiche di lavoro poco
desiderabili come ad esempio lo sfruttamento della manodopera locale; effetto di
concorrenza sulle imprese locali che può portarle ad abbassare i salari per poter
competere con le multinazionali.
- per il paese di origine
o effetti positivi: investire di più in ricerca e sviluppo, design, servizi post vendita,
dunque creazione di posti di lavoro in settori più specializzati; miglioramento delle
competenze e utilizzo di lavoratori sempre più qualificati e quindi crescita delle
industrie più specializzate (meno lavoratori unskilled); mantenimento dei posti di
lavoro nei settori affiliati a quello di produzione; maggior sostegno alle industrie più
specializzate.
o effetti negativi: taglio costi di lavoro ai lavoratori; perdita di posti di lavoro; salari
“prendere o lasciare”; maggiore pressione sui salari e standard lavorativi che possono
ripercuotersi sulle imprese fornitrici.

72
Catene globali del valore
Le catene globali del valore includono tutte le attività che le imprese attuano per portare un
prodotto dalla progettazione al suo utilizzo e distribuzione.
Alcune fasi della catena globale del valore possono essere svolte in paesi diversi, ad esempio in paesi
in via di sviluppo.
Si tratta di un fenomeno di globalizzazione/internalizzazione (frammentazione del processo
produttivo) che è stato reso possibile dalla riduzione dei costi di trasporto; la riduzione dei costi di
trasporto è legata alle rivoluzioni tecnologiche, in particolare la terza rivoluzione industriale, cioè la
rivoluzione basata sulle tecnologie dell’informazione e comunicazione.
Esempio di catene globali del valore: Ipod e computer della Apple; il progetto di sviluppo viene fatto
in un paese industrializzato e nel paese sviluppato vengono collocate alcune fasi del processo
produttivo che richiedono manodopera abbondante e specializzata/qualificata.
Poi si hanno fasi del processo produttivo come la produzione dei vari componenti (hardisk, schermo
ecc.) la cui produzione può avvenire in paesi con un livello di sviluppo intermedio e infine ci sono
altre fasi più semplici del processo produttivo come l’assemblaggio, che spesso vengono fatte in
paesi con livelli di sviluppo più bassi poiché non c’è bisogno di una manodopera particolarmente
qualificata per fare l’assemblaggio. Il prodotto finito ritorna nel paese di origine dove è stato
sviluppato il progetto di sviluppo, e poi viene esportato nelle varie parti del mondo.
Per esempio la Bianchi, l’impresa di biciclette più vecchia del mondo, adesso è di proprietà di
un gruppo svedese; attualmente produce biciclette che sono disegnate e sviluppate in Italia e
assemblate a Taiwan, utilizzando componenti che provengono da diversi paesi nel mondo: la sella
può essere prodotta in Cina, in Italia o in Spagna; il telaio in Cina, in Vietnam o in Italia e i freni in
Giappone, Malesia o a Singapore.

Smiling curve

Sull’asse delle y troviamo il valore aggiunto, sull’asse delle x si hanno le varie localizzazioni. Se ci si
muove verso destra sull’asse orizzontale, si va verso fasi che si trovano a valle, cioè vicino al
consumatore finale. Mentre verso sinistra a monte, c’è la ricerca e sviluppo poiché è una fase
distante dal consumatore finale.
L’altezza della curva dice quanto valore aggiunto viene impiegato nelle varie location del processo
produttivo.
Il primo stadio è Ricerca e sviluppo/conoscenza, lo stadio intermedio è la manifattura e servizi
standardizzati, mentre il terzo stadio, più a valle (quindi più vicino al consumatore finale) è il
marketing.

73
Il valore aggiunto è più alto nel primo e nel terzo stadio, cioè nelle fasi più a monte e più a valle,
mentre nelle fasi intermedie si genera meno valore aggiunto.
I paesi industrializzati sono stati chiamati “headquarter economies” perché hanno tenuto presso di
loro le fasi più creative del processo produttivo.
I paesi meno sviluppati ed emergenti sono quei paesi in cui si genera meno valore aggiunto e si
trovano in quella parte della smiling curve in cui il valore aggiunto è molto basso. Mentre i paesi
industrializzati si collocano molto a monte e molto a valle, dove si trae un alto livello di valore
aggiunto
à Le attività ad alto valore aggiunto sono svolte nelle economie avanzate, mentre le attività a basso
valore aggiunto sono svolte nelle economie emergenti.
Ma le imprese delle economie emergenti stanno cercando di sviluppare competenze in attività ad
alto valore aggiunto ("catch-up"). Le imprese delle economie di mercato avanzate stanno
eliminando parti standardizzate delle loro attività ad alto valore aggiunto e riducendo i costi
trasferendole alle economie di mercato emergenti ("spillover"). La rapida innovazione, svolta nelle
economie di mercato avanzate, sta così generando nuove costellazioni di valore ("creazione di
industria").
Inoltre osservando ciò che accade all’interno della smiling curve in un’ottica dinamica, le imprese
che controllano le attività nel mezzo della catena del valore hanno forti incentivi ad acquisire le
risorse e le competenze che consentiranno loro di controllare attività a più alto valore aggiunto. Di
conseguenza le imprese che controllano le estremità della catena del valore (le economie di mercato
avanzate) si trovano di fronte a un panorama sempre più competitivo, in quanto i nuovi entranti
provenienti dalle economie dei mercati emergenti hanno forti incentivi ad aumentare l'efficienza e
l'efficacia delle attività ad alto valore aggiunto che controllano. La flessibilità consente a queste
imprese di eliminare le attività standardizzate sia dalle attività di R&S a monte, sia di marketing a
valle che possono poi essere ricollocate nelle economie dei mercati emergenti. Inoltre le estremità
del "sorriso" della smiling curve non sono statiche. Emergono nuove industrie dalla R&S applicata a
monte e attraverso innovazioni di marketing e distribuzione a valle. Al momento, questo processo
è concentrato nelle economie di mercato avanzate.

Le imprese possono attuare diverse strategie:


- strategia di integrazione verticale, l’impresa controlla tutte le fasi del processo produttivo,
le può anche localizzare all’estero, ma rimangono di sua proprietà. Dunque l’impresa ha un
controllo su ciò che accade nella produzione del prodotto. Questa strategia sottolinea
l'opportunità di sfruttare le economie di collegamento o "linkage economies", in base alle
quali il controllo di più attività della catena del valore migliora l'efficienza e l'efficacia di
ciascuna di esse.
- strategia di specializzazione, questa strategia si concentra sull'identificazione e il controllo
del cuore creativo della catena del valore, mentre esternalizza tutte le altre attività. Ad
esempio l’impresa decide di pensare solo al design e dopo manda il proprio design ad
imprese indipendenti e gli dice di fare diverse componenti ecc.
Le imprese possono attuare anche scelte strategiche di localizzazione:
- onshore in house = è la strategia di integrazione verticale concentrata. Si opera sullo stesso
luogo e all’interno della stessa impresa.
- onshore outsourced = è una strategia concentrata che consiste in una specie di
disintegrazione verticale all’interno dello stesso paese.
- captive offshore = è una strategia di localizzazione dispersa. L’impresa guarda al mondo
aprendo stabilimenti e vuole il controllo diretto su di essi.

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- offshore outsource = è una strategia di localizzazione dispersa in cui l’impresa guarda sia al
mondo sia al mercato. Si rivolge a imprese indipendenti localizzate in paesi differenti.
A spingere verso una scelta o un’altra sono i costi di transazione, che sono stati introdotti da Coase,
cioè i costi di utilizzo del mercato.
Quando le imprese ottengono vantaggi significativi dall'integrazione verticale, i costi di transazione
dell'utilizzo del mercato sono elevati e l'outsourcing non è attraente.
L'impresa dovrebbe mantenere il controllo sulle attività in cui può creare e appropriarsi del massimo
valore.
I progressi tecnologici hanno permesso di disaggregare i processi aziendali in fette sempre più sottili.
Le aziende concorrenti all'interno dello stesso settore spesso implementano livelli molto diversi di
integrazione verticale.
Con le economie di collegamento un’impresa è più brava e più efficiente a fare una determinata
fase del processo produttivo quando ne controlla anche altre. Vi sono economie di collegamento
quando l’efficienza nel portare avanti una determinata fase del processo produttivo aumenta
quando l’impresa controlla altre fasi del processo produttivo. Le aziende possono anche realizzare
economie semplicemente perché controllano più attività nella catena del valore; il controllo di più
attività nella catena del valore migliora l'efficienza e l'efficacia di ciascuna di esse.
Ciò favorisce l'integrazione verticale. Tuttavia le aziende potrebbero scoprire che il controllo di
un'ampia gamma di attività riduce la concentrazione su ciascuna di esse. Tali imprese hanno basse
economie di collegamento o possono anche soffrire di diseconomie di collegamento. Per altre
imprese, queste economie di collegamento potrebbero non essere importanti; pensano che non sia
importante produrre ma pensano che sia più importante specializzarsi in una sola cosa. Sono
imprese che puntano tutto su fattori intangibili. Ne è un esempio la Apple che preferisce
specializzarsi in asset intangibili poiché c’è una serie di elementi collegati da cui trae valore rispetto
alla produzione.
à Tanto più il bene è complesso e specifico, tanto più l’integrazione verticale è una buona strategia;
tanto più importanti sono le economie di collegamento, tanto più conviene avere il controllo e
quindi adottare una strategia di integrazione verticale.
Esempio delle strategie: Nokia e Apple adottano due strategie differenti all’interno dello stesso
settore.
Apple controlla le attività intensive di ricerca e sviluppo a monte della catena del valore e le attività
di marketing legate alla gestione del marchio a valle. Le altre attività vengono esternalizzate. Apple
principalmente controlla le attività di ricerca e sviluppo e gestisce Itunes.
La smiling curve della Apple: negli USA fa ricerca e sviluppo, commercializzazione e disegno del
progetto di sviluppo, management del brand e marketing, nonché servizi post vendita. Mentre
l’assemblaggio avviene a Taiwan. Alcune componenti le fa la Samsung e un’impresa olandese.
La Apple si specializza nel design della ricerca e sviluppo e nelle attività di marketing e servizi post
vendita.
Nokia e Samsung invece avevano importanti economie di collegamento ed era importante avere dei
collegamenti con i siti di produzione. Nokia segue la strategia di integrazione verticale: la produzione
genera economie significative nelle attività di progettazione e marketing, creando un approccio
gerarchico dell’organizzazione aziendale, dal momento che il valore marginale degli investimenti
nella produzione è alto.
Nokia mantiene stabilimenti di produzione in paesi determinati, mentre la Apple sceglie
semplicemente il miglior partner o fornitore per le componenti che progetta.
Samsung ha un modello più integrato rispetto a quello della Apple, dunque ha un maggiore controllo
sulle fasi di processo produttivo più vicino alle parte centrale della smiling curve. Mentre la Apple
ha una strategia definita semi-integrata nella quale si rivolge ad una serie di imprese indipendenti

75
che la riforniscono e si specializza a monte e valle della smiling curve; lo stesso modello è stato
adottato dalla Motorola ed Edison.

