Questa espressione significa che un’impresa concorrenziale intende massimizzare la differenza fra i
ricavi ed i costi, rispetto alla quantità di output prodotta. Ma quale sarà la quantità di y che consente
di risolvere questo problema di massimizzazione? Ipotizziamo che, data la produzione y di una
certa impresa, l’impresa decida di produrre una quantità aggiuntiva di output dy. Ovviamente
otterrà un incremento del ricavo totale pari a d(py)/dy = p (si tratta del ricavo marginale MR –
marginal revenue, ovvero la derivata della funzione di ricavo totale py rispetto alla quantità prodotta
y). Il MR ci dice come varia il ricavo totale al variare di una unità della quantità prodotta. D’altra
parte, l’incremento della quantità prodotta comporterà anche un aumento dei costi di produzione; la
variazione del costo totale di produzione al variare di y è pari al MC (costo marginale = marginal
cost): d(CT)/dy = d[CV]/dy = MC. Allora è chiaro che:
• Se MR>MC, l’aumento della quantità prodotta aumenta il profitto, perché l’aumento dei
ricavi derivanti dall’output addizionale supera l’aumento dei costi; questo significa che il
punto di massimo profitto non è stato ancora raggiunto.
• Se MR<MC, l’aumento della quantità prodotta ridurrà il profitto, perché l’aumento dei
ricavi derivanti dall’output addizionale è inferiore all’aumento dei costi; questo significa che
il punto di massimo profitto è stato superato.
• Se MR=MC, il profitto è massimo e qualunque variazione di y ne provoca una riduzione.
La condizione di massimo profitto in concorrenza perfetta richiede, quindi, che:
MR = MC
Poiché in concorrenza perfetta, come visto, MR= p, la condizione di ottimo richiede semplicemente
che il costo marginale sia uguale al prezzo di mercato:
p =MC
Qualunque sia il prezzo di mercato p, l’impresa sceglie un livello di output y in corrispondenza del
quale p=MC.
Graficamente, il prezzo di mercato si forma, dall’incontro tra domanda e offerta (a livello di
settore). L’impresa “subisce” il prezzo di mercato P e sceglie quella quantità y* per cui MC=MR
avendo come obiettivo la massimizzazione del profitto
40
Al prezzo P, i profitti d’impresa sono rappresentati dall’area ombreggiata e pari alla differenza fra il
ricavo totale (P*y) e il costo totale (CT=AC*y).
Nel caso in cui l’impresa non riesce ad ottenere ricavi sufficienti a coprire i costi sostenuti nel
processo produttivo, possiamo ulteriormente determinare una condizione di sospensione
temporanea della produzione nel breve periodo. Tale condizione si verifica quando il prezzo è
minore del costo medio variabile (P < AVC). L’impresa, nel breve periodo, sospenderà la
produzione quando i proventi della vendita non sono sufficienti a compensare i costi variabili
sostenuti per produrre una data quantità. Se infatti il prezzo scende sotto il costo medio totale,
l’impresa produce in perdita a causa dei costi fissi già sostenuti e ormai “sommersi” (sunk costs),
ma almeno i ricavi permettono di coprire i costi variabili La curva di offerta di breve periodo
dell’impresa è quindi raffigurata in grassetto nella figura, e l’impresa sospende la produzione se
P<AVC, produce, sia pure in perdita, se il prezzo è compreso fra il costo medio variabile e il costo
medio (totale), produce con profitto nullo se P=AC ed infine produce con profitto positivo se
P>AC. La curva di offerta dell’intero settore, si ricava infine come somma orizzontale delle curve
di offerta delle singole imprese, per ogni livello di prezzo.
La possibilità di ottenere profitti positivi (un’eccedenza dei ricavi sui costi) è limitata tuttavia al
breve periodo, in quanto nuove imprese saranno attratte nel settore e potranno accedervi data
l’assenza di barriere all’entrata nel mercato. Tanto più aumenta il numero di imprese nel settore
tanto più la curva di offerta si sposta verso destra (da S a S1) provocando un aumento della quantità
complessiva e una riduzione del prezzo, fino ad annullare i profitti della singola impresa.
41
nel lungo periodo, la curva di offerta dell’impresa concorrenziale coincide con il tratto crescente
della curva del costo marginale che si trova sopra la curva del costo medio. In maniera non difforme
dal breve periodo, la curva di offerta di mercato di lungo periodo è derivata dalla somma delle
singole offerte delle singole imprese. Tuttavia, c’è una sostanziale differenza. In effetti, si noti che,
nel lungo periodo, per quello che abbiamo detto, per ogni prezzo inferiore al costo medio l’offerta
dell’impresa sarà pari a zero. Valori superiori comportano, invece, ben precisi meccanismi di
aggiustamento: se il prezzo è superiore al costo medio, le imprese realizzano profitti positivi; è,
allora, ipotizzabile che altre imprese, data l’assenza di barriere all’entrata tipica del mercato
concorrenziale, fiutino l’opportunità di realizzare profittevoli guadagni e si immettano nel mercato.
Questo, determinerà una espansione della quantità offerta per ogni livello di prezzo e tenderà a
spingere verso il basso il prezzo di mercato, con il risultato che chi produceva in parità si vedrà
costretto ad uscire dal mercato e chi realizzava profitti positivi vedrà ridurre i propri margini di
profitto; tale meccanismo di aggiustamento andrà avanti fino, al limite, a comportare
l’annullamento dei profitti e a rendere, dunque, non più conveniente l’ingresso a nuove imprese.
Tali meccanismi, quindi, fanno in modo che nel lungo periodo il prezzo non possa permanere al
lungo al di sopra del costo medio. Dunque, le dinamiche che “conducono” al lungo periodo, fanno
in modo che il prezzo di mercato tenda a raggiungere il punto critico in cui imprese che presentano
le stesse strutture di costo realizzano unicamente profitti nulli. Se il prezzo scende al di sotto di tale
punto, le imprese abbandonano il mercato fino a quando il prezzo non torna ad eguagliare il costo
medio. Se tale prezzo sale ulteriormente, l’ingresso nell’industria di nuove imprese spinge il prezzo
di mercato verso il basso, fino a raggiungere il prezzo di equilibrio di lungo periodo uguale appunto
al costo medio. In effetti, in condizione di profitti nulli, si dice che l’impresa realizza profitti
normali. In base a questa definizione, le grandezze positive che abbiamo fin qui chiamato profitti
sono più precisamente definiti extraprofitti. La curva di offerta di mercato di lungo periodo di un
mercato perfettamente concorrenziale è, dunque, rappresenta da una retta orizzontale, parallela
all’asse delle ascisse, in corrispondenza di un prezzo uguale al costo medio minimo. Si ricorda,
infatti, che MC e AC sono uguali, quando il AC raggiunge il suo valore minimo. Quindi, poiché
deve valere la condizione per cui la curva di offerta coincide con il tratto crescente della curva del
costo marginale che si trova al di sopra del costo medio e contemporaneamente deve valere che il
prezzo sia uguale al costo medio, l’unico livello del costo medio per cui ciò può succedere è il
livello minimo, perché per tale livello del costo medio si verifica che AC=MC.
Riepilogando, possiamo sintetizzare i principali vantaggi di un mercato in concorrenza perfetta nel
modo seguente:
• Il prezzo è uguale al costo marginale,
• Nel lungo periodo le imprese ottengono solo profitti normali e il prezzo è al livello minimo
possibile,
• Le imprese inefficienti saranno costrette a lasciare il mercato.
42
di offerta. Data la curva di offerta ed il prezzo di mercato P, il surplus del produttore è rappresentato
dall’area PAB.
Infatti, il produttore vende la quantità y* al prezzo P, ma sarebbe stato disposto a vendere ogni unità
di prodotto inferiore a y* ad un prezzo inferiore a P. Così come abbiamo visto per il surplus del
consumatore, anche il surplus del produttore varia al variare del prezzo di mercato. Se P aumenta,
l’area che rappresenta il surplus del produttore si amplia. Al crescere, quindi, del prezzo di mercato
il surplus del produttore aumenta, mentre per riduzioni di P diminuisce.
44
Il termine oligopolio significa “pochi venditori”. In questo contesto, per “pochi” si intende un
numero limitato di imprese la cui dimensione, di conseguenza, è piuttosto rilevante sul mercato. Ciò
che contraddistingue i mercati oligopolistici è la capacità da parte delle imprese di influire sugli
equilibri di mercato attraverso l’interazione delle singole strategie adottate. Nell’industria di
trasporti aerei, ad esempio, la decisione di un’impresa di abbassare le tariffe può scatenare una
guerra dei prezzi che riduce le tariffe di tutti i concorrenti. I mercati oligopolistici sono piuttosto
diffusi, soprattutto nei settori manifatturiero, dei trasporti aerei e delle comunicazioni. Esistono, ad
esempio, soltanto pochi produttori di automobili anche se l’industria automobilistica offre numerosi
modelli diversi. Lo stesso vale per il settore degli elettrodomestici. Nei negozi si vendono vari
modelli di frigoriferi e lavastoviglie, tutti forniti da un numero ristretto di produttori. Parlare
dell’oligopolio consente di precisare che, un regime di concorrenza imperfetta non implica
necessariamente assenza di concorrenza. In molti mercati oligopolistici la competizione è molto
energica e, in effetti, alcune delle rivalità più accese che contraddistinguono i sistemi economici si
ritrovano proprio in mercati costituiti da poche imprese in concorrenza.
Nel caso di monopolio ed oligopolio, la violazione dei principi della concorrenza perfetta si
sostanziano fondamentalmente nel numero ristretto di soggetti operanti all’interno del mercato.
Nella concorrenza monopolistica, la caratteristica che viene meno è l’omogeneità dei prodotti. In
questo caso, infatti, siamo in presenza di un mercato in cui si muovono molti venditori, ma che
offrono prodotti differenziati. Questa struttura di mercato assomiglia alla concorrenza perfetta, in
quanto i venditori sono numerosi e nessuno possiede una grande quota di mercato; ma, si
differenzia da questa, per il fatto che i prodotti venduti dalle varie imprese non sono, appunto,
identici. Dato che le imprese offrono prodotti leggermente differenziati, sono comunque in grado di
venderli a prezzi leggermente diversi, riservandosi, quindi, un certo spazio di manovra nella
determinazione del prezzo. Il commercio al dettaglio è tipicamente caratterizzato da una struttura di
mercato di questo tipo. Un consumatore che deve acquistare delle mele al mercato ha la possibilità
di scegliere fra diverse qualità (golden, fuji, val di non e così via) e quindi il singolo produttore può
variare il prezzo di vendita a causa della diversa qualità del proprio prodotto rispetto a quello della
concorrenza.
Ma, per quale motivo il sistema economico è caratterizzato da mercati molto vicini alla condizione
di concorrenza perfetta, mentre altri sono dominati da un numero limitato di grandi imprese? In
generale, la difficoltà (e in alcuni casi l’impossibilità) di consentire una agevole entrata di soggetti
all’interno del mercato è causata da due motivi fondamentali:
• I rendimenti di scala e la struttura dei costi.
• Le barriere all’ingresso.
Le grandi industrie tendono ad essere caratterizzate da pochi venditori in presenza di importanti
economie di produzione su vasta scala, sostenendo di conseguenza costi decrescenti. In queste
condizioni, le grandi imprese possono produrre a costi inferiori e, quindi, applicare prezzi più bassi
di quelli applicabili dalle piccole imprese, impedendone la sopravvivenza. La tecnologia e la
struttura dei costi di un’industria contribuiscono a determinare quante imprese possono farvi parte e
quali devono essere le loro dimensioni. Il punto chiave consiste nel verificare se sono presenti
economie di scala crescenti. Sappiamo che in presenza di economie di scala crescenti, le imprese
possono diminuire i loro costi medi unitari incrementando la produzione. Questo significa che, per
quanto riguarda i costi, le imprese più grandi sono avvantaggiate rispetto a quelle di dimensioni più
modeste. Quando prevalgono queste strutture di rendimenti, una o poche imprese incrementano il
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livello di output fino a produrre una parte significativa dell’output totale del mercato, determinando,
quindi, una situazione di concorrenza imperfetta. È possibile che un unico monopolista domini
l’industria o, più spesso, che pochi grandi venditori controllino gran parte della produzione
dell’industria; è quindi evidente che l’esistenza di rendimenti crescenti di scala è incompatibile con
il mercato concorrenziale, caratterizzato dal frazionamento della produzione fra numerose piccole
imprese (in un mercato concorrenziale i rendimenti di scala possono essere costanti o decrescenti,
ma non crescenti). In altri casi ancora, numerose imprese possono fornire prodotti leggermente
diversi. Indipendentemente dal risultato, è inevitabile ritrovare qualche tipo di concorrenza
imperfetta piuttosto che un regime di concorrenza perfetta in cui molte imprese di minuscole
dimensioni accettano il prezzo come dato.
Per quel che riguarda le barriere all’ingresso, queste possono derivare da leggi o regolamentazioni
che limitano il numero di concorrenti, mentre, in altri casi, l’ingresso in un mercato è
semplicemente troppo costoso per un nuovo concorrente. Sebbene le differenze di costo siano le
principali determinanti della struttura di un mercato, anche le barriere all’ingresso sono fattori che
ostacolano l’accesso di nuove imprese nel mercato: quando sono elevate, è evidente che i mercati
possono essere caratterizzati da poche imprese e da un livello di concorrenza limitato. Le economie
di scala possono essere considerate come un tipo di barriera all’ingresso, ma ne esistono altre. In
alcuni casi, infatti, i mercati possono essere caratterizzati da barriere di carattere legale. I policy
maker possono talvolta limitare la concorrenza in alcuni settori. Tre sono le più diffuse restrizioni di
tipo legale:
• I brevetti. Un brevetto viene riconosciuto nel momento in cui si ritiene di dover proteggere i
risultati di una opera di ingegno. Il meccanismo di protezione consiste nel garantire, per un
determinato periodo di tempo, l’utilizzo esclusivo del particolare prodotto o processo “che è
stato inventato”. Una eccezione può essere concessa alle case farmaceutiche, per le quali la
durata può essere prorogata coprendo anche i termini trascorsi per ottenere le necessarie
autorizzazioni da parte delle autorità sanitarie. I brevetti, generalmente, hanno la finalità
indiretta di stimolare l’attività di invenzione: se manca la prospettiva di godere di una simile
protezione, una impresa non sarà incentivata ad investire risorse in ricerca e sviluppo, con
tutto ciò che questo comporta al sistema produttivo nel suo insieme.
• Le concessioni pubbliche. Molti servizi, che ora in Italia stanno gradualmente aprendo i
battenti alle dinamiche concorrenziali, operavano precedentemente in regime di monopolio
in concessione per la fornitura di servizi in determinate zone del paese. Si pensi, ad esempio,
ai servizi telefonici, televisivi ed energetici. In questi casi, la singola impresa ottiene il
diritto esclusivo di fornire il servizio specifico e si impegna a limitare i profitti e a rifornire
tutti i clienti.
• Le restrizioni alle importazioni. Questi strumenti possono essere adottati dai Governi per
limitare la concorrenza dei prodotti esteri. Può verificarsi, ad esempio, che nel mercato
nazionale di un determinato prodotto, siano sufficienti due o tre imprese e che il mercato
mondiale possa, invece, ospitare un gran numero di produttori. Una politica protezionistica
potrebbe, quindi, modificare la struttura dell’industria. Al contrario, l’ampliamento dei
mercati in seguito all’abolizione dei dazi doganali, in una vasta zona di libero scambio,
determina un rafforzamento della concorrenza, per cui i monopoli tendono a perdere il loro
potere. Uno degli esempi più evidenti di rafforzamento della concorrenza, è fornito dalla
costruzione dell’Unione Europea, la quale, fin dalle iniziali forme di aggregazione tra Stati
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dalle quali si è evoluta, ha provveduto progressivamente ad eliminare ostacoli al libero
commercio tra i membri, creando mercati più vasti per le imprese e determinando, quindi,
condizioni di minore concentrazione su pochi soggetti.
Oltre alle barriere imposte per legge, esistono, infine, anche barriere di carattere economico. In
particolare:
• Elevati costi di ingresso. In alcune industrie, gli investimenti da sostenere per l’accesso
possono essere semplicemente insostenibili. Nell’industria aeronavale, ad esempio, gli
elevati costi sostenuti per la progettazione ed il collaudo di nuovi velivoli scoraggiano le
imprese che potrebbero essere in grado di partecipare al mercato.
• Pubblicità e differenziazione dei prodotti. Talvolta, le imprese creano barriere all’ingresso
per ostacolare i potenziali rivali tramite la pubblicità e la differenziazione dei beni. La
pubblicità fornisce ai consumatori maggiori informazioni sui prodotti e fa in modo di creare
forme di fedeltà nel consumo alle marche più note. Anche la differenziazione dei prodotti, in
quanto tale o in combinazione con vaste campagne pubblicitarie, può costituire una barriera
all’ingresso e incrementare il potere di mercato dei produttori. In numerose industrie, come
per esempio quelle dei cereali per la prima colazione, delle automobili, degli
elettrodomestici e delle sigarette, è normale che un ristretto numero di produttori fornisca
una vasta gamma di marche, modelli e prodotti diversi. In parte, è proprio la varietà che
attira il maggior numero di consumatori e, al tempo stesso, il gran numero di prodotti
differenziati contribuisce a scoraggiare i potenziali concorrenti.
2. Il monopolio
L’impresa monopolista è price maker. Ciò significa che il monopolista scelga il prezzo, e lasci che
siano i consumatori a scegliere quanto acquistare a quel prezzo, oppure che scelga la quantità,
lasciando che i consumatori scelgano a che prezzo acquistarla.
Causa fondamentale del monopolio è la presenza di barriere all’entrata dovute a:
• una sola impresa detiene il controllo di una risorsa chiave del processo di produzione, di
importanti fattori di produzione, delle reti di vendita al dettaglio o all’ingrosso
• Protezione legale: gli Stati concedono a un’impresa il diritto esclusivo di produrre un bene
(leggi su brevetti e proprietà intellettuale o licenze governative e appalti)
• La struttura dei costi di produzione rende la singola impresa più efficiente di una moltitudine
di piccoli produttori (monopolio naturale) in seguito alla presenza di:
o Economie di scala
o Economie di varietà / diversificazione (scope economies): quando la produzione di
una impresa che produce due beni è più efficiente della produzione di due imprese
separate che producono ciascuna uno solo dei due prodotti
o Costi inferiori per l’impresa già esistente in questo caso, una sola impresa è in grado
di fornire all’intero mercato un bene un servizio a costi più bassi di quelli che
affronterebbero due o più imprese (monopolio naturale).
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o Fusioni e acquisizioni, in quanto la crescita dimensionale può consentire economie di
scala e competere su scala globale (es. banche)
o fusioni orizzontali tra imprese che operano in una stessa fase di una filiera
o fusioni verticali tra imprese che operano in fasi successive di una stessa filiera
o fusioni conglomerate tra imprese che operano in filiere diverse
• Tattiche aggressive
Il potere di mercato di un impresa in regime di monopolio (e in generale in tutti i mercati non
concorrenziali) si misura con la possibilità di aumentare la quantità prodotta e venduta sul mercato
in seguito a una riduzione del prezzo di vendita. La curva di domanda (che riflette la disponibilità a
pagare dei compratori) costituisce per il monopolista l’unico vincolo esterno alla capacità di
esercitare il suo potere di mercato.
Al pari di un’impresa concorrenziale, nel monopolio il livello di output è fissato in modo da
massimizzare il profitto. Ancora, nel caso in cui abbiamo affrontato le scelte della singola impresa
concorrenziale, avevamo dedotto che la regola consisteva nel produrre quella quantità per cui il
costo marginale eguagliava il prezzo. In altri termini, produrre quella quantità per cui l’incremento
di costo totale associato all’ultima unità prodotta, eguagliava esattamente il prezzo di mercato.
Abbiamo anche osservato che, in regime di concorrenza perfetta, il prezzo di mercato non è altro
che l’incremento di ricavo totale determinato da una unità addizionale di output venduto. La
condizione di ottimo per il monopolista richiede l’uguaglianza fra il costo marginale ed il ricavo
marginale. Esattamente come in concorrenza perfetta. Infatti, se il ricavo marginale è superiore
(inferiore) al costo marginale al monopolista conviene diminuire (aumentare) il prezzo, oppure
aumentare (diminuire) la quantità. La differenza sostanziale, sta nella forma del ricavo marginale,
che in concorrenza perfetta, abbiamo detto, è uguale al prezzo. Proprio per la posizione che occupa,
la singola impresa monopolista fronteggia una curva di domanda inclinata negativamente, che è
esattamente l’intera domanda di mercato. L’inclinazione della curva di domanda riflette la relazione
inversa tra prezzo e quantità, di conseguenza, il meccanismo a cui è sottoposto il singolo
monopolista è che maggiore è la quantità venduta, minore sarà il prezzo di vendita. Poiché il
compromesso tra prezzo e quantità è completamente determinato dalla curva di domanda, il
monopolista, che cerca di massimizzare i profitti, non può fissare entrambi contemporaneamente,
bensì, come già osservato, scegliere tra l’uno o l’altro. Se decide di fissare la quantità, il prezzo
rimane stabilito dalla curva di domanda; alternativamente, se si concentra su un livello di prezzo
che ritiene desiderabile, sarà la quantità ad essere definita sulla curva di domanda. Nei mercati non
concorrenziali, caratterizzati da una curva di domanda decrescente, il ricavo marginale è sempre
inferiore al prezzo. Con riferimento al grafico seguente, se il prezzo si riduce da 8 a 7 euro e la
quantità aumenta da 3 a 4 unità, il ricavo totale aumenta di 4 euro (passando da 24 a 28), pertanto il
ricavo marginale, ovvero l’aumento del ricavo totale conseguente all’aumento della quantità e pari a
€4.
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Ciò avviene perché la riduzione del prezzo consente un aumento della quantità, per cui il
monopolista vende anche una quarta unità ed il ricavo aumenta di €7. Ma ora le prime 3 unità
vengono vendute ad un prezzo leggermente inferiore, (€7 anziché €8) per cui su queste prime unità
il ricavo totale cala di €3. Complessivamente il ricavo totale aumenta di € 4.
Analizziamo ora il processo di massimizzazione del profitto in monopolio. Il monopolista ha
convenienza ad aumentare la produzione vendibile se RM>MC, mentre è opportuno ridurre la
produzione quando il ricavo marginale è inferiore al costo marginale (RM<MC). Ne deriva che il
monopolista massimizza il profitto scegliendo la quantità in corrispondenza della quale il costo
marginale e il ricavo marginale sono uguali (punto E), ossia dove MR=MC.
Verificata tale eguaglianza, la curva di domanda identifica il prezzo che induce i consumatori ad
acquistare tutta la quantità prodotta. Il profitto è dunque massimo nel punto in cui MR=MC. La
quantità da produrre sarà YM e il prezzo PM. Una volta determinato il prezzo e la quantità (e quindi
il ricavo totale) occorre osservare il livello del costo medio in corrispondenza della quantità ottima.
In questo caso, il costo medio ACM è inferiore al prezzo PM, pertanto l’impresa ottiene extra-
profitti (area ombreggiata).
Nel mercato di monopolio l’extra-profitto può permanere anche nel lungo periodo, in quanto le
barriere all’entrata impediscono a nuove imprese di entrare nel settore.
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ΔRT Δy Δp Δp ⎡ y Δp ⎤
=p +y = p+y = p ⎢1 +
Δy Δy Δy Δy ⎣ p Δy ⎥⎦
ΔRT/Δy = MR è il ricavo marginale, la variazione del ricavo totale al variare della quantità. Inoltre,
poiché:
(p/y × Δy/Δp) = ε = elasticità della domanda
Allora:
⎛ 1⎞
MR = p ⎜ 1 − ⎟
⎝ ε⎠
Data questa relazione tra ricavo marginale, prezzo di mercato e elasticità della domanda, nel tratto
elastico della curva di domanda la riduzione del prezzo o l’aumento della quantità comportano
l’aumento del ricavo, mentre nel tratto inelastico la riduzione del prezzo o l’aumento della quantità
comportano la diminuzione del ricavo. L’impresa in monopolio produce, quindi, solo in tratti in cui
la curva di domanda non è inelastica, ovvero in tratti in cui non vale│ε│<1. Infatti, se │ε│<1, il
MR è negativo è non può essere uguale al MC che è positivo. Inoltre, se la domanda è inelastica una
riduzione di y, come detto, fa aumentare i ricavi totali e riduce il costo totale, con un conseguente
aumento dei profitti. Pertanto, qualsiasi punto in cui la domanda di mercato è inelastica non può
rappresentare per il monopolista un punto di massimo profitto, dato che il profitto può essere
aumentato producendo una quantità minore di output. Ne consegue che il profitto in monopolio può
essere massimizzato solo se │ε│≥1.
Applicando la condizione di massimo profitto in corrispondenza del punto dove MR=MC significa
determinare il prezzo di equilibrio in funzione del costo marginale e della elasticità della domanda:
MC
p=
1
1−
ε
1
Il rapporto α = è il mark-up dell’impresa, ovvero la percentuale di ricarico che
1
1−
ε
l’imprenditore applica sui costi per determinare il prezzo. Il mark-up è dunque una misura del
potere di mercato dell’impresa, indicando l’entità del margine che l’impresa applica sul costo di
produzione. Da una prospettiva leggermente differente, la teoria del mark-up consente di spiegare in
che modo le imprese fissano i prezzi delle proprie merci. Le imprese scelgono il prezzo di vendita a
partire dal costo di produzione del bene (che è noto) e in base ad una stima dell’elasticità della
domanda che il mercato rivolge a quel bene.
50
Supponiamo che un monopolista abbia due diversi gruppi di clienti con differenti elasticità della
domanda; ad esempio chi viaggia in aereo per affari ha una diversa reattività al prezzo rispetto a chi
viaggia per turismo. Il monopolista potrebbe incrementare i propri profitti vendendo alla clientela
business a un prezzo maggiore. La discriminazione del prezzo è possibile se:
• le imprese sono price-maker, ovvero in presenza di una curva di domanda inclinata
negativamente,
• i beni non possono essere rivenduti, ad esempio da chi compra ad un prezzo più basso, cioé
non deve essere possibile effettuare arbitraggio,
• le imprese sono in grado identificare alcuni consumatori che vogliano pagare di più.
In quali circostanze le imprese possono praticare prezzi diversi a consumatori diversi? Esistono tre
tipi di discriminazione di prezzo:
• Discriminazione di primo grado: ogni unità di output viene venduta a prezzi diversi,
applicando al consumatore il suo prezzo di riserva, ovvero il prezzo più elevato che il
consumatore è disposto a pagare per una data quantità. Tuttavia è difficile conoscere con
certezza tale prezzo di riserva. L’area ombreggiata della figura mostra la distanza fra il
prezzo di riserva (che leggiamo sulla curva di domanda) e il costo medio. In questo caso il
monopolista produce ad un livello socialmente efficiente.
Nella realtà, le imprese non possono operare una discriminazione di prezzo perfetta, per cui il
mercato viene suddiviso secondo alcune caratteristiche specifiche, ad esempio politiche di prezzo
differenziato su base geografica (mercati regionali), oppure si identificano gruppi di consumatori
omogenei (ad esempio in base all’età, da cui gli sconti per le persone over 65 o under 26),
tempistica delle vendite (saldi, tariffe telefoniche notturne, biglietti aerei infrasettimanali).
• Discriminazione di secondo grado: ogni unità di output viene venduta a prezzi diversi, a
seconda della quantità acquistata del bene, ma ogni consumatore paga lo stesso prezzo. In
questo modo si ha una determinazione non-lineare del prezzo (es il prezzo unitario
dell’elettricità dipende da quanta se ne acquista). Per determinare la disponibilità a pagare di
2 individui (uno a domanda alta, l’altro a domanda bassa), l’impresa potrebbe offrire due
combinazioni prezzo/quantità, in modo che gli individui si auto-selezionino. In alternativa,
le imprese possono incoraggiare l’autoselezione modificando la qualità, piuttosto che la
quantità di un bene (es. economy/business nei voli aerei).
• Discriminazione di terzo grado; a diverse categorie di consumatori vengono applicati prezzi
diversi (es. carta verde/argento sui biglietti ferroviari). Es. date due categorie di
consumatori, l’impresa vorrà massimizzare il profitto agendo su due mercati. La
discriminazione di terzo grado dipende dall’elasticità della domanda, per cui l’impresa cerca
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di imporre un prezzo elevato a quei consumatori con elasticità (della domanda al prezzo)
bassa ed un prezzo inferiore a quei consumatori con elasticità (della domanda al prezzo)
alta.
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sociale del monopolio è evidenziata dall’analisi del surplus del produttore e del surplus del
consumatore.
In un regime concorrenziale, il surplus del consumatore è rappresentato dall’ area A+B+C. Il
surplus del produttore è, invece, rappresentato dall’ area E+D. In un regime di monopolio il surplus
del consumatore è rappresentato dall’ area A. Il surplus del produttore è, invece, rappresentato dall’
area B+E. Passando dalla concorrenza al monopolio il consumatore subisce una perdita di surplus
pari alla differenza fra le due suddette aree: B+C. Passando dalla concorrenza al monopolio il
produttore realizza un guadagno di surplus pari alla differenza fra le due suddette aree: B-D.
Passando dalla concorrenza al monopolio si ha una perdita netta di efficienza calcolata come
somma delle aree di perdita di surplus del consumatore (area C) di perdita di surplus del
monopolista (area D). Tuttavia il monopolista è compensato da un guadagno (pari all’area B) che
rappresenta il profitto di monopolio. In conclusione, nel passaggio al monopolio si verifica una
perdita secca di benessere (dead-weight loss) pari all’area del triangolo compreso tra la curva di
domanda (che descrive il valore per il consumatore), quella del costo marginale (che riflette il costo
di produzione) e il livello della produzione. Inoltre si verifica una redistribuzione della ricchezza dal
consumatore al monopolista (l’area B).
Il costo sociale del monopolio non risiede tanto nel profitto del monopolista quanto nel fatto che il
monopolista sceglie di collocarsi a un livello di produzione inferiore a quello che massimizza la
rendita totale, dato che applica un prezzo superiore al costo marginale. Il monopolio è inefficiente
perché non esaurisce tutte le possibilità di scambio vantaggiose per tutti i contraenti. L’allocazione
del monopolio è un tipico esempio di fallimento del mercato (non dal punto di vista dell’impresa,
che ottiene il massimo profitto, ma da quello della “società”).
L’evidenza di una quantità di monopolio inferiore alla quantità concorrenziale conduce a
sottolineare un ulteriore problema associato al mercato monopolistico, ovvero la presenza di
capacità di produzione in eccesso. In altri termini, gli assetti produttivi esistenti, gli investimenti
effettuati, gli impianti installati, potrebbero consentire di realizzare una produzione più alta, ma ciò
non sarebbe congruente con la strategia di massimizzazione del profitto dell’impresa monopolistica.
L’intero sistema sociale sarebbe, dunque, penalizzato da una parziale inutilizzazione di capacità di
produzione, causata dal contrasto che esisterebbe fra la produzione potenzialmente realizzabile Ycp
e la più bassa produzione ottimale del monopolista Ym. Per ovviare a questi problemi, si potrebbe
pensare di regolamentare un monopolio in modo da eliminare l’inefficienza.
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livello della domanda, mentre il costo marginale è inferiore al costo medio. L’impresa più grande
avrà dunque un vantaggio di costo rispetto a tutte le altre e finirà per dominare il settore.
3. La Concorrenza Monopolistica
Nella concorrenza monopolistica, le imprese realizzano prodotti differenziati. Tali prodotti sono tra
loro buoni, ma imperfetti sostituti. La concorrenza monopolistica è particolarmente diffusa nel
commercio al dettaglio e nel settore dei servizi. Nelle grandi città esistono ad esempio molti bar,
officine meccaniche, agenzie immobiliari e parrucchieri, ciascuno dei quali esercita un certo
controllo sul proprio prezzo di vendita. Ma la presenza di molti venditori in questi mercati fa sì che
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le decisioni assunte da ciascuno di essi siano difficilmente notate dagli altri, le cui reazioni non
costituiscono, quindi, un motivo di preoccupazione. In un mercato di concorrenza monopolistica,
quindi, non vi sono interazioni strategiche fra le imprese. Come per la concorrenza perfetta, in
concorrenza monopolistica ciascun partecipante al mercato ritiene, a ragione, di essere troppo
piccolo per influenzare il comportamento delle altre imprese. Tuttavia gli operatori in concorrenza
monopolistica, a differenza di quelli che agiscono in concorrenza perfetta, godono di una certa
libertà nella determinazione del prezzo. Volgiamo ora l’attenzione all’elemento della
differenziazione del prodotto. Come detto, la teoria della concorrenza monopolistica descrive una
situazione in cui sono presenti numerosi beni e ciascuna impresa produce un bene che è uno stretto
sostituto degli altri. Ogni impresa cerca di differenziare il proprio prodotto da quello delle altre
imprese presenti nell’industria. Più la differenziazione è efficace maggiore è il potere di monopolio
dell’impresa. Pensiamo, per esempio, ad imprese che competono vendendo, entro un ambito
spaziale limitato, servizi leggermente differenti tra loro; oppure, che producono varietà molto simili
di beni. Tutti sanno che la pasta è buona, ma non tutti sono d’accordo su quale sia la migliore. La
curva di domanda di ciascun pastificio è pertanto inclinata negativamente. Il fatto che la curva di
domanda di ogni singola impresa sia a pendenza negativa, in ragione della differenziazione del
prodotto, è l’elemento che contraddistingue la concorrenza monopolistica dalla concorrenza
perfetta. Se una impresa che opera in regime di concorrenza monopolistica abbassa il prezzo, la
quantità domandata del suo prodotto aumenta, perché alcuni consumatori abbandonano i prodotti di
altri suoi concorrenti per rivolgersi ai prodotti di quell’impresa. Ma dato che i prodotti sono tra loro
differenziati, non tutti i consumatori decideranno per questo cambiamento di rotta, come avverrebbe
in condizione di concorrenza perfetta. In concorrenza monopolistica, una impresa può variare il
prezzo per massimizzare i profitti, ma dato che ciascuna impresa è troppo piccola per influenzare in
misura determinante il mercato, ognuna ritiene che i concorrenti non reagiscano alle proprie
decisioni di prezzo. In sintesi, la concorrenza monopolistica è un mercato tipicamente
rappresentativo del commercio al dettaglio, in cui:
• sono presenti molte imprese,
• vi sono modeste barriere all’entrata,
• vi è libertà di entrata,
• il prodotto non è omogeneo ma differenziato (e dunque l’impresa fronteggia un curva di
domanda inclinata negativamente).
In pratica le imprese che operano in concorrenza monopolistica non si limitano a fissare il prezzo e
l’output, ma prendono decisioni anche sullo sviluppo del prodotto, offrendo un prodotto tanto più
differenziato da quelli dei concorrenti, quindi un bene caratterizzato da bassa elasticità, e sugli
investimenti pubblicitari, poiché una politica di marketing efficace provoca un aumento della
domanda e la rende più rigida.
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L’equilibrio del mercato in concorrenza monopolistica di breve periodo sarà descritto dal seguente
grafico, in cui ogni impresa vende una combinazione di prezzo e di output che si trova sulla curva
di domanda, in corrispondenza del punto in cui MR=MC.
L’esistenza di extraprofitti incoraggia l’entrata di nuove imprese nell’industria; in questo modo la
domanda delle imprese già esistenti si riduce fino ad azzerare gli extraprofitti (cioè fino a quando la
domanda non è tangente al costo medio). L’ingresso di nuove imprese nel lungo periodo, fa ruotare
verso il basso sia la curva di domanda della singola impresa, rendendola via via più ripida, sia la
curva del ricavo marginale. Cambia perciò la scelta dell’impresa (che produce meno). Il processo
prosegue fino a quando gli extraprofitti non si annullano, dove appunto il prezzo è uguale ai costi
medi (costi unitari della singola impresa). A questo punto l’impresa ottiene solo i profitti normali.
L’entrata tende ad annullare i profitti di ogni impresa. Se, infatti, entrano nel mercato imprese
attratte dalla realizzazione di profitti positivi, in corrispondenza di ogni prezzo diminuisce la
quantità venduta da ogni impresa, inoltre la curva di domanda diventa più piatta, ovvero più
elastica.
Nel lungo periodo, nell’ipotesi che le imprese abbiano le stesse configurazioni di costo, le imprese
di concorrenza monopolistica operano al di sotto della dimensione efficiente producendo un bene in
quantità minore e a un prezzo superiore rispetto ad un mercato di concorrenza perfetta (le imprese
hanno un eccesso di capacità produttiva: producendo di più subirebbero una perdita). Inoltre, non
viene minimizzato il costo medio di lungo periodo ed il prezzo di lungo periodo è più alto del costo
marginale (P > MC): le imprese avrebbero interesse a espandere la produzione al prezzo corrente
perché otterrebbero profitti La concorrenza monopolistica, pur essendo un tipo di mercato più
efficiente del monopolio, comporta comunque uno spreco di risorse nel lungo periodo. Ciascuna
impresa, infatti, produce in condizioni di non piena utilizzo della propria capacità produttiva. La
quantità che consentirebbe di sfruttare pienamente gli impianti è quella in corrispondenza della
quale il costo medio è minimo. Solo il ricorso a una pubblicità massiccia - uno strumento che fa
leva sull’immagine più che sulla qualità del prodotto - potrà far recuperare alle imprese la quota di
mercato erosa dalla concorrenza.
4. L’oligopolio
L’oligopolio è un mercato formato da un numero limitato di imprese. Si tratta di un mercato in cui
ciascuna impresa ritiene che il risultato delle proprie decisioni dipenda in modo significativo dalle
decisioni assunte dalla altre imprese. Ciascuna impresa, in condizioni di interdipendenza con le
imprese concorrenti, cerca di massimizzare il proprio profitto, tenendo conto delle possibili reazioni
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dei suoi competitori. Essa deve assegnare un profitto a ogni decisione possibile così da poter
ordinare i risultati e scegliere quello migliore.
La teoria dell’oligopolio punta a prevedere le decisioni delle imprese in condizioni di
interdipendenza strategica; situazione in cui si deve immaginare la reazione dei competitori ad una
certa scelta e a seguito della reazione intuita aggiustare la scelta iniziale. In altri termini l’impresa in
oligopolio deve tentare di incorporare la reazione dei rivali entro il proprio modello decisionale,
cioè nella funzione di profitto.
Ovviamente le reazioni possibili dei competitori davanti a una stessa scelta possono essere diverse.
Ad ogni reazione possibile cambia l’esito della scelta e la configurazione di equilibrio sul mercato.
Questa osservazione ci fa capire come non esista un’unica teoria dell’oligopolio. Al contrario, i
modelli di oligopolio descrivono la varietà dei comportamenti dei soggetti coinvolti e le reazioni sul
mercato. L’analisi empirica è di grande aiuto per selezionare i comportamenti e le reazioni più
rilevanti e più frequenti.
Se le imprese sul mercato sono poche e interdipendenti potrebbero cercare un accordo invece di
farsi concorrenza, poiché la concorrenza tende ad abbassare i profitti di tutti e quindi lo stimolo per
un comportamento collusivo o cooperativo diventa fortissimo. Tuttavia le imprese hanno una
tendenza quasi spontanea a tentare di costruirsi una situazione di monopolio o a colludere per
dominare il mercato. E l’insieme delle politiche della concorrenza che gli stati nazionali nel mondo
occidentale mettono in atto per impedire la formazione di monopoli o collusioni tra imprese in uno
stesso mercato.
Moltissimi mercati all’interno dei quali tutti i giorni “riversiamo” le nostre scelte di consumo sono
sostanzialmente contraddistinti da una condizione di oligopolio. Il settore automobilistico, quello
televisivo, il settore bancario, gli operatori di telefonia mobile sono alcuni esempi di mercato
dominato da pochi soggetti. Dato che ogni oligopolista si trova ad affrontare pochi rivali, le sue
decisioni hanno solitamente effetti rilevanti su ciascuno di essi. Nell’intento di massimizzare i
propri profitti, egli deve tenere in considerazione le interazioni con questi soggetti; deve pertanto
cercare di prevedere le loro azioni e le loro reazioni alle decisioni che assume, sapendo peraltro che
anche i suoi competitor si comportano allo stesso modo; ovvero, cercano di prevedere le sue azioni
e le sue reazioni alle loro decisioni. Questa fitta rete di interazioni rende estremamente complesso il
problema della massimizzazione del profitto e rende, quindi, più difficile comprendere il
comportamento dell’oligopolista.
In effetti, gli oligopolisti possono seguire diversi tipi di comportamento, ma i casi che più
frequentemente si possono verificare sono tre. Nei mercati oligopolistici i comportamenti sono
dominati da due forze che agiscono in direzioni opposte. La prima è l’interesse comune delle
imprese alla massimizzazione dei profitti dell’intero settore attraverso pratiche collusive e azioni
concertate, che consentano loro di comportarsi come un unico monopolista teso alla
massimizzazione del profitto. La collusione è, infatti, un accordo esplicito o tacito tra le imprese
attive in un settore, relativo alla determinazione dei livelli di produzione e dei prezzi, oppure inteso
a limitare la rivalità tra i concorrenti. Siamo in presenza di una collusione esplicita quando esiste un
accordo effettivo e concreto tra le imprese, mentre la collusione tacita ha origine da un’intesa non
dichiarata apertamente. Al contrario, si parla di rivalità, quando le imprese cercano di strapparsi
vicendevolmente quote di mercato. Si noti che la possibilità di pervenire ad una collusione non
elimina sempre e comunque tutte le forme di rivalità: le imprese in collusione possono, infatti,
accordarsi per determinare il prezzo (cosa che porta giovamento a tutti), ma non limitare, ad
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esempio, le proprie spese in pubblicità o l’introduzione di nuovi prodotti (cosa che porta
giovamento solo alla singola impresa). La seconda forza che influenza il comportamento degli
oligopolisti, è l’interesse egoistico di ogni venditore alla massimizzazione del proprio profitto,
anche se ciò potrebbe provocare una riduzione dei profitti totali del settore. Queste due forze danno
origine ad una tipica dinamica di mercato oligopolista che può essere descritta analizzando appunto
i tre casi suddetti.
Di conseguenza, la domanda, a seguito di una riduzione del prezzo, sarà inelastica. Graficamente, la
curva di domanda sarà ripida (e rigida) per prezzi inferiori a P*. Se invece l’impresa aumentasse il
prezzo del proprio prodotto, i concorrenti non avrebbero motivo di reagire e la domanda sarà
relativamente elastica per prezzi al di sopra di P*. L’impresa ipotizza pertanto di fronteggiare una
curva di domanda ad angolo, per cui prevede che i ricavi si ridurranno sia nel caso di una riduzione
sia nel caso di un aumento del prezzo e la strategia migliore sarà quella di mantenere il prezzo a
fisso a P*. La presenza di una curva di domanda ad angolo comporta infatti una discontinuità
nell’andamento del ricavo marginale. La condizione di massimo profitto MR=MC sarebbe
verificata anch in caso di variazione (entro una determinata soglia) del costo marginale. I prezzi
tenderanno allora a essere stabili, anche in presenza di variazioni dei costi.
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indipendnte rispetto alle altre, prendendo le proprie decisioni sulla base del prezzo di mercato e non
interessandosi alle scelte delle altre imprese, in oligopolio le imprese tengono conto di quello che
fanno i propri avversari nel prendere le proprie decisioni. Le imprese in oligopolio adottano quindi
un comportamento strategico: agiscono cioè in base alle mosse compiute dagli avversari per
ottenere il miglior risultato possibile (conquistando quote di mercato o semplicemente
massimizzando il profitto). Tuttavia, adottando una strategia “egoista” ed in assenza di accordi che
favoriscano la cooperazione, possono prodursi esiti non soddisfacenti (come la riduzione dei
margini di profitto) per tutte le imprese.
In sintesi, le imprese potrebbero:
• ignorare le scelte dei propri avversari,
• tener conto dell’interdipendenza, cercando di cooperare con i concorrenti, esponendosi però
al rischio che l’accordo di collusione potrebbe risultare instabile a causa degli incentivi a
deviare/ingannare il proprio avversario,
• agire in maniera indipendente (non-cooperazione) tenendo conto delle opzioni di cui
l’avversario dispone In quest’ultimo caso l’idea di non-cooperazione significa “cercare di
ottenere il miglior risultato possibile alla luce di quanto probabilmente farà il mio
avversario”.
La “teoria dei giochi” studia il comportamento strategico tipico di queste imprese. Esempio di
“gioco non cooperativo” è il dilemma del prigioniero, di cui viene proposta una versione che
riguarda il comportamento di due imprese. In questo caso si adotta un modello di interazione
strategica in cui le imprese scelgono simultaneamente la quantità da produrre in linea con il modello
di duopolio di Cournot. Consideriamo due compagnie petrolifere (API Anonima Petroli Italiani e
BP British Petroleum) che competono sulla quantità di benzina da immettere sul mercato italiano.
Sia YA la quantità di prodotto offerto dall’impresa Api e YB la quantità di prodotto offerto
dall’impresa Bp. Ciascuna impresa può scegliere tra due strategie:
• la strategia non cooperativa (NC): scegliere la quantità che comporta la massimizzazione del
profitto data la scelta dell’altra impresa,
• la scelta cooperativa (C): colludere con l’altra impresa e ridurre la quantità in modo da far
aumentare i prezzi e i profitti per entrambe le imprese
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Tuttavia, ciascuna impresa potrebbe decidere di offrire un quantitativo superiore per conquistare
una porzione maggiore del mercato a scapito del concorrente. Se una impresa sceglie la strategia
non cooperativa, vende 64 mila ettolitri di benzina per trimestre; ossia: YA,NC = YB,NC = 64
Nella matrice dei guadagni (payoff) rappresentiamo i profitti di ogni impresa in milioni di euro, il
numero a sinistra della virgola si riferisce al giocatore-riga (Api) il numero a destra della virgola si
riferisce al giocatore-colonna (Bp): 5 milioni ciascuna se entrambe perseguono la strategia
cooperativa, 4 milioni ciascuna se entrambe perseguono la strategia non-cooperativa, 6 milioni per
l’impresa che devia dall’accordo cooperativo (vendendo più benzina) e 3 milioni per l’impresa che
mantiene l’accordo. Questo è un gioco del tipo “dilemma del prigioniero”, in cui ogni impresa ha
una strategia dominante che è quella non cooperativa. La soluzione di questo gioco si può trovare
attraverso l’eliminazione delle strategie dominate: il giocatore-riga sceglierà infatti la strategia
Y=64 sia nel caso in cui il giocatore- colonna cooperi (6>5) sia nel caso in cui il giocatore-colonna
non cooperi (4>3). Allo stesso modo il giocatore-colonna sceglierà infatti la strategia Y=64 sia nel
caso in cui il giocatore-riga cooperi (4>3) sia nel caso in cui il giocatore- riga non cooperi (6>5).
Pertanto la strategia non cooperativa Y=64 “domina” la strategia cooperativa Y=48, conducendo ad
un unico equilbrio, (4, 4) in cui le decisioni di massimizzazione dei profitti di ciascuna delle due
imprese, date le decisioni dell’altra, sono mutuamente compatibili. La scelta di ciascuna impresa,
avendo effetti sui prezzi, modifica l’ambiente nel quale tutte le altre si ritrovano ad operare. Da ciò
segue che ciascuna impresa sarà costretta a rivedere le decisioni precedentemente assunte,
innescando un processo di reazioni a catena che si conclude quando ciascuna impresa non intende
più modificare il suo comportamento dato il comportamento delle altre. Tale situazione configura
un equilibrio di Nash: uno stato del mercato in cui la strategia seguita da ciascuna impresa è quella
ottima data la strategia delle altre e, data la scelta dell’avversario, nessuna impresa ha interesse a
deviare dalla propria decisione.
Tale equilibrio tuttavia non garantisce alle imprese un profitto pari al massimo ottenibile. In assenza
di un accordo (cooperativo) vincolante, sia Api che Bp potrebbero annunciare la vendita di soli
48mila ettolitri di prodotto per poi ingannare il concorrente, venderne di più e guadagnare un
profitto superiore. Dal punto di vista di entrambe le imprese sarebbe stato paretianamente più
efficiente adottare la strategia cooperativa: avrebbero entrambe ottenuto un profitto più elevato
(5,5). Il perseguimento dell’interesse individuale può portare le imprese ad ottenere nel complesso
un profitto più basso di quello ottenibile se si comportassero nel loro insieme come un monopolista.
Per aumentare i profitti, le due imprese possono colludere formando un cartello. In questo caso, se
le due imprese si uniscono e formano un cartello, il cartello diventa un monopolista che ha di fronte
a sé l'intera curva di domanda del mercato e che può restringere la quantità ed aumentare il prezzo
per incrementare i profitti. Le imprese possono poi dividere tra loro i profitti secondo la rispettiva
forza contrattuale all’interno del cartello. Tuttavia i cartelli tendono ad essere instabili. Analizziamo
ora lo stessa situazione di interazione strategica mediante il modello di Cournot, in cui ogni impresa
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decide quanto produrre considerando come un dato la quantità prodotta dall’altra impresa.
Ipotizziamo:
la domanda di mercato pari a: p(Y) = 339 - Y
la funzione di costo (uguale per entrambe le imprese) pari a: C(Y) = 147 Y
il costo marginale, uguale al costo medio, pari a: MC = C’(Y) = 147
il ricavo dell’impresa A, data la quantità scelta dall’impresa B è pari a:
RA (YA, Y B ) = (339 − YA − Y B )YA = 339YA − Y A2 − Y BYA
Il ricavo marginale dell’impresa A è:
R' A (YA, Y B ) = 339 − 2YA − Y B
La massimizzazione del profitto dell’impresa A richiede l’uguaglianza del ricavo e del costo
marginale:
339 − 2YA − Y B = 147
2YA = 192 − Y B
1
YA = 96 − Y B
2
Questa funzione è chiamata funzione di reazione (best response function) dell’impresa A alle
decisioni di produzione dell’impresa B. Analogamente si trova la funzione di reazione dell’impresa
B:
1
YB = 96 − Y A
2
Equilibrio di Nash-Cournot: situazione di equilibrio nella quale le decisioni di massimizzazione dei
profitti di ciascuna delle due imprese, date le decisioni dell’altra, sono mutuamente compatibili. Si
trova risolvendo il sistema delle funzioni di reazione delle due imprese
⎧ 1
⎪⎪YA = 96 − 2 Y B
⎨
⎪Y = 96 − 1 Y A
⎪⎩ B 2
La cui soluzione, per sostituzione, è:
YA* = 64, YB* = 64
Si vede che questo risultato corrisponde all’equilibrio non cooperativo di Nash del gioco:
Y* = YA* + YB* = 128
P* = 339 – Y = 211
Graficamente, le due funzioni di reazione sono:
61
Per la singola impresa si determina inoltre:
Ricavo = RT = 211 * 64 = 13,5 milioni di euro
Costo = CT = 147 * 64 = 9,4 milioni di euro
Profitto = π = 13,5 – 9,4 = 4,1 milioni di euro
Alternativamente, le due imprese possono colludere cercando di aumentare i profitti. Se formano un
cartello, si comportano come un monopolista che restringe la quantità e aumenta il prezzo per
cercare di aumentare i profitti. Se le imprese colludono, possono esserci molte combinazioni di
prodotto delle due imprese che massimizzano i profitti del cartello.
Se le due imprese si uniscono e formano un cartello, il cartello diventa un monopolista che ha di
fronte a sé l'intera curva di domanda del mercato.
Domanda di mercato: p = 339 - Y
Ricavo del cartello è: RT = 339 Y - Y2 MR = R’(Y) = 339 – 2Y
Funzione di costo: CT = 147 Y MC = C’(Y) = 147
Il cartello massimizza i profitti producendo fino al punto in cui il ricavo marginale è uguale al costo
marginale: MR = MC:
339 – 2Y = 147
192 = 2Y
YM = 96
pM = 339 - 96 = 243
Ricavi del cartello = pM * YM = 243 * 96 = 23,3 milioni di euro
Costi del cartello = 147 * 96 = 14,1 milioni di euro
Profitti del cartello = 23,3 - 14, 1 = 9,2 milioni di euro
Le imprese dividono tra loro i profitti del cartello secondo la rispettiva forza contrattuale all’interno
del cartello. Se le due imprese dividono tra loro i profitti in modo uguale ogni impresa ha un
profitto pari a 4,6 (sono i guadagni della soluzione cooperativa del gioco). Con il cartello sono in
grado di guadagnare un profitto maggiore. Nell’equilibrio di Cournot i profitti di ogni impresa sono
pari a 4,1 milioni di euro.
Tuttavia il cartello tende ad essere instabile. Partiamo da una situazione cooperativa (di collusione)
con:
YA = YB = 48.
Supponiamo che A decida di passare alla produzione di equilibrio non cooperativo (Nash-Cournot)
mentre B mantiene la produzione cooperativa; ossia YA = 64; YB = 48
Y = YA + YB = 64 + 48 = 112
p = 339 - 112 = 227
profitti di A = 227 * 64 - 147 * 64 = (227 - 147) * 64 = 5,1 milioni
profitti di B = 227 * 48 - 147 * 48 = (227-147) * 48 = 3,8 milioni
A aumenta i propri profitti rispetto a quelli della situazione cooperativa.
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pensa il rivale produrrà come risposta per ogni proprio livello di produzione. A differenza del
modello di Cournot si intuisce che in questo emerge una immagine delle imprese come agenti che
contrattano, che riconoscono la loro una mutua dipendenza, che tengono conto degli effetti indiretti
delle proprie azioni.
Il modello prevede una asimmetria tra le due imprese. Una svolge la funzione di guida (leader),
l’altra di satellite (follower). L’impresa guida, la prima, decide il livello di produzione che
massimizza il suo profitto sulla base della congettura che la seconda impresa accetti come un dato la
sua decisione di produzione. La seconda, assunto quel dato come un vincolo, decide il livello della
sua produzione che massimizza il suo profitto.
L’impresa follower reagisce dunque passivamente alle decisioni di produzione dell’altra e ritiene
che le sue decisioni di produzione non ne influenzino le scelte. L’impresa follower agisce come
un’impresa nel modello di Cournot. L’impresa guida basa le sue scelte sulla congettura che l’altra
impresa si comporti come un’impresa follower, come nel modello di Cournot.
L’impresa 1 (leader) incorpora la funzione di reazione della 2 nella propria funzione di reazione. E’
questo un primo esempio di comportamento strategico. Pertanto l’impresa 1 riesce sempre a
stabilire a priori quale livello di produzione l’impresa 2 mette sul mercato e massimizza il suo
profitto assumendo la produzione della 2 come un dato.
Il profitto di un’impresa dipende, dato il costo marginale per semplicità preso come costante, da
quanto vende e a quale prezzo.
Nell’ipotesi di due sole imprese, immaginiamo che l’impresa 1 scelga per prima la quantità da
produrre Y1. Tale impresa (leader) sa che l’altra (follower) cercherà di massimizzare il proprio
profitto, quindi, nello scegliere Y1 deve tenere conto del problema di massimo profitto del follower.
Funzione di domanda: P = 339 - Y
Quantità totale: Y = Y1 + Y2
Funzione di costo (uguale per entrambe le imprese): CT = 147 Y
Costi marginali costanti: MC = C’(Y) = 147
L’impresa 1 (leader del mercato) decide la sua quantità, Y1, per prima
L’impresa 2 (follower) osserva Y1 e quindi decide quanto produrre (Y2).
La soluzione di questo problema si può trovare con il metodo della backward induction (induzione a
ritroso), ossia risolvendo il problema del soggetto che sceglie per secondo e poi affrontando la
scelta ottima di chi decide per primo. L’impresa 2 massimizza i suoi profitti data la scelta
dell’impresa 1. L’impresa 2 fronteggia la curva di domanda: P = 339 – Y1 – Y2
1) L’impresa 2 massimizza i suoi profitti, per un dato Y1:
max π2(Y1) = Y2(339 – Y1 – Y2 - 147)
Differenziando Π2(Y1) rispetto a Y2:
Δπ
= 192 − Y1 − 2Y2 = 0
ΔY2
Y2 (Y1) = 96 - Y1/2
La tabella seguente indica le differenze fra i casi Cournot, Stackelberg e collusione analizzati nei
nostri esempi:
YA YB Y P πA πB π
Cournot 64 64 128 211 4,1 4,1 8,2
Stackelberg 96 48 144 195 4,6 2,3 6,9
Collusione 48 48 96 243 4,6 4,6 9,2
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al livello competitivo e il profitto delle due imprese sarà nullo. A qualsiasi altro livello di prezzo,
ciascuna impresa ritiene di poter ottenere un profitto maggiore abbassando il proprio prezzo di
vendita. Quindi, con sole due imprese, otteniamo un risultato di concorrenza perfetta. Per aggirare
la “trappola di Bertrand”, diventa fondamentale per le due imprese differenziare il proprio prodotto.
In presenza di prodotti non omogenei, le imprese possono aggirare la logica della competizione di
prezzo.
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Il cartello moderno più famoso, e per una decina d’anni più funzionante, è stato certamente quello
costituito dall’OPEC, ovvero la Organization of Petroleum Exporting Countries (organizzazione dei
paesi esportatori di petrolio). L’OPEC fu istituito nel 1960, ma iniziò l’attività nel 1973.
Successivamente, operò come un cartello, attraverso riunioni regolari dedicate alla determinazione
dei prezzi da praticare sui mercati internazionali. Per un certo periodo, il prezzo mondiale del
petrolio è rimasto vicino al prezzo deciso dall’OPEC, ma all’inizio degli anni Ottanta ha cominciato
a scendere e nei primi mesi del 1986 l’accordo dell’OPEC sui prezzi è crollato. Cosa è avvenuto? Il
cartello mostrò capacità di riuscita relativamente alle due note crisi petrolifere del 1973-1974 e del
1979-1980. Con la politica di controllo della produzione, gli introiti dei paesi OPEC, nel decennio
scarso tra il 1973 e il 1980, aumentarono del 340%. All’indomani dei primi aumenti di prezzo,
molti economisti si dissero certi che l’accordo di cartello non avrebbe retto davanti agli incentivi
che i membri dell’OPEC avevano nello scartellare. In un primo momento questo non avvenne. Si
ritiene che ciò sia stato dovuto al ruolo dominante svolto dall’Arabia Saudita. Ma i paesi OPEC non
erano certamente i soli ad esportare petrolio. Intorno agli anni Ottanta, nell’intento di trarre
vantaggio dai prezzi alti, i paesi non-OPEC (Stati Uniti, Gran Bretagna, Messico, Norvegia e
l’allora Unione Sovietica) aumentarono notevolmente la produzione per incrementare i propri
profitti. Questo indusse i paesi OPEC a ridurre di quasi il 45% la propria produzione (80% nel caso
dell’Arabia Saudita) al fine di tenere alto il prezzo del petrolio e non farlo crollare a seguito della
sovrapproduzione. Nei primi mesi del 1986 l’Arabia Saudita comprese che l’accordo di cartello
non rispondeva più ai propri interessi e decise di incrementare la produzione, facendo crollare il
prezzo del petrolio.
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