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INTRODUZIONE ALLA BIOLOGIA

Biologia significa "studio della vita" e studia gli organismi viventi, non solo esseri umani ma anche batteri
ecc. Gli organismi viventi sono complessi ed estremamente ordinati hanno come unità fondamentale la
cellula.
È possibile, in termini di livelli organizzativi, cominciare a parlare di atomi, più atomi formano molecole ed,
un insieme ordinato di molecole, forma gli organismi viventi.
L’ATOMO

Un ATOMO è la più piccola porzione di un elemento che mantiene tutte le proprietà chimiche di
quell’elemento. E’ costituito da un nucleo attorno al quale girano gli elettroni. Nelle prime rappresentazioni
degli atomi questi venivano raffigurati come un sistema solare: il nucleo rappresenta il sole e gli elettroni
sono i pianeti. Questo modo di vederlo però è un modo sbagliato perché mentre un pianeta che ruota
attorno al sole è facilmente localizzabile in ogni momento poichè descrive una precisa orbita, non è
possibile sapere dove si trova un elettrone in un determinato momento; infatti, per gli elettroni non
parliamo di orbite, bensì di orbitali, cioè aree in cui è possibile trovare un determinato elettrone.
Nel nucleo di un atomo ci sono tantissime particelle
subatomiche, quasi ogni anno ne scoprono una, ma, quelle
che in questo momento ci interessano sono:
- i neutroni, che non hanno carica
- i protoni, che hanno una carica positiva.
Il numero dei protoni e quello degli elettroni si equivale e
dunque dal punto di vista di carica elettrica l’atomo è
neutro.
Gli elettroni sono carichi negativamente e ruotano attorno
all’atomo secondo dei livelli quantici.
Il livello energetico più vicino al nucleo si ha un orbitale di tipo s, che ha una forma sferica, perciò il primo
livello quantico si definisce come orbitale 1s.
Ogni orbitale può essere occupato al massimo da due elettroni che devono ruotare attorno al proprio asse
in direzione opposta, cioè devono avere uno spin antiparallelo.
Se ci si allontana dal nucleo e si sale di livello, si ha un altro orbitale sferico di tipo s, denominato 2s, e 3
orbitali bilobati di tipo p. Ognuno degli orbitali p è
orientato secondo una dimensione dello spazio x, y o z
(quindi i tre orbitali sono ortogonali tra di loro).
Segue dunque che l’orbitale di tipo s può ospitare al
massimo 2 elettroni mentre l’orbitale di tipo p al
massimo 6.
Rispetto alla composizione degli organismi si fa
riferimento agli elementi chimici. Questi sono stati
raggruppati nella TAVOLA PERIODICA, dove non sono
distribuiti in modo casuale. Infatti, ciascuno ha il
proprio numero atomico che aumenta da destra verso
sinistra e dall’alto verso il basso: al variare del numero atomico, cambiano le caratteristiche dei vari
elementi. Ovviamente più due elementi sono vicini tra loro e più le caratteristiche si assomigliano.

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I LEGAMI CHIMICI
Una reazione chimica è la formazione o la rottura di legami. Attraverso la formazione di legami, atomi
uguali o differenti, combinandosi, danno origine alle molecole. Nella formazione dei legami entrano in
gioco gli elettroni e, in base a come ciò avviene, si forma un certo tipo di legame.

Se due atomi uguali mettono in comune degli elettroni, si


forma un LEGAME COVALENTE, molto forte. Questi due
elettroni non appartengono né all’uno né all’altro e sono
equidistanti tra i due atomi.

ES: due atomi di H hanno ciascuno un elettrone di legame che


mettono in comune, perciò si forma un legame covalente. Se consideriamo due atomi di O il legame è più
forte perché ci sono più e di legame.

Se invece nella reazione un atomo acquista un elettrone mentre


l'altro lo cede, si forma un LEGAME IONICO, più debole del legame
covalente (per questo NaCl si scioglie nell'acqua). L’atomo che cede
elettroni si caricherà positivamente, mentre l’atomo che li
acquisterà si caricherà negativamente.
Un esempio è il legame di NaCl, in cui Na dona un elettrone al Cl,
perciò Na si carica positivamente ed Cl negativamente. Poiché il
legame ionico (NaCl) è più debole del legame covalente (H2O), NaCl
si scioglie nell’acqua
! Questa non è un’ossidoriduzione poiché i due atomi rimangono comunque legati tra di loro formando un
legame, chiamato appunto ionico.

La REGOLA DELL’OTTETTO spiega che gli atomi tendono a raggiungere il completamento dell’ottetto di
elettroni, riempiendolo oppure svuotando completamente (avendo così l’ottetto completo del livello
energetico precedente) tutti gli orbitali presenti nel livello di valenza, attraverso la messa in comune o la
cessione di elettroni. Con la regola dell’ottetto si riesce a capire quali e quanti elettroni partecipano in un
legame covalente o vengono ceduti ed acquistati in un legame ionico, ed è chiamata così perché, nel livello
energetico più esterno, vengono riempiti un orbitale s e tre orbitali p, in tutto quindi 8 elettroni (ad
esclusione del primo livello energetico che presenta solo un orbitale s, quindi 2 elettroni).

REAZIONE DI OSSIDO-RIDUZIONE
Le reazioni chimiche che più di frequente avvengono nella cellula sono le reazioni di ossidoriduzione.
E' una reazione tra un ossidante e un riducente.
Molte reazioni che avvengono in una cellula (per esempio nelle trasformazioni energetiche) implicano il
trasferimento di elettroni da un composto ad un altro. Insieme agli elettroni si trasferisce anche l'energia
ad essi associata. Questo tipo di reazioni sono definite ossido-riduzioni o reazioni redox.
Ossidante + elettroni = SI RIDUCE
Riducente - elettroni = SI OSSIDA
Ogni volta che avviene un'ossido-riduzione si libera energia.

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L'ACQUA

Un terzo tipo di legame, oltre al legame covalente ed a quello ionico, è il LEGAME COVALENTE POLARE che
ci consente la vita su questa Terra, essendo il legame caratteristico della molecola d’acqua.
La molecola di acqua è formata da due H e un O che mettono ognuno in comune un elettrone.
TEORICAMENTE dovrebbero formare un legame covalente MA l'O ha una forte elettronegatività, ha la
capacità di attrarre su di sé gli elettroni di legame senza però acquisirli. Gli elettroni di legame quindi non
sono equidistanti dai due atomi, ma sono più vicini all'ossigeno e si forma una sorta di polarità.
Negli H c'è una parziale carica positiva mentre nell'O una parziale carica negativa.
Ogni molecola con questa particolare polarità si lega a molecole simili
attraverso ponti a idrogeno.
Essendo ogni molecola d’acqua un dipolo, se due molecole vengono poste
vicine le une alle altre, l’ossigeno di una molecola è attratto dall’idrogeno
dell’altra molecola adiacente. Questa attrazione rappresenta una sorta di
legame che di per sé è molto debole. Tuttavia, se consideriamo tantissime
molecole, la sommatoria di tutte queste attrazioni determina le proprietà
colligative dell’acqua. La sommatoria di tanti ponti ad idrogeno fa sì che si
innalzi il punto di evaporazione e che cambino le altre proprietà chimiche.
I ponti a idrogeno hanno innalzato notevolmente la temperatura di
evaporazione dell'acqua e hanno impedito quindi che tutta l'acqua della
Terra evaporasse.

PH
L’acqua è anche un solvente universale e i vari composti ionici, sia di natura inorganica che organica, si
sciolgono in essa. L’acqua non ha un grande potere di dissociarsi (come altre molecole es. acido solforico),
ma esiste comunque un equilibrio tra le molecole
di acqua e gli ioni derivanti dalla sua dissociazione:
ioni H+ e ioni OH-. Quando un soluto viene sciolto
nell’acqua, la concentrazione di ioni H+ e ioni OH-
varia, determinando nella soluzione un carattere
basico (alcalino) oppure acido.
La concentrazione degli ioni H+ e degli ioni OH-
viene misurata in una scala da 0 a 14 chiamata pH:
- se il valore è 7 si ha neutralità,
- se < 7 si ha una soluzione acida,
- se > 7 una soluzione basica.
Se aumentano gli H+ la scala del pH, da 7, va verso lo 0 e la soluzione diventa più acida.
Se invece aumenta la concentrazione di OH-, da 7 ci avviciniamo a valori più alti e la soluzione diventa più
basica.

CHIMICA ORGANICA

Anche definita come la chimica del carbonio, la chimica organica studia composti che un tempo si credeva
potessero essere prodotti solo dagli organismi viventi. Ad oggi sappiamo che non è così. Essa fa invece
riferimento a tutti i composti che definiscono la chimica del carbonio e dunque tutti i composti che hanno
una struttura carboniosa. Il carbonio DEVE fare 4 legami.

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I composti organici sono raggruppati in famiglie con caratteristiche specifiche determinate dal GRUPPO
FUNZIONALE: ogni famiglia ha lo stesso gruppo funzionale.
In base al gruppo funzionale, ad esempio, distinguiamo:
R-OH alcoli
R-COH aldeidi (doppio legame con O)
R-CO-R chetoni (doppio legame con O)
R-COOH acidi carbossilici
R-NH2 ammine
Es. sappiamo che una molecola con gruppo funzionale OH è sicuramente un alcol, mentre la catena
carboniosa R a cui è legato il gruppo funzionale determina il tipo specifico di alcol.
Negli organismi viventi, gli atomi più ricorrenti sono 4:
• Idrogeno
• Carbonio
• Ossigeno
• Azoto
Le molecole più rappresentative sono 4:
• Carboidrati
• Lipidi
• Proteine
• Acidi nucleici

LE MACROMOLECOLE

I CARBOIDRATI
I carboidrati o glucidi sono composti che nella loro struttura chimica includono 2 gruppi funzionali: il
gruppo alcolico e il gruppo aldeidico o chetonico. Se il gruppo CO sta:
• Al termine sono aldosi
• Centrale sono chetosi
Gli zuccheri prendono il nome dal numero di carboni che
contengono e nella rappresentazione didattica sono raffigurati in
maniera lineare ma nella realtà, laddove è possibile, formano degli
anelli "a sedia".

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I LIPIDI
I lipidi principali sono i trigliceridi.

Glicerolo

Se esterifico gli OH del glicerolo con gli acidi grassi (cioè acidi carbossilici a catena lunga), ottengo un
trigliceride.
Se sostituisco due OH del glicerolo con acidi grassi e al terzo C lego un acido ortofosforico, cioè un gruppo
fosfato legato ad un composto organico (ES: colina), ottengo un fosfolipide. A seconda del composto
organico, ottengo un certo fosfolipide.
Se è presente la colina il fosfolipide andrà a chiamarsi fosfatidilcolina.
Se c’è l’inositolo il fosfolipide andrà a chiamarsi fosfatidilinositolo.
Un fosfolipide ha:
• Le code apolari contenenti le catene carboniose
• La testa polare con gruppo fosfato + composto organico
Nell'insieme, un fosfolipide ha quindi una coda apolare idrofobica e una
testa polare idrofilica, difatti il fosfolipide è annoverato tra i composti
dipolari.
I fosfolipidi si dispongono in modo tale che le code non vengano a
contatto con l’acqua: hanno quindi le teste verso l'esterno e le code contrapposte, determinando così la
struttura della membrana plasmatica, che regola gli scambi tra l'interno e l'esterno della cellula.
Le MEMBRANE PLASMATICHE sono formate da un doppio strato fosfolipidico. Se la nostra cellula è
immersa in un composto polare le code dei fosfolipidi costituiscono un ostacolo in quanto uno ione non
può passarvi attraverso (per via delle code apolari) e richiede l’impiego di particolari canali; mentre, se è
immersa in un composto apolare, le code dei fosfolipidi non costituiscono un ostacolo.

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LE PROTEINE
Tutto ciò che noi siamo in termini di organismo vivente o è proteina o è il frutto dell’azione delle
proteine. Non si può affermare che le proteine siano le molecole più importanti poiché fare una
graduatoria delle molecole più o meno rilevanti non ha senso; tuttavia, le proteine sono sicuramente il
composto più rappresentativo di una cellula e quindi di un organismo vivente.
Gli enzimi che gestiscono tutte le reazioni che si svolgono all’interno di una cellula, ad esempio, sono
soprattutto proteine. Quest’ultime sono la componente principale della parte strutturale di un organismo
vivente; hanno funzione di trasporto; gli ormoni, che hanno una funzione regolatrice, sono costituiti anche
da proteine (ma non solo); gli anticorpi, in termini di difesa dell’organismo, sono proteine.
Tra le varie tipologie troviamo: enzimi, proteine strutturali, proteine carrier, ormoni, anticorpi.
Le proteine sono polimeri di AMMINOACIDI.
La struttura di tutti gli amminoacidi, caratterizzati da due
gruppi funzionali, è costituita da:
- un radicale carbonioso (indicato con una
R)
- il gruppo carbossilico COOH
- il gruppo amminico NH2.

Le proteine si differenziano però per la qualità e la quantità di amminoacidi (hanno lunghezze di catena
differenti). Alcuni degli amminoacidi li sintetizziamo, altro dobbiamo assumerli con l’alimentazione (i
cosiddetti amminoacidi essenziali).
Gli amminoacidi in natura sono numerosissimi ma solo 20 di questi partecipano alla formazione di tutte le
proteine di un organismo vivente. Essi si differenziano tra di loro in base a come si dissociano i due gruppi
funzionali quando sono nell’ambiente acquoso della cellula, infatti li distinguiamo in:
• Polari
• Apolari: la parte di una proteina che attraversa la parte apolare della membrana plasmatica è
costituita da amminoacidi non polari
• Carichi elettricamente – ionizzabili a
loro volta divisibili in amminoacidi
basici e amminoacidi acidi
• Cisteina, unico amminoacido con 3
gruppi funzionali anziché due, infatti
contiene il gruppo SH che può formare
un ponte disolfuro, importante per ciò
che riguarda le strutture
secondaria/terziaria delle proteine.

Per determinare una struttura proteica, gli amminoacidi si


legano tra di loro attraverso un legame tra l’ossigeno del
gruppo carbossilico di un amminoacido ed i due idrogeni del
gruppo amminico dell’altro amminoacido con la conseguente
eliminazione di una molecola di acqua. L’eliminazione della
molecola di acqua fa sì che il carbonio di un amminoacido e
l’azoto dell'altro amminoacido formino un legame covalente,
chiamato LEGAME PEPTIDICO. Dunque, una proteina non è

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nient’altro che un insieme di amminoacidi tenuti insieme da legami peptidici.

Una proteina è in grado di assumere una struttura spaziale definita che determina la sua funzionalità.
Facendo un rapido esempio, se una proteina si raggomitola in un certo modo per essere funzionale allora
fino a che non si troverà in quel tipo di situazione non funzionerà. Tant’è che gli agenti denaturanti servono
a denaturare la proteina, cioè a farle cambiare forma.
Poi bisogna attivare una proteina, e lo si fa fosforilandola.
Si disattiva invece con la defosforilazione.
Le strutture delle proteine sono 4:
• PRIMARIA: lineare, determinata dall’insieme di amminoacidi legati insieme da legami peptidici.
Un chiarimento: i 20 amminoacidi che entrano a far parte delle proteine possono ripetersi al loro
interno, così come uno di essi potrebbe essere assente.

• SECONDARIA: determinata da proteine che si ripiegano, a partire dalla struttura lineare, tramite la
formazione di legami tra amminoacidi non adiacenti. Oltre ai legami peptidici già presenti
(ovviamente la struttura secondaria contiene anche la primaria), caratterizzanti la struttura
secondaria sono i ponti a idrogeno. Ci sono due tipi di struttura secondaria: ad alfa elica o beta a
foglietto ripiegato.
Nell’alfa elica la catena
polipeptidica si avvolge a spirale
su se stessa, in senso antiorario,
con un passo di 0,54nm; i piani dei
legami peptidici sono disposti
parallelamente all’asse dell’elica.
Quando nella sequenza di una
catena polipeptidica che forma
un’alfa elica compare una prolina,
l’alfa elica si interrompe e la
catena cambia direzione.
Nella struttura beta le catene polipeptidiche sono praticamente distese. In queste condizioni, la
catena, vista di profilo, ha un andamento a zig zag. Nella struttura beta, diversi segmenti di catena
si dispongono parallelamente gli uni agli altri, formando legami a idrogeno tra segmenti diversi. Si
viene a formare così una specie di foglietto ondulato, al di sotto e al di sopra del quale sporgono i
radicali degli amminoacidi.

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• TERZIARIA: contiene in sé anche la struttura primaria e
secondaria, ma entra in gioco la cisteina con il gruppo SH. Due
cisteine distanti interagiscono con i gruppi SH e formano il
ponte disolfuro (caratteristico di questa struttura, anche se ci
sono anche altri legami). E’ il risultato della successione
apparentemente disordinata degli amminoacidi. L’irregolare
susseguirsi di amminoacidi con proprietà chimico-fisiche
diverse lungo la catena polipeptidica, fa sì che la catena debba
raggomitolarsi in modo diverso da consentire ai diversi residui
amminoacilici di formare un numero sufficiente di interazioni
sia con altri residui di ugual natura, sia con il solvente. Tali
interazioni sono tutti legami secondari (interazioni di Van der
Waals, legami a idrogeno), con la sola eccezione dei ponti
disolfuro.

• QUATERNARIA: solo alcune proteine presentano una struttura


quaternaria, che contiene in sé anche la struttura primaria,
secondaria e
terziaria. Alcune
proteine risultano
costituite da più di
una catena
polipeptidica, ad esempio l’emoglobina è costituita da 4
subunità (il fatto che l’emoglobina sia formata da
quattro subunità non implica che qualsiasi proteina con
struttura quaternaria ne presenti quattro, ne può infatti
avere due, sette e così via). Per tutte quelle proteine che
posseggono una struttura quaternaria, data
dall’interazione di diverse subunità, le subunità possono
essere tutte uguali tra di loro o diverse (come
nell’emoglobina). Le subunità possono staccarsi dal
resto della proteina e rilegarsi successivamente.

GLI ACIDI NUCLEICI


Gli acidi nucleici sono:

- L’acido deossiribonucleico DNA


- L’acido ribonucleico RNA

Sono macromolecole di memoria, che presiedono alle funzioni di conservazione, trasmissione ed


attuazione dei programmi genetici degli organismi viventi, per questo sono coinvolte nella sintesi delle
proteine.

Il DNA, in particolare, è deputato a mantenere in sé l’informazione caratteristica della specie


d’appartenenza, utilizzata costantemente dalla cellula e trasmissibile alle generazioni successive.

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Il DNA e l’RNA differiscono per lo zucchero: deossiribosio
nel DNA e ribosio nel RNA. Sono entrambi dei pentosi
con il carbonio 5’ che resta fuori dall’anello, ma
differiscono per l posizione 2’, infatti nel deossiribosio è
presente un idrogeno (H), mentre nel ribosio un ossidrile
(OH).

(gli atomi di carbonio si identificano, partendo da destra verso sinistra, carbonio 1’, 2’, 3’, 4’ e 5’ al di fuori
dell’anello. Le posizioni più importanti per il momento sono: C 1’, C 3’, C 5’).

SE al carbonio 5’ aggiungiamo un gruppo


fosfato e al carbonio 1’ aggiungiamo una base
azotata costruiamo un NUCLEOTIDE, cioè
l’unità costitutiva del DNA e del RNA.

Il deossiribosio e il fosfato sono lo “scheletro”


del DNA e hanno funzione strutturale, mentre
il carbonio 1’ con la base azotata è la parte
informazionale.

Le basi azotate possono essere:

- pirimidine (C T U), a singolo anello eterociclico azotato,


- purine (A G), due anelli condensati, uno di tipo pirimidinico ed uno di tipo imidazolico.

Tra le basi azotate si formano dei legami a idrogeno, i quali implicano la disponibilità da una parte di
idrogeno e dell’altra di un elemento fortemente elettronegativo (ossigeno, azoto). Questi legami seguono
uno specifico criterio determinato dalla regola oggi è conosciuta come “appaiamento secondo Watson e
Crick”, ai quali si attribuisce la scoperta della struttura del DNA (sebbene ci siano state delle polemiche a
riguardo poiché alcuni ritengono che il vero responsabile della scoperta fosse in realtà una loro
collaboratrice).

Secondo questa regola:

- l’adenina e la timina sono appaiate e legate da due


ponti a idrogeno,
- tra la citosina e la guanina se ne instaurano tre.

L’uracile invece riguarda la struttura dell’RNA. L’RNA presenta una


struttura a singolo filamento; anche qui le basi azotate costituiscono
la parte informazionale, ma assieme alla citosina, alla guanina e
all’adenina troviamo l’uracile come sostituto della timina.

Ogni catena polinucleotidica è costituita da un susseguirsi di un’unità


fondamentale, la quale è rappresentata dal nucleotide; esso si
ottiene dall’unione del deossiribosio con una base azotata legata
nella posizione 1’ ed un gruppo fosfato legato nella posizione 5’.

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I vari nucleotidi presentano tra loro dei legami fosfodiesterici, che si instaurano tra l’atomo di carbonio in
posizione 3’ (appartenente allo zucchero del nucleotide precedente) e l’atomo di carbonio in posizione 5’
dello zucchero del nucleotide successivo. Si definisce quindi una sorta di polarità 5’ (in alto) – 3’ (in basso).
Siccome le emi-eliche sono antiparallele, le polarità vanno in direzioni opposte.

IL DNA
La molecola del DNA è costituita da due emieliche destrorse
e antiparallele. Le due catene polinucleotidiche sono unite tra
di loro per mezzo di legami idrogeno che associano in coppia
due basi azotate che si trovano sullo stesso piano. Il DNA si
trova nel nucleo della cellula sottoforma di cromosomi,
insieme a specifiche proteine.

Il DNA svolge la funzione di conservare il progetto per la


sintesi di ciascuna delle diverse migliaia di catene
polipeptidiche che costituiscono il repertorio proteico di ogni
essere vivente. Ad ogni catena polipeptidica corrisponde un
segmento di doppia elica (gene) nella cui sequenza
nucleotidica è memorizzata l’informazione per la sequenza
amminoacidica della proteina.

Il DNA si trova nel nucleo di una cellula eucariotica, mentre la sintesi delle proteine avviene nel citoplasma.
Il DNA, però, non può spostarsi, e dunque interviene un intermediario che rappresenta la copia di una delle
due emieliche e che si trasferisce dal nucleo al citoplasma per fornire l’informazione a tutto l’apparato di
sintesi proteica, al fine di realizzare la sequenza degli amminoacidi che determineranno una specifica
proteina.

L’RNA
Questo secondo protagonista è l’RNA, un acido nucleico a singolo filamento che costituisce la copia di una
delle due emi-eliche di DNA;

DNA - -> RNA - -> PROTEINE

L’RNA può essere

- messaggero: è la copia di una delle due emieliche e viene sintetizzato in un processo che
prende il nome di trascrizione; ha la caratteristica di essere filamentoso, quindi riesce a
spostarsi nel citoplasma dove subisce una serie di trasformazioni e, una volta maturo,
fornisce le istruzioni per la sintesi delle proteine.
- ribosomiale: caratterizzato da un filamento che si avvolge a formare una struttura
globulare e che, insieme ad altre proteine, costituisce la struttura dei ribosomi.

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- transfer: ha una struttura particolare, sempre filamentosa, spesso rappresentato in due
forme, ma in realtà la figura sulla sinistra, definita forma a trifoglio, non è altro che una
semplificazione didattica. La struttura dell’RNA transfer presenta sempre dallo stesso lato
l’estremità 5’, dalla quale poi il filamento si ripiega formando delle anse, e l’estremità 3’, a
cui si lega l’amminoacido specifico (esiste quindi un tRNA specifico per ogni amminoacido).
La specificità dell’amminoacido dipende dal numero e dalla tipologia di basi che possiamo
trovare tra un tRNA e un altro. Tuttavia la sequenza terminale di basi terminale è comune a
tutti: citosina citosina adenina CCA. L’RNA transfer viene dunque considerato intermediario
perché l’amminoacido che
dovrà corrispondere ad una
tripletta del RNA
messaggero in realtà non
entra mai in contatto con
esso, bensì è il transfer che
trasporta lo specifico
amminoacido per far sì che
si posizioni perfettamente a
livello della tripletta che ha
costituito quella
informazione.

GLI ORGANISMI VIVENTI

Tutti gli organismi viventi presenti sul nostro pianeta possono e devono essere classificati in qualche
maniera. Una prima classificazione fa riferimento alla differenza tra organismi:

- procarioti: generalmente unicellulari,


mancano di un’area confinata definibile
come il “nucleo”
- eucarioti: generalmente pluricellulari

I meccanismi che hanno luogo in una cellula eucariotica


sono decisamente più complessi rispetto a quelli che
hanno luogo in una cellula procariotica.

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LA CELLULA EUCARIOTICA

LA MEMBRANA PLASMATICA

La cellula eucariotica è delimitata da una MEMBRANA PLASMATICA, formata da un doppio strato


fosfolipidico. Il fosfolipide presenta:

- una testa polare, che ha affinità con l’acqua (idrofila)


- una coda apolare, che deriva dalla natura della catena carboniosa e che dunque presenta
un carattere idrofobico.

I due strati fosfolipidici sono disposti in modo che le teste siano rivolte verso l’esterno e l’interno della
cellula, mentre le code siano rivolte all’interno e in contatto tra loro. PERCIO’ l’interno della membrana è
idrofobico, mentre lo spazio che guarda al citoplasma e all’esterno della cellula è idrofilo. Essendo la
membrana responsabile degli scambi tra l’esterno e l’interno, nel caso in cui uno ione dovesse attraversare
la membrana, andrebbe ad incontrare questa “barriera” idrofobica; a tal proposito, la membrana è
provvista di canali specifici per far transitare i composti polari dall’esterno all’interno della cellula e
viceversa.

I lipidi presenti sono:

- fosfatidilcolina e sfingomielina nella parte esterna


- fosfatidiletanolamina e fosfatidilserina nella parte interna.

Oltre al doppio strato fosfolipidico, troviamo anche il colesterolo, che partecipa alla fluidità della
membrana. Infatti essa viene considerata come una sorta di fluido dove “galleggiano” delle proteine adese
ad essa, le quali, a seconda di come sono collocate rispetto alla membrana, si distinguono in:

- proteine intrinseche, che attraversano completamente il doppio strato fosfolipidico;


- proteine estrinseche, che si trovano sulla faccia interna o sulla faccia interna del doppio
strato fosfolipidico.
- Glicoproteine che emergono dalla parte esterna con il loro gruppo glucidico (zucchero) al
quale sono legate.

Tra le proteine che guardano la parte esterna troviamo le glicoproteine, le quali sono molto importanti e
sono costituite dall’associazione tra proteine e zuccheri.

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E’ presente poi il NUCLEO, delimitato da una membrana simile a quella plasmatica.

GLI ORGANULI CITOPLASMATICI

Troviamo poi gli organuli citoplasmatici:

- Il RETICOLO ENDOPLASMATICO:
struttura membranosa formata da cisterne,
che può essere distinta in liscio e rugoso
(caratterizzato dalla presenza di ribosomi in
superficie), sebbene sia strutturalmente uno
solo.

- L’APPARATO DEL GOLGI: struttura


membranosa composta da cisterne

- LISOSOMI: vacuoli che contengono


enzimi litici, interessati nei meccanismi di
degradazione di composti estranei o di prodotti del catabolismo.

- PEROSSISOMI: vacuoli che contengono acqua ossigenata, interessati nei meccanismi di


degradazione di composti estranei o di prodotti del catabolismo.

- I MITOCONDRI, considerati la centrale energetica della cellula perché


producono/immagazzinano l’energia.

I MITOCONDRI
Presentano due membrane, una esterna ed una interna
che si ripiega a formare delle creste. Esse hanno funzioni
differenti:

- La membrana esterna, oltre delimitare il


mitocondrio, presiede agli scambi con
l’esterno.
- La membrana interna è coinvolta nel
trasporto degli elettroni lungo la catena
respiratoria e nella fosforilazione
ossidativa in stretto rapporto funzionale
con la matrice, sede del Ciclo di Krebs della β-ossidazione degli acidi grassi.

In questo modo, nel mitocondrio sono delimitati due spazi specifici:

- quello tra le due membrane chiamato spazio intermembrana,


- quello delimitato dalla membrana interna che prende il nome di matrice.

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Il fatto che nei mitocondri si trovino questi due spazi è molto importante nei meccanismi di sintesi del ATP.

Studiando dettagliatamente questi organuli, si è visto che essi contengono un proprio DNA, chiamato DNA
MITOCONDRIALE, diverso da quello della cellula; in più nei mitocondri si realizza una SINTESI PROTEICA
che è diversa da quella nella cellula, poiché questi organuli contengono un apparato enzimatico
personalizzato.

Sembrerebbero quindi organismi a sé stanti e si ipotizza che abbiano un’origine endosimbiotica. Quando
sulla terra è comparsa la prima forma vivente, l’atmosfera era carente di ossigeno; quindi, i primi organismi
unicellulari si sono sviluppati con un metabolismo che non richiedeva ossigeno. In seguito ad eventi
naturali, l’ambiente si è arricchito di ossigeno e gli organismi hanno dovuto adattare il loro metabolismo.
Piuttosto che costruire un apparato metabolico complesso per la sintesi di ATP, hanno preferito inglobare
degli organismi esistenti che già possedevano questo metabolismo, cioè i procarioti che, con il passare del
tempo, sono stati identificati come mitocondri. Si tratta soltanto di una teoria, non ci sono evidenze
sperimentali, ma quantomeno in questo modo si riesce a giustificare il fatto che il mitocondrio sia dotato di
DNA a se stante. I mitocondri sono importanti per la cellula poiché vengono definiti come “la centrale
energetica della cellula”. L’unica fonte di rifornimento continuo di energia è quella delle radiazioni solari,
per questo gli organismi viventi si sono dotati di sistemi in grado di sfruttare questo continuo rifornimento
energetico, necessario per la sopravvivenza e il mitocondrio è l’organulo coinvolto in questi processi.

LA PRESSIONE OSMOTICA

La membrana plasmatica determina la vita della cellula perché attraverso di essa si verificano gli scambi di
ioni e composti tra interno ed esterno. La possibilità di consentire degli scambi di composti fa sì che si
possa raggiungere una determinata concentrazione salina all’interno e all’esterno, di modo da consentire il
raggiungimento dell’OMEOSTASI, fondamentale per la vita della cellula.

(il prof in poche parole evidenzia come le funzioni della membrana plasmatica siano correlate anche alla
funzione dei mitocondri. Il mitocondrio è l’organulo deputato alla sintesi di ATP e quel medesimo ATP sarà
poi utilizzato nel meccanismo di trasporto attivo da parte delle pompe nella membrana plasmatica; quindi,
ha ripreso questo concetto per mettere in relazione i due elementi).

L’omeostasi è raggiunta quando si raggiunge un determinato valore


di PRESSIONE OSMOTICA.

Fornire una definizione di pressione osmotica non è molto semplice;


dunque, spesso si ricorre a degli esempi che possano far cogliere
bene il concetto. In particolare, consideriamo un tubo a U in vetro
costituito da due comparti separati da una membrana
semipermeabile (fa riferimento alla membrana plasmatica), che
consente il passaggio dell’acqua ma non del soluto.

Nel lato destro abbiamo dell’acqua, nel lato sinistro uno zucchero,
cioè un soluto che si scioglie in acqua. A questo punto l’acqua
inizierà a passa da destra a sinistra, dove si trova lo zucchero, e il
livello della parte sinistra si innalza. La pressione osmotica è la

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pressione che bisogna esercitare sul lato sinistro per evitare che il suo livello si innalzi. Possiamo quindi
affermare che: la pressione osmotica è la pressione che bisogna opporre all’innalzamento del livello
determinato dal soluto che si scioglie nel solvente.

Un concetto simile si può applicare anche alla membrana plasmatica la quale, grazie alla sua complessa
semipermeabilità e allo spostamento di soluti e ioni, mantiene all’interno della cellula un valore di
pressione osmotica che è alla base delle caratteristiche chimico/fisiche e vitali della cellula.

MECCANISMI DI TRASPORTO

La membrana plasmatica rappresenta una struttura di divisione tra due ambienti:

- quello intracellulare
- quello esterno.

TRASPORTO PASSIVO

LA DIFFUSIONE SEMPLICE

Quando un composto, o all’interno o all’esterno della cellula, si trova in una concentrazione più alta
rispetto all’altro ambiente, naturalmente ha la tendenza a passare dalla zona più concentrata a quella
meno concentrata. Questo meccanismo si chiama DIFFUSIONE SEMPLICE: è ovvio che prima o poi questo
meccanismo porterà prima o poi ad una situazione di equilibrio dove le due concentrazioni sono uguali.

La diffusione semplice è un meccanismo che porta all’equilibrio e avviene SENZA CONSUMO di energia.

LA DIFFUSIONE FACILITATA

Per raggiungere all’omeostasi però può essere necessario anche


il trasferimento di ioni, che tuttavia non sono in grado di
attraversare la membrana e che richiedono quindi l’impiego di
canali proteici.

Vi possono essere poi molecole che, anche se hanno la


possibilità in termini di carica elettrica di attraversare la
membrana, non possono farlo perché di dimensioni troppo
grandi.

A questo proposito, sono presenti sulla membrana delle


proteine carrier che servono a consentire il passaggio di
composti più grandi di uno ione e ad aiutare la diffusione. Anche questo processo avviene senza dispendio
energetico; si tratta sempre di una diffusione ma, avvalendosi di proteine carrier, prende il nome di
DIFFUSIONE FACILITATA.

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TRASPORTO ATTIVO
Il trasporto attivo è un meccanismo che procede contro gradiente di concentrazione; esso si affida a
macchine proteiche sulla membrana che trasportano ioni contro gradiente di concentrazione.

In particolare, questo meccanismo necessita energia, ricorrendo all’ATP (Adenosina Trifosfato).

L’ATP è la moneta energetica della cellula e può essere considerato come il contenitore di una certa
quantità di energia utilizzabile mediante l’idrolisi, grazie alla scissione di un legame fosfanidridico.

ATP + H2O = ADP + ENERGIA

L’energia viene utilizzata per cambiare la conformazione strutturare della proteina di membrana.

Questa proteina particolare deve avere quindi 2 caratteristiche fondamentali:

- un sito di attacco per l’ATP


- la capacità di idrolizzare l’ATP.

Un esempio di trasporto attivo è la POMPA SODIO-POTASSIO.

La pompa in questione è una proteina di membrana avente struttura quaternaria caratterizzata da 4


subunità; ha la capacità di aprirsi alternativamente prima guardando l’interno della cellula e il citoplasma e
poi l’esterno, alternando queste 2 conformazioni.

Per ogni ciclo, è in grado di portare:

- fuori dalla cellula 3 ioni sodio


- all’interno della cellula 2 ioni
potassio,

creando 2 gradienti di concentrazione in cui si ha:

- una concentrazione maggiore di


ioni sodio (Na+) fuori dalla cellula
- una concentrazione di ioni potassio
(K+) all’interno della cellula.

Bisogna poi considerare che questo meccanismo fa parte di quei sistemi che garantiscono il mantenimento
del potenziale di membrana, pari a circa - 70 mV, ed è anch’esso fondamentale per la vita della cellula. In
alcuni casi, per cellule altamente specializzati come i neuroni, esso diventa il meccanismo di comunicazione
neuronale.

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1. La proteina è aperta verso l’interno della cellula e si rendono disponibili 3 siti di attacco per il sodio.
2. La proteina lega l’ATP e lo idrolizza, liberando energia
3. L’energia cambia la conformazione della proteina e la fa aprire verso l’esterno. Gli ioni sodio si
liberano verso l’esterno e si liberano 2 siti di attacco per il potassio, che vi si lega.
4. Quando l’energia data dall’idrolisi dell’ATP si esaurisce, la proteina torna alla sua conformazione
iniziale, si richiude verso l’interno, viene liberato il potassio all’interno e i siti per il sodio tornano
liberi per ricominciare il ciclo.

Per ogni ciclo di trasformazione serve una molecola di ATP.

Pompe sodio-potassio e diffusione semplice garantiscono il raggiungimento dell’omeostasi. In ogni cellula ci


sono molte pompe sodio-potassio che agiscono continuamente, non possono bloccarsi perché altrimenti
farebbero morire la cellula (alcuni veleni bloccano queste pompe).

Oltre al trasporto attivo ci sono anche altri meccanismi di diffusione: nella diffusione semplice e nel
trasporto attivo è possibile trasportare
contemporaneamente 2 ioni/elementi.

Se i 2 elementi seguono la stessa direzione si parlerà


di SIMPORTO, mentre se seguono direzioni opposte,
ci si riferirà all’ANTIPORTO. Simporto e antiporto
formano quel tipo di diffusione detto cotrasporto.

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TERMODINAMICA
L’ENERGIA è fondamentale per la sopravvivenza di tutti gli organismi viventi di questo pianeta perché
qualsiasi processo biologico comporta lo svolgimento di un lavoro.

LA CATENA ALIMENTARE

Questa energia, che tende all’esaurimento, deve essere continuamente disponibile. L’unica fonte di energia
che può rifornire continuamente la terra è rappresentata dalle radiazioni solari. Infatti, nutrendoci,
riforniamo in nostro organismo di energia presa da altri organismi che, a loro volta, la sottraggono dalle
radiazioni solari. Gli esseri umani, tuttavia, non riescono a prendere direttamente l’energia solare per
rifornire l’organismo. Possiamo infatti dividere gli organismi in:

- Autotrofi/produttori, in grado di organicare il carbonio. Essi, attraverso la fotosintesi


clorofilliana, utilizzano 6 molecole di CO2 dell’atmosfera, acqua ed energia solare per
costruire glucosio immagazzinabile come amido e cellulosa. La differenza tra l’amido e la
cellulosa sta a livello dei legami delle singole unità monosaccaridiche:
• l’amido presenta legami alfa-glicosidici
• la cellulosa presenta legami beta-glicosidici.

L’amido ha funzione trofica, in quanto siamo in grado di spezzare i legami che tengono
unite le diverse molecole di glucosio di cui è composto; al contrario, la cellulosa ha
funzione strutturale poiché gli umani non hanno gli enzimi necessari per idrolizzarla.
Senza elementi fotosintetici la vita
sarebbe impossibile, in quanto non ci
sarebbe il primo gruppo di organismi
che va a trasformare l’energia solare
in energia chimica, e successivamente
il flusso di energia unidirezionale dagli
autotrofi che trasferisce energia ad
altri organismi viventi. Si tratta quindi
di PRODUTTORI di energia per gli
eterotrofi.

- Eterotrofi/consumatori. Possono nutrirsi direttamente di organismi autotrofi verdi, in


questo caso si parla di consumatori primari / erbivori che hanno l’enzima capace di
ricavare energia attraverso la scissione della cellulosa. Gli umani invece si dicono
consumatori secondari perché non hanno gli enzimi adatti a scindere la cellulosa e possono
scindere solo l’amido (che tuttavia è in sé per sé insufficiente). Essi si nutrono quindi dei
consumatori primari, i terziari dei secondari e così via. La scala dei consumatori dipende
dall’ambiente, ma in cima è presente sempre l’uomo. Solo con questo meccanismo
l’energia solare viene distribuita tra tutti gli esseri viventi.

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LE TRASFORMAZIONI ENERGETICHE

L’ENERGIA, definita come l’attitudine o la capacità a compiere un lavoro, rappresenta un concetto


fondamentale in biologia. L’energia può essere convertita in molte forme diverse: per esempio
consideriamo un arciere che tende un arco, la tensione risultante tra la corda e l’arco rappresenta una sorta
di energia immagazzinata o energia potenziale. Quando la corda viene rilasciata, l’energia potenziale viene
trasformata in energia cinetica.

Anche durante la fotosintesi clorofilliana c’è una trasformazione energetica.

Le regole delle trasformazioni energetiche sono stabilite dalla termodinamica, che si esprime attraverso 2
principi (sintetizzati dal terzo).

IL PRINCIPI DELLA TERMODINAMICA


Il primo principio afferma che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

Il secondo principio afferma che per ogni trasformazione energetica, una quota dell’energia iniziale viene
degradata in calore, che è una forma meno utilizzabile di energia, in quanto molto disordinata. Una
trasformazione energetica comporta che una parte dell’energia si trasforma in calore.

Il disordine del calore può essere misurato tramite l’ENTROPIA (S), cioè la grandezza che indica lo stato di
disordine di un sistema.

La quantità totale dell’energia nell’universo, cioè la somma di tutte le forme energetiche, è un valore
costante e non diminuisce nel tempo (I principio); mentre l’energia disponibile a compiere un lavoro è in
continua diminuzione, poiché viene continuamente degradata in calore (II principio). Ciò significa che,
nell’universo, l’entropia è in continuo aumento. Prima o poi, l’energia disponibile a compiere lavoro sarà
quindi esaurita e la vita sulla terra non sarà più possibile.

- Quantità totale di energia nell’universo = COSTANTE


- Energia disponibile a compiere lavoro = DIMINUISCE
- Energia disponibile a compiere lavoro viene continuamente degradata in una forma
meno utilizzabile = CALORE

LE TRASFORMAZIONI ENERGETICHE
Nella cellula avvengono reazioni, cioè trasformazioni energetiche.

In tutte le reazioni chimiche si rompono i legami e se ne formano di nuovi. L’energia per rompere un
legame viene definita come energia di legame: l’energia di legame è contenuta, quindi, in tutti i legami di
una molecola. La somma di tutte le energie di legame di una molecola, o di un sistema, equivale alla sua
energia potenziale totale, quantificabile attraverso l’ENTALPIA (H).

- Energia per rompere un legame chimico = energia di legame


- Somma di tutte le energie di legame di una molecola o di un sistema = energia potenziale
totale / entalpia (H)

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L’ENERGIA LIBERA di un sistema (G) è l’energia che è disponibile a compiere un lavoro.

G = H – TS

- G è l’energia libera
- H è l’entalpia
- T è la temperatura in gradi Kelvin
- S è l’entropia

Dal punto di vista biologico, l’energia libera G rappresenta il concetto termodinamico più utile e
significativo, essendo l’unico tipo di energia che può svolgere lavoro cellulare.

A livello cellulare è molto utile non tanto il valore di energia libera totale ma la variazione di energia libera.
Se si considera una reazione in cui 2 reagenti A e B da cui si formano i prodotti C e D, si può calcolare
l’energia libera dei reagenti o dei prodotti, ma il valore utile che si deve considerare per fare valutazioni
sulle reazioni chimiche all’interno della cellula è la variazione di energia libera (∆G).

∆G = ∆H – T∆S

A+B⇄C+D

- A e B = reagenti (G reagenti)
- C e D = prodotti (G prodotti)

Se ∆G < 0, la reazione è spostata verso i prodotti e avviene spontaneamente da sinistra verso destra
MENTRE se ∆G > 0, la reazione è spostata verso i reagenti, non è spontanea, avviene da destra verso
sinistra e richiede l’impiego di energia.

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IL METABOLISMO E L’ATP
Il METABOLISMO di un organismo consiste di vie metaboliche, che sono essenzialmente di due tipi diversi:

- L’anabolismo, che comprende diverse vie metaboliche nelle quali, partendo da molecole
più semplici, si sintetizzano molecole più complesse. Queste reazioni necessitano di un
apporto di energia e non sono spontanee.
- Il catabolismo, dove molecole più grandi vengono scisse in molecole più piccole. Queste
reazioni avvengono con rilascio di energia e sono spontanee.

In laboratorio le reazioni chimiche possono anche necessitare di ore, o addirittura di giorni. La cellula ha
bisogno, comunque, di reazioni che avvengano molto velocemente, ed esistono quindi molecole particolari
che accelerano le reazioni chimiche, dette ENZIMI. Gli enzimi sono prevalentemente di natura proteica o
totalmente proteine e servono per aumentare la velocità di reazione.

All’interno della cellula, il catabolismo e l’anabolismo sono tra di loro complementari poiché spesso si
accoppiano una reazione catabolica con una anabolica, in modo che le vie cataboliche rilascino l’energia
necessaria per l’anabolismo. Tuttavia, questo non è sempre possibile, perché moltissime reazioni
cataboliche sono lunghe e complesse, inoltre, per il II principio della termodinamica, c’è sempre una perdita
energetica: la cellula si è dovuta dotare di un
meccanismo che serve ad immagazzinare energia e
per immagazzinare energia viene sintetizzato ATP.
Questo processo di sintesi di ATP avviene nei
mitocondri. Quando si devono sintetizzare nuovi
composti, piuttosto che accoppiare reazioni
cataboliche, in molti casi si usa l’energia
immagazzinata sotto forma di ATP grazie all’idrolisi in
ADP e alla scissione del legame fosfanidridico.

L’ATP è considerata la moneta energetica


dell’organismo perché, nella sua composizione, è
presente tra i gruppi fosfato un legame altamente
energetico (rappresentato con lineetta ondulata), di
conseguenza l’ATP idrolizzato in ADP rilascia energia.
Molto importante è anche fornire energia per
ricostituire ATP, altrimenti il suo contributo si
esaurisce. Quindi la quantità di energia dipende dalla

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capacità dell’organismo di idrolizzare ATP e di ricostituirlo per evitarne l’esaurimento. Solitamente è
sufficiente idrolizzare un singolo gruppo fosfato e ottenere ADP per poter ricavare energia.

La domanda potrebbe sorgere spontanea: “Perché non si può ricavare ulteriore energia rompendo un altro
legame fosfanidridico e ottenendo AMP (Adenosina Monofosfato)?”

Risposta: La cellula utilizza solo l’energia che le serve senza alcuno spreco. Se viene rotto anche l’altro
legame, bisogna poi riportare l’AMP ad ATP fornendo una grande quantità di energia. Nella maggior parte
dei casi quindi si forma ADP e non AMP.

Oltre all’ATP, esistono altre forme energetiche come la GTP (Guanosina trifosfato), la cui differenza con
l’ATP sta nel fatto che contiene meno energia. Questo perché la cellula insegue un estremo risparmio
energetico e quindi può fare ricorso al GTP quando l’energia liberata da idrolisi di ATP è in eccesso.

! Vengono rotti solo i legami che forniscono l’energia necessaria, non vengono rotti legami che liberano un
eccesso di energia.

OSSIDORIDUZIONE
Dentro una cellula avvengono reazioni redox che coinvolgono 2 componenti:

- il RIDUCENTE, che perde elettroni e si ossida,


- l’OSSIDANTE, che acquista elettroni e si riduce.

Quando si realizzano reazioni di ossidoriduzioni si ha liberazione di una certa quantità di energia, che però
non è sufficiente per essere immagazzinata per formare ATP. Poiché la cellula non può permettersi di
perdere energia, esistono delle molecole che non immagazzinano energia, bensì la catturano e la
trasportano in parti dove può essere utilizzata.

Queste molecole sono:

- il NAD+ , nicotinammide adenina dinucleotide che si riduce in NADH


- il FAD, che si riduce in FADH2.

L’energia intrappolata nel NADH deve essere immediatamente utilizzata in quanto non può essere
immagazzinata.

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LA COMUNICAZIONE CELLULARE
Se consideriamo un organismo unicellulare (procariote), ha necessità di comunicare solo con l’ambiente
esterno, mentre le cellule degli organismi pluricellulari hanno bisogno di comunicare con l’esterno e tra di
loro. La comunicazione tra le cellule degli organismi pluricellulari ha come risultato:

- la vita,
- la morte (apoptosi),
- il differenziamento
- la divisione.

La comunicazione cellulare viene detta anche


SEGNALAZIONE CELLULARE o SIGNALING.

Per comunicare, una cellula emette un segnale (un


composto chimico), detto ligando o messaggero primario,
indirizzato ad una cellula detta bersaglio; il bersaglio può
essere anche un tessuto o un organo definiti, quindi,
tessuti e organi bersaglio.