La formazione delle catene globali del valore avviene in 2 fasi:


1) First unbundling, è la prima frammentazione del processo produttivo all’interno dello stesso
paese scaturita dalla caduta dei costi di trasporto. Questa prima fase è iniziata negli anni 80
e ha visto un aumento dei paesi industrializzati.
2) Second unbundling, consiste nella seconda frammentazione delle fabbriche e
nell’offshoring, guidata dalla riduzione dei costi delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione. In un contesto di sempre maggiore globalizzazione si è verificata una
distribuzione internazionale della produzione tra paesi headquarter e paesi factory. I paesi
headquarter sono sviluppati (Europa occidentale, USA, Giappone) e le factory economies
sono paesi in via di sviluppo e emergenti situati vicino ai paesi sviluppati (Brasile, Messico,
alcuni paesi dell’Est Europa, India, Corea, paesi del sud-est asiatico) che hanno potuto
industrializzarsi legandosi alle catene globali del valore. Le industrie sono diventate così
meno verticalmente integrate e più snelle.

L’attuale pandemia di Covid19 ha provocato un calo del commercio internazionale mai registrato
prima d’ora (superiore anche alla crisi del 2008).
Si è trattato inizialmente di una crisi dal lato dell’offerta, la quale si ha quando le imprese immettono
meno beni sul mercato (dovuto nell’esempio della pandemia ad un’interruzione forzata della
produzione).
La crisi dal lato della domanda invece si ha quando i consumatori avendo meno reddito domandano
meno beni.
In molti settori è stato necessario sospendere la produzione a causa delle misure anti covid adottate.
Le evidenze finora disponibili mostrano che non c’è una correlazione tra il livello di frammentazione
della produzione settoriale e la gravità dell’impatto economico del Covid19. Cioè il Covid non ha
avuto un impatto più grande in quei settori che sono più frammentati tra i paesi.
Con la crisi COVID è emerso un nuovo dibattito sulle Global Value Chains: la domanda è se l'eccessiva
globalizzazione della produzione abbia creato nuove vulnerabilità. Le aziende saranno
probabilmente costrette a ripensare le Global Value Chains nell’ottica di accorciare le catene e
aumentare la vicinanza al cliente e dovranno pensare alla resilienza delle Global Value Chains e alla
diversificazione dei fornitori per proteggersi da eventi che possono influenzare una particolare
posizione geografica.
E dunque sono nati due dibattiti su due concetti relativi alle Global Value Chains: la resilienza e la
robustezza.
La resilienza è la capacità di riassorbire le crisi, cioè di tornare alla normalità entro un periodo di
tempo accettabile dopo la crisi.
La robustezza è la capacità di mantenere le operazioni durante una crisi. È richiesto che non ci sia
interruzione della produzione. Nonostante la crisi, si continua a produrre.
La robustezza è fondamentale nelle aree essenziali. Per esempio nel settore dei farmaci o del cibo
sono richieste catene globali di valore robuste, perché un’interruzione della loro produzione
avrebbe effetti catastrofici.
Per avere robustezza una buona strategia è avere molti fornitori o molte sedi alternative.
Investire in robustezza significa investire in strumenti in grado di monitorare i rischi e prevenirli e
questo richiede costi abbastanza elevati, quindi alcune aziende sono più interessate alla resilienza
che alla robustezza e a ridurre al minimo l'impatto di eventi negativi e interruzioni della produzione
piuttosto che evitarli.

76
Se si ha una catena molto diversificata ci sono relazioni meno forti con i fornitori e la capacità di
ripresa tende ad essere meno forte. Se invece le relazioni con i fornitori sono stabili la ripresa è più
forte e veloce.
Resilienza e robustezza non vanno nella stessa direzione, quindi è necessario scegliere una o l’altra.

Il reshoring (rientro a casa delle aziende che erano delocalizzate. Significa riportare la produzione
all’interno dei confini nazionali. È il contrario di offshoring) non è consigliato per la robustezza
perché possono verificarsi disastri nell’economia domestica.
Non è chiaro se il reshoring rappresenti veramente una soluzione. La maggior parte degli economisti
è scettica su questa soluzione, perché per quello che si è visto dall’esperienza, un certo grado di
diversificazione è utile per riassorbire gli shock.
Se si pensa ai beni essenziali il reshoring risulta una via difficile e probabilmente inefficiente.
Pensando ai dispositivi medici, l’aumento di domanda deve portare ad un aumento della produzione
globale e ciò si può ottenere solo grazie alle catene globali del valore; senza sarebbe difficile perché
per arrivare al bene finale che si esporta ci sarebbe bisogno di così tante competenze e fasi di
produzione che è difficile che queste siano collocate tutte all’interno dello stesso paese. È quindi
impensabile fare tutto all’interno dello stesso paese.
Inoltre nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, le catene globali del valore hanno assicurato
un gran numero di dispositivi di protezione (mascherine, guanti, gel igienizzanti, kit di test covid) in
pochissimo tempo. Senza le global value chains questo non sarebbe stato possibile.
à Le politiche in futuro dovrebbero quindi sostenere gli sforzi delle imprese per costruire catene di
approvvigionamento più forti e più resilienti e non concentrarsi sull'autosufficienza.

Anche per quanto riguarda il dibattito sull’autonomia strategica, non è chiaro quale sia la migliore
soluzione (ritorno al protezionismo?).
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e le restrizioni alle esportazioni di forniture mediche e
prodotti agricoli hanno creato incertezza sul futuro del libero scambio.
In futuro potrebbe rafforzarsi la tendenza verso una maggiore regionalizzazione delle filiere. Le
catene del valore internazionali continueranno a svolgere la loro funzione, probabilmente
diventeranno più regionalizzate.
Queste tendenze e le tensioni USA-Cina cresceranno indebolendo il sistema multilaterale del
commercio e rafforzando il peso degli accordi regionali.

77
Quarta rivoluzione industriale
Freeman e Perez classificano le innovazioni in base all’impatto (crescente) che esse hanno sul
sistema economico:
- Innovazioni incrementali = consistono nel miglioramento dei prodotti o dei processi già
esistenti, attraverso l’innovazione. Caratterizza qualsiasi tipo di attività, sia a livello di
prodotto che di processo produttivo. Gli elementi caratterizzanti le innovazioni incrementali
sono la combinazione di fattori socioculturali, di opportunità e di traiettorie tecnologiche.
Questo tipo di innovazione si sviluppa attraverso un approccio “learning by doing”, cioè un
insieme di miglioramenti dovuti all’azione dei soggetti impegnati nel processo produttivo o
dovuti ad un feedback che si sviluppa tra il produttore e il consumatore.
Esempio: telefono fisso cordless.
- Innovazioni radicali = sono prodotti o processi completamente nuovi. È il frutto di un
processo di ricerca e sviluppo da parte di imprese, centri di ricerca o istituzioni. È la
combinazione di fattori di prodotto, processo e fattori di tipo organizzativo.
Esempio: cellulare, computer, internet, penicillina, elettricità.
- Nuovi sistemi tecnologici = è l’insieme di innovazioni incrementali e radicali che interessano
uno o più settori. Possono dare origine anche a interi nuovi settori di sviluppo; sono la
combinazione di fattori tecnologici, economici, sociali, istituzionali che si diffondono su larga
scala coinvolgendo una grande parte di soggetti. Per nuovi sistemi tecnologici si intende un
insieme di innovazioni incrementali e radicali che influenzano un intero settore
dell’economia.
- Nuovi paradigmi tecnologici = hanno impatto sull’intero sistema economico, è il sinonimo
di rivoluzione industriale. Questi sono trasversali a tanti settori, non hanno effetto su un solo
settore ma colpiscono il modo in cui si produce all’interno di tutti i settori, portando
ripercussioni non solo in termini di efficienza ma anche in termini di organizzazione della
produzione. I paradigmi tecnologici definiscono i bisogni che devono essere soddisfatti, i
principi scientifici e le tecnologie che devono essere utilizzate. La scelta di un paradigma
tecnologico definisce un sentiero e non si può spiegare con criteri economici di mercato ma
piuttosto con fattori politici, sociali e istituzionali che guidano le economie su traiettorie
tecnologiche.
Il passaggio da un paradigma tecnologico ad un altro comporta delle modifiche su vari livelli:
a livello di impresa (nuovo modo di organizzazione); a livello di forza lavoro (vengono
richieste nuove qualifiche ai lavoratori); a livello di prodotti (si crea un nuovo mix di
prodotti); a livello di nuovi paesi leader (nuova divisione internazionale del lavoro); a livello
di infrastrutture (ogni paradigma necessita di infrastrutture proprie); a livello di struttura del
mercato (concentrato o frammentato a seconda del paradigma).
Esempio di paradigma tecnologico: la chimica sintetica basata sul petrolio, la microelettrica
fondata sui semiconduttori (per necessità militari e/o aereospaziali), il motore a
combustione interna.

Analizzando le fasi storiche:


La prima rivoluzione (1784) è stata caratterizzata dall’uso del vapore che porta alla meccanizzazione
della produzione. Ha origine in Inghilterra che diviene fino al ‘900 paese leader
dell’industrializzazione.
La seconda rivoluzione (1870) ha usato l’elettricità per creare la produzione di massa. Si parla sia di
tecnologia sia di un’organizzazione diversa della produzione rispetto a prima. Cambia il modo di
produrre.

78
Nella terza rivoluzione (1969) la tecnologia dell’informazione e della comunicazione portano
all’automazione della produzione.
La quarta rivoluzione è basata sui sistemi cyber-physical, in cui le informazioni vengono scambiate
da un macchinario all’altro. È la così detta “rivoluzione digitale”. La quarta rivoluzione industriale
porta una serie di opportunità ma pone anche una serie di problemi. Ha il potenziale di far crescere
le economie nelle diverse parti del mondo, e di far migliorare la qualità della vita. Grazie alla
tecnologia sono nati dei prodotti/servizi che hanno migliorato le nostre vite sotto diversi aspetti.
costi di
Inoltre ha il potenziale di consentire il drastico calo dei trasporti e della comunicazione.
Ci sono anche una serie di effetti preoccupanti: per esempio la quarta rivoluzione potrebbe produrre
maggiori disuguaglianze. La sostituzione netta dei lavoratori da parte delle macchine potrebbe
accrescere il divario tra il rendimento del capitale e il rendimento del lavoro. Il mercato del lavoro è
sempre più frammentato in segmenti “bassa competenza/bassa retribuzione” e “alta
competenza/alta retribuzione”; ciò potrebbe causare tensioni sociali. La tecnologia nei casi più gravi
ha fatto diminuire il reddito nei paesi ad alto reddito.
Il vantaggio di usare una determinata tecnologia è tanto più grande quanto più i consumatori si
dirigono verso di essa (esternalità). Il vincitore del mercato quindi si prende tutto il mercato. Questo
comporta che alcune imprese avranno una forte concentrazione della ricchezza e un grande potere
di mercato.

Schema riassuntivo delle principali invenzioni delle rivoluzioni:


Prima rivoluzione: motori a vapore, filatura di cotone e ferrovie.
Seconda rivoluzione: fu la più importante, con le sue tre invenzioni centrali di elettricità, il motore
a combustione interna e l'acqua corrente con impianto idraulico interno.
Le invenzioni possono essere raggruppate in cinque categorie:
1. elettricità
2. il motore a combustione interna e tutti i suoi miglioramenti secondari fino al sistema
autostradale interstatale
3. l’acqua corrente, impianto idraulico interno e riscaldamento centrale
4. riorganizzazione molecolare, incluso tutto ciò che riguarda il petrolio, i prodotti chimici, le
materie plastiche e i prodotti farmaceutici
5. l'insieme di dispositivi di comunicazione e intrattenimento tra cui il telefono, il fonografo, la
fotografia popolare, la radio e i film.
Terza rivoluzione: rivoluzione del computer, di Internet e dell’ecommerce. Fu introdotto il primo
robot industriale, la prima carta di credito, i primi personal computer.
Quarta rivoluzione: si è incentrata su dispositivi di intrattenimento e comunicazione che sono più
piccoli, più intelligenti e più capaci. Ha riguardato anche l’intelligenza artificiale, veicoli senza
conducenti, robot, sistemi cognitivi che consentono nuovi tipi di relazione tra uomo e computer,
tecnologia combinata alle abilità umane usate sul campo lavorativo per fare previsioni più accurate,
sfruttamento l’IT, ecc.

