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SIBILLA ALERAMO

Rina Marta Felicina Faccio

Hanno fatto di Sibilla Aleramo un’icona rivoluzionaria, una femminista barricadiera, mentre lei
voleva essere solo una donna libera.
Come scrisse dopo la sua morte il poeta Eugenio Montale:
"Sopravvissuta a tante tempeste, portava ancora con sé, e imponeva agli altri, quella fermezza,
quel senso di dignità ch’erano stati la sua vera forza e il suo segreto."
L’amore accecante per il padre impedì alla giovane Rina di vedere la sofferenza e il male oscuro
che opprimevano la madre, che in silenzio assolveva al ruolo di moglie e madre, ma ne era
schiacciata e ciò le causò una profonda infelicità che la portò ad un tentativo di suicidio seguito poi
dall’internamento in manicomio dove sarebbe morta nel 1917.
Iniziò a lavorare a soli 12 anni, affiancando il padre in fabbrica come segretaria e contabile, per
osservare da vicino il mondo del lavoro e sviluppare quel senso di «audacia indipendente» che
l’accompagnerà negli anni a venire. Il percorso intrapreso la fa sentire ancora più distante dalla
madre Ernesta, che considera una persona dal temperamento debole e malinconico. La frattura
diviene più profonda quando la mamma tenta il suicidio, per poi scivolare lentamente nella
malattia mentale che la porterà al ricovero nel manicomio di Macerata, da cui non uscirà più.
All'età di 15 anni, venne violentata da un collega, di cui si era invaghita, Ulderico Pierangeli, che la
mise incinta, portando così il padre a costringere Sibilla a sposare il suo violentatore; nacque
Walter a cui Rina si dedicò completamente tentando di sopravvivere in una città che non amava a
causa del bigotto provincialismo e ad una vita coniugale che la opprimeva, l’amore per il figlio non
le impedì però di provare quello che lei stessa definì come una «stanchezza morale, lo scontento
di me stessa, il rimprovero della parte migliore di me che avevo trascurata. In me la madre non
s’integrava con la donna."
Rina si riprese grazie ad una delle attività a cui il padre l’aveva sempre stimolata, vale a dire la
lettura, e trovò in essa un rifugio e una salvezza, a ciò si aggiunse l’interesse sempre più vivo e
sincero nei confronti della questione femminile che maturò in lei mediante l’analisi di alcuni saggi
che presentavano le esperienze dei Paesi del Nord, soprattutto Gran Bretagna e Scandinavia.
Grazie a queste letture e al suo tragico vissuto, Rina giunse alla conclusione che la condizione di
soggezione e di subordinazione della donna fosse universale e sentì di provare simpatia nei
confronti di quelle ribelli che, rivendicando la libertà per tutte.
Scrittrice e poetessa, è autrice del primo romanzo femminista italiano. Con le sue "quattro vite"
narrate in forma autobiografica scardina i ruoli di genere e riscrive la storia delle donne,
trasformando il dolore in un’opportunità per cambiare.
Ha lasciato il marito e il figlio per cercare nell’inchiostro la propria identità di donna.
Nella scrittura coltiva la sua «sotterranea seconda vita»
La cittadella marchigiana diventa una prigione, il marito un carceriere (matrimonio riparatore dopo
violenza, nascita figlio Walter).
Inizia a collaborare con diverse testate, tra cui la "Gazzetta letteraria", "L’Indipendente di Trieste"
e il giornale femminista "Vita Moderna", avvicinandosi ai primi movimenti per l’emancipazione
della donna che si accendono alle soglie del XX secolo.
Dirige "L’Italia femminile", settimanale di stampo socialista con cui collaborano donne come Maria
Montessori e Matilde Serao.
Ritorna a Civitanova, dove il marito assume la direzione della fabbrica prima in capo al padre. La
depressione s’impossessa di lei, portandola a compiere lo stesso gesto della madre. È il momento
in cui decide di fuggire a Roma, abbandonando la famiglia.
Decide di spezzare la “mostruosa catena” che impone alle donne il sacrificio di sé, come una dote
ereditata di madre in figlia. Dimostra che per onorare la vita non è necessario abdicare a se stesse.
Inizia a scrivere dell’infanzia, trasformando i diari in pubblicazioni che riscuotono un grande
successo, non privo di critiche. L’opera autobiografica Una donna (1906) è il primo manifesto
letterario femminista in un’Italia ancora timorosa e arretrata.
Sibilla racconta in prima persona, mette a nudo fatti, paure e riflessioni profonde e personali,
segnando un approccio inedito teso tra scandalo e acclamazione.
Inizia a frequentare Parigi, dove incontra Gustave Apollinaire e Gabriele D’Annunzio. La sua “terza
vita” è un susseguirsi di legami più o meno brevi con intellettuali e artisti italiani, tra cui Giovanni
Papini, Umberto Boccioni, Salvatore Quasimodo, e un’intensa relazione di due anni con Dino
Campana, conclusa dal ricovero del poeta al manicomio toscano di Castelpulci. Gli uomini della sua
vita faranno capolino tra le righe de "Il passaggio" (1929)e nelle prime due raccolte liriche
"Momenti "(1921) e "Poesie" (1929), cui se ne aggiungono altre cinque nei vent’anni successivi.
L’amore è protagonista e sentimento contraddittorio, denso ed evanescente come un’illusione.
L’uomo non ne è destinatario, ma solo uno specchio attraverso cui la scrittrice “forgia” sé stessa.
Nel 1933 si iscrive all’Associazione nazionale fascista delle donne artiste e laureate.
Ha ormai sessant’anni, quando vive l’ultima passione per il poeta ventenne Franco Matacotta. Con
lui, nel 1946 decide d’iscriversi al Partito Comunista Italiano, «ispirata dalla fede in un più giusto e
più umano avvenire della nostra specie». Un cambio di rotta criticato ma frutto di onestà
intellettuale che in breve la rende voce del partito, con conferenze e articoli pubblicati su l’Unità e
altre testate di sinistra.
"morte, «madre, sorella, amata, una che mi prenda, una che mi voglia»".
Così la evoca in una poesia, ultima compagna per quello spicchio di vita spesa senza sconti.
Il rapporto scrittura e vita è il tratto dichiarato e dominante di tutta la sua opera.
La scrittura diventa esplicitamente il luogo in cui versare gran parte di sé: il “flusso irrefrenabile di
vita”.
Il narrarsi assomiglia perciò, nel suo caso, a un singolare percorso di autoanalisi, un processo
continuo di svelamento.
Agli uomini che si stupivano di poter parlare con lei “da pari a pari”, Sibilla faceva notare quanto
fosse penoso per una donna aver “adattato” la propria intelligenza alla loro per averne la stima.
L’attenzione ai modelli imposti dalla cultura maschile e “incorporati” dalle donne stesse – “la
violenza invisibile” – sarà al centro delle analisi e delle pratiche del femminismo degli anni
Settanta, ma mentre i gruppi di autocoscienza si occuperanno della sessualità, Sibilla si sofferma
quasi esclusivamente sul sogno d’amore
La narrazione di sé di Sibilla Aleramo anticipa una rivoluzione delle coscienze che avverrà nella
seconda metà del Novecento. Nel romanzo "Una donna" Sibilla costruisce l’immagine idealizzata,
eroica, della donna che ha avuto il coraggio di sottrarsi all’immolazione materna per farsi
protagonista sulla scena pubblica di un nuovo corso della storia, a fianco del “triste fratello” e della
sua sterile civiltà.
Nel romanzo "Una donna" Sibilla costruisce l’immagine idealizzata, eroica, della donna che ha
avuto il coraggio di sottrarsi all’immolazione materna per farsi protagonista sulla scena pubblica di
un nuovo corso della storia, a fianco del “triste fratello” e della sua sterile civiltà.
"Una donna" viene accolto positivamente dalla critica (anche Pirandello commenta il romanzo,
affermando di non aver mai letto un romanzo che raccontasse un dramma così profondo con
semplicità e una forma nobile e schietta, con tanta misura e tanta potenza).
Gli uomini con cui Sibilla intreccerà una relazione saranno di passaggio nella sua vita ispirandole
però la scrittura di racconti, poesie e lettere.
Intellettuali con cui ebbe storie più o meno lunghe: Giovanni Cena, Dino Campana ("Un viaggio
chiamato amore"), passione intellettuale per Lina Poletti, Vincenzo Cardarelli (relazione platonica),
Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Michele Cascella, Clemente Rebora e Giovanni Boine, Giulio
Parise ("Amo dunque sono"), Salvatore Quasimodo (l'altro grande amore di Sibilla dopo Campana),
Franco Matacotta ("Orsa minore" e "Selva d'amore").