I TIPI DI SEGNALAZIONE CELLULARE

La cellula bersaglio deve essere in grado di recepire il


ligando grazie alla disponibilità di un recettore specifico per
quel segnale. Questo tipo di segnalazione è indiretto e
utilizza come mezzo di trasporto alcuni secreti chimici.

Può verificarsi anche una segnalazione diretta quando il


recettore, posto sulla membrana, riconosce ed entra in
contatto con il ligando posto sulla superficie della cellula
segnalatrice, ma questo può accadere solo quando le cellule
sono vicine a adese le une alle altre.

Infine, ci sono casi in cui le cellule sono adese tra loro e nelle
membrane ci sono giunzioni comunicanti che permettono il passaggio dei messaggeri chimici.

Il tipo di segnalazione può essere classificato a seconda del bersaglio del ligando:

- SEGNALAZIONE AUTOCRINA: Alcune cellule emettono un segnale che serve alla cellula
stessa che lo emette.
- SEGNALAZIONE PARACRINA: Ci sono ligandi che si trovano allo stato gassoso (ES. ossido
nitrico) e che diffondono il messaggio alle cellule adiacenti.
- SEGNALAZIONE ENDOCRINA: Altre cellule comunicano con cellule distanti utilizzando il
torrente circolatorio come mezzo di trasporto del messaggio.
- SEGNALAZIONE SINAPTICA: Le cellule appartenenti al sistema nervoso centrale, i neuroni,
si servono della segnalazione sinaptica.

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I RECETTORI

La posizione del recettore nella cellula bersaglio dipende dalla natura del ligando:

- se il ligando non è polare ed è idrofobico, il recettore è intracellulare e si


trova all’interno della membrana cellulare.
- Se il ligando è idrofilo, non può
attraversare la membrana e quindi richiede
un recettore di superficie MA una risposta
biologica non avviene mai sulla superficie
della cellula, bensì all’interno.

Troviamo 3 grandi complessi di recettori:

- Sulla membrana ci sono i canali ionici. Quando abbiamo un recettore a cui è accoppiato un
canale ionico (ligando legato a
canali ionici), se non c’è il ligando
allora il canale è chiuso. Quando
arriva il ligando, il canale ionico si
apre. Questi recettori sono quindi
REGOLATI CHIMICAMENTE

- In altri casi, ai recettori è accoppiato un ENZIMA, che viene attivato dal ligando

- Altri recettori sono accoppiati alle PROTEINE G. Sono i recettori coinvolti nella trasduzione
del segnale.

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I RECETTORI ACCOPPIATI ALLE PROTEINE G
Il recettore è, solitamente, un’unica proteina che si ripiega e
presenta 3 domini (aree con funzionalità diverse, da non confondere
con le subunità della struttura quaternaria):

- Il dominio esterno prende contatto con il ligando,


- il dominio intermedio si ripiega 7 volte sulla membrana,
- il dominio interno prende contatto con la proteina G.

La PROTEINA G (in rosa nella slide) è una proteina di membrana che


ha struttura quaternaria con subunità α, β e ɣ (lette da destra verso
sinistra).

Siccome la struttura è quaternaria, le subunità si possono staccare e


riattaccare: questo è ciò che accade alla subunità α. Affinché ciò
avvenga c’è bisogno di energia, questo significa che la proteina G ha
le caratteristiche idonee per utilizzare GTP (ha un sito d’attacco per il
GTP ed è in grado di idrolizzarlo). Quando la proteina G è spenta ha le 3 subunità unite e la subunità α è
legata al GDP (forma scarica di GTP). Quando arriva il ligando, viene riconosciuto dal recettore e vi si lega.
Successivamente il recettore, attraverso il dominio interno, consente il legame tra il GTP e la subunità α.

! L’ATP è la moneta energetica della cellula perché


contiene energia, il GTP è la stessa cosa ma è un
contenitore più piccolo

Una volta legata al GTP, la subunità α è in grado di


idrolizzarlo e l’idrolisi di tale composto libera energia.
Questa energia serve affinché la subunità α possa
staccarsi dal resto della proteina. La subunità α rimarrà staccata dalla proteina G fino a quando l’energia
rilasciata dall’idrolisi del GTP non si esaurisce; una volta esaurita questa energia, la subunità torna alla
proteina G.

Una volta che si è staccata la subunità α, la proteina è attiva e ha inizio una cascata di reazioni, cioè una
serie di reazioni in cui un composto attiva il successivo.

LA TRASDUZIONE DEL SEGNALE

Quando i recettori si trovano sulla membrana plasmatica, dal momento in cui arriva il ligando idrofilico (fa
riferimento ad un recettore polare che si trova sulla membrana) fino a quando si avrà la risposta all’interno
del citoplasma, ci deve essere un’altra comunicazione e un’amplificazione del segnale, perché i ligandi
utilizzati sono a bassissima concentrazione, dato che sono trasportati dal torrente circolatorio, la cui
omeostasi non può essere alterata.

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Il messaggio raggiunge l’interno grazie alla TRASDUZIONE del segnale. A causa della bassa concentrazione
del segnale, con la trasduzione del segnale si rischia che la comunicazione vada perduta, perciò all’interno
della cellula la trasduzione è data da comunicazione + amplificazione.

Quando arriva il ligando, viene riconosciuto dal recettore e vi si


lega. Successivamente il recettore, consente il legame tra il GTP e
la subunità α, che lo idrolizza e si stacca dalla proteina. Una volta
che si è staccata la subunità α, la proteina è attiva e ha inizio una
cascata di reazioni, cioè una serie di reazioni in cui un composto
attiva il successivo.

Con l’inizio della trasduzione viene attivato il primo enzima (l’enzima a si attiva diventando A) che a sua
volta attiva il secondo (b diventa B) e così via fino al raggiungimento della risposta.

La cascata di reazioni ha una serie di protagonisti:

- Il recettore
- La proteina G
- Enzimi che intervengono fino alla risposta

Ogni protagonista deve avere la possibilità di accendersi e di spegnersi subito dopo aver effettuato il suo
compito: i protagonisti devono essere degli interruttori molecolari. Ad esempio, la proteina G si accende
quando il GTP si lega alla subunità α e si spegne quando il GTP si esaurisce (viene idrolizzato a GDP). In
assenza di questi interruttori molecolari si avrebbe il rischio di una risposta continua che causerebbe
problemi di diversa natura.

Gli enzimi sono proteine che per funzionare devono avere una specifica forma e devono essere fosforilate.
La fosforilazione induce una variazione della conformazione della struttura terziaria della proteina (così
come la defosforilazione che disattiva la proteina).

L’attacco del ligando al recettore e la formazione del legame tra la subunità α e il GTP costituiscono la fase
iniziale della trasduzione.

Da questa prima fase comune, iniziano due percorsi:

- VIA DELL’AMP CICLICO (cAMP)


- VIA DEL CALCIO

Possiamo trovare delle risposte in cui entrambe le vie sono coinvolte e operano simultaneamente.

VIA DELL’AMP CICLICO


L’AMP CICLICO deriva dall’ATP. L’ATP ha 3 gruppi fosfato. Se ne tolgo uno, ottengo l’ADP; se ne tolgo due,
ottengo l’AMP (adenosina mono fosfato): Il fosfato rimanente si lega al carbonio 3’ libero e si forma così un
anello ciclico. Per ottenere l’AMP ciclico dall’ATP si utilizza l’adenilato-ciclasi, mentre il processo inverso
richiede l’utilizzo di fosfodiesterasi.

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Quando il ligando si lega al recettore legato alla proteina G, la subunità α si stacca, si lega alla GTP e attiva
un enzima di membrana, cioè l’adenilato-ciclasi, che trasforma l’ATP in AMP ciclico. L’adenilato-ciclasi non
trasforma una sola molecola di AMP ciclico, ma lavora su tantissime molecole di ATP: in questo consiste il
processo di amplificazione.

L’AMP ciclico viene definito messaggero secondario, considerando il ligando come primario.

L’AMP ciclico può innescare numerose vie di trasduzione, a seconda dell’evento con cui abbiamo a che fare.
L’AMP ciclico, ad esempio, può essere coinvolto nella fuga da un pericolo (risposta “Fight or Flight”,
“Combatti o Fuggi”). Di fronte ad un pericolo immediato, il nostro organismo (anche involontariamente)
reagisce. Il sistema nervoso centrale richiede quindi un grande quantitativo di energia all’organismo per
effettuare la reazione. Il meccanismo per avere energia disponibile deriva dalla degradazione del glucosio,
che è però troppo lento. Il nostro organismo deve quindi sfruttare gli zuccheri che ha a come riserva
sottoforma di glicogeno nel fegato e nel cervello (principale consumatore di glicogeno). Il glucosio che
costituisce il glicogeno deve essere però staccato. Il nostro sistema nervoso centrale, quindi, comunica alla
ghiandola del surrene di produrre adrenalina (ligando) che, attraverso il torrente circolatorio, arriva anche
alle cellule epatiche (cellule bersaglio dotate di recettore) dove è depositato il glucosio. Si innesca una
trasduzione del segnale legata all’AMP ciclico e la risposta è l’ultimo enzima in grado di staccare la molecola
di glucosio dal glicogeno, per immetterla nel torrente circolatorio, contribuendo alla sintesi di ATP.

La via dell’AMP ciclico può coinvolgere anche il DNA. L’enzima chinasi A è una proteina che è strettamente
correlata con la produzione di AMP ciclico. La proteina chinasi A (pka), attivata dall’AMP ciclico, entra nel
nucleo, interagisce con il fattore di trascrizione e lo attiva, perciò la via dell’AMP ciclico può essere
considerato nei meccanismi di regolazione dell’espressione genica.

LA VIA DEL CALCIO


La VIA DEL CALCIO è un meccanismo di trasduzione del segnale che comporta l’aumento della
concentrazione di ioni calcio a livello citoplasmatico in seguito ad uno stimolo; in questo modo il calcio
innesca una serie di reazione che porteranno all’ottenimento della risposta allo stimolo ricevuto dalla
cellula.

Una specifica concentrazione di ioni calcio a livello citoplasmatico può dare l’avvio a tantissime risposte,
non è la protagonista di una sola specifica risposta. Ad esempio, la contrazione muscolare ha inizio con
l’aumento della concentrazione di ioni calcio.

In condizioni normali, il calcio è localizzato nel reticolo endoplasmatico (RE) sulla cui membrana troviamo
un canale al quale è legato un recettore chimicamente regolato.

In condizioni normali, quando il recettore non è legato a nulla, i canali sono chiusi. Il calcio si trova quindi
confinato all’interno del reticolo endoplasmatico, dopo esservi stato portato da numerose pompe
specifiche per questo elemento che lavorano contro gradiente di concentrazione. Il calcio è quindi
maggiormente concentrato all’interno del reticolo endoplasmatico e non può uscire perché il canale è
chiuso.

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Il canale si apre solo il recettore si lega ad un ligando. Una volta che il canale è stato aperto, il calcio
fuoriesce mediante un meccanismo di diffusione semplice in quanto la concentrazione di calcio nel RE è
maggiore rispetto alla concentrazione nel citoplasma. In questo modo, la concentrazione degli ioni calcio
nel citoplasma aumenta notevolmente (per innescare la risposta) ma subito dopo deve verificarsi un rapido
rientro del calcio nel RE. Infatti la permanenza prolungata di grandi quantità di questo ione nel citoplasma è
tossica: il calcio citoplasmatico deve quindi rimanere sempre sotto una soglia di concentrazione.

Quando si innesca la via del calcio, l’inizio è uguale a quello della via dell’AMP ciclico. Arriva lo ione calcio
(ligando), si lega al recettore, il recettore attiva la proteina G, la subunità α si lega al GTP e si stacca dalla
proteina. A questo punto viene attivato un altro enzima di membrana, la fosfolipasi C, che taglia in due il
fosfatidil-inisitolo (un fosfolipide di membrana):

- una parte si libera nel citoplasma: questa parte corrisponde al lato della “testa” e si
definisce inositolo-trifosfato (IP3);
- una parte rimane legata alla membrana: questa parte corrisponde alle code e si chiama
diacil-glicerolo (DAG).

L’IP3 si libera nel citoplasma e costituisce il ligando del canale del calcio; infatti, si lega al recettore
associato al canale del calcio, che si apre e causa una sorta di “esplosione” di concentrazione del calcio:
tutti il calcio viene riversato nel citoplasma. Così come si ha un picco di concentrazione, altrettanto
velocemente il calcio deve ritornare all’interno del reticolo endoplasmatico, perché è tossico per la cellula.
Il tempo in cui si ha questo picco di concentrazione serve ad innescare altre risposte, come la contrazione
muscolare.

Anche il DAG ha una sua attività. Esso attiva una protein-chinasi C (pkc, denominazione enzimatica di una
famiglia) che può:

- operare delle fosforilazioni, attivando degli enzimi,


- innescare un aumento della concentrazione di ioni calcio a livello citoplasmatico.

La via del calcio, quindi, si ramifica in due vie:

- Una via legata all’IP3, che interviene tutte le volte che abbiamo bisogno di una risposta
rapida e poco duratura nel tempo;
- Una via legata al DAG, che interviene tutte le volte che abbiamo bisogno di una risposta
lenta e più duratura nel tempo.

Il recettore legato al canale per il calcio è un recettore regolato chimicamente, perché dipende dall’arrivo
di un ligando, cioè di un composto chimico.

RECETTORI LEGATI A ENZIMI


Questi recettori, quando arriva il ligando, attivano un particolare enzima. Anche nella via dell’cAMP si attiva
un enzima ma non è diretta conseguenza del recettore mentre la via del calcio è il caso specifico di un
recettore che si attiva e a sua volta attiva un enzima.

Per motivi didattici dobbiamo isolare le risposte le une dalle altre ma nelle vie di trasduzione e segnalazione
c’è un’intensa connessione tra le varie risposte, delle volte può capitare, infatti, che sia la via del calcio che
quella dell’cAMP agiscono insieme nella stessa cellula.

28
LA COMUNICAZIONE NEURONALE

Un ultimo tipo di comunicazione è quella neuronale.

Noi abbiamo un sistema nervoso costituito da una fitta rete di neuroni che portano un’informazione. Noi
siamo immersi in un ambiente e il nostro organismo deve poter controllare le variazioni ambientali
(temperatura, pressione, sensazioni tattili). Nel nostro organismo troviamo quindi dislocati una varietà e
quantità di recettori in grado di valutare i cambiamenti ambientali. I recettori devo inviare questo
messaggio di cambiamento al sistema nervoso centrale e, per fare ciò, si servono di una serie di neuroni
posti uno dopo l’altro che portano l’informazione dal recettore al sistema nervoso centrale attraverso le
fibre afferenti. I neuroni costituiscono le fibre afferenti o efferenti:

- i primi trasportano l’informazione dall’esterno all’interno (sistema nervoso centrale),


- i secondi dall’interno all’esterno.

Il SISTEMA NERVOSO CENTRALE è una cabina di regia: arrivata l’informazione, decide se e come effettuare
una risposta, servendosi delle fibre che vanno dal sistema nervoso centrale agli organi che devono eseguire
la risposta.

Un NEURONE è formato da:

- un corpo cellulare, il soma;


- delle piccole estroflessioni, i dendriti;
- un’estroflessione molto più lunga, l’assone,
che prende contatto con il neurone con il quale
vuole comunicare.

Due neuroni che vogliono comunicare prenderanno


un contatto l’uno con l’altro: l’area in cui prendono
contatto si chiama area sinaptica.

Esistono 2 tipi di SINAPSI:

- Elettrica: le membrane presinaptica e postsinaptica sono


adese le une alle altre e ci sono dei canali attraverso i quali i
neuroni possono comunicare direttamente

- Chimica: i due neuroni non sono mai a contatto e c’è uno spazio intersinaptico vuoto. Si
deve quindi innescare un meccanismo che metta in contatto i due neuroni.

29
IL POTENZIALE DI MEMBRANA
La membrana plasmatica, non solo quella neuronale, è
caricata:

- positivamente nella parte che guarda l’esterno


- negativamente nella parte che guarda l’interno.

Abbiamo così un dipolo, una sorta di pila. Come in una


pila si può misurare la DIFFERENZA DI POTENZIALE tra il
polo positivo e quello negativo, anche nel caso della membrana plasmatica si può misurare la differenza di
potenziale tra la parte esterna e la parte interna della cellula che è uguale a -70mV.

Quando si parla di cifre specifiche, ci si aspetta che tutti i casi siano sempre uguali ma ci possono essere
delle eccezioni, dipende dalle circostanze.

Il potenziale di membrana è il risultato dell’omeostasi, ma lo si


raggiunge grazie al movimento di ioni sodio e potassio gestito dalla
pompa sodio-potassio, che porta 3 ioni sodio fuori e 2 ioni potassio
dentro.

Se, tuttavia, fosse solo la pompa sodio/potassio a determinare la


differenza di -70mV, prima o poi tutto il sodio che sta dentro si
troverebbe fuori, quindi manca qualcosa per arrivare al valore di -70mV.

La differenza di potenziale tra l’esterno (+) e l’interno (-) è un valore che


deriva da un movimento di ioni, come sodio, potassio e cloro, tra
interno ed esterno (e viceversa): il potenziale di membrana è un
equilibrio dinamico del movimento di ioni.

Esaminiamo il movimento del sodio. Esso è carico positivamente e si trova più concentrato all’esterno,
mentre sulla membrana ci sono canali passivi (sempre aperti, a differenza di quelli attivi). Attraverso questi
specifici canali, il sodio rientra all’interno della cellula secondo gradiente chimico di concentrazione.
Inoltre, il sodio è carico positivamente, l’esterno della membrana è positivo mentre l’interno è negativo.
Siccome + e + si respingono, mentre + e – si attraggono, oltre che dal gradiente chimico, il sodio è spinto
all’interno della cellula anche dal gradiente elettrico; perciò il gradiente elettrico si aggiunge al gradiente
chimico e spinge il sodio all’interno della cellula. Riassumendo, Le due forze che spingono il sodio in questi
canali e ne permettono l’ingresso nella cellula sono:

- il gradiente di concentrazione (gli ioni si spostano per diffusione semplice)

- il gradiente chimico che deriva dall’attrazione tra lo ione sodio carico positivamente e l’interno della
cellula carico negativamente.

Parliamo quindi di gradiente elettrochimico che, se il sodio fosse da solo, porterebbe ad una differenza di
potenziale di +66mV.

Gradiente chimico + Gradiente elettrico = Gradiente elettrochimico

Gradiente elettrochimico - ddp = +66mV

30
Esaminiamo ora soltanto il potassio. E’ più concentrato all’interno, ha carica positiva e, per poter uscire
dalla cellula, attraversa dei canali passivi specifici sempre aperti. Si muove secondo un grandiente chimico
da interno verso esterno ma, a differenza del sodio, ha il gradiente elettrico che lo trattiene verso l’interno,
perciò questa volta il gradiente chimico è opposto a quello elettrico. Quindi, le due forze che agiscono sul
potassio sono:

- gradiente di concentrazione (gli ioni si spostano per diffusione semplice)

- gradiente chimico che si genera tra lo ione potassio carico positivamente e l’interno della cellula carico
negativamente.

Tuttavia lo ione esce poiché il gradiente chimico ha una forza maggiore del gradiente elettrico. Se lo ione
potassio fosse da solo, il potenziale di membrana sarebbe di -90mV.

Gradiente chimico – Gradiente elettrico = Gradiente elettrochimico

Gradiente elettrochimico – ddp = -90mV

Siccome sodio e potassio lavorano insieme, bisogna considerare vari fattori, tra cui il fatto che la velocità di
uscita del potassio e diversa da quella del sodio, inoltre il numero di canali per il sodio presenti sulla
membrana è diverso dal numero di canali per il potassio; perciò il potenziale complessivo non è la media
aritmetiche dei due potenziali teorici.

Fino ad adesso la comunicazione si è affidata alla presenza di un ligando, mentre la comunicazione tra
neuroni non si affida ad un ligando, bensì si basa sulla modulazione del valore del potenziale di
membrana. Per “modulazione” intendiamo la variazione del valore del potenziale per innescare un
meccanismo di comunicazione. Il potenziale di membrana dei neuroni si chiama potenziale a riposo.

I CANALI DI MEMBRANA
Esistono 2 tipi di canali:

- Canali attivi, dotati di una porta che li mantiene generalmente chiusi non consentendo il
passaggio di ioni, si aprono solo se non necessari grazie a particolari meccanismi
- Canali passivi, sempre aperti e specifici per un determinato ione.

In base al meccanismo di apertura, i canali attivi si dividono in:

- canali attivi regolati chimicamente, cioè


canali ai quali è associato un recettore: se
arriva un ligando, si lega al recettore e il
canale di apre
ES. canale per il calcio che si trova sulla
membrana del reticolo endoplasmatico nella
via di trasduzione del calcio

31
- Canali voltaggio dipendenti, si aprono quando la differenza di potenziale di membrana
raggiunge uno specifico valore per il quale sono tarati.
Ogni canale per uno specifico ione ha il suo valore di
taratura.
ES. canali voltaggio dipendenti per il sodio e canali
voltaggio dipendenti per il potassio.
Il canale voltaggio dipendente per il potassio ha 2
posizioni (aperta e chiusa), mentre quello per il sodio
ha anche la posizione “disattivata” (intermedia). Lo
stato di inattivazione è uno stato intermedio in cui non
è permesso il passaggio di ioni, ma è molto utile per
permettere un’apertura più veloce del canale.

IL MECCANISMO DI COMUNICAZIONE TRA NEURONI


La comunicazione neuronale avviene in 3 fasi:
- POTENZIALE DI RIPOSO: per il neurone è pari al potenziale di membrana ossia -70mV;
- POTENZIALE GRADUATO: non si raggiunge ancora la ddp necessaria per l’innesco della comunicazione;
- POTENZIALE D’AZIONE: viene superata la ddp soglia e la comunicazione viene innescata.
La comunicazione non si innesca a qualsiasi ddp per evitare l’eccessiva stimolazione dei neuroni, ma
necessita di valori specifici.

POTENZIALE A RIPOSO −−→POTENZIALE GRADUATO −−→POTENZIALE D’AZIONE

La comunicazione prende inizio nella base dell’assone.

La comunicazione neuronale deve avvenire tra due neuroni posti uno dopo l’altro in collegamento
attraverso una fibra neuronale.

Ammettiamo che dall’esterno, dai recettori ambientali, sia segnalata una variazione. Questa informazione
deve essere portata al cervello, perciò i recettori sensibili la trasformano in un composto chimico, cioè il
ligando. Il primo canale attivo che viene interessato nell’inizio di una potenziale comunicazione è un canale
regolato chimicamente per il sodio, infatti il ligando si lega al recettore di questo canale.

È fondamentale che a -70 mV, cioè al valore del potenziale di riposo, tutti i canali, sia regolati
chimicamente che voltaggio dipendenti, siano chiusi.

Quando il ligando si lega al recettore del canale per il sodio, il canale si apre e il sodio inizia ad entrare nella
cellula. Questo processo coinvolge la parte iniziale dell’assone, cioè quella più vicina al soma neuronale. A
questo punto il valore di -70mV inizia ad aumentare fino ad un valore soglia di -55mV. Tutta questa fase
prima del valore soglia si chiama potenziale graduato e durante questa fase non si ha alcuna
comunicazione; infatti, il nostro organismo risponde solo a stimoli che fanno raggiungere il valore soglia.

32
Quando, in seguito all’insistenza dello stimolo, il valore raggiunge -55 mV (i valori sono una
generalizzazione valida in media, nella realtà ci sono valori diversi) si genera un potenziale di azione. Il
valore -55mV stabilisce l’avvio della comunicazione, come conseguenza ci sarà l’invio di informazioni al
sistema nervoso centrale e quindi una risposta. Per innescare il potenziale graduato si aprono i canali
voltaggio dipendenti per il sodio, tarati a -55mV.

A -55mV una dose massiccia di sodio inizia ad


entrare nella cellula e ciò comporta uno
stravolgimento: si ha una depolarizzazione
della membrana perché si invertono le cariche,
infatti, la membrana plasmatica diventa
positiva all’interno e negativa all’esterno. A
+35mV i canali voltaggio dipendenti per il sodio
si disattivano (ma non si chiudono);
contemporaneamente si aprono i canali
voltaggio dipendenti per il potassio (tarati a
+35mV).

! A +35 il canale del sodio si disattiva, e non si chiude (posizione intermedia), perché così è in grado di
accogliere lo stimolo successivo senza dover ricominciare da capo l’intero processo. Il canale del potassio
non ha questa necessità.

Dopo l’apertura dei canali voltaggio dipendenti per il potassio, questo fuoriesce dalla cellula e ripristina
rapidamente la polarizzazione. Infatti, si ha una rapida discesa del valore di potenziale, che arriva
addirittura al di sotto di -70 mV. Per un breve periodo arriviamo a -80mV -90mV, per ripristinare subito
dopo la condizione basale di -70 mV.

Tutta questa sequenza di fasi coinvolge un tratto della parte iniziale di un assone. Completato questo ciclo
di fasi, viene coinvolta l’area successiva, dove si innesca nuovamente questo meccanismo; quindi, si genera
un’onda di polarizzazione che, al termine del ciclo, coinvolge il tratto di assone successivo (mentre quello
precedente torna alle condizioni iniziali). C’è un’onda che si sposta dalla parte iniziale vicino al soma via via
verso l’area sinaptica, questo dipende da un coinvolgimento di tutti i canali lungo l’assone, l’apertura e
chiusura di questi canali alterna fasi di depolarizzazione e ripolarizzazione dal soma verso l’area sinaptica
determinando l’onda di depolarizzazione.

LE SINAPSI CHIMICHE
Nell’area sinaptica troviamo un canale voltaggio dipendente per il calcio. Quando arriva l’onda di
depolarizzazione, essa fa aprire questo canale, perciò il calcio entra dentro la cellula. Una determinata
concentrazione di calcio determina specifiche risposte legate al movimento delle proteine.

All’interno dell’assone troviamo fibre proteiche che si estendono dal soma fino all’area presinaptica e che
sono collegate a delle vescicole. Quando aumenta la concentrazione di calcio, le fibre si mettono in
movimento e causano uno spostamento di vescicole che si avvicinano all’area presinaptica e si fondono con
la membrana presinaptica. La fusione con la membrana fa sì che il contenuto di queste vescicole venga
riversato nello spazio intersinaptico. Il contenuto è costituito da composti chiamati neurotrasmettitori.

33
I neurotrasmettitori incontrano la membrana
postsinaptica, dove troviamo tanti recettori
specifici. Il risultato del legame
neurotrasmettitore-recettore fornisce diversi tipi
di risposta, infatti da questo legame:

- L’onda di depolarizzazioni passa al neurone


successivo e la comunicazione continua
- L’onda può arrestarsi e interrompere la
comunicazione.

Passata l’onda di depolarizzazione, i neurotrasmettitori non possono restare nello spazio intersinaptico
perché altrimenti causerebbero una risposta continua, perciò possono essere:

- Degradati con attività enzimatica nello spazio intersinaptico


- Catturati da proteine di trasporto e riportati nello spazio presinaptico, dove possono essere
degradati o reinseriti nelle vescicole, con il meccanismo chiamato reuptake. Questo
meccanismo è un’area della comunicazione importantissima, perché la comunicazione
segue degli schemi logici. Il malfunzionamento in quest’area, per diversi motivi, coinvolge la
stragrande maggioranza dei disturbi psichici; quindi, quasi tutte le malattie dell’area
psicologica e psichiatrica hanno qualche malfunzionamento di quest’area. A seconda di
dove si manifesta un malfunzionamento si manifesta un disturbo.

LA CONDUZIONE SALTATORIA
Ci sono dei neuroni che hanno l’assone rivestito da una GUAINA MIELINICA, che rappresenta una sorta di
isolante e che viene prodotta dalle cellule di Schwann. Laddove c’è la guaina mielinica non si può creare
l’onda di depolarizzazione; perciò, questo rivestimento deve necessariamente presentare delle
discontinuità che danno origine a punti scoperti, chiamati nodi di Ranvier. Nella conduzione saltatoria si
passa da un nodo al successivo. Questo determina un aumento notevole della velocità di comunicazione,
infatti, mentre nell’assone scoperto l’onda deve coinvolgere un tratto più lungo, qui sono coinvolte solo le
aree scoperte.

34
I NEUROTRASMETTITORI
I neurotrasmettitori sono composti chimici di diversa natura e si possono classificare in:

- Neurotrasmettitori A BASSO PESO MOLECOLARE (più comuni):


• Amminoacidi che possono fungere da neurotrasmettitori:
glutammato, glicina, acido gamma-amino-butirrico (GABA);
• Monoammine che sono degli amminoacidi modificati:
catecolammine (dopamina, noradrenalina, adrenalina), indolamine (serotonina);
• Acetilcolina
• Gas solubili: ossido nitrico (NO), monossido di carbonio (CO).
Generalmente, una volta che la conduzione è arrivata nell’area sinaptica, si
liberano dei neurotrasmettitori che si legano poi ai recettori della membrana post-
sinaptica. I neurotrasmettitori allo stato gassoso, invece, si diffondono verso il
neurone pre-sinaptico per regolarne l’attività, andando indietro rispetto alla
direzione della comunicazione: per questo vengono definiti retrogradi.
- Neurotrasmettitori AD ALTO PESO MOLECOLARE:
• Neuropeptidi o neuromodulatori, cioè proteine che modulano la conduzione:
endorfine, sostanza P, neuropeptide Y

I RECETTORI
I recettori possono essere:

- Recettori DI MEMBRANA, posti nell’area di membrana postsinaptica:


• Recettori-canali: sono legati ad un canale il quale, quando arriva il
neurotrasmettitore, si apre e lascia passare uno specifico ione. Questi sono più
generalmente definiti recettori ionotropici.
• Recettori legati alle proteine G: innescano un meccanismo di trasduzione del
segnale nel neurone post-sinaptico. Questi genericamente sono chiamati recettori
metabotropici.
• Recettori con attività tirosin-chinasica: legati all’attività dell’enzima tirosin-chinasi.
• Recettori con attività guanilato-ciclasica: legati all’attività dell’enzima guanilato-
cinasi.
- Recettori INTRACELLULARI
Di solito sono i recettori per gli ormoni steroidei: tiroxina, vitamina A, D, acidi retinoici.
Queste proteine derivano dall’espressione di determinati geni che appartengono ad
un'unica famiglia genica e sono in grado di regolare la trascrizione.

In definitiva, riguardo la comunicazione neuronale, ma in genere tutta la segnalazione cellulare, se una


cellula bersaglio non ha un recettore specifico non può innescare una risposta in funzione di un
determinato segnale. Quindi il tipo di risposta è determinato dal recettore, non dal ligando (la cui
funzione è di scatenare una risposta). Infatti, può verificarsi che uno stesso ligando riconosca recettori
diversi che, dunque, danno risposte diverse.

35
Ad esempio, l’ACETILCOLINA può:

- Legarsi ad un recettore di una cellula miocardica e provocare una riduzione della frequenza
e della forza di contrazione;
- Legarsi ad un recettore di una ghiandola salivare e provocare la secrezione di saliva
- Legarsi ad un recettore di una cellula muscolare scheletrica e provocare la contrazione.

Poiché la risposta ad un segnale dipende dal recettore (e non dl ligando), tutte le molecole che si
combinano con un recettore e innescano la sua attività avvieranno la stessa risposta. Questa proprietà dei
recettori ha portato allo sviluppo di diversi farmaci che, interagendo direttamente con il recettore, causano
lo stesso effetto provocato dal ligando naturale.

Gli agonisti sono sostanze che “mimano” l’attività di un ligando specifico. Gli antagonisti sono sostanze che
si legano al recettore in modo da impedire al ligando naturale di legarsi e attivare il recettore, perciò
inibiscono la risposta.

ES. gli antagonisti degli ormoni sessuali (estrogeni e androgeni) vengono usati nel trattamento dei tumori
ormono-dipendenti di prostata e ghiandola mammaria.

36
IL DNA

DOGMA CENTRALE DELLA BIOLOGIA MOLECOLARE

Dal DNA, andando verso la produzione di proteine, il flusso di informazione è unidirezionale.


L’informazione contenuta nel DNA si trasferisce nella composizione delle proteine, ma dalle proteine non
possiamo sintetizzare il DNA, perché andremmo contro il dogma della biologia. Il DNA è quindi un flusso di
informazioni che viene messo a disposizione dalla cellula perché fornisca la giusta informazione per
sintetizzare una specifica proteina ogni volta che ne sia la necessità. Il DNA ha anche la funzione di
trasferire alle generazioni successive quell’informazione che, quando viene realizzata, determina forma e
funzione della specie. Questa funzione viene realizzata dal DNA attraverso la sua duplicazione.

TRASCRIZIONE TRADUZIONE

DNA RNA PROTEINE


DUPLICAZIONE
Per potersi replicare, ogni organismo vivente deve fornire alla generazione successiva un assetto genico
proprio della sua specie ma deve anche mantenere per sé quella informazione genica, per continuare a
vere e riprodursi. Per questo motivo, ogni evento di riproduzione deve essere preceduto dalla duplicazione
del materiale genetico (DNA).

Le cellule eucariotiche sono divise in:

- Cellule somatiche
- Gameti, specializzati nella riproduzione

il DNA si duplica in tutte le cellule e il meccanismo di duplicazione è legato alla divisione cellulare, ma
l’aspetto importante che permette al DNA, attraverso la sua duplicazione, di trasferire l’informazione alle
generazioni successive è legato esclusivamente ai gameti.

LA STRUTTURA DEL DNA

DNA e RNA, ovvero gli acidi nucleici, sono costituiti da mattoni chiamati NUCLEOTIDI. I nucleotidi hanno:

- una parte con funzione strutturale, cioè lo zucchero


(deossiribosio nel DNA, ribosio nel RNA) e il gruppo fosfato
che permette il legame 5’- 3’ con il nucleotide precedente;
- una parte informazionale data dalla base azotata legata al
carbonio 1’.

Una molecola di DNA è costituita da due emieliche


complementari e antiparallele. La complementarità si basa
sulla possibilità di formare ponti a H tra le basi azotate:

- C e G = 3 ponti
- A e T = 2 ponti

37
La complementarità è determinata anche dal fatto che le due
emieliche hanno una distanza precisa per tutto il filamento di
DNA, mantengono infatti la distanza tra una purina e una
pirimidina.

Quando una purina si incontra con una pirimidina, si


contrappongono gli atomi che sono in grado di instaurare un
ponte a idrogeno, che sono:

- Ossigeno da una parte, idrogeno dall’altra


- Azoto da una parte, idrogeno dall’altra.

Queste sono le condizioni perché due emieliche possano legarsi


secondo la formazione di ponti a idrogeno. Il ponte a idrogeno è
un legame molto debole, ma i numerosissimi ponti a idrogeno
rappresentano insieme la forza necessaria per tenere insieme le
due emieliche. È tuttavia possibile rompere questi ponti per
consentire l’apertura della doppia elica.

LA DUPLICAZIONE DEL DNA

La duplicazione è semi conservativa: a partire da un DNA progenitore, ogni emielica


fungerà da stampo per la sintesi di un nuovo filamento. Ad ogni passaggio di
duplicazione, una emielica originaria viene conservata.

Un cromosoma è DNA avvolto introno a istoni, cioè proteine che hanno la funzione di
impacchettare il DNA. Determinare un livello di compattazione del DNA è necessario
perché, se distendessimo e sfilassimo il DNA, sarebbe lungo circa 2 metri e non
potrebbe essere contenuto all’interno di una cellula.

La duplicazione di DNA coinvolge tutto il DNA e, affinché questo


processo avvenga, la matassa che costituisce il cromosoma deve
essere attacccata da enzimi che, in qualche punto, aprono la
doppia elica. Questi punti di apertura sono le forcelle di duplicazione, vengono
gestiti e realizzati dall’enzima elicasi che rompe i ponti a idrogeno. Quando si forma
la forcella, si attiva la duplicazione in due sensi.

Mano a mano che la forcella si allarga, c’è il rischio che al centro le due emieliche
possano ricongiungersi. Per evitare ciò, intervengono delle proteine chiamate
proteine destabilizzatrici dell’elica (SSB) che si posizionano sulle due emieliche ed
evitano che le due esse si riuniscano.

38
Durante la duplicazione del DNA entra in gioco un pool enzimatico che comprende:

- L’elicasi
- Le topoisomerasi, che possono
essere di due tipi.
Quando le due emieliche
cominciano a separarsi, a valle
della forcella si creano delle
tensioni e dei superavvolgimenti
che bloccherebbero l’apertura.
Per ridurre queste tensioni,
intervengono le topoisomerasi. La
topoisomerasi I effettua un taglio
in una delle due emieliche (non ha bisogno di ATP per funzionare), la topoisomerasi II in
entrambe (ha bisogno di ATP per funzionare). Si tratta di tagli temporanei, non permanenti,
perché poi vengono riuniti.
- DNA primasi
- DNA polimerasi
- Dna polimerasi correttore di bozze
- DNA ligasi

La duplicazione è effettuata in direzione 5’-3’ dalla DNA


polimerasi. La DNA polimerasi è in grado di leggere la
sequenza di basi delle due emieliche stampo e,
contemporaneamente, sintetizzare il nuovo filamento. Poiché le due emieliche sono antiparallele, la DNA
polimerasi dovrà creare una nuova emielica antiparallela a quella del filamento stampo. Sintetizzando il
nuovo filamento in direzione 5’-3’, deve avere capacità di lettura del filamento stampo a partire
dall’estremità 3’-5’.

Tuttavia, la DNA polimerasi non è in grado di sintetizzare un filamento ex novo: ha bisogno di un innesco.
Questo innesco viene sintetizzato dalla DNA primasi, che legge il filamento stampo e sintetizza un breve
tratto di duplicato, il primer. I primer sono piccoli tratti di duplicato che però contengono moltissimi errori,
dal momento che loro la funzione non è quella di essere un duplicato, bensì quella di consentire l’attività
della DNA polimerasi.

Ciò può avvenire perché la DNA primasi è in realtà una RNA polimerasi che non ha bisogno di alcun primer.
Poiché al primer si aggancia l’attività della DNA polimerasi, il primer viene sintetizzato dalla parte 3’ del
filamento stampo.

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Ad ogni bolla di duplicazione si formano due forcelle replicative che scorrono in direzioni opposte rispetto
all’origine aprendo man mano il DNA ma, per facilitare la spiegazione, ne consideriamo una sola.

Nell’emielica con direzione 5’-3’ (a destra nel disegno) la duplicazione avviene continuamente e segue
l’apertura della forcella, poiché il filamento sintetizzato ha la stessa direzione di lavoro dell’elicasi. Questo
filamento si chiama filamento senso e la sua sintesi procede rapidamente.

Nell’altra emielica, con direzione 3’-5’ (a sinistra nel disegno), la sintesi è contraria al verso di apertura della
forcella. Siccome la DNA polimerasi non può tornare indietro, bisogna sintetizzare un nuovo primer per
poter far avanzare la duplicazione. Man mano che la forcella si apre, l’estremità 3’ libera del filamento
lento si allontana sempre di più dal punto di apertura, di conseguenza si viene a formare uno spazio vuoto,
non duplicato e si rende necessaria la sintesi di un nuovo primer affinché la DNA polimerasi possa duplicare
il tratto mancante. Con la prosecuzione dell’apertura della doppia elica, si renderanno necessari molteplici
primer sul filamento lento affinché avvenga la duplicazione dell’intera emielica.

In questo modo sul filamento senso la sintesi risulterà continua mentre sul filamento lento discontinua. In
questo caso, si è descritta la duplicazione di una sola parte del DNA, ricordiamoci che il processo coinvolge
tutto il materiale genetico. Alla fine, si formano 2 DNA e ognuno di questi ha una doppia elica
complementare e antiparallela.

Siccome i primer sono pieni di errori, devono essere poi rimossi da un sistema enzimatico su entrambi i lati.
Sul filamento 3’-5’ la rimozione interessa un unico primer e il filamento duplicato risulta; sul filamento 5’-3’
ne vengono rimossi diversi e il filamento duplicato risulta a tratti. Questi frammenti, che in seguito vengono
riuniti da una DNA ligasi (che fa parte del pool enzimatico), si chiamano frammenti di Okazaki. Questo
influenza la velocità di duplicazione: nel filamento senso, cioè quello la cui duplicazione va secondo
l’apertura della doppia elica, è naturale che la duplicazione sia più veloce; nel filamento lento 5’-3’ si ha una
duplicazione a tratti perché bisogna sintetizzare più primer per consentire l’attività della DNA polimerasi.

LA CORREZIONE DEGLI ERRORI


Durante questo processo non possono esserci errori perché bisogna trasmettere correttamente le
informazioni alle generazioni successive: esiste quindi un complesso sistema per correggere gli errori. La
DNA polimerasi in realtà commette molti errori, per questo interviene la DNA polimerasi correttore di
bozze che segue passo dopo passo la DNA polimerasi e sostituisce le basi azotate errate. Nonostante
questo, una certa percentuale di errori (sotto un livello soglia) permane; tuttavia, questo fenomeno non è
un fatto negativo, infatti, è compatibile con la funzione del DNA e viene considerato un evento utile ai fini
dell’evoluzione.

40
IL CODICE GENETICO

L’informazione che possediamo è data dalla sequenza di basi presente sulle emieliche. Quest’informazione
deve essere trasferita dal nucleo al citoplasma per stabilire la sequenza di amminoacidi di ogni proteina.

Il meccanismo di trasferimento dell’informazione dal nucleo al citoplasma non coinvolge tutto il DNA, ma
solo il gene (tratto di DNA) che fornisce l’informazione per la sintesi di una proteina.

! Il gene dei procarioti è continuo, mentre quello degli eucarioti è discontinuo, cioè non c’è collinearità tra
il gene e la proteina. Nei procarioti, prendendo in considerazione la sequenza di amminoacidi di una data
proteina, è possibile risalire alla relativa sequenza di triplette del gene corrispondente. Al contrario, nei geni
degli eucarioti le sequenze codificanti (esoni) sono alternate a sequenze non codificanti (introni), inoltre
ogni amminoacido può essere codificato da più triplette (ad accezione della metionina e del triptofano,
rispettivamente AUG e UCG).

Il DNA serve a dare informazione alla cellula tutte le volte che la cellula ha bisogno di una specifica
proteina.

Il DNA contiene un progetto, cioè un gene, che


utilizza un linguaggio con un alfabeto di 4 lettere
(4 basi), le proteine invece utilizzano un
linguaggio a 20 lettere (20 amminoacidi): è
come se dovessimo effettuare una traduzione.
Quando gli scienziati hanno scoperto il codice
che relaziona la sequenza di basi e quella di
amminoacidi, sono partiti da ipotesi.

La prime ipotesi era 1 base codificasse per 1


amminoacido, ma così si sarebbero potuti
codificare solo 4 amminoacidi anziché 20. In
secondo luogo, si è pensato ogni amminoacido fosse codificato da una coppia di basi (2 basi=1
amminoacido), ma così si sarebbero codificati 16 amminoacidi.

Alla fine, si è giunti ad affermare che ogni amminoacido è codificato da una


TRIPLETTA DI BASI (3 basi=1 amminoacido). Tuttavia, così facendo,
dovremmo poter codificare 64 amminoacidi anziché solo 60. C’è
un’eccedenza data dal fatto che il codice generico è degenerato; infatti,
uno stesso amminoacido può essere codificato da più triplette.

È bene specificare che quando si parla di RNA messaggero, le triplette


vengono definite codon.

Ogni gene ha l’informazione per codificare una proteina.

41
LA TRASCRIZIONE DEL DNA

Negli eucarioti il DNA è confinato nel nucleo, mentre la sintesi proteica avviene nel citoplasma. Poiché il
DNA non può abbandonare il nucleo, affida la sua informazione all’RNA, che può essere:

- MESSAGGERO, trasferisce l’informazione


- RIBOSOMIALE
- TRANSFER

L’mRNA è la copia di una delle due emileiche e si sintetizza


nella TRASCRIZIONE.

Ci sono delle similitudini tra la trascrizione e la duplicazione.

Una di queste è l’attività enzimatica: nella duplicazione si ha


la DNA polimerasi mentre nella trascrizione svolge questo
ruolo l’RNA polimerasi. La trascrizione avviene con la stessa
direzione di sintesi e lettura della DNA polimerasi; infatti, il filamento stampo (chiamato filamento
negativo) è letto in direzione 5’-3’. Inoltre l’RNA polimerasi lega una guanina quando incontra una citosina,
e viceversa.

Tuttavia, l’RNA polimerasi (a differenza della DNA polimerasi) non ha bisogno di un innesco, perciò può
leggere e trascrivere un’emielica senza il primer. Questo fenomeno richiama l’attività della DNA primasi.
Inoltre, quando la RNA polimerasi legge un’adenina, aggiunge l’uracile anziché la timina.

Una differenza sostanziale è, invece, che la duplicazione coinvolge tutto il DNA mentre la trascrizione
coinvolge solo lo specifico gene per l’informazione che serve a sintetizzare una specifica proteina. Nella
duplicazione del DNA sono presenti le forcelle di duplicazione, mentre nella trascrizione in questa fase
l’RNA polimerasi ha il compito di stabilire quali sono l’inizio e la fine della trascrizione.

RNA POLIMERASI
L’RNA POLIMERASI è una proteina composta, negli eucarioti, da cinque subunità:

- Alfa primo,
- Alfa secondo,
- Beta primo,
- Beta secondo
- Sigma, l’unica in grado di attaccarsi o staccarsi
dall’enzima

Negli eucarioti esistono tre tipi di RNA polimerasi:

1. RNA pol I – trascrive l’rRNA

2. RNA pol II – trascrive l’mRNA

3. RNA pol III – trascrive il tRNA e il 5S rRNA

42
LE FASI DELLA TRASCRIZIONE

Poiché negli eucarioti la trascrizione è selettiva, l’attività di ogni gene è gestita dal PROMOTORE, un
insieme di sequenze specifiche localizzate nell’area che precede un gene. Nel promotore troviamo una
sequenza specifica ricca di adenina e timina, la TATA BOX. In questa sequenza, le due emieliche sono legate
da due ponti a idrogeno, perciò lì è molto più facile aprire la doppia elica. Proprio per questo l’RNA
polimerasi riconosce e si attacca alla TATA BOX, determinando l’inizio della trascrizione.

Aperta la doppia elica, inizia la lettura di una delle due emieliche.

A questo punto è necessario un meccanismo


di fine trascrizione, ma su questo
meccanismo la questione non è molto chiara.
Se secondo l’ipotesi più accreditata, alla fine
del gene troviamo una SEQUENZA
PALINDROMICA che, quando viene trascritta,
genera un loop nell’mRNA. La fine della
trascrizione avviene proprio quando l’RNA
polimerasi incontra questa sequenza, poiché
questo loop viene riconosciuto da un fattore
proteico rho che innesca un meccanismo di
fine trascrizione.

è necessario distinguere queste sequenze dai codoni di stop, che riguardano la traduzione e non della
trascrizione.

Terminata la trascrizione, l’mRNA viene rilasciato.

Con questo meccanismo si trascrivono anche il tRNA e il rRNA.

43
LA MATURAZIONE DEL RNA

Si deve fare una distinzione nella trascrizione che accade nei procarioti e quella che avviene negli eucarioti.

Nei PROCARIOTI, privi di una membrana che delimita il nucleo, man mano che si forma I'mRNA, prima
ancora che finisca la trascrizione, viene sintetizzata allo stesso tempo la proteina; quindi, la trascrizione e la
traduzione sono degli eventi che si sovrappongono.