Relativamente alla terza e quarta rivoluzione industriale c’è un dibattito sugli effetti che queste
possono avere sulla crescita economica e sull’incremento della produttività. C’è una posizione
ottimista (di McAfee e Brynjolfsson) e una pessimista (di Gordon) sulla questione.
Gordon ha una visione pessimista: la quarta rivoluzione industriale non ha portato crescita di
produttività come le precedenti rivoluzioni. Mostra con una serie di grafici i suoi principi teorici.
La crescita economica è stata considerata come un processo continuo e persistente nel tempo. Però
prima del 1750 non c’è stata nessuna crescita e questo spinge Gordon a pensare che i rapidi
progressi compiuti potrebbero essere un episodio unico nella storia. Gli elevati tassi di crescita

79
potrebbero essere stati la conseguenza del grande fermento avuto dopo la prima e la seconda
rivoluzione industriale, e vengono da lui considerati come un caso unico. Ritiene poi che la terza e
la quarta rivoluzione industriale abbiano portato tecnologie che hanno determinato dispositivi di
intrattenimento sempre più veloci, ma non hanno cambiato radicalmente la produttività del lavoro,
come invece avevano fatto gli elementi della seconda rivoluzione industriale (elettricità, ...) che fino
al 1970 stavano ancora trasformando l’economia.
Altra osservazione fatta da Gordon è che gli effetti della seconda rivoluzione si sono protratti per un
periodo di tempo molto lungo e non si potranno ripetere in futuro. Un esempio è l’aumento della
velocità: è difficile pensare che in futuro possa esserci un incremento altrettanto sostanziale. Un
altro esempio è lo spostamento dalle campagne verso le città: ora molti paesi sono diventati
urbanizzati e l’80% delle persone vive in centri urbani. È quindi evidente che i benefici delle grandi
invenzioni non possono ripetersi. Tutto ciò che rimane dopo il 1970 viene considerato un
miglioramento secondario.
La terza rivoluzione industriale ha raggiunto il culmine alla fine degli anni ’90 ma l’impatto sulla
produttività si è arrestato negli ultimi anni, così come le invenzioni degli anni 2000 non hanno
cambiato radicalmente la produttività del lavoro.
Per le prime due rivoluzioni quindi il processo di crescita è durato circa 100 anni, mentre per la terza
il processo è stato molto più breve e veloce. Tutte queste osservazioni portano Gordon a prevedere
tassi di crescita molto rallentati, intorno all’1%. Inoltre ipotizza la tendenza dei “venti contrari”, che
bloccheranno l’economia americana, e arriva alla conclusione che in futuro si tornerà a tassi di
crescita simili a quelli avuti prima della seconda rivoluzione industriale (vicini allo 0%), a conferma
della sua tesi che l’accelerazione della crescita sia stato un episodio unico.
I tassi di crescita eccezionali, per Gordon, sono dovuti a cluster di innovazioni (avvenute durante la
seconda rivoluzione industriale) che riguardano molti settori diversi dell’economia: il primo è
l’introduzione dell’elettricità, intesa come innovazione incrementale. Il secondo è il motore e la
combustione interna e tutti gli effetti che ha portato. Il terzo è l’introduzione dell’acqua corrente. Il
quarto riguarda l’industria chimica (petrolio, plastica...). Infine quello che riguarda le prime forme
innovative di comunicazione (telefono, radio, telegrafo...). Molti settori diversi sono stati interessati
dai cambiamenti del periodo. Tutto ciò ha generato enormi aumenti della produttività e sono state
talmente tante le innovazioni che gli effetti sono andati avanti per circa un secolo. Negli anni 70
dell’800 gli effetti e i cambiamenti si erano sostanzialmente conclusi.
La terza rivoluzione industriale nasce con i primi usi commerciali del computer intorno al 1960.
Continua con lo sviluppo di internet, il web e l’e-commerce. C’è stato un momento di boom
economico alla fine degli anni 90 quando le aziende sviluppavano i loro siti web, tuttavia questo
periodo è stato piuttosto contenuto rispetto agli effetti delle tecnologie della seconda rivoluzione
industriale.
L’idea di Gordon è che gli effetti della terza rivoluzione si sono esauriti, producendo effetti
trascurabili sul sistema economico.
Per molto tempo si è parlato del paradosso della produttività: ci sono le tecnologie ma non si è in
grado di utilizzarle. È una cosa che accade spesso, perché sono trasformazioni che chiedono
investimenti complementari in formazione e competenza (le persone non sanno usare le
tecnologie). Oltre alle competenze, spesso, ci sono problemi di organizzazione.
Gordon mostra che la terza rivoluzione industriale ha avuto un impatto che ha spinto più su il Pil.
Però se la crescita fosse stata come quella della seconda rivoluzione industriale si sarebbe raggiunto
un Pil di gran lunga maggiore.
I sei venti contrari di Gordon riguardano:
- “invecchiamento della popolazione/dividendo demografico”: significa che la popolazione
attiva tende a diminuire rispetto alla popolazione totale. Se le ore lavoro diminuiscono

80
rispetto alla popolazione a parità di produttività il Pil pro capite sarà più basso. Se la
popolazione invecchia il Pil pro capite sarà sempre più basso.
- “Istruzione”: fenomeno specifico degli USA dove si è osservato che il costo dell’istruzione è
aumentato e l’efficacia invece è diminuita. Gli USA stanno calando nelle classifiche della %
della popolazione che ha completato l’istruzione.
- “Aumenti di disuguaglianza”: la ricchezza si concentra in una fetta sempre più piccola della
popolazione.
- “Interazione tra globalizzazione e tecnologie”: gli effetti della globalizzazione sono vari, tra
cui l’outsourcing che può generare una crisi del settore manifatturiero.
- “Deficit delle famiglie e del governo”: il governo spende di più di quanto ottiene con la
tassazione e le famiglie aumentano i loro livello di indebitamento.
- “Energia e ambiente”: gli economisti raccomandano di imporre una tassa sul carbone per
spingere i prezzi americani della benzina verso quelli europei, cosa che ridurrà la quantità
che le famiglie hanno da spendere per il resto.
Gordon somma tra loro tutti questi effetti dei venti contrari giungendo alla conclusione che la
concorrenza dei mercati emergenti farà scendere i salari più bassi; il processo di industrializzazione
dei paesi emergenti farà aumentare i problemi ambientali; gli americani hanno consumato più di
quanto abbiano prodotto e questa tendenza deve essere invertita; i tentativi di migliorare
l’istruzione sono stati inefficaci; il problema demografico può essere risolto in parte consentendo
l’immigrazione di manodopera altamente qualificata.

McAfee e Brynjolfsson hanno invece una visione ottimista. Analizzano le potenzialità della quarta
rivoluzione industriale. Iniziano commentando un libro di Levy e Murnane, dove ci si chiede quali
competenze siano più facilmente sostituibili dalle macchine e quali invece continuino a richiedere
competenze umane.
I computer non possono sostituire i lavori umani in alcune competenze come ad esempio la guida.
Solo 6 anni dopo la guida è passata da essere un’attività non automatizzata ad un’attività che invece
poteva essere sostituita dai computer.
Ci sono altri esempi di competenze difficilmente sostituibili: le competenze legate alla capacità di
comunicare (ad oggi è possibile anche questo, anche se non alla stessa maniera della mente umana).
Le trasformazioni che ci immaginiamo poco possibili diventano quindi possibili e reali in un arco di
tempo piuttosto breve.

Il paradosso di Moravec afferma che è relativamente facile fare in modo che i computer forniscano
performance a livello di un adulto in un test di intelligenza, ma parlando di percezione o di mobilità
è difficile o impossibile dare loro le capacità di un bambino di un anno. Alla base di questo paradosso
risiede il fatto che i ragionamenti sofisticati richiedono poca capacità di calcolo mentre le abilità
senso-motorie, anche di basso livello, richiedono enormi risorse computazionali. Tuttavia, i nuovi
robot hanno acquisito non solo capacità manipolative notevoli, ma anche la capacità di apprendere.
Questi progressi e risultati nell’intelligenza artificiale fanno credere che la quarta rivoluzione
industriale possa portare al superamento del paradosso di Moravec.
Tre sono le caratteristiche della quarta rivoluzione industriale alla base dei progressi osservati nel
campo dell’intelligenza artificiale:
- Carattere esponenziale: possiamo riferirci alla previsione di Moore (legge di Moore) il quale
affermava che la potenza dei microprocessori sarebbe raddoppiata in circa 1 anno o poco
più. La legge evidenzia la possibilità di crescita esponenziale.
- Carattere digitale: le tecnologie digitali godono di due importanti proprietà: la non rivalità e
la presenza di costi marginali vicini allo zero. Per non rivalità si intende la proprietà per cui

81
l’utilizzo dell’informazione digitale da parte di un utente non limita l’utilizzo da parte di un
altro. Inoltre questa informazione ha un costo di riproduzione vicino allo zero. A proposito
delle tecnologie digitali Shapiro e Varian affermano che l’informazione è costosa da
produrre ma poco costosa da riprodurre. Tutto questo porta alla creazione di una mole
esponenziale di dati, il cosiddetto fenomeno dei big data che hanno reso possibile
l’evoluzione dell’intelligenza artificiale verso un nuovo approccio chiamato machine
learning (è la capacità dei programmi di apprendere).
- Carattere combinatorio delle nuove tecnologie: molte innovazioni hanno combinato tra
loro cose già esistenti. Brynjolfsson e McAfee osservano come le tecnologie digitali siano le
più polivalenti e come la rete digitale sia l’incubatrice dell’innovazione ricombinante. Ne
sono un esempio le auto che si guidano da sole, Instagram, Facebook. Questi sono tutti
esempi di innovazioni che hanno generato profitti elevatissimi ricombinando tecnologie
esistenti. Inoltre negli ultimi anni molte organizzazioni hanno adottato la strategia di
sottoporre problemi da risolvere a numerosi utenti, non necessariamente esperti della
materia. Questo fenomeno prende il nome di open innovation (innovazione aperta) e
crowdsourcing. Gli studi in questo campo hanno mostrato come le persone meno
specializzate nel settore in cui il problema veniva posto avevano maggiori probabilità di
proporre soluzioni efficaci. àL’innovazione è più efficace quando l’impresa riesce a
interfacciarsi in maniera efficace con altre imprese, attraverso lo scambio di informazioni tra
partner diversi.