letteraturadimenticata.it: "Non è ciò che si può definire una vera scrittrice" poiché oltre a "Una
donna" non scrive niente, oltre a frammenti, poesie, lettere che però non contribuiscono alla
storia della letteratura italiana, ma si concentrano per lo più sulla sua vita. Prezzolini la definisce il
"lavatoio sessuale della letteratura italiana", probabilmente per le numerose liaison che aveva
intrecciato con i grandi nomi della scena culturale del momento
"Il passaggio" viene definito dalla critica come folle e indecente (per la mescolanza di fatti privati e
letteratura)
"Endimione" pièce teatrale dedicata a D'Annunzio ma ispirata dalla recente morte di uno dei suoi
ultimi amanti.
Gobetti le nega il ruolo da scrittrice a cui lei tanto ambiva.
La critica definisce l'unica sua altra grande opera "Una donna", un diario "Andando e stando".
Nel 45 si infiamma per l'ideale comunista e frequenta l'ambiente di Pavese, dei Togliatti e dei
coniugi Moravia; nel 48 riceve un premio di consolazione del Premio Viareggio per "Selva d'amore"
, il vero premio se lo aggiudicano Aldo Palazzeschi ed Elsa Morante.
"Aiutatemi a dire" e "Luce della mia sera"---> poesie ispirate alla fede comunista.
Quando nel 1957 viene pubblicato l'epistolario tra Campana e Aleramo questo suscita un grande
interesse nei critici, ma solamente per l'interesse nutrito nei confronti di Dino Campana: "I posteri
hanno salvato lui dall'oblio, lasciandovi cadere lei".
Muore il 13 gennaio 1960, ricoverata in clinica; il suo necrologio venne scritto da Eugenio Montale
sul "Corriere della sera" e le rendono omaggio sui giornali anche Moraviaie Quasimodo.

"Una donna"
Nel suo romanzo di esordio,”Una donna”, Sibilla Aleramo riporta il percorso della sua rinascita,
come donna, emancipandosi dal ruolo di figlia, moglie e madre.
Infatti questo romanzo, letto come autobiografico data la coincidenza e la mescolanza, ma non
confusione, tra vita privata e narrazione, è uno dei primi libri femministi pubblicati in Italia e per
questo Sibilla Aleramo viene considerata come la capofila del movimento femminista in Italia,
nonostante la scrittrice nel suo romanzo riporti le proprie memorie, dunque episodi della sua vita,
il romanzo non si presenta solo come un freddo racconto di eventi privati, ma essi possono essere
letti in chiave universale.
Sibilla Aleramo infatti racconta non solo le proprie sofferenze ma descrive anche la dura vita di
qualsiasi donna di fine Ottocento, soprattutto di quelle donne riluttanti nel rimanere confinate ad
un ruolo a cui vengono relegate dalla società maschilista e patriarcale.
Sibilla Aleramo ebbe il coraggio di scegliere se stessa, di scegliere di conquistare la libertà e di
proteggerla, nonostante questo significasse sfidare gli schemi ai quali era stata educata, lasciare il
ruolo di moglie e madre a cui era stata costretta, fin troppo giovane; Sibilla ebbe il coraggio di
prendersi la propria libertà nonostante questo le costò l’amore del figlio, che non rivide mai più
dopo aver deciso di lasciare Civitanova Marche e trasferirsi a Roma, non senza dolore per questa
perdita.
Durante la stesura del romanzo Sibilla pensa molto a Walter a cui dedica un messaggio alla fine del
romanzo, sperando di potergli spiegare i motivi dell’abbandono, e forse nella speranza di rivederlo
e ricevere un perdono da parte sua.
l'Aleramo è stata capace di distanziare la propria vita e così trasformare sé e i familiari in
personaggi autonomi. Secondariamente, un ben articolato rapporto fra diegesi e mimesi, cioè fra
rappresentazione dei fatti e descrizioni di cose e persone ha contribuito a dare la misura
romanzesca al libro. Si aggiunge anche qualche flash-black a favorire la fisionomia romanzesca del
libro.

"STILE E MODELLI": Il discorso qui implica un esame dei rapporti fra l'attività giornalistica
della Aleramo e quella di scrittrice. Poi vi sono le sue letture alle quali già ha fatto cenno Emilio
Cecchi nella Prefazione del libro ristampato nel 1950, cioè testi anglosassoni sull'emancipazione
della donna e romanzi europei vari oltre agli articoli delle riviste femministe, fra cui non possiamo
non ricordare “La donna” che certo ha agito nel subconscio della Aleramo al momento di dare
titolo al suo testo. Lo stile del romanzo è per i suoi tempi vivo e moderno sul piano sintattico,
mantiene alcune ingenuità a livello lessicale e soprattutto dell'aggettivazione. Forse l'autrice non
ha ancora raggiunta la coscienza di un'unità stilistica: a un italiano abbastanza colloquiale si
affiancano espressioni alquanto auliche in un contesto di inversioni di pretta tradizione culta; per
esempio: "si palesavano come un eccesso spasmodico di cui ella stessa aveva coscienza, nell'atto,
e rimorso". Molti gli incisi e le interrogative retoriche, che conferiscono a volte alla pagina
qualcosa di enfatico.

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