Negli EUCARIOTI, invece, questo non accade, poiché essendo provvisti di un nucleo contenente il DNA,
l'informazione deve essere portata dal nucleo al citoplasma.

Inoltre, durante la sua vita, la cellula può aver bisogno di proteine diverse in momenti diversi e specifici. Ciò
significa che i vari geni presenti sul DNA non funzionano tutti contemporaneamente: in un momento ci
saranno geni attivi e altri disattivi. Nel caso dei geni attivi, in seguito alla trascrizione e alla traduzione,
avverrà la sintesi della proteina.

Nel caso in cui quella proteina non serve più, il suo gene dovrebbe venire disattivato, ma il suo mRNA
sintetizzato precedentemente si troverebbe ancora nel citoplasma: in questo la traduzione continuerebbe
nonostante la disattivazione del gene. Il controllo dell’attivazione/disattivazione in contemporanea di geni
e dei rispettivi mRNA è indispensabile ma è un meccanismo molto complesso, comporta un dispendio di
ATP e può portare alla presenza di proteine che potrebbero essere nocive.

Per questo, la cellula produce continuamente degli enzimi che controllano la presenza dell’mRNA nel
citoplasma rimuovendo indifferentemente tutti gli mRNA (un esempio di questi enzimi è il sudore). Ci deve
essere un modo, però, per riconoscere l’mRNA che deve essere degradato da quello che servire. È l’mRNA
stesso che deve trovare un modo temporaneo per restare attivato (in quanto utile alla traduzione)
difendersi dagli attacchi degli enzimi e questo processo è chiamato MATURAZIONE DELL’RNA.

L’mRNA ha una struttura filamentosa dotata di polarità 5’-3’. Quando l’mRNA compie il percorso per
trasferirsi dal nucleo al citoplasma esso deve difendersi dall’azione degli enzimi che possono attaccarlo su
entrambe le estremità. Nei procarioti, l’mRNA è strutturalmente uguale ma, se andiamo a vedere un gene
procariote, c’è collinearità tra gene e proteina: il gene è continuo. Negli eucarioti, invece, se prendo una
proteina non riesco a risalire alle triplette del gene, poiché dalla proteina non riesco a risalire anche alle
sequenze non codificanti (introni), poiché essi stono stati rimossi dall’mRNA durante la maturazione. La
maturazione dell’mRNA è quindi un processo che riguarda solo gli eucarioti.

La maturazione comprende:

- Capping
- Metilazione
- Poli-adenilazione, aggiunta di una coda poli A
- Splicing

Ci sono enzimi che attaccano l’RNA dall’estremità 3’ ed enzimi che lo attaccano dal 5’.

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CAPPING
Il CAPPING protegge l’mRNA dall’azione degli enzimi che attaccano l’estremità 5’. Il termine capping viene
tradotto in maniera erronea con “incappucciamento”, mentre in realtà significa “protezione”. Questa
protezione avviene confondendo l’enzima, cioè facendo sembrare l’estremità 5’ un’estremità 3’, attraverso
l’aggiunta di una guanosina trifosfato girata. La guanosina è un nucleotide che si lega in direzione 5’-3’; in
questo caso, invece, la guanosina viene rovesciata: l’ultima base dell’estremità 5’ del mRNA stabilisce un
legame 5’-5’. I nucleotidi sono legati tra loro con un legame fosfodiesterico che impegna un gruppo fosfato.
In questo caso, siccome la guanosina utilizzata è una guanosina-3-fosfata (GTP), tutti e tre i gruppi fosfati
vengono conservati, in aggiunta all’altro gruppo fosfato in posizione 5’ del mRNA; dunque, questo
rovesciamento della
guanosina aggiunta,
determina il
cambiamento
dell’estremità 5’ in
estremità 3’. Gli RNAsi,
cioè gli enzimi che
degradano l’mRNA dalla
parte del 5’, non ne
riconoscono più
l’estremità.

METILAZIONE
Segue poi una METILAZIONE cioè l’aggiunta di gruppi CH3 nelle prime tre basi. La combinazione di capping
e metilazione processi rappresenta una “blindatura” dell’estremità 5’.

POLI-ADENILAZIONE
A questo punto, resta da proteggere l’estremità 3’. Se, però, effettuiamo la stessa operazione sul 3’, è vero
che abbiamo un’estrema protezione di questo mRNA, ma è anche vero che, una volta terminato il suo
compito, sarà impossibile degradare questo mRNA. Dunque, sull’estremità 3’ si effettua una “protezione a
tempo”: entriamo nella fase di POLI-ADENILAZIONE.

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Definita come “aggiunta di una coda Poli-A”, vuol dire che
dalla parte del 3’ si aggiunge una lunga coda di adenine.
L’ultima adenina del 3’ esporrà, ovviamente, un 3’; ciò
implica che l’enzima che attacca questa adenina riconosce la
sua estremità 3’ e comincia a rimuoverne un’adenina alla
volta. Così facendo, quando avrà rimosso l’ultima adenina,
tutto il filamento di mRNA codificante inizierà ad essere
degradato. Tuttavia, per rimuovere questa catena di
adenina una per volta, ci vuole del tempo: questo tempo è
quello sufficiente a far sì che l’informazione portata
dall’mRNA sia tradotta.

SPLICING
Mentre le fasi descritte precedentemente sono processi di protezione, l’ultima fase riguarda la maturazione
dell’mRNA e prende il nome di SPLICING.

Poiché l’mRNA di un eucariote è un trascritto fedele di una delle due emieliche del gene di DNA, esso
contiene sia il trascritto degli introni che degli esoni. Tuttavia, come sappiamo, solo gli esoni danno
informazioni per codificare le proteine; quindi, l’mRNA deve essere in qualche modo rimodellato per dare
una sequenza continua di informazioni: lo splicing consiste nella rimozione degli introni e nella
conservazione della sequenza esonica.

Esiste anche la possibilità di alternare la sequenza, cioè di modificare l’ordine degli esoni: questo tipo di
produzione di un RNA alternativo prende il nome di “splicing alternativo”.

Questo processo di maturazione riguarda gli mRNA e ha come risultato finale una sequenza di codon.

Anche il tRNA e l’rRNA vengono maturati.

Gli TRNA, che hanno una struttura a trifoglio e sono di un numero pari a quello degli amminoacidi, vengono
trascritti 2-3 alla volta e il loro processo di maturazione consiste nel tagliare ogni singolo tRNA per
separarli. Inoltre, durante la maturazione avviene l’aggiunta della tripletta CCA comune a tutti i tRNA sul
terminale 3’.

Anche i RRNA vengono trascritti tutti insieme e la loro maturazione consiste nel ritagliare i singoli rRNA.

46
LA TRADUZIONE DELL’MRNA

Mentre durante la duplicazione e la trascrizione del DNA c’è un meccanismo di correzione degli errori,
durante la traduzione questo meccanismo non c’è: nella sintesi proteica, se si commette un errore, questo
non è riparabile. Quindi, si sviluppa un importante processo di controllo, perché un errore qui potrebbe
essere la causa di patologie (es: emoglobinopatie, dove un singolo amminoacido viene modificato). Molti
antibiotici rompono il legame codone-anticodone per impedire il corretto posizionamento
dell’amminoacido.

Esistono poi dei fattori che coadiuvano la traduzione (fattori di inizio, di elongazione, di termine, ecc.),
grazie ai quali non si commettono errori durante le varie fasi.

LA STRUTTURA D LLE PROTEINE


Le proteine sono polimeri di AMMINOACIDI che si susseguono secondo una sequenza dettata dal gene
corrispondente. Gli amminoacidi sono legati tra di loro attraverso il legame peptidico. Ad eccezione della
prolina, i 20 amminoacidi che si ritrovano come costituenti delle proteine sono degli L-α-amminoacidi.
Presentano cioè una porzione comune, identica a tutti,
contenente due gruppi funzionali:

- Un gruppo amminico -NH2,


- Un gruppo carbossilico -COOH.

A questa porzione comune sono legati:

- Un H
- Una catena carboniosa, cioè il radicale -R.

Siccome questi gruppi funzionali sono una costante in tutti gli amminoacidi, la variabilità dipende dal tipo e
dalla lunghezza della catena carboniosa -R. L’amminoacido è il “mattoncino” alla base di una proteina.
Quanti ce ne devono essere è, ovviamente, deciso dal gene, così come la loro sequenza. È evidente che in
una proteina non devono esserci necessariamente tutti i venti amminoacidi e un amminoacido può essere
rappresentato più volte. I venti amminoacidi sono il “magazzino” da cui attingere i componenti delle
proteine, decisi sempre dai geni.

I vari amminoacidi sono uniti tra di loro a formare la


proteina mediante un legame peptidico. Il legame
peptidico è un legame covalente che avviene tra l’azoto
del gruppo -NH2 di un amminoacido e il carbonio del
gruppo -COOH dell’altro amminoacido, con
l’eliminazione di una molecola di H2O: l’OH viene
fornito dal gruppo carbossilico di un amminoacido,
mentre l’H è fornito dal gruppo amminico dell’altro
amminoacido. Ovviamente, per fare questo legame, c’è
bisogno di energia. La particolarità di questo legame è
che si realizza in un ambiente fortemente idrofobico
(proprio perché comporta l’eliminazione di una
molecola d’acqua).

47
LA STRUTTURA DEI RIBOSOMI
I dispositivi che permettono la sintesi proteica a partire dalla sequenza di codon dell’mRNA sono i
RIBOSOMI. Quando vediamo dei ribosomi (definibili tali) al microscopio, vuol dire che si sta realizzando
una sintesi proteica; altrimenti, troviamo tutte le varie subunità sparse e separate nel citoplasma, a formare
il pool ribosomiale. I ribosomi, di fatto, non sono veri e propri organuli, ma macro-enzimi. Infatti, quando si
verifica l’assemblaggio, l’ambiente al loro interno è fortemente idrofobico e ciò rappresenta la condizione
ideale per la formazione del legame peptidico.

I ribosomi sono costituiti da un insieme di rRNA e proteine specifiche che vanno a costituire:

- La subunità maggiore
- La subunità minore

che si uniscono solo quando il ribosoma è in funzione.

I ribosomi vengono classificati con l’unità Svedberg: essa stabilisce la posizione che queste strutture
raggiungono in un’ultracentrifuga a gradiente di concentrazione.

Nei PROCARIOTI, il ribosoma assemblato è di 70S:

- La subunità maggiore è di 50S, è formata dagli rRNA 5S e 23S associati a 34 proteine;


- la subunità minore è di 30S, è formata dall’rRNA 16S in associazione con 21 proteine.

Negli EUCARIOTI, il ribosoma assemblato è di 80S:

- La subunità maggiore è di 60S, è formata


dagli rRNA 5S e 5,8S associati a 45 proteine;
- la subunità minore è di 40S, è formata
dall’rRNA 18S in associazione con 33
proteine.

Quando si assemblano le due subunità, si formano 3


cavità/siti all’interno del ribosoma:

- Sito E
- Sito P
- Sito A

LA TRADUZIONE DELL’MRNA

La SINTESI PROTEICA richiede energia e può essere divisa in due fasi:

- Fase ATP dipendente, o fase di attivazione dell’amminoacido;


- Fase GTP dipendente, o fase di formazione dei legami peptidici.

Le due fasi non sono consequenziali, possono avvenire anche contemporaneamente e hanno obiettivi
diversi: la fase ATP-dipendente provvede ad attivare l’amminoacido, mentre nella fase GTP-dipendente si
formano i vari legami peptidici.

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LA FASE ATP DIPENDENTE
Nella FASE ATP DIPENDENTE si ha il legame tra il tRNA e lo specifico amminoacido, che in questo modo si
attiva. L’amminoacido si lega al terminale 3’, cioè all’adenina della sequenza comune CCA che viene
aggiunta a tutti i tRNA durante la maturazione. L’enzima che opera questo legame tra l’amminoacido e il
tRNA è una ligasi: l’amminoacil-tRNA-ligasi.

All’estremità opposta del tRNA troviamo un’ansa (in verde) chiamata ansa dell’anticodon, che mette in
evidenza una tripletta complementare al codon che si trova sull’mRNA. Il legame tra le due triplette
complementari permette il legame tra tRNA e rRNA e ciò determina che tipo di amminoacido dovrà legare
all’estremità 3’. Si attribuisce all’amminoacil-tRNA-sintetasi il
compito di garantire il preciso rapporto tra il codon e
l’amminoacido trasportato.

Questa operazione richiede energia che si libera per idrolisi


dell’ATP. In realtà si tratta quasi di un’energia in eccesso (che
verrà poi sfruttata nelle fasi successive): l’energia liberata
dall’idrolisi viene intrappolata nel legame estereo tra
l’adenina del tRNA e l’amminoacido, ma è superiore rispetto
alla quota richiesta per la “normale” formazione del legame.

La fase ATP dipendente è anche detta fase di attivazione


dell’amminoacido: ogni amminoacido viene legato al proprio
specifico t-RNA. Quest’ultimo trasporta l’amminoacido.

LA FASE GTP DIPENDENTE


La FASE GTP DIPENDENTE viene a sua volta divisa in:

- Fase di inizio
- Fase di elongazione, in cui distinguiamo:
• adattamento
• transpeptidazione, in cui si forma il legame peptidico
• translocazione

Ogni volta che si completa la fase di elongazione, si aggiunge un amminoacido e si


ripete il ciclo di adattamento, transpeptidazione e translocazione.

- Fase di termine

1) FASE DI INIZIO

L’mRNA, anche al termine del processo di maturazione, contiene la copia del gene da tradurre ma non è
esattamente la sua copia, infatti è leggermente più grande (per via delle molecole aggiunte durante la
maturazione). Occorre quindi individuare il codon di inizio traduzione. Sia per procarioti sia per gli
eucarioti, il codon d’inizio è il codon AUG, che può trovarsi più volte lungo lo stesso filamento di mRNA.

49
Negli eucarioti, il codon d’inizio è il primo codon AUG che
si incontra leggendo a partire dall’estremità 5’ verso il 3’:
questo AUG codifica la metionina. Nei procarioti invece
la traduzione è avviata dal codon AUG che codifica una
metionina modificata, la formil-metionina, e che non è
necessariamente il primo AUG che si incontra nella
lettura del filamento.

Individuato il punto da cui iniziare la traduzione, arriva la subunità minore del ribosoma che si posiziona
perfettamente occupando il codon di inizio e il codon adiacente, rispettivamente posizionati nel sito P e nel
sito A. Se questa subunità non si posiziona
esattamente in corrispondenza dei due codon,
tutta la cornice di lettura sarà sbagliata. I fattori
di inizio controllano che questo posizionamento
sia perfetto, mentre l’energia necessaria viene
fornita dal GTP. Arriva poi la subunità maggiore
che si unisce alla minore per formare il ribosoma
propriamente detto. Quando arriva la subunità
maggiore, finisce la fase di inizio e si passa alla
fase di adattamento.

2) FASE DI ELONGAZIONE

- ADATTAMENTO: Il sito E è vuoto, il sito P


contiene il codon che codifica la metionina e
nel sito A si espone il secondo codon. Nella
fase di adattamento avviene il
riconoscimento del codon successivo che si
trova localizzato nel sito A. Arriva quindi un
tRNA che riconoscerà per complementarità il
secondo codon e vi si lega, portando con sé
uno specifico amminoacido.

- TRANSPEPTIDAZIONE: passa quindi alla


traspeptidazione, che porta alla formazione
del legame peptidico tra i due amminoacidi.
Affinchè si formi questo legame peptidico,
occorre fornire energia ma in tal caso non
intervengono né il GTP né l’ATP. Il legame tra
tRNA e amminoacido, infatti, è altamente
energetico; perciò, è proprio la rottura di
questo legame a fornire l’energia necessaria
per formare il legame peptidico tra i due
amminoacidi.

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I vari tRNA differiscono per grandezza ma, per consentire la formazione del legame
peptidico, devono far sì che gli amminoacidi da essi trasportati si trovino alla stessa altezza.
Per questo hanno un’ansa (in giallo nella figura) che è più o meno variabile per alzare o
abbassare il tRNA, in modo da portarlo allo stesso livello del tRNA adiacente.
Il primo tRNA è quindi ora scarico (senza amminoacido): viene trasferito dal sito P al sito E
e, da qui, viene espulso. Nel sito A, invece, abbiamo un tRNA che porta due amminoacidi.
Termina così la transpeptidazione.

- TRANSLOCAZIONE: Avviene la
translocazione del ribosoma, che avanza di un
codon e fa sì che il tRNA che porta due
amminoacidi si trovi sul sito P. Abbiamo quindi
il sito A libero, pronto ad accogliere un nuovo
tRNA: la fase di translocazione coincide quindi
alla fase di adattamente del ciclo successivo.

2) FASE DI TERMINE

Quando nel sito A arriva uno dei tre codon di stop (UAA, UAG e UGA), la fase di elongazione si conclude,
poiché a questi codon non corrisponde alcun RNA transfer. Quando ciò accade, intervengono dei fattori di
termine che liberano la proteina sintetizzata e disassemblano il ribosoma nelle sue subunità.

Le due subunità o iniziano da capo la sintesi a partire dal codon AUG dello stesso filamento di mRNA
oppure vanno a costituire il pool ribosomiale, cioè l’insieme di tutte le subunità inattive che verranno poi
riutilizzate.

Solitamente si verifica il secondo evento, in quanto non è necessario che uno stesso ribosoma ripeta la
sintesi di un filamento di mRNA. Più facilmente infatti, si verifica che lo stesso mRNA viene letto
contemporaneamente da più ribosomi, aventi tutti la stessa velocità di lettura (ci sarebbero altrimenti dei
“tamponamenti”). Questa soluzione ha un vantaggio quantitativo, perché rende la traduzione più
efficiente, sintetizzando in tempo minore una maggiore
quantità di proteina necessaria alla cellula.

Inoltre, ha anche un valore di controllo sulla correttezza della


struttura della proteina. Infatti, l’RNA è un filamento che
viene sottoposto alle correnti citoplasmatiche e, se fosse letto
da un solo ribosoma, per effetto di queste correnti potrebbe
ripiegarsi a formare delle anse. Un ribosoma, durante la
lettura dell’mRNA, in corrispondenza delle anse rischierebbe
di non seguire correttamente la linea del filamento ma
salterebbe delle parti ed escluderebbe dalla sintesi della
proteina un tratto di filamento, sintetizzando una proteina

51
sbagliata. Per questo, l’intervento di più ribosomi assicura di mantenere adeguatamente disteso il
filamento RNA messaggero.

IL DESTINO POST-SINTETICO DELLE PROTEINE

Una volta che è stata sintetizzata, la proteina non è ancora funzionante perché deve assumere la sua
struttura, inoltre deve essere fosforilata. C’è quindi una serie di eventi successivi alla traduzione che
permettono alla proteina di raggiungere le condizioni necessarie a svolgere la propria funzione.

Dal reticolo endoplasmatico si dipartono delle vescicole che


vanno a finire sull’apparato del Golgi, da cui si formano altre
vescicole che si fondono con la membrana cellulare. Questo
spostamento può essere considerato anche come un mezzo di
trasporto, perché se inseriamo nelle vescicole un qualsiasi
composto, quando la vescicola va a fondersi con la membrana
plasmatica potrebbe riversare il proprio contenuto fuori dalla
cellula. Le vescicole, inoltre, fondendosi con la membrana
plasmatica, contribuiscono anche all’accrescimento della membrana stessa che deve seguire la crescita
cellulare. Questo meccanismo, chiamato flusso di membrana, quindi:

- Rappresenta un mezzo di trasporto


- Contribuisce all’accrescimento della membrana in funzione della crescita cellulare.

Una volta sintetizzate le proteine, in base a ciò che stabilisce il DNA, queste possono avere due destini.
Alcune proteine servono direttamente alla cellula, quindi la cellula stessa dovrà assicurarsi che la proteina
rimanga al suo interno. Altre proteine hanno invece il compito di abbandonare le cellule in quanto svolgono
la loro funzione all’esterno, come quelle facenti parte del secreto delle cellule ghiandolari, oppure le
proteine di membrana che (nonostante rimangano a contatto con la cellula) non si troveranno più tra le
componenti intracellulari. Quindi ci deve essere un sistema che stabilisca, ancora prima che la proteina
venga sintetizzata, se questa deve rimanere nella cellula o abbandonarla.

Analizziamo una proteina che si sta sintetizzando.

Se la proteina è destinata a restare all’interno della cellula ad uso di questa, non interviene alcun fattore.

Se però, già a livello del DNA, è stato stabilito che il suo destino è quello di abbandonare la cellula, la
proteina segue un percorso diverso. Il destino della cellula è quindi stabilito già dal DNA, infatti la sequenza
dei primi amminoacidi rappresenta una sequenza segnaletica, che viene riconosciuta da uno specifico
recettore. Sul reticolo endoplasmatico troviamo quindi un recettore, al quale è legato una
ribonucleoproteina, la particella SRP (particella di riconoscimento del segnale). Non appena viene tradotta
la sequenza segnale, mentre è ancora in corso la traduzione del resto della catena, la particella SRP si stacca
dal recettore e si lega alla sequenza segnaletica.

52
Il legame tra SRP e sequenza segnaletica determina il blocco della sintesi proteica. Il complesso formato da
ribosoma, mRNA, tratto di proteina sintetizzato e SRP vaga nel citoplasma seguendo le correnti
citoplasmatiche.

Ad un certo punto, questo va a collidere nuovamente con la parete del reticolo endoplasmatico, dove si
trova una proteina di ancoraggio. Questa lega il ribosoma, lo ancora alla membrana e fa staccare la SRP
dalla sequenza segnaletica, facendola tornare al recettore. Il distacco della SRP fa ricominciare la sintesi
proteica, ma così la proteina è costretta ad entrare nel lume del reticolo endoplasmatico attraversando un
canale grazie alla proteina di ancoraggio. Tuttavia, questo canale può essere sia di uscita sia di entrata
perciò, una volta che è entrata nel reticolo endoplasmatico, la proteina assume la struttura terziaria:
questa ha la funzione di impedire che la proteina fuoriesca dal canale da cui è entrata.

Questa proteina viene inglobata in una vescicola e portata nell’apparato del Golgi, dove a sua volta viene
inglobata in una vescicola e portata nella membrana cellulare, con cui si fonde, per essere poi riversata
fuori dalla cellula.

Se si tratta di una proteina di membrana che guarda la parte esterna della cellula, segue lo stesso processo
ma, quando viene inglobata nella vescicola, si lega alla membrana della vescicola stessa.

Questo è il percorso compiuto dalle proteine destinate ad abbandonare la cellula.

LA GLICOSILAZIONE
Questo meccanismo viene utilizzato anche per sintetizzare le GLICOPROTEINE. Le glicoproteine sono
proteine alle quali è stato aggiunto un albero oligosaccaridico, ovvero un insieme di monosaccaridi. Il
processo di sintesi delle glicoproteine prende il nome di GLICOSILAZIONE (da non confondere con la
glicolisi) e consiste nell’aggiunta di un albero oligosaccaridico ad una proteina.

Dopo essere stata sintetizzata, la proteina segue lo stesso percorso delle proteine destinate ad
abbandonare la cellula (legame con la SRP, legame con la proteina di ancoraggio, ingresso nel reticolo
endoplasmatico). Una volta che entra nel reticolo, essa assume la struttura terziaria, a cui si andrà a legare
l’albero oligosaccaridico.

L’albero oligosaccaridico viene precostituito su un lipide di membrana (fosfolipide), il dolicol-fosfato. Il


dolicol-fosfato è un fosfolipide che ha due lunghissime catene di acidi grassi e grazie a questa particolare
lunghezza è in grado di oscillare nel lume del reticolo endoplasmatico.

Al dolicol-fosfato vengono aggiunti un monosaccaride alla volta e, grazie alla sua oscillazione, questo albero
oligosaccaridico viene aggiunto in blocco alla proteina, legandosi all’amminoacido asparagina: si forma così
una glicoproteina che, inglobata in una vesciola, va verso l’apparato del Golgi. L’aggiunta dell’albero

53
oligosaccaridico viene fatta mentre si sta ancora realizzando la traduzione, perciò viene definita
GLICOSILAZIONE CO-TRADUZIONALE e avviene nel reticolo endoplasmatico.

Nell’apparato del Golgi l’albero oligosaccaridico viene modificato: alcuni monosaccaridi vengono eliminati,
altri vengono aggiunti. L’aggiunta di monosaccaridi può essere considerata come una sorta di seconda
glicosilazione. Questa però si differenzia dalla precedente perché è POST-TRADUZIONALE; infatti, la sintesi
proteica è già avvenuta.

Le due glicosilazioni avvengono sulla stessa proteina!

Ottenuta la glicoproteina definitiva, questa viene inglobata in una vescicola che va a fondersi con la
membrana, la quale riverserà il contenuto all’esterno.

Ci sono però anche molte glicoproteine di membrana, ed anche in questo caso è necessario prevedere
dall’inizio quale glicoproteina dovrà rimanere legata alla membrana e quale potrà lasciare la cellula. Ciò
avviene già a livello della glicosilazione post-traduzionale:

- se la glicoproteina deve rimanere legata alla membrana plasmatica (rivolta verso l‘esterno),
allora verrà inglobata nella membrana della vescicola che la trasporta dall’apparato del
Golgi in modo che, quando la vescicola si fonderà con la membrana plasmatica, la
glicoproteina rimarrà nella membrana stessa;
- se la glicoproteina deve essere libera di lasciare la cellula, allora non sarà legata alla
membrana della vescicola.

54
LA DIVISIONE CELLULARE
Un ORGANISMO VIVENTE è definito tale se dotato di un acido nucleico. Dal punto di vista del corredo
cromosomico, gli organismi viventi possono essere:

- Aploidi
- Diploidi

Il corredo aploide è caratteristico della specie e viene indicato come n, nel corredo diploide esso è ripetuto
due volte (2n).

Gli organismi possono essere distinti in:

- Pluricellulari
- Unicellulari

Gli organismi pluricellulari sono più complessi degli unicellulari. Un organismo pluricellulare adulto è infatti
costituito da un numero esorbitante di cellule diverse che, tuttavia, derivano tutte da un’unica cellula
comune formatasi dopo la fecondazione: lo zigote, da cui si è sviluppato l’embrione. Questa cellula, per
diventare un organismo pluricellulare, deve seguire un meccanismo che comprende:

- Differenziazione: le cellule devono differenziarsi e specializzarsi per andare a costituire i


diversi tessuti, organi, appartai, ecc.
- Sincronia della replicazione cellulare
- Riproduzione dell’organismo

In un organismo cellulare possiamo distinguere:

- Le cellule somatiche, cioè le cellule che portano con sé il corredo cromosomico al fine di
conservare le informazioni necessarie a far funzionare l’organismo (ad esempio
garantiscono che ciascun organo svolga la funzione per cui si è sviluppato);
- I gameti, cioè le cellule che portano con sé il corredo cromosomico al fine di trasferirlo alle
generazioni successive, e sono perciò deputate alla riproduzione.
-

IL DNA

Negli eucarioti, il DNA è confinato nel nucleo. Tuttavia, per la


sua estrema lunghezza (circa 2m), ha bisogno di un meccanismo
che consenta di impacchettarlo e contenerlo nel nucleo. Questo
meccanismo di impacchettamento può essere realizzato grazie
a delle proteine basiche, gli ISTONI.

Gli istoni sono le proteine più conservate dal punto di vista


evolutivo. Proprio per questa caratteristica, i geni per gli istoni, in particolare per l’istone H4, sono tra quelli
più utilizzati nelle analisi filogenetiche. Un istone completo è paragonabile ad un rocchetto che deve essere
assemblato affinché il DNA possa avvolgersi attorno ad esso. Esistono infatti diversi tipi di istoni che devono
legarsi insieme:

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- L’ Istone H3 e l’istone H4 che si assemblano
formando il dimero H3-H4;
due di questi dimeri si assemblano a formare il
TETRAMERO H3-H4.
- L’istone H2A e l’istone H2B si assemblano
formando il dimero H2A-H2B;
due di questi dimeri si assemblano a formare il
TETRAMERO H2A-H2B.
- I due tetrameri si mettono insieme e si
forma l’OTTAMERO ISTONICO.
- Esiste poi l’istone H1, chiamato anche istone linker. Esso ha una funzione specifica, infatti
fa in modo di mantenere saldo il DNA che si è avvolto all’ottamero in modo tale che non si
sfili.

A partire dalla doppia elica del DNA, l’intervento degli gli istoni determina un
primo livello di organizzazione e avvolgimento del DNA attorno ad essi. Si parte
da un semplice avvolgimento a doppia elica, per poi trovarne di sempre più
complessi e compatti, fino a raggiungere la struttura del cromosoma (da ogni
molecola di DNA otteniamo un cromosoma).

Strutturalmente, il cromosoma è formato da due cromatidi fratelli uniti in


un’area chiamata centromero. Il centromero può trovarsi alle estremità o al
centro del cromosoma, differenziando i vari tipi di cromosoma che possiamo
osservare in un cariotipo. Al livello del centromero si trova un punto di attacco
per i microtubuli, il cinetocore.

IL CARIOTIPO UMANO

Quando si osservano gli organismi dal punto di vista cromosomico, si possono distinguere quelli aploidi e
quelli diploidi. I diploidi non sono necessariamente quelli costituiti da 46 cromosomi; infatti, in natura
esistono organismi che hanno un numero diverso di cromosomi pur essendo diploidi. Pertanto, gli
organismi diploidi sono quelli il cui corredo aploide, caratteristico della specie, è rappresentato due volte.

Il corredo aploide caratteristico della specie umana è di 23 cromosomi; quindi, la nostra diploidia si esprime
in 46 CROMOSOMI. Di queste 23 coppie di cromosomi, 22 coppie sono di autosomi a cui se ne aggiunge
una di cromosomi sessuali. I cromosomi sessuali differenziano i due generi, possono essere cromosomi X o
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Y. Nel sesso femminile la combinazione è XX, in quello maschile
è XY. I cromosomi sono numerati dall’1 al 22 e sono
rappresentati in forma di omologhi. Il fatto che siano omologhi
significa che in corrispondenza di un locus genico di un
cromosoma e del suo omologo si trova lo stesso gene o una
sua forma alternativa.

Un organismo pluricellulare adulto è costituito da un


determinato numero di cellule differenti che, però, hanno
avuto tutte origine dalla stessa cellula iniziale a partire dalla
fecondazione. Esiste quindi un meccanismo che duplica e
specializza le varie cellule, ovvero un ciclo vitale chiamato
CICLO CELLULARE. Il ciclo cellulare rappresenta una sequenza
ciclica di fasi che ha lo scopo di far sì che la divisione di una cellula somatica madre dia origine a due cellule
figlie.

IL CICLO CELLULARE – INTERFASE E MITOSI

La cellula somatica madre è diploide ed ha 46 cromosomi: è fondamentale che anche le due cellule figlie
conservino lo stesso corredo cromosomico. Ma com’è possibile ottenere due cellule figlie diploidi con 46
cromosomi ciascuna a partire da una sola cellula madre con 46 cromosomi? Questo fenomeno è possibile
grazie alla struttura morfologica del cromosoma. All’inizio della mitosi (cioè della divisione cellulare vera e
propria) ognuno dei 46 cromosomi della cellula madre è formato da due cromatidi: si parla si cromosomi
bicromatidici. Al termine della divisione otterremo quindi due cellule figlie, ciascuna contente 46
cromosomi a singolo cromatidio. Il meccanismo che porta alla divisione dei cromosomi bicromatidici della
cellula madre nei cromosomi monocromatidici delle cellule figlie prende il nome di mitosi. Anche le cellule
figlie, dotate di 46 cromosomi monocromatidici, andranno poi incontro a mitosi. Affinché ciò avvenga senza
perdita di patrimonio genico, dovrà prima esserci una fase S, nella quale si ricostituisce il cromatidio
mancante: così facendo, le cellule figlie avranno a loro volta 46 cromosomi a doppio cromatidio e potranno
effettuare la divisione. Attraverso questo meccanismo, tutte le cellule potranno avere lo stesso corredo
cromosomico di 46 cromosomi, contenenti la stessa informazione.

Non è possibile ottenere due cellule figlie aventi 23 cromosomi a doppio cromatidio ciascuna, perché così
facendo ad esse mancherebbe metà dell’informazione della cellula madre: non sarebbero più diploidi.

Nel ciclo cellulare distinguiamo:

- Un’interfase
- Una fase di mitosi

L’INTERFASE contiene a sua volta:

- Fase G1, in cui la cellula si prepara


ad affrontare la fase S;
- Fase S, in cui avviene la
duplicazione del DNA;
- Fase G2, in cui la cellula si prepara ad affrontare la mitosi.

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La MITOSI viene rappresentata come composta da varie fasi, ma in realtà non esiste un confine preciso tra
queste (anche se ogni fase è caratterizzata da una serie di trasformazioni). Distinguiamo:

- Profase
- Metafase
- Anafase
- Telofase
+ Citodieresi – non è la quinta fase della mitosi, può essere considerata una fase finale della
telofase dove il citoplasma viene separato.

La metafase è l’unica fase in cui si possono osservare al microscopio i cromosomi, denominati appunto
cromosomi metafasici. Questo perché durante la mitosi, il DNA subisce processi di spiralizzazione e
despiralizzazione.

L’obiettivo della mitosi è di separare la cellula madre in due cellule figlie e garantire che ciascuna cellula
abbia un corredo cromosomico diploide uguale a quello della cellula madre.

In profase la membrana nucleare non è più visibile e i centrioli, organuli costituiti da microtubuli, iniziano a
migrare verso i poli della cellula. Dai centrioli si dipartono dei microtubuli che vanno a costituire le fibre del
fuso mitotico. Alcune di queste collegano i due centrioli, altre si ancorano alla zona centromerica di ogni
cromosoma.

Nella metafase i cromosomi, grazie alla tensione del fuso, si dispongono sul piano equatoriale, equidistanti
dai poli della cellula.

Nell’anafase le fibre del fuso iniziano a ritrarsi e, per via dell’ancoraggio ai centromeri, i due cromatidi dello
stesso cromosoma vengono staccati e migrano verso i due poli opposti.

Nella telofase si ricostituiscono le membrane nucleari (con i rispettivi nuclei) e, sulla membrana plasmatica,
inizia a crearsi un solco, che determina poi la divisione in due cellule figlie. Nella citodieresi, infine, avviene
la divisione del citoplasma e la separazione delle due cellule figlie.

L’obiettivo del ciclo cellulare è:

- L’accrescimento dei tessuti


- Il rinnovo delle cellule

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Se analizziamo il ciclo cellulare:

- dopo la mitosi e per tutta la G1, ogni


cellula ha un corredo diploide con 46
cromosomi a singolo cromatidio (46
cromatidi).
- alla fine della fase S e per tutta la G2,
la cellula ha un corredo diploide con
46 cromosomi a doppio cromatidio
(92 cromatidi).

Tutte le nostre cellule somatiche hanno un loro ciclo cellulare. Tuttavia, ci sono alcune eccezioni, infatti:

- alcune cellule, come i neuroni e i leucociti, dopo un certo numero di divisioni (cioè dopo
che si è formato un certo numero di queste cellule)
escono dal ciclo cellulare ed entrano in Gz, uno
stadio che può essere considerato la fine della loro
esistenza: avendo interrotto le divisioni, se queste
cellule vengono perse, non possono essere più
rigenerate.
Rita Levi di Montalcini vinse il Nobel per aver
trovato un fattore di crescita che consentiva in
laboratorio di riattivare il ciclo cellulare dei neuroni ma questa teoria non è mai stata
applicata ed è rimasta una questione di laboratorio
- alcune cellule, come le cellule epatiche, sospendono il ciclo cellulare ed entrano in G0,
ovvero in uno stato di quiescenza. Esse possono riprendere il ciclo cellulare, rientrando in
G1, in presenza di particolari stimoli.

LA MEIOSI

La molecola di DNA ha due compiti:

- Rendere disponibile un’informazione ad uso della cellula, attraverso la trascrizione;


- Garantire il trasferimento delle informazioni alle generazioni successive.

Il ciclo cellulare riguarda le cellule somatiche, infatti la duplicazione del DNA non ha l’obiettivo di trasferire
l’informazione genica alle generazioni successive. La trasmissione del patrimonio genico alle generazioni
successive è propria solo dei GAMETI, ovvero gli spermatozoi e le cellule uovo.

Inizialmente, i gameti sono cellule indifferenziate che si dividono per mitosi. Tuttavia, dopo un certo
numero di divisioni, al termine della fase S della duplicazione del DNA, escono dal ciclo cellulare (mitosi) ed
entrano in MEIOSI. Il passaggio dal ciclo cellulare alla meiosi avviene al termine della fase S, cioè quando

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ciascun gamete ha un corredo diploide con 46 cromosomi a doppio cromatidio. La meiosi è costituita da 2
meiosi (divisioni):

- MEIOSI I, riduzionale: da una cellula diploide 2n si


ottengono 2 cellule aploidi n
- MEIOSI II, equazionale: da due cellule aploidi n si
ottengono 4 cellule aploidi n.

La meiosi ha due obiettivi:

- Dimezzare il corredo cromosomico, non casualmente, ma passando da un corredo diploide


ad uno aploide. Infatti, quando si ha la fecondazione, si ha la messa in comune del
patrimonio genico; quindi, è necessario dimezzare il corredo, altrimenti la cellula fecondata
avrebbe un corredo tetraploide.
- Garantire una variabilità genica, cioè un rimescolamento non programmato che coinvolge
due cromosomi omologhi. Esso ha una valenza in termini di sopravvivenza ed evoluzione.
Se varia la sequenza (non dei loci ma) degli alleli, abbiamo una diversa espressione dei geni.

Questi due obiettivi vengono raggiunti nella meiosi I, mentre nella meiosi II la cellula ricalca in parte ciò che
accade nella mitosi. Infatti, a partire da un corredo aploide, le cellule che si formano hanno tutte un
corredo aploide, inoltre c’è la stessa denominazione delle fasi.

La PROFASE I è la fase che occupa la maggior parte del tempo della prima divisione e in essa si realizzano
entrambi gli obiettivi. Viene divisa in:

- Leptotene
- Zigotene
- Pachitene
- Diplotene
- Diacinesi

Nella profase I i centrioli si spostano verso i poli della cellula. A differenza della profase mitotica, in questo
caso, prima che i cromosomi si dispongano sul piano equatoriale grazie al fuso meiotico, avviene
l’appaiamento dei cromosomi omologhi, con formazione di tetradi. L’appaiamento degli omologhi
permette lo scambio di frammenti cromosomici tra cromosomi omologhi e un cambiamento nell’ordine
degli alleli: questo fenomeno prende il nome di avviene
il CROSSING OVER (molto più frequente nei cromosomi
più grandi, crome il cromosoma 1). Un avvenuto
crossing over si determina anche visivamente al
microscopio, infatti in prossimità dei punti in cui si è
verificato possiamo trovare delle strutture
caratteristiche chiamate chiasmi.

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Dopo la formazione delle tetradi, e l’eventuale crossingover, la cellula entra in METAFASE e le fibre del fuso
dispongono le tetradi sul piano equatoriale.

Mentre nella mitosi i microtubuli del fuso, ritraendosi, distaccano i cromatidi di ogni cromosoma, qui si
inseriscono nei centromeri e determinano il distacco dei cromosomi nell’ambito della tetrade. Infatti le
fibre provenienti da uno stesso polo si attaccano ad entrambi i cromatidi fratelli, mentre nella mitosi si
attaccano ad un solo cromatidio. Come risultato avremo quindi due cellule contenenti un corredo aploide.
La formazione delle tetradi permette che nessuna cellula manchi di informazioni, ma assicura che ci sia
un’equa divisione del materiale genico.

Si passa successivamente alla SECONDA MEIOSI, senza alcuna interfase. La meiosi II segue le stesse
denominazioni di fase. Nella seconda divisione avviene la separazione dei cromatidi, in modo da conservare
il corredo aploide e per fare sì che tutte le cellule abbiano l’informazione della cellula di partenza. Ogni
cellula avrà quindi 23 cromosomi a singolo cromatidio.

Tale immagine della meiosi, per essere precisi, fa riferimento alla meiosi maschile in quanto, alla fine delle
due divisioni, si otterranno 4 cellule figlie con corredo aploide di cromosomi a singolo cromatidio. Ciò non
accade nella meiosi femminile che si configura come processo leggermente più complesso. In tale
processo, già dallo sviluppo embrionale, le cellule che avranno il destino di diventare cellule uovo si
dividono per un certo numero di volte per poi interrompersi e portare a maturazione solo una cellula alla
volta secondo un ciclo mensile.

Nell’uomo, invece, i gameti vengono prodotti continuamente in quanto tale processo meiotico è sempre
attivo.

Attraverso due differenti processi, quindi:

- da una meiosi maschile otteniamo 4 spermatozoi


- da una meiosi femminile otteniamo una cellula uovo.
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Considerando gli esseri umani: ipotizzando la presenza di uno spermatozoo (corredo aploide di cromosomi)
e di una cellula uovo (corredo aploide di spermatozoi), se avviene la fecondazione, lo spermatozoo,
prendendo contatto con la cellula uovo, inserisce in essa solo il corredo cromosomico “n” che, assieme al
corredo “n” della cellula uovo, porterà alla formazione dello zigote (prodotto della fecondazione con un
corredo “2n”). Nello zigote è presente un corredo diploide di cromosomi a singolo cromatidio. Lo zigote
dovrà poi iniziare un nuovo ciclo cellulare composto da una serie di divisioni mitotiche fino al
raggiungimento della fase in cui tutte le cellule ormai si saranno divise e lo zigote si sarà trasformato in una
struttura formata da numerose cellule detta morula. Va però precisato che tali divisioni mitotiche hanno
una particolarità: le 2 cellule figlie che si otterranno da ogni divisione non si distaccheranno. La morula è
infatti composta da una serie di cellule tutte unite tra loro. Successivamente la morula passerà per vari
processi di maturazione, differenziazione e specializzazione.

Quindi il ciclo cellulare è quel processo che dà l’avvio alla formazione di un embrione.

Lo zigote, avendo un corredo cromosomico diploide ma a singolo cromatidio, prima di poter rientrare in un
nuovo ciclo cellulare, dovrà prima passare per una “fase S” in modo tale da ottenere un corredo diploide a
doppio cromatidio, potendo così svolgere tale processo di divisione.

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REGOLAZIONE DELL’ESPRESSIONE GENICA
In un contesto di ciclo cellulare, in ogni momento della vita della cellula, alcuni geni funzionano, altri sono
spenti. Ci deve essere quindi un meccanismo in grado di accendere e spegnere i vari geni a seconda delle
necessità della cellula. Alcuni geni codificano proteine, altri tRNA, altri rRNA, altri codificano proteine che
non hanno una funzionalità cellulare ma servono a regolare la trascrizione di altri geni. In ogni caso, tutti
questi geni devono essere controllati nella loro espressione.

La REGOLAZIONE DELL’ESPRESSIONE GENICA è differente tra eucarioti e procarioti:

- Negli eucarioti, l’espressione di ogni gene è regolata dalla sequenza del PROMOTORE
(anche se ci sono alcuni casi dove più geni sono controllati da un unico promotore, ma sono
rarissimi casi).
- Nei procarioti più geni che appartengono allo stesso meccanismo metabolico sono
controllati da un UNICO PROMOTORE: questa struttura si chiama operone.

I PROCARIOTI E GLI OPERONI

Nei procarioti c’è un promotore che controlla più geni, questi vengono trascritti in un’unica molecola di
mRNA che darà informazioni per le rispettive proteine in formazione. Una struttura così fatta, ossia con più
geni controllati da un unico promotore si chiama OPERONE. Ci sono due tipi di operone:

- OPERONI INDUCIBILI: generalmente inattivi, in quanto controllati da un repressore che


disattiva il gene. Essi si attivano in presenza di uno specifico substrato. Tra questi operoni
troviamo gli operoni catabolici, cioè che regolano l’attività di geni che portano alla sintesi
di enzimi coinvolti nel catabolismo, ossia nella degradazione dei composti.
Se la via è catabolica significa che l’attività di questi geni, oltre a determinare specifici
prodotti, libera anche energia.
- OPERONI REPRIMIBILI: generalmente attivi, vengono disattivati solo in presenza di uno
specifico substrato. In questo caso non c’è solo un’accensione o uno spegnimento del gene;
infatti, l’operone può anche modulare l’efficienza dell’espressione genica interagendo con
il prodotto stesso della via metabolica in cui è coinvolto (una sorta di regolazione a
feedback). Gli operoni reprimibili sono definiti anche operoni anabolici, infatti regolano
l’attività di geni che portano alla sintesi di enzimi coinvolti nell’anabolismo, ossia nella
sintesi dei composti

GLI OPERONI INDUCIBILI


Un OPERONE INDUCIBILE è costituito da più geni, definiti geni strutturali. Essi codificano enzimi, sono
adiacenti l’uno all’altro e la RNA polimerasi si sposta da un gene strutturale al successivo trascrivendo in un
singolo mRNA. Questo mRNA verrà tradotto in distinti polipeptidi che rappresentavo i vari enzimi.

Questi tre geni strutturali sono preceduti e regolati da un unico promotore.

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Tra il promotore e i geni strutturali troviamo una sequenza specifica, definita operatore, che costituisce il
sito di legame del repressore. Nella parte distale del promotore, troviamo poi un’altra sequenza specifica
che, a sua volta, è dotata di un piccolo promotore: si chiama sequenza regolatore. Questa sequenza è
continuamente trascritta e codifica per una proteina definita repressore.

Questi meccanismi di regolazione genica furono scoperti dopo i primi studi condotti sul batterio dell’E. Coli,
in particolare sulla sua capacità di utilizzare il lattosio come fonte energetica alternativa. Questa
caratteristica è determinata dall’OPERONE LATTOSIO / LAC OPERON, che è stato il primo operone
inducibile studiato. Questo operone è generalmente inattivo ma, se il batterio si trova in un ambiente
carente di glucosio ma ricco di lattosio, il lac operon viene attivato dal lattosio stesso che funge da
substrato.

Normalmente il metabolismo batterico richiede glucosio per poter estrarre energia. Quindi, quando il
batterio si trova in un terreno di coltura in cui c’è glucosio, il lac operon è spento, perché il repressore si va
a legare sulla sequenza operatore.

Quando il batterio si trova in un terreno di coltura carente di glucosio ma che presenta una certa
disponibilità di lattosio, il batterio cerca fonti energetiche alternative per poter sopravvivere: il lac operon si
accende, permettendo di sfruttare proprio il lattosio. Il lattosio, infatti, è un disaccaride composto da
galattosio e glucosio; perciò, viene sfruttato dal lac operon per isolare e utilizzare la molecola di glucosio di
cui è costituito.

Normalmente, quando c’è disponibilità di


glucosio, il repressore è legato all’operatore.
Questo legame fa sì che si stabilizzi al livello del
DNA una struttura a croce. Una struttura a croce
stabilizzata a livello dell’operatore impedisce il
passaggio della RNA polimerasi. La RNA
polimerasi, infatti, individua sempre e comunque
il promotore e tenta di aprire la doppia elica per
avviare la trascrizione.

Se c’è disponibilità di lattosio e manca il glucosio, il lattosio entra (in piccola concentrazione) nella cellula e
un suo isomero, l’allo-lattosio, interferisce con la proteina repressore. L’allo-lattosio modifica la struttura
del repressore che, essendo una proteina, cambiando forma perde la propria funzionalità. Il repressore,
infatti, non riesce più a riconoscere e legarsi alla sequenza del promotore, permettendo l’azione della RNA
polimerasi. Si ha così trascrizione, sullo stesso mRNA, di tre geni che codificano per tre enzimi specifici:

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- LAC Z, che codifica la β-galattosidasi
- LAC Y, che codifica la permeasi
- LAC A, che codifica la transacetilasi.