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L’industria italiana e la specializzazione produttiva – LEZIONE 30
Al giorno d’oggi l’Italia ha una delle basi manifatturiere più diversificate tra quelle dei paesi avanzati.
Questa specializzazione produttiva della manifattura italiana è stata possibile grazie
all’accumulazione di saperi che a sua volta deriva da due modelli di industrializzazione che si sono
susseguiti nell’ultimo secolo.
Il PRIMO MODELLO dura fino ai primi anni 70 ed è caratterizzato dal ruolo centrale assunto dallo
Stato nell’indirizzare la specializzazione.
Il SECONDO MODELLO va dagli anni 70 in poi ed è invece caratterizzato dal ruolo centrale assunto
dalle forze di mercato nell’indirizzare la specializzazione.
Il passaggio dal primo modello al secondo modello coincide con la fine della Golden Age, con la
quale si ridimensiona molto il ruolo della politica industriale, la quale viene sostituita dalle politiche
per la concorrenza, e le economie occidentali si aprono al commercio internazionale.
Il passaggio implica semplicemente che cambiano le forze che guidano l’economia. I due modelli
non si sostituiscono di punto in bianco ma si affiancano finché il primo modello viene
definitivamente superato.
Il PRIMO MODELLO di industrializzazione porterà l’Italia alla specializzazione produttiva già
esistente nelle altre economie dei paesi avanzati (in altre parole, nel primo modello lo sforzo è stato
quello di far assomigliare quanto più possibile l’industria italiana a quella delle altre economie
occidentali), mentre il SECONDO MODELLO rappresenta un percorso di sviluppo originale e
anomalo rispetto a quello che si osservava nelle altre economie occidentali. (vedi pag 85)

Il PRIMO MODELLO DI INDUSTRIALIZZAZIONE si sviluppa nel periodo a cavallo tra le due guerre
mondiali, dalla necessità del Governo italiano di dotare il paese di un apparato industriale moderno
in grado di stare al passo con le altre potenze europee. Le risorse umane e finanziarie vengono così
indirizzate a favore dei settori della meccanica (inclusi macchinari e mezzi di trasporto), chimica e
metallurgia, che erano ritenuti strategici.
A risentire negativamente di questa situazione sono i settori tradizionali (come il tessile,
abbigliamento, alimentari, legno, arredo, ecc.) che non ricevono supporto da parte dello Stato e che
soffrono di una stagnazione della domanda tenuta bassa a causa di una compressione salariale.
Lo Stato ha puntato quindi sullo sviluppo di industrie ad alta intensità di capitale lasciando le
produzioni tradizionali ai margini dello sviluppo. Lo Stato è riuscito a favorire lo sviluppo delle
industrie strategiche attraverso la leva della domanda pubblica (oggi denominata public
procurment), in questo modo attivava la domanda da parte dello stato per queste produzioni (si
pensi alla domanda militare); attraverso il sistema bancario che in quell’epoca era in mano pubblica
e erogava agevolazioni creditizie a determinate industrie piuttosto che ad altre; attraverso la
partecipazione diretta al capitale delle imprese private; attraverso la costituzione di società
pubbliche.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nonostante l’Italia abbandoni l’autarchia per orientarsi
verso una progressiva apertura al mondo esterno, la struttura industriale rimane invariata (non solo
gli enti pubblici nati in epoca fascista rimangono formalmente in piedi, ma anche le figure chiave
che avevano controllato questi enti nel ventennio fascista sono le stesse) e fortemente legata
all’indirizzo strategico dello Stato, il quale continua a favorire i settori più strategici avendo
comunque partecipazioni in molte industrie. In particolare lo Stato favorisce il consolidamento di
gruppi industriali verticalmente integrati nei settori strategici. Questo porta ad un ampliamento
della matrice dell’offerta che include nuove produzioni che si sono sviluppate grazie al progresso
tecnologico (ad esempio il settore dell’elettronica e degli elettrodomestici).
Nel frattempo, anche se le industrie tradizionali rimangono lontane dagli interventi di politica
industriale, questi settori riescono a svilupparsi endogenamente sfruttando il boom dei consumi del

83
dopoguerra collegato alla crescita del reddito delle famiglie italiane. Essendo queste industrie
caratterizzate da basse barriere all’ingresso e da piccole strutture dimensionali, la crescita della
domanda attiva un processo di strutturazione delle filiere produttive in cui avviene una progressiva
divisione del lavoro delle imprese che operano lungo le varie fasi della catena di fornitura. Ci sono
tanti operatori che si iper-specializzano nella lavorazione di piccole fasi, e queste filiere produttive
nascono già frammentate verticalmente dando vita ai distretti industriali italiani. Per di più la
divisione del lavoro nelle industrie tradizionali genera una progressiva specializzazione delle imprese
nelle produzioni intermedie e nella produzione di beni di investimento necessari alle lavorazioni (ad
esempio macchine agricole o per la lavorazione del legno, macchine per il settore delle calzature,
ecc).
Le industrie tradizionali non ricevono aiuto da parte dello stato centrale. Ma a livello locale sui
territori in cui si sviluppano i distretti industriali vengono aiutate a svilupparsi attraverso la fornitura
di beni pubblici da parte di istituzioni locali (comuni, province, associazioni, ...). Viene creato un
sistema di infrastrutture più moderno così da facilitare il trasporto delle merci; si investe molto sulla
formazione di competenze professionali necessarie a queste piccole realtà per espandere la
produzione; nascono occasioni di associazionismo che consentono a queste realtà estremamente
piccole e frammentate di trovare un luogo di incontro dove coordinarsi.
àNel complesso la Golden Age coincide con una crescita dell’integrazione verticale, ma quello che
si osserva in aggregato non è frutto di ciò che accade nelle industrie tradizionali piuttosto è frutto
di quello che accade nelle industrie ad alta intensità di capitale.

Nel SECONDO MODELLO DI INDUSTRIALIZZAZIONE, con la fine della Golden Age, la crescita delle
industrie ad alta intensità di capitale sostenuta dallo Stato si interrompe.
Il modello della grande impresa verticalmente integrata entra in crisi e vengono meno le politiche
industriali utilizzate per avvicinare l’Italia all’Europa, sostituite dalle politiche per la concorrenza.
Questa seconda fase lascia sola la manifattura italiana che deve trovare autonomamente il modo di
svilupparsi e sopravvivere.
Le industrie che hanno guidato il primo modello di industrializzazione vivono una fase di crisi; si
arresta il loro processo di sviluppo nel momento in cui viene meno il sostegno pubblico. Tuttavia il
know how di questi settori ad alta intensità di capitale (chimica, siderurgia, mezzi di trasporto,
elettronica) non va disperso, anzi da vita alla specializzazione nei singoli settori e nelle singole fasi
del processo produttivo il quale si è deverticalizzato.
Le industrie tradizionali vivono invece un’epoca di espansione, sono molto meno penalizzate
rispetto alle industrie ad alta intensità di capitale ed è ragionevole desumere che hanno avuto
un’ulteriore fase di espansione perché nascono spontaneamente in filiere che sono già
frammentate e ad alta specializzazione, quindi nella condizione di rispondere al nuovo contesto
macroeconomico che favorisce la deverticalizzazione. Le industrie tradizionali non devono
affrontare una fase di ristrutturazione e al tempo stesso la svalutazione della lira comporta che le
importazioni italiane siano molto convenienti per gli acquirenti esteri. Tutto ciò offre un’enorme
spinta all’esportazione dei settori tradizionali, che iniziano a inondare i mercati occidentali. È in
questa fase che si afferma nel mondo l’immagine del “Made in Italy” legato alle produzioni dei
settori della moda, dell’alimentare e dell’arredo.
Guardando alla specializzazione produttiva si passa da una fase in cui la matrice dell’offerta si è
ampliata ad una in cui il sistema si consolida, e c’è un processo di progressiva specializzazione
verticale a monte. Da una parte i beni tradizionali godono della spinta dell’export e le industrie
acquisiscono peso, ma dall’altro lato anche le industrie legate alla meccanica prendono peso visto
che alimentano le produzioni a valle.

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à Nel passaggio dalla Golden Age alla fase successiva: le industrie ad alta intensità di capitale
subiscono un arresto e in molti casi un ridimensionamento; le industrie tradizionali si espandono e
non vengono penalizzate; si verifica un ispessimento delle filiere in senso verticale con una crescita
delle attività elettro-meccaniche.

Nel periodo della globalizzazione si verifica un forte ridimensionamento del settore tessile,
pelletteria e abbigliamento. Dopo un ventennio di crescita l’economia subisce un forte
ridimensionamento perché una parte delle produzioni non è più competitiva sui prezzi quando il
mercato si apre ad altri concorrenti.
In questa fase vengono meno barriere di natura legale, che fino ai primi anni 2000 proteggevano
questi settori tradizionali, finisce l’epoca della svalutazione della lira perché questa viene
abbandonata a favore di una nuova valuta forte.(l’euro).
Altro fenomeno a cui si ha assistito dopo la crisi del 2008, è un ridimensionamento del settore degli
elettrodomestici (frigoriferi, forni, cappe...) che ha portato ad un impoverimento produttivo di
questo settore. C’è un’espansione, invece, della meccanica strumentale e inoltre nel corso degli
ultimi due decenni si è verificato anche un forte impulso della componentistica soprattutto legata
all’automotive.
La specializzazione della manifattura italiana subisce cambiamenti anche all’interno dei settori
stessi. Si tratta di un cambiamento verticale di crescita della qualità delle produzioni realizzate in
Italia: cioè all’interno dello stesso settore le produzioni si spostano verticalmente occupando le
fasce alte di mercato, che permettono di vendere prodotti a fasce più alte, mentre si abbandonano
le produzioni a minore valore aggiunto. Questo è possibile grazie al miglioramento degli attributi
tangibili e intangibili delle produzioni.

La specializzazione italiana ha seguito un percorso anomalo: se si guarda la struttura settoriale della


nostra economia è possibile notare che ancora oggi c’è una quota importante nei settori tradizionali
(produzione del tessile, abbigliamento, pelletteria), che non ha uguali in termini di valore aggiunto
nelle altre economie avanzate. Al tempo stesso si osserva un peso minore delle produzioni ad alta
intensità di capitale (chimica, mezzi di trasporto, elettronica) rispetto ad altre economie
(tralasciando il periodo del primo modello).
Questa anomalia ha generato da una parte una visione pessimista sul futuro dell’industria italiana
(opinione prevalente è che l’industria italiana è stata incapace di adattarsi all’economia che
cambiava), da un'altra una visione più positiva che vede questa anomalia come un percorso non
caratterizzato dall’immobilismo bensì dalla path dependance che ha determinato nel bene e nel
male quella che è l’industria italiana al giorno d’oggi. In assenza di direzioni strategiche da parte
della politica industriale le imprese hanno preferito sfruttare i saperi manifatturieri di cui erano già
a conoscenza.
In particolare la filiera della moda ha subito una profonda trasformazione dovuta alla caduta delle
barriere doganali e alla crescita di paesi asiatici a basso costo del lavoro (come la Cina). Gli operatori
italiani hanno reagito a queste nuove pressioni competitive revisionando le proprie strategie e
puntando sull’eccellenza del prodotto e del servizio offerto, riuscendo così ad affermarsi come
partner ideale per le catene del fast fashion e come principale piattaforma produttiva del segmento
del lusso a servizio delle case di moda italiane e francesi.

