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LE FORME DI MERCATO

1. Il mercato di concorrenza perfetta


Ogni impresa prende due decisioni fondamentali: quanto produrre e quale prezzo praticare. Se una
impresa che massimizza il profitto non fosse soggetta a vincoli, stabilirebbe prezzi arbitrariamente
elevati e produrrebbe quantità arbitrariamente grandi. Ma, in effetti, ogni impresa è soggetta a
diversi vincoli, fra i quali:
• Il vincolo tecnologico, esplicitato mediante la funzione di produzione,
• Il vincolo economico rappresentato dalla funzione di costo,
• Il vincolo di mercato, che dipende sia da quanto e cosa i consumatori desiderano comprare,
sia da quante imprese operano nel mercato considerato.
Una impresa può produrre qualunque cosa sia realizzabile da un punto di vista tecnologico, ma può
vendere solo quanto la gente è disposta a comprare. Se l’impresa fissa un prezzo p, potrà vendere
solo una determinata quantità di output Y. La relazione tra prezzo fissato dall’impresa e quantità
venduta nel mercato è detta curva di domanda per l’impresa. Se nel mercato fosse presente una sola
impresa, la sua curva di domanda sarebbe identica alla curva di domanda di mercato descritta
nell’ambito della teoria del consumatore, e riassumerebbe i vincoli di mercato cui l’impresa sarebbe
soggetta. La curva di domanda di mercato esprime la quantità di un bene che i consumatori
intendono acquistare in corrispondenza di ciascun prezzo. Ma se sono presenti più imprese, vi
saranno anche i vincoli imposti dalla presenza e dalle scelte delle imprese concorrenti. L’impresa,
nello scegliere prezzo e o quantità, deve prevedere le mosse delle altre imprese.
Esistono molte possibilità per descrivere il modo in cui le imprese interagiscono nel prendere
decisioni relative al prezzo e all’output. Esse vengono riassunte dall’espressione “forme di
mercato”. Esistono varie forme di mercato, e noi, nel seguito, cercheremo di esaminare quelle più
importanti. La più semplice forma di mercato è proprio la concorrenza perfetta.
Nel mercato di concorrenza perfetta sono presenti molti acquirenti e molti venditori, pertanto
nessuna azione di un singolo ha effetto sul prezzo di mercato, il venditore è “piccolo” rispetto al
mercato e le imprese si comportano come “price taker”. Le caratteristiche principali della
concorrenza perfetta sono:
• la polverizzazione o atomizzazione del mercato. Vi sono moltissime piccole imprese che
producono lo stesso bene;
• l’omogeneità del prodotto. Le imprese vendono un prodotto che non può essere differenziato
da quello delle altre imprese del mercato;
• la perfetta informazione. Tutti gli operatori dispongono di informazioni complete in merito
ai costi di produzione, ai prezzi, ecc.;
• l’assenza di barriere all’entrata. Non esistono ostacoli, di natura economica o legale,
all’ingresso delle imprese sul mercato;
• i venditori agiscono indipendentemente l’uno dall’altro.
Un mercato è in concorrenza perfetta se ogni compratore e ogni venditore è così piccolo da non
potere influenzare il prezzo. Ogni impresa deve decidere solo quanto produrre, poiché qualunque
quantità prodotta potrà essere venduta ad un unico prezzo: il prezzo di mercato. L’impresa, quindi,
in concorrenza perfetta subisce il prezzo e per tale ragione è definita price taker. In quale situazione
è ragionevole per l’impresa un comportamento di questo tipo? Una situazione caratterizzata da
libertà di entrata ed uscita dal mercato, un identico output prodotto da tutte le imprese operanti nel
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mercato ed un grande numero di imprese di dimensioni trascurabili costituisce il caso in cui ogni
produttore ragionevolmente prenderà il prezzo del prodotto come dato, ovvero, si dice, avrà appunto
un comportamento di tipo price-taker. Il prezzo di mercato è determinato dalla domanda e
dall’offerta complessiva sul mercato del bene, la domanda del prodotto dell’impresa è infinitamente
elastica (orizzontale) e i beni offerti dai vari venditori sono sostituibili tra loro. Se il prezzo è dato, il
ricavo totale cresce proporzionalmente alla quantità venduta, il ricavo medio resta costante e il
ricavo marginale è anch’esso costante e pari al prezzo.
In generale, l’obiettivo della massimizzazione del profitto consente di determinare la quantità di
output offerta dell’impresa tale da rendere massima la differenza tra Ricavi Totali (RT) e Costi
Totali (CT):
Max π ( y ) = RT ( y ) − CT ( y ) = py − CT ( y )
y

Questa espressione significa che un’impresa concorrenziale intende massimizzare la differenza fra i
ricavi ed i costi, rispetto alla quantità di output prodotta. Ma quale sarà la quantità di y che consente
di risolvere questo problema di massimizzazione? Ipotizziamo che, data la produzione y di una
certa impresa, l’impresa decida di produrre una quantità aggiuntiva di output dy. Ovviamente
otterrà un incremento del ricavo totale pari a d(py)/dy = p (si tratta del ricavo marginale MR –
marginal revenue, ovvero la derivata della funzione di ricavo totale py rispetto alla quantità prodotta
y). Il MR ci dice come varia il ricavo totale al variare di una unità della quantità prodotta. D’altra
parte, l’incremento della quantità prodotta comporterà anche un aumento dei costi di produzione; la
variazione del costo totale di produzione al variare di y è pari al MC (costo marginale = marginal
cost): d(CT)/dy = d[CV]/dy = MC. Allora è chiaro che:
• Se MR>MC, l’aumento della quantità prodotta aumenta il profitto, perché l’aumento dei
ricavi derivanti dall’output addizionale supera l’aumento dei costi; questo significa che il
punto di massimo profitto non è stato ancora raggiunto.
• Se MR<MC, l’aumento della quantità prodotta ridurrà il profitto, perché l’aumento dei
ricavi derivanti dall’output addizionale è inferiore all’aumento dei costi; questo significa che
il punto di massimo profitto è stato superato.
• Se MR=MC, il profitto è massimo e qualunque variazione di y ne provoca una riduzione.
La condizione di massimo profitto in concorrenza perfetta richiede, quindi, che:

MR = MC

Poiché in concorrenza perfetta, come visto, MR= p, la condizione di ottimo richiede semplicemente
che il costo marginale sia uguale al prezzo di mercato:

p =MC

Qualunque sia il prezzo di mercato p, l’impresa sceglie un livello di output y in corrispondenza del
quale p=MC.
Graficamente, il prezzo di mercato si forma, dall’incontro tra domanda e offerta (a livello di
settore). L’impresa “subisce” il prezzo di mercato P e sceglie quella quantità y* per cui MC=MR
avendo come obiettivo la massimizzazione del profitto

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Al prezzo P, i profitti d’impresa sono rappresentati dall’area ombreggiata e pari alla differenza fra il
ricavo totale (P*y) e il costo totale (CT=AC*y).
Nel caso in cui l’impresa non riesce ad ottenere ricavi sufficienti a coprire i costi sostenuti nel
processo produttivo, possiamo ulteriormente determinare una condizione di sospensione
temporanea della produzione nel breve periodo. Tale condizione si verifica quando il prezzo è
minore del costo medio variabile (P < AVC). L’impresa, nel breve periodo, sospenderà la
produzione quando i proventi della vendita non sono sufficienti a compensare i costi variabili
sostenuti per produrre una data quantità. Se infatti il prezzo scende sotto il costo medio totale,
l’impresa produce in perdita a causa dei costi fissi già sostenuti e ormai “sommersi” (sunk costs),
ma almeno i ricavi permettono di coprire i costi variabili La curva di offerta di breve periodo
dell’impresa è quindi raffigurata in grassetto nella figura, e l’impresa sospende la produzione se
P<AVC, produce, sia pure in perdita, se il prezzo è compreso fra il costo medio variabile e il costo
medio (totale), produce con profitto nullo se P=AC ed infine produce con profitto positivo se
P>AC. La curva di offerta dell’intero settore, si ricava infine come somma orizzontale delle curve
di offerta delle singole imprese, per ogni livello di prezzo.

La possibilità di ottenere profitti positivi (un’eccedenza dei ricavi sui costi) è limitata tuttavia al
breve periodo, in quanto nuove imprese saranno attratte nel settore e potranno accedervi data
l’assenza di barriere all’entrata nel mercato. Tanto più aumenta il numero di imprese nel settore
tanto più la curva di offerta si sposta verso destra (da S a S1) provocando un aumento della quantità
complessiva e una riduzione del prezzo, fino ad annullare i profitti della singola impresa.

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nel lungo periodo, la curva di offerta dell’impresa concorrenziale coincide con il tratto crescente
della curva del costo marginale che si trova sopra la curva del costo medio. In maniera non difforme
dal breve periodo, la curva di offerta di mercato di lungo periodo è derivata dalla somma delle
singole offerte delle singole imprese. Tuttavia, c’è una sostanziale differenza. In effetti, si noti che,
nel lungo periodo, per quello che abbiamo detto, per ogni prezzo inferiore al costo medio l’offerta
dell’impresa sarà pari a zero. Valori superiori comportano, invece, ben precisi meccanismi di
aggiustamento: se il prezzo è superiore al costo medio, le imprese realizzano profitti positivi; è,
allora, ipotizzabile che altre imprese, data l’assenza di barriere all’entrata tipica del mercato
concorrenziale, fiutino l’opportunità di realizzare profittevoli guadagni e si immettano nel mercato.
Questo, determinerà una espansione della quantità offerta per ogni livello di prezzo e tenderà a
spingere verso il basso il prezzo di mercato, con il risultato che chi produceva in parità si vedrà
costretto ad uscire dal mercato e chi realizzava profitti positivi vedrà ridurre i propri margini di
profitto; tale meccanismo di aggiustamento andrà avanti fino, al limite, a comportare
l’annullamento dei profitti e a rendere, dunque, non più conveniente l’ingresso a nuove imprese.
Tali meccanismi, quindi, fanno in modo che nel lungo periodo il prezzo non possa permanere al
lungo al di sopra del costo medio. Dunque, le dinamiche che “conducono” al lungo periodo, fanno
in modo che il prezzo di mercato tenda a raggiungere il punto critico in cui imprese che presentano
le stesse strutture di costo realizzano unicamente profitti nulli. Se il prezzo scende al di sotto di tale
punto, le imprese abbandonano il mercato fino a quando il prezzo non torna ad eguagliare il costo
medio. Se tale prezzo sale ulteriormente, l’ingresso nell’industria di nuove imprese spinge il prezzo
di mercato verso il basso, fino a raggiungere il prezzo di equilibrio di lungo periodo uguale appunto
al costo medio. In effetti, in condizione di profitti nulli, si dice che l’impresa realizza profitti
normali. In base a questa definizione, le grandezze positive che abbiamo fin qui chiamato profitti
sono più precisamente definiti extraprofitti. La curva di offerta di mercato di lungo periodo di un
mercato perfettamente concorrenziale è, dunque, rappresenta da una retta orizzontale, parallela
all’asse delle ascisse, in corrispondenza di un prezzo uguale al costo medio minimo. Si ricorda,
infatti, che MC e AC sono uguali, quando il AC raggiunge il suo valore minimo. Quindi, poiché
deve valere la condizione per cui la curva di offerta coincide con il tratto crescente della curva del
costo marginale che si trova al di sopra del costo medio e contemporaneamente deve valere che il
prezzo sia uguale al costo medio, l’unico livello del costo medio per cui ciò può succedere è il
livello minimo, perché per tale livello del costo medio si verifica che AC=MC.
Riepilogando, possiamo sintetizzare i principali vantaggi di un mercato in concorrenza perfetta nel
modo seguente:
• Il prezzo è uguale al costo marginale,
• Nel lungo periodo le imprese ottengono solo profitti normali e il prezzo è al livello minimo
possibile,
• Le imprese inefficienti saranno costrette a lasciare il mercato.

1.1 Il surplus del produttore


Il surplus del produttore è la differenza tra quanto un produttore ricava dalla vendita di un bene ed il
prezzo minimo al quale sarebbe disposto a vendere il bene stesso. Geometricamente, il surplus del
produttore può essere quantificato dall’area delimitata dal prezzo di mercato e superiore alla curva

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di offerta. Data la curva di offerta ed il prezzo di mercato P, il surplus del produttore è rappresentato
dall’area PAB.

Infatti, il produttore vende la quantità y* al prezzo P, ma sarebbe stato disposto a vendere ogni unità
di prodotto inferiore a y* ad un prezzo inferiore a P. Così come abbiamo visto per il surplus del
consumatore, anche il surplus del produttore varia al variare del prezzo di mercato. Se P aumenta,
l’area che rappresenta il surplus del produttore si amplia. Al crescere, quindi, del prezzo di mercato
il surplus del produttore aumenta, mentre per riduzioni di P diminuisce.

1.2 L’elasticità dell’offerta


Procedendo per analogia rispetto alla domanda di mercato, siamo in grado di fornire la seguente
definizione: l’elasticità dell’offerta rispetto al prezzo misura la variazione percentuale della quantità
offerta di un bene indotta da una variazione del suo prezzo pari all’1%, quando si mantengono
costanti tutti gli altri fattori che influenzano l’offerta. Forti di quanto abbiamo appreso studiando la
domanda di mercato, supponiamo che la quantità offerta sia fissa e di conseguenza immune agli
effetti di ogni variazione di prezzo. In questo caso, siamo in presenza di una curva di offerta
perfettamente inelastica, o verticale, ovvero ε=0. Nel caso opposto, supponiamo che a un dato
livello di prezzo, i produttori offrano qualsiasi quantità di bene: una riduzione minima del prezzo fa
precipitare a zero la quantità offerta, e un aumento infinitesimo determina una offerta
indefinitamente ampia. In questo caso, abbiamo un curva di offerta infinitamente elastica, ovvero
orizzontale ε=∞, (è questo il caso della concorrenza perfetta). A metà strada tra i due casi estremi
che abbiamo esposto, vi è una offerta che può essere definita elastica o inelastica a seconda che il
rapporto tra variazione percentuale della quantità offerta e del prezzo sia, rispettivamente, maggiore
o minore dell’unità. Infine, laddove le due variazioni percentuali siano identiche, siamo di fronte ad
una offerta ad elasticità unitaria. Come dovrebbe essere chiaro, elasticità della domanda e
dell’offerta sono concetti perfettamente identici, sia nella sostanza che nella rappresentazione
analitica. L’unica differenza è il legame funzionale che sussiste tra prezzi e quantità dal punto di
vista della domanda e dell’offerta. Nel caso dell’offerta, un aumento di prezzo genera un aumento
della quantità prodotta del bene. Nella definizione dell’elasticità dell’offerta, il tempo svolge un
ruolo rilevante. In particolare, una determinata variazione di prezzo tende ad avere un effetto
maggiore sulla quantità offerta man mano che aumenta il tempo a disposizione dei produttori per far
fronte a questo segnale del mercato. In seguito ad un aumento di prezzo, nel breve periodo, le
imprese potrebbero non essere in grado di aumentare gli input produttivi lavoro, terra e capitale, per
cui l’offerta tende ad essere particolarmente inelastica rispetto al prezzo. Col passare del tempo, le
imprese potranno, però, assumere più personale, allestire nuovi stabilimenti ed aumentare la loro
capacità produttiva, determinando in tal modo un aumento dell’elasticità dell’offerta. Tra i fattori
che determinano l’elasticità dell’offerta, il principale è, dunque, la facilità con cui è possibile
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incrementare la produzione in un determinato settore. Se gli input sono facilmente reperibili ai
prezzi di mercato correnti, è possibile incrementare considerevolmente l’output con un aumento
limitato dei prezzi. In tal caso, l’elasticità dell’offerta è relativamente elevata. Se, invece, la capacità
produttiva è strettamente limitata, anche un aumento rilevante del prezzo non produrrà grosse
variazioni della produzione. In questo caso l’offerta è inelastica.

MERCATI NON CONCORRENZIALI


Le caratteristiche di un mercato perfettamente concorrenziale possono apparire molto teoriche e
poco riscontrabili nella realtà. In particolare, perché un mercato si possa definire perfettamente
concorrenziale, le imprese devono essere piccole rispetto alla dimensione complessiva del mercato
e tali da non poter condizionare il prezzo di mercato con le loro decisioni di offerta. Questo
significa che, indipendentemente dalla quantità prodotta, l’impresa può vendere l’intera produzione
al prezzo di mercato, per cui non ha motivo di offrire i propri beni a prezzi inferiori a quelli di
mercato. Nella realtà è difficilmente riscontrabile la presenza di tutte le caratteristiche necessarie
per definire un mercato concorrenziale. In molti settori dell’economia, le imprese possono
influenzare il prezzo con le proprie decisioni. Vi sono imprese le cui dimensioni sono tali da
consentire una certa influenza sulla determinazione del prezzo di mercato, variando la quantità
offerta. Un’impresa in grado esercitare questo controllo sul prezzo di mercato si dice che opera in
condizione di concorrenza imperfetta. La concorrenza imperfetta prevale in una industria quando, i
singoli venditori hanno un certo “potere di mercato”, ovvero capacità di controllo sul prezzo del
prodotto. Ciò non implica che il controllo esercitato da un’impresa sia assoluto, ma soltanto che
l’impresa può fissarlo entro certi limiti. Si noti che, l’esistenza della concorrenza imperfetta non
preclude l’esistenza di rivalità tra le imprese. Le imprese in concorrenza imperfetta spesso entrano
in competizione per incrementare le proprie quote di mercato, ma tale rivalità va distinta dalla
concorrenza perfetta. La rivalità si concretizza in una vasta gamma di comportamenti: dalla
pubblicità, con la quale si tenta di deviare una quota considerevole di domanda verso i propri
prodotti, al miglioramento della qualità dei prodotti stessi. Una prima fondamentale differenza tra
una impresa che opera in regime di concorrenza perfetta ed una in concorrenza imperfetta è la curva
di domanda che fronteggiano. Infatti, mentre l’impresa concorrenziale fronteggia una curva di
domanda perfettamente elastica rispetto al prezzo di mercato (ovvero parallela all’asse delle
ascisse). Nei mercati non concorrenziali invece la curva di domanda è inclinata negativamente. Di
conseguenza, una impresa in concorrenza imperfetta che incrementa le vendite scende lungo la
curva di domanda determinando una riduzione del prezzo di mercato.
Gli economisti suddividono la concorrenza imperfetta in tre diverse tipologie di mercato:
• Il monopolio.
• L’oligopolio.
• La concorrenza monopolistica.
Il monopolio rappresenta il caso estremo di concorrenza imperfetta, in cui un unico venditore ha il
controllo totale di un mercato. Il monopolista è l’unico produttore nel mercato e solitamente è quasi
sempre legato a qualche forma di protezione statale: una società farmaceutica che scopre un nuovo
farmaco riceve un brevetto che le garantisce l’esclusiva delle vendite per un determinato numero di
anni. Altri esempi tipici di monopolio erano rappresentati dalle concessioni di servizi locali prima
che si desse avvio ai processi di liberalizzazione, come il telefono, le frequenze televisive, il gas e
l’energia elettrica.

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Il termine oligopolio significa “pochi venditori”. In questo contesto, per “pochi” si intende un
numero limitato di imprese la cui dimensione, di conseguenza, è piuttosto rilevante sul mercato. Ciò
che contraddistingue i mercati oligopolistici è la capacità da parte delle imprese di influire sugli
equilibri di mercato attraverso l’interazione delle singole strategie adottate. Nell’industria di
trasporti aerei, ad esempio, la decisione di un’impresa di abbassare le tariffe può scatenare una
guerra dei prezzi che riduce le tariffe di tutti i concorrenti. I mercati oligopolistici sono piuttosto
diffusi, soprattutto nei settori manifatturiero, dei trasporti aerei e delle comunicazioni. Esistono, ad
esempio, soltanto pochi produttori di automobili anche se l’industria automobilistica offre numerosi
modelli diversi. Lo stesso vale per il settore degli elettrodomestici. Nei negozi si vendono vari
modelli di frigoriferi e lavastoviglie, tutti forniti da un numero ristretto di produttori. Parlare
dell’oligopolio consente di precisare che, un regime di concorrenza imperfetta non implica
necessariamente assenza di concorrenza. In molti mercati oligopolistici la competizione è molto
energica e, in effetti, alcune delle rivalità più accese che contraddistinguono i sistemi economici si
ritrovano proprio in mercati costituiti da poche imprese in concorrenza.
Nel caso di monopolio ed oligopolio, la violazione dei principi della concorrenza perfetta si
sostanziano fondamentalmente nel numero ristretto di soggetti operanti all’interno del mercato.
Nella concorrenza monopolistica, la caratteristica che viene meno è l’omogeneità dei prodotti. In
questo caso, infatti, siamo in presenza di un mercato in cui si muovono molti venditori, ma che
offrono prodotti differenziati. Questa struttura di mercato assomiglia alla concorrenza perfetta, in
quanto i venditori sono numerosi e nessuno possiede una grande quota di mercato; ma, si
differenzia da questa, per il fatto che i prodotti venduti dalle varie imprese non sono, appunto,
identici. Dato che le imprese offrono prodotti leggermente differenziati, sono comunque in grado di
venderli a prezzi leggermente diversi, riservandosi, quindi, un certo spazio di manovra nella
determinazione del prezzo. Il commercio al dettaglio è tipicamente caratterizzato da una struttura di
mercato di questo tipo. Un consumatore che deve acquistare delle mele al mercato ha la possibilità
di scegliere fra diverse qualità (golden, fuji, val di non e così via) e quindi il singolo produttore può
variare il prezzo di vendita a causa della diversa qualità del proprio prodotto rispetto a quello della
concorrenza.
Ma, per quale motivo il sistema economico è caratterizzato da mercati molto vicini alla condizione
di concorrenza perfetta, mentre altri sono dominati da un numero limitato di grandi imprese? In
generale, la difficoltà (e in alcuni casi l’impossibilità) di consentire una agevole entrata di soggetti
all’interno del mercato è causata da due motivi fondamentali:
• I rendimenti di scala e la struttura dei costi.
• Le barriere all’ingresso.
Le grandi industrie tendono ad essere caratterizzate da pochi venditori in presenza di importanti
economie di produzione su vasta scala, sostenendo di conseguenza costi decrescenti. In queste
condizioni, le grandi imprese possono produrre a costi inferiori e, quindi, applicare prezzi più bassi
di quelli applicabili dalle piccole imprese, impedendone la sopravvivenza. La tecnologia e la
struttura dei costi di un’industria contribuiscono a determinare quante imprese possono farvi parte e
quali devono essere le loro dimensioni. Il punto chiave consiste nel verificare se sono presenti
economie di scala crescenti. Sappiamo che in presenza di economie di scala crescenti, le imprese
possono diminuire i loro costi medi unitari incrementando la produzione. Questo significa che, per
quanto riguarda i costi, le imprese più grandi sono avvantaggiate rispetto a quelle di dimensioni più
modeste. Quando prevalgono queste strutture di rendimenti, una o poche imprese incrementano il

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livello di output fino a produrre una parte significativa dell’output totale del mercato, determinando,
quindi, una situazione di concorrenza imperfetta. È possibile che un unico monopolista domini
l’industria o, più spesso, che pochi grandi venditori controllino gran parte della produzione
dell’industria; è quindi evidente che l’esistenza di rendimenti crescenti di scala è incompatibile con
il mercato concorrenziale, caratterizzato dal frazionamento della produzione fra numerose piccole
imprese (in un mercato concorrenziale i rendimenti di scala possono essere costanti o decrescenti,
ma non crescenti). In altri casi ancora, numerose imprese possono fornire prodotti leggermente
diversi. Indipendentemente dal risultato, è inevitabile ritrovare qualche tipo di concorrenza
imperfetta piuttosto che un regime di concorrenza perfetta in cui molte imprese di minuscole
dimensioni accettano il prezzo come dato.
Per quel che riguarda le barriere all’ingresso, queste possono derivare da leggi o regolamentazioni
che limitano il numero di concorrenti, mentre, in altri casi, l’ingresso in un mercato è
semplicemente troppo costoso per un nuovo concorrente. Sebbene le differenze di costo siano le
principali determinanti della struttura di un mercato, anche le barriere all’ingresso sono fattori che
ostacolano l’accesso di nuove imprese nel mercato: quando sono elevate, è evidente che i mercati
possono essere caratterizzati da poche imprese e da un livello di concorrenza limitato. Le economie
di scala possono essere considerate come un tipo di barriera all’ingresso, ma ne esistono altre. In
alcuni casi, infatti, i mercati possono essere caratterizzati da barriere di carattere legale. I policy
maker possono talvolta limitare la concorrenza in alcuni settori. Tre sono le più diffuse restrizioni di
tipo legale:
• I brevetti. Un brevetto viene riconosciuto nel momento in cui si ritiene di dover proteggere i
risultati di una opera di ingegno. Il meccanismo di protezione consiste nel garantire, per un
determinato periodo di tempo, l’utilizzo esclusivo del particolare prodotto o processo “che è
stato inventato”. Una eccezione può essere concessa alle case farmaceutiche, per le quali la
durata può essere prorogata coprendo anche i termini trascorsi per ottenere le necessarie
autorizzazioni da parte delle autorità sanitarie. I brevetti, generalmente, hanno la finalità
indiretta di stimolare l’attività di invenzione: se manca la prospettiva di godere di una simile
protezione, una impresa non sarà incentivata ad investire risorse in ricerca e sviluppo, con
tutto ciò che questo comporta al sistema produttivo nel suo insieme.
• Le concessioni pubbliche. Molti servizi, che ora in Italia stanno gradualmente aprendo i
battenti alle dinamiche concorrenziali, operavano precedentemente in regime di monopolio
in concessione per la fornitura di servizi in determinate zone del paese. Si pensi, ad esempio,
ai servizi telefonici, televisivi ed energetici. In questi casi, la singola impresa ottiene il
diritto esclusivo di fornire il servizio specifico e si impegna a limitare i profitti e a rifornire
tutti i clienti.
• Le restrizioni alle importazioni. Questi strumenti possono essere adottati dai Governi per
limitare la concorrenza dei prodotti esteri. Può verificarsi, ad esempio, che nel mercato
nazionale di un determinato prodotto, siano sufficienti due o tre imprese e che il mercato
mondiale possa, invece, ospitare un gran numero di produttori. Una politica protezionistica
potrebbe, quindi, modificare la struttura dell’industria. Al contrario, l’ampliamento dei
mercati in seguito all’abolizione dei dazi doganali, in una vasta zona di libero scambio,
determina un rafforzamento della concorrenza, per cui i monopoli tendono a perdere il loro
potere. Uno degli esempi più evidenti di rafforzamento della concorrenza, è fornito dalla
costruzione dell’Unione Europea, la quale, fin dalle iniziali forme di aggregazione tra Stati

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dalle quali si è evoluta, ha provveduto progressivamente ad eliminare ostacoli al libero
commercio tra i membri, creando mercati più vasti per le imprese e determinando, quindi,
condizioni di minore concentrazione su pochi soggetti.
Oltre alle barriere imposte per legge, esistono, infine, anche barriere di carattere economico. In
particolare:
• Elevati costi di ingresso. In alcune industrie, gli investimenti da sostenere per l’accesso
possono essere semplicemente insostenibili. Nell’industria aeronavale, ad esempio, gli
elevati costi sostenuti per la progettazione ed il collaudo di nuovi velivoli scoraggiano le
imprese che potrebbero essere in grado di partecipare al mercato.
• Pubblicità e differenziazione dei prodotti. Talvolta, le imprese creano barriere all’ingresso
per ostacolare i potenziali rivali tramite la pubblicità e la differenziazione dei beni. La
pubblicità fornisce ai consumatori maggiori informazioni sui prodotti e fa in modo di creare
forme di fedeltà nel consumo alle marche più note. Anche la differenziazione dei prodotti, in
quanto tale o in combinazione con vaste campagne pubblicitarie, può costituire una barriera
all’ingresso e incrementare il potere di mercato dei produttori. In numerose industrie, come
per esempio quelle dei cereali per la prima colazione, delle automobili, degli
elettrodomestici e delle sigarette, è normale che un ristretto numero di produttori fornisca
una vasta gamma di marche, modelli e prodotti diversi. In parte, è proprio la varietà che
attira il maggior numero di consumatori e, al tempo stesso, il gran numero di prodotti
differenziati contribuisce a scoraggiare i potenziali concorrenti.

2. Il monopolio
L’impresa monopolista è price maker. Ciò significa che il monopolista scelga il prezzo, e lasci che
siano i consumatori a scegliere quanto acquistare a quel prezzo, oppure che scelga la quantità,
lasciando che i consumatori scelgano a che prezzo acquistarla.
Causa fondamentale del monopolio è la presenza di barriere all’entrata dovute a:
• una sola impresa detiene il controllo di una risorsa chiave del processo di produzione, di
importanti fattori di produzione, delle reti di vendita al dettaglio o all’ingrosso
• Protezione legale: gli Stati concedono a un’impresa il diritto esclusivo di produrre un bene
(leggi su brevetti e proprietà intellettuale o licenze governative e appalti)
• La struttura dei costi di produzione rende la singola impresa più efficiente di una moltitudine
di piccoli produttori (monopolio naturale) in seguito alla presenza di:
o Economie di scala
o Economie di varietà / diversificazione (scope economies): quando la produzione di
una impresa che produce due beni è più efficiente della produzione di due imprese
separate che producono ciascuna uno solo dei due prodotti
o Costi inferiori per l’impresa già esistente in questo caso, una sola impresa è in grado
di fornire all’intero mercato un bene un servizio a costi più bassi di quelli che
affronterebbero due o più imprese (monopolio naturale).

• Gli imprenditori adottano un comportamento che favorisce la concentrazione del numero di


imprese tramite:
o Differenziazione del prodotto e fedeltà alla marca

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o Fusioni e acquisizioni, in quanto la crescita dimensionale può consentire economie di
scala e competere su scala globale (es. banche)
o fusioni orizzontali tra imprese che operano in una stessa fase di una filiera
o fusioni verticali tra imprese che operano in fasi successive di una stessa filiera
o fusioni conglomerate tra imprese che operano in filiere diverse
• Tattiche aggressive
Il potere di mercato di un impresa in regime di monopolio (e in generale in tutti i mercati non
concorrenziali) si misura con la possibilità di aumentare la quantità prodotta e venduta sul mercato
in seguito a una riduzione del prezzo di vendita. La curva di domanda (che riflette la disponibilità a
pagare dei compratori) costituisce per il monopolista l’unico vincolo esterno alla capacità di
esercitare il suo potere di mercato.
Al pari di un’impresa concorrenziale, nel monopolio il livello di output è fissato in modo da
massimizzare il profitto. Ancora, nel caso in cui abbiamo affrontato le scelte della singola impresa
concorrenziale, avevamo dedotto che la regola consisteva nel produrre quella quantità per cui il
costo marginale eguagliava il prezzo. In altri termini, produrre quella quantità per cui l’incremento
di costo totale associato all’ultima unità prodotta, eguagliava esattamente il prezzo di mercato.
Abbiamo anche osservato che, in regime di concorrenza perfetta, il prezzo di mercato non è altro
che l’incremento di ricavo totale determinato da una unità addizionale di output venduto. La
condizione di ottimo per il monopolista richiede l’uguaglianza fra il costo marginale ed il ricavo
marginale. Esattamente come in concorrenza perfetta. Infatti, se il ricavo marginale è superiore
(inferiore) al costo marginale al monopolista conviene diminuire (aumentare) il prezzo, oppure
aumentare (diminuire) la quantità. La differenza sostanziale, sta nella forma del ricavo marginale,
che in concorrenza perfetta, abbiamo detto, è uguale al prezzo. Proprio per la posizione che occupa,
la singola impresa monopolista fronteggia una curva di domanda inclinata negativamente, che è
esattamente l’intera domanda di mercato. L’inclinazione della curva di domanda riflette la relazione
inversa tra prezzo e quantità, di conseguenza, il meccanismo a cui è sottoposto il singolo
monopolista è che maggiore è la quantità venduta, minore sarà il prezzo di vendita. Poiché il
compromesso tra prezzo e quantità è completamente determinato dalla curva di domanda, il
monopolista, che cerca di massimizzare i profitti, non può fissare entrambi contemporaneamente,
bensì, come già osservato, scegliere tra l’uno o l’altro. Se decide di fissare la quantità, il prezzo
rimane stabilito dalla curva di domanda; alternativamente, se si concentra su un livello di prezzo
che ritiene desiderabile, sarà la quantità ad essere definita sulla curva di domanda. Nei mercati non
concorrenziali, caratterizzati da una curva di domanda decrescente, il ricavo marginale è sempre
inferiore al prezzo. Con riferimento al grafico seguente, se il prezzo si riduce da 8 a 7 euro e la
quantità aumenta da 3 a 4 unità, il ricavo totale aumenta di 4 euro (passando da 24 a 28), pertanto il
ricavo marginale, ovvero l’aumento del ricavo totale conseguente all’aumento della quantità e pari a
€4.

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Ciò avviene perché la riduzione del prezzo consente un aumento della quantità, per cui il
monopolista vende anche una quarta unità ed il ricavo aumenta di €7. Ma ora le prime 3 unità
vengono vendute ad un prezzo leggermente inferiore, (€7 anziché €8) per cui su queste prime unità
il ricavo totale cala di €3. Complessivamente il ricavo totale aumenta di € 4.
Analizziamo ora il processo di massimizzazione del profitto in monopolio. Il monopolista ha
convenienza ad aumentare la produzione vendibile se RM>MC, mentre è opportuno ridurre la
produzione quando il ricavo marginale è inferiore al costo marginale (RM<MC). Ne deriva che il
monopolista massimizza il profitto scegliendo la quantità in corrispondenza della quale il costo
marginale e il ricavo marginale sono uguali (punto E), ossia dove MR=MC.
Verificata tale eguaglianza, la curva di domanda identifica il prezzo che induce i consumatori ad
acquistare tutta la quantità prodotta. Il profitto è dunque massimo nel punto in cui MR=MC. La
quantità da produrre sarà YM e il prezzo PM. Una volta determinato il prezzo e la quantità (e quindi
il ricavo totale) occorre osservare il livello del costo medio in corrispondenza della quantità ottima.
In questo caso, il costo medio ACM è inferiore al prezzo PM, pertanto l’impresa ottiene extra-
profitti (area ombreggiata).

Nel mercato di monopolio l’extra-profitto può permanere anche nel lungo periodo, in quanto le
barriere all’entrata impediscono a nuove imprese di entrare nel settore.

2.1 La relazione tra ricavi e elasticità


Da un punto di vista matematico, se la quantità y aumenta di Δy, allora sappiamo che, data
l’inclinazione negativa della domanda di mercato, il prezzo deve diminuire di Δp. Quindi, quando y
aumenta il ricavo totale, RT, da una parte varia di p(Δy) perché il monopolista vende una maggiore
quantità di output, e dall’altra varia di y(Δp) perché ora tutto l’output prodotto è venduto ad un
prezzo più basso. Il ricavo totale è RT = p*y , se l’impresa varia (marginalmente) la quantità
prodotta avremo un nuovo ricavo RT’ in cui cambiano allo stesso tempo il prezzo e la quantità
(ci stiamo muovendo lungo la curva di domanda):
RT = (p+Δp)*(y+ Δy) = py + pΔy + yΔp + ΔpΔy
Poiché l’ultimo elemento ∆P∆Q è il prodotto di due variazioni piccole, possiamo considerare
∆P∆Q≈0 e la variazione di ricavo può essere scritta come:
ΔRT = p Δy+ y Δp
Riscriviamo tale espressione dividendo per Δy:

  49  
ΔRT Δy Δp Δp ⎡ y Δp ⎤
=p +y = p+y = p ⎢1 +
Δy Δy Δy Δy ⎣ p Δy ⎥⎦
ΔRT/Δy = MR è il ricavo marginale, la variazione del ricavo totale al variare della quantità. Inoltre,
poiché:
(p/y × Δy/Δp) = ε = elasticità della domanda
Allora:
⎛ 1⎞
MR = p ⎜ 1 − ⎟
⎝ ε⎠
Data questa relazione tra ricavo marginale, prezzo di mercato e elasticità della domanda, nel tratto
elastico della curva di domanda la riduzione del prezzo o l’aumento della quantità comportano
l’aumento del ricavo, mentre nel tratto inelastico la riduzione del prezzo o l’aumento della quantità
comportano la diminuzione del ricavo. L’impresa in monopolio produce, quindi, solo in tratti in cui
la curva di domanda non è inelastica, ovvero in tratti in cui non vale│ε│<1. Infatti, se │ε│<1, il
MR è negativo è non può essere uguale al MC che è positivo. Inoltre, se la domanda è inelastica una
riduzione di y, come detto, fa aumentare i ricavi totali e riduce il costo totale, con un conseguente
aumento dei profitti. Pertanto, qualsiasi punto in cui la domanda di mercato è inelastica non può
rappresentare per il monopolista un punto di massimo profitto, dato che il profitto può essere
aumentato producendo una quantità minore di output. Ne consegue che il profitto in monopolio può
essere massimizzato solo se │ε│≥1.
Applicando la condizione di massimo profitto in corrispondenza del punto dove MR=MC significa
determinare il prezzo di equilibrio in funzione del costo marginale e della elasticità della domanda:
MC
p=
1
1−
ε
1
Il rapporto α = è il mark-up dell’impresa, ovvero la percentuale di ricarico che
1
1−
ε
l’imprenditore applica sui costi per determinare il prezzo. Il mark-up è dunque una misura del
potere di mercato dell’impresa, indicando l’entità del margine che l’impresa applica sul costo di
produzione. Da una prospettiva leggermente differente, la teoria del mark-up consente di spiegare in
che modo le imprese fissano i prezzi delle proprie merci. Le imprese scelgono il prezzo di vendita a
partire dal costo di produzione del bene (che è noto) e in base ad una stima dell’elasticità della
domanda che il mercato rivolge a quel bene.

2.2 La discriminazione del prezzo


Un ulteriore aspetto relativo al mercato monopolistico, riguarda la possibilità che il monopolista
possa discriminare i prezzi di vendita del prodotto. La discriminazione del prezzo consiste nel
vendere diverse unità di output a prezzi diversi. Distinguiamo infatti tra un monopolio con prezzo
singolo, in cui l’impresa richiede lo stesso prezzo per ogni unità venduta, ed un monopolio con
discriminazione di prezzo, dove l’impresa richiede prezzi differenti agli acquirenti basandosi sulla
disponibilità a pagare degli acquirenti stessi.

50    
Supponiamo che un monopolista abbia due diversi gruppi di clienti con differenti elasticità della
domanda; ad esempio chi viaggia in aereo per affari ha una diversa reattività al prezzo rispetto a chi
viaggia per turismo. Il monopolista potrebbe incrementare i propri profitti vendendo alla clientela
business a un prezzo maggiore. La discriminazione del prezzo è possibile se:
• le imprese sono price-maker, ovvero in presenza di una curva di domanda inclinata
negativamente,
• i beni non possono essere rivenduti, ad esempio da chi compra ad un prezzo più basso, cioé
non deve essere possibile effettuare arbitraggio,
• le imprese sono in grado identificare alcuni consumatori che vogliano pagare di più.
In quali circostanze le imprese possono praticare prezzi diversi a consumatori diversi? Esistono tre
tipi di discriminazione di prezzo:
• Discriminazione di primo grado: ogni unità di output viene venduta a prezzi diversi,
applicando al consumatore il suo prezzo di riserva, ovvero il prezzo più elevato che il
consumatore è disposto a pagare per una data quantità. Tuttavia è difficile conoscere con
certezza tale prezzo di riserva. L’area ombreggiata della figura mostra la distanza fra il
prezzo di riserva (che leggiamo sulla curva di domanda) e il costo medio. In questo caso il
monopolista produce ad un livello socialmente efficiente.

Nella realtà, le imprese non possono operare una discriminazione di prezzo perfetta, per cui il
mercato viene suddiviso secondo alcune caratteristiche specifiche, ad esempio politiche di prezzo
differenziato su base geografica (mercati regionali), oppure si identificano gruppi di consumatori
omogenei (ad esempio in base all’età, da cui gli sconti per le persone over 65 o under 26),
tempistica delle vendite (saldi, tariffe telefoniche notturne, biglietti aerei infrasettimanali).
• Discriminazione di secondo grado: ogni unità di output viene venduta a prezzi diversi, a
seconda della quantità acquistata del bene, ma ogni consumatore paga lo stesso prezzo. In
questo modo si ha una determinazione non-lineare del prezzo (es il prezzo unitario
dell’elettricità dipende da quanta se ne acquista). Per determinare la disponibilità a pagare di
2 individui (uno a domanda alta, l’altro a domanda bassa), l’impresa potrebbe offrire due
combinazioni prezzo/quantità, in modo che gli individui si auto-selezionino. In alternativa,
le imprese possono incoraggiare l’autoselezione modificando la qualità, piuttosto che la
quantità di un bene (es. economy/business nei voli aerei).
• Discriminazione di terzo grado; a diverse categorie di consumatori vengono applicati prezzi
diversi (es. carta verde/argento sui biglietti ferroviari). Es. date due categorie di
consumatori, l’impresa vorrà massimizzare il profitto agendo su due mercati. La
discriminazione di terzo grado dipende dall’elasticità della domanda, per cui l’impresa cerca
  51  
di imporre un prezzo elevato a quei consumatori con elasticità (della domanda al prezzo)
bassa ed un prezzo inferiore a quei consumatori con elasticità (della domanda al prezzo)
alta.

2.3 Il costo sociale del monopolio


La posizione di monopolista pone i profitti dell’azienda al riparo da possibili concorrenti. Nel caso
della concorrenza perfetta, abbiamo visto come la presenza di profitti induce altre imprese a
partecipare al mercato con conseguente espansione dell’offerta, abbassamento del prezzo e
riduzione dei profitti stessi (che si annullano in equilibrio nella posizione di prezzo uguale al costo
medio minimo). Ma in caso di monopolio, il venditore è unico e le barriere all’entrata lo
consolidano in questa posizione. A parte la curva di domanda inclinata negativamente, non cambia
nulla rispetto alla condizione di concorrenza perfetta? La condizione di massimizzazione del
profitto è formalmente la stessa, dunque, che differenza comporta, per la singola impresa, operare in
regime di monopolio o in regime di concorrenza perfetta? Un interrogativo legittimo e che apre la
porta ad importanti valutazioni che cercheremo di sviluppare in quanto segue. Si osservi che, la
condizione di uguaglianza tra costo marginale e ricavo marginale, nel caso della concorrenza
perfetta è garanzia del fatto che il costo marginale sia uguale al prezzo, proprio perché, abbiamo
detto, p = MR. Questo, in regime di monopolio, non accade: il prezzo è maggiore. Prezzo uguale al
costo marginale significa fissare l’output in relazione dell’incontro tra la curva di domanda (che
abbiamo detto essere orizzontale in corrispondenza del prezzo di mercato pm in concorrenza
perfetta) e la curva dei costi marginali. Effettuiamo pertanto un confronto tra monopolio e
concorrenza perfetta, ipotizziamo che tutte le imprese di un mercato concorrenziale siano acquistate
da un monopolista.

I valori di equilibrio concorrenziale di prezzo e quantità sono indicati rispettivamente da Pcp e da


Ycp, mentre i valori di equilibrio monopolistico sono rispettivamente Pm e Ym. Risulta evidente
che Pm>Pcp e Ym<Ycp. Questo mette in rilievo come il regime monopolistico determini la
presenza di un sovrapprezzo rispetto ad una ideale situazione concorrenziale. Per massimizzare i
profitti un monopolista produce una quantità di output individuata dal punto di intersezione tra il
ricavo marginale e il costo marginale. Il divario tra il prezzo di monopolio e il costo marginale
rappresenta la differenza tra il valore che gli acquirenti attribuiscono al prodotto e il costo per
realizzarlo. In altri termini, vi è una deviazione tra il prezzo di chi domanda (individuato sulla curva
di domanda) e il prezzo di chi offre (determinato sulla curva di costo marginale). L’effetto di questo
è una riduzione dell’efficienza a livello sociale, definita perdita secca del monopolio. La perdita

52    
sociale del monopolio è evidenziata dall’analisi del surplus del produttore e del surplus del
consumatore.
In un regime concorrenziale, il surplus del consumatore è rappresentato dall’ area A+B+C. Il
surplus del produttore è, invece, rappresentato dall’ area E+D. In un regime di monopolio il surplus
del consumatore è rappresentato dall’ area A. Il surplus del produttore è, invece, rappresentato dall’
area B+E. Passando dalla concorrenza al monopolio il consumatore subisce una perdita di surplus
pari alla differenza fra le due suddette aree: B+C. Passando dalla concorrenza al monopolio il
produttore realizza un guadagno di surplus pari alla differenza fra le due suddette aree: B-D.
Passando dalla concorrenza al monopolio si ha una perdita netta di efficienza calcolata come
somma delle aree di perdita di surplus del consumatore (area C) di perdita di surplus del
monopolista (area D). Tuttavia il monopolista è compensato da un guadagno (pari all’area B) che
rappresenta il profitto di monopolio. In conclusione, nel passaggio al monopolio si verifica una
perdita secca di benessere (dead-weight loss) pari all’area del triangolo compreso tra la curva di
domanda (che descrive il valore per il consumatore), quella del costo marginale (che riflette il costo
di produzione) e il livello della produzione. Inoltre si verifica una redistribuzione della ricchezza dal
consumatore al monopolista (l’area B).
Il costo sociale del monopolio non risiede tanto nel profitto del monopolista quanto nel fatto che il
monopolista sceglie di collocarsi a un livello di produzione inferiore a quello che massimizza la
rendita totale, dato che applica un prezzo superiore al costo marginale. Il monopolio è inefficiente
perché non esaurisce tutte le possibilità di scambio vantaggiose per tutti i contraenti. L’allocazione
del monopolio è un tipico esempio di fallimento del mercato (non dal punto di vista dell’impresa,
che ottiene il massimo profitto, ma da quello della “società”).
L’evidenza di una quantità di monopolio inferiore alla quantità concorrenziale conduce a
sottolineare un ulteriore problema associato al mercato monopolistico, ovvero la presenza di
capacità di produzione in eccesso. In altri termini, gli assetti produttivi esistenti, gli investimenti
effettuati, gli impianti installati, potrebbero consentire di realizzare una produzione più alta, ma ciò
non sarebbe congruente con la strategia di massimizzazione del profitto dell’impresa monopolistica.
L’intero sistema sociale sarebbe, dunque, penalizzato da una parziale inutilizzazione di capacità di
produzione, causata dal contrasto che esisterebbe fra la produzione potenzialmente realizzabile Ycp
e la più bassa produzione ottimale del monopolista Ym. Per ovviare a questi problemi, si potrebbe
pensare di regolamentare un monopolio in modo da eliminare l’inefficienza.

2.4 Il monopolio naturale


Una situazione di monopolio naturale si ha quando la curva dei costi totali di un’impresa è
decrescente in maniera continua. Se la produzione venisse divisa tra più imprese, ognuna
produrrebbe meno e dovrebbe affrontare costi medi totali più elevati, come nel caso di servizi di
pubblica utilità, acquedotti, distribuzione del gas, rete elettrica. Un’impresa che opera in monopolio
naturale generalmente è un’impresa che ha elevati costi fissi. Poiché i costi fissi medi diminuiscono
al crescere della produzione, quanto più l’impresa produce, tanto più potrà ripartire i costi fissi su
un maggior numero di unità prodotte. A causa della presenza di elevati costi fissi, il costo medio
(AC) diminuisce al crescere della quantità prodotta, e questo perché i costi fissi incidono in misura
sempre più inferiore. Quando un settore ha rilevanti economie di scala e una domanda che ne
consente lo sfruttamento, la curva di costo medio di lungo periodo è decrescente, almeno fino al

  53  
livello della domanda, mentre il costo marginale è inferiore al costo medio. L’impresa più grande
avrà dunque un vantaggio di costo rispetto a tutte le altre e finirà per dominare il settore.

Se la suddivisione di un monopolio in un mercato competitivo non è auspicabile, l’Autorità di


governo potrebbe creare imprese di proprietà pubblica per aumentare l’efficienza economica.
Tuttavia, la nazionalizzazione dei monopoli privati non è frequente, spesso non funziona, in quanto
da un lato limita gli incentivi per abbassare i costi o aumentare la qualità dei prodotti e dall’altro
finisce con il servire interessi politici. In alternativa, si potrebbe pensare all’istituzione di una
Autorità Antitrust che vieti le fusioni o imponga il frazionamento oppure limiti la libertà
dell’impresa nella fissazione dei prezzi. Infine, l’attività di regolamentazione del governo potrebbe
fissare un prezzo pari al costo marginale (regolamentazione di prezzo) ed aumentare il benessere
sociale. Ma ciò non tiene conto di un importante aspetto del problema: potrebbe verificarsi il caso
che, a quel prezzo, il profitto del monopolista sia negativo. In tal caso, per il monopolista sarebbe
conveniente cessare l’attività. Se l’Autorità impone al monopolista l’uguaglianza tra prezzo e costo
marginale, al fine di massimizzare il benessere sociale, il prezzo è inferiore al costo medio e
l’impresa incorre in una perdita. Una soluzione potrebbe essere quella di fornire dei sussidi destinati
a colmare le perdite dell’impresa, oppure ridurre il carico fiscale. Tuttavia, è probabile che la
condivisione di informazioni fra gli agenti coinvolti non sia perfetta ed allora la determinazione
delle perdite dell’impresa diventa complicata. L’Autorità di regolamentazione dovrebbe infatti
conoscere i costi (medi e marginali) dell’impresa e la curva di domanda. Inoltre, in presenza di
sussidi, si riducono gli incentivi a migliorare l’efficienza (visto che c’è chi copre comunque le
perdite): le imprese (pubbliche o private) potrebbero accentuare i costi per ottenere aiuti più
consistenti, o ridurre gli investimenti necessari a mantenere un adeguato livello di efficienza,
oppure offrire beni e servizi di qualità inferiore. La soluzione adottata più di frequente è dunque
quella di determinare un profitto “equo” (fair rate of return) per l’impresa che ha operato
investimenti irreversibili in un’attività caratterizzata da costi decrescenti. Il “fair rate of return”
corrisponde in genere con un prezzo pari al costo medio di produzione (P=AC tale da definire la
combinazione PR- YR), che consente all’impresa di restare sul mercato con un profitto “normale”.

3. La Concorrenza Monopolistica
Nella concorrenza monopolistica, le imprese realizzano prodotti differenziati. Tali prodotti sono tra
loro buoni, ma imperfetti sostituti. La concorrenza monopolistica è particolarmente diffusa nel
commercio al dettaglio e nel settore dei servizi. Nelle grandi città esistono ad esempio molti bar,
officine meccaniche, agenzie immobiliari e parrucchieri, ciascuno dei quali esercita un certo
controllo sul proprio prezzo di vendita. Ma la presenza di molti venditori in questi mercati fa sì che

54    
le decisioni assunte da ciascuno di essi siano difficilmente notate dagli altri, le cui reazioni non
costituiscono, quindi, un motivo di preoccupazione. In un mercato di concorrenza monopolistica,
quindi, non vi sono interazioni strategiche fra le imprese. Come per la concorrenza perfetta, in
concorrenza monopolistica ciascun partecipante al mercato ritiene, a ragione, di essere troppo
piccolo per influenzare il comportamento delle altre imprese. Tuttavia gli operatori in concorrenza
monopolistica, a differenza di quelli che agiscono in concorrenza perfetta, godono di una certa
libertà nella determinazione del prezzo. Volgiamo ora l’attenzione all’elemento della
differenziazione del prodotto. Come detto, la teoria della concorrenza monopolistica descrive una
situazione in cui sono presenti numerosi beni e ciascuna impresa produce un bene che è uno stretto
sostituto degli altri. Ogni impresa cerca di differenziare il proprio prodotto da quello delle altre
imprese presenti nell’industria. Più la differenziazione è efficace maggiore è il potere di monopolio
dell’impresa. Pensiamo, per esempio, ad imprese che competono vendendo, entro un ambito
spaziale limitato, servizi leggermente differenti tra loro; oppure, che producono varietà molto simili
di beni. Tutti sanno che la pasta è buona, ma non tutti sono d’accordo su quale sia la migliore. La
curva di domanda di ciascun pastificio è pertanto inclinata negativamente. Il fatto che la curva di
domanda di ogni singola impresa sia a pendenza negativa, in ragione della differenziazione del
prodotto, è l’elemento che contraddistingue la concorrenza monopolistica dalla concorrenza
perfetta. Se una impresa che opera in regime di concorrenza monopolistica abbassa il prezzo, la
quantità domandata del suo prodotto aumenta, perché alcuni consumatori abbandonano i prodotti di
altri suoi concorrenti per rivolgersi ai prodotti di quell’impresa. Ma dato che i prodotti sono tra loro
differenziati, non tutti i consumatori decideranno per questo cambiamento di rotta, come avverrebbe
in condizione di concorrenza perfetta. In concorrenza monopolistica, una impresa può variare il
prezzo per massimizzare i profitti, ma dato che ciascuna impresa è troppo piccola per influenzare in
misura determinante il mercato, ognuna ritiene che i concorrenti non reagiscano alle proprie
decisioni di prezzo. In sintesi, la concorrenza monopolistica è un mercato tipicamente
rappresentativo del commercio al dettaglio, in cui:
• sono presenti molte imprese,
• vi sono modeste barriere all’entrata,
• vi è libertà di entrata,
• il prodotto non è omogeneo ma differenziato (e dunque l’impresa fronteggia un curva di
domanda inclinata negativamente).
In pratica le imprese che operano in concorrenza monopolistica non si limitano a fissare il prezzo e
l’output, ma prendono decisioni anche sullo sviluppo del prodotto, offrendo un prodotto tanto più
differenziato da quelli dei concorrenti, quindi un bene caratterizzato da bassa elasticità, e sugli
investimenti pubblicitari, poiché una politica di marketing efficace provoca un aumento della
domanda e la rende più rigida.

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L’equilibrio del mercato in concorrenza monopolistica di breve periodo sarà descritto dal seguente
grafico, in cui ogni impresa vende una combinazione di prezzo e di output che si trova sulla curva
di domanda, in corrispondenza del punto in cui MR=MC.
L’esistenza di extraprofitti incoraggia l’entrata di nuove imprese nell’industria; in questo modo la
domanda delle imprese già esistenti si riduce fino ad azzerare gli extraprofitti (cioè fino a quando la
domanda non è tangente al costo medio). L’ingresso di nuove imprese nel lungo periodo, fa ruotare
verso il basso sia la curva di domanda della singola impresa, rendendola via via più ripida, sia la
curva del ricavo marginale. Cambia perciò la scelta dell’impresa (che produce meno). Il processo
prosegue fino a quando gli extraprofitti non si annullano, dove appunto il prezzo è uguale ai costi
medi (costi unitari della singola impresa). A questo punto l’impresa ottiene solo i profitti normali.

L’entrata tende ad annullare i profitti di ogni impresa. Se, infatti, entrano nel mercato imprese
attratte dalla realizzazione di profitti positivi, in corrispondenza di ogni prezzo diminuisce la
quantità venduta da ogni impresa, inoltre la curva di domanda diventa più piatta, ovvero più
elastica.
Nel lungo periodo, nell’ipotesi che le imprese abbiano le stesse configurazioni di costo, le imprese
di concorrenza monopolistica operano al di sotto della dimensione efficiente producendo un bene in
quantità minore e a un prezzo superiore rispetto ad un mercato di concorrenza perfetta (le imprese
hanno un eccesso di capacità produttiva: producendo di più subirebbero una perdita). Inoltre, non
viene minimizzato il costo medio di lungo periodo ed il prezzo di lungo periodo è più alto del costo
marginale (P > MC): le imprese avrebbero interesse a espandere la produzione al prezzo corrente
perché otterrebbero profitti La concorrenza monopolistica, pur essendo un tipo di mercato più
efficiente del monopolio, comporta comunque uno spreco di risorse nel lungo periodo. Ciascuna
impresa, infatti, produce in condizioni di non piena utilizzo della propria capacità produttiva. La
quantità che consentirebbe di sfruttare pienamente gli impianti è quella in corrispondenza della
quale il costo medio è minimo. Solo il ricorso a una pubblicità massiccia - uno strumento che fa
leva sull’immagine più che sulla qualità del prodotto - potrà far recuperare alle imprese la quota di
mercato erosa dalla concorrenza.

4. L’oligopolio
L’oligopolio è un mercato formato da un numero limitato di imprese. Si tratta di un mercato in cui
ciascuna impresa ritiene che il risultato delle proprie decisioni dipenda in modo significativo dalle
decisioni assunte dalla altre imprese. Ciascuna impresa, in condizioni di interdipendenza con le
imprese concorrenti, cerca di massimizzare il proprio profitto, tenendo conto delle possibili reazioni

56    
dei suoi competitori. Essa deve assegnare un profitto a ogni decisione possibile così da poter
ordinare i risultati e scegliere quello migliore.
La teoria dell’oligopolio punta a prevedere le decisioni delle imprese in condizioni di
interdipendenza strategica; situazione in cui si deve immaginare la reazione dei competitori ad una
certa scelta e a seguito della reazione intuita aggiustare la scelta iniziale. In altri termini l’impresa in
oligopolio deve tentare di incorporare la reazione dei rivali entro il proprio modello decisionale,
cioè nella funzione di profitto.
Ovviamente le reazioni possibili dei competitori davanti a una stessa scelta possono essere diverse.
Ad ogni reazione possibile cambia l’esito della scelta e la configurazione di equilibrio sul mercato.
Questa osservazione ci fa capire come non esista un’unica teoria dell’oligopolio. Al contrario, i
modelli di oligopolio descrivono la varietà dei comportamenti dei soggetti coinvolti e le reazioni sul
mercato. L’analisi empirica è di grande aiuto per selezionare i comportamenti e le reazioni più
rilevanti e più frequenti.
Se le imprese sul mercato sono poche e interdipendenti potrebbero cercare un accordo invece di
farsi concorrenza, poiché la concorrenza tende ad abbassare i profitti di tutti e quindi lo stimolo per
un comportamento collusivo o cooperativo diventa fortissimo. Tuttavia le imprese hanno una
tendenza quasi spontanea a tentare di costruirsi una situazione di monopolio o a colludere per
dominare il mercato. E l’insieme delle politiche della concorrenza che gli stati nazionali nel mondo
occidentale mettono in atto per impedire la formazione di monopoli o collusioni tra imprese in uno
stesso mercato.
Moltissimi mercati all’interno dei quali tutti i giorni “riversiamo” le nostre scelte di consumo sono
sostanzialmente contraddistinti da una condizione di oligopolio. Il settore automobilistico, quello
televisivo, il settore bancario, gli operatori di telefonia mobile sono alcuni esempi di mercato
dominato da pochi soggetti. Dato che ogni oligopolista si trova ad affrontare pochi rivali, le sue
decisioni hanno solitamente effetti rilevanti su ciascuno di essi. Nell’intento di massimizzare i
propri profitti, egli deve tenere in considerazione le interazioni con questi soggetti; deve pertanto
cercare di prevedere le loro azioni e le loro reazioni alle decisioni che assume, sapendo peraltro che
anche i suoi competitor si comportano allo stesso modo; ovvero, cercano di prevedere le sue azioni
e le sue reazioni alle loro decisioni. Questa fitta rete di interazioni rende estremamente complesso il
problema della massimizzazione del profitto e rende, quindi, più difficile comprendere il
comportamento dell’oligopolista.
In effetti, gli oligopolisti possono seguire diversi tipi di comportamento, ma i casi che più
frequentemente si possono verificare sono tre. Nei mercati oligopolistici i comportamenti sono
dominati da due forze che agiscono in direzioni opposte. La prima è l’interesse comune delle
imprese alla massimizzazione dei profitti dell’intero settore attraverso pratiche collusive e azioni
concertate, che consentano loro di comportarsi come un unico monopolista teso alla
massimizzazione del profitto. La collusione è, infatti, un accordo esplicito o tacito tra le imprese
attive in un settore, relativo alla determinazione dei livelli di produzione e dei prezzi, oppure inteso
a limitare la rivalità tra i concorrenti. Siamo in presenza di una collusione esplicita quando esiste un
accordo effettivo e concreto tra le imprese, mentre la collusione tacita ha origine da un’intesa non
dichiarata apertamente. Al contrario, si parla di rivalità, quando le imprese cercano di strapparsi
vicendevolmente quote di mercato. Si noti che la possibilità di pervenire ad una collusione non
elimina sempre e comunque tutte le forme di rivalità: le imprese in collusione possono, infatti,
accordarsi per determinare il prezzo (cosa che porta giovamento a tutti), ma non limitare, ad

  57  
esempio, le proprie spese in pubblicità o l’introduzione di nuovi prodotti (cosa che porta
giovamento solo alla singola impresa). La seconda forza che influenza il comportamento degli
oligopolisti, è l’interesse egoistico di ogni venditore alla massimizzazione del proprio profitto,
anche se ciò potrebbe provocare una riduzione dei profitti totali del settore. Queste due forze danno
origine ad una tipica dinamica di mercato oligopolista che può essere descritta analizzando appunto
i tre casi suddetti.

4.1 La curva di domanda ad angolo


Un primo esempio di interazione strategica associata ad una struttura di mercato oligopolistica è
dovuto agli economisti americani Hall, Hitch e Sweezy, altrimenti noto come modello della
domanda ad angolo. L’obiettivo di questo modello è spiegare la rigidità dei prezzi che è possibile
riscontrare nei mercati di oligopolio. Gli economisti neoclassici postulavano la presenza di una
curva di domanda inclinata negativamente, come abbiamo visto in precedenza, mentre in questo
modello si analizza come un’impresa oligopolista percepisce la propria curva di domanda sulla base
delle proprie possibili scelte. L’impresa conosce il proprio prezzo e il proprio livello di output, ma
deve prevedere quale sarà la reazione dei concorrenti ad una eventuale variazione del prezzo.
L’impresa si aspetta che la scelta di ridurre il prezzo verrebbe percepita dai concorrenti come
un’azione aggressiva, volta ad accrescere la propria quota di mercato a loro discapito, pertanto
tenderebbero ad imitare questa politica.

Di conseguenza, la domanda, a seguito di una riduzione del prezzo, sarà inelastica. Graficamente, la
curva di domanda sarà ripida (e rigida) per prezzi inferiori a P*. Se invece l’impresa aumentasse il
prezzo del proprio prodotto, i concorrenti non avrebbero motivo di reagire e la domanda sarà
relativamente elastica per prezzi al di sopra di P*. L’impresa ipotizza pertanto di fronteggiare una
curva di domanda ad angolo, per cui prevede che i ricavi si ridurranno sia nel caso di una riduzione
sia nel caso di un aumento del prezzo e la strategia migliore sarà quella di mantenere il prezzo a
fisso a P*. La presenza di una curva di domanda ad angolo comporta infatti una discontinuità
nell’andamento del ricavo marginale. La condizione di massimo profitto MR=MC sarebbe
verificata anch in caso di variazione (entro una determinata soglia) del costo marginale. I prezzi
tenderanno allora a essere stabili, anche in presenza di variazioni dei costi.

4.2 Oligopolio e teoria dei giochi


Un gioco è una situazione nella quale agenti interdipendenti devono compiere scelte razionali. Ogni
giocatore adotterà una strategia, ovvero terrà una linea di comportamento, in ogni situazione
prevedibile. Mentre in concorrenza perfetta ogni impresa agisce in modo completamente

58    
indipendnte rispetto alle altre, prendendo le proprie decisioni sulla base del prezzo di mercato e non
interessandosi alle scelte delle altre imprese, in oligopolio le imprese tengono conto di quello che
fanno i propri avversari nel prendere le proprie decisioni. Le imprese in oligopolio adottano quindi
un comportamento strategico: agiscono cioè in base alle mosse compiute dagli avversari per
ottenere il miglior risultato possibile (conquistando quote di mercato o semplicemente
massimizzando il profitto). Tuttavia, adottando una strategia “egoista” ed in assenza di accordi che
favoriscano la cooperazione, possono prodursi esiti non soddisfacenti (come la riduzione dei
margini di profitto) per tutte le imprese.
In sintesi, le imprese potrebbero:
• ignorare le scelte dei propri avversari,
• tener conto dell’interdipendenza, cercando di cooperare con i concorrenti, esponendosi però
al rischio che l’accordo di collusione potrebbe risultare instabile a causa degli incentivi a
deviare/ingannare il proprio avversario,
• agire in maniera indipendente (non-cooperazione) tenendo conto delle opzioni di cui
l’avversario dispone In quest’ultimo caso l’idea di non-cooperazione significa “cercare di
ottenere il miglior risultato possibile alla luce di quanto probabilmente farà il mio
avversario”.
La “teoria dei giochi” studia il comportamento strategico tipico di queste imprese. Esempio di
“gioco non cooperativo” è il dilemma del prigioniero, di cui viene proposta una versione che
riguarda il comportamento di due imprese. In questo caso si adotta un modello di interazione
strategica in cui le imprese scelgono simultaneamente la quantità da produrre in linea con il modello
di duopolio di Cournot. Consideriamo due compagnie petrolifere (API Anonima Petroli Italiani e
BP British Petroleum) che competono sulla quantità di benzina da immettere sul mercato italiano.
Sia YA la quantità di prodotto offerto dall’impresa Api e YB la quantità di prodotto offerto
dall’impresa Bp. Ciascuna impresa può scegliere tra due strategie:
• la strategia non cooperativa (NC): scegliere la quantità che comporta la massimizzazione del
profitto data la scelta dell’altra impresa,
• la scelta cooperativa (C): colludere con l’altra impresa e ridurre la quantità in modo da far
aumentare i prezzi e i profitti per entrambe le imprese

4.3 Il modello di Cournot


Usiamo la teoria dei giochi per presentare una situazione di interazione strategica tra due imprese.
Nel caso in cui le imprese stabiliscano simultaneamente la quantità prodotta, l’equilibrio raggiunto
prende il nome di equilibrio di Cournot. In questo caso, la funzione di reazione esprime la scelta
ottima di una impresa come funzione del livello atteso di output prodotto dall’altra impresa. Quindi,
le funzioni di reazione sono due, una per l’impresa 1 ed una per l’impresa 2. Il punto di incontro fra
le due curve di reazione è l’equilibrio di Cournot. In tale punto, ogni impresa massimizza il profitto
date le sue aspettative circa il comportamento dell’altra impresa, le aspettative sono confermate ed,
infine, ogni impresa produce la stessa quantità di prodotto, ovvero le imprese si ripartiscono
equamente la domanda di mercato.
Supponiamo che le imprese possano scegliere un accordo di cooperazione, con una riduzione
dell’offerta che permetta di aumentare il prezzo del biglietto. Se una impresa sceglie la strategia
cooperativa, offre 48 mila ettolitri di benzina per trimestre; ossia: YA,C = YB,C = 48

  59  
Tuttavia, ciascuna impresa potrebbe decidere di offrire un quantitativo superiore per conquistare
una porzione maggiore del mercato a scapito del concorrente. Se una impresa sceglie la strategia
non cooperativa, vende 64 mila ettolitri di benzina per trimestre; ossia: YA,NC = YB,NC = 64
Nella matrice dei guadagni (payoff) rappresentiamo i profitti di ogni impresa in milioni di euro, il
numero a sinistra della virgola si riferisce al giocatore-riga (Api) il numero a destra della virgola si
riferisce al giocatore-colonna (Bp): 5 milioni ciascuna se entrambe perseguono la strategia
cooperativa, 4 milioni ciascuna se entrambe perseguono la strategia non-cooperativa, 6 milioni per
l’impresa che devia dall’accordo cooperativo (vendendo più benzina) e 3 milioni per l’impresa che
mantiene l’accordo. Questo è un gioco del tipo “dilemma del prigioniero”, in cui ogni impresa ha
una strategia dominante che è quella non cooperativa. La soluzione di questo gioco si può trovare
attraverso l’eliminazione delle strategie dominate: il giocatore-riga sceglierà infatti la strategia
Y=64 sia nel caso in cui il giocatore- colonna cooperi (6>5) sia nel caso in cui il giocatore-colonna
non cooperi (4>3). Allo stesso modo il giocatore-colonna sceglierà infatti la strategia Y=64 sia nel
caso in cui il giocatore-riga cooperi (4>3) sia nel caso in cui il giocatore- riga non cooperi (6>5).
Pertanto la strategia non cooperativa Y=64 “domina” la strategia cooperativa Y=48, conducendo ad
un unico equilbrio, (4, 4) in cui le decisioni di massimizzazione dei profitti di ciascuna delle due
imprese, date le decisioni dell’altra, sono mutuamente compatibili. La scelta di ciascuna impresa,
avendo effetti sui prezzi, modifica l’ambiente nel quale tutte le altre si ritrovano ad operare. Da ciò
segue che ciascuna impresa sarà costretta a rivedere le decisioni precedentemente assunte,
innescando un processo di reazioni a catena che si conclude quando ciascuna impresa non intende
più modificare il suo comportamento dato il comportamento delle altre. Tale situazione configura
un equilibrio di Nash: uno stato del mercato in cui la strategia seguita da ciascuna impresa è quella
ottima data la strategia delle altre e, data la scelta dell’avversario, nessuna impresa ha interesse a
deviare dalla propria decisione.

Tale equilibrio tuttavia non garantisce alle imprese un profitto pari al massimo ottenibile. In assenza
di un accordo (cooperativo) vincolante, sia Api che Bp potrebbero annunciare la vendita di soli
48mila ettolitri di prodotto per poi ingannare il concorrente, venderne di più e guadagnare un
profitto superiore. Dal punto di vista di entrambe le imprese sarebbe stato paretianamente più
efficiente adottare la strategia cooperativa: avrebbero entrambe ottenuto un profitto più elevato
(5,5). Il perseguimento dell’interesse individuale può portare le imprese ad ottenere nel complesso
un profitto più basso di quello ottenibile se si comportassero nel loro insieme come un monopolista.
Per aumentare i profitti, le due imprese possono colludere formando un cartello. In questo caso, se
le due imprese si uniscono e formano un cartello, il cartello diventa un monopolista che ha di fronte
a sé l'intera curva di domanda del mercato e che può restringere la quantità ed aumentare il prezzo
per incrementare i profitti. Le imprese possono poi dividere tra loro i profitti secondo la rispettiva
forza contrattuale all’interno del cartello. Tuttavia i cartelli tendono ad essere instabili. Analizziamo
ora lo stessa situazione di interazione strategica mediante il modello di Cournot, in cui ogni impresa

60    
decide quanto produrre considerando come un dato la quantità prodotta dall’altra impresa.  
Ipotizziamo:
la domanda di mercato pari a: p(Y) = 339 - Y
la funzione di costo (uguale per entrambe le imprese) pari a: C(Y) = 147 Y
il costo marginale, uguale al costo medio, pari a: MC = C’(Y) = 147
il ricavo dell’impresa A, data la quantità scelta dall’impresa B è pari a:
RA (YA, Y B ) = (339 − YA − Y B )YA = 339YA − Y A2 − Y BYA
Il ricavo marginale dell’impresa A è:
R' A (YA, Y B ) = 339 − 2YA − Y B
La massimizzazione del profitto dell’impresa A richiede l’uguaglianza del ricavo e del costo
marginale:
339 − 2YA − Y B = 147  
2YA = 192 − Y B  
1
YA = 96 − Y B  
2
Questa funzione è chiamata funzione di reazione (best response function) dell’impresa A alle
decisioni di produzione dell’impresa B. Analogamente si trova la funzione di reazione dell’impresa
B:
1
YB = 96 − Y A  
2
Equilibrio di Nash-Cournot: situazione di equilibrio nella quale le decisioni di massimizzazione dei
profitti di ciascuna delle due imprese, date le decisioni dell’altra, sono mutuamente compatibili. Si
trova risolvendo il sistema delle funzioni di reazione delle due imprese
⎧ 1
⎪⎪YA = 96 − 2 Y B

⎪Y = 96 − 1 Y A
⎪⎩ B 2
La cui soluzione, per sostituzione, è:
YA* = 64, YB* = 64
Si vede che questo risultato corrisponde all’equilibrio non cooperativo di Nash del gioco:
Y* = YA* + YB* = 128
P* = 339 – Y = 211
Graficamente, le due funzioni di reazione sono:

  61  
Per la singola impresa si determina inoltre:
Ricavo = RT = 211 * 64 = 13,5 milioni di euro
Costo = CT = 147 * 64 = 9,4 milioni di euro
Profitto = π = 13,5 – 9,4 = 4,1 milioni di euro
Alternativamente, le due imprese possono colludere cercando di aumentare i profitti. Se formano un
cartello, si comportano come un monopolista che restringe la quantità e aumenta il prezzo per
cercare di aumentare i profitti. Se le imprese colludono, possono esserci molte combinazioni di
prodotto delle due imprese che massimizzano i profitti del cartello.
Se le due imprese si uniscono e formano un cartello, il cartello diventa un monopolista che ha di
fronte a sé l'intera curva di domanda del mercato.
Domanda di mercato: p = 339 - Y
Ricavo del cartello è: RT = 339 Y - Y2 MR = R’(Y) = 339 – 2Y
Funzione di costo: CT = 147 Y MC = C’(Y) = 147
Il cartello massimizza i profitti producendo fino al punto in cui il ricavo marginale è uguale al costo
marginale: MR = MC:
339 – 2Y = 147
192 = 2Y
YM = 96
pM = 339 - 96 = 243
Ricavi del cartello = pM * YM = 243 * 96 = 23,3 milioni di euro
Costi del cartello = 147 * 96 = 14,1 milioni di euro
Profitti del cartello = 23,3 - 14, 1 = 9,2 milioni di euro
Le imprese dividono tra loro i profitti del cartello secondo la rispettiva forza contrattuale all’interno
del cartello. Se le due imprese dividono tra loro i profitti in modo uguale ogni impresa ha un
profitto pari a 4,6 (sono i guadagni della soluzione cooperativa del gioco). Con il cartello sono in
grado di guadagnare un profitto maggiore. Nell’equilibrio di Cournot i profitti di ogni impresa sono
pari a 4,1 milioni di euro.
Tuttavia il cartello tende ad essere instabile. Partiamo da una situazione cooperativa (di collusione)
con:
YA = YB = 48.
Supponiamo che A decida di passare alla produzione di equilibrio non cooperativo (Nash-Cournot)
mentre B mantiene la produzione cooperativa; ossia YA = 64; YB = 48
Y = YA + YB = 64 + 48 = 112
p = 339 - 112 = 227
profitti di A = 227 * 64 - 147 * 64 = (227 - 147) * 64 = 5,1 milioni
profitti di B = 227 * 48 - 147 * 48 = (227-147) * 48 = 3,8 milioni
A aumenta i propri profitti rispetto a quelli della situazione cooperativa.

4.4 Il modello di Stackelberg


Analizziamo ora il caso di una leadership di quantità, noto anche come modello di Stackelberg.
Questo modello è dovuto all’ economista tedesco H. von Stackelberg (1934). In esso si generalizza
l’analisi alla Cournot delle curve di reazione. Si definisce una curva di reazione supponendo che la
quantità prodotta dall’impresa rivale sia funzione della quantità prodotta dal duopolista che
costruisce la curva e non fissa come in Cournot. La curva di reazione indica ora ciò che un’impresa

62    
pensa il rivale produrrà come risposta per ogni proprio livello di produzione. A differenza del
modello di Cournot si intuisce che in questo emerge una immagine delle imprese come agenti che
contrattano, che riconoscono la loro una mutua dipendenza, che tengono conto degli effetti indiretti
delle proprie azioni.
Il modello prevede una asimmetria tra le due imprese. Una svolge la funzione di guida (leader),
l’altra di satellite (follower). L’impresa guida, la prima, decide il livello di produzione che
massimizza il suo profitto sulla base della congettura che la seconda impresa accetti come un dato la
sua decisione di produzione. La seconda, assunto quel dato come un vincolo, decide il livello della
sua produzione che massimizza il suo profitto.
L’impresa follower reagisce dunque passivamente alle decisioni di produzione dell’altra e ritiene
che le sue decisioni di produzione non ne influenzino le scelte. L’impresa follower agisce come
un’impresa nel modello di Cournot. L’impresa guida basa le sue scelte sulla congettura che l’altra
impresa si comporti come un’impresa follower, come nel modello di Cournot.
L’impresa 1 (leader) incorpora la funzione di reazione della 2 nella propria funzione di reazione. E’
questo un primo esempio di comportamento strategico. Pertanto l’impresa 1 riesce sempre a
stabilire a priori quale livello di produzione l’impresa 2 mette sul mercato e massimizza il suo
profitto assumendo la produzione della 2 come un dato.
Il profitto di un’impresa dipende, dato il costo marginale per semplicità preso come costante, da
quanto vende e a quale prezzo.
Nell’ipotesi di due sole imprese, immaginiamo che l’impresa 1 scelga per prima la quantità da
produrre Y1. Tale impresa (leader) sa che l’altra (follower) cercherà di massimizzare il proprio
profitto, quindi, nello scegliere Y1 deve tenere conto del problema di massimo profitto del follower.
Funzione di domanda: P = 339 - Y
Quantità totale: Y = Y1 + Y2
Funzione di costo (uguale per entrambe le imprese): CT = 147 Y
Costi marginali costanti: MC = C’(Y) = 147
L’impresa 1 (leader del mercato) decide la sua quantità, Y1, per prima
L’impresa 2 (follower) osserva Y1 e quindi decide quanto produrre (Y2).
La soluzione di questo problema si può trovare con il metodo della backward induction (induzione a
ritroso), ossia risolvendo il problema del soggetto che sceglie per secondo e poi affrontando la
scelta ottima di chi decide per primo. L’impresa 2 massimizza i suoi profitti data la scelta
dell’impresa 1. L’impresa 2 fronteggia la curva di domanda: P = 339 – Y1 – Y2
1) L’impresa 2 massimizza i suoi profitti, per un dato Y1:
max π2(Y1) = Y2(339 – Y1 – Y2 - 147)
Differenziando Π2(Y1) rispetto a Y2:
Δπ
= 192 − Y1 − 2Y2 = 0
ΔY2
Y2 (Y1) = 96 - Y1/2

2) l’impresa 1 massimizza i suoi profitti data la scelta ottimale di 2


La funzione di profitto dell’impresa 1 quindi è:
max π1(Y1) = (339 - Y1 - Y2 (Y1) - 147] Y1
Sostituendo l’espressione di Y2 (Y1) trovata prima:
π1(Y1) = (192 - Y1 - 96 + Y1/2) Y1
  63  
Differenziando π1(Y1) rispetto a Y1:
Δπ
= 192 − 2Y1 − 96 + Y1 = 0
ΔY1
Y1* = 96
Quindi, sostituendo:
Y2* = 96 - Y1* / 2 = 48
Quantità totale: Y = 96 + 48 = 144
Prezzo di mercato: P = 339 - 144 = 195
C’è un vantaggio di prima mossa, perché il leader si avvantaggia sul follower.
RTLEADER = 195 * 96 = 18,7 milioni di euro
CTLEADER = 147 * 96 = 14,1 milioni di euro
πLEADER = 18,7 – 14,1 = 4,6 milioni di euro

RTFOLLOWER = 195 * 48 = 9,4 milioni di euro


CTFOLLOWER = 147 * 48 = 7,1 milioni di euro
πFOLLOWER = 18,7 – 14,1 = 2,3 milioni di euro

La tabella seguente indica le differenze fra i casi Cournot, Stackelberg e collusione analizzati nei
nostri esempi:
YA YB Y P πA πB π
Cournot 64 64 128 211 4,1 4,1 8,2
Stackelberg 96 48 144 195 4,6 2,3 6,9
Collusione 48 48 96 243 4,6 4,6 9,2

4.5 Il modello di Bertrand


Nel 1883 J. Bertrand recensendo il libro di Cournot del 1838 avanza la tesi che la variabile
strategica o decisionale in duopolio e in oligopolio non sia la quantità ma il prezzo. Allo scopo
sviluppa un interessante modello in cui le due imprese (sempre restando al caso del duopolio come
caso particolare di oligopolio) si fanno concorrenza attraverso il prezzo. Il mercato determina poi la
quantità che le due imprese offriranno. L’idea che le imprese si facciano concorrenza sul prezzo
discende dall’assunto che i prezzi siano più flessibili delle quantità. Inoltre si ipotizza che le due
imprese utilizzano la medesima tecnologia a rendimenti costanti di scala, senza limite di capacità
produttiva. Valgono inoltre, nel modello, due regole di buon senso : a) i consumatori acquistano
sempre al prezzo più basso (prodotto omogeneo) ; b) se i prezzi delle due imprese sono uguali i
consumatori distribuiscono la loro domanda 50% all’una, 50% all’altra. In questo contesto ciascun
imprenditore sa che fissando il suo prezzo di un infinitesimo più basso di quello del rivale riuscirà
ad ottenere l’intera domanda di mercato. Consideriamo la logica della prima impresa: per ogni
prezzo fissato dall’avversario, il prezzo che massimizza il profitto è quello immediatamente
inferiore a tale prezzo (in modo da sottrarre quote di mercato al proprio concorrente). La seconda
impresa, ragionando in maniera simmetrica, ritiene che il prezzo che massimizza il suo profitto è
quello immediatamente inferiore al prezzo fissato dalla prima impresa. Pertanto, l’unico equilibrio
(stabile) conseguente l’adozione di una strategia di prezzo, sarà quello in cui i prezzi vengono fissati

64    
al livello competitivo e il profitto delle due imprese sarà nullo. A qualsiasi altro livello di prezzo,
ciascuna impresa ritiene di poter ottenere un profitto maggiore abbassando il proprio prezzo di
vendita. Quindi, con sole due imprese, otteniamo un risultato di concorrenza perfetta. Per aggirare
la “trappola di Bertrand”, diventa fondamentale per le due imprese differenziare il proprio prodotto.
In presenza di prodotti non omogenei, le imprese possono aggirare la logica della competizione di
prezzo.

4.6 La collusione tra imprese


Nel caso di collusione, le imprese si accordano e scelgono l’output o il prezzo che massimizza il
profitto totale dell’economia, dividendosi poi tra loro tale profitto. Le due imprese si comportano
come se fossero un unico monopolista, ovvero l’equilibrio è raggiunto per MR = MC.
Soffermiamoci ancora sulla possibilità di collusione fra le imprese. Quando le imprese di un settore
si incontrano e raggiungono un accordo esplicito sui prezzi e sulla produzione, si dice, formano un
cartello. La costituzione di cartelli è generalmente vietata dalla legge, pertanto si tratta di
comportamenti piuttosto rari. Il vantaggio del cartello risiede proprio nella possibilità da parte delle
aziende di comportarsi congiuntamente come se fossero una singola impresa monopolistica,
spartendosi, dunque, come detto, i profitti di monopolio. Tuttavia, una volta ottenuti i benefici del
cartello, si configura chiaramente l’incentivo della singola impresa a deviare aumentando l’output
fino alla condizione di massimizzazione del “proprio” profitto. Questo, infatti, consente alla singola
impresa di ottenere profitti maggiori di quelli ottenuti dalla spartizione dei profitti di monopolio
derivanti dal cartello. In questo modo, viene meno l’elemento fondamentale che consente al cartello
di stare insieme, ovvero il controllo coordinato dell’output che permette di controllare il prezzo.
Quando questo atteggiamento è assunto da tutti i membri, il cartello vacilla fino a crollare sotto i
colpi delle singole scelte delle imprese, ciascuna interessata ad aumentare il proprio profitto. Gli
incentivi a scartellare sono notevoli in condizioni normali. Possono essere individuati una serie di
fattori ambientali che facilitano o meno la costituzione e l’attuazione di pratiche collusive.
• La capacità di aumentare i prezzi dell’industria. Le imprese decidono di partecipare al
cartello solo se sono convinte che quest’ultimo porti ad un aumento del prezzo e che questo
prezzo possa essere mantenuto elevato. La presenza di perfetti sostituti dei beni prodotti o
l’agevole accesso di altre imprese che vogliono giovarsi della presenza di prezzi elevati sono
fattori che impediscono al cartello di disporre di questa capacità.
• Punizioni attese. I cartelli si formano solo se i membri non prevedono che le autorità
governative li individuino e applichino le sanzioni previste dalla legge. L’aspettativa di
pagare multe salate diminuisce l’incentivo a costituire un accordo di cartello.
• Bassi costi organizzativi. Adottare pratiche comuni che permettano di aumentare i prezzi,
senza che inoltre tali accordi siano scoperti dalle autorità, necessita di un continuo e intenso
lavoro organizzativo. Il cartello, dunque, non verrà costituito se il costo iniziale di queste
azioni di coordinamento è troppo alto. Si noti che, in generale, maggiore è il numero dei
partecipanti maggiore è lo sforzo da dover compiere per coordinare e sintetizzare le singole
strategie.
Concludiamo l’analisi relativa all’oligopolio osservando che, tra tutti i casi analizzati, la collusione
di regola porta alla minore quantità prodotta ed al prezzo più alto. Invece, l’equilibrio di Bertrand è
quello caratterizzato dalla quantità maggiore ed il prezzo più basso. Gli altri casi studiati sono
intermedi fra questi.

  65  
Il cartello moderno più famoso, e per una decina d’anni più funzionante, è stato certamente quello
costituito dall’OPEC, ovvero la Organization of Petroleum Exporting Countries (organizzazione dei
paesi esportatori di petrolio). L’OPEC fu istituito nel 1960, ma iniziò l’attività nel 1973.
Successivamente, operò come un cartello, attraverso riunioni regolari dedicate alla determinazione
dei prezzi da praticare sui mercati internazionali. Per un certo periodo, il prezzo mondiale del
petrolio è rimasto vicino al prezzo deciso dall’OPEC, ma all’inizio degli anni Ottanta ha cominciato
a scendere e nei primi mesi del 1986 l’accordo dell’OPEC sui prezzi è crollato. Cosa è avvenuto? Il
cartello mostrò capacità di riuscita relativamente alle due note crisi petrolifere del 1973-1974 e del
1979-1980. Con la politica di controllo della produzione, gli introiti dei paesi OPEC, nel decennio
scarso tra il 1973 e il 1980, aumentarono del 340%. All’indomani dei primi aumenti di prezzo,
molti economisti si dissero certi che l’accordo di cartello non avrebbe retto davanti agli incentivi
che i membri dell’OPEC avevano nello scartellare. In un primo momento questo non avvenne. Si
ritiene che ciò sia stato dovuto al ruolo dominante svolto dall’Arabia Saudita. Ma i paesi OPEC non
erano certamente i soli ad esportare petrolio. Intorno agli anni Ottanta, nell’intento di trarre
vantaggio dai prezzi alti, i paesi non-OPEC (Stati Uniti, Gran Bretagna, Messico, Norvegia e
l’allora Unione Sovietica) aumentarono notevolmente la produzione per incrementare i propri
profitti. Questo indusse i paesi OPEC a ridurre di quasi il 45% la propria produzione (80% nel caso
dell’Arabia Saudita) al fine di tenere alto il prezzo del petrolio e non farlo crollare a seguito della
sovrapproduzione. Nei primi mesi del 1986 l’Arabia Saudita comprese che l’accordo di cartello
non rispondeva più ai propri interessi e decise di incrementare la produzione, facendo crollare il
prezzo del petrolio.

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