La β-galattosidasi e la transacetilasi staccano una


molecola di glucosio dal lattosio, la permeasi
invece influenza la permeabilità della membrana in
funzione del lattosio: più lattosio entra, più lattosio
fa entrare nella membrana (feedback positivo).
Questo processo di scissione del lattosio deve
avere un’altissima efficienza e deve essere molto
veloce in quanto si tratta di un meccanismo indispensabile alla sopravvivenza del batterio.

Un punto cruciale che influenza l’efficienza del processo è la velocità con cui l’RNA polimerasi riconosce il
promotore. L’RNA polimerasi, infatti, ha una dimensione molto maggiore rispetto al promotore e questa
differenza può rendere il riconoscimento più complesso e soggetto ad errori. Esiste quindi un meccanismo
aggiuntivo e momentaneo che facilita questo riconoscimento, aumentando la velocità di trascrizione.
Questa agevolazione è determinata da una
particolare sequenza di DNA, chiamata SITO
CAP, posta vicino al regolatore. Il sito CAP viene
riconosciuto dalla PROTEINA CAP. Nel caso in
cui c’è carenza di glucosio e disponibilità di
lattosio, la proteina CAP si lega al sito CAP,
attivando un meccanismo che facilita l’ingresso
della RNA polimerasi sul promotore e che
permette la trascrizione dei tre geni strutturali
sullo stesso mRNA.

GLI OPERONI REPRIMIBILI


Gli OPERONI REPRIMIBILI sono sempre attivi e questi geni possono essere accesi, spenti e funzionare a
livelli diversi di efficienza. Hanno una struttura simile a quella degli operoni inducibili; infatti sono costituiti
da più geni strutturali regolati dallo stesso promotore, vicino cui possiamo riconoscere un operatore e una
sequenza regolatore. In questo caso però, il repressore codificato dalla sequenza regolatore è inattivo, non
funziona.

Un esempio di operone reprimibile è L’OPERONE PER IL TRIPTOFANO. Il triptofano è un amminoacido


essenziale alla cellula per la sintesi delle proteine. Normalmente, i livelli di triptofano sono bassi, quindi il
repressore è inattivo e l’operone è funzionante, consentendo la trascrizione dei 5 geni strutturali che lo
costituiscono. Questi vengono trascritti in un unico mRNA che, quando viene tradotto, sintetizza una serie
di enzimi che intervengono nella via biosintetica del triptofano.

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Avviata così la sintesi del triptofano, succederà che la concentrazione di questo amminoacido aumenterà
fino a un certo livello. Quando la concentrazione del triptofano raggiunge livelli troppo alti, questo
amminoacido inizia ad accumularsi (poiché in eccesso) e la sua sintesi comporta un inutile spreco di
energia. Il triptofano stesso, avendo superato il livello soglia, interagisce con la proteina repressore e la
attiva.

Quando la proteina repressore è attiva, si va a


legare con l’operatore e l’RNA polimerasi viene
bloccata e dunque i geni strutturali non saranno
più trascritti. Dopo di ciò, la concentrazione di
triptofano inizierà ad abbassarsi: al di sotto di un
valore soglia, la proteina repressore si disattiva
per cui vengono di nuovo trascritti questi geni.

Quest’attività di accensione e spegnimento è un’attività di modulazione, infatti l’operone del triptofano


non viene mai spento completamente, bensì subisce una graduale regolazione dell’efficienza della sua
espressione, “funzionando” di più o di meno a seconda delle necessità della cellula.

ESPRESSIONE GENICA NEGLI EUCARIOT I

La regolazione dell’espressione genica non consiste solo nell’attivazione e disattivazione di un gene. Infatti,
anche quando il gene è in funzione e viene trascritto, ha diversi punti di regolazione grazie a meccanismi di
controllo che si attivano prima, durante e dopo la traduzione. Un primo meccanismo di controllo, ad
esempio, è rappresentato già dalla maturazione dell’mRN. Analizzando i geni eucariotici, essi non sono
raggruppati in operoni (salvo qualche rara eccezione), infatti ogni gene ha il proprio promotore. A seconda
della posizione e della funzione, i geni eucariotici sono classificabili in:

- GENI COSTITUITIVI o HOUSE-KEEPING: codificano enzimi necessari per tutte le cellule,


indipendentemente dal tipo cellulare; perciò, sono sempre attivi
- GENI INDUCIBILI: funzionano solo in risposta a specifici stimoli
- GENI TEMPORALI: funzionano solo per un determinato periodo del ciclo vitale
dell’organismo
- GENI TESSUTO-SPECIFICI: funzionano solo in determinati tessuti.

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Negli eucarioti, la regolazione dell’espressione genica ha inizio con il controllo della trascrizione. Questo
controllo viene operato dai fattori di trascrizione, cioè proteine che contribuiscono affinché la trascrizione
vada avanti con precisione ed esattezza. Se la cellula commette un errore nella fase di trascrizione,
quell’errore potrebbe trasmettersi anche alle generazioni successive, perciò i meccanismi di controllo sono
importantissimi.

LE SEQUENZE UPE
Sul promotore di un gene eucariotico troviamo la TATA BOX, ovvero la sequenza di attacco della RNA
polimerasi. Inoltre, a monte del promotore, troviamo anche brevi sequenze specifiche, definite UPE
(elementi a monte del promotore). Questi elementi sono molto distanziati dall’inizio della trascrizione del
gene strutturale e si trovano vicino al promotore, ma fanno parte di questo. Per ciascun gene, possiamo
trovare una o più sequenze UPE. Esse non determinando l’attivazione o l’inibizione della trascrizione del
gene, bensì influenzano il livello di trascrizione: aumentando il numero di sequenze UPE presenti, la
trascrizione del gene diventa molto più efficiente. Il gene, infatti, presenta una certa gradualità di
espressione (determinata da queste sequenze UPE); i casi “estremi” di questa gradualità sono la sua
attivazione e la sua disattivazione. Le sequenze UPE sono quindi meccanismi che modulano l’attività del
gene (non lo attivano/disattivano).

GLI ENHANCER E I SILENCER


Gli ENHANCER sono degli intensificatori, cioè proteine regolatrici che amplificano la trascrizione del gene, e
dunque esercitano un controllo su quest’ultimo. Gli enhancer:

- non sono direttamente inseriti nel sito di trascrizione; infatti, si possono trovare anche
molto distanti dal gene stesso;
- genericamente si trovano a monte del promotore, ma non si esclude la loro presenza a
valle;
- aumentano la velocità di trascrizione e non l’efficienza (regolata dalle sequenze UPE).

I SILENCER sono invece proteine regolatrici che inibiscono la trascrizione del gene.

Gli Enhancer o Silencer sono proteine regolatrici, mentre gli UPE sono sequenze regolatrici.
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I FATTORI DI TRASCRIZIONE
I fattori di trascrizione sono delle PROTEINE. Ci sono diverse modalità di interazione tra queste proteine e il
DNA. La modalità con cui avviene l’interazione con il filamento di DNA dipende dalla particolare struttura
della proteina, ne sono degli esempi:

- il motivo helix-turn-helix: questa struttura presente rende il


fattore di trascrizione idoneo a prendere contatto con una
sequenza di DNA e legarsi con essa

- la struttura a dita di zinco: lo zinco è capace


di stabilizzare una struttura che ricorda delle
dita e così interagisce con la sequenza di DNA

- la struttura a cerniera di leucina

Quando abbiamo la trascrizione del gene di un eucariote, sul sito di trascrizione si assemblano diverse
proteine, tra cui i fattori di trascrizione, che favoriscono l’inizio della trascrizione e ne aumentano la
velocità.

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LE MUTAZIONI GENICHE
Una MUTAZIONE è una qualsiasi modificazione della sequenza del gene, indipendentemente dal risultato
che produce. Una mutazione produce un cambiamento della sequenza degli amminoacidi e potrebbe
portare ad un meccanismo evolutivo, se questa mutazione offre un vantaggio all’organismo e, per effetto
della selezione naturale, viene trasferita da generazione a generazione. Tuttavia, spesso modificare un solo
amminoacido all’interno di una proteina può determinare l’insorgenza di patologie.

Le mutazioni sono di molti tipi. Aldilà di fattori ambientali esterni che sono molteplici (es. radiazioni
ultraviolette che generano sul DNA dimeri di timina) consideriamo invece mutazioni che insorgono nella
cellula stessa durante il suo ciclo vitale, come mutazioni che insorgono nella duplicazione, causate da
meccanismi di lettura sfalsata dell’emielica.

LA TAUTOMERIA
Uno dei motivi per cui la DNA polimerasi sbaglia la lettura è la TAUTOMERIA, che può essere:

- CHETO-ENOLICA
- AMMINO-IMMINICA

La tautomeria è una mutazione per cui le basi azotate si appaiano senza seguire le regole di Watson e
Crick.

Secondo l’appaiamento di Watson e Crick, la basi si appaiano C-G e A-T, in modo da poter realizzare ponti a
idrogeno tra H e N o O. La TIMINA, per esempio, presenta un doppio legame con l’ossigeno in forma
chetonica, in quanto questo doppio legame si trova nel mezzo della molecola. Questa è la condizione
corretta che permette la formazione di due ponti a idrogeno con l’adenina.

In condizioni diverse, talvolta anche spontaneamente (quando abbiamo dei composti ciclici dove sono
presenti dei doppi legami tra i vari carboni, possiamo avere infatti delle forme di risonanza) si può passare
da una forma chetonica ad una forma enolica, trasformando il gruppo chetonico in un gruppo enolico.

Il doppio legame, caratterizzante il chetone, che si trova tra il C4 e l’ossigeno (in alto a destra
nell’immagine), si trasferisce tra il C4 e l’azoto. Contemporaneamente, l’idrogeno legato all’azoto passa a
legarsi all’ossigeno poiché, togliendo il doppio legame all’ossigeno, questo deve compensare formando un
nuovo legame (questa volta con un idrogeno).

Così facendo la timina ha creato 3 siti in cui è possibile


instaurare un ponte a idrogeno perciò, quando c’è la
composizione enolica, si creano le condizioni affinché la
timina formi un legame ad idrogeno con la guanina anziché
con l’adenina. Infatti, il gruppo OH non permette un
legame a idrogeno con l’adenina. L’RNA polimerasi
commette quindi un errore nell’appaiamento delle basi.

Anche il correttore di bozze può lasciar passare di


cambiamenti che tuttavia, se restano sotto un certo livello di soglia, possono non comportare danni
all’organismo.

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L’ESTRAZIONE DI ENERGIA
L’estrazione dell’energia da parte delle cellule è una necessità dettata dal secondo principio della
termodinamica: tutti gli organismi viventi devono adottare degli espedienti per procurarsi energia. Ci
saranno delle fasi in cui questa energia verrà estratta e altri in cui verrà immagazzinata.

Quando si parla di estrazione di energia si fa riferimento a quei meccanismi che la cellula utilizza per
SINTETIZZARE ATP : sintetizzare ATP significa impacchettare energia.

Come abbiamo già visto nella catena alimentare, l’energia solare viene catturata dagli organismi autotrofi
attraverso la FOTOSINTESI CLOROFILLIANA e viene convertita in glucosio, il quale a sua volta verrà
immagazzinato sotto forma di amido e/o cellulosa. In questa maniera gli autotrofi rendono disponibile
l’energia derivante dal sole a tutti gli organismi poiché questa è contenuta all’interno dei legami della
cellulosa: i consumatori primari (o erbivori) che hanno bisogno di questa energia dovranno estrarla
attraverso la rottura di tali legami per mezzo di enzimi specifici. Gli altri organismi che non hanno questo
enzima utilizzano invece l’energia del glucosio contenuta nell’amido attraverso l’alimentazione
(consumatori secondari di primo e secondo ordine, e così via).

Alla fine di questo processo, che sia fotosintesi o alimentazione, ogni cellula avrà disponibilità di una serie
di composti, tra i quali il glucosio.

La degradazione completa del glucosio è espressa da questa reazione:

𝐶6 𝐻12 𝑂6 + 6𝑂2 → 6𝐶𝑂2 + 6𝐻2 𝑂 + 𝐴𝑇𝑃

Si tratta di una reazione generica che riassume tutto il processo di degradazione. Questa reazione, nella
realtà, potrebbe avvenire in un unico passaggio ma avrebbe una efficienza di estrazione energetica molto
bassa. Si è sviluppato pertanto un meccanismo di degradazione che procede a tappe.

Distinguiamo delle fasi:

- la glicolisi: il glucosio viene degradato ad ACIDO PIRUVICO. La glicolisi avviene nel


citoplasma cellulare, perché gli enzimi che operano la glicolisi si trovano nel citoplasma.
Una volta che, dopo una serie di tappe, il glucosio è trasformato in acido piruvico, questo
contiene ancora gran parte dell’energia iniziale (pertanto anche questo deve essere
degradato).
- Il ciclo di Krebs: La seconda fase consiste nella degradazione dell’acido piruvico che avviene
nei mitocondri secondo un ciclo di trasformazioni che si chiama ciclo di Krebs. Esiste quindi
una sorta di filo conduttore tra glicolisi e ciclo di Krebs. Una volta che una molecola di acido
piruvico è stata degradata nel ciclo di Krebs, dal glucosio iniziale si saranno ottenute 6
molecole di H2O e 6 di CO2.
- Alla fine di questi due processi di degradazione, l’efficienza di estrazione non è molto
esaltante poiché non è stata immagazzinata molta energia. L’energia prodotta però non è
andata perduta, infatti ci sarà un’ulteriore fase (non consequenziale alla glicolisi e al ciclo di
Krebs) che prevede la sintesi della maggior parte delle molecole: la CATENA DI TRASPORTO
DEGLI ELETTRONI, che avviene sempre nei mitocondri.

70
Tutto questo percorso catabolico che ha il fine di ottenere molecole di ATP dalla degradazione del glucosio
è la RESPIRAZIONE CELLULARE.

Se andassimo ad analizzare questa sequenza di reazioni in un contesto di catabolismo e anabolismo


cellulare, sarebbe impossibile immaginare che queste siano isolate a sé stanti. Ci saranno infatti altre
reazioni che intervengono e si accavallano al processo di respirazione cellulare, inserendo i loro prodotti a
livelli diversi della glicolisi.

LA GLICOLISI

La glicolisi si divide in due fasi:

1. FASE DI INVESTIMENTO ENERGETICO: è la fase di preparazione alla fase successiva


2. FASE DI ESTRAZIONE DI ENERGIA: è la fase responsabile dell’estrazione e dell’immagazzinamento
energetico.

FASE DI INVESTIMENTO ENERGETICO


In questa fase, la cellula adotta una strategia finalizzata ad ottenere la massima efficienza di estrazione.
Esistono in natura dei composti che tra di loro possono essere isomeri, per esempio glucosio e fruttosio.
Due composti che derivano dalla scissione di un composto iniziale, possono essere isomeri tra di loro solo
se il composto iniziale possiede una simmetria interna nella struttura.

Il vantaggio di avere due isomeri è che se, attraverso l’enzima isomerasi, trasformo l’uno nell’altro avrò
come risultato due molecole identiche. Ad esempio, se trasformo una molecola B in C, alla fine dell’azione
della isomerasi avrò due molecole C completamente uguali, il tutto senza alcun dispendio energetico.

La finalità della fase di investimento energetico, quindi, è quella di ottenere dal glucosio due composti
isomeri tra loro:

- la gliceraldeide-3-fosfato
- il diidrossiacetone fosfato.

Prendendo una molecola di glucosio e facendo passare su di essa, in qualsiasi direzione, un piano, non si
otterrà mai una simmetria interna.

Questa è la motivazione per cui il glucosio dovrà essere modificato. In questa modificazione avviene un
meccanismo contrario all’obiettivo che si era prefissato la cellula infatti, nonostante l’intero processo sia
volto alla produzione di ATP, in questa fase verrà investita energia.

L’energia viene spesa per fosforilare il carbonio 6 (fuori dall’anello) del glucosio. Si ottiene il glucosio 6-
fosfato. Questo processo richiede 1 ATP.

Il problema però persiste perché non c’è ancora simmetria nella molecola: pertanto, per non consumare
ulteriore energia, il glucosio 6-fosfato viene convertito nel suo isomero, il fruttosio 6-fosfato (infatti
glucosio e fruttosio 6-fosfato possiedono stessa formula bruta ma diversa formula di struttura).

71
Se si fa passare un piano per l’ossigeno, si ottiene una sorta di simmetria, ancora imperfetta. Affinché sia
perfetta, si deve fosforilare il carbonio 1, anch’esso fuori l’anello. Anche questa fosforilazione porterà al
consumo di 1 ATP e porterà alla formazione del fruttosio 1,6-difosfato.

A questo punto è stato raggiunto l’obiettivo di ottenere una molecola quasi simmetrica. Dividendo la
molecola, infatti, si otterranno:

- la gliceraldeide 3-fosfato
- il diidrossiacetone fosfato.

La fase successiva di estrazione dell’energia consisterà nella trasformazione del diidrossiacetone fosfato in
gliceraldeide 3-fosfato, attraverso l’isomerasi e senza dispendio energetico. Quindi tutta la fase di
estrazione dell’energia sarà doppia, perché si parte da due molecole di gliceraldeide 3-fosfato.

Durante la fase di investimento, la glicolisi ha speso 2 ATP ma, come vedremo più avanti, il bilancio finale
sarà diverso.

FASE DI ESTRAZIONE DELL’ENERGIA


In questa fase avvengono una serie di trasformazioni:

- nella prima si realizza una ossidoriduzione: la gliceraldeide-3-fosfato diventa gliceraldeide-


1,3-difosfoglicerato. Essendo un’ossidoriduzione, questa reazione che libera energia, che
però non è sufficiente per formare ATP. È un’energia che verrebbe perduta se non
esistessero delle molecole capaci di catturarla e trasportarla, in questo caso 2 NAD+ che si
riducono a 2 NADH.
- Nella seconda trasformazione, in cui la gliceraldeide-1,3-difosfoglicertao diventa 3-
fosfoglicerato si realizza una reazione che sintetizza 2 molecole di ATP, andando a
pareggiare il precedente bilancio.
- L’ultima trasformazione, che trasforma il fosfoenol-piruvato in piruvato, porta alla
formazione di acido piruvico e sintetizza 2 molecole di ATP.

In totale, la glicolisi produce 4 molecole di ATP che però andranno a controbilanciarsi alle 2 molecole di ATP
consumate durante i processi di fosforilazione del glucosio. Il bilancio finale sarà quindi di:

- 2 ATP
- 2 NADH (che conterranno ancora gran parte dell’energia iniziale)
- 2 molecole di acido piruvico.

L’acido piruvico dovrebbe essere degradato nei mitocondri, più precisamente nel ciclo di Krebs. Esso però
non riesce ad entrare nel ciclo (il quale avviene nella matrice mitocondriale). Quindi esiste una fase di
collegamento tra la glicolisi e il ciclo di Krebs, in cui l’acido piruvico deve subire una trasformazione.

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DECARBOSSILAZIONE DELL’ACIDO PIRUVICO

Il passaggio che permette l’ingresso del piruvato nel ciclo di Krebs è la decarbossilazione: in questo
processo il piruvato viene decarbossilato, ossia viene rimossa una molecola di CO2.

Ciò che rimane è un acetile, al quale viene aggiunto il coenzima A, ottenendo l’ACETIL COENZIMA A, il quale
entrerà nel ciclo di Krebs (che avviene nella matrice mitocondriale). Questa ossidoriduzione libera energia,
permettendo la sintesi di 2 molecole di NADH.

CICLO DI KREBS

L’acetil coenzima A entra nel ciclo di Krebs, all’interno del quale si avranno una serie di reazioni cicliche:
l’acetil Co-A reagirà con vari composti fino a raggiungere nuovamente il composto di partenza, ovvero
l’acido ossalacetico. L’acido ossalacetico, reagendo con l’acetil coenzima A, darà vita all’acido citrico.

Questa è la motivazione per cui il ciclo di krebs viene anche chiamato ciclo dell’acido citrico o degli acidi
tricarbossilici.

I passaggi da mettere in evidenza sono:

- Acetil Co-A + acido ossalacetico → acido citrico


- Isocitrato → α-chetoglutarato: si liberano 2 NADH;
- α-chetoglutarato → Succinil-CoA: si liberano 2 NADH;
- Succinil-CoA → Succinato: si libera energia sufficiente per sintetizzare 2 ATP, ma si formano
2 GTP, e non ATP (in questo specifico caso possiamo considerare il GTP come se fosse ATP
in termini di bilancio energetico);
- Succinato → Fumarato: si liberano 2 FADH2;
- Fumarato → Malato;
- Malato → Ossalacetato: si liberano 2 NADH.

Il ciclo verrà poi ripetuto.

Osservando complessivamente tutte le reazioni della respirazione cellulare, abbiamo:

- 4 ATP (2 del ciclo di Krebs, 2 della glicolisi)


- 10 NADH (2 della glicolisi, 2 della β carbossilazione ossidativa, 6 del ciclo di Krebs)
- 2 FADH2

In totale abbiamo la produzione di 4 molecole di ATP, che possono sembrare poche rispetto al complesso
sistema di reazioni messo in atto, ma in realtà bisogna considerare anche la produzione di NADH e FADH2
che trasportano energia.

Quindi ci sarà qualche altro meccanismo che utilizzerà l’energia trasportata dal FADH2 e dal NADH per
produrre ATP, in un processo che avviene all’interno delle creste mitocondriali.

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CATENA DI TRASPORTO DEGLI ELETTRONI O FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA

Il funzionamento di questo meccanismo si basa sull’ipotesi chemio-osmotica di Mitchell. NADH e FADH2


sono due molecole che si trovano allo stato ridotto e che sono state sintetizzate attraverso
un’ossidoriduzione. Questo significa che, quando andranno a reagire, si verificherà un’altra ossidoriduzione
con liberazione di energia (ovviamente la quantità di energia liberata dalla seconda ossidoriduzione è
inferiore a quella liberata dalla prima).

La catena di trasporto degli elettroni avviene nelle creste mitocondriali e fa affidamento al trasporto attivo
e alla diffusione semplice, che riguardano movimenti di ioni che vanno da un comparto all’altro attraverso
una membrana. Nel mitocondrio vengono distinti 3 spazi:

- Citoplasma
- Spazio intermembrana
- Matrice

La finalità della catena di trasporto è la sintesi di ATP a partire da ADP e fosfato inorganico. Questa reazione
per realizzarsi ha bisogno di energia che, ovviamente, non viene ricavata da altro ATP, bensì dalla proteina
di membrana ATP sintasi.

L’ATP sintasi è una proteina di membrana che ha una struttura quaternaria con una sua subunità che ha la
capacità di ruotare (se si trova nella giusta condizione).

Questa proteina ricorda la dinamo di una bici, cioè un sistema che sfrutta l’energia cinetica di rotazione per
far accendere la lampadina. Questa proteina svolge lo stesso ruolo di una dinamo. Se una delle subunità
dell’ATP sintasi si mette in movimento, ruotando genera l’energia necessaria per la sintesi di ATP.

Ciò che fa ruotare l’ATP sintetasi, permettendo di generare l’energia, è il torrente protonico (fatto di H+),
generato dal mantenimento di un gradiente di concentrazione chimico. Infatti, lo spazio intermembrana è
ricco di protoni H+, mentre la matrice presenta una bassa concentrazione protonica. Se si verificano queste
condizioni, si genera un torrente protonico, poiché l’H+, attraverso la diffusione semplice, si sposta nel
comparto dove è meno concentrato (matrice mitocondriale). Tuttavia, essendo uno ione, l’H+ non potrà
attraversare la membrana mitocondriale interna per le caratteristiche intrinseche del doppio strato
fosfolipidico. Quindi gli ioni H+ sono costretti ad attraversare l’ATP sintasi. Il passaggio mette in movimento
la subunità dell’ATP sintasi in grado di ruotare e, questo movimento, genera l’energia necessaria alla sintesi
di ATP.

Affinché avvenga questo processo, occorre mantenere un gradiente protonico. Sulla membrana della
matrice mitocondriale troviamo 4 complessi proteici, mentre l’ATP sintasi può essere considerato il V
complesso proteico.

A questo punto intervengono il NADH e il FADH2.

Il NADH (forma ridotta) può effettuare una reazione di ossidoriduzione con il complesso proteico I
cedendogli un elettrone e liberando un protone nella matrice. Il NADH si trasforma quindi in NAD+ (forma
ossidata) e la reazione libera energia. L’energia liberata serve per trasportare contro gradiente di
concentrazione il protone dalla matrice allo spazio intermembrana, attraverso un meccanismo di trasporto
attivo. Il complesso proteico I si trova nella forma ridotta, perciò, per poter reagire con una seconda

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molecola di NADH, deve liberarsi di un elettrone. Infatti, il complesso proteico I cede un elettrone al
complesso proteico III.

Il FADH2 “salta” la reazione con il complesso proteico I e reagisce direttamente con il complesso proteico II,
con le stesse modalità del NADH, effettuando un’ossidoriduzione, cedendo un elettrone al complesso
proteico II, trasformandosi in FAD e liberando energia e 2 protoni nella matrice. L’energia liberata viene
utilizzata per trasportare i protoni contro gradiente. Il complesso proteico III si carica di elettroni, quindi li
trasferisce al complesso proteico IV.

Riassumendo:

- Il NADH cede l’elettrone al complesso I, che non potrà interagire con un altro NADH finché
non si sarà liberato dell’altro elettrone. L’elettrone viene quindi trasferito dal complesso I al
III.
- Il FADH2 cede elettroni al complesso II che, a sua volta, li cede al complesso III.

Il complesso III cede gli elettroni al complesso IV. Gli elettroni passano da un complesso ad un altro fino al
4° complesso, il quale dovrà comunque liberarsi degli elettroni.

Qui entra in gioco la respirazione, attraverso la quale l’ossigeno raggiunge tutte le cellule (passando per
alveoli, torrente circolatorio) dopo esser stato catturato dall’emoglobina. Una volta nella cellula, entra nel
citoplasma e successivamente nel mitocondrio. A questo punto, 2 H+ (nella matrice) reagiscono con 1⁄2 di
O2 per dare una molecola di acqua. Questa reazione di ossidoriduzione necessita di elettroni, i quali
verranno liberati dal complesso proteico IV.

La respirazione è quindi fondamentale, perché garantisce la catena di trasporto di elettroni e, di


conseguenza, anche la sintesi di ATP. Senza ossigeno si avrebbe un blocco della catena.

LA FERMENTAZIONE LATTICA
Dopo un’intensa attività fisica, l’organismo richiede maggior quantità di ATP. Per avere un aumento della
sintesi di ATP, bisogna aumentare l’attività respiratoria. Nel caso in cui non ci sia ossigeno a sufficienza, la
catena di trasporto rallenta e fatica ad andare avanti.

Il rallentamento di questo processo, rallenta anche tutto ciò che c’è a monte, ovvero il ciclo di Krebs. Un
rallentamento del ciclo di Krebs genera un accumulo di acido piruvico nelle cellule. L’acido piruvico nelle
cellule è tossico e, per questo, interviene un meccanismo che trasforma l’acido piruvico in acido lattico.
Questa trasformazione determina la sintesi di 1 ATP.

L’accumulo di acido lattico nelle fibre muscolari non è la causa del dolore muscolare. Infatti, quest’ultimo è
dato dall’intervento di citochine perché si innesca un meccanismo infiammatorio.

Il processo di sintesi di ATP è un processo aerobico ma, in carenza di ossigeno, devia verso la sintesi di acido
lattico: in questo caso si tratta di un processo anaerobico.

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La respirazione aerobica è descritta dalla catena di trasporto degli elettroni (presenza di ossigeno). La
glicolisi invece avviene in una situazione di anaerobiosi (assenza di ossigeno).

BILANCIO ENERGETICO

Un NADH fornisce energia per sintetizzare 3 molecole di ATP, mentre un FADH2 (che salta il complesso I)
fornisce energia per la sintesi di 2 ATP.

La completa degradazione di una molecola di glucosio porta alla sintesi di 36 o 38 ATP. Questa differenza è
data dai vari tipi cellulari.

Le 2 delle molecole di NADH generate nella glicolisi si trovano nel citoplasma. Anche loro devono entrare
nel mitocondrio per partecipare alla catena di trasporto degli elettroni:

- In alcune cellule c’è un sistema legato alla presenza di proteine di trasporto che spostano il
NADH dal citoplasma. Questo tipo di trasporto richiede 1 ATP per ogni NADH e quindi in
questo tipo cellulare il bilancio è di 36 ATP, perché 2 molecole vanno spese per il trasporto
di NADH;
- In altre cellule invece il NADH si dissocia in NAD+ e H+ fuori dal citoplasma. Il protone H+
entra nel mitocondrio, dove incontra un NAD+: avviene un’ossidoriduzione e il NAD+
diventa NADH. Tutto questo avviene senza dispendio di energia e in questo caso il bilancio
è di 38 ATP.

Bisogna precisare che ogni NADH fornisce energia per sintetizzare 3 molecole di ATP e ogni FADH2 per 2
ATP solo sotto il punto di vista di un calcolo teorico. Nella realtà, se dovessimo fare un calcolo
stechiometrico secondo la teoria chemiosmotica di Mitchell, il NADH fornisce energia per 2,5 ATP e il
FADH2 per 1,5 ATP. Quindi la resa energetica, calcolata dal punto di vista stechiometrico, è molto più bassa
(e anche in questo caso si parla di un calcolo teorico, nella realtà le rese saranno ancora più basse) di quella
ottenuta con il calcolo teorico. NADH e FADH sono generalmente considerati come dei trasportatori di
energia, ma possiamo definirli in maniera più precisa come dei trasportatori di elettroni, in un contesto di
reazioni di ossidoriduzione, che liberano anche energia.

76
VIE ALTERNATIVE ALLA RESPIRAZIONE CELLULARE

La respirazione cellulare è da inserire in un contesto metabolico,


assieme ad altri processi che la completano; infatti, vi si inseriscono e
prendono parte anche composti provenienti da altri processi. La
respirazione cellulare può avere diverse vie, per esempio:

- Nei mammiferi, la maggior parte dell’energia deriva


dalla β-ossidazione degli acidi grassi;
- La degradazione delle proteine: le proteine servono da
“combustibile” e vengono degradate in amminoacidi,
che subiscono una deamidazione. Il gruppo amminico
NH2 si trasforma in urea, mentre la catena carboniosa
viene utilizzata come reagente, entrando a livelli
diversi (a seconda dell’amminoacido di provenienza)
durante il percorso della respirazione cellulare. Per
esempio:
• l’alanina viene trasformata in piruvato,
• il glutammato viene trasformato in α-chetoglutarato,
• l’aspartato viene trasformati in ossalacetato.

Β-OSSIDAZIONE DEGLI ACIDI G RASSI


Facendo un calcolo dell’energia prodotta dalla degradazione di questi composti, specialmente il glucosio e i
lipidi, ricaviamo che:

- 1 g di glucosio produce 4 kcal


- 1 g di lipidi produce 9 kcal

Questo perché dalla degradazione del glucosio abbiamo, in linea teorica, 36-38 ATP (anche se secondo un
calcolo stechiometrico sono di meno), e da una molecola di acido grasso a 6 atomi di carbonio si producono
44 ATP. I trigliceridi vengono scomposti in glicerolo e acidi grassi in un processo detto lipolisi (idrolisi
enzimatica), che avviene nel citoplasma della cellula.

La β-ossidazione degli acidi grassi produce Acetil-CoA.

Analizziamo, ad esempio, il palmitato. Il palmitato è un acido grasso a 6 atomi di carbonio e viene prodotto
dal processo di sintesi degli acidi grassi. La β -ossidazione è un processo ciclico che rimuove uno ad uno gli
atomi di carbonio. Per una completa demolizione di questa catena occorrono 7 cicli di β-ossidazione e si
generano i seguenti composti:

- 8 Acetil-CoA
- 7 NADH
- 7 FADH2

Questi 8 Acetil-CoA entrano nel ciclo di Krebs, dove daranno un incremento di produzione di molecole che
trasportano elettroni, quindi al termine del ciclo avremo:
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- 24 NADH
- 8 FADH2
- 8 GTP.

Il bilancio totale, nella β-ossidazione di acidi grassi (saturi a catena pari), è quindi di:

- 31 NADH
- 15 FADH
- 28 GTP

Nella famiglia di acidi grassi ci sono quelli saturi, insaturi, quelli a catena pari, a catena dispari ecc. e si
dovrebbe prendere in considerazione ogni tipologia di essi. Non si può fare un discorso generale per tutti gli
acidi grassi.

VIE ENERGETICHE ALTERNATIVE

Quando, dall’ossidazione degli acid grassi, l’Acetil-CoA viene prodotto in eccesso e il ciclo di Krebs non è in
grado di gestirlo, esso viene utilizzato per la creazione di corpi chetonici. Questi svolgono una funzione di
alimentazione energetica quando i livelli di glucosio sono troppo bassi:

- Lunghi periodi di digiuno


- Patologie che non permettono di utilizzare la maggior parte del glucosio in circolazione
(diabete non controllabile).

In entrambi i casi vengono liberate le riserve di grasso per generare energia attraverso il ciclo di Krebs,
tramite la conversione di Acetil-CoA in corpi chetonici.

Se guardiamo i vari ristretti corporei, notiamo che il cervello è la fonte che utilizza maggiore energia,
tramite il glucosio. Il cervello, cha fa affidamento sul solo glucosio come fonte energetica, può utilizzare
come forma alternativa i chetoni. In questo modo il cervello si tiene attivo anche quando le scorte di
glucosio sono ridotte o esaurite.

Se i chetoni sono prodotti più rapidamente di quanto possono essere utilizzati, vengono scomposti in CO2 e
acetone; quest’ultimo viene espulso tramite l’espirazione, infatti uno dei sintomi della chetogenesi (e di
diete chetogeniche) è il caratteristico cattivo odore proveniente dalla respirazione.

I chetoni danno luogo all’ossidazione per produrre energia utile al cervello.

LA RESPIRAZIONE ANAEROBICA

Negli organismi viventi abbiamo anche la respirazione anaerobica, che non utilizza l’O2 come accettore
finale nella catena di trasporto degli elettroni e caratterizza i batteri anaerobi. L’accettore finale della
respirazione anaerobica invece è 𝑁𝑂3− 𝑜 𝑆𝑂42− .

Quando si parla di respirazione aerobica si intende tutto il processo che va dalla glicolisi alla catena di
trasporto. Nella respirazione aerobica abbiamo una FASE anaerobica, cioè la glicolisi.

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Se analizziamo la respirazione anaerobica, dopo la glicolisi, avviene la fermentazione, che non prevede la
catena di trasporto degli elettroni. È tipica di batteri, lieviti e funghi, può essere:

- Alcolica: dopo la glicolisi, il piruvato viene trasformato in alcol etilico tramite la


decarbossilazione. Durante questa trasformazione si formano 2 NAD+ che entrano nella
glicolisi e danno 2 NADH
- Lattica: il piruvato viene trasformati in acido lattico o lattato

Lo scopo della fermentazione non è produrre energia, ma smaltire il piruvato che, in eccesso, è molto
tossico.

LA FOTOSINTESI

Per effetto del secondo principio della termodinamica, c’è necessariamente il bisogno di rifornire il pianeta
di energia. L’unica fonte energetica è il sole e il gruppo di organismi viventi in grado di utilizzare
direttamente l’energia solare è quello degli organismi autotrofi (detti anche produttori).

Questi organismi sono in grado di organicare il carbonio, cioè mettere insieme 6 molecole di CO2 per
sintetizzare zuccheri (glucosio ma non solo). Questo processo prende il nome di fotosintesi clorofiliana.

La fotosintesi è un processo che converte l’energia luminosa in energia chimica, nella formazione dei legami
che costituiscono il glucosio a partire da 6CO2.

L’ENERGIA LUMINOSA
L’energia luminosa è un’onda elettromagnetica costituita da un campo
magnetico che oscilla perpendicolarmente ad un campo elettrico.
L’energia luminosa ha quindi:

- una lunghezza d’onda λ, che è la distanza tra due


creste
- una frequenza f, cioè il numero di oscillazioni al secondo
- un’ampiezza, cioè la distanza tra la cresta e l’asse
centrale.

C’è un rapporto tra lunghezza d’onda (λ) e frequenza (f): sono


inversamente proporzionali.
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λ = ν/f

Ciò ha un interesse dal punto di vista dell’energia della radiazione elettromagnetica: tanto maggiore è la
frequenza (e minore la lunghezza d’onda), tanto più l’onda è ad alto contenuto energetico.

Lo spettro delle radiazioni elettromagnetiche va dalle onde radio, che hanno una grande lunghezza d’onda
e quindi una bassissima frequenza, ai raggi gamma che al contrario hanno un’altissima frequenza e una
bassa lunghezza d’onda. All’interno di questo range troviamo lo spettro del visibile.

La fotosintesi dipende dalla luce delle onde elettromagnetiche nella porzione del visibile percepita
dall’occhio umano, da circa 400 a 750-760 nm.

La luce visibile “eccita” alcuni tipi di molecole biologiche. Radiazioni con lunghezza d’onda maggiore del
visibile (760 nm) non possiedono energia sufficiente ad eccitare le molecole biologiche, mentre quelle a
lunghezza d’onda minore possono spezzarne i legami poiché possiedono un’energia eccessiva.

Dal punto di vista corpuscolare le onde elettromagnetiche sono costituite da fotoni. I fotoni sono pacchetti
di energia, indivisibili.

Quando una molecola assorbe l’energia di un fotone, questa viene catturata da uno dei suoi elettroni, che
passa da un orbitale a bassa energia ad un altro a più alto contenuto energetico e, quindi, in un orbitale più
lontano dal nucleo: effettua un salto quantico da un orbitale più vicino al nucleo ad uno più lontano. Dopo
questo salto quantico può avvenire che:

- Quando l’energia del fotone termina, l’elettrone ritorna allo stato fondamentale e l’energia
acquisita può essere restituita come calore o come luce a lunghezza d’onda maggiore di
quella della luce assorbita (fluorescenza)
- L’elettrone eccitato lascia l’atomo e può essere catturato da una molecola accettrice che si
riduce (fotosintesi)

Quando una molecola viene colpita da un elettrone, può rispondere quindi:

- Con un salto quantico e la fluorescenza


- Con lo “spostamento dell’elettrone”, fotosintesi

80
I CLOROPLASTI E LE MOLECOLE FOTOSENSIBILI
La reazione di fotosintesi avviene in organuli che si
trovano all’interno delle foglie. Le foglie
presentano una faccia superiore e una faccia
inferiore in cui si aprono dei piccoli fori chiamati
stomi che sono responsabili dello scambio gassoso
tra interno ed esterno della foglia (entrambe le
facce sono costituite da epidermide). I tessuti
compresi tra le due epidermidi costituiscono il
mesofillo, costituito da un parenchima a palizzata.
Il mesofillo contiene i cloroplasti, che richiamano
l’attività mitocondriale.

Come i mitocondri, i cloroplasti sono dotati di un proprio


DNA e hanno ribosomi che svolgono sintesi proteica.

I cloroplasti sono costituiti da due membrane, una esterna


e una interna, all’interno della quale si trova lo stroma
(spazio interno del cloroplasto). Nello stroma si trovano
tanti sacchetti impilati uno sull’altro a formare i grani. I
sacchetti sono i tilacoidi e lo spazio al loro interno è definito
lume tilacoidale, dove si creano le condizioni per realizzare
la fotosintesi clorofilliana.

È definita “fotosintesi clorofilliana” perché entra in gioco la clorofilla, un pigmento che si trova nelle
membrane tilacoidali e che assorbe principalmente le radiazioni nello spettro del blu e del rosso (la luce
verde viene trasmessa e riflessa, per questo le foglie sono verdi). Nei tilacoidi abbiamo due tipologie di
clorofilla, molto simili strutturalmente, entrambe costituite da una testa (l’anello porfirico) al cui centro si
trova un atomo di magnesio e una coda detta fitolo:

- La clorofilla a di colore verde brillante, con un gruppo metilico;


- La clorofilla b di colore giallo tendente al verde, con un gruppo aldeidico.

81
Si tratta di molecole fotosensibili. Altre molecole fotosensibili sono i carotenoidi che, quando vengono
eccitati, catturano l’energia e, successivamente, questa viene trasferita alla clorofilla a. I carotenoidi,
quindi, coadiuvano la fotosintesi clorofilliana, il cui protagonista principale resta comunque la clorofilla.

Inoltre, i carotenoidi vengono venduti per uso alimentare perché hanno una proprietà antiossidante. La
proprietà antiossidante protegge dall’azione dell’anione superossido prodotto nel cloroplasto, un
generatore di radicali liberi, dannosi per tutto l’organismo. Quindi i carotenoidi, in quanto antiossidanti,
proteggono l’organismo dai radicali liberi.

La reazione generale della fotosintesi è

6 𝐶𝑂2 + 12 𝐻2 𝑂 → 𝐶6 𝐻12 𝑂6 + 6 𝑂2 + 6 𝐻2 𝑂

La fotosintesi si sviluppa attraverso sue fasi:

- Fase luminosa, costituita da reazioni che dipendono dalla luce e avvengono durante il
giorno
- Fase di sintesi, di fissazione del carbonio.

FASE LUMINOSA
L’energia solare è utilizzata per:

- fosforilare l’ADP e formare ATP


- ridurre il NADP+ a NADPH, questa molecola trasporta elettroni utilizzabili per produrre
energia.

La reazione è:

12 𝐻2 𝑂 + 12 𝑁𝐴𝐷𝑃 + + 18 𝑃𝑖 → 6 𝑂2 + 12 𝑁𝐴𝐷𝑃𝐻 + 18 𝐴𝑇𝑃

Le reazioni dipendenti dalla luce iniziano quando la clorofilla e/o altri pigmenti accessori assorbono la luce.

Clorofilla a e b e pigmenti accessori sono associati a


proteine che legano la clorofilla e pigmenti alle
membrane del tilacoide, formando unità chiamate
complessi antenna. I pigmenti e le proteine associate
sono disposti in gruppi di 250 molecole di clorofilla
con specifici enzimi e proteine.

Troviamo però numerosi complessi antenna, quindi


ciascun complesso antenna capta la luce e trasferisce
l’energia da un complesso all’altro, sotto forma di
elettroni eccitati da tilacoide a tilacoide, fino al
centro di reazione. Qui troviamo una clorofilla del centro di reazione che trasferisce gli elettroni ad un
accettore primario. Nella fase luminosa definiamo due tipi di unità fotosintetiche:

- Fotosistema I
- Fotosistema II

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I rispettivi centri di reazione si differenziano per l’associazione delle molecole di clorofilla a con proteine
diverse: questo determina un diverso spettro di assorbimento. La clorofilla a ha un picco di assorbimento di
circa 660 nm:
- Il centro di reazione del fotosistema I, costituito da un paio di clorofille a, ha un picco di
assorbimento a 700 nm e si indica con P700.
- Il centro di reazione del fotosistema II, costituito da un paio di clorofille a, ha un picco di
assorbimento a 680 nm e si indica con P680.

La catena di trasporto degli elettroni è costituita da 4 complessi che si trovano sulla membrana tilacoidale:
- il fotosistema 2,
- il citocromo,
- il fotosistema 1
- l’ATP sintasi

La luce colpisce uno dei sistemi antenna del fotosistema II. Dal fotosistema II si arriva al centro di reazione,
dove avviene il trasferimento degli elettroni e in contemporanea viene scissa l’acqua (processo definito,
impropriamente, fotolisi dell’acqua). L’acqua, dunque, viene ossidata, si trasforma in ossigeno e si
producono protoni.
È importante sapere che non è la luce a scindere direttamente l’acqua, ma la luce colpisce il fotosistema II e
grazie al trasferimento di elettroni avviene questa scissione. L’ossigeno che si ricava è quello atmosferico.
Poiché si tratta di un’ossidoriduzione, questa reazione libera energia. Essa viene utilizzata per trasportare i
protoni attraverso la membrana, dall’esterno verso l’interno (al contrario dei mitocondri) per generare un
gradiente protonico. All’interno avremo una maggior concentrazione di H+ rispetto allo stroma del
cloroplasto. Il trasporto di protoni contro gradiente viene effettuato da un complesso di membrana, il
plastochinone.

Gli elettroni che vengono prodotti dall’interazione tra la luce e la clorofilla, dal fotosistema II, vengono
trasportati con trasporto lineare attraverso enzimi specifici fino al NADP+ del fotosistema I. Qui si verifica lo
stesso processo che è avvenuto nel fotosistema II, quindi la luce colpisce nuovamente la clorofilla a.
L’energia che si produce in questo fotosistema serve ad eccitare di nuovo gli elettroni. In questo caso,

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il trasporto degli elettroni è ciclico. Questi elettroni servono, attraverso l’attività dell’enzima redoxina-
NADPH-reduttasi, a ridurre il NADP a NADPH.
I protoni dovrebbero spostarsi, secondo gradiente, verso lo stroma (uscendo dal lume tilacoidale) ma non
possono però attraversare il doppio tratto fosfolipidico della membrana tilacoidale, quindi attraversano
l’ATP sintasi: in questo modo l’ATP sintasi “ruota” e produce energia per sintetizzare ATP da ADP+P con un
bilancio totale di 12NADPH+18ATP.
La fase luminosa, in definitiva, attraverso il processo di trasporto di elettroni serve per:
- produrre NADPH e ATP
- rifornirci di ossigeno.
Non sappiamo bene perché nel fotosistema I avviene questo meccanismo: questo potrebbe essere
considerato un residuo evolutivo, ma in ogni caso ha la sua utilità per l’organismo.
La fase luminosa è un trasporto di elettroni non ciclico, ma lineare. Il trasporto ciclico degli elettroni si
realizza sempre nella membrana tilacoidale e riguarda solo il fotosistema I.
Questo sistema serve a portare i protoni all’interno del lume del tilacoide (con creazione di un gradiente di
concentrazione) e serve a sfruttare l’ATP sintasi per produrre ATP. Così questo ATP prodotto serve per
ristabilire un corretto rapporto tra ATP e NADPH, per consentire il passaggio alla fase successiva.
Oppure, si pensa che l’ATP prodotto serva per le funzioni vitali della cellula vegetale. Questo meccanismo,
essendo un trasporto ciclico degli elettroni, non deve essere rigenerato: gli elettroni sono sempre gli stessi
che ciclicamente si spostano da un composto all’altro, determinando un gradiente protonico nel lume del
tilacoide.
La differenza tra i due trasporti (ciclico e non) sta nel fatto che il trasporto ciclico genera una minor quantità
di ATP e il suo utilizzo non è destinato ai fini fotosintetici ma per mantenere in vita la pianta.
I 12 NADPH prodotti trasportano energia e l’ATP invece viene immagazzinato per la fase successiva, quella
di sintesi.

FASE DI SINTESI – CICLO DI CALVIN


La fase di sintesi viene anche chiamata ciclo di Calvin. Si tratta di un ciclo di 13 reazioni che si verificano
nello stroma del cloroplasto e portano alla formazione del composto di partenza. Queste 13 reazioni si
dividono in 3 fasi:

- Assunzione della CO2


- Riduzione del carbonio
- Rigenerazione del ribulosio bi-fosfato (RuBP).

Ogni molecola di anidride carbonica, prelevata dall’atmosfera, reagisce con il Ribulosio Bifosfato, una
molecola a 5 atomi di carbonio, per dare 12 molecole di 3-fosfoglicerato (PGA), un composto a 3 atomi di
carbonio. Poiché reagiscono 6 molecole di anidride carbonica, la reazione complessiva è la seguente:

6 CO2 + 6 RuBP → 12 PGA

Questa reazione è catalizzata da un enzima denominato Ribulosio bisfosfato carbossilasi/ossigenasi


(Rubisco), che ha due attività catalitiche. E’ l’enzima maggiormente presente in tutto il pianeta. Questo
processo è definito anche via C3 perché si formano intermedi a 3 atomi di carbonio. Tutte le piante che
utilizzano questa modalità si chiamano piante C3.

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Le piante con attività fotosintetica possono essere:

- C3, hanno il ciclo di Calvin, vivono in zone temperate


- C4, hanno comunque il Ciclo di Calvin ma esso è preceduto da una fase di cattura della CO2.
Si tratta di tutte quelle piante che vivono in aree calde dove non vi è molta disponibilità
idrica (es: canna da zucchero);
- CAM, che sono quelle che vivono in condizioni estreme (es: piante grasse).

12 molecole di 3-fosfogliceraldeide (PGA), utilizzando ATP e NADPH prodotti nella fase luminosa della
fotosintesi, vengono convertite in 12 molecole di gliceraldeide-3-fosfato (G3P)

12 PGA → 12 G3P

Due di queste molecole di gliceraldeide-3-fosfato si mettono insieme per formare una molecola di glucosio.
In alcune piante si forma anche il fruttosio, mentre in altre piante glucosio e fruttosio sono poi uniti per
formare il saccarosio.

G3P + G3P → Glucosio o Fruttosio

Il glucosio viene immagazzinato come cellulosa, che ha una funzione strutturale, o amido, avente funzione
di riserva energetica.

Sebbene due molecole di G3P vengano rimosse dal ciclo, le dieci restanti vengono utilizzate per produrre 6
molecole di ribulosio fosfato, ciascuna delle quali viene fosforilata per produrre RuBP, cioè il composto a 5
atomi di carbonio da cui il ciclo era iniziato.

10 G3P → 6 RuBP

Quindi delle 12 molecole di G3P prodotte:

- 2 servono per sintetizzare glucosio;


- 10 servono per ricostituire 6 molecole di RuBP, che può così “ricatturare” altre 6 molecole
di CO2.

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FOTORESPIRAZIONE ED EFFICIENZA FOTOSINTETICA

Le piante C3, che vivono nei climi temperati, utilizzano il Ciclo di Calvin. Le altre piante hanno cicli diversi
che dipendono dalle condizioni ambientali.

In condizioni estreme, la resa fotosintetica espressa in termini di carboidrati prodotti non è quella attesa. In
caso di alta temperatura la pianta deve proteggersi per limitare la perdita di vapore acqueo chiudendo gli
stomi ma, così facendo, blocca l’accesso di CO2. L’anidride carbonica già presente nella foglia viene
consumata rapidamente producendo ossigeno e siccome non può essere espulso, si accumula nel
cloroplasto.

L’enzima rubisco, che oltre ad essere una carbossilasi è anche un’ossigenasi, aggiunge un ossigeno al RuBP
formando una sola molecola di 3 fosfoglicerato riducendo l’efficienza della fotosintesi.

Le piante C4 e le piante CAM, vivendo in climi non temperati, devono utilizzare dei meccanismi particolari
per evitare l’evaporazione dell’acqua. Questi meccanismi precedono il ciclo di Calvin che rimane presente in
entrambe le tipologie.

Sia le piante C4 che le CAM fissano il carbonio dell’anidride carbonica in un composto a 4 atomi di carbonio
detto ossalacetato. Queste speciali vie metaboliche che avvengono solo nelle piante C4 e CAM precedono il
Ciclo di Calvin (la via C3) e non lo sostituiscono. Quindi, nelle C4 e CAM il ciclo di Calvin viene preceduto da
una fase di cattura della CO2. Questi meccanismi, che distinguono le C4 e CAM dalle C3, servono a garantire
la massima disponibilità di acqua che serve alla pianta. Nelle C4 questi meccanismi avvengono in comparti
diversi, mentre nelle CAM avvengono in punti diversi dal punto di vista temporale (e non spaziale).

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VIA C4
La via C4 non soltanto ha luogo prima della via C3, ma
avviene anche in cellule differenti. La via C4, infatti,
avviene nelle cellule del mesofillo, mentre il ciclo di Calvin
avviene nelle cellule della guaina del fascio, che
contengono cloroplasti.

Le piante C4, prima che la CO2 possa entrare nel ciclo di


Calvin, la fissano in un composto a 4 atomi di carbonio,
l’ossalacetato, grazie al fosfoenolpiruvato (PEP).

L’ossalacetato reagisce con la CO2 (che si trova nelle cellule


del mesofillo) e viene trasformato in malato grazie
all’ossidazione di un NADPH. Il malato viene trasferito nel
comparto dove avviene il Ciclo di Calvin, ossia nelle cellule
della guaina del fascio.

Qui, grazie alla riduzione di un NADP+, il malato viene


decarbossilato, quindi si ha la liberazione di CO2, che entra
nel Ciclo secondo la serie di reazioni viste in precedenza. La
parte rimanente (malato senza CO2) è il piruvato che
rientra nelle cellule del mesofillo, si trasforma in
fosfoenolpiruvato e qui diventa di nuovo ossalacetato, ricominciando il ciclo.

Si noti come tutte queste reazioni costituiscono un meccanismo per il trasporto di anidride carbonica, senza
una struttura con stomi a diretto contatto con il Ciclo di Calvin, poiché in condizioni avverse, gli stomi
devono essere chiusi e il meccanismo si bloccherebbe.

VIA CAM
Le piante che vivono in un ambiente arido hanno numerose modificazioni strutturali che consentono loro di
sopravvivere, molte di esse presentano anche adattamenti fisiologici, tra cui una speciale via metabolica
per la fissazione del carbonio: la via CAM.

Queste piante tengono gli stomi chiusi durante il giorno, ma li aprono durante la notte, quando le
temperature basse riducono il rischio di evaporazione dell’acqua, così da incamerare la CO2 minimizzando
la perdita di acqua. Esse utilizzano l’enzima PEP carbossilasi per far reagire il PEP e l’anidride carbonica che
entra di notte, formando ossalacetato. Questo viene convertito in malato ed è quindi immagazzinato nei
vacuoli delle cellule. Si tratta di una logica di protezione dalla mancanza di acqua.

Di giorno, con l’alzarsi delle temperature, gli stomi vengono chiusi per evitare l’evaporazione dell’acqua. Il
malato immagazzinato lascia il vacuolo ed entra nei cloroplasti, dove viene decarbossilato e trasformato in
piruvato, con liberazione di CO2. La molecola di anidride carbonica liberata entra nel ciclo di Calvin. Il
piruvato restante viene trasformato in amido. Il ciclo ricomincia nuovamente durante la notte.

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BATTERI E VIRUS

I BATTERI

L’evoluzione, almeno nei termini della teoria di Darwin, stabilisce che ci sia un antenato comune per tutti i
viventi. Proprio a partire da questo antenato comune l’evoluzione ha stabilito la biodiversità odierna. Nella
classificazione sono distinti in:

- procarioti
- eucarioti.

In particolare, all’interno dei procarioti, si trova un’ulteriore distinzione in due domini:

- archeobatteri - archea
- batteri - bacteria.

STRUTTURA
I batteri si presentano sotto diverse forme:

- Forma sferica (streptococchi)


- 2 sfere insieme (diplococchi)
- Forma a Catena
- Forma a bastoncello, ad esempio l’E. coli
- Forma elicoidale (tipo le Spirochete)

Un batterio è una cellula procariotica delle dimensioni dell’ordine


del micron. Non ha un’area delimitata da membrana riconoscibile
come nucleo. Ha comunque un DNA in forma circolare e possiede
l’apparato necessario per la sintesi proteica.

È delimitato da membrana plasmatica che è rivestita uno strato di


peptidoglicano (glicoproteina) può presentare anche una membrana
esterna. Grazie a questo aspetto, i batteri si possono classificare in
risposta ad un particolare tipo di colorazione chiamata colorazione
di Gram. Vengono così distinti in:

- Gram +, nella parete cellulare troviamo uno spesso


strato di peptidoglicano
- Gram -, nella parete cellulare troviamo un sottile strato di peptidoglicano

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Altre caratteristiche che possiamo trovare nella struttura di una cellula batterica sono correlate alla
specializzazione del batterio, ad esempio i batteri dotati di movimento sono costituiti da ciglia o flagelli che
ne consentono il movimento.

In alcuni batteri, oltre al cromosoma circolare principale, troviamo un


DNA circolare secondario che costituisce i plasmidi (che trovano
applicazioni anche nella ricerca).

RIPRODUZIONE
La riproduzione dei batteri può avvenire secondo diverse modalità. Generalmente, i batteri si dividono per
scissione binaria seguendo un processo che richiama la divisione cellulare eucariotica. Da una singola cellula
si ottengono due cellule figlie identiche alla cellula madre, grazie alla duplicazione del DNA. Questa
divisione avviene circa ogni 30 minuti.

Considerando il DNA, a partire da una cellula batterica originaria:

- ci sarà una duplicazione del DNA;


- si formerà un setto sulla parete della membrana;
- si origineranno le due cellule figlie;

quindi ognuna delle due copie di DNA verrà inglobata una per
cellula figlia, di conseguenza l’informazione genetica viene
mantenuta di generazione in generazione.

Altri batteri si riproducono:

- Per gemmazione: formazione di una gemma sulla


superficie della membrana che,
successivamente, si stacca e dà origina a una
cellula batterica;
- Frammentazione: il batterio si frammenta e da
ogni frammento prende origine un nuovo
batterio.

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TRASFERIMENTO GENICO
L’informazione contenuta in una cellula batterica potrebbe essere modificata
dall’interazione con DNA estranei di altre cellule. La trasformazione è il processo
mediante il quale una cellula batterica, attraverso recettori specifici, riesce a
inglobare un frammento di DNA estraneo, derivante ad esempio da un batterio
morto, che si va a inserire nel DNA della cellula e diventa parte integrante del
genoma del batterio stesso.

Un meccanismo di trasferimento genico è la trasduzione, che deriva da


un’infezione virale: il materiale genetico viene trasferito da un batterio a un altro
mediante un batteriofago (il virus che infetta i batteri). Quando un batteriofago
infetta un batterio, vi inserisce solo l’acido nucleico. Il DNA del virus utilizza tutto
il macchinario replicativo e di traduzione della cellula ospite per sintetizzare le
proteine necessarie a ricostituire il batteriofago. All’interno della cellula si
formano quindi molti virus che, accumulandosi, portano alla lisi del batterio.

Può accadere che uno di


questi virus formati
incorpori al suo interno un pezzo di DNA batterico.
Quindi si ottiene un batteriofago che porta con sé
una parte dell’informazione batterica e, nel
momento in cui andrà a infettare un’altra cellula,
trasferirà alla nuova cellula sia il suo DNA sia quello
batterico precedentemente inglobato. Quindi si ha
un trasferimento di informazioni da un batterio ad
un altro usando come vettore un virus.

Può avvenire una riproduzione sessuale tra i batteri e prende il nome di coniugazione. La coniugazione si
realizza attraverso delle estroflessioni chiamate pili,
strutture di collegamento tra i due organismi e,
attraverso questi, possiamo avere passaggi di acidi
nucleici, quindi di DNA contenente informazioni.

Viene indicato con F+ (fattore fertilizzante) il batterio


che contiene il plasmide. Per coniugazione, attraverso il
pilo, una delle due emieliche del DNA plasmidico del
batterio F+ viene trasferita nel batterio F-, rendendolo
F+.

Può accadere che il plasmide si inserisca all’interno del


DNA batterico e qui, sempre per coniugazione, può
essere trasferito ad un altro batterio.

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METABOLISMO
I batteri sono cellule dotate di un metabolismo, che può essere:

- Aerobico
- Aerobico facoltativo
- Anaerobico obbligato: l’accettore finale non è l’ossigeno, bensì un’altra molecola che
accetta elettroni (solfato, nitrato, ferro).

L’elemento che differenzia i vari metabolismi è l’accettore finale di elettroni nella catena di trasporto. Nel
caso degli anaerobi, che vivono in assenza di ossigeno, l’accettore finale non può essere l’ossigeno ma sarà
un’altra molecola (solfato, nitrato, ferro o altri composti).

Rispetto alla modalità con cui soddisfano la richiesta di carbonio e di energia, i batteri possono essere:

- Autotrofi
• Chemiotrofi, prendono energia da composti chimici
• Fototrofi: prendono energia da radiazioni luminose
- Eterotrofi

Gli organismi viventi, in particolare i batteri procarioti, hanno sì bisogno di energia, ma necessitano anche
di carbonio. Questa seconda necessità permette un’ulteriore classificazione:

- Fotoautrotrofi: utilizzano energia luminosa per sintetizzare i composti organici a partire da


CO2 e altri composti inorganici
- Chemioautotrofi: utilizzano la CO2 come fonte di carbonio, ma non utilizzano l’energia
luminosa come fonte di energia, infatti ottengono l’energia tramite l’ossidazione di
composti come NH3, H2S (ammoniaca e acido solfifrico)
- Fotoeterotrofi: ottengono il carbonio da altri organismi e utilizzano l’energia solare
(clorofilla)
- Chemioeterotrofi: ottengono energia e carbonio da altre molecole organiche
(decompositori)

TEMPERATURA
Anche la temperatura è un elemento di classificazione in quanto i batteri vivono in condizioni di
temperatura differenziate. In base alla temperatura che consente loro lo sviluppo e la proliferazione si
classificano in:

- Psicrofili
- Mesofili
- Termofili

Denominazione Intervallo di crescita Temperatura ottimale


Psicrofili Da -5°C a +30°C +20°C
Mesofili Da +10°C a +45°C +30°C
Termofili Da +45°C a +80°C +55°C

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Questi dati permettono di stabilire a che temperatura avviene la sterilizzazione per un determinato
batterio. Solitamente alla temperatura di 80° tutti i batteri muoiono, ma alcuni di essi hanno la capacità di
trasformarsi in spore (batteri sporigeni).

Le spore costituiscono una forma di protezione dei batteri,


messa in atto in condizioni ambientali sfavorevoli, che consente
di ottenere una forte resistenza. Le spore sono delle forme
quiescenti e permangono in questo stato inattivo fino a quando
non si ricreano delle condizioni ideali, per cui dalla spora si
rigenera l’organismo. Per eliminarle sono richieste alte
temperature, intorno ai 100°, anche per un’ora intera di
esposizione. Se volessimo ridurre i tempi di esposizione
dovremmo lavorare in condizioni di pressione differente da
quella atmosferica.

In laboratorio e negli ospedali si utilizzano dei macchinari


chiamati sterilizzatori che sono una sorta di pentola a pressione
dove c’è un rapporto specifico tra temperatura e pressione per stabilire i tempi e la temperatura richiesti
per raggiungere la sterilizzazione di strumenti.

I VIRUS

I virus sono difficilmente classificabili.

Esistono fondamentalmente due punti di vista:

- il primo definisce vivente un organismo capace di vita autonoma: in tal caso i virus non
potrebbero essere definiti organismi viventi;
- secondo un altro punto di vista (quello che il professore reputa più giusto) sono viventi gli
organismi dotati di un meccanismo riproduttivo e di acidi nucleici: in tal caso i virus
rientrerebbero nella definizione.

Ad ogni modo essi non sono organismi autonomi, pertanto sono definiti parassiti obbligati e per
sopravvivere usano le risorse di una cellula ospite. Tutti gli organismi viventi rappresentano il target dei
virus, infatti gli ospiti possono essere:

- Batteri
- Archeobatteri
- Protisti
- Piante
- Funghi
- Animali

Rispetto ai batteri sono molto più piccoli, le loro dimensioni variano dai 20 ai 300 nm anche se alcuni, come
i megavirus e pandoravirus, possono raggiungere l’ordine dei μm.

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Sono costituiti da:

- un acido nucleico (DNA o RNA),


- un rivestimento proteico, il
capside, formato da subunità
proteiche chiamate capsomeri;
- una membrana lipoproteica
- glicoproteine inserite nella
membrana lipoproteica.

Troviamo tipologie diverse di acidi nucleici. Second la


classificazione di Baltimora, i virus vengono classificati in
base al tipo di acido nucleico (DNA, RNA, a singolo filamento,
a doppio filamento) e alle diverse modalità con cui l’RNA
messaggero viene sintetizzato. Si distinguono casi in cui
l’acido nucleico può accedere direttamente a trascrizione e
traduzione, altri in cui deve subire prima dei processi, nello
specifico:

- I dsDNA - a doppio filamento di DNA, esso viene subito trascritto


- II ssDNA - a singolo filamento di DNA, prima di essere trascritto deve diventare a doppio
filamento
- III dsRNA - a doppio filamento di RNA, esso viene subito trascritto
- IV (+)ssRNA - a singolo RNA positivo, prima deve costituire il filamento negativo
- V (-)ssRNA - a singolo RNA negativo, esso viene subito trascritto
- VI ssRNA-RT - retrovirus a doppio RNA, viene prima trascritto in DNA
- VII dsDNA-RT - retrovirus a singolo DNA, esso viene subito trascritto

Il filamento stampo è negativo, quello complementare è positivo. Nel virus a doppio filamento di DNA può
avvenire subito la trascrizione. Quelli a singolo filamento, devono prima trasformarsi in doppio filamento.

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I RETROVIRUS
I retrovirus rappresentano un caso molto particolare, che si scontra con
il dogma centrale della biologia molecolare.

I retrovirus possono essere a DNA a doppio filamento o a RNA a singolo


filamento. Nel caso dei retrovirus a RNA viene sintetizzato, ad opera
della trascrittasi inversa, un singolo filamento di DNA complementare
all’RNA, che a sua volta funziona da stampo per la sintesi del filamento
complementare, originando DNA a doppio filamento; a questo punto
possono procedere con la trascrizione. Così facendo, la cellula potrà
formare i nuovi elementi utili all’assemblaggio di virus, compito dei
quali sarà quello di infettare altre cellule per poter ripetere il
procedimento appena descritto.

I retrovirus hanno la particolarità di inserire all’interno della cellula,


oltre l’acido nucleico, anche l’enzima trascrittasi inversa e una
particolare RNA polimerasi.

Il capside, costituito da proteine, determina la forma del virus.

CICLI DI REPLICAZIONE
Esistono due tipologie di replicazione dei virus (cioè modi in cu il virus infetta il batterio) delle quali l’una
non esclude necessariamente l’altra:

- Ciclo litico: Il virus inserisce all’interno della cellula il


proprio acido nucleico, il quale utilizza la struttura di
replicazione, trascrizione e traduzione che porta alla
sintesi delle proteine necessarie a generare
molteplici copie del virus, fino a che il loro elevato
numero causa la morte per lisi della cellula, e il
rilascio delle nuove particelle virali che infetteranno
altre cellule. E’ chiamato così perché si conclude con
la lisi della cellula.

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- Ciclo lisogeno: Il DNA virale si integra in quello batterico (tramite l’enzima integrasi), per cui
il batterio finisce per contenere parte dell’informazione virale, che resta tuttavia inattiva.
Quando poi la cellula si riprodurrà, la sua progenie conterrà nel proprio genoma il DNA
virale. Il ciclo lisogeno comporta la presenza di un’informazione aggiuntiva senza che
avvenga necessariamente la lisi cellulare: può accadere che l’informazione permanga nel
DNA batterico senza determinare delle conseguenze che rendono il batterio patogeno.
In alcuni casi, per via di stimoli ambientali, può verificarsi
l’attivazione del DNA virale: vengono sintetizzati quindi tutti gli
elementi per ricostituire nuovi virus. I virus così formati gemmano
dalla cellula, utilizzando la membrana plasmatica per formare
l’involucro (non il capside!) e la cellula entra nel ciclo litico.
L’HIV utilizza questo meccanismo di replicazione. L’HIV è anche un
retrovirus, che inserisce il suo RNA nella cellula ospite. Da un
singolo filamento di RNA, si costituisce il singolo filamento di DNA,
poi il doppio filamento, che viene inserito nella cellula ospite e ne
sfrutta i meccanismi di trascrizione e traduzione.

Tramite i processi di trasferimento genico un virus che normalmente non rappresenta un gran rischio per la
salute umana potrebbe diventare altamente patogeno. L’aviaria, ad esempio, proviene dagli animali ma
può essere acquisito dall’uomo attraverso questi meccanismi dando vita a un nuovo ceppo umano
altamente patogeno. Tale fenomeno viene definito “salto della specie”.

CORONAVIRUS
I coronavirus sono una famiglia di virus a RNA positivo; quando infettano la cellula ospite, si devono
trasformare in RNA negativo facendo una copia dell’RNA. Abbiamo 4 famiglie di coronavirus:

- Alphacoronavirus α-CoV
- Betacoronavirus β-CoV
- Gammacoronavirus γ-CoV
- Deltacoronavirus δ-CoV

Tra i coronavirus che infettano l’uomo, troviamo:

- Sars-CoV, il virus che provoca la Sars


- Mers-CoV, che provoca la Mers
- Sars-CoV 2, che causa il covid-19

Il virus mostra delle proiezioni sul proprio capside lipoproteico, della lunghezza di circa 20 nm, in grado di
legare una cellula specifica. Tali proiezioni, nel corornavirus, sono formate dalla glicoproteina S (spike). Tre
glicoproteine S unite compongono un trimero; i trimeri di questa proteina formano le strutture che, nel loro
insieme, somigliano a una corona che circonda il virione.

La glicoproteina S è quindi responsabile del legame che si instaura tra la proteina spike e i recettori delle
cellule che il virus va’ a colpire.

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Le differenze principali di questo nuovo Coronavirus rispetto al virus della SARS sembrano essere localizzate
proprio in questa proteina spike. La glicoproteina S è quella che determina la specificità del virus per le
cellule epiteliali del tratto respiratorio; infatti, SARS-CoV-2 è in gradi di legare il recettore ACE2 espresso
dalle cellule dei capillari dei polmoni.

VIRUS INFLUENZALI
Quando un virus entra all’interno di una cellula si ha:

1) sintesi di interferone;
2) l’interferone promuove l’attivazione di geni antivirali, tra cui TRIM22;
3) TRIM22 attacca alla nucleoproteina virale molecole di ubiquitina, che hanno funzione segnaletica;
4) l’ubiquitina segnala al proteasoma, il sistema di degradazione cellulare, che la nucleoproteina è da
eliminare, così viene degradata;
5) in tal modo il virus non potrà replicarsi.

Un virus influenzale presenta un complesso RNA-proteine specifiche che contiene quattro lisine, alle quali il
TRIM22, attraverso la reazione di poliubiquitinazione, lega le ubiquitine. Queste permetteranno il
riconoscimento del virus da parte del proteasoma che, degradando il legame presente nel complesso RNA-
proteine specifiche in possesso del virus, riduce notevolmente la sua replicazione.

Nel caso del virus pandemico, non avendo le quattro lisine viste prime (bensì possiede 4 arginine), il
TRIM22 non è in grado di legare le ubiquitine alle quattro arginine presenti in questo caso. Non viene
quindi interrotto il propagarsi del dell’infezione all’interno delle cellule bersaglio ed il virus è in grado di
replicarsi senza ostacoli.

I VIROIDI
I viroidi contengono un acido nucleico, nella maggior parte dei casi RNA. Sono più piccoli dei virus e
sprovvisti di capside. Hanno come bersaglio le cellule vegetali e le infettano attraverso un meccanismo
simile a quello dei siRNA, con produzione di RNA che interferisce con gli mRNA, portando così al
silenziamento dei geni corrispondenti.

PRIONI
I prioni sono particelle proteiche infettive, non proprio virus, che provocano la malattia di Creutzfeldt-
Jacob, patologia cerebrale degenerativa, nota come il morbo della mucca pazza. Gli animali possiedono un
gene che codifica una proteina detta PrP (208 amminoacidi) deputata al trasporto del rame a livello
neuronale. In caso di mutazioni, la proteina si ripiega in modo anomalo diventando un prione.

Causa diverse patologie negli animali, tra le quali l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE - morbo della
mucca pazza), una variante di questa può essere trasferita dai bovini all’uomo.

97
SISTEMA IMMUNITARIO

LA RISPOSTA IMMUNITARIA

La risposta immunitaria consiste nel riconoscimento di macromolecole estranee o dannose e nella risposta
mirata alla loro eliminazione.

Il più grande problema della risposta immunitaria è quello di distinguere il self dal non self (estraneo
all’organismo). La risposta immunitaria è finalizzata alla difesa dell’organismo da:

- Organismi patogeni, cioè antigeni (agenti estranei)


• Virus
• Batteri
• Funghi
• Protozoi
• Vermi parassiti
- Chimici (agenti estranei), cioè prodotti di questi agenti patogeni (tossine)
- cellule appartenenti allo stesso organismo che hanno alterato il loro ciclo cellulare (cellule
cancerose).

La risposta immunitaria si realizza in 2 modalità:

- Aspecifica, immunità innata: fornisce una protezione generale e immediata


- Specifica, immunità adattativa o acquisita: è altamente specifica per macromolecole
distinte ed ha una memoria immunologica.

98
LE CELLULE DEL SISTEMA IMMUNITARIO

Il sistema immunitario è un insieme molto complesso di reazioni che coinvolgono numerosi tipi cellulari. La
rete di reazioni che si stabilisce è estremamente complessa.

Il sistema immunitario si affida all’attività di cellule specifiche che hanno tutte un’origine comune, infatti
derivano da cellule staminali totipotenti (non differenziate) prodotte dal midollo osseo. Dalle cellule
staminali del midollo osseo si distinguono, poi, 3 diverse specializzazioni:

- Leucocitopiesi: linea di differenziamento che porta alla formazione di


• Granulociti
• Macrofagi
• Cellule B
• Cellule T
- Eritropoiesi: linea di differenziamento che porta alla formazione di globuli rossi
- Trombopoiesi: linea di differenziamento che porta alla formazione dei trombociti

Nell’ottica della risposta immunitaria interessa il meccanismo della leucocitopoiesi che, a sua volta,
contiene 3 linee di differenziamento:

- Linea dei mieloblasti, che genera granulociti


• eosinofili
• basofili
• neutrofili
- Linea dei monoblasti, che genera monociti che poi si attivano in macrofagi;
- Linea dei linfoblasti, che genera linfociti che poi possono maturare in
• Cellule B
• Cellule T

I LINFOCITI

I linfociti sono presenti in tutti e due i tipi di risposta immunitaria: nella risposta immunitaria aspecifica
sono presenti particolari linfociti detti cellule natural killer, nella risposta immunitaria specifica sono
presenti linfociti T e linfociti B. I linfociti, quindi, possono essere:

- linfociti B: hanno l’obiettivo di rilasciare anticorpi specifici e di attivare, nella complessa


rete di risposta, i linfociti T. In seguito alla loro stimolazione, i Linfociti B si differenziano in
Plasmacellule che, legandosi allo specifico antigene, producono gli anticorpi (strutture
proteiche) necessari a contrastare il corpo estraneo.

- linfociti T che, a loro volta, si distinguono in base al recettore che consente di riconoscere
specifici antigeni in:
• Linfociti T CD4 helper (Th): hanno funzione di attivazione e regolazione dei linfociti
B e T. Sono in grado di coordinare ed aiutare le risposte immunitarie, andando a
produrre proteine specifiche chiamate citochine che favoriscono proliferazione e
differenziazione di linfociti T stessi, linfociti B, macrofagi e leucociti.

99
• Linfociti T CD8 citotossici (Tc o CTLs): rispondo all’attività di virus e cellule tumorali.
Sono responsabili dell’eliminazione di cellule infettate da virus, tumorali e
trapiantate, cioè presentanti antigeni estranei (non self).
• Linfociti T memoria: possono sopravvivere in uno stato di quiescenza. Vengono
prodotti in occasione della presenza di uno specifico antigene, non entrano in gioco
nella risposta immunitaria, si replicano molto lentamente e restano in quiescenza
anche molto tempo dopo l’eliminazione dell’antigene. Tornano ad attivarsi quando
ritorna lo stesso antigene, anche dopo molti anni.
• Linfociti T regolatori: ripristinano il sistema immunitario in una condizione normale
al termine di un’infezione, prevengono l’autoimmunità
- Cellule Natural killer: svolgono la loro funzione contro virus e cellule tumorali

Le risposte immunitarie specifiche sono di due tipi:

- Immunità mediata da cellule: I linfociti T sono responsabili dell’immunità mediata da


cellule. Migrano nel sito d’infezione e attaccano le cellule del nostro organismo infettate da
patogeni, le cellule estranee (trapianti) e le cellule modificate da mutazioni (cellule
tumorali).
- Immunità mediata da anticorpi: I linfociti B sono responsabili dell’immunità mediata da
anticorpi. Nella loro maturazione, i linfociti B si differenziano in plasmacellule che
producono specifici anticorpi che si legano a specifici antigeni, neutralizzandoli o
indirizzandoli alla distruzione.

FORMAZIONE E MATURAZIONE
Tutti i linfociti prendono origine dalle cellule staminali del midollo osseo. I linfociti B maturano nel midollo
osseo adulto (B=bone marrow), i linfociti T maturano nel timo (T=timo). Una grande quantità di linfociti
maturi risiede negli organi linfoidi secondari (linfonodi, milza, tonsille).

I linfociti T e B sono cellule che in passato erano considerate molto simili, poi sono state evidenziate le
differenze causate da molecole presenti sulla superficie cellulare. Hanno differente funzione, ciclo vitale e
localizzazione all’interno di uno stesso organo.

Le cellule T, una volta che sono maturate, sono in grado di dare risposta immunitaria (diventano immuno
competenti). La loro maturazione prevede una selezione:

- Negativa: a cui va incontro circa il 90% dei linfociti T. E’ definita negativa perché prevede
l’eliminazione per apoptosi delle cellule T che iniziano il processo di maturazione e
reagiscono con antigeni self (dell’organismo);
- Positiva: le cellule T possono arrivare a maturazione solo se sono in grado di distinguere gli
antigeni self dai non self e legano solo questi ultimi. Queste cellule poi abbandonano il timo
e raggiungono altri organi linfoidi.

Mentre la selezione negativa viene effettuata sulle cellule in corso di maturazione, la selezione
positiva viene effettuata prima della maturazione, in modo che maturino solo le cellule idonee.

100
Il differenziamento della gran parte delle cellule T avviene appena prima della nascita e durante i primi mesi
di vita post natale. Se in un animale viene rimosso il timo prima di questo periodo, non è in grado di
sviluppare l’immunità mediata da cellule; se viene rimosso dopo questo periodo, si mantiene l’immunità
mediata da cellule anche se è meno efficiente.

Nel timo si sviluppano due tipi principale di cellule T:

- T helper (CD4), che processano gli antigeni di origine extracellulare


- T citotossiche (Tc)(CD8), che processano gli antigeni di origine citoplasmatica

LINFOCITI T NAIVE
I linfociti T naive (Tn) sono cellule mature fuoriuscite dagli organi linfoidi primari e che non hanno mai
incontrato un antigene. In assenza del riconoscimento di un antigene, queste cellule muoiono nell’arco di 1-
3 mesi.

Sia i linfociti naive sia quelli di memoria vengono anche chiamati linfociti a riposo (resting) perché non
proliferano e non svolgono funzioni effettrici. Prima di venire stimolati, i linfociti T naive sono in uno stato
di quiescenza, o stadio G0 del ciclo cellulare, per poi passare in fase G1 in seguito a stimolazione ed infine
dividersi. Si pensa che i linfociti T naive riconoscano diversi antigeni self in un modo sufficientemente
debole da dare segnali di sopravvivenza ma non sufficientemente forte da attivare l’espansione clonale e la
loro differenziazione. Quindi, questo riconoscimento è utile per mantenerli in vita ma non è così forte da
costituire uno stimolo per determinare una risposta immunitaria.

LINFOCITI T DELLA MEMORIA


I linfociti deputati al mantenimento di una memoria immunologica vivono in uno stato di quiescenza, con
un processo di proliferazione molto lento che gli assicura un periodo di vita molto lungo, permettendo in
questo modo al sistema immunitario di riconoscere un determinato antigene anche a molti mesi di distanza
dal primo incontro.

IL COMPLESSO MAGGIORE DI ISTOCOMPATIBILITÀ - MHC

Il sistema immunitario deve riconosce il self dal non self, distinzione fondamentale per evitare processi di
autoimmunità e l’insorgenza di patologie autoimmuni.

La capacità de sistema immunitario di distinguere self da non self dipende da un gruppo di geni
strettamente associati, conosciuto come complesso maggiore di istocompatibilità - MHC. Nell’uomo, tale
complesso è chiamato complesso HLA. Si tratta di geni polimorfici, infatti comprendono una grande
quantità di alleli (quasi 10 mila). I geni MHC codificano per gli antigeni MHC, cioè gli antigeni self (proteine
di superficie). Queste proteine di superficie sono differenti da un individuo all’altro; quindi, sono molto
rappresentative dell’organismo che le detiene. Abbiamo 3 sistemi:

- MHC I

101
- MHC II
- MHC III

MHC classe I

Vi sono tre principali loci MHC di classe I che codificano glicoproteine espresse sulla superficie della maggior
parte delle cellule nucleate. Queste glicoproteine si combinano con gli antigeni estranei prodotti dai virus o
da altri antigeni patogeni processati all’interno delle cellule, formando un complesso molecolare MHC di
classe I + antigene estraneo che viene esposto in superficie e presentato al linfocita T citotossico.

Il compito di esporre l’antigene e presentarlo a qualche altra cellula immunocompetente per attivare poi
una rete di risposte è un compito che accomuna molte cellule del sistema immunitario: per questa ragione
le cellule con questa capacità vengono chiamate APC (cellule presentanti l’antigene);

MHC classe II

Presenta 6 principali loci che codificano proteine espresse sulle cellule APC, in particolare sui linfociti B, i
macrofagi e le cellule dendritiche. Le proteine MHC di classe II si combinano con gli antigeni dei batteri. Il
complesso MHC classe II + antigene estraneo, sulle APC, viene presentato alle cellule T-helper.

Le cellule presentanti l’antigene (APC) sono cellule del sistema immunitario in grado di esporre l’antigene
sulla propria superficie di membrana attraverso l’MHC di classe II. Il processamento dell’antigene è il
principale ruolo delle APC che, una volta catturato l’antigene, lo modificano per esporlo tramite le molecole
MHC ai linfociti.

MHC classe III

Codificano numerose proteine di secrezione coinvolte nella risposta immunitaria, per esempio il sistema del
complemento o il TNF.

RISPOSTA IMMUNIATRIA ASPECIFICA

Nella risposta immunitaria aspecifica intervengono:

- I fagociti: globuli bianchi più comuni (neutrofili) e macrofagi. Possiedono recettori Tool-like
che riconoscono alcuni PAMP (es. LPS dei Gram-negativi) e producono citochine che
potenziano la risposta infiammatoria.
- I macrofagi: si sviluppano dei globuli bianchi agranulari (monociti), hanno capacità
fagocitica, possono inoltre produrre citochine con il compito di potenziare la risposta
infiammatoria.
- Le cellule natural killer: sono grossi linfociti granulari che si originano nel midollo osseo;
rilasciano citochine ed enzimi in grado di distruggere le cellule bersaglio, come cellule
tumorali e virus. Tra questi enzimi ricordiamo la porfirina e i granzimi. La porfirina ha il
compito di creare dei pori sulla membrana della cellula da eliminare. I granzimi entrano
attraverso questi pori e determinano l’apoptosi della cellula bersaglio

102
-

A coadiuvare la risposta immunitaria ci sono anche altri meccanismi come quello del proteasoma.

IL PROTEASOMA
Il proteasoma è coinvolto in una via di degradazione di alcuni composti. Le proteine, o nucleoproteine, che
devono essere eliminate, in quanto dannose, vengono legate all’ubiquitina; è proprio l’ubiquitina a
indirizzarle nel proteasoma, un complesso proteico con capacità proteolitiche.

Le proteine ubiquitinate sono riconosciute dagli anelli esterni del proteasoma, perdono la loro struttura
ripiegata e vengono costrette ad entrare nel tunnel dell’organello in forma svolta. Due subunità catalitiche,
dette LMP-2 e LMP-7, sono fondamentali per la funzione del proteasoma e sono codificate nella stessa
regione dove si trovano i geni per MHC. Esse degradano la proteina antigenica in corti peptidi di 6-30
amminoacidi che possiedono caratteristicamente residui idrofobici o basici al C terminale.

I MEDIATORI DELLA RISPOSTA ASPECIFICA


Le risposte immunitarie aspecifiche sono rappresentate da:

- Barriere fisiche, come la pelle


- Particolari recettori che riconoscono i profili molecolari
- Attività di alcune proteine, chiamate citochine
- Attività di proteine che costituiscono il sistema del complemento
- Azione di alcune cellule specializzate, i fagociti
- Cellule dendritiche
- Cellule natural killer (NK)
- Risposta infiammatoria

Il rivestimento esterno non è costituito solo dalla pelle, ma comprende anche:

- Il tratto digestivo
- Le vie respiratorie
- Il tratto urinario
- La vagina

Che si aprono all’esterno e sono rivestiti da epiteli che fungono da barriera protettiva. Il rivestimento
esterno è una barriera fisica provvista di “armi” chimiche. Ad esempio:

- L’epitelio della cute contiene proteine difensine, presenti anche nella saliva
- Il muco contiene mucina

103
- I tessuti, le lacrime e altri fluidi corporei contengono lisozima, indirizzato soprattutto ai
batteri Gram positivi.
- Alcune zone dell’organismo presentano dei batteri simbionti. Oltre ad essere utili per
tantissimi aspetti, ad esempio nell’intestino producono vitamine, rappresentano anche una
difesa dalla presenza di batteri estranei dall’organismo perché si instaura un meccanismo di
competizione con essi, fino ad avere il sopravvento.

I due gruppi principali di molecole solubili sono:

- Le citochine
- Il sistema del complemento

LE CITOCHINE
Le citochine sono un gruppo molto diversificato di peptidi e proteine (molte sono glicoproteine). Sono
molecole segnalatrici e di regolazione. Sono prodotte da molti differenti tipi di cellule e influenzano molti
differenti tipi di cellule. Si legano su specifici recettori delle cellule bersaglio e possono stimolare una
segnalazione sia autocrina che paracrina. In alcuni casi, se prodotte in grande quantità, fungono da agenti
endocrini (ormoni). Hanno una denominazione che deriva dalla loro funzione:

- Interferoni
- Fattori di necrosi tumorale (TNF)
- Interleuchine
- Chemochine

INTERFERONI

Alcune cellule infettate da virus o da altri parassiti intestinali, secernono citochine chiamate interferoni che
sono di due tipi:

- Interferoni di tipo I
- Interferoni di tipo II, detti anche interferoni γ

Gli interferoni di tipo I sono prodotti dai macrofagi o dai fibroblasti. Essi inibiscono la replicazione virale e
attivano le cellule natural killer. Possono influenzare l’attività di alcune cellule proprie della risposta
specifica, poiché c’è una forte interazione tra i due tipi di risposta immunitaria.

Gli interferoni di tipo II svolgono funzione sia nella risposta immunitaria aspecifica che in quella specifica in
cui stimolano i macrofagi a distruggere cellule tumorali e cellule infettate da virus.

FATTORE DI NECROSI TUMORALE (TNF)

Stimola le cellule immunitarie a determinare la risposta infiammatoria, in presenza di batteri Gram-


negativi, altri patogeni e alcuni tumori. E’ secreto principalmente dai macrofagi e dai linfociti T. Quando è
prodotto in grande quantità, agisce sull’ipotalamo (centro della termoregolazione) inducendo la comparsa
della febbre. In alcuni casi può portare ad uno shock settico, condizione potenzialmente letale.

104
INTERLEUCHINE

E’ un gruppo diversificato di proteine prodotte dai macrofagi e dai linfociti. Sono denominate con un
numero progressivo in base alla loro scoperta.

CHEMOCHINE

Sono una tipologia ampia e specifica di citochine, sono molecole di segnalazione che regolano altre cellule
del sistema immunitario.

SISTEMA DEL COMPLEMENTO


Si chiama così perché complementa l’azione di altri meccanismi di difesa. Il sistema del complemento
consiste in più di 20 proteine presenti nel plasma e in altri fluidi corporei. In condizioni normali, in assenza
di antigeni, queste proteine rimangono inattive nel sangue circolante fino a quando l’organismo viene in
contatto con un antigene. Quando c’è contato con l’antigene, queste proteine si attivano. L’attivazione del
complemento implica una serie di reazioni a cascata. La risposta che attivano è aspecifica e hanno quattro
principali azioni:

- Determinano la lisi di virus, batteri e cellule tumorali


- Rivestono i patogeni, rendendoli meno scivolosi in modo che i fagociti possano fagocitarli
meglio
- Attraggono le cellule bianche del sangue nei luoghi di infezione
- Si legano a specifici recettori che sono presenti in alcune cellule del sistema immunitario.

Queste proteine del complemento, in mancanza di contatto con un antigene, sono inattive, mentre in
presenza di un antigene devono essere attivate. Ci sono tre vie di attivazione:

- La via classica
- La via alternativa
- La via lectinica

Queste tre vie partono da momenti differenti (anche se due di queste hanno partenza comune), ma hanno
tutte lo stesso obiettivo: la trasformazione del C3 in C5 convertasi.

LA VIA CLASSICA E LA VIA LECTINICA

La via classica e la via lectinica hanno un inizio differente ma continuano in un ugual modo.

Nella via classica, la proteina del complemento C1 si lega agli anticorpi che precedentemente hanno legato
l’antigene. Si forma il legame tra il C1 e la proteina del complemento C4.

La via lectinica differisce per il percorso iniziale: esso prevede un legame tra un antigene, sulla cui parete
cellulare ci sono residui di mannosio, e il complesso MBL. Questo complesso permette il successivo legame
con la proteina del complesso C4. Quello che accade dopo è simile alla via classica, fino a che si ottiene il
105
clivaggio del C5. (Si parte da condizioni di contatto della cellula batterica diverse, ma poi la via prosegue
nella stessa maniera).

In seguito al legame, si ha il clivaggio (si stacca una subunità) del C4, che si suddivide in:

- C4A che si libera, diventando inattivo


- C4B che resta legato alla superficie batterica.

Il C4B consente l’arrivo del C2, con cui si lega. Questo legame consente il clivaggio del C2, che si scinde in:

- C2A, che rimane legato


- C2B, che viene eliminato.

Si forma il complesso C4B-C2A.

Contemporaneamente si ha un’amplificazione del segnale tramite il clivaggio del C3. Molte molecole del C3
subiscono un clivaggio in:

- C3A, parte inattiva che viene eliminata


- C3B (parte attiva) che si va a legare il complesso formatosi sulla superficie del batterio.

L’obiettivo è formare un complesso proteico riconoscibile dal C5, che vi si lega. Il complesso causa il
clivaggio del C5 in C5B (parte attiva).

LA VIA ALTERNATIVA

Nella via alternativa, abbiamo un clivaggio spontaneo del C3 in:

- C3A, parte inattiva


- C3B, parte attiva.

Il C3B si lega alla cellula batterica e al fattore B. Si forma un assemblato di proteine. Questo determina un
profilo che consente l’arrivo di una proteina specifica, chiamata properdina, che ha come funzione quella di
stabilizzare l’intero complesso e determina il clivaggio del fattore B. Questa condizione porta ad un
ulteriore clivaggio di C3 che, con la divisione in C3b, porta ad ottenere un ulteriore legame di quest’ultimo
con il complesso C3b-fattore B visto prima, ottenendo in questo modo il complesso C3b-fattore B-C3b.
Questo complesso permette l’arrivo della proteina di legame C5 ed il suo successivo clivaggio, che ci porta
ad ottenere il C5b.

Il C5b poi si associa ad altre proteine del complemento, C6 e C7. Il complesso, grazie al C6, lega la superficie
del batterio attraverso il doppio strato fosfolipidico, e arrivano altre proteine come il C8.

L’ultima proteina che si assembla è il C9 che crea un foro nella membrana del batterio, dal quale entrano
liquidi extracellulari nella parete cellulare, determinando la lisi della parete e di conseguenza l’eliminazione
del batterio (morte a causa di rigonfiamento).

106
LA RISPOSTA INFIAMMATORIA

La risposta infiammatoria è una risposta protettiva. E’ una reazione del corpo all’invasione dei patogeni o a
una lesione. Anche se è una risposta locale, spesso ma può coinvolgere anche l’intero organismo. Il sintomo
clinico è la febbre.

INFIAMMAZIONI ACUTE
L’infiammazione acuta può avere diverse cause:

- infezioni, di qualsiasi tipo, con rilascio di sostanze proinfiammatorie (es. citochine)


- tossine prodotte dai patogeni.
- Corpi estranei. I recettori TLR (Toll-like receptors) sono in grado di riconoscere organismi
estranei (non self) e scatenare la risposta immunitaria mediante infiammazione.
- risposta immunitaria
- in condizioni patologiche può essere anche diretta verso cellule self facendo insorgere una
malattia autoimmune.

Abbiamo diverse fasi dell’infiammazione acuta:

- Rubor: arrossamento dovuto all’aumento di sangue nell’area


- Tumor: rigonfiamento dovuto all’edema
- Calor: aumento della temperatura in seguito all’iperemia e ad un aumento del
metabolismo cellulare
- Dolor: dolore per alterazioni biochimiche locali
- Functio laesa: inibizione della funzionalità dell’area colpita (es. un’articolazione) a causa del
dolore e degli squilibri indotti dai meccanismi facilitatori dell’infiammazione (es.
edema)sull’integrità delle strutture infiammate.

INFIAMMAZIONI CRONICHE
L’infiammazione cronica è un processo flogistico di lunga durata in cui coesistono l’infiammazione attiva, la
distruzione tissutale e i tentativi di riparazione. Può determinare l’insorgenza di alcune patologie.

107
RISPOSTA IMMUNITARIA SPECIFICA

La risposta immunitaria specifica si sviluppa in seguito ad un’infezione e si adatta a specifici patogeni. La


specificità è riferita a macromolecole. Durante la risposta immunitaria aspecifica, l’organismo innesca
anche la risposta specifica che richiede alcuni giorni per manifestarsi.

Ci sono due principali tipi di risposta specifica:

- Immunità mediata da cellule


- Immunità mediata da anticorpi

Nella risposta immunitaria specifica, le cellule fondamentali sono:

- I linfociti
- Le cellule che presentano l’antigene (APC)

Quando abbiamo la cellula della risposta mediata da cellule, intervengono i linfociti T. Una cellula APC (in
grado di legarsi agli antigeni e di presentarli al linfocita T) crea un complesso tra l’antigene del patogeno
inglobato e il complesso MHC. Questo viene esposto sulla superficie cellulare e presentato alla cellula T
helper. La T helper si attiva, si ingrandisce e inizia la divisione per mitosi: avremo quindi tante cellule T.
Alcune di queste costituiranno le cellule T memoria, le altre invece sono cellule mature e attive che
producono citochine. Le citochine attivano i linfociti T citotossici.

Il patogeno inglobato all’origine, nel frattempo, ha infettato altre cellule. Per questo anche qui si avrà
l'esposizione del complesso MHC, che viene riconosciuto dalle cellule T citotossiche (attivate dalle citochine
delle T helper). Quindi si instaura un legame che poi porta alla morte della cellula infettata.

IMMUNITA’ MEDIATA DA ANTICORPI


Gli anticorpi sono proteine rappresentate con forma a Y, costituita da due catene pensanti molto più
lunghe, ognuna legata ad una catena leggera. Gli anticorpi hanno:

- una regione costante, rappresentata sia nelle catene pesanti sia in quelle leggere;
- una regione variabile, presente sia nelle catene pesanti sia nelle catene leggere,
differenziano i vari anticorpi tra di loro. Queste regioni variabili determinano il profilo
molecolare che riconosce uno specifico antigene, che viene legato dalle regioni variabili di
entrambe le tipologie id catene. Tra gli anticorpi abbiamo:
- IgG: costituiscono circa il 75% dei nostri anticorpi, attraversano la placenta proteggendo il
feto e, successivamente, il neonato
- IgM: primi anticorpi prodotti nel corso di una risposta immunitaria. IgG e IgM interagiscono
entrambi con i macrofagi e attivano il complemento
- IgA: presenti in muco, lacrime, saliva e latte, impediscono a virus e batteri di attaccarsi alle
superfici epiteliali, sono meccanismi di difesa contro patogeni inalati o ingeriti
- IgD: sono poco presenti nel plasma (<1%), insieme alle IgM sono presenti sulla superficie
delle cellule B contribuendo alla loro attivazione
- IgE: hanno bassa concentrazione plasmatica, possono combinarsi con i mastociti che
contengono e rilasciano istamina. L’istamina è responsabile di molti sintomi allergici.

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Gli anticorpi vengono chiamati anche immunoglobuline. In generale, gli anticorpi formano un complesso
antigene-anticorpo. Questo complesso non deve necessariamente essere esposto sulla membrana ma può
essere libero di circolare. L’obiettivo principale è quello di neutralizzare l’agente patogeno.

Le cellule B sono responsabili dell’immunità mediata da anticorpi (immunità umorale). Una cellula B può
produrre molte copie di un anticorpo specifico, che può agire da recettore di superficie e legarsi con
l’antigene.

Per produrre anticorpi, le cellule B devono essere attivate.

La cellula B interagisce indipendentemente con un antigene estraneo; contemporaneamente una cellula


APC fagocita un batterio e lo processa. In questo modo nel complesso MHC l’antigene viene esposto sulla
superficie della cellula APC. La cellula APC, tramite il complesso MHC, attiva una cellula T helper libera che
produce citochine e interagisce con la cellula B (che nel frattempo aveva preso contatto con l’antigene).

Questa combinazione determina l’attivazione della cellula B. La cellula B aumenta di grandezza e inizia un
ciclo cellulare. Si divide per mitosi, si formano cloni e alla fine si ha un differenziamento in plasmacellule e
cellule memoria. Le plasmacellule producono anticorpi che riconoscono gli antigeni dei batteri che all’inizio
hanno interagito con la cellula B, determinando la specificità del meccanismo.

MALATTIE AUTOIMMUNI
I linfociti sviluppano la capacità di distinguere il self dal non self; tuttavia, alcuni linfociti hanno la
potenzialità di innescare una risposta immunitaria contro tessuti dello stesso individuo. Questa forma di
ipersensibilità è conosciuta come autoimmunità. Esempi di malattie autoimmuni sono:

- Il morbo celiaco
- L’artrite reumatoide
- La sclerosi multipla
- Il lupus eritematoso sistemico
- Il diabete insulino-dipedente

FATTORE RH
Il fattore Rh è uno specifico antigene proteico sulla superficie dei globuli rossi. Possono essere presenti tre
determinanti antigenici: C, D, E. Il D è presente nell’85% della popolazione umana.

Se si possiede l’antigene D (autosomico dominante), il gruppo è sanguigno è RH+. Se manca, il gruppo


sanguigno è RH- (siccome è un fattore dominante, se è presente in almeno uno dei due alleli è Rh positivo,
se manca in entrambi è Rh negativo).

Questa condizione del fattore RH è importante durante la gravidanza.

Ad esempio abbiamo una madre con Rh negativo e feto con Rh positivo. L’organismo della madre reagirà al
sangue del bambino (passato attraverso la placenta) identificandolo come un corpo estraneo. Il passaggio
di globuli rossi che hanno l’antigene D determina la produzione di anticorpi, rivolti contro l’antigene D.

109
Questi anticorpi nella prima gravidanza non causano problemi perché il bambino, nella maggior parte dei
casi, nasce prima che gli anticorpi riescano a svilupparsi. Nella seconda gravidanza, gli anticorpi materni
passano nel sangue del feto, causando un'emolisi e determinando anche la morte del feto.

Nel caso dell’allergia al polline, l’esposizione al polline determina la produzione di anticorpi


(immunoglobuline). Queste si legano ai mastociti che, a loro volta, producono istamina. L’istamina
determina una vasodilatazione, un aumento della permeabilità dei capillari, edema, arrossamento, febbre
da fieno.

110
SISTEMA ENDOCRINO
Il sistema endocrino è un insieme eterogeneo di cellule, tessuti e organi, comprese le ghiandole endocrine che
producono e secernono gli ormoni.

Il sistema endocrino lavora in stretta collaborazione con il sistema nervoso per mantenere lo stato di omeostasi e per
dare risposte in reazione a degli stimoli. Il sistema endocrino, rispetto al sistema nervoso, risponde molto più
lentamente, ma le sue risposte sono più durature.

La funzione endocrina e nervosa si sovrappongono e utilizzano entrambe delle molecole segnale. Il sistema endocrino
utilizza gli ormoni mentre il sistema nervoso utilizza i neurotrasmettitori, tuttavia, una stessa molecola segnale può
funzionare sia da neurotrasmettitore sia da ormone, a seconda della fonte che la produce.

LE GHIANDOLE ENDOCRINE

Le principali ghiandole endocrine nell’uomo sono:

- l’ipotalamo
- l’ipofisi
- la tiroide
- la paratiroide
- le ghiandole surrenali
- il pancreas
- i testicoli o le ovaie

IL SISTEMA LINFATICO

È un sistema strettamente connesso con quello endocrino, composto da una rete


di vasi interconnessi fra di loro, dove troviamo organi linfatici che possono essere:

- PRIMARI: Timo e Midollo Osseo;


- SECONDARI: Linfonodi e Milza;
- TESSUTO LINFATICO TERZIARIO.

GLI ORMONI

Vengono definiti ormoni tutti i messaggeri chimici, prodotti dalle ghiandole endocrine, che provocano una reazione
specifica. Ad ogni ormone corrisponde un recettore specifico sulle cellule bersaglio, a cui si lega l’ormone, in grado di
riconoscerlo anche a basse concentrazioni. Gli ormoni, in genere, raggiungono i recettori attraverso il torrente
sanguigno avvalendosi di una rete di capillari definita sistema linfatico, ma possono anche:

- raggiungerli tramite i fluidi interstiziali, coinvolgono le cellule vicine alla ghiandola che emette il
segnale e non necessitando di un mezzo di trasporto (ormoni paracrini)
- agire direttamente sulle cellule che li producono (ormoni autocrini).

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Alcuni neuroni possono produrre una segnalazione neuroendocrina, producendo ormoni che vengono immessi nel
torrente circolatorio e trasportati.

Dal punto di vista chimico, gli ormoni si dividono in quattro categorie:

- derivati dagli amminoacidi


ES. adrenalina, noradrenalina, dopamina, tiroxina, triidotironina
- ormoni peptidici, cioè catene proteiche di 80-100 AA
ES. ossitocina, ormone antidiuretico (ADH)
- ormoni steroidei
ES. cortisolo, aldosterone, ormoni sessuali
- ormoni derivati dagli acidi grassi
ES. prostaglandine, tromboxani

L’IPOTALAMO

Sistema endocrino e nervoso collaborano per ottenere delle


risposte. Questa collaborazione avviene grazie all’ipotalamo, che è il
centro di coordinamento tra la funzionalità del sistema nervoso e
quella del sistema endocrino. L’ipotalamo si trova sotto il talamo,
alla base dell’encefalo, ed è connesso con l’ipofisi. Essendo in
connessione con il sistema nervoso, ne riceve i comandi e li
trasferisce all’ipofisi, che agisce sul sistema endocrino. L’ipotalamo
effettua quindi un:

- controllo del sistema nervoso autonomo,


interferendo con
• mobilità viscerale
• riflessi
• ritmo sonno-veglia
• bilancio idrosalino
• mantenimento della temperatura corporea
• appetito

112
• espressione degli stati emotivi
- controllo del sistema endocrino, con il rilascio di fattori come
• ossitocina: stimola la contrattura della muscolatura liscia
• vasopressina (ormone antidiuretico ADH): agisce sul rene ed è sensibile all’attività degli
osmocettori

I FATTORI DI RILASCIO
L’ipotalamo produce e rilascia fattori di rilascio che raggiungono l’ipofisi consentendole di rilasciare specifici ormoni.
Tra questi fattori di rilascio troviamo anche l’ossitocina e la vasopressina, che vengono stoccati nella neuroipofisi
(ipofisi posteriore) e vengono rilasciati in seguito a stimoli.

Tra i fattori di rilascio (RH) abbiamo:

- TRH: fattore di rilascio per la tireotropina


- GnRH: fattore di rilascio per la gonadotropina
- CRH: fattore di rilascio per l’adenocorticotropo
- GHRH: fattore di rilascio per l’ormone della crescita

L’Ipotalamo, quindi, produce questi fattori di rilascio che invia all’Ipofisi, che a sua volta rilascerà i rispettivi ormoni.
Tuttavia, l’ipotalamo produce anche dei fattori di inibizione (definiti IF),
dato che in un complesso sistema devono esserci meccanismi che
stimolano la produzione di determinati ormoni ma anche altri meccanismi
di controllo, i quali si basano sull’attività di questi fattori di inibizione (ad
esempio meccanismi di controllo a feedback negativo oppure a feedback
positivo).

L’IPOFISI

Quando si parla di una ghiandola endocrina si stabilisce una connessione


che parte dall’ipotalamo, attraversa l’ipofisi per poi giungere alla
ghiandola bersaglio (Asse Ipotalamo-Ipofisi-Ghiandola). Nell’ipofisi, anche
chiamata ghiandola pituaria, si distinguono due porzioni:

- Lobo anteriore – adenoipofisi che secerne:


• Ormone somatotropo (GH)
• Ormone tireotropo (TSH)
• Ormone adenocorticotropo (ACTH)
• Ormone follicolo stimolante (FSH)
• Ormone luteinizzante (LH)
• Prolattina (PRL)

113
- Lobo posteriore – neuroipofisi che non produce
ormoni, bensì stocca e rilascia:
• Ormone antidiuretico (ADH)
• Ossitocina

ORMONE SOMATOTROPO
L’ormone somatotropo o ormone della crescita (GH – somatotropina – ormone somatotropo STH):

- Stimola la crescita cellulare e accelera i processi mitotici


- Favorisce il trasporto attivo degli amminoacidi
- Accelera il processo di sintesi proteica

Il meccanismo di controllo di secrezione è affidato a due prodotti ipotalamici:

- Il fattore di liberazione della somatotropina (GRH)


- Somatostatina

L’ipoproduzione di quest’ormone durante l’infanzia determina un arresto della crescita corporea e l’instaurarsi di un
particolare tipo di nanismo (nanismo pituitario). Al contrario, l’ipersecrezione durante l’infanzia determina gigantismo
(altezza anche superiore ai 2m). Se l’ipersecrezione avviene nell’adulto, comporta accrescimento dei tessuti molli e
ispessimento delle strutture ossee. Si assiste ad un ingrandimento progressivo delle estremità del corpo (mani e
piedi), ad una protusione della mandibola e ad un’ipertrofia della lingua e della cartilagine: questa condizione è nota
con il nome di acromegalia.

PROLATTINA
La prolattina promuove la produzione di lattosio, mantenendola dopo il parto

ORMONE TIREOTROPO (TSH)


L’ormone tireotropo TSH è una glicoproteina che controlla il processo di secrezione di alcuni ormoni tiroidei

ORMONE ADRENOCORTICOTROPO (ACTH)


L’ormone adrenocorticotropo ACTH è un peptide deputato al controllo della sintesi e della secrezione di determinati
ormoni della corticale del surrene.

114
ORMONE FOLLICOLO STIMOLANTE (FSH) E LUTEINIZZANTE (LH)
L’ormone follicolo stimolante FSH e luteinizzante LH sono glicoproteine e gonadotropine, poiché esplicano la loro
azione sulle gonadi e sugli organi della riproduzione.

ORMONE ANTIDIURETICO (ADH)


L’ormone antidiuretico ADH stimola il riassorbimento di acqua, in tal modo esercita un ruolo fondamentale
nell’equilibrio idrico.

OSSITOCINA
L’ossitocina causa la contrazione della muscolatura liscia della parete uterina e stimola le contrazioni uterine nelle fasi
avanzate del parto.

L’asse ipotalamo-ipofisi, cioè la connessione che parte dall’ipotalamo e va all’ipofisi, è comune a tutte le ghiandole.
Esistono poi diversi assi che collegano l’ipofisi ad ogni ghiandola bersaglio specifica.

LA TIROIDE

La tiroide è una ghiandola endocrina posta nella regione anteriore del


collo.

E’ in grado di sintetizzare e produrre l’ormone tiroideo sotto forma di


tiroxina (T4) e triiodiotironina (T3) , quest’ultima è la forma attiva
dell’ormone. Le azioni sono estremamente ampie e vanno dallo sviluppo
del sistema nervoso centrale, all’accrescimento corporeo, al controllo di
numerose funzioni metaboliche.

La funzionalità degli ormoni tiroidei è associata alla disponibilità di iodio.


L’apporto di quantità adeguate di iodio rappresenta un requisito essenziale
per la normale produzione dell’ormone tiroideo: per avere ormoni tiroidei
funzionali, occorre disponibilità di iodio. Lo iodio è un elemento raro in
natura, è presente negli alimenti e nelle acque in concentrazioni variabili a seconda di quello che viene definito il
tenore iodico dell’ambiente.

La carenza iodica nel suolo e, di conseguenza, negli alimenti costituisce un fattore predisponente alla patologia
tiroidea. Lo iodio assunto con l’alimentazione viene assorbito sotto forma di ioduro (I-) e immagazzinato nella tiroide
per formare T3 e T4.

La funzione della ghiandola è controllata dall’ipofisi mediante un ormone detto TSH. Se l’ormone tiroideo si abbassa, il
TSH comanda la sua liberazione dalla tiroide; se invece circola troppo ormone tiroideo, l’ipofisi mette a riposo la
ghiandola tiroidea.

Il fattore limitante è quindi lo iodio, che viene conservato nella tiroide come I- e entra nelle cellule sfruttando il
trasporto del sodio, in una sorta di simporto. Lo ioduro I-, attraverso l’enzima perossidasi tiroidea, si trasforma in Iodio
diatomico e viene aggiunto ad una tireoglobulina (Tyr), tramite l’enzima ionidasi.

115
La tireoglobulina è composta da circa 70 tirosine. Ad
una tirosina può essere aggiunto uno iodio
(MonoIodioTirosina o MIT) oppure due atomi di
iodio (DiIodioTirosina o DIT). Dalla combinazione di
una molecola di MIT e una molecola di DIT si ottiene
il T3, da due molecole di DIT si ottiene il T4.

PARATIROIDI
Le paratiroidi, generalmente presenti in numero di quattro immerse nel tessuto connettivo della tiroide, due superiori
e due inferiori, sono piccoli organi endocrini che secernono il paratormone (PTH), un ormone che insieme alla
calcitonina prodotta dalla tiroide regola il metabolismo del calcio e del fosforo.

DISTURBI ENDOC RINI

Il malfunzionamento della tiroide può portare all’insorgere di patologie determinate da:

- un’iposecrezione, cioè la sottoproduzione di un ormone


- un’ipersecrezione, cioè la sovrapproduzione di un ormone.

L’assenza di ormoni tiroidei determina il rilascio del fattore ipotalamico TRH. Questo stimola la secrezione di TSH
ipofisario. Il TSH ipofisario stimola la sintesi dei precursori di T3 e T4 che, tuttavia, possono non portare alla
formazione di T3 e T4 per mancanza di iodio. I precursori si accumulano determinando ingrossamento della tiroide e
quindi il caratteristico gozzo.

IPERTIROIDISMO
La condizione in cui la ghiandola tiroidea funziona in eccesso (a causa di un malfunzionamento del meccanismo di
feedback) rilasciando troppo ormone che si accumula nell’organismo, si definisce ipertiroidismo. Il termine di
tireotossicosi indica anch’esso la presenza di quantità di ormone troppo elevate, ma si riserva in genere a situazioni
derivate da fatti infiammatori a carico della ghiandola o da esagerate assunzioni farmacologiche di ormone tiroideo o
ancora da patologie tumorali extratiroidee.

116
Sintomatologie:

- nervosismo
- irritabilità
- stanchezza
- palpitazioni
- aumento appetito
- aumento pressione arteriosa
- protusione dei globi oculari
- malattia di Graves

IPOTIROIDISMO
Quando gli ormoni tiroidei sono insufficienti, si realizza una condizione clinica definita ipotiroidismo. Nella fase
neonatale causa cretinismo, mentre in età adulta causa mixedema. Tra i sintomi troviamo:

- debolezza
- perdita di appetito
- aumento di peso
- palpebre gonfie
- gambe gonfie

IL PANCREAS

Il pancreas è un organo a doppia funzione:

- esocrina, coinvolta nella digestione


- endocrina, che coinvolge alcune cellule
specifiche localizzate in delle aree
chiamate “Isole di Langerhans”.

Le cellule delle isole di Langerhans si distinguono in


cellule α e β. Queste cellule secernono due ormoni ad
azione antagonista che controllano l’omeostasi del
glucosio, agendo sul fegato, sui muscoli e sul tessuto
adiposo. Questi ormoni sono:

- l’insulina, secreta dalle cellule β:


ipoglicemizzante, anabolizzante
- il glucagone, secreto dalle cellule α: innalza il livello di glucosio nel sangue

L’azione combinata di questi due ormoni determina un livello di glicemia che rappresenta il valore ottimale e deve
trovarsi all’interno di uno specifico range (70-100 mg/dl a digiuno). Quando i valori superano un limite di tolleranza si
ha la condizione patologica del diabete.

117
IL DIABETE
Nel momento in cui la concentrazione di glucosio nel sangue non è più all’equilibrio (soprattutto a causa dell’insulina),
si manifesterà una condizione patologica chiamata DIABETE. Esistono due forme principali di diabete:

- diabete di tipo 1 – insulino dipendente


E’ quello in cui il pancreas non produce l’insulina essenziale per la sopravvivenza. Questa forma si
sviluppa più facilmente nei bambini e negli adolescenti, anche se la sua prevalenza è in aumento in
persone di età più avanzata. Sono stati identificati alcuni geni coinvolti nell’insorgenza della malattia
e una serie di marcatori genetici utilizzabili per la diagnosi.

- Diabete di tipo 2 – non insulino dipendente (resistenza all’insulina)


E’ determinato dall’incapacità del corpo di rispondere in modo adeguato all’azione dell’insulina
prodotta dal pancreas. Il diabete di tipo 2 è molto più frequente e rappresenta circa il 90% dei casi in
tutto il mondo. Normalmente si manifesta negli adulti perché è legato allo stile alimentare e allo
sport, ma negli ultimi anni si è notato un aumento della prevalenza anche negli adolescenti. La
natura ereditaria del diabete di tipo 2 è nota da tempo, anche se solo recentemente sono stati
individuati alcuni geni consistentemente associati al rischio di malattia.

L’insulina si lega su un recettore specifico che abbiamo sule cellule. Attraverso trasduzione del segnale, permette
l’apertura di canali che fanno entrare il glucosio. A causa di uno stile di vita poco salutare potremmo avere uno stato
infiammatorio cronico che, attraverso molecole di lipopolisaccaridi, incide sul recettore dell’insulina impedendo il
legame con l’insulina e l’ingresso del glucosio nelle cellule. Per questo aumenta la concentrazione di glucosio a livello
ematico, nonostante ci sia insulina disponibile per scatenare l’ingresso nella cellula e per ridurre la glicemia. Due anni
di insulino resistenza portano ad una condizione di diabete di tipo 2.

L’insulinomia è il valore riguardante l’insulina e permette di comprendere la nostra condizione di insulino resistenza,
attraverso un indice chiamato Indice di Homa, il cui range va da 0.23 a 2.5, un valore superiore indica una insulino
resistenza.

- Homa index = glicemia x insulinemia/22,5 (G mmol/L; I mU/L)


- Homa index = glicemia x insulinemia/405 (G mg/100ml; I mU/L)
- Range di normalità = 0,23 – 2,5

118
GHIANDOLE SURRENALI

Le ghiandole surrenali producono ormoni che ci aiutano a essere pronti e scattanti nelle situazioni di
emergenza. Le ghiandole surrenali producono ormoni a seconda del loro distretto. Si distinguono due
strutture che secernono ormoni differenti:

- Midollare: adrenalina, noradrenalina


- Corticale: aldosterone, cortisolo

ALTRE GHIANDOLE ENDOCRINE

Altre ghiandole endocrine, associate però al sistema linfatico, sono:

- l’epifisi/ghiandola pineale: le cellule pineali secernono melatonina, che viene sintetizzata a


partire dalla serotonina
- il timo: nel timo maturano i linfociti T, è una ghiandola relativamente voluminosa nei
bambini, successivamente subisce un’involuzione con l’avanzare dell’età. Produce ormoni,
come la timosina, che hanno a che fare con diverse funzioni dell’organismo
- ghiandole sessuali:
• ovaie: estrogeni, progesterone
• placenta: estrogeni, progesterone
• testicoli: testosterone

119
LA RIPRODUZIONE
La riproduzione richiama il meccanismo meiotico, simile nei
due sessi, che ha come obiettivo finale il dimezzamento del
corredo cromosomico e la possibilità di garantire variabilità
genetica attraverso il crossing over. Tuttavia, possiamo
determinare due linee germinali, una maschile detta
spermatogenesi e una femminile detta ovogenesi.

In quella maschile abbiamo cellule indifferenziate che si


dividono in mitosi. Dopo aver superato la fase S, esse
prendono la denominazione di spermatogoni. Gli
spermatogoni entrano in meiosi I come spermatociti primari
(che sono ancora in diploidia a doppio cromatidio) divenendo
alla fine della prima divisione spermatociti secondari. Al
termine della meiosi II, otteniamo infine quattro spermatidi con corredo aploide monocromatidico che
andranno incontro a maturazione attraverso la spermatogenesi per divenire spermatozoi.

Nella gametogenesi femminile partiamo da cellule indifferenziate che, quando escono dal ciclo cellulare
dopo la fase S, vengono chiamate ovogoni. Questi diventano ovociti primari (che sono ancora in diploidia a
doppio cromatidio) quando entrano in meiosi I. Come risultato della prima divisione abbiamo l’ovocita
secondario, che entra in meiosi II. Al termine della meiosi II otteniamo una sola cellula funzionante,
chiamata cellula uovo, e tre cellule che vanno incontro a degenerazione dette globuli polari.

120
SVILUPPO EMBRIONALE
La cellula uovo andrà incontro a maturazione solo nel caso in cui avviene la fecondazione da parte di uno
spermatozoo che la riconosce ripristinando così il corredo cromosomico diploide nello zigote. Parliamo di
riconoscimento da parte dello spermatozoo poiché la cellula uovo presenta una membrana post-zigotica
che non permette la fecondazione tra soggetti appartenenti a due specie diverse.

Una cellula uovo che viene fecondata da uno spermatozoo porta alla formazione di uno zigote, il quale
ripristina il corredo diploide (ma i cromosomi sono ancora a singolo cromatidio, dato che ogni gamete ha
dato come apporto cromosomi aploidi a singolo cromatidio). A seguito della fecondazione, lo zigote è il
punto di avvio per la formazione di un embrione, per cui dovrà dividersi entrando così in un “contesto” di
ciclo cellulare. La differenza tra questo ed un normale ciclo cellulare è che in questo caso le cellule che si
formano a seguito della divisione non si separano (rimangono adese) a formare la morula.

Una volta raggiunto lo stadio di


morula si forma una cavità interna e,
successivamente, si originano i
foglietti embrionali:

- mesoderma,
- ectoderma,
- endoderma

dai quali si svilupperanno i vari tessuti


ed organi che ci porteranno alla
formazione dell’embrione, cioè il
nuovo individuo. Tutte le varie fasi
della gametogenesi sono controllate
dagli ormoni quindi dal sistema
endocrino.

SPERMATOGENESI

La spermatogenesi avviene in organi definiti gonadi maschili, all’interno di una rete di tubuli cavi definiti
tubuli seminiferi. La spermatogenesi è un processo continuo e ininterrotto che produce e rinnova ogni
giorno milioni di spermatozoi. Parte dall’inizio della
pubertà e si protrae fino all’andropausa, che varia da
individuo a individuo. Il fatto che la spermatogenesi
sia continua è rilevante per quanto riguarda
l’esposizione ambientale; infatti, una mutazione
causata da agenti mutageni esterni, come le
radiazioni, non ha un peso rilevante nella
spermatogenesi in quanto vi è un rinnovamento
continuo.

121
Tutte le fasi dello sviluppo degli spermatozoi sono controllate da ormoni. Nel testicolo umano, il principale
precursore degli steroidi testicolari è il colesterolo, assunto per endocitosi legato a lipoproteine a bassa
densità (LDL). Una idrolasi lisosomiale rompe il legame tra colesterolo e LDL; quindi, il colesterolo viene
trasportato fino alla membrana interna dei mitocondri della cellula di Leydig, dove si realizza la sintesi
steroidea.

La sintesi steroidea è controllata dall’ormone gonadotropo LH e ha come obiettivo quello di formare il


principale ormone testicolare, cioè il testosterone, che entrerà nelle cellule bersaglio come
diidrotestosterone.

IL TESTOSTERONE
Gli androgeni escreti dalle cellule di Leydig sono essenzialmente rappresentati da testosterone. Il
testosterone libero penetra nel citoplasma delle cellule bersaglio dove,
dopo essere trasformato in diidrotestotestone (DHT), esercita la propria
azione. E’ il principale ormone sessuale maschile ed è prodotto nelle
cellule interstiziali presenti tra i tubuli seminiferi.

Gli effetti del testosterone si differenziano nelle varie età:

- prima della nascita: sviluppo degli organi sessuali primari e, più tardivamente, la discesa dei
testicoli nello scroto
- alla pubertà (10/12 anni – 16/18 anni): condiziona lo sviluppo della muscolatura e delle
ossa (scatto di crescita), sviluppo delle strutture riproduttive e dei caratteri sessuali
secondari
- nell’adulto: mantenimento dei caratteri sessuali secondari, stimola la spermatogenesi

Nelle cellule dell’encefalo, il testosterone viene convertito in estradiolo, principale ormone sessuale
femminile. E’ questo il motivo per cui bisogna essere acuti quando, in alcune pratiche sportive, si fa uso di
testosterone.

ASSE IPOTALAMO – IPOFISI – TESTICOLI

122
A livello endocrino abbiamo il controllo degli ormoni steroidei e dei caratteri sessuali che si sviluppa lungo
l’asse ipotalamo-ipofisi-testicoli. Gli ormoni coinvolti sono:

- GnRh: ormone di rilascio delle gonadotropine


- LH: ormone luteinizzante
- FSH: ormone follicolo stimolante
- ABP: proteina che lega gli androgeni

L’ipotalamo, che produce e rilascia l’ormone di rilascio delle gonadotropine GnRh e lo invia alla parte
anteriore dell’ipofisi. Questa produce LH e FSH. L’FSH, arrivato ai testicoli, ha come bersaglio le cellule del
Sertoli, che producono l’ABP, una proteina che legano si lega agli androgeni e porta alla spermatogenesi.
L’LH, invece, raggiunge le cellule interstiziali e induce la secrezione ormonale, cioè stimola la produzione di
testosterone.

L’asse ipotalamo-ipofisi-testicoli si compone anche di un processo di feedback negativo (nella figura


evidenziato dalle frecce rosse) e di feedback positivo (frecce verdi) mediato dal testosterone e dall’inibina.
Il testosterone controlla attraverso feedback positivo la sua produzione nelle cellule del Sertoli, e tramite
feedback negativo la arresta nell’ipofisi anteriore inibendo la produzione di LH.

Generalmente, più testosterone si produce, più se ne produrrà (feedback positivo). Tuttavia, dopo una
certe concentrazione, è il testosterone stesso a interagire con l’ipofisi, inibendo la produzione di LH.

L’inibina, prodotta dalle cellule del Sertoli, ha, per contro, azione inibitrice per la produzione di FSH
nell’ipofisi anteriore.

Si pensa infine, che lo stesso testosterone controlli tramite feedback negativo la secrezione di GnRh
nell’ipotalamo.

OVOGENESI

L’ovogenesi ha inizio nelle ovaie, che producono sia gameti sia ormoni sessuali.

Negli individui di sesso femminile troviamo un numero molto alto, ma prestabilito già a livello embrionale
prima della nascita, di migliaia di ovogoni. Questa condizione porta uno svantaggio in quanto, se una donna
è soggetta a mutazioni delle cellule gametiche,
queste saranno trasmesse con una probabilità
molto più elevata agli eredi, poiché gli ovociti
essendo in numero limitato e non prodotti
continuamente non vengono eliminati e
rinnovati, come succede invece per gli
spermatozoi. Mentre nell’uomo, se viene
esposto ad un agente mutageno, va incontro
ad un rinnovo continuo quindi i rischi sono
molto bassi. Nella donna invece non va
incontro ad un rinnovo continuo; quindi, è più
rischioso che la cellula mutata maturi e venga fecondata.

123
Durante lo sviluppo embrionale, gli ovogoni maturano nelle ovaie, aumentando le loro dimensioni e
trasformandosi in ovociti primari. Entrano così in mitosi I, la quale viene bloccata in profase I in fase
prenatale, rimanendo in uno stato di quiescenza fino alla pubertà. Una volta raggiunta la fase di sviluppo
(pubertà), con cadenza mensile, un ovocita primario riattiva la sua meiosi grazie all’attività ormonale del
FSH (ormone follicolo stimolante) e degli estrogeni, arrestandola anche questa volta però in metafase II. La
meiosi II potrà continuare solo in caso di fecondazione da parte di uno spermatozoo.

Nel periodo compreso tra la pubertà e la menopausa, le ovaie elaborano alcuni ormoni steroidei
(androgeni, estrogeni e progesterone) e l’inibina.

Gli estrogeni sono rappresentati dall’estradiolo e dall’estrone. L’estradiolo ha ruolo stimolante per la
crescita e sviluppo di organi e caratteri sessuali alla pubertà, inoltre induce mensilmente l’ispessimento
dell’endometrio in preparazione all’eventuale gravidanza durante il ciclo mestruale. Sono sintetizzati nelle
cellule follicolari a partire dal testosterone fornito dalle cellule della teca interna.

IL CICLO MESTRUALE
Il ciclo mestruale è un ciclo di circa 28 giorni che vede la maturazione di un ovocita in preparazione ad una
eventuale fecondazione. A metà del ciclo (14esimo giorno circa) avviene l’ovulazione. Il follicolo,
contenente l’ovocita, dopo aver subito una stimolazione da parte degli ormoni LH e FSH per il suo sviluppo,
espelle l’ovocita secondario e lo indirizza ad una delle due tube per raggiungere l’utero. Se, durante questo
percorso, l’ovocita secondario viene fecondato, raggiungerà l’utero e inizierà la divisione mitotica dello
zigote. tube. In questa fase il follicolo, privo di ovocita, si trasforma in corpo luteo producendo estrogeni e
progesterone, che permettono un corretto ciclo mestruale, andando incontro poi a degenerazione.

In corrispondenza del periodo di ovulazione, LH e FSH raggiungono la massima concentrazione.

Nel ciclo riconosciamo due fasi importanti una preovulatoria, controllata dagli estrogeni, ed una
postovulatoria controllata dal progesterone, in quest’ultima l’endometrio, stimolato dall’estradiolo, viene
maggiormente irrorato di sangue e si ispessisce per prepararsi all’eventuale impianto dell’embrione. Nel
caso in cui la fecondazione non avvenga, al 28esimo giorno l’endometrio si sfalda dando inizio ad un nuovo
ciclo mestruale con espulsione del sangue accumulato per ispessirsi (mestruazioni).

124
ASSE IPOTALAMO-IPOFISI-OVAIE
Il controllo ormonale si sviluppa lungo l’asse ipotalamo-ipofisi-ovaie. L’ipotalamo produce il fattore di
rilascio della gonadotropina GnRH, che raggiunge il lobo anteriore dell’ipofisi stimolando la produzione e il
rilascio di LH e FSH. Nelle ovaie possiamo poi distinguere tre fasi rilevanti:

- preovulatoria, nella quale le cellule della teca (ovaie) producono inibina e le cellule del
follicolo producono estrogeni per inviare un feedback negativo che arresta la secrezione di
FSH e LH a livello dell’ipofisi. L’FSH viene inibito dall’inibina e dagli estrogeni, mentre l’LH
viene inibito solo dagli estrogeni;
- preovulatoria tardiva, in cui gli estrogeni compiono un feedback positivo che permette una
produzione maggiore di LH e FSH che devono andare a stimolare il follicolo permettendone
la maturazione (in questa fase abbiamo un picco degli ormoni FSH e LH);
- postovulatoria la quale prepara il corpo all’eventuale fecondazione impedendo:
• attraverso la produzione di inibina, la secrezione di FSH,
• tramite estrogeni e progesterone, la secrezione del LH, interferendo direttamente
con l'ipofisi e l’ipotalamo.

In caso di fecondazione ed impianto embrionale l’endometrio non degenera così permettendo lo sviluppo
del nuovo individuo.

Gli ormoni femminili derivano dagli ormoni maschili

125
ECOLOGIA
L’ecologia abbraccia diverse discipline. Il termine deriva del greco οἶκος + λόγος e significa “studio della
casa” degli organismi viventi. Questo non significa solo studiare l’ambiente, ma anche il rapporto che c’è tra
gli organismi viventi e l’ambiente. Su questo pianeta distinguiamo:

- la componente abiotica, costituita dall’ambiente non vivente;


- la componente biotica, costituita dagli organismi viventi.

I LIVELLI DI ORGANIZZAZIONE

In ecologia gli esseri viventi vengono considerati in relazione ai livelli di organizzazione. Avremo quindi:

- la popolazione
- la comunità
- l’ecosistema
- l’ecosfera

per studiare il rapporto tra qualsiasi livello di


organizzazione e l’ambiente in cui gli organismi vivono,
dobbiamo considerare il flusso di energia derivante
dalle radiazioni solari. Attraverso gli autotrofi, questa
energia viene trasferita e distribuita a tutti gli altri
organismi viventi. Nella catena alimentare incide
fortemente il secondo principio della termodinamica.

FATTORI BIOTICI
I fattori biotici tengono conto di come gli organismi viventi interagiscono tra di loro (sia tra individui della
stessa specie che tra individui di specie diverse). Li distinguiamo quindi, secondo fattori biotici, in:

- popolazione
- prede
- predatori
- parassiti
- competitori
- simbionti

126
FATTORI ABIOTICI
Ci sono poi fattori abiotici (fisici) cioè:

- luce
- umidità
- concentrazione di sali o gas
- struttura del substrato

ORGANIZZAZIONE

LA POPOLAZIONE
La popolazione è un gruppo di organismi della stessa specie, cioè è costituita da individui che:

- potenzialmente possono incrociarsi tra di loro,


- producono una progenie fertile,
- hanno un patrimonio genico comune,
- occupano lo stesso spazio nello stesso periodo di tempo, cioè interagiscono tra di loro nello
spazio e nel tempo,
- condividono uno stesso ruolo funzionale, cioè hanno la stessa nicchia ecologica,
- reagiscono in modo simile rispetto agli stimoli determinati dall’ambiente,
- formano un sistema biologico dotato di propri meccanismi di controllo.

Possiamo quindi riassumere affermando che la popolazione è un gruppo di individui della stessa specie che
interagiscono tra loro e che occupano una data area nello stesso periodo di tempo.

LA COMUNITÀ
Ad un livello più alto di organizzazione, troviamo la comunità, costituita dalle popolazioni di tutte le diverse
specie che occupano un determinato luogo.

L’ECOSISTEMA
Aumentando il livello di organizzazione, troviamo l’ecosistema, cioè una comunità di specie differenti che
interagiscono fra di loro e con il loro ambiente, con scambio di materia ed energia.

Popolazione → comunità → ecosistema

LA BIOSFERA
Infine, abbiamo la biosfera/ecosfera, che comprende tutti gli ecosistemi della terra e che coincide con la
rappresentazione del nostro pianeta. Se parliamo di ecosfere a livello globale, troviamo 3 ecosfere:

- atmosfera
• troposfera: 17km, azoto 78%, ossigeno 21%
• stratosfera: 17-48 km, contiene ozono
- idrosfera: acqua liquida, ghiaccio, vapor d’acqua

127
- litosfera: crosta terrestre, mantello superficiale

Se consideriamo l’ambiente più ristretto di tutto il pianeta potremmo trovare ecosistemi sempre composti
da aria, acqua e terra ma uno dei tre potrebbe mancare e rappresentare comunque un ecosistema.

GLI ORGANISMI VIVENTI

Gli organismi viventi non sono distribuiti casualmente sul nostro pianeta. Ci sono dei modelli di
distribuzione spaziale e temporale che sono condizionati dalle strutture spaziali e temporali dell’ambiente.

Tre concetti fondamentali sono:

- la nicchia ecologica
La nicchia ecologica è il ruolo ecologico che ogni specie ha nella struttura e nel
funzionamento di una comunità. La nicchia ecologica tiene conto degli aspetti biotici e degli
aspetti abiotici della vita di una specie, cioè di tutti i fattori fisici (abiotici), chimici e
biologici (biotici) necessari per la sopravvivenza, la salute e la riproduzione. La nicchia
ecologica comprende il contesto chimico-fisico in cui la specie vive, cioè quello che viene
definito habitat. Rappresenta la totalità degli adattamenti di una specie nel suo ambiente, il
modo con cui usa le risorse e lo stile di vita a cui si è adattata nel corso dell’evoluzione.
Ecologia ed evoluzione sono argomenti interscambiabili e strettamente connessi.
L’evoluzione esprime il rapporto tra il nostro pool genico e l’ambiente, mediante la
selezione naturale. La nicchia ecologica esprime quindi anche la capacità adattativa di una
specie rispetto al suo ambiente.

- il biotipo
Il biotopo è un’area di limitate dimensioni di un ambiente dove vivono organismi di una o
più specie (biocenosi)

- l’habitat
L’habitat è il luogo in cui una popolazione (singola specie) vive normalmente.

ECOLOGIA DELLE POPOLAZIONI

Possiamo fare uno studio dimensionale in termini numerici dei singoli individui che compongono una
popolazione, cioè uno studio quantitativo delle dimensioni di una popolazione che prende il nome di
dinamica delle popolazioni. La dimensione di una popolazione deve essere però essere messa sempre in
relazione con l’ambiente in cui la popolazione vive, ad esempio attraverso lo studio della densità.

La densità è il numero di individui di una specie, per unità di area o di volume, presente in un determinato
momento. Essa dipende in gran parte dai fattori abiotici (cioè dipendenti dall’ambiente in cui la
popolazione è distribuita), ma è correlata anche a quelli biotici (interazione con individui di altre specie).
Nello studio della densità di una popolazione occorre valutare i modelli di dispersione, cioè come gli
individui si disperdono in un territorio limitato. Abbiamo 3 modelli di dispersione:

128
- modello casuale/random: prevede che gli individui siano distribuiti “a caso”, non è molto
frequente.
- distribuzione regolare: indica che gli individui che occupano un territorio sono equidistanti
tra di loro. Si verifica quando c’è un forte antagonismo tra i vari individui. Non è
frequentissimo, ma presente comunque in natura.
- modello aggregato: gli individui hanno la tendenza a raggrupparsi e occupare un
determinato territorio. E’ il modello più frequente e rappresenta un meccanismo di difesa.

MODELLO CASULE DI DISPERSIONE


La distribuzione casuale è anche definita random e prevede che gli
individui siano distribuiti a caso, senza un ordine ben preciso. Si tratta di
un tipo di distribuzione piuttosto raro negli ecosistemi naturali. Questo
tipo di distribuzione spaziale si ritrova in quelle popolazioni in cui la
densità degli individui è bassa in relazione a quello che potrebbe essere
atteso sulla base dell’area o del volume disponibile. Può essere il
risultato di effetti casuali o, più raramente, della influenza di un singolo
fattore i cui valori sono essi stessi distribuiti casualmente. In natura, ci si
può attendere questo tipo di distribuzione della popolazione quando
molti fattori tra loro equivalenti agiscono tutti insieme sulla
popolazione. In questa situazione, si ha un’uguale possibilità di occupare ogni punto dell’area e la presenza
di un individuo non influenza la posizione dell’individuo vicino. Si osserva, quindi, che alcuni individui sono
riuniti in gruppo ed altri sono regolarmente spaziati tra di loro: alcuni gruppi sono associati strettamente,
altri no.

MODELLO REGOLARE DI DISPERSIONE


La distribuzione regolare è anche definita uniforme e si ha quando la
competizione tra individui è molto forte e quando c’è antagonismo
positivo, ossia competitività territoriale che permette la suddivisione
regolare dello spazio. Una distribuzione è regolare quando gli individui di
una popolazione sono relativamente affollati e quindi tendono ad
allontanarsi gli uni dagli altri. Sotto questa ipotesi, il numero di individui
per unità di campionamento tende ad essere il massimo possibile. La
caratteristica di questa distribuzione è la regolare spaziatura tra gli
individui nella popolazione e, come condizione limite, in una distribuzione
perfettamente regolare gli individui sono equidistanti gli uni dagli altri.

129
MODELLO AGGREGATO DI DISPERSIONE
La distribuzione raggruppata è definita anche contagiosa ed è la più
comune, con gruppi di individui ben definiti, il cui pattern finale varia però
considerevolmente. L’elevata frequenza di distribuzioni contagiose non
deve sorprendere, perché vi sono molti fattori ambientali che sono
distribuiti in modo non uniforme. Inoltre, molte specie hanno la tendenza
ad aggregarsi ed a produrre una distribuzione contagiosa anche, ad
esempio, per una maggiore organizzazione in gruppi, nel senso che la
distribuzione dei gruppi stessi può essere a sua volta casuale o
raggruppata. La motivazione che porta a questo modello è che, la vita in gruppo (e non isolata) rappresenta
un meccanismo di difesa. È il modello più frequente in natura.

LA SPECIE
Non è semplice dare una definizione di specie, perché per ognuno dei molteplici punti di vista possiamo
dare una diversa definizione. La definizione di specie quindi deve:

- permetterci di classificare gli organismi in modo sistematico


- corrispondere a gruppi discreti di individui simili
- aiutarci a capire come gruppi discreti di organismi compaiono in natura
- rappresentare i prodotti della storia evolutiva
- applicarsi alla varietà più ampia possibile di organismi

una caratteristica di ogni specie è quella di avere una spinta riproduttiva caratterizzante della specie stessa.
Questa capacità riproduttiva si chiama potenziale biotico, che è il tasso massimo con cui un organismo o
una popolazione potrebbe crescere in condizioni ideali. Il potenziale biotico è una caratteristica di ogni
specie. Ogni individuo appartenente ad una specie ha in maniera innata la conservazione della specie
stessa, quindi ha un potenziale biotico per mandare avanti le generazioni.

DINAMICA DELLE POPOLAZIONI


Considerando una specie e la relativa popolazione, volendo fare uno studio in un certo periodo di tempo in
un determinato territorio occupato dalla popolazione si entra in una branca dell’ecologia chiamata
DINAMICA delle popolazioni che indica come varia il numero degli abitanti nel tempo. Per fare uno studio
della dinamica di una popolazione, devo fare una serie di valutazioni:

- valutazione del numero di partenza degli individui


- valutazione della differenza tra nascite (b) e morti (d)
𝛥𝑁
- (variazione degli individui/ variazione del tempo) = b – d
𝛥𝑡
𝛥𝑁
- =rn
𝛥𝑡
- r (tasso di crescita) = (b-d) + (i-e)

Nella stima del tasso di crescita, dobbiamo però valutare anche immigrazioni e emigrazioni ( i e e).

130
In questo modo nel
tempo si studia
l’andamento di una
popolazione. Posso
rappresentare, a seconda
della cadenza delle
valutazioni (per es. ogni
mese, ogni sei mesi),
l’andamento della
popolazione mediante un
grafico. Quello che ci
interessa è il rapporto
della popolazione con l’ambiente: se viene fatto uno studio sperimentale per vedere come una curva di
crescita subisce gli effetti dell’ambiente, per trarne qualche considerazione conviene fare uno studio di
organismi che si riproducono velocemente, tipo una coltura di batteri. Se metto una coltura di batteri in un
terreno di coltura, al tempo 0 inoculo questa coltura, per un certo periodo di tempo non osservo nessuna
crescita. Nella curva di crescita questa prima fase si chiama FASE DI LATENZA e rappresenta il tempo che
impiegano gli organismi ad adattarsi al nuovo ambiente. Finito l’adattamento, inizia una FASE
ESPONENZIALE: gli organismi si dividono ogni mezz’ora, la curva si impenna rappresentando una curva di
crescita definita curva a J (perché ricorda una J).

Se ci si ferma qui, questa curva è direttamente proporzionale al tasso di crescita ed esprime il potenziale
biotico della specie che sto studiando. Se non vengono fatte altre considerazioni, questa curva si impenna
all’infinito. Questo nella realtà non accade perché accadono dei cambiamenti: in questo caso specifico le
risorse nutrizionali si riducono, il metabolismo dei batteri produce un cambiamento del pH del mezzo che
rende difficile la crescita batterica, lo spazio disponibile diventa limitante. Quindi, l’ambiente comincia ad
Interferire con la curva di crescita.

Se il potenziale biotico rappresenta una forza che spinge verso il massimo accrescimento (quindi una forza
che va verso una direzione), a questa
forza si oppone un’altra forza che è
determinata dall’ambiente. La curva di
crescita non è altro che la risultante di
queste due forze.

Ad un certo punto la pressione


dell’ambiente si esprime con il valore
della CAPACITA’ PORTANTE: forza che si
oppone al potenziale biotico. Essa è la più
grande popolazione di una specie che può
essere mantenuta per un tempo
indefinito da un particolare ambiente. La
capacità portante incide fortemente sulla

131
curva di crescita di una popolazione, tant’è che ne modifica l’andamento: la curva a J si trasforma in una
curva ad S italica.

Riassumendo: per analizzare una specie e la sua curva di crescita bisogna analizzare le seguenti
caratteristiche:

- Potenziale biotico
È una caratteristica insita nella specie, esprime la massima potenzialità riproduttiva di una
specie se essa si dovesse trovare in condizioni ambientali ideali. Si indica con n minuscolo.
- Capacità portante dell’ambiente
Si oppone al potenziale biotico, indica il numero massimo di individui che l’ambiente può
contenere garantendo la sopravvivenza e la riproducibilità. Si indica con K maiuscolo

OVERSHOOTING
La popolazione umana si trova in piena fase esponenziale (siamo arrivati a 8 miliardi), prima o poi
raggiungerà il valore della capacità portante su scala globale, anche se in alcune aree del nostro pianeta
questa capacità è già stata raggiunta e superata. Il fenomeno in cui la popolazione supera il valore della
capacità portante è chiamato OVERSHOOTING.

Una curva di crescita deve rimanere sempre al di sotto della capacità portante. Il suo superamento può
essere di tre tipi:

a) il numero di individui supera di poco il limite: se gli individui in eccesso vengono “eliminati” la curva
si ristabilisce al di sotto della capacità portante.
b) il numero di individui supera di troppo il limite: ciò determina una diminuzione della capacità
portante dell’ambiente e occorre eliminare gli individui “in eccesso”.
c) il numero di individui è esageratamente grande: la capacità portante diminuisce fino a 0,
determinando l’estinzione della specie.

132
La sostenibilità vorrebbe aumentare il valore della capacità portante grazie alla tecnologia e all’uso discreto
delle risorse naturali. In termini di rapporto
tra potenziale biotico e capacità portante,
tutte le popolazioni hanno la tendenza a
vivere a ridosso del valore della capacità
portante. Oggi siamo in piena fase
esponenziale. Quando la curva raggiunge la
capacità portante (cosa avvenuta già in alcune
zone), da curva esponenziale si trasforma in
curva logaritmica. La curva di crescita esprime
un’interazione tra la popolazione è l’ambiente
in cui vive. Si tratta di un valore
importantissimo nelle valutazioni.

LA POPOLAZIONE UMANA
- secoli fa la popolazione umana mondiale contava 1 mld di persone
- nel 1900 eravamo 1.6 mld
- nel 1950 eravamo 2,5 mld
- nel 1975 eravamo 4 mld
- nel 2000 eravamo 6 mld
- nel 2011 eravamo 7 mld
- oggi siamo 8 mld

La curva di crescita della


popolazione mondiale si impenna a
partire dall’epoca storica che
coincide con i progressi industriali
e medico-scientifici, con l’avvio
della sua fase esponenziale. Ai
giorni nostri la popolazione
mondiale si compone di quasi 8
miliardi di persone, un dato che si
avvicina inesorabilmente al valore
della capacità portante ambientale
(K). L’aumento della popolazione
non è dovuto ad un aumento del
tasso di natalità che invece negli
ultimi 200 anni risulta diminuito,
ma ad un notevole calo del tasso di mortalità, determinato da una maggior produzione di cibo e dal
miglioramento della qualità e dell’aspettativa di vita. Il grafico esprime di fatto l’interazione tra la
popolazione e l’ambiente, nonché dunque il contesto in cui la popolazione stessa vive. Ad oggi la
popolazione umana ha raggiunto un punto di inversione di marcia, poiché nonostante un numero sempre
maggiore di individui, risulta in calo il tasso di crescita. Se aspiriamo ad una situazione di benessere

133
standard globale tipico dei paesi ad economia avanzata, è chiaro che il valore della capacità portante
terrestre sarà di fatto più basso rispetto ad una situazione di sussistenza minima.

Dunque per determinare il valore della K, è bene tenere in stretta considerazione le scelte e i valori umani,
oltre che le limitazioni imposte dall’ambiente. Circa il destino della popolazione, quando e se la crescita di
questa raggiungerà il valore della K, vi sono pareri discordanti. Gli ottimisti credono ad un naturale
decremento del tasso di natalità, mentre i pessimisti sono maggiormente orientati a dipingere scenari
decisamente apocalittici.

IL PROBLEMA DELLA CRESCI TA DELLA POPOLAZIONE


Storicamente, in varie parti del mondo in cui la crescita della popolazione risultava sfiorare, se non
addirittura eguagliare il tetto della capacità portante, si è tentato di contenerne i danni potenziali e non
solo, con metodi e soluzioni ritenuti oggi eticamente discutibili dalla maggior parte dell’opinione pubblica.

Adam Smith (1723) e Thomas Malthus (1766) hanno indirizzato i loro studi sul rapporto tra la popolazione e
le capacità economiche della città di Londra.

Adam Smith ha studiato come le nazioni si arricchiscono, conducendo un’indagine sulla natura e sulle cause
della ricchezza delle nazioni.

Thomas Malthus ha studiato come le nazioni si impoveriscono, scrivendo un saggio sul principio della
popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società. Malthus ha studiato il rapporto tra le risorse
naturali e la demografia. Attraverso i suoi studi, ha evidenziato che:

- l’incremento demografico ha una progressione geometrica


- le risorse naturali hanno una progressione aritmetica.
All’aumentare dell’incremento demografico, diminuiscono le risorse naturali.

Malthus aveva trovato soluzioni poco gradite dalla popolazione ma, nonostante ciò, i suoi studi sono
importanti perché ha posto l basi per consentire a Charles Darwin di trovare spunto per elaborare la teoria
dell’evoluzione. I rimedi da lui proposti furono:

- riduzione dei sussidi alle classi più povere


134
- ritardare (per i giovani) l’età del matrimonio
- diffondere tra gli strati sociali meno abbienti la coscienza del danno che una prole
numerosa recava alle famiglie e all’intera comunità

I suoi studi saranno usati dalla generazioni successivi anche con scopi poco nobili. Ad esempio, sono stati
utilizzati da nazismo o, ancora oggi, i governi di alcune aree prossime alla capacità portante hanno iniziato
ad adottare un controllo delle nascite.

Nel 1960 la Banca Mondiale e le Nazioni Unite si concentrarono sull’esplosione demografica del “Terzo
Mondo”, ritenendola la principale causa del degrado ambientale, del sottosviluppo economico e
dell’instabilità politica di questi Paesi. Finanziarono quindi progetti per ridurre i tassi di natalità di questi
Paesi. Per alcuni non si trattava di aiuti, infatti questo atteggiamento delle Nazioni Unite serviva ad evitare
che queste masse di gente affamata minacciassero il capitalismo occidentale e l’accesso alle risorse
naturali.

In India, nel 1974, il Ministro della salute dichiara che lo sviluppo è il miglior contraccettivo. Il Governo avvia
quindi una politica sul controllo delle nascite: a emarginati e mendicanti fu offerta un’abitazione purchè
accettassero di sottoporsi a sterilizzazione. Solo nel 1975 furono sterilizzati quasi 8 milioni di cittadini
indiani, principalmente maschi.

Tra il 1979 e il 2013 la Cina ha adottato la politica del figlio unico che nei suoi primi 25 anni ha prevenuto la
nascita di 300 milioni di individui. Nel solo 1983 furono sterilizzati oltre 16 milioni di donne e 4 milioni di
uomini. A fronte dell’efficacia della politica del figlio unico, nella società cinese crebbero il numero di aborti
e l’abbandono delle neonate, creando le basi per l’attuale sbilanciamento nel rapporto tra i sessi all’interno
del Paese.

La messa al bando dei modelli per il controllo demografico avvenne sulla spinta delle associazioni per i
diritti delle donne. Le odierne politiche demografiche, non potendo controllare le nascite, tentano di
allontanare la soglia della capacità portante attraverso la sostenibilità.

La sostenibilità contiene in sé numerosissimi atteggiamenti finalizzati a soddisfare i bisogni della


generazione presente senza compromettere quelli della generazione futura.

Lo sviluppo sostenibile si esprime attraverso 17 azioni individuate dalla comunità europea e riassunte
nell’Agenda 2030. Attraverso queste azioni, tutti gli stati membri devono recepire le varie normative per
raggiungere l’obiettivo comune della sostenibilità. l’Agenda 2030 riconosce lo stretto legame tra il
benessere della popolazione e la salute dei sistemi naturali.

FATTORI CHE INFLUENZANO LE DIMENSIONI DI UNA POPOLAZIONE

La regolazione della densità di una popolazione può avvenire attraverso:

- fattori densità indipendenti: la frazione di popolazione rimossa è costante e non dipende


dalla sua densità. Ne sono esempi tipici l’azione del fuoco, eventi metereologici, ecc.
- fattori densità dipendenti: la frazione rimossa varia all’aumentare della densità. Una
conseguenza manifesta di questo fatto è rappresentata dal tasso di crescita di una
popolazione. Questo

135
• tenderà ad essere elevato in presenza di una bassa densità di individui
• diminuirà all’aumentare della stessa densità, a causa della competizione per il cibo,
per lo spazio, per l’azione di predatori e per il manifestarsi di malattie

INTERAZIONI TRA GLI ORGANISMI DI UNA COMUNITÀ BIOLOGICA

I vari individui di specie differenti appartenenti alla stessa comunità possono interagire attraverso
interazioni:

- interspecifiche, tra individui di specie differenti


- intraspecifiche, tra individui della stessa specie

Un esempio di interazione interspecifica tra organismi di una comunità biologica è la simbiosi, cioè la
convivenza tra organismi diversi

Tra gli organismi di una comunità biologica possiamo avere, però, anche rapporti contrastanti di:

- competizione (intraspecifica o interspecifica)


- predazione (interspecifica)
- parassitismo (interspecifica)
- commensalismo (interspecifica)
- mutualismo (interspecifica)

COMPETIZIONE
La competizione è l’interazione tra due organismi che richiedono una stessa risorsa presente in quantità
limitata, ad esempio acqua, luce, cibo e nutrienti, spazi vitali o partner sessuali.

PREDAZIONE
La predazione è un rapporto interspecifico di tipo negativo che comporta la cattura e l’assunzione, come
alimento, di un organismo di una specie (preda) da
parte di un altro di un’altra specie (predatore).
Sebbene sia un’interazione negativa, costituisce
uno dei principali fattori di regolazione del tasso di
accrescimento e della densità di popolazione. In
assenza di predatori naturali, le popolazioni delle
prede potrebbero crescere in maniera
esponenziale incontrollata, per poi ridursi fino
anche all’estinzione. La presenza di predatori
rappresenta quindi un vantaggio anche per la
preda stessa. La predazione è utile, infatti, anche a
garantire l’equilibrio della struttura della

136
comunità. La rimozione e l’introduzione forzata di predatori sono molto pericolose. Spesso l’uomo
interviene a discapito dei predatori, rompendo degli equilibri naturali. Il rapporto preda-predatore è stato
studiato e rappresentato graficamente da grafico lotka-volterra. La predazione non porta all’estinzione
della specie predata.

SIMBIOSI
La simbiosi è un’intima associazione o relazione tra due o più specie (interazione interspecifica). Può
assumere le tre forme: parassitismo, commensalismo e mutualismo.

PARASSITISMO
Il parassita consuma risorse dell’ospite, che però rimane in vita dopo il consumo. I parassiti, infatti, hanno
interesse a mantenere in vita l’ospite poiché devono vivere in rapporto ad esso. Solitamente ne determina
solamente l’indebolimento che rende il soggetto più vulnerabile nei confronti di malattie, competitori e
predatori. Questo rapporto parassita-ospite può essere:

- obbligato: il ciclo vitale del parassita dipende dalla presenza dell’ospite


- facoltativo: il ciclo vitale può compiersi anche in mancanza dell’ospite
- accidentale: il parassitismo è accidentale

i parassiti possono essere:

- endoparassiti, che rimangono sulla superficie dell’ospite, come virus e batteri


- ectoparassiti, che vivono all’interno dell’ospite, come pulci, pidocchi e zecche
- monoxeni: hanno un solo ospite
- dixeni: hanno due ospiti
- polixeni: hanno più ospiti

Quando ci sono più ospiti, è possibile distinguere i diversi ruoli che questi hanno nel contesto di un ciclo
riproduttivo. Per i protozoi si parla di:

- ospite definitivo: quello in cui il parassita compirà la riproduzione sessuale


- ospite intermedio: quello in cui il parassita compirà la riproduzione asessuale

per i metazoi, si può usare un altro criterio di definizione che tiene conto della condizione di larva o adulto:

- ospite definitivo: quello in cui il parassita si trova da adulto


- ospite intermedio: quello in cui il parassita si trova da larva

I danni che il parassita provoca all’ospite possono consistere in:

- fenomeni tossici, attraverso liberazioni di tossine da parte dei parassiti stessi;


- azioni necrotizzanti, che si esplica sui tessuti;
- azioni spoliatrici, il parassita priva l’ospite delle sostanze nutritive;
- azione meccanica, con introduzione del parassita e conseguente rottura dei tessuti;
- azione traumatica, dovuta allo spostamento del parassita tra un tessuto e l’altro.

L’ospite può reagire mediante:

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- fagocitosi
- deposizione di calcio, infatti i sali di calcio immobilizzano il parassita
- premunizione, cioè una sorta di risposta immunitaria, inefficiente.

COMMENSALISMO
In un rapporto di commensalismo, una specie ottiene un vantaggio dall’interazione con un’altra specie,
senza che questa ne sia svantaggiata. Tipi di commensalismo sono:

- l’inquilinismo
- la foresi
- la metabiosi

MUTUALISMO
In un rapporto di mutualismo, due specie traggono mutualmente vantaggio dalla convivenza e non sono in
grado di vivere isolate. Ne sono un esempio i licheni, derivanti da una simbiosi tra un eterotrofo e un
autotrofo.

STRATEGIE RIPRODUTTIVE

Ciascuna specie possiede uno stile di vita strettamente connesso al proprio modello riproduttivo. Le
strategie riproduttive possono essere di:

- riproduzione semèipara: unico ed immenso sforzo riproduttivo. La maggior parte degli


insetti e degli invertebrati, molte piante e alcune specie di pesci mostrano semelparità.
- riproduzione iteropara: ripetuti cicli riproduttivi. L’iteroparità è tipica della maggior parte
dei vertebrati, delle piante erbacee, dei cespugli e degli alberi.

Le strategie riproduttive fanno riferimento alla relazione tra potenziale biotico e capacità portante, per
questo distinguiamo:

- strategia di tipi r
- strategia di tipo k

La strategia r fa riferimento al tasso di crescita, la strategia K all’ambiente.

Occorre però tener presente che anche se utili a livello teorico, rappresentano una semplificazione
eccessiva. Infatti, molte specie possiedono una combinazione di caratteri propri del modello r e del modello
K e talvolta presentano aspetti che non permettono un facile inquadramento in nessuno dei due modelli.

La disponibilità energetica è definita: nell’alternarsi delle varie generazioni, la specie decide cosa fare
dell’energia. Può utilizzarla in gran parte per la generazione familiare, può utilizzarle per la generazione
filiale.

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STRATEGIA R
La strategia di tipo r è caratterizzata da:

- tasso di crescita elevato


- piccole dimensioni corporee
- raggiungimento precoce della maturità sessuale
- breve durata della vita
- prole numerosa
- cure parentali scarse

La lettera r indica il tasso di crescita e difatti questo tipo di strategia punta tutto sul potenziale biotico, e
dunque su un tasso di crescita molto elevato. Generalmente le specie che utilizzano questa strategia sono
opportuniste e si trovano in ambienti variabili, imprevedibili o temporanei, dove la probabilità di
sopravvivenza a lungo termine è bassa. I pesci fanno milioni di uova, da cui nasce un numero elevato di figli
che però vengono abbandonati a sé stessi. Nonostante ciò, una parte di questi arriverà comunque alla
maturità sessuale. Maggior parte dell’energia resterà alla generazione familiare. Mancano le cure parentali.

STRATEGIA K
La strategia di tipo k è caratterizzata da:

- prole non numerosa


- longevità
- lento sviluppo
- riproduzione tardiva
- grandi dimensioni corporee
- basso tasso di crescita

La strategia K invece è orientata a destinare la maggior parte dell’energia alla generazione successiva, per
cui non verrà prodotta in questo caso una prole numerosa, per garantire cure parentali e far sì che i figli
raggiungano la maturità sessuale: l’obiettivo finale è sempre la conservazione della specie.

L’essere umano non adotta una specifica strategia, ma ha delle tendenze: nei paesi sottosviluppati e con
meno risorse economiche si osserva un numero più elevato di figli, che ricorda una strategia di tipo r. Nei
paesi più ricchi e industrializzati c’è la tendenza inversa, che richiama invece la strategia di tipo K con la
garanzia di maggiori cure parentali fino alla maturità sessuale.

139
ENERGIA NEI SISTEMI ECOLOGICI E CICLI BIOGEOCHIMICI
Se parliamo di ecosistema, valutiamo il rapporto tra la comunità biologica che vive nell’ecosistema e la
componente abiotica. La vita sulla terra è determinata da fattori quali:

- il flusso unidirezionale di energia


- il ciclo della materia nei tre ecosistemi su scala globale
- la gravità

L’energia che colpisce ed utilizza la Terra è l’energia proveniente dal sole, energia radiante. La maggior
parte di questa energia viene riflessa dalle nuvole ma anche dal particolato atmosferico (presente sotto
forma di inquinamento) e dalla superficie terrestre. L’energia radiante rimanente che arriva sulla terra
serve per il riscaldamento dell’atmosfera e della superficie terrestre. Altra parte di questa quota energetica
è utilizzata per l’evaporazione dell’acqua, l’1% è utile alla formazione dei venti e infine solo una bassa
percentuale di energia radiante viene utilizzata dai produttori per la fotosintesi e immessa nella catena
alimentare.

L’energia radiante contiene, in termini di lunghezza d’onda, lo spettro del visibile ma circa per il 45% è
determinata da infrarosso e per il 10%
dall’ultravioletto. Di tutta l’energia
radiante, la luce visibile è la componente
meno assorbita dalle nuvole e dall’acqua,
per cui la fotosintesi (utilizzando energia
del visibile) avviene anche in giornate
nuvolose e in organismi fotosintetici
acquatici posti fino ad una certa profondità.
L’energia radiante è usata dalle piante verdi
al fine di trasformare l’anidride carbonica in
zuccheri sfruttando proprio l’energia
luminosa attraverso la fotosintesi. Questo
apporto di energia che viene trasferito in
un certo quantitativo di zuccheri si inserisce nel concetto di produttività primaria.

PRODUTTIVITÀ PRIMARIA

La produttività di un sistema ecologico è la velocità alla quale l’energia radiante è trasformata dall’attività
fotosintetica e chemiosintetica dagli organismi produttori in sostanze organiche.

La produttività primaria lorda (PPL) indica il tasso di energia radiante che viene catturata in un ecosistema
attraverso la fotosintesi in un dato intervallo di tempo. In questo parametro si tiene conto anche della
quantità di energia che serve per la sopravvivenza della pianta stessa che resta al suo interno anche dopo la
respirazione cellulare. Non è un parametro utile per determinare la quantità di energia a disposizione delle
piante, poiché non tiene conto dell’energia spesa per la respirazione.

140
E’ più conveniente, quindi, valutare la produttività primaria netta (PPN), cioè l’energia messa a disposizione
degli organismi che si nutrono di autotrofi, cioè l’energia che rimane nei tessuti delle piante dopo la
respirazione cellulare. La produttività primaria netta si ottiene sottraendo alla PPL l’energia usata nella
respirazione della pianta.

PPN (g x 𝑚2 𝑥 𝑎𝑛𝑛𝑜 ) = PPL – respirazione (piante)

Questo flusso di energia viene compreso in un meccanismo rappresentato dalla catena alimentare.

CATENA ALIMENTARE

La catena alimentare determina un flusso unidirezionale di energia e un trasferimento di composti, di cui il


principale è il carbonio. Una catena alimentare per definizione è un trasferimento lineare con energia
solare alla base:

- L’energia solare viene trasformata in chimica ad opera dei produttori autotrofi, capaci di
nutrirsi di sostanze inorganiche
- viene così distribuita agli altri organismi, i consumatori eterotrofi. Abbiamo prima i
consumatori primari, erbivori, che si nutrono di autotrofi in quanto sono capaci di
metabolizzare la cellulosa. Poi abbiamo i consumatori secondari, carnivori e onnivori, che si
nutrono anche di alimenti di origine animale.
- Ad ogni livello trofico della catena alimentare, troviamo i decompositori che mettono in
ricircolo non l’energia, bensì gli elementi di base.

La catena alimentare è basata su un trasferimento energetico (fa riferimento al secondo principio della
termodinamica), perciò ad ogni passaggio una parte di energia (circa 80/90%) è persa sotto forma di calore:
tanto più è corta la catena alimentare o più vicino è l’organismo a livello dei produttori, meno energia verrà
sprecata. Mentre la quantità di energia diminuisce da un livello trofico all’altro, la concentrazione
dell’energia trasferita aumenta. Oltre all’energia, si trasferiscono anche gli elementi, come i principi
nutritivi.

141
E’ più conveniente parlare di rete alimentare,
tenendo conto delle interazioni di tutti gli organismi
che la compongono. Infatti la rete alimentare
corrisponde all’interconnessione delle catene
alimentari. Ci sono organismi che ottengono il
nutrimento dal sole con lo stesso numero di
passaggi, ciò implica che tali organismi
appartengono allo stesso livello trofico. Gli
organismi utilizzano una determinata quantità di
energia che proviene dal livello trofico superiore e
grazie ai livelli trofici è possibile effettuare una
classificazione:

- Primo livello trofico: piante, o produttori;


- Secondo livello trofico: erbivori, o consumatori primari;
- Terzo livello trofico: carnivori primari, considerati consumatori secondari;
- Quarto livello trofico: carnivori secondari, considerati consumatori terziari;

Sia nel mondo acquatico che nel mondo animale, si stabilisce la stessa catena alimentare.

Una caratteristica della rete alimentare riguarda la sua ampiezza, infatti maggiore è la sua ampiezza e
maggiore è la sua stabilità, ma risulta essere molto delicata in quanto se al suo interno si va a squilibrare il
rapporto tra predatore e preda non crea un danno circoscritto: causa un danno all’intera rete alimentare. In
definitiva, una piccola modifica all’interno della rete alimentare potrebbe mettere a rischio la rete stessa.

CICLI BIOGEOCHIMICI

La vita sulla terra è determinata anche da circolo (riciclo) dei materiali. I materiali si spostano da un
ecosistema all’altro, raggiungendo un equilibrio. Si parla di cicli biogeochimici, che rappresentano lo
spostamento di un elemento attraverso i 3 ecosistemi. Questi cicli riguardano tutti gli elementi presenti, ma
consideriamo solo quelli più determinanti per la vita su questo pianeta, come ad esempio il ciclo del
carbonio, dell’azoto, del fosforo o dell’ossigeno.

In ogni ecosistema sono presenti dei magazzini (sinks) per un certo elemento. I magazzini che contengono
uno specifico elemento lo scambiano tra di loro e stabilizzano l’equilibrio dell’intero ciclo biogeochimico.
142
Quando effettuiamo un prelievo sufficientemente rapido di questi magazzini, poiché i tempi di
ricostituzione del magazzino sono più lunghi rispetto a quelli del prelievo, determinato uno squilibrio del
ciclo biogeochimico.

Consideriamo, ad esempio, il ciclo dell’acqua. L’acqua è considerata una fonte rinnovabile, l’acqua passa tra
i vari ecosistemi subendo delle trasformazioni ma senza scomparire del tutto. Generalizzando tutti gli
elementi possono subire trasformazioni passando tra i vari ecosistemi senza una loro eventuale scomparsa.
Nonostante l’acqua è considerata fonte rinnovabile la comunità europea considera l’acqua un elemento
non rinnovabile in quanto se dovesse terminare il pool di riserva dell’acqua in un dato ecosistema, questo
per potersi riformare richiederebbe un tempo relativamente elevato. Esempio relativo alla falda acquifera
che corrisponde al pool di riserva dell’acqua. È possibile prelevare acqua dalle falde acquifere attraverso
l’attività umana e nel momento in cui dovesse esaurirsi l’acqua al livello delle falde acquifere, per poter
riformarla a livello delle falde ci vorrebbe un tempo lungo. Questo non significa che l’acqua sparisce o
diventa carente ma in pratica è la velocità di trasferimento di acqua tra un ecosistema e l’altro a
determinarne la sua carenza. Ovviamente questo discorso vale per tutti i cicli biogeochimici.

Se abbiamo tempi di turnover assolutamente lunghi questi determinano un elemento come non
rinnovabile o come fonte non rinnovabile. Ad esempio, il petrolio può essere consumato dalle estrazioni,
ma il petrolio termina solo perché ha tempi lunghissimi di riformazione e quindi diventa fonte non
rinnovabile. Il focus è posto sulla velocità di trasferimento e il tempo di turnover.

IL CICLO DEL CARBONIO


Il ciclo del carbonio descrive il movimento del carbonio, sotto le sue diverse forme (derivati), tra i tre
ecosistemi.

Il ciclo del carbonio consente la fotosintesi clorofilliana e la sintesi di zuccheri. La CO2 presente
nell’atmosfera (magazzino) viene assorbita dagli
autotrofi attraverso la fotosintesi e viene poi
restituita nell’atmosfera attraverso la respirazione.
Questo scambi si realizza anche tra l’atmosfera e
l’idrosfera, infatti gli organismi marini utilizzano la
CO2 dissolta negli oceani durante la fotosintesi.

Questo carbonio si trasformerà poi nei sali che,


sedimentandosi sul fondo, vanno a costituire le
rocce calcaree. Dalla decomposizione degli
organismi viventi, si costituiscono i magazzini dei
combustibili fossili. Dagli scheletri del plancton
marino, il carbonio si trasforma in gas naturale e
petrolio. Un prelievo ad alta velocità di questi
magazzini determina uno squilibrio. Il ciclo biogeochimico del carbonio, come tutti i cicli, può essere
alterato dagli insediamenti antropici, cioè dall’attività dell’uomo.

143
IL CICLO DELL’AZOTO
Tutti gli esseri viventi hanno bisogno di azoto. Nell’aria ce n’è molto (circa il 79% dell’aria è azoto allo stato
gassoso), ma le molecole del gas azoto, N2, sono composte da due atomi di azoto tenuti insieme da tre forti
legami covalenti: queste molecole sono, quindi, molto stabili e non reagiscono facilmente con altre
sostanze.

N≡N

A fronte di questa abbondanza di azoto,


esso in realtà è poco sfruttato dagli
organismi viventi poiché questi necessitano
di azoto atomico. Occorre infatti un forte
investimento energetico per scindere i tre
legami covalenti. In natura, tuttavia,
esistono alcuni fenomeni che scendono i
legami dell’azoto, come ad esempio i fulmini
o le eruzioni vulcaniche, ma questi eventi
rendono disponibili sono piccole quantità di
azoto.

Quando respiriamo aria, le molecole di azoto


entrano nel nostro corpo, viaggiano nel
sangue e sono di nuovo espirate. Esse non
reagiscono all’interno dell’organismo e non sono di alcuna utilità. Prima che le piante e gli animali possano
utilizzare l’azoto, occorre che esso sia convertito in una forma più reattiva. Le piante possono utilizzare
l’azoto sotto forma di nitrati (NO3-) o come Sali di ammonio (NH4+); gli animali possono solo utilizzare
l’azoto sotto forma di composti organici, come ad esempio le proteine.

L’azoto ha un ciclo di trasformazioni attraverso 5 specifiche:

- fissazione, l’azoto viene fissato e reso disponibile


- nitrificazione
- assimilazione
- ammonificazione
- denitrificazione, l’azoto torna disponibile nell’atmosfera

a partire dalla fissazione si formano composti derivanti dall’azoto che possono essere direttamente
utilizzati, senza dover concludere il ciclo; non si tratta quindi di una successione lineare delle varie fasi.

Fissazione

Consiste nella conversione dell’azoto gassoso 𝑁2 in ammoniaca 𝑁𝐻3 . Questo processo è svolto dai batteri
azoto fissatori, presenti nelle radici di alcune piante, mediante l’enzima nitrogenasi, in corrispondenza dei
noduli/eterocisti. La fissazione avviene anche nel mondo acquatico per mezzo di altri batteri, ossia
cianobatteri.

L’energia messa in gioco è notevole, infatti occorrono 10g di glucosio per fissare 1 g di azoto.

144
Nitrificazione

Nella nitrificazione l’ammoniaca 𝑁𝐻3 viene trasformata prima in nitrito 𝑁𝑂2− ; poi il nitrito viene
trasformato in nitrato 𝑁𝑂3− . Questi due passaggi hanno bisogni di organismi endosimbionti:

- i nitrosomonas e i nitroccoccus operano la prima trasformazione;


- i nitrobacter operano la seconda trasformazione.

Assimilazione

L’assimilazione consiste nell’assorbimento di ammoniaca e nitrati ed è l’unica fase che non richiede
organismi endosimbionti.

Ammonificazione

Terminato il ciclo vitale, gli organismi producono urea e acido urico. I batteri ammonificatori, in questa fase,
convertono l’urea e l’acido urico in ammoniaca 𝑁𝐻3 .

L’ammoniaca può essere utilizzata direttamente o tornare indietro nel ciclo.

Denitrificazione

Nella denitrificazione, i batteri denitrificanti convertono il nitrato 𝑁𝑂3− in azoto molecolare 𝑁2 , che viene
reimmesso nell’atmosfera. Il susseguirsi degli eventi non è così lineare, ad eccezione delle due fasi limite
iniziali e finali, le altre fasi intermedie non sono lineari, ad esempio l’ammoniaca può rientrare nel ciclo
dell’azoto o i nitrati non utilizzati servono a riportare l’azoto nell’atmosfera.

IL CICLO DEL FOSFORO


Il fosforo non esiste in forma gassosa, perciò il ciclo del fosforo è l’unico ciclo biogeochimico che non
interagisce con l’atmosfera, coinvolgendo solo l’idrosfera e la litosfera.

Il ciclo si compie quindi dalle terre emerse ai sedimenti oceanici, per tornare di nuovo alle terre emerse.

Il fosforo si trova nella litosfera sotto forma di fosfati, cioè depositi minerari che prendono il nome di
apatite. Attraverso gli agenti atmosferici il fosforo passa all’idrosfera, quindi diventa parte integrante degli
organismi acquatici, e alla loro morte, con la decomposizione, si formeranno dei sedimenti che contengono
il fosforo.

145
IL CICLO DELL’ACQUA
Il ciclo dell’acqua, o ciclo idrogeologico, coinvolge i tre ecosistemi: l’acqua circola continuamente dagli
oceani, all’atmosfera e alla terra.

In questo circolo, bisogna evidenziare


l’importanza dei magazzini, rappresentati
dagli oceani (praticamente inesauribili). Gli
oceani e i laghi possono stabilizzare il ciclo
dell’acque. Quelli che invece possono
determinarne uno squilibrio sono le falde
acquifere, utilizzate per uso potabile o
industriale. Ci sono aree in cui si verificano
stagioni di emergenza idrica, in cui le precipitazioni sono ridotte e i normali magazzini del ciclo dell’acqua
sono stati svuotati ad una velocità elevata. In Italia il 40% dell’acqua prelevata viene dispersa per via della
cattiva manutenzione delle conduzioni.

IL CICLO DELL’OSSIGENO
L’ossigeno è presente in tutti i 3 ecosistemi, infatti le fonti di ossigeno sulla Terra sono divise tra oceani
(alghe e cianobatteri) e terraferma (piante verdi). L’equilibrio si stabilisce tra fotosintesi e respirazione: è
quindi necessario preservare le foreste, elementi chiave dei cicli biogeochimici di ossigeno e carbonio.

PATOLOGIE AMBIENTALI

Le patologie ambientali sono alterazioni dei cicli biogeochimici.

ALTERAZIONI DEL CICLO DEL CARBONIO


Prima dell’era industriale (1750), il ciclo del carbonio era in uno stato stazionario. Grandi quantità di
carbonio si spostavano da e verso l’atmosfera, gli oceani e l’ambiente terrestre ma, all’interno del ciclo,
questi spostamenti si compensavano reciprocamente.

Nell’atmosfera è presente anidride carbonica, essa si scioglie in acqua quindi passa all’idrosfera e diventerà
parte integrante degli organismi acquatici e alla loro morte si formeranno dei sedimenti ricchi di carbonio.
L’uomo reimmette il carbonio nell’atmosfera attraverso l’utilizzo di gas naturali e combustibili fossili. Inoltre

146
gli organismi viventi immettono il carbonio nell’atmosfera attraverso la respirazione. Anche alla morte degli
organismi che vivono sulla litosfera si creano depositi di carbonio.

Con l’avvento dell’era industriale, nata in Inghilterra, si è rotto questo equilibrio e si è avuto un rapido
incremento del consumo di energia, utilizzando grandi quantità di carbonio petrolio e gas naturale, dunque
riducendo rapidamente i magazzini. Ciò ha portato ad una massiccia immissione nell’atmosfera di CO2,
alterano l’equilibrio del ciclo del carbonio.

Tutte le normative del settore ambientale sono oggi indirizzate ad una riduzione della produzione di CO2 e
dei gas serra. L’alterazione del ciclo del carbonio produce eventi patologici dal punto di vista ambientale:

- l’eccesso di CO2 porta ad un aumento dell’effetto serra, con effetto su scala globale
- La CO2 in eccesso nell’atmosfera viene assorbita dagli oceani e, una parte di essa, viene
trasformata in acido carbonico, responsabile dell’acidificazione delle acqua di superficie,
delle piogge e dei piccoli bacini. Sono osservabili conseguenze locali, come il cambiamento
del pH dei piccoli bacini, mettendo a rischio la vita degli organismi che li abitano
- L’aumento costante di CO2 atmosferico può causare cambiamenti climatici, che possono
portare a
• cambiamenti nel regolare ritmo delle precipitazioni, con conseguente emergenza
idrica
• innalzamento del livello del mare,
• estinzione di organismi viventi.

ALTERAZIONI DEL CICLO DELL’AZOTO


Nel ciclo dell’azoto è stato l’intervento dell’uomo a determinare un forte sbilanciamento, che ha avuto
inizio negli anni ’60 con la sintesi industriale dell’ammoniaca e il conseguente utilizzo massiccio dei
fertilizzanti nelle monocolture.

Le monoculture sono costituite da organismi che prelevano azoto dal terreno; perciò, si ricorre ad un
utilizzo massiccio di fertilizzanti a base di azoto per compensare il fatto che il terreno si impoverisce di
questo elemento. In passato, si alternavano monocolture e coltivazioni di legumi, per rifornire il terreno di
azoto. Attraverso piogge e d eventi climatici, l’azoto immesso con i fertilizzanti, viene immesso in fiumi e
piccoli bacini di cui cambia la composizione chimica. Il piccol bacino, arricchendosi di azoto, favorisce lo
sviluppo di alcuni organismi a discapito di altri.

L’inquinamento da azoto e zolfo ha varie conseguenze:

- Formazione di ozono nella troposfera


- Eutrofizzazione dei corpi idrici (bloom algale)
- Perdita di biodiversità
- Effetti sulle foreste, sui raccolti e sulla salute umana
- Aumento dell’effetto serra
- Acidificazione del suolo e delle acque

Generalmente le specie endemiche vivono in zone con bassa disponibilità di nutrienti ma l’eccessiva
presenza di azoto favorisce l’ingresso di specie opportunistiche che vivono in ambienti con elevate quantità
di nutrienti, a discapito delle specie endemiche stesse. Ad esempio in California, in zone di agricoltura

147
intensiva in cui si utilizzano i fertilizzanti in maniera massiccia, le specie originarie, endemiche, sono state
sostituite da piante esotiche opportunistiche perché l’azoto determina un arricchimento del terreno in
termini di nutrienti e quindi le specie endemiche soccombono a favore delle specie opportunistiche. Si
determina così una riduzione della biodiversità.

Un tempo l’azoto era considerato un fattore limitante perché presente in bassissime quantità, mentre ora
l’attenzione è posta sull’eccessiva presenza di azoto e le problematiche che ne conseguono.

148
L’INQUINAMENTO
Su scala globale, intendiamo l’inquinamento dei tre ecosistemi.

IDROSFERA

Oltre all’immagine comune che ci viene in mente quando pensiamo all’inquinamento dobbiamo anche
considerare per esempio tutte quelle attività antropiche che determinano una carenza idrica, rendendo
quindi scarsa una risorsa. Il nostro pianeta è composto prevalentemente di acqua, ma il 97% di questa è
salata, non potabile. L’acqua dolce costituisce una percentuale molto bassa. In alcuni paesi dove c’è una
forte carenza idrica sono presenti sistemi in grado di dissalare l’acqua, ma è un’attività molto dispendiosa,
attuabile solo in casi estremi di emergenza. Dunque,
senza alcun intervento, l’acqua disponibile al consumo
umano, ovvero l’acqua dolce (priva di sali), è in una
percentuale molto bassa rispetto alla quantità di acqua
totale, ovvero 2,5/3%. Inoltre quest’acqua dolce si trova
in natura in diverse forme fisiche:

- vapore acqueo
- solida (maggior parte), poco disponibile
- acque freatiche, falde acquifere
- acqua dolce di superficie (laghi e fiumi),
immediatamente disponibile

Tuttavia quest’acqua di superficie risulta solo apparentemente disponibile, in quanto, se avessimo 100 L di
acqua totale e quindi 3 L di acqua dolce, solo lo 0,003% sul totale sarebbe realmente disponibile per l’uomo
(come un cucchiaino da caffè).

Rispetto al crescente sviluppo demografico dobbiamo porre quindi un’attenzione particolare alla
disponibilità di acqua, che secondo le previsioni sarà oggetto di conflitti futuri, per via dei cambiamenti
climatici e di un uso scorretto delle risorse, anche
in paesi dove oggi questa esigenza non è ancora
molto sentita. La maggior parte dell’acqua
disponibile, come si può vedere, viene utilizzata
per usi irrigui (70%). Il 20% è utilizzata per le
industrie e solo il 10% viene utilizzato per la
sopravvivenza degli abitanti nei centri urbani.

Il ciclo dell’acqua ha una sua velocità, come tutti i


cicli biogeochimici, per questo prelevare in una
velocità superiore comporta dover poi aspettare
un tempo cospicuo per il ripristino di questi magazzini. La percentuale più bassa, ovvero del 10%,
rappresenta l’acqua destinata agli usi civili, ovvero per le nostre attività giornaliere. Nonostante ciò
dobbiamo anche considerare che alcune compagnie di gestione dell’acqua trascurano da decenni la
manutenzione, causando una perdita del 40% di acqua già durante il trasporto. Anche l’uso maldestro delle
risorse idriche può essere considerato una sorta di inquinamento.

149
Infine, anche l’innalzamento delle temperature può rivelarsi un problema, in quanto causa un aumento
dell’evaporazione.

L’inquinamento, più in generale, è un cambiamento chimico, biologico o fisico che modifica la qualità
dell’acqua e che ha un effetto dannoso sugli organismi viventi, o rende l’acqua non adatta per gli usi
desiderati.

Tra gli inquinanti troviamo:

- batteri, virus, protozoi, parassiti


- richiesta di ossigeno (la concentrazione di ossigeno determina la vita all’interno dell’acqua)
- sostanze chimiche idrosolubili inorganiche
- nutrienti inorganici
- sostanze organiche
- sedimento o particolato sospeso

L’Italia è sottoposta, riguardo il settore ambientale, a normative europee, le quali presentano linee guida e
parametri che tutti i paesi della comunità europea devono rispettare obbligatoriamente. I paesi che non
adottano queste normative nei tempi prestabiliti sono sottoposti a sanzioni. Tra questi paesi l’Italia ha
ricevuto numerose sanzioni negli ultimi anni.

ATMOSFERA

L’aria contiene ossigeno, perciò l’atmosfera è importantissima


per gli esseri viventi. Lo strato d’aria che ci sovrasta
(l’atmosfera), a partire dalla superficie terrestre, è divisibile in
aree che si sovrappongono, con proprie caratteristiche
specifiche, soprattutto fisiche:

- troposfera (più vicina alla superficie terrestre,


circa 10mila metri)
- stratosfera
- mesosfera
- termosfera

I parametri fisici che caratterizzano questi strati fanno


riferimento alla pressione e alla temperatura.

Man mano che si sale, diminuisce la colonna d’aria e la


pressione scende, come illustra la linea nera che vediamo nella
slide.

La temperatura, invece, ha un comportamento particolare. Salendo nella troposfera, la temperatura


diminuisce abbastanza drasticamente in maniera costante. Tra la troposfera e la stratosfera si osserva
un’inversione termica che si chiama tropopausa, in cui la temperatura comincia a salire per tutta la
stratosfera. Nel passaggio tra la stratosfera e la mesosfera abbiamo di nuovo un’inversione termica, ovvero
la stratopausa, dove la temperatura comincia a scendere (a valori più bassi di 40°C). A seguire tra la

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mesosfera e la termosfera si trova la mesopausa, dove avviene un innalzamento elevatissimo delle
temperature.

Un elemento fondamentale da considerare è lo strato di ozono (indicato in arancio nell’immagine in alto)


tra la troposfera e la stratosfera, considerato uno dei tre parametri indispensabili per la vita sulla Terra.
Grazie allo strato di ozono, i raggi ultravioletti vengono filtrati e non raggiungono la superficie terrestre: se
non ci fosse questo strato di ozono, la terra sarebbe un pianeta sterilizzato (privo di vita).

La troposfera contiene:

- 78% azoto, in forma inerte (non ne possiamo usufruire)


- 21% ossigeno
- <1% argon
- 0,036% anidride carbonica
- Tracce di gas rari
- 0,001-5% vapore acqueo

Nello strato superiore a questo, ovvero nella stratosfera, ci sono grandi cambiamenti: c’è una drastica
diminuzione di vapore acqueo e un aumento di ozono. La stratosfera contiene molto meno vapore e più
ozono:

- vapor acqueo < 1000 volte


- ozono > 1000 volte

Quando si parla di inquinanti si fa spesso riferimento ad attività antropiche di tipo industriale o riguardanti
la mobilità; infatti, queste utilizzano combustibili fossili da cui derivano composti del carbonio, dello zolfo e
dell’azoto. In verità, anche attività naturali possono determinare emissioni di inquinanti, ad esempio le
eruzioni vulcaniche emettono composti che a elevate concentrazioni rappresentano un rischio per
l’ambiente.

I gas emessi dalle attività antropiche sono definiti


inquinanti primari, che possono reagire a loro
volta con l’acqua (presente nell’atmosfera come
vapore acqueo) determinando altri composti,
chiamati inquinanti secondari, come acido
solforico, acido nitrico, ozono, acqua ossigenata.

L’area inquinata è determinata dalla presenza di


un insediamento antropico che emette inquinanti.
Questi inquinanti sono sottoposti all’azione dei
venti e possono quindi spostarsi in aree limitrofe
dove non ci sono insediamenti industriali o dove questi sono sottoposti a leggi restrittive. Questo
fenomeno è caratteristico dell’inquinamento dell’aria.

Un altro aspetto caratteristico dell’inquinamento atmosferico è lo smog fotochimico. Lo smog fotochimico


è una sorta di nebbia (apparente) a livello della superficie terrestre composta da un insieme di inquinanti.
Questi hanno reagito insieme all’ossigeno e all’umidità dell’area: questa reazione è stata catalizzata dai

151
raggi ultravioletti. Così si generano dei composti che si stratificano a livello della superficie terrestre,
producendo il cosiddetto smog fotochimico. Ovviamente questo smog è un rischio:

- per gli esseri viventi, compromettendo le vie aeree


- per i manufatti

Un’altra caratteristica dell’inquinamento atmosferico è rappresentata dalle piogge acide. I composti


derivati dallo zolfo e dall’azoto immessi nell’atmosfera reagiscono con il vapore acqueo formando i
rispettivi acidi (acido solforico e nitrico). Questi acidi producono un abbassamento del pH dell’acqua che
tornerà sulla terra come acqua piovana che, attraverso le precipitazioni, può avere effetti disastrosi sugli
ecosistemi e i suoi organismi viventi.

Quando si immettono nell’aria composto derivanti da zolfo e azoto, reagiscono con il vapore acqueo
atmosferico formando acido solforico e nitrico nell’acqua, che viene poi riportata sulla terra sotto forma di
precipitazioni. Quando questi acidi precipitano sulla terra, determinano l’alterazione del pH dei bacini idrici
o dei fogliami dei boschi.

L’EFFETTO SERRA
Negli ultimi anni uno degli argomenti più
ricorrenti è stato l’effetto serra, che
coinvolge l’ecosistema atmosferico.
L’effetto serra “naturale” è un evento
favorente la sopravvivenza degli organismi
viventi; deriva da una stratificazione di
particolari componenti, definiti gas serra,
oltre che alle nubi e al particolato. I raggi
che arrivano dal sole colpiscono la superficie
terrestre che, dopo essersi riscaldata,
restituisce il calore sottoforma di radiazioni.
Queste dovrebbero disperdersi nella
stratosfera, ma rimbalzano dopo aver incontrato i gas serra, e tornano sulla terra determinando un
riscaldamento. Ciò ha effetto positivo, perché mitiga le temperature e permette la vita di molte specie.
Quando però i gas serra aumentano per via di attività inquinanti, la temperatura terrestre aumenta
eccessivamente. L’aumento di 1° di temperatura a livello globale determina lo scioglimento dei ghiacci che,
a sua volta, determina l’innalzamento del livello degli oceani. Perciò molte terre costiere verranno invase
dall’acqua e vi non sarà più possibile l’insediamento umano.

Non si sa ancora con certezza quale sia la causa di questo aumento di temperatura, quindi se imputabile ad
attività antropiche o al naturale ciclo dell’atmosfera. Lo scioglimento dei ghiacci resta comunque un evento
inconfutabile.

Tra i gas serra troviamo:

- vapore acqueo
- anidride carbonica

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- ozono
- metano (ha un effetto serra maggiore della CO2)
- ossido di azoto
- clorofluorocarburi (gas refrigeranti che, attualmente, la normativa europea ha messo al
bando)
- perfluorocarburi

In coincidenza dello sviluppo industriale, dell’uso massiccio di


combustibili fossili e dell’incremento demografico, la curva
dell’emissione della CO2 nell’atmosfera è aumentata. Anche la
deforestazione contribuisce a determinare l’effetto serra, infatti non
fa altro che eliminare organismi autotrofi (che sono poi quelli che
usano l’anidride carbonica). Perciò c’è una relazione tra la presenza
antropica e l’emissione della CO2.

I derivati del cloro, ovvero i clorofluorocarburi e


perfluorocarburi, avevano registrato un incremento costante
nel tempo fino alla loro messa al bando, determinando un
abbassamento della curva. Venivano utilizzati negli
elettrodomestici (frigoriferi, condizionatori) come gas
refrigeranti ma, a partire dagli anni Novanta, sono stati banditi.

Il metano, che deriva dagli allevamenti, ha un


incremento costante dell’emissione
nell’atmosfera, poiché gli allevamenti
aumentano per soddisfare i bisogni alimentari
correlati con l’incremento demografico. Lo
stesso vale per l’azoto, legato all’attività
agricola.

I gas serra determinano un incremento della


temperatura atmosferica. In realtà, in tutta la storia
la temperatura terrestre (anche in assenza
dell’uomo) ha subito oscillazioni e variazioni
cicliche. I cambiamenti di temperatura sono quindi
fatti naturali. Esiste comunque un rapporto
innegabile tra l’aumento di temperatura e la
produzione di anidride carbonica: si discute sul
fatto che questa relazione dipenda o meno
dall’uomo.

153
LO STRATO DI OZONO
Lo strato di ozono (O3, formato da tre atomi di ossigeno in risonanza) compreso tra la troposfera e la
stratosfera è di fondamentale importanza per garantire la presenza di esseri viventi sulla Terra.

I raggi ultravioletti provenienti dalle radiazioni solari


possono essere suddivisi in base alla lunghezza d’onda in
raggi:

- UV-C, bloccati dell’ozono


- UV-B, passano attraverso l’ozono e sono
dannosi per gli organismi viventi
- UV-A¸ passano attraverso l’ozono e sono
dannosi per gli organismi viventi

Qualche ventennio fa si è iniziato a parlare di buco


dell’ozono; non si tratta in realtà di un vero e proprio buco
ma di una riduzione di questo strato, specialmente in
corrispondenza della zona antartica, che causa l’ingresso di
alcuni raggi UV-C, che normalmente vengono bloccati, e di una maggiore quantità di raggi UV-B.

Uno dei maggiori responsabili di questa riduzione è l’accumulo di clorofluorocarburi e di gas che, più in
generale, contengono cloro.

Se colpito dai raggi UV, un atomo di cloro si stacca e


reagisce con una molecola di O3, formando il monossido
di cloro. L’ozono iniziale si è quindi trasformato in
ossigeno (è stata persa una molecola di ozono). Il
monossido di cloro reagisce con l’ossigeno presente
nell’atmosfera formando ulteriore ossigeno e liberando
una molecola di cloro. Questa reagirà nuovamente con
l’ozono, riducendone ulteriormente la quantità.

Anche in questo caso, ci sono punti di vista contrastanti. Negli anni, infatti, si è osservata una progressiva
riduzione dello strato d’ozono ma, a partire dal 2002 (circa quando hanno cominciato a studiare il
fenomeno), questo “buco” ha iniziato a restringersi senza alcun apparente motivo.

Molte aziende farmaceutiche hanno approfittato di questa situazione incrementando la produzione di


creme solari capaci di filtrare i raggi UV, riducendo il rischio di comparsa di tumori della pelle ed altre
mutazioni del DNA che possono insorgere se ci si sottopone ad una esposizione prolungata. I raggi UV però,
a determinate quantità, sono necessari all’organismo per la produzione di vitamina D e di conseguenza
anche la produzione di calcio, fondamentale per le ossa. Ad esempio, negli ultimi anni in Australia, zona
molto vicina al buco di ozono e quindi sottoposta a radiazioni più forti, si è notato un incremento di
patologie (come l’osteoporosi) legate alla carenza di vitamina D e calcio, specialmente nelle donne e negli
anziani, date dall’uso massiccio di creme solari ultra protettive.

Tuttavia, l’ozono ha una caratteristica particolare: è un elemento fortemente ossidante, ne consegue che
non è positivo entrarvici a contatto. Esso viene prodotto anche a livello della superficie terrestre in quanto

154
tutti i motori elettrici liberano ozono, come anche gli elettrodomestici. Quindi, se da un lato rappresenta
una condizione indispensabile per la vita sulla Terra, per cui vengono messe in atto azioni che mirano a
preservare lo strato di ozono, dall’altro l’ozono di per sé rappresenta, a livello della superficie terrestre, un
fattore fortemente inquinante, essendo infatti fortemente ossidante è nocivo per l’uomo ma anche per i
suoi manufatti: le condizioni pessime in cui spesso versano le statue che si trovano all’aperto dipendono,
tra le altre cose, anche dall’aggressione dell’ozono.

La formazione di ozono a livello della superficie terrestre è determinata da un insieme di fattori. Ci sono i
composti organici volatili (VOC) (prodotti dall’attività antropica quindi di per sè inquinanti) che, insieme al
monossido di carbonio (che è anch’esso un prodotto delle attività antropiche e quindi un inquinante) ed in
presenza di derivaggi di ossido di azoto, (catalizzatore) producono ozono. Siccome un inquinate
generalmente non è visibile, siamo abituati a trascurarlo. A livello europeo si calcola che ogni anno sono
circa 330 milioni le persone che rischiano di essere esposte almeno una volta a una concentrazione di
ozono superiore al valore soglia.

L’AMBIENTE DOMESTICO
La casa è un ambiente molto più inquinato dell’ambiente esterno. Nella casa troviamo una grande
produzione di inquinanti che derivano dalle nostre attività.

Un esempio è la classica doccia calda: l’acqua che utilizziamo, infatti, è sottoposta all’azione dell’ipoclorito
di sodio. Il cloro contenuto, ad alte temperature, può trasformarsi in cloroformio (tossico). La formica, che
rivestiva gli arredamenti, è cancerogena. I prodotti utilizzati in lavanderia, contenenti sostanze tossiche,
vengono assorbiti dai capi e questi, una volta riposti nell’armadio, possono rilasciarli ed accumularli nella
nostra abitazione. Ci sono poi camini e stufe, che possono emettere monossido di carbonio all’interno
dell’abitazione e nell’atmosfera. Se ci fosse un costante ricambio d’aria, questi prodotti non
determinerebbero un pericolo per chi abita l’ambiente domestico.

155
In particolari zone ricche di rocce che contengono composti radioattivo (come il radon, gassoso), chi abita al
piano terreno è esposto ad agenti inquinanti. Il radon, trovandosi in natura in forma gassosa, entra
facilmente nelle
tubature delle
case; avendo un
tempo di
decadimento
piuttosto rapido,
si trasforma
velocemente in
composti
radioattivi che, se
respirati, possono
diventare
potenzialmente
cancerogeni.

CAPACITÀ PORTANTE E IMPRONTA ECOLOGICA

L’inquinamento è in stretto rapporto con l’uomo e la natura. L’incremento demografico deve essere
rapportato alla capacità dell’ambiente in cui viviamo.

Per questo esistono studi che valutano in rapporto una determinata popolazione e l’ambiente in cui vive;
questi studi poi rappresentano l’area di studio che si chiama impronta ecologica, che non è altro che una
valutazione dell'uso che l’uomo fa della natura.

Un’altra valutazione che si fa è quella di capacità portante (carrying capacity), cioè il massimo di
popolazione di una certa specie che un determinato habitat può sopportare, senza che venga
permanentemente incrinata la produttività dell’habitat stesso.

La definizione è difficilmente applicabile agli uomini, poiché tendono a restringere molto gli spazi necessari
alle altre specie viventi. Inoltre, se dobbiamo fare una valutazione di capacità portante della popolazione
umana, essa va rapportata alla capacità pro capite e non a tutto l’insieme; questo perché parlare di
popolazione umana in generale (come numero di individui) non ci fornisce informazioni precise sui
consumi, dato che questi possono essere molto diversi a seconda delle zone.

All’inizio, l’impronta ecologica era calcolata in funzione del numero di individui che potevano vivere in un
certo territorio. Successivamente, è cambiata la prospettiva: che territorio deve avere una certa
popolazione? Ora, infatti, si valuta il territorio necessario per raggiungere i livelli di consumi e di vita di una
popolazione.

Il principio si fonda sulla stima, attraverso l’analisi di particolari parametri, della superficie biologicamente
produttiva che, viste le interconnessioni e gli scambi vorticosi tra economie e collettività, non coincide
necessariamente con un determinato territorio. Intendendo per tale superficie quella atta a fornire il

156
fabbisogno di risorse (alimenti, energia, ecc.) alla popolazione umana e necessaria a smaltire, in una sorta
di equilibrio omeostatico, i cataboliti (rifiuti, inquinanti di varia natura) di una società.

Nel calcolo dell’impronta ecologica di una popolazione, bisogna considerare sei componenti:

- La superficie di terra coltivata necessaria per produrre gli alimenti


- L’area di pascolo necessaria per i prodotti animali
- La superficie di foreste necessaria per produrre legno e carta
- La superficie marina necessaria per produrre pesci e “frutti” di mare
- La superficie di terra edificata
- La superficie necessaria per assorbire le emissioni di anidride carbonica risultanti dal
consumo energetico

Il risultato finale è un valore numerico che esprime l’estensione del territorio che può sopportare una
determinata popolazione. Il mondo ha un valore di impronta ecologica.

Prendiamo in considerazione l’Abruzzo, il territorio di questa regione è sufficiente per sostenere i bisogni e
le attività di tutti i suoi abitanti?

Basandosi sui sei componenti sopra elencati, dobbiamo vedere se, rispetto a tutti i suoi abitanti, essi
soddisfano i bisogni della popolazione. La superficie di terra coltivata deve essere sufficiente per produrre
una quantità di alimenti che soddisfi i fabbisogni dei suoi abitanti; le aree dedicate ai pascoli, agli
allevamenti e alla pesca devono garantire la produzione di tutti i prodotti animali necessari; il territorio
dedicato alle foreste deve essere abbastanza per fornire legno, carta e di assorbire le emissioni di CO2
provenienti dalle attività antropiche; ed infine la superficie dedicata alla costruzione di abitazioni ed edifici
in generale deve essere sufficiente ad ospitare tutti gli abitanti e consentirgli di svolgere le loro attività (ad
esempio lavorare).

Questi sono dunque tutti parametri fondamentali che vanno tenuti in conto per valutare il territorio
necessario a quella determinata popolazione, in questo caso quella dell’Abruzzo. Fatte le dovute valutazioni
e tenendo conto di tutti questi parametri, otterremo infine un valore numerico che rappresenta appunto
quanto deve essere esteso un territorio per supportare e sopportare un determinato numero di abitanti, in
questo caso 1.3 milioni di abitanti dell’Abruzzo.

Nel grafico vediamo segnato in arancione il


valore di impronta ecologica del mondo. Tutte
le nazioni che stanno alla sinistra di questo
valore, hanno un’impronta ecologica via via
crescente, e questo significa che avrebbero
bisogno di territori sempre più grandi per
ospitare quella popolazione. Le nazioni a
destra, invece, hanno un territorio che ancora
soddisfa le loro esigenze e si trovano quindi al
di sotto del valore di impronta ecologica
mondiale.

157
Possiamo restringere il campo all’Italia; notiamo come
molte città hanno superato il valore di impronta ecologica
nazionale, mentre altre sono ancora al di sotto.

Parlando dell'Abruzzo, la prima cartina a sinistra ci mostra in giallo quello che è il suo territorio naturale, ed
in rosso quello di cui avrebbe bisogno per sostenere tutti i suoi abitanti. Andando a vedere i vari comuni
notiamo come quello de L’Aquila dovrebbe avere un territorio più del doppio rispetto a quello che ha
effettivamente a disposizione; il comune di Chieti, invece, avrebbe bisogno di un territorio 5/6 volte più
grande. Se poi pensiamo a Pescara, il suo comune dovrebbe essere grande come l’intero Abruzzo. Notiamo
come ogni grafico riporta in basso a sinistra, oltre ai valori di superficie disponibile e quelli di superficie
necessaria, anche il deficit ecologico portante pro capite, quindi riferito ad ogni cittadino, espresso in ettari.

Tutte queste valutazioni rappresentano il consumo che l’uomo fa della natura ed esso non va ignorato;
bisognerebbe cercare di intervenire per riportare quei confini in rosso a quelli naturali, lavorando dal punto
di vista della sostenibilità e attraverso innovazioni tecnologiche potremo riuscire ad aumentare il valore di
capacità portante.

SOSTENIBILITÀ E BIODIVERSITÀ

LA SOSTENIBILITÀ
La sostenibilità è un concetto che mette insieme diversi comportamenti. È stato introdotto nel 1987 dalla
Commissione Brundtland ed è riassumibile nella definizione:

“lo sviluppo che soddisfa i bisogni di oggi senza compromettere la possibilità delle generazioni future di
soddisfare i loro”.

Si tratta dunque di un insieme di comportamenti, riferiti in particolare alle generazioni future, da adottare
per determinare uno sviluppo sostenibile e per garantire la possibilità di soddisfare i propri bisogni alle
generazioni future. La sostenibilità è fondamentalmente riferita alle generazioni future.

158
LA BIODIVERSITA’
Uno dei pregi della Terra è la varietà di organismi molto elevata: la biodiversità. La biodiversità deve essere
conservata per tantissimi motivi, primo tra tutti il mantenimento dell’equilibrio della catena alimentare. La
specie umana tiene poco in considerazione gli altri organismi viventi, nonostante sia presente solo da circa
195.000 anni. L’uomo ha un enorme impatto ambientale, perché ha sempre la tendenza ad adattare
l’ambiente alle proprie esigenze, non considerando gli altri organismi viventi e causando profonde
alterazioni nell’ambiente. Quando gli abitanti erano pochi, questa problematica non era rilevante. Con
l’incremento demografico, sorge una situazione di criticità.

L’estinzione è la scomparsa di una specie quando l’ultimo individuo di essa muore. E’ di per sé un processo
biologico naturale, le attività umane lo hanno accelerato di circa 100 volte. Nella storia sono avvenute 5
grandi estinzioni di massa (big five) per effetti naturali:

circa 450 milioni di anni fa Ordoviciano-Siluriano 85% specie


circa 450 milioni di anni fa Devoniano superiore 82% specie
circa 450 milioni di anni fa Permiano-Triassico 96% specie marine
circa 450 milioni di anni fa Triassico-Giurassico 76% specie
circa 450 milioni di anni fa Cretaceo-Paleocene 75% specie

Molti studiosi ritengono che stiamo entrando nella sesta grande estinzione, poiché molte specie si stanno
estinguendo a causa dell’uomo (spesso anche per motivi religiosi o futili). Di recente l’uomo ha determinato
l’estinzione di molte specie:

- Rinoceronte bianco (2018)


- Tigre di Giava (1994)
- Grizzly della California (1920)
- Dodo delle Mauritius (inizi 1700)
- Alca impenne dell’oceano Atlantico (due secoli di vita)
- Foca monaca dei Caraibi (1852)
- Coguaro (2016)
- Orso dell’Atlante (fine ‘800)
- Lipote (2006)
- Quagga del Sudafrica (1878)

La società, attraverso l’adozione di norme specifiche, ha posto l’attenzione alla salvaguardia delle specie.
Questo può avvenire con metodi che rappresentano la conservazione della specie:

- In situ
- Ex situ

La conservazione in situ mira a preservare la diversità biologica attraverso la gestione razionale delle risorse
naturali e l’istituzione di aree protette, come parchi e riserve.

La conservazione ex situ consiste nella conservazione della diversità biologica in strutture artificiali:

- Riproduzione in cattività di specie animali, nei giardini zoologici – centri specializzati


- Congelamento di embrioni

159
- Conservazione dei semi

La banca mondiale dei semi è una gigantesca cassaforte scavata in un ghiacciaio in Norvegia, nelle isole
Svalbard, a circa mille chilometri dal Polo Nord: qui si conservano e proteggono i beni più preziosi
dell’umanità. In Norvegia ci sono centinaia di migliaia di sementi blindate e conservate a 18 gradi sotto
zero, per garantirne la sopravvivenza anche in caso di guerra o cataclisma. A quella temperatura, i semi
possono sopravvivere per migliaia di anni (anche 20 mila).

160
TECNICHE DI LABORATORIO

SPETTROFOTOMETRIA

Uno strumento indispensabile in un laboratorio biologico è sicuramente lo spettrofotometro, utilizzato


nell’applicazione della teoria spettrofotometrica. Tale strumento sfrutta il principio per cui delle radiazioni
elettromagnetiche che attraversano un composto, solitamente in soluzione, vengono in parte assorbite e
tale assorbimento viene misurato da un rivelatore.

Le tecniche spettroscopiche sono basate sullo scambio di energia che si verifica fra l’energia radiante e la
materia. In particolare, la spettrofotometria di assorbimento è interessata ai fenomeni di assorbimento
delle radiazioni luminose della regione dello spettro elettromagnetico appartenenti al campo del visibile
(350-700 nm) e del vicino ultravioletto (200 – 350 nm).

Lo spettrofotometro è uno strumento formato da una sorgente luminosa che emette un raggio di luce
incidente che attraversa un campione contenuto in un contenitore specifico. Si avrà poi la luce emergente
con una sua intensità e uno strumento che è in grado di misurare questa luce emergente.

Solitamente utilizziamo spettrofotometri UV visibili che conducono indagini in assorbimento. Quando un


composto in soluzione viene attraversato da energia radiante, una quota di questa viene assorbita dal
composto. Nella valutazione della tecnica spettroscopica si lavora su un range di lunghezze d’onda che
vanno da 350 nm circa fino a 700 nm (range del visibile) fino al vicino ultravioletto (200- 350 nm di
lunghezza d’onda). Esiste anche una spettrofotometria a infrarossi ma si basa su altri principi ed è uno
strumento separato da quello UV-visibile.

L’assorbimento di una radiazione elettromagnetica determina una transizione energetica degli elettroni
esterni delle molecole sciolte in soluzione che stiamo valutando. Questi elettroni possono essere:

- Di tipo σ, costituiti da una nube elettronica addensata lungo l’asse di unione dei nuclei degli
atomi interessati al legame (i legami semplici sono di tipi σ)
- Di tipo π, costituiti da coppie di elettroni la cui maggior densità elettronica è situata al di
fuori dell’asse di unione dei nuclei (come accade nei legami doppi o tripli).

Dal momento che, come precedentemente accennato, questa tecnica sfrutta l’assorbimento di una parte
dell’energia incidente, prende il nome di spettrofotometria di assorbimento. In questo caso, l’emissione
interessa un range della lunghezza d’onda che va da 300 nm a 800 nm: si tratta del campo della radiazione
elettromagnetica caratteristico di questa indagine.

161
Dunque, una volta verificatosi il trasferimento di energia sugli elettroni specifici per il determinato
composto, l’energia emessa dal composto stesso avrà un valore diverso rispetto a quello della luce
incidente, ed è proprio questa variazione ad essere utilizzata per indagini qualitative o quantitative.

ANALISI QUALITATIVE
Per effettuare analisi qualitative si fa uso di raggi policromatici a spettro continuo, poi separati tramite
monocromatori nelle varie componenti (radiazioni monocromatiche). In pratica, le singole radiazioni
monocromatiche di tale raggio si fanno passare, una alla volta, attraverso la sostanza in esame, la quale
assorbirà in modo diverso, cioè con diversa intensità, le diverse radiazioni (ogni sostanza ha un proprio
picco di assorbimento). Riportando perciò i valori registrati in un grafico di lunghezza d’onda-assorbimento,
si ottiene lo spettro di assorbimento della sostanza esaminata. Per il fatto che ogni sostanza ha il suo
spettro di assorbimento, l’esame di tali spettri permette di identificare una sostanza (per confronto diretto
con campioni noti o tramite banche dati di spettri) o di controllarne il grado di purezza.

Per esempio, nell’immagine accanto si ha uno spettro


continuo più o meno nel campo nel visibile e le righe che si
vedono sono le lunghezze d’onda di assorbimento
caratteristiche dei composti, idrogeno, sodio e mercurio.

Dall’indagine spettroscopica emerge che l’idrogeno assorba a


circa 650 nm, ma anche ad altre lunghezze d’onda visibili
nello spettro. Ancora più in basso gli spettri del sodio e del
mercurio, che assorbono a lunghezze d’onda ancora diverse.
Conoscendo questi dati, per ricercare in un campione
idrogeno, sodio e mercurio, si andrà ad effettuare una ricerca
alle lunghezze d’onda corrispondenti ai rispettivi spettri di assorbimento.

Campionature di questo genere servono quindi a capire a quale lunghezza d’onda assorba ciascuna
sostanza, e possono essere impiegate per la ricerca di un determinato composto nel campione, ma anche
per determinarne il grado di purezza, poiché l’assorbimento è un valore anche quantitativo, e dunque può
assorbire più o meno a seconda della concentrazione del campione.

A livello pratico, se in laboratorio si deve fare un’analisi del DNA e si vuole sapere se in un estratto c’è del
DNA,si può far questo tipo di indagine per vedere se a quella determinata lunghezza d’onda è presente ma
il più delle volte ci si trova a dover fare delle indagini quantitative.

ANALISI QUANTITATIVE
Per eseguire analisi quantitative si fa uso di raggi monocromatici, cioè costituiti da radiazioni di una sola
frequenza. In pratica, date le difficoltà di avere raggi dotati di questa proprietà, si impiegano fasci di
radiazioni comprendenti una banda molto ristretta dello spettro, ossia fasci quasi monocromatici. Le
determinazioni quantitative sono basate sul fatto che, quando una radiazione attraversa una soluzione,
viene assorbita più o meno intensamente a seconda della concentrazione; in altre parole, l’assorbimento

162
dipende dalla concentrazione. Disponendo quindi di strumenti in grado di misurare l’assorbimento, si risale
facilmente alla concentrazione della soluzione.

Se si fa passare attraverso una soluzione a concentrazione incognita una radiazione monocromatica (cioè di
una determinata λ) e di intensità 𝐼0 , al di là della soluzione si troverà una radiazione di intensità I, che sarà:

- minore di 𝐼0 se una parte della radiazione è stata assorbita dalla soluzione stessa;
- uguale ad 𝐼0 se non si è verificato nessun assorbimento, quindi il composto non è presente
in soluzione.

Appositi dispositivi (i rilevatori) sono in gradi di misurare l’intensità del flusso luminoso, in particolare
vengono misurate:

- 𝐼0 : intensità del flusso luminoso all’ingresso della cella con il campione


- 𝐼: intensità del flusso luminoso all’uscita della cella con il campione
- La frazione di luce trasmessa, rispetto a quella incidente, ovvero la trasmittanza (T) data da
𝐼
𝑇=
𝐼0
Questa grandezza esprime quale frazione della luce incidente ha attraversato il campione
senza essere assorbita, e può assumere valori compresi tra 0 e 1, e tale rapporto è tanto
più piccolo quanto maggiore è stato l’assorbimento.
- L’entità della radiazione assorbita, detta comunemente assorbanza (A), pari al logaritmo
del reciproco della trasmittanza
1 𝐼0
𝐴 = log∙ = log∙
𝑇 𝐼

La legge che regola il rapporto tra assorbanza e concentrazione è la legge di Lambert-Beer (ε è un valore
tabellare, caratteristico di ogni sostanza).

A=ε∙𝑐 ∙d

- A = assorbanza del campione


- ε = coefficiente di estinzione molare, specifico per ogni sostanza (tabellare)
- d = cammino ottico (cm), nella maggioranza delle indagini è una costante in quanto le
analisi si fanno su contenitori chiamati cuvette generalmente di 1 cm di spessore
- c = concentrazioni (mol/l)

163
Teoricamente c’è un rapporto lineare tra l’assorbanza e la concentrazione e quindi si può riportare tutto su
un grafico. Dal grafico emerge che essendo ε e d delle costanti, è possibile riscrivere l’equazione come
A=KC, risalendo in questo modo alla concentrazione. La legge di Lambert-Beer è valida se il rapporto tra
assorbanza e concentrazione è lineare e questo
accade solo per bassissime concentrazioni quindi la
retta, da un certo momento in poi, diventa una curva
e si perde il rapporto tra assorbanza e
concentrazione. Questo vale in linea teorica ma poi in
linea pratica gli spettrofotometri moderni danno
direttamente il risultato senza dover applicare tutte
queste considerazioni. Viene quindi stabilito un
principio di base che considera il rapporto tra
l’assorbanza di una soluzione rispetto alla
concentrazione del soluto. Nella tecnologia moderna
il risultato è abbastanza diretto in quanto si ha a che
fare con una strumentazione sempre più sofisticata che da vantaggi soprattutto in termini di accuratezza
delle immagini.

COMPONENTI
Dal punto di vista concettuale, uno spettrofotometro segue il seguente schema di principio:

1) sorgente di radiazione
2) selezionatore di lunghezze d’onda o
monocromatore
3) cella
4) rivelatore
5) lettore

La sorgente è la parte dell’apparecchio da cui prende


origine la radiazione policromatica (contenete cioè
tutte le lunghezze d’onda del campo richiesto) che
viene diretta sul campione. Negli strumenti che
misurano la luce ultravioletta e visibile sono presenti due diverse lampade, in modo che la sorgente copra
l’intervallo da 190-800 nm:

- per la regione del visibile si utilizzano lampade a incandescenza (a filamenti di tungsteno,


lampade quarzo-iodio o lampade tungsteno-alogeno)
- per la regione UV si usano lampade a scarica in un gas (deuterio o idrogeno); sono
costituite da un’ampolla in quarzo contenete il gas rarefatto (ma non troppo) nella quale
viene attivata, tra due elettrodi, una scarica elettrica con la conseguente emissione di
radiazioni con spettro continuo.

Il monocromatore è il sistema ottico usato per disperdere la luce policromatica in bande monocromatiche,
che vengono inviate in successione sul campione. Esistono due tipi di monocromatori:

164
- basati su filtri (ottici o interferenziali), che bloccano una parte della luce e lasciano passare
solo la parte desiderata
- basati su un elemento disperdente (prisma o reticolo), che separano le varie componenti
della radiazione e ne permettono la successiva selezione della banda desiderata.

La cuvetta è al componente destinata a contenere il campione da esaminare generalmente in soluzione.


Oltre ad essere trasparenti alla radiazione impiegata, devono avere un ben preciso cammino ottico (la
lunghezza percorsa dalla radiazione nel campione) che dovrà essere sufficiente ad avere assorbimenti
rilevabili dallo strumento:

- in UV si utilizzano cuvette in quarzo (se si lavora invece nel campo dell’ultravioletto, tutte le
cuvette oppongono resistenza al passaggio dell’ultravioletto tranne la cuvetta in quarzo)
- nel visibile si utilizzano cuvette in vetro o quarzo o alcuni materiali plastici.

I rilevatori sono dispositivi capaci di produrre un segnale elettrico che dipende dall’energia delle radiazioni
che lo investono. Tale segnale elettrico (proporzionale all’intensità luminosa) viene poi trasferito a un
indicatore analogico o elaborato per via elettronica in modo più o meno complesso. Trattandosi della parte
dello strumento che esegue la misura vera e propria, è evidente che ne rappresenta una parte molto
importante, in particolare per quanto riguarda si ala sensibilità sia l’accuratezza dello spettrofotometro.

Da qui di solito gli spettrofotometri sono collegati ad un computer e attraverso un software più o meno
sofisticato viene espresso il valore della concentrazione del composto indagato. Tramite questo strumento
si può quindi analizzare la concentrazione di una determinata sostanza. Questo converte il segnale elettrico
ricevuto dal rivelatore in un valore numerico che può andare da 1 a 100, dove 100 è il valore del segnale in
assenza del campione. Proprio grazie a tale valore si può calcolare la trasmittanza, e quindi l’assorbanza.

FUNZIONAMENTO
Viene preparato un campione e, se si opera nel visibile, nella preparazione del campione comparirà una
colorazione che sarà più o meno intensa a seconda della concentrazione. Se si fa questo tipo di indagine, si
ha un valore di concentrazione che però non tiene conto del “rumore di fondo”. ln una soluzione acquosa il
materiale della cuvetta di per sé determina un certo grado di assorbanza che non può essere valutata
perché altrimenti va a compromettere il rapporto tra l’assorbanza e la concentrazione del composto che
sinsta analizzando, questo significa che quel valore di assorbanza che verrà chiamato “valore di fondo”,
bisogna sottrarlo alla misura che si effettua e che indica l’assorbanza totale.

Quindi, il valore di assorbanza ottenuto non fa riferimento esclusivamente al campione, ma una parte
deriva anche dall’assorbanza del materiale della cuvetta e della soluzione. A questo punto per risalire
all’effettiva concentrazione della sostanza ci sono diversi accorgimenti: nello spettrofotometro più
semplice, definito monoraggio, verrà prima analizzata l’assorbanza di tutte le componenti capaci di
assorbire ad una determinata lunghezza d’onda (cuvetta, soluzione priva del composto, definita in gergo
“bianco”) tranne il composto. Il valore così ottenuto andrà sottratto alla successiva analisi del composto,
fornendo l’effettiva assorbanza e quindi la concentrazione della sostanza in esame.

Trattandosi però di un’operazione piuttosto manuale, sebbene lo spettrofotometro monoraggio sia il più
commerciale ed economico, incorrerà in alcuni errori che andranno a diminuire l’accuratezza dell’indagine.

165
Per questo, esistono anche altri tipi di spettrofotometro, a seconda di come sono organizzate le varie
componenti:

- spettrofotometri monoraggio (appena preso in esame)


- spettrofotometri a doppio raggio
- spettrofotometri a serie di diodi (solo
UV-visibile)
- strumenti in trasformata di Fourier
(solo IR)

Lo spettrofotometro a doppio raggio fa sì che la


radiazione, una volta che è uscita dal raggio
monocromatico dal monocromatore, viene scomposta
in due attraverso dispositivi situati in alto e in basso.

Questo strumento infatti contiene due celle per due


cuvette, una delle quali conterrà il bianco, mentre
l’altra il campione in esame. In questo caso il raggio di
luce verrà scomposto in due al livello del
monocromatore: un raggio andrà ad analizzare il
bianco (controllo) e l’altro il campione. Le due radiazioni emergenti vanno poi a finire separatamente nel
rilevatore che, automaticamente, fa la differenza di assorbanza, fornendo il dato preciso dell’assorbanza
del solo campione, da cui risalire alla concentrazione. Si tratta sicuramente di un’indagine più accurata ma
decisamente più costosa.

ELETTROFORESI

Si basa sulla caratteristica dei composti dotati di carica (come proteine, DNA e RNA): immersi in un campo
elettrico, migrano verso uno dei due poli in base alla loro carica. La presenza di un polo positivo, detto
anodo, e di un polo negativo, detto catodo,
determina una differenza di potenziale, che
permette alle molecole in esame di spostarsi. Per
tutti quei composti che non sono dotati di carica,
esiste un altro metodo che consiste nel rivestire
questi ultimi di un composto dotato di carica per
poi sottoporli ad un’indagine elettroforetica.
L’elettroforesi è la base per altre importanti
tipologie di indagini che consentono di analizzare
campioni di DNA, RNA e proteine.

Abbiamo tanti frammenti di DNA, tutti id lunghezza diversa. Li sottoponiamo questi frammenti ad una corsa
elettroforetica, che consiste nel far scorrere i frammenti di DNA (o di proteine o RNA) su un pacchetto di gel
di agarosio. Questo rappresenta una sorta di setaccio molecolare per cui, nel momento in cui i frammenti
(di DNA e perciò carichi negativamente) verranno attratti da uno dei due poli (in questo caso dall’anodo,
ovvero quello carico positivamente), saranno costretti ad attraversare il gel di agarosio attraverso dei
piccoli cunicoli che consentiranno un comodo passaggio ai frammenti più piccoli; questi si muoveranno più
166
velocemente dei frammenti di maggiori dimensioni. Alla fine otterremo sul gel una sorta di stratificazione
dei frammenti separati gli uni dagli altri in base alla loro grandezza che, nel caso del DNA, viene espressa in
kilobasi (kb) mentre nel caso delle proteine viene espressa in kilodalton (kDa).

Quando sul gel si noteranno delle bande, questo sarà pronto e si procederà in maniera differente in base al
tipo di materiale che si sta analizzando.

L’elettroforesi è solo il primo passo nell’analisi di un campione di proteine, di DNA o di RNA: infatti ognuna
di queste, dopo che è stata effettuata l’elettroforesi, va incontro ad un procedimento differente:

- Le proteine verranno analizzate tramite la tecnica del Western blotting;


- L’RNA verrà sottoposto ad un procedimento chiamato Northern blotting;
- Infine il DNA verrà analizzato con il Southern blotting.

WESTERN BLOTTING
Nella sezione A dell’immagine possiamo notare sei diversi pozzetti, ovvero i contenitori all’interno dei quali
viene inserito il materiale da analizzare (in questo caso si parla di proteine). Il gel qui è posizionato
verticalmente. Nel primo pozzetto viene sempre messa una miscela di proteine standard, ovvero a peso
molecolare conosciuto, che serve per avere un riferimento di peso molecolare. In seguito possiamo
studiare, tra diversi campioni, se vi è una proteina specifica. In questo caso vi sono tre bande stratificate
allo stesso livello di peso molecolare (si parla delle tre bande in fila orizzontale nel secondo, terzo e quarto
pozzetto): così facendo risulta difficile capire se c’è la proteina specifica che si sta cercando. Perciò si
trasferiscono queste bande su un foglio di nitrocellulosa, perché quest’ultima ha una consistenza più rigida
ed adatta a condurre un’indagine diretta: quest’operazione di trasferimento si chiama botting e tutta la
tecnica, che in questo caso riguarda le proteine, si chiama Western blotting.

167
La procedura di trasferimento delle bande dal gel di agarosio al foglio di nitrocellulosa prevede che il foglio
venga adeso al gel e attraverso l’immersione di questo sistema in un campo elettromagnetico si ha lo
spostamento di queste bande dal gel verso il foglio di nitrocellulosa (sezione B).

Per sapere se in una di queste tre bande vi è la proteina specifica che sto cercando, si prende in
considerazione la banda dove è contenuta la miscela di proteine che hanno il suo stesso peso molecolare. A
questo punto si fa un’indagine con anticorpi specifici per la proteina che si vuole indagare. Nella sezione C,
il foglio viene immerso in una soluzione contenente l’anticorpo, che viene definito primario e che si legherà
alla proteina in questione. Successivamente si usufruirà di un anticorpo secondario, legato ad un composto
fluorescente (nel caso in figura c’è un enzima, ma generalmente vi è un composto fluorescente), che
riconoscerà l’anticorpo primario e ne rivelerà la presenza. Se si forma il legame l’anticorpo primario-
proteina che sto cercando e l’anticorpo primario-anticorpo secondario, esponendo il foglio di nitrocellulosa
ad una lastra fotografica, si avrà un’emissione di luce dovuta all’avvenuta cascata di legami tra anticorpi
primari e secondari. Si otterrà, quindi, un’impressione sulla lastra (sezione D). Ciò sta a significare che c’è
una corrispondenza di queste tre bande e quindi che in queste tre bande vi è la proteina che sto cercando.
L’intensità delle bande fornisce anche un valore quantitativo; l’indagine, perciò, ha sia un valore
quantitativo sia un valore qualitativo. Per valutare l’intensità di queste bande si ricorre ad un’analisi
densitometrica per ottenere, con una buona accuratezza, la quantità effettiva di proteina presente in una
determinata banda.

NORTHERN BLOTTING
Quando su un campione di RNA viene
adoperato lo stesso tipo di procedimento, esso
prende il nome di Northern blotting. Il principio
di questo procedimento è lo stesso. Anche qui si
parte da una separazione elettroforetica e
anche in questo caso si trova il blotting, un
trasferimento dal gel al foglio di nitrocellulosa
delle bande. L’unica differenza è che nel
Northern blotting, al posto degli anticorpi, per
ricercare le sequenze di RNA da studiare, si
utilizzano le sequenze complementari a queste
ultime. La sequenza complementare a quella ricercata sarà legata ad un composto fluorescente. Di
conseguenza, se si ha il legame per complementarità, significa che è presente l’RNA che si sta indagando. Si
utilizza poi una lastra fotografica che mette in evidenza dove c’è’ il legame. Anche nel caso del Northern
blotting, così come per il Western blotting, dopo la procedura si potrà condurre un’analisi densitometrica.

168
SOUTHERN BLOTTING
Il processo applicato al DNA viene chiamato
Southern blotting e segue sempre gli stessi
passaggi: infatti,si inizia con la separazione
dei vari frammenti di DNA in base alla loro
dimensione grazie al gel di agarosio; in
seguito, si procede con il blotting e,
successivamente, con l’utilizzo di sequenze
complementari, legate ad un composto
fluorescente, a quelle che si vogliono
studiare. L’ultimo passaggio è sempre
quello che riguarda l’impressione della
lastra fotografica, accompagnata, poi, dall’analisi densitometrica.

PCR

Un’altra tecnica fondamentale che si utilizza nei laboratori di biologia è la PCR (Polymerase Chain Reaction).
La PCR non è altro che una riproduzione del meccanismo di duplicazione del DNA che avviene grazie alla
separazione della doppia elica, all’utilizzo di primer, di una speciale polimerasi e di uno strumento chiamato
termociclatore. Quest’ultimo ha un’importanza fondamentale all’interno di questo processo, in quanto è in
grado di generare precise variazioni di temperatura in un periodo di tempo ridotto. Il termociclatore è
formato da tanti pozzetti in modo tale da poter svolgere più analisi contemporaneamente. I termociclatori
più sofisticati consentono di controllare la temperatura di ogni pozzetto. La temperatura, durante questo
processo, ha, anch’essa, una
grande importanza, in quanto per
separare le due emieliche non si
utilizza l’enzima elicasi, bensì si
aumenta la temperatura del DNA
fino ai 95°C-100°C, di modo che
questo si denaturi. Con la
denaturazione del DNA si ha la
separazione della doppia elica.
Una volta che la temperatura del
campione torna attorno a valori
accettabili, le due emieliche si
legano al filamento neo
sintetizzato. Alla denaturazione
segue, dunque, la formazione
della molecola di DNA.

Questo procedimento può essere effettuato diverse volte senza il rischio che il campione di DNA si rovini.
Nella duplicazione che avviene in vivo, però, l’essere umano non raggiunge temperature di 100°C affinché
le due emieliche si separino, ma la duplicazione avviene a una temperatura di circa 37 gradi (quella media
del corpo umano). Se provassimo ad operare in vitro ad una temperatura di 37 gradi il DNA non si

169
denaturerebbe .C’è bisogno, quindi, di aumentare la temperatura fino ai 100 gradi, temperatura alla quale
si ha la denaturazione del DNA, ma anche della DNA polimerasi, che quindi non funzionerebbe più. La DNA
polimerasi che si utilizza quando si ricorre alla PCR, infatti, non è derivante dall’uomo, bensì da un batterio
che vive ad altissime temperature, il Thermophilus aquaticus. La sua DNA polimerasi resiste ad alte
temperature ed essa prende il nome di Taq polimerasi.

In un termociclatore si trovano più pozzetti e ogni pozzetto consente l’amplificazione di un tratto di DNA
che si vuole studiare. Dentro a ciascun pozzetto si inseriscono tutti i componenti che servono per la
duplicazione:

- Il campione di DNA che si vuole duplicare:


- I primers, che non verranno sintetizzati da un enzima all’interno del pozzetto: infatti, essi
saranno inseriti nel pozzetto già sintetizzati. I primers si possono trovare in vendita, ma
volendo si possono anche sintetizzare in laboratorio. I primer sono due e si legheranno
ciascuno in un’estremità diversa uno prenderà il nome di primer senso, mentre l’altro si
chiamerà primer anti-senso;
- I nucleotidi, poiché se abbiamo bisogno di una duplicazione dobbiamo disporre anche delle
quattro basi;
- L’enzima Taq polimerasi.

Una volta che tutti questi componenti


sono stati inseriti dentro al pozzetto,
avviene una serie di cicli di PCR (un ciclo si
completa quando si separa la doppia elica,
si legano i primer e inizia la duplicazione di
questo tratto). Si stabilisce un certo
numero di cicli, per amplificare la quantità
in modo da poterla indagare.

Il termociclatore non ha altro che la funzione di cambiare rapidamente per ogni pozzetto la temperatura a
seconda dell’operazione che si deve realizzare; quindi, a 95°C-100°C avviene la denaturazione del DNA. In
seguito il termociclatore abbassa la temperatura fino a 55°C, temperatura definita di annealing, in modo
che i primer si possano legare al filamento che fungerà da stampo. Infine la temperatura si alzerà di nuovo,
fino a circa 72°C, e avverrà la sintesi del nuovo filamento.

Dal principio di base della PCR, che è apparentemente molto semplice, si è sviluppata una tecnologia che ha
portato all’insorgere di strumentazioni varie sempre più precise. Dopo la sua scoperta, gli strumenti, che
fanno tutti riferimento a questo principio di base, ovvero quello di studiare una regione del DNA utilizzando
il meccanismo della duplicazione, sono

diventati sempre più sofisticati e, di conseguenza più costosi. Degli esempi di ciò sono rappresentati da:
Real time PCR, RT- PCR; Reazione a catena della ligasi (LCR), Mispairing PCR, PCR-RFLP,PCR in situ,
Touchdown PCR, Race-PCR, PCR asimmetrica, Multiplex PCR.

LA SCOPERTA DEL DNA

Le prime indagini sulla doppia elica sono state realizzate da Rosalind Franklin con la diffrazione a raggi X,
nonostante questa scoperta sia attribuita a Watson e Crick.

170
Consta in una fonte di raggi x che investe un campione; questo fascio incontrando le molecole che
compongono il DNA subiscono una deviazione. I raggi diffratti impressionano una lastra fotografica.

ESPERIMENTO DI MESELSON E STAHL


L’esperimento di Meselson-Stahl ha determinato la tipologia di duplicazione del DNA: grazie a questo
esperimento sappiamo che ogni emielica del Dna funge da stampo per la sintesi di quella nuova e dunque
viene definita replicazione semiconservativa.

Questa sperimentazione si basa sulla possibilità di avere a disposizione un’ultracentrifuga, che contiene un
supporto dove si stratifica del DNA trattato. Il DNA infatti normalmente contiene azoto, ma in questo caso
viene inserito un isotopo dell’azoto,
determinando un cambiamento del peso
della molecola. L'emielica acquisisce
questo azoto durante la prima
duplicazione. Queste molecole vengono
centrifugate e sospese in una soluzione di
cloruro di cesio. Il DNA ha stratificazione
diversa grazie alla quale è possibile
osservare la presenza in prima
duplicazione di un ibrido, infatti il DNA
presenta un’emielica contenente azoto
leggero e un’emielica contenente azoto
pesante.

LA NATURA PROTEICA DEGLI ENZIMI

Adesso diamo per scontate molte informazioni, ma all'inizio del 900 affermare che una proteina derivasse
dall'espressione di un gene poteva essere considerata un'ipotesi azzardata.

Nel 1926 James Sumner fu il primo a purificare un enzima (ureasi) e dimostrare che è una proteina.

171
L’ESPERIMENTO DI GRIFFITH

L'esperimento di Griffith è finalizzato a mettere in evidenza che il DNA è il materiale ereditario. Mise in
evidenza la possibilità di trasferimento da una cellula ad un’altra, stabilendo che le sue caratteristiche si
ripropongono in questo trasferimento. Utilizzò una sperimentazione animale, con topi infettati da uno
pneumococco nelle sue due versioni:

- colonie lisce che presentavano un ceppo virulento (S)


- colonie rugose che presentavano un ceppo non virulento (R).

Osservò che iniettando in un topo il ceppo R il topo sopravviveva; mentre, iniettando il ceppo S, ovvero
quello virulento, il topo moriva. Provò poi ad iniettare delle cellule S uccise al calore e vide che il topo
riusciva a sopravvivere. Un'iniezione però di cellule S uccise al calore e di cellule R portava comunque la
morte del topo. Questo perché il DNA delle cellule S uccise al calore veniva trasferito alle cellule R,
determinandone la virulenza.

IL DNA RICOMBINANTE

Le tecnologie del DNA fanno riferimento al DNA ricombinante ovvero DNA a cui è stato aggiunto un nuovo
tratto di un DNA estraneo, oppure a cui è stato tolto una parte dal DNA originale. Il Dna ricombinante
assume un ruolo rilevante poiché ha permesso la ricostruzione della libreria genomica.

Il primo DNA ricombinante fu realizzato da Paul Berg che, nel 1980, vinse anche il Nobel.

Per ottenere un Dna ricombinante, si utilizzano dei particolari enzimi chiamati enzimi di restrizione, che
sono delle forbici molecolari poiché in grado di tagliare il Dna a livello di specifiche sequenze o specifici siti.
Una volta tagliato un frammento di Dna, questo poi può essere inserito in un vettore che a sua volta può
essere trasferito in una cellula. I vettori possono essere:

- Batteriofagi, cioè virus che infettano i batteri

172
- Plasmidi, cioè molecole circolari più piccole del cromosoma batterico che possono essere
presenti nella cellula batterica e replicarsi autonomamente. I plasmidi possono essere
introdotti in una cellula batterica (E. coli) attraverso un metodo chiamato trasformazione,
che consiste nell’assunzione di DNA estraneo da parte delle cellule. Una volta che il
plasmide è all’interno della cellula, si replica e viene distribuito alle cellule figlie in seguito
alla divisione cellulare.
Se abbiamo un plasmide che contiene un frammento di DNA estraneo viene definito
plasmide ricombinante. Il frammento viene clonato e distribuito a tutta la generazione
filiale, infatti quando il plasmide si replica, si replica anche il frammento estraneo in molte
copie.

Gli enzimi di restrizione esistono in grandissima varietà, sono prodotti dai batteri e i geni da cui derivano si
trovano sui plasmidi. Abbiamo a disposizione un enorme numero di enzimi di restrizione, ognuno con le
proprie caratteristiche di taglio:

- L’enzima di restrizione HindIII riconosce e taglia una molecola di DNA in corrispondenza del
sito di restrizione 5’-AAGCTT-3’
- EcoRI riconosce e taglia la molecola di DNA in corrispondenza del sito di restrizione 5’-
GAATTC-3’.

Utilizzando questa varietà possiamo decidere quali frammenti tagliare e trasferire. Gli enzimi di restrizione
sono prodotti dai batteri stessi per proteggersi dall’attacco virale dei batteriofagi. Durante l’infezione da
batteriofago, questo inserisce il proprio DNA nella cellula batterica, la quale può difendersi se ha a
disposizione enzimi di restrizione capaci di attaccare il DNA del batteriofago. La cellula batterica può
proteggere il proprio DNA dall’azione dei propri enzimi di restrizione perchè lo modifica dopo la sintesi.
Infatti, un enzima aggiunge un gruppo metilico ad una o più basi in ogni sito di restrizione, in modo che
l’enzima di restrizione non potrà più riconoscerlo.

L’utilizzo di enzimi di restrizione permette di tagliare il DNA cromosomico in frammenti più piccoli. Molti
enzimi di restrizione tagliano
sequenze palindromiche, tra questi
lo stesso enzima HindIII.

Il risultato del taglio porta alla


formazione di due frammenti che hanno terminazioni identiche e sono estremità coesive (sticky ends),
perchè tendono ad appaiarsi con le terminazioni complementari di altre molecole di DNA.

173
Quando realizzo un plasmide ricombinante devo utilizzare un
enzima di restrizione che dovrà essere utilizzato verso il
plasmide, quindi andrà a riconoscere il sito, taglierà un
frammento e così avremo delle terminazioni coesive. Ma lo
stesso enzima di restrizione deve essere usato sul DNA dal
quale voglio prendere il frammento da inserire nel plasmide.
Quindi lo stesso enzima di restrizione viene utilizzato sia per il
DNA che deve essere inserito, sia per il plasmide che deve
ricevere questo frammento. Una volta che si sono unite le
terminazioni complementari avrò un plasmide che rappresenta
un vettore di trasporto per questo frammento.

L’utilizzo degli enzimi di restrizione e dei plasmidi ha consentito


la formazione della libreria genomica.

L’estrazione del DNA da una cellula comporta che il DNA stesso


rappresenti il genoma. Una libreria genomica è una raccolta di
migliaia di frammenti di DNA che rappresentano tutto il DNA del genoma della specie che vogliamo
studiare. Ogni frammento viene inserito in un plasmide che verrà incorporato in un batterio. La libreria
genomica umana viene così conservata come collezione di batteri ricombinanti. Poiché i geni che codificano
proteine sono solo l’1,5%, le genoteche contengono anche un elevato numero di sequenze che non
codificano proteine.

I plasmidi in genere contengono geni che determinano la resistenza ad antibiotici. Quando inseriamo il
plasmide in una coltura batterica, questo riuscirà ad entrare solo in alcuni batteri e non in tutti. Per
eliminare quelli che non lo hanno, viene utilizzato un antibiotico: quelli che rimangono in vita, quindi, sono
solo batteri che contengono il plasmide che conferisce la resistenza all'antibiotico.

174
È anche possibile identificare i batteri che contengono i plasmidi. Per identificarli, si trasferiscono le colonie
su un filtro di nitrocellulosa e si aggiungono degli acidi nucleici marcati con elementi radioattivi
complementari ai frammenti che si sono inseriti. Siccome gli acidi nucleici aggiunti sono marcati con
elementi radioattivi, questi produrranno delle radiazioni quindi se vengono esposti ad una lastra
autoradiografica, laddove la lastra viene impressionata sono presenti batteri contenenti i plasmidi.

LA PCR

Attraverso la PCR è possibile anche studiare e amplificare l’RNA. La PCR del RNA si chiama Rt-PCR.
Attraverso la tecnica di rt-PCR che utilizza la trascrittasi inversa, dall’RNA maturo, si ottiene la copia del
DNA. L’RNA può essere facilmente degradabile, di conseguenza, si elimina l’RNA e così si ottiene la copia di
DNA che ripropone la sequenza codificanti (cDNA). Si effettua una duplicazione in vitro e si ottiene la
molecola di cDNA a doppio filamento che contiene solo le sequenze codificanti. Il DNA sintetizzato viene
poi studiato, ma farà sempre riferimento all'identificazione dell’RNA che vogliamo studiare.

175
L’EVOLUZIONE

INTRODUZIONE ALL’EVOLUZIONE

Il concetto di evoluzione si è sviluppato nel tempo, infatti a partire dalle origini di questa teoria è necessario
un percorso per arrivare a una nuova concezione dell'evoluzione in cui si inserisce anche l’epigenetica.
Darwin enunciò la teoria dell'evoluzione e per questa ragione molti lo considerano il padre dell’evoluzione.
Tuttavia questa resta tuttora una teoria dal momento in cui non abbiamo strumenti per dimostrarla.

L’unico modo è lo studio dei fossili, ma nella ricostruzione della filogenesi ci sono dei punti mancanti che
non permettono di dimostrare completamente la teoria dell’evoluzione. La teoria dell’evoluzione è discussa
tutt’oggi, in quanto, ammettendo tale teoria, bisogna