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Sistema industriale italiano. La “questione dimensionale”. La specializzazione
produttiva. L’articolazione territoriale dello sviluppo e la questione meridionale
oggi. – LEZIONE 31

Con l’ascesa e il declino della Golden Age si passa dalla grande impresa verticalmente integrata alla
divisione del lavoro attuata attraverso una fitta rete di scambi tra imprese, e si afferma la soluzione
di mercato del problema produttivo. Si passa perciò da un modello in cui contano le economie di
scala a un modello in cui contano di più le economie di specializzazione.
Questo cambiamento comporta la nascita di mercati intermedi: la catena del valore si spezza in
senso verticale e le transazioni passano dalla gerarchia al mercato. Anche se ora il coordinamento è
affidato al mercato, gli scambi non sono regolati dal sistema dei prezzi; si tratta piuttosto di beni
dedicati per i quali un mercato non esiste e gli scambi sono quindi regolati dal costituirsi di legami
di tipo contrattuale.
La logica finora seguita per spiegare la frammentazione per tutti i paesi industriali segue il modello
a metà tra Penrose e Robinson, che parlano rispettivamente del vincolo manageriale che agisce nel
breve periodo e della complessità che aumenta con la dimensione.
Alla fine della Golden Age l’aumento della complessità ambientale ha fatto aumentare
verticalmente la domanda di coordinamento visto che erano esplosi i costi delle informazioni, e le
imprese sono state costrette a ridimensionare la loro scala di attività per mantenere un certo grado
di competitività.
Esempio di de-verticalizzazione: in Italia la fabbrica FIAT di Mirafiori contava inizialmente 70mila
dipendenti, mentre oggi ne conta meno di 10mila. Questa diminuzione sostanziale di dipendenti è
dovuta da vari fattori: la diffusione della robotizzazione ha determinato un minor input di lavoro; la
produzione è stata delocalizzata in altri siti; le produzioni prima realizzate all’interno dei confini
dell’impresa sono state trasferite all’esterno.
I dipendenti quindi sono usciti dal perimetro della FIAT, diventando dipendenti di imprese fornitrici
della FIAT o si sono messi in proprio.
Questo fenomeno però ha comportato un’enorme riduzione dei saperi e delle competenze in
quanto se inizialmente nello stabilimento di Mirafiori si realizzavano molte fasi del processo
produttivo, oggi si realizza solo la fase di carrozzeria e assemblaggio delle auto (mettere insieme le
componenti che derivano da produttori diversi).

In Italia il cambiamento di paradigma è stato intenso e rapido grazie al fatto che le attività che erano
state abbandonate (esternalizzate) erano state accolte da altre organizzazioni in grado di produrre
in modo altrettanto efficiente.
Questo processo di sviluppo dei mercati intermedi è stato più rapido in Italia rispetto ad altri paesi
proprio perché in Italia una parte della struttura produttiva, in particolare quella dedicata ai beni di
consumo, era nata e si era continuata ad organizzare sulla base di economie di specializzazione.
Inoltre c’è da specificare che la quota dell’occupazione in imprese con più di 500 addetti era in Italia
molto più bassa che altrove. Quindi l’Italia era in partenza un Paese caratterizzato da un peso delle
imprese di grandi dimensioni relativamente contenuto. Corrispondentemente, la quota di
occupazione di imprese con meno di 100 dipendenti (imprese medio-piccole) è molto più alta
rispetto agli altri Paesi industrializzati.
Per spiegare questo fenomeno si possono riprendere gli argomenti di Sah e Stiglitz perché in realtà
il sistema manifatturiero italiano è nato in gran parte poliarchico.
Secondo il loro pensiero, un’architettura è preferibile ad un’altra quando il numero dei good project
supera quello dei bad project e quindi i benefici della poliarchia (che valuta meno attentamente i
progetti, ma ne accoglie di più) superano quelli della gerarchia.

86
Se invece il portafoglio dei progetti è scadente (ci sono molti bad project rispetto al totale) i benefici
della gerarchia sono maggiori rispetto quelli della poliarchia; con la gerarchia i progetti sono meno
ma vengono selezionati con più cura e attenzione.

Nella fase successiva alla Golden Age, lo sviluppo manifatturiero ha coinciso con il rafforzamento
delle industrie meno soggette a economie di scala e a vantaggi di integrazione verticale (ad esempio
le filiere del tessile, del legno, della meccanica). Le opportunità in questi settori sono state intense,
sia nei mercati dei beni finali sia di quelli intermedi, e ci sono stati molti esperimenti imprenditoriali
che hanno garantito che molti good project fossero realizzati. Questo perché le barriere all’entrata
e di conseguenza anche quelle di uscita erano ancora molto basse in tutte queste produzioni.
La fase storica che ha succeduto la Golden Age, che ha visto la formazione di molte nuove piccole
imprese e il ricorso agli scambi di mercato può essere chiamata “era poliarchica”.
In un contesto in cui la domanda è molto volatile, gli investimenti sono rivolti a ridurre i rischi
connessi alle contrazioni della domanda stessa. Ne è conseguito dunque che le organizzazioni
fossero incentivate a trasformare i costi fissi in costi variabili, frenando l’accumulo di
immobilizzazioni tecniche troppo consistenti; e che le organizzazioni rinunciassero alle funzioni
gestionali e allo sviluppo di competenze innovative in ambito tecnologico e organizzativo.
Questa condotta ha comportato la concentrazione della quasi totalità delle funzioni manageriali
nell’imprenditore e un peso dei non manual worker sul totale molto basso.
L’era poliarchica è stata sostenuta da due fattori principali:
- offerta imprenditoriale che ha alimentato i tentativi di cogliere opportunità vantaggiose ma
anche di compensare le esperienze fallite.
- costi di entrata contenuti che hanno reso possibile un costante flusso di nuovi ingressi e allo
stesso modo dei flussi in uscita. A basse barriere all’entrata hanno corrisposto perdite
particolarmente contenute derivanti da errori di selezione.

L’indice di Adelman è il rapporto % tra valore aggiunto e produzione. Questo indicatore misura il
grado di integrazione verticale negli anni e si può constatare che l’integrazione verticale si riduce
costantemente a partire dalla metà degli anni ‘70. Si ha un effetto di offshoring nella metà degli anni
’90 fino ad arrivare ad una risalita dell’indice in quanto si esagerò con l’esternalizzazione,
esternalizzando tutti i saperi e quindi si cerca di arrivare ad una maggiore selezione di quali fasi
conviene esternalizzare e quali no. L’esagerazione che c’è stata nella frammentazione porta
all’esigenza di integrare fasi e funzioni, porta quindi a una nuova re-integrazione.

Per quanto riguarda il percorso di


industrializzazione dell’Italia nel
tempo, inizialmente c’è una forte
concentrazione dell’occupazione
in quanto in 20 anni il numero di
imprese diminuisce e la
dimensione media raddoppia.
Dal 1971 al 1991 il fenomeno si
inverte: avviene un nuovo
ridimensionamento delle imprese
e la loro numerosità aumenta
vertiginosamente, raggiungendo
un livello superiore a quello del
1951.

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à Ad un certo punto della storia la logica dell’industrializzazione cambia.
Negli anni più recenti si verifica un nuovo cambiamento di direzione meno radicale: il numero di
imprese diminuisce e l’attività di trasformazione si distribuisce su un numero minore di imprese,
mentre la scala media registra un lieve incremento.
La diffusione della divisione del lavoro tra imprese si ferma e comincia una fase di ri-verticalizzazione
produttiva.
La nuova fase di gerarchia non implica comunque l’estinzione della divisione del lavoro sul mercato.
Non è possibile tornare indietro ricompattando le fasi di produzione lungo lo stesso asse verticale.
I cambiamenti che si sono verificati sono quindi netti ma anche parziali per due problemi: l’aumento
della scala delle imprese pone un problema sul piano organizzativo.
Un’impresa piccola per diventare un’impresa media e poi grande, si trova a dover far fronte al
problema dell’integrazione di un numero crescente di funzioni aziendali e di fasi manifatturiere che
implicano un aumento della domanda di coordinamento.
L’incremento della complessità organizzativa è un fattore difficile da gestire e che richiede tempo,
non può essere un’operazione immediata.
Un ulteriore problema è che la re-integrazione di attività in precedenza esternalizzate si trova di
fronte al completamento di molti mercati intermedi, cosa che rende non conveniente reintegrare,
soprattutto in un conteso in cui si sono consolidati fornitori efficienti. I mercati sono difficilmente
“disintermediabili”.
L’ispessimento dei mercati intermedi ha consolidato nel sistema delle competenze specifiche, che
vengono considerate capitale individuale e che legano tra loro agenti economici diversi in ragione
del loro carattere complementare, come spiegava Richardson nel suo pensiero. Tutto questo
meccanismo fa sì che ciascun soggetto ha in qualche modo la sua forma di potere di mercato, e che
le imprese devono fare i conti con altri produttori divenuti più strategici nello svolgimento della
stessa attività. Questo sistema di scambi implica che non sempre chi guida il processo sia chi è a
valle, ma spesso per produrre beni finali complessi servono più imprese in quanto singolarmente
non sarebbero in grado di fare tutto.

Due ulteriori questioni riguardano:


- La multinazionalizzazione
Una parte dell’industria manifatturiera si è trasferita all’estero: si è avuto lo sviluppo delle imprese
a livello multinazionale. Lo sviluppo delle imprese a livello multinazionale avviene nei paesi
industrializzati e non solo nei paesi emergenti. Per le imprese avere una presenza nei mercati
internazionali diventa una questione di grande importanza. È un fenomeno che si può considerare
di massa: sono molte infatti le imprese, anche di piccole dimensioni, che hanno unità all’estero.
Questo fenomeno implica una sottrazione della manifattura all’interno dei confini nazionali e in
genere la dimensione media delle imprese all’estero è più alta rispetto alla dimensione media delle
imprese presenti in Italia.
- La forma-gruppo
L’impresa è difficilmente autonoma in quanto sul piano societario molto spesso ha una forma
gruppo. Questa è una forma organizzativa che scaturisce anche dal fatto che se si vuole entrare in
un nuovo business, si mette in piedi una nuova impresa ad hoc che si occupa di quel determinato
business quindi di fatto si cerca di isolare la nuova attività rispetto a quelle precedenti per evitare
rischi sistemici.

88
L’articolazione territoriale dello sviluppo e la questione meridionale oggi. – LEZIONE
32
Il termine “questione meridionale” sta ad indicare la grande frattura tra Nord e Sud Italia che ha
caratterizzato l’articolazione territoriale dello sviluppo a partire dagli anni successivi all’unificazione
(1861).
Il dualismo (il divario tra Nord e Sud) non esaurisce più le analisi sullo sviluppo territoriale in quanto
secondo il parere di molti studiosi emergono nuove linee di frattura nel Centro-Nord. Una linea di
frattura è ad esempio quella che divide le aree di più antica industrializzazione (triangolo industriale)
da quelle del Centro Nord-Est, che si industrializzano più tardi. Questa zona presenta importanti
differenze nelle caratteristiche strutturali rispetto a quelle osservabili nel Nord-Ovest e nel
Mezzogiorno.
Negli anni ’70, dunque le Italie diventano 3 in quanto al “centro” e al “margine” si aggiunge la
“periferia”.
Da questi studi, il territorio emerge come categoria autonoma dell’analisi economica e assume
particolare rilevanza. Lo spazio assume una funzione centrale nelle interpretazioni di fenomeni
economici.
Lo studio e la ricerca si evolvono e alla “ricerca fatta sul campo” si affianca una nuova metodologia,
basata su fonti statistiche e che dà luogo ad un’indagine sia quantitativa che qualitativa.
L’analisi territoriale fa emergere che tra centro e margine dei sistemi economici c’è qualcosa che è
tutt’altro che uniforme. La terza Italia non è un insieme omogeneo, perché ai tratti comuni si
aggiungono anche tratti specifici di ogni località.
Inoltre l’analisi mostra che la periferia si estende anche al di là dei propri confini e l’articolazione
delle regioni a più antica industrializzazione diventa più complessa.
Con l’avanzare dello sviluppo, il modello di industrializzazione continua a cambiare. Negli anni ’80
emerge infatti una nuova questione: la diffusione dello sviluppo procede anche in senso verticale e
coinvolge regioni meridionali del versante adriatico, con caratteristiche simili a quelle riscontrate
nell’area Centro-NordOrientale.
àIn conclusione il processo di industrializzazione si fa sempre più articolato con il passare del
tempo. Inizialmente c’è infatti una semplice linea orizzontale che divide Nord e Sud, poi viene
aggiunta un’ulteriore linea di divisione verticale che divide in due il Centro Nord. Infine un’altra linea
separa in due il Mezzogiorno, delineando un’area adriatica, e che divide in senso verticale tutta
l’Italia.
L’articolazione del sistema territoriale riflette il processo di industrializzazione, che mentre include
nuovi territori si fa mano a mano più articolato e cambia forma di continuo, dando vita a modalità
di organizzazione della produzione diverse dal passato.

Dal dopoguerra a oggi…


A partire dalla fine degli anni ’70 fino ai primi anni ’90, le imprese collocate al Centro- Nord
reagiscono al limite rappresentato dalla piccola dimensione, collegandosi tra loro in
un’organizzazione con diversi livelli di complessità. Si sono create delle aree di specializzazione
produttiva, dei distretti o dei sistemi produttivi locali. Da questo fenomeno le imprese del
Mezzogiorno sono state completamente, o quasi, escluse.
Il Mezzogiorno negli anni ‘60/70 aveva ricevuto la spinta da parte di grandi impianti di proprietà
esterna all’area, elemento che aveva rappresentato un veicolo di modernizzazione. Ma negli anni
’80 questa spinta propulsiva si arresta contribuendo a creare un sottodimensionamento
dell’industria manifatturiera meridionale (il tasso di industrializzazione del Mezzogiorno è
nettamente inferiore a quello del Centro-Nord). Nel Sud è carente la presenza di rapporti orizzontali
tra le persone, cosa che costituisce un ostacolo allo stabilirsi di diffusi rapporti di scambio

89
impersonali con bassi costi di transazione. Lo scambio impersonale infatti richiede la formazione di
istituzioni economiche e politiche che modificano i guadagni dello scambio in modo da premiare il
comportamento cooperativo.
Un primo shock avvenuto nel corso della storia è rappresentato dall’avvio della globalizzazione e
dall’introduzione dell’euro.
Con l’avvio della globalizzazione e l’introduzione dell’euro, sono emersi nel Centro-Nord alcuni
segnali di discontinuità con il modello precedente.
Le imprese che avevano una componente extra produttiva hanno sperimentato processi di crescita
più intensi, facendo un up grading qualitativo. Questo processo ha portato alla creazione di un
nucleo di medie imprese, ad oggi ancora presenti, divenute il punto di forza del sistema nazionale
in ambito di competitività, solidità finanziaria e redditività.
Il modello di specializzazione subisce una trasformazione con il crescere del peso della macro-branca
a offerta specializzata. Le specifiche attività cui si deve questa espansione sono le stesse che
avevano una presenza significativa in ogni area. Inoltre nell’area del Nord-Ovest si è accresciuta
l’integrazione tra industria e servizi, contribuendo a sviluppare la terziarizzazione del manifatturiero.
Per il Mezzogiorno invece gli effetti sono stati diversi. L’industria meridionale ha adottato una
strategia volta a produrre in base alle convenienze espresse dal mercato estero o da quello interno.
La competitività di queste industrie era dovuta alla flessibilità della produzione. Le imprese che
invece non hanno attuato questo tipo di strategie sono quelle meno in grado di creare valore. La
conseguenza di questo fenomeno è rappresentata dall’incapacità di trasformare gli incrementi di
prodotto in aumenti della produttività.
Il secondo shock è rappresentato dalla crisi esterna del 2009 e dalla crisi del debito sovrano del
2012/2013, che insieme costituiscono la “lunga crisi” che va dal 2008 al 2014.
Nel Sud, il meccanismo di selezione ha operato nei confronti degli operatori più deboli accrescendo
il peso delle unità produttive caratterizzate da indicatori economici finanziari migliori. Le imprese
sopravvissute risultano avere intrapreso dei percorsi di acquisizioni di competenze e funzioni più
limitati. Nel sud le maggiori difficoltà nel ricorso al debito esterno sembra essersi risolte in una
minore propensione agli investimenti che ha comportato minori probabilità di mettere in campo
strategie di risposta complesse e articolate. Quindi il processo dinamico di up-grading è risultato nel
Sud meno pervasivo.
Nel Centro-Nord i percorsi di resilienza sono stati differenti e per certi versi migliori rispetto a quelli
osservabili al Sud. Nel periodo pre-crisi si erano registrati elevati valori della performance, a
dimostrazione della presenza di dynamic capabilities che consentono alle imprese di ricombinare le
proprie risorse in risposta ai cambiamenti esterni. Le “sopravvissute” del Centro-nord se comparate
a quelle del Mezzogiorno hanno una redditività nettamente maggiore.

90
La politica industriale in Italia. Dalla Ricostruzione a “Industria 2015”. – LEZIONE 33
Il modello industriale iniziale è nato grazie al ruolo determinante dello Stato. Lo Stato aveva attuato
una politica industriale che orientava il sistema produttivo italiano sulle orme di quello dei paesi di
più antica industrializzazione, e che aveva favorito un allargamento della matrice dell’offerta e un
rafforzamento delle industrie ad alta intensità di capitale.
Negli anni del fascismo questo orientamento da vita ad alcuni enti quali l’IRI (Istituto per la
Ricostruzione Industriale) e l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano).

La RICOSTRUZIONE nasce dall’esigenza di riportare l’Italia all’interno degli scambi internazionali,


quindi di chiudere completamente la parentesi autarchica e di aprire l’industria e la manifattura agli
scambi commerciali. L’obiettivo di adeguare l’apparato produttivo alle esigenze della concorrenza
internazionale viene conseguito con un’impostazione definita protezionismo liberale: si tratta di
una politica industriale che si avvale di un armamentario pubblico molto consistente che però non
guida più lo sviluppo. In altre parole lo Stato ha comunque un ruolo molto importante, ma smette
di indirizzare le scelte e le decisioni delle imprese private. Viene meno il suo vecchio ruolo di guida
e si pone semplicemente l’obiettivo di seguire le imprese in una logica di tipo assistenziale.
Per compensare la perdita dello strumento dirigista, non solo vengono mantenuti i vecchi enti del
periodo fascista (IRI, IMI, AGIP, ecc) ma ne vengono creati di nuovi tra cui la Cassa per il
Mezzogiorno, l’ENI, il Ministero delle partecipazioni statali, la GEPI (Società per le Gestioni e
Partecipazioni Industriali, che ha il compito di sostenere tutte le imprese che non ce la fanno a
restare sul mercato da sole), il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica),
ecc. Alla creazione di tutti questi enti si affianca, dal punto di vista finanziario, la partecipazione
statale in molte banche e istituti di credito speciali.
La politica industriale da questo punto in avanti viene fatta attraverso investimenti diretti da parte
delle imprese pubbliche. Cioè lo strumento principale della politica industriale diventa la gestione
diretta del sistema attraverso la proprietà di imprese pubbliche. Questa politica definita “del doppio
binario” è una politica fortemente interventista. Essa diventa successivamente sussidiaria in quanto
le imprese a partecipazione statale smettono di guidare lo sviluppo, limitandosi ad accompagnarlo.
C’è quindi un graduale passaggio da un ruolo assolutamente centrale dello Stato all’avvio del
sistema lungo il binario di una logica assistenziale tra Stato e industrie.
In questo schema però ci sono due anomalie di fondo che caratterizzano l’approccio italiano alla
politica industriale:
• Mentre nei Paesi industriali si utilizzano poco gli strumenti erogatori (contributi, credito
agevolato, agevolazioni fiscali sui diversi fattori) e molto invece quelli non erogatori (domanda
pubblica, istituzioni per la diffusione di tecnologie, ricerche di partner per lo sviluppo di idee
innovative, …), il modello italiano si caratterizza proprio all’opposto ovvero si concentra su
strumenti di tipo erogatorio ed è caratterizzato dalla pressoché assoluta assenza di strumenti
non erogatori.
• I sistemi più efficienti a livello internazionale centralizzano le strategie e gli indirizzi di politica
all’interno di un’unica sede della pubblica amministrazione e decentrano (= assegnano) alle
istituzioni periferiche la loro gestione amministrativa. In Italia invece succede l’opposto: il potere
di indirizzo è frazionato da sempre tra più dicasteri tra loro non coordinati e addirittura tra
molteplici competenze regionali, mentre la gestione degli interventi è affidata quasi
esclusivamente all’amministrazione centrale. Questa architettura capovolta rappresenta un
vincolo all’allocazione efficiente delle risorse e la politica industriale nazionale deve farci i conti
ancora oggi.

91
Si torna poi a parlare di NEO-DIRIGISMO perché all’inizio degli anni 70 una serie di shock segna la
fine della Golden Age contribuendo a creare una situazione in cui irrompe l’incertezza nei mercati.
La politica dovrebbe cambiare logica di intervento per adeguarsi alla nuova situazione, ma per
qualche ragione decide di andare nella direzione opposta diventando incredibilmente selettiva e
fissa sulla carta i settori su cui puntare attraverso la legge 675 del 1977 (legge sulla riconversione
industriale). Questa legge ha lo scopo di definire una cornice di azione per rafforzare il potere dello
Stato sull’attività industriale, sistematizzare la strumentazione di intervento precedente e definisce
quali sono i settori che si sviluppano. Lo strumento tecnico è ancora quello del credito agevolato (le
risorse sono assegnate a un fondo per la ristrutturazione e la riconversione appositamente costituito
presso il Ministero dell’Industria).
I settori di intervento sono inizialmente 9 e poi diventano 13, coprendo tutta l’industria e facendo
perdere il principio della selettività e quindi la legge 675 non decolla mai.

Negli anni ’90 l’Italia entra in un’altra nuova fase che è quella delle POLITICHE ORIZZONTALI “per il
mercato”. Si tratta di interventi volti a migliorare le condizioni di contesto, per adeguare il contesto
italiano a quello delle grandi economie industriali e prevede anche il ridimensionamento del ruolo
dello Stato nella gestione dell’economia. Nel giro di pochissimi anni lo Stato esce dall’economia
dismettendo una quantità enorme di partecipazioni e si avvia così un processo di privatizzazione, il
quale determina la totale sparizione dello Stato nell’industria e comporta la soppressione del
Ministero delle Partecipazioni Statali.
Con le politiche orizzontali si privilegiano interventi di tipo indiretto in una prospettiva di de-
regolazione, cioè interventi volti a creare condizioni che consentano alle imprese di prendere
iniziative e realizzare le proprie idee.

Successivamente nel 2000 avviene la riforma del Titolo V e la devoluzione della politica industriale
alle regioni attraverso la Legge Bassanini (legge n. 59 del 1997), la quale definisce il trasferimento
alle regioni di competenze in materia di politica industriale. Alle regioni vengono trasferite
competenze in materia di cooperazione, investimento per l’acquisto di macchine e impianti,
sviluppo, commercializzazione, internalizzazione, sviluppo dell’occupazione e tutte le competenze
in rapporto ai finanziamenti europei. Di fatto rimane allo stato soltanto la ricerca e l’innovazione. In
questo contesto le leve della politica vengono ulteriormente allentate.

Una quinta fase, iniziata nel 2006, è configurabile nel tentativo di recuperare una visione selettiva
dell’intervento pubblico con “Industria 2015”.
Il ministero dello sviluppo decide di provare a riprendere le redini della politica industriale e inventa
“Industria 2015”. Per inventarla fa leva sulla ricerca e sull’innovazione e vara un programma di
incentivi finalizzati alla ricerca e all’innovazione in una prospettiva che vuole essere nuovamente
selettiva. Infatti vengono individuati degli assi di intervento. Dato che questi assi non possono essere
più verticali perché la Commissione Europea impedisce gli aiuti di stato, saranno orizzontali e sono
5: risparmio energetico, patrimonio culturale, tecnologie della vita, mobilità sostenibile, tecnologie
per il Made in Italy. L’obiettivo è quello di gestire nuovamente il percorso di industrializzazione del
Paese.

Ma “Industria 2015” fallisce e a questo punto c’è l’avvio di un programma di politica industriale che
è tuttora attivo: Industria 4.0 e Transazione 4.0.
Con il Piano Calenda, che entra in vigore nel 2016, in Italia si parla di ritorno alla politica industriale
in quanto viene varato un programma ambizioso in cui si cerca di rilanciare la competitività
tecnologica dell’industria italiana.

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(il numero 4 sta ad indicare la quarta rivoluzione industriale)
Industria 4.0 è un processo di trasformazione innescato dalle tecnologie ICT in grado di
interconnettere macchine, oggetti e sistemi producendo e utilizzando dati e informazioni.
Non è l’Italia la prima ad adottare questi programmi in quanto gli altri Paesi europei già da tempo
avevano iniziato ad introdurre pacchetti 4.0, prima fra tutti è stata la Germania.
Con questo programma si cerca di lanciare tecnologie che efficientano i processi produttivi e che
quindi spostano i processi produttivi verso la frontiera tecnologica (robot, stampanti 3D, realtà
aumentata, gestione dei big data, ecc.).
Il piano è volto a promuovere la trasformazione tecnologica e digitale dei processi produttivi
attraverso la riduzione dell’aliquota IRES dal 27.5% al 24% e il depotenziamento ACE (Aiuto alla
Crescita Economica). L’ACE è una misura finalizzata a stimolare l’investimento delle imprese per la
via interna cioè tramite capitale proprio perché è difficile che i creditori prestino denaro per
qualcosa che non sono sicuri genererà guadagni futuri, quindi la ratio dal punto di vista di politica
industriale è quella di andare ad aumentare la dotazione di capitale proprio delle imprese in modo
che queste abbiano la liquidità necessaria per affrontare investimenti più incerti.
Un punto fondamentale del pacchetto del 4.0 è il super ammortamento e l’iper ammortamento.
Il super ammortamento è la stessa cosa dell’iper ammortamento e vale solo per i beni materiali e
non per quelli 4.0.
L’obiettivo di queste due voci è quello di creare delle agevolazioni fiscali per le imprese che fanno
investimenti, andando a incrementare i costi che poi verranno dedotti dalla base imponibile.
La ratio del legislatore sta nel fatto che per favorire gli investimenti delle imprese in tecnologie
bisogna agevolarle dal punto di vista fiscale in modo tale che le imprese possano avere delle risorse
aggiuntive che prima non avevano per destinarle agli investimenti.
Altro punto preso in considerazione è la Nuova Sabatini, cioè la possibilità di concedere prestiti con
tassi di interesse agevolati alle imprese che fanno ricorso a finanziamenti esterni per acquistare
macchinari, impianti, software e altre tecnologie digitali.
Ci sono poi i crediti di imposta che possono essere utilizzati a copertura di imposte e contributi e
rientrano tra i beni agevolabili le spese in ricerca fondamentale, ricerca industriale e sviluppo
sperimentale.
Il Patent Box è un’altra misura del 4.0 e permette ai titolari di reddito di impresa di ridurre le
aliquote IRES e IRAP su redditi da beni materiali fino al 50%, con l’obiettivo di premiare gli
investimenti innovativi.
Per accelerare l’innovazione nelle piccole e medie imprese sono state concesse delle detrazioni
fiscali per investimenti in capitale di rischio.
Mentre per recuperare produttività è stata applicata una tassazione agevolata per i premi salariali.
L’obiettivo è quello di rendere il mercato italiano competitivo e attrattivo, con una tassazione
agevolata dei redditi derivanti dall’utilizzo di proprietà intellettuale, incentivare la collocazione in
Italia dei beni immateriali attualmente detenuti all’estero da imprese italiane o estere e al contempo
incentivare il mantenimento dei beni immateriali in Italia, evitandone la ricollocazione all’estero.
Obiettivo finale è ridurre il carico fiscale delle imprese così da incentivarne gli investimenti.
Le piccole e medie imprese sono quelle che hanno beneficiato di più di queste agevolazioni e che
hanno investito maggiormente nelle tecnologie 4.0.
Le beneficiarie dell’iper ammortamento sono le imprese a bassa digitalizzazione.
Di questa politica hanno beneficiato soprattutto le imprese analfabete digitali, le grandi imprese
(soprattutto manifatturiere) e quelle del Sud.
La crescita di figure professionali e altamente specializzate nell’ICT è stata modesta perché il ricorso
da parte di piccole e medie imprese è alquanto marginale. Solo le imprese di grandi dimensioni
mostrano una crescita positiva di tali figure. La maggior domanda di figure professionali ha

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interessato in particolar modo gli operatori specializzati e i conduttori di impianti e macchinari.
L’impatto occupazionale ha toccato ingegneri altamente qualificati.
à (Sintesi degli effetti degli investimenti 4.0) I risultati ottenuti dagli investimenti di industria 4.0 sono un
ammontare di investimenti in tecnologie digitali avanzate, che hanno portato una forte vitalità del
sistema produttivo italiano, e un forte coinvolgimento delle realtà produttive di piccola dimensione,
dalle quali non si può prescindere per rilanciare la competitività dell’economia nazionale.
Gli investimenti 4.0 hanno contribuito a coinvolgere imprese che fino a quel momento presentavano
un livello molto basso di digitalizzazione, grazie appunto alle agevolazioni che le hanno spinte a
intraprendere un processo di trasformazione tecnologica in linea con la competitività che il sistema
industriale è chiamato ad affrontare.
Infine un altro risultato importante è stato il grado di complementarietà elevato tra investimenti in
tecnologia e capitale umano che ha avvantaggiato soprattutto, ma non solo, i lavoratori più giovani.

Quindi in sostanza le imprese grazie al 4.0 si sono dotate di macchinari nuovi e hanno beneficiato
delle agevolazioni fiscali, ma la conversione al paradigma 4.0 richiede delle misure di contesto più
complesse e articolate e finora si è giunti ad un raggiungimento parziale degli obiettivi iniziali del
piano.
Il motivo principale per cui la politica industriale non funziona in Italia è dovuto al fatto che essendo
tale politica molto complessa è più difficile da parte dell’amministrazione locale e regionale gestirla.
Inoltre le politiche 4.0 hanno in realtà numerosi punti a sfavore; infatti possono essere poco
cristalline in quello che effettivamente succede all’impresa quando fa questo genere di investimenti.
C’è il rischio di fornire sostegno ad una serie di attività che spesso non consistono in attività di ricerca
e ci sono rischi di comportamenti opportunistici.
L’approccio che dovrebbero avere tali politiche 4.0 dovrebbe essere più diretto a sussidi che
riguardano investimenti in ricerca e sviluppo e non a mere agevolazioni fiscali. Inoltre dovrebbe
esserci più public procurement a favore dell’innovazione (spesa pubblica destinata all’acquisto
diretto di beni e servizi da parte della Pubblica Amministrazione e rappresenta una leva di politica
economica di particolare rilievo che stimola l’innovazione). Sarebbe anche importante sfruttare il
potenziale del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, preparato dall’Italia per rilanciare la fase post
pandemia di Covid19 al fine di permettere lo sviluppo verde e digitale del paese. Questo piano fa
parte del programma europeo noto come Next Generation EU. Quest’ultimo è un piano per la
ripresa da oltre 800miliardi di € che contribuirà a riparare i danni economici e sociali causati dalla
pandemia da Covid19, per creare un’Europa post Covid19 più verde, digitale, resiliente e adeguata
alle sfide presenti e future.

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La sostenibilità nelle attività di impresa – LEZIONE 34
In una visione macroeconomia la sostenibilità indica una condizione che si può mantenere nel
tempo. Al giorno d’oggi però lo sviluppo economico comporta un’insostenibilità ambientale perché
la popolazione mondiale esprime un’impronta ecologica superiore alla biocapacità del pianeta e
quindi per rigenerare le risorse consumate occorrerebbero circa 1,7 volte la biocapacità disponibile,
ovvero ci vorrebbe una Terra e mezza per soddisfare il bisogno attualmente espresso dai paesi in
termini di consumo. Ovviamente il sistema naturale non è in grado di produrre il capitale naturale a
quel tasso.
La sostenibilità non è soltanto un tema ambientale, ma è anche un tema sociale, e un esempio di
tipo mondiale è il tema della disuguaglianza, intesa come la distanza tra paesi più ricchi e poveri che
aumenta sempre di più.
Oggi si parla tanto di sostenibilità anche a livello aziendale perché negli ultimi 10 anni c’è stata una
chiamata in causa delle imprese, come possibili contributori alla risoluzione di questi problemi.
Tutti i paesi del mondo si sono messi d’accordo sul fatto che occorre avere un punto di riferimento
internazionale su quello che sarà l’indirizzo di marcia per le politiche a livello nazionale, la cd
Azienda 2030 che comprende gli SDG’s (Sustainable Development Goals). Si tratta di 17 principi a
cui corrispondono molti obiettivi specifici:

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Sostenibilità, responsabilità sociale di impresa (Corporate Social Responsibility), e creazione di
valore condiviso (Creating Shared Value) sono tre concetti diversi.
Con creazione di valore condiviso (Creating Shared Value) si intendono le politiche e le pratiche
operative che migliorano la competitività di un’impresa e contemporaneamente migliorano le
condizioni economiche e sociali delle
comunità in cui opera.

La Dichiarazione di carattere non finanziario, cioè il Reporting di sostenibilità (D.Lgs. 254/2016) è


uno strumento di comunicazione che consente di portare verso l’esterno la visibilità degli impegni
e dei risultati conseguiti sotto il fronte della sostenibilità.
Copre i temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro
la corruzione, che sono ritenuti rilevanti dall’impresa.
Descrive
- le politiche praticate dall’impresa, i risultati conseguiti tramite di esse e i relativi indicatori di
prestazione
- i principali rischi connessi ai suddetti temi e che derivano dall’attività di impresa
Le informazioni sono fornite secondo le metodologie e i principi previsti dallo standard di
rendicontazione utilizzato: il GRI standard.
Il GRI è il Global Reporting Initiative, è un ente internazionale che ha il fine di definire gli standard
di rendicontazione della performance sostenibile di organizzazioni di qualsiasi dimensione,
appartenenti a qualsiasi settore in qualsiasi paese del mondo.

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Gli standard GRI rappresentano le best practices a livello globale per il Reporting di sostenibilità. Il
Reporting sulla sostenibilità basato sugli standards fornisce informazioni sul contributo positivo o
negativo allo sviluppo sostenibile di un’organizzazione e permette di rendicontare i propri impatti
economici, ambientali e sociali.

In un’ottica di finanza sostenibile l’obiettivo è quello di garantire un rendimento ai propri


investimenti che sia massimizzato nel lungo periodo (questo significa minor costo del capitale alla
fine) e che sia caratterizzato da un minor rischio. È emerso che le imprese con attività sostenibili
nel tempo hanno un rendimento maggiore rispetto alle low sustainability, indipendentemente dal
settore. Allora vuol dire che la preferibilità di un investimento in una società sostenibile non dipende
soltanto dal minor rischio (beta), ma anche da alpha.

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La manifattura mondiale al tempo della pandemia – LEZIONE 35
Tutto il mondo è precipitato a causa della pandemia e soprattutto ancora nessuno sa quando e come
se ne uscirà.
Gli shock non sono solo dei fenomeni che colpiscono l’economia dall’esterno e che determinano un
urto che poi si riassesta, e il sistema non sempre riprende la posizione che più o meno aveva prima.
I sistemi economici non sono dei meccanismi omeostatici che tendono naturalmente all’equilibrio;
una volta che per qualche motivo i sistemi economici vengono allontanati dal loro equilibrio poi è
difficile ritornarci. Nella realtà i sistemi economici non stanno mai in equilibrio, ma soprattutto una
volta allontanati non è detto che tornino alla stessa situazione e alle stesse condizioni di prima
poiché esistono feedback che non sono sempre negativi, anzi molto spesso sono positivi e agiscono
quindi non a compensare l’azione dello shock ma ad amplificarlo nel tempo. Possono cioè
sovrapporre allo shock degli effetti ulteriori che determinano un allontanamento definitivo dalla
traiettoria in cui il sistema era collocato prima.
Gli shock solitamente non sono transitori e si tratta spesso di shock che avranno conseguenze
permanenti sul sistema.
à Oggi il sistema economico mondiale si trova in un contesto di grande indeterminatezza.
Rodrick afferma che il Covid era una crisi tutt’altro che inattesa e il mondo poteva arrivare più
preparato non solo dal punto di vista della gestione sanitaria ma anche dal punto di vista del modo
in cui gli operatori economici potevano attrezzarsi di fronte ad un evento che era abbastanza ovvio
che si sarebbe verificato.
Questo fenomeno va a intaccare il sistema industriale mondiale in un contesto in cui il mondo era
già entrato in una fase di rallentamento della crescita: tra il 2018 e 2019 il tasso di crescita della
manifattura globale aveva infatti iniziato una fase di rallentamento. Nel 2020 si verifica uno
sprofondamento della crescita globale dovuto all’impatto della pandemia.
La pandemia ha causato
- Un’impennata immediata delle incertezze
- Un blocco di spesa, sia nel consumo da parte delle famiglie e sia nell’investimento da
parte delle imprese.
Questo è avvenuto anche prima che il virus si diffondesse a livello globale. Molti paesi stavano
attraversando una piccola recessione: c’era stato un blocco di incertezza su tutti i mercati di
consumo e investimento. Questo blocco è stato subito contrastato da interventi di politica
economica da parte dello Stato, cioè da massicci programmi di intervento statale a tutti i livelli
(espansioni fiscali, aumento dei sussidi delle imprese, ecc.).
L’impatto della pandemia non è stato affatto omogeneo sul sistema. Il colpo più grosso ad impatto
diretto lo hanno avuto i servizi di ristorazione, il turismo, palestre,...
In alcuni ambiti merceologici l’impatto è diretto e riguarda semplicemente il crollo della domanda
in quegli ambiti in cui le imprese sono state chiuse e non hanno potuto produrre nulla.
In altri ambiti, l’impatto è indiretto ed è legato al “crollo” delle persone che lavorano in quelle
attività che vedono crollare i consumi; quindi a seguire, indirettamente, questa crisi agisce anche su
altre attività che non sono quelle di servizio, ma sono quelle manifatturiere.
Oltre ad un crollo dei servizi, dovuto ad un crollo di consumo e investimento, si è avuto anche un
crollo della manifattura, di beni durevoli e semidurevoli (che sono appunto quelli per cui la loro
spesa può essere rinviata). I beni non durevoli hanno avuto un impatto più o meno contenuto
perché in molti servizi la spesa è aumentata (ad es. industria farmaceutica, alimentare, …).
C’è una sorta di eterogeneità nel modo e nella misura in cui la pandemia ha colpito la manifattura.

Il modello di sviluppo che ha guidato la globalizzazione era già arrivato al capolinea. Per ragioni
endogene, era iniziato il processo di esaurimento dell’offshoring, rallentamento della crescita

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cinese, la riorganizzazione di scambi su base bilaterale, sviluppo di processi di reshoring, gli
investimenti diretti (IDE) rallentano e fondamentalmente l’elasticità della domanda del commercio
mondiale si riduce nel tempo.
Per quanto riguarda il commercio mondiale, il suo ritmo di crescita viene abbandonato nel 2020 e
si determina un nuovo crollo del commercio mondiale causato dalla pandemia.
Nel contesto globale, le economie emergenti che sono quelle che hanno trainato lo sviluppo
mondiale negli anni della globalizzazione (come Cina ed India) hanno orientato la loro domanda
dall’estero all’interno. Quindi hanno cominciato a sostituire le importazioni, accrescendo il livello
della domanda rivolta a imprese interne, anziché a quelle estere, dando così una spinta dello
sviluppo dell’offerta sul mercato interno.
Fondamentalmente, hanno avvertito l’esigenza di evitare di trovarsi intrappolate all’interno di ciò
che si chiama vincolo esterno (cioè la dipendenza dalle importazioni diventa molto forte non solo
per soddisfare la domanda interna ma anche per soddisfare la produzione dei beni che si esportano).
C’è anche l’effetto del cambiamento strutturale. I grandi sistemi industriali emergenti iniziano a
trovarsi in una fase di picco in cui la manifattura aumenta il suo peso e poi inizia a declinare e ciò ha
un impatto diretto sul ritmo di crescita che rallenta. Cioè il peso relativo del settore che permette
l’accumularsi di rendimenti crescenti di tipo dinamico si sta riducendo (leggi di Kaldor).
Un terzo elemento di cambiamento è riferito al Developmental State, cioè lo stato che guida lo
sviluppo del mondo emergente, che ha un po’ allentato la presa. Quando il sistema si avvia verso
un processo di sviluppo endogeno e autopropulsivo (self-sustainable), cioè che riesce a stare in piedi
da solo, a quel punto non c’è più bisogno di forzare i flussi di investimenti e dunque si può allentare
la presa.
Tutte queste componenti del mondo emergente spingono verso un rallentamento della crescita.

L’Europa si è trovata paralizzata dentro un ambiente macroeconomico che era fatto di una politica
monetaria inefficace (“trappola della liquidità”, quando si hanno disponibilità liquide ma non si
investe se non c’è opportunità di profitto, non basta portare tassi di interesse bassi o addittura
negativi, è necesssario che vi sia anche un’opportunità di profitto). A questa politica monetaria è
stata affiancata una politica fiscale restrittiva, orientata all’austerità.
L’orientamento della Germania è stato adottato anche da tutti gli altri paesi europei. Dal momento
che sono relativamente piccoli e non hanno forte domanda interna, essa si va a ricercare in altre
industrie, in modo tale da affermarsi e portare via quote di mercato a qualcun altro. Questo modello
presuppone che se si aumentano le quote di mercato, quelle di qualcun altro diminuiscono. Questo
atteggiamento ha condotto a un miglioramento permanente della produttività ed efficienza nonché
competitività. L’esito di questo processo è che si è avuta una compressione dei costi.
Se si comprimono, però, i consumi interni e si fanno esplodere quelli esterni, l’effetto è che i 2/3 del
mercato dei paesi europei, sono gli altri paesi europei, quindi l’effetto complessivo è che diminuisce
anche la domanda estera complessiva dell’area euro.
Questo è risultato nel medio periodo un modello autolesionista poiché ha compresso la domanda
estera dei paesi europei.

La logica della globalizzazione è orientata a risolvere un problema produttivo, facendolo diventare


soltanto un problema commerciale. Cioè non conta più produrre ciò che serve, ma ciò che conta è
essere in grado di comprarlo in qualche angolo del mondo.
Questo è il modello che si è visto fino al tempo pre-pandemia, ma dal momento in cui si manifesta
la pandemia, è un modello che non funziona più.
Quando è arrivato lo shock della pandemia, ci siamo accorti che non avevamo neanche un bene
come le mascherine, prodotto elementare da produrre. Non esisteva una domanda abbastanza alta

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di mascherine in ciascun paese da consentire il costituirsi di un impianto efficiente. Occorre
qualcuno che lo faccia da qualche altra parte per tutti. Le mascherine venivano infatti prodotte
principalmente in Cina.
Pensare che il problema produttivo sia stato risolto solo grazie ad un sistema produttivo di scambi
che consente di ottenere e comprare le cose con facilità è un’ipotesi insostenibile.
Stessa questione si è riprodotta con i vaccini. Quando è arrivato il momento di produrre i vaccini, la
logica che ha guidato la Commissione Europea è stata anche in questo caso squisitamente
commerciale. L’obiettivo era trovare vaccini “da qualche parte”.
L’idea secondo cui il problema produttivo può essere risolto attraverso il mercato globale è un’idea
che non si sposa con il fatto che possono esistere ragioni strategiche in casi di emergenza che
rendono preferibile l’auto-produzione.
La pandemia rivela la potenziale inefficienza della soluzione di mercato del processo produttivo.
Il trade off tra fare e comprare, integrare o non integrare, tende a modificarsi.
Ad oggi il maggiore costo dell’integrazione che garantisce sicurezza è una cosa che si è disposti a
sostenere per garantirsi un input di cui altrimenti può diventare impossibile disporre.

In Italia la manifattura sta diventando sempre più piccola. Il ridimensionamento del potenziale
produttivo è dovuto al fatto che ci sono meno produttori di prima.
Il ridimensionamento della manifattura, da un certo punto di vista, non viene considerato un
problema. L’idea che esista una mis-allocation (inadeguata allocazione) delle risorse lavoro e
capitale tra le imprese, fa sì che nel momento in cui subentra uno shock questo si porta via la mis-
allocation e fa sì che diventino più efficienti le imprese rispetto a prima.
Dal momento che un’impresa esce dal mercato, la produttività si azzera e dunque il compito della
politica economica dovrebbe essere non quello di ripulire il mercato bensì quello di fare tutto ciò
che si può per mantenere sul mercato il massimo numero di imprese perché le imprese, dal punto
di vista della produttività e PIL prima di essere produttori sono delle infrastrutture sociali.
Il problema della disertificazione dei sistemi economici è un problema che comporta una rarefazione
asimmetrica a livello territoriale. Nel Mezzogiorno ora si ha poco manifattura e in presenza di
disertificazione vi sono i costi di gestione della stessa, dunque anch’esso rappresenta un problema.
In questo contesto la politica economica è richiamata a intervenire per sanare i guasti di una cosa
che non ha saputo gestire.
Mentre all’interno della trasformazione industriale si manifestavano i fenomeni suddetti, nel
frattempo, sono emersi una serie di problemi di fondo che si possono definire non meno che epocali.
Ne è un esempio il governo della sostenibilità aziendale. L’emergere della globalizzazione ha
determinato un impulso alla questione della sostenibilità, ha portato l’emergere di produzioni molto
più inquinanti. C’ è un problema di crescente disuguaglianza all’interno dei sistemi economici
sviluppati e non, che nel mondo sviluppato ha finito per condizionare scelte politiche. Sono
fenomeni che hanno conseguenze potenti sulla vita delle persone.
C’è inoltre un ulteriore problema di disuguaglianza all’interno dei sistemi economici: il probema
dell’occupazione. Esso deriva non tanto dall’emergere dell’alta tecnologia, ma da microprocessi
molto piccoli e insignificanti dal punto di vista tecnologico, che si sono sgranati negli anni passati e
hanno determinato una ridondanza del fattore lavoro. Ad oggi è difficile trovare un posto di lavoro
ed è un problema che le società industriali dovranno affrontare.
àSiamo in un contesto fatto da un lato di urgenze (vari shock) e anche di squilibri strutturali che
alla fine presentano il conto. Bisognerebbe dare uno sguardo ad entrambe le questioni, sia dei
cambiamenti strutturali, sia degli shock.

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L’idea di tornare di fretta al mondo di ieri è sbagliata, la luce che si vede in fondo al tunnel quando
siamo prossimi a uscirne è una luce che identifica un paesaggio diverso da quello che eravamo
abituati a vedere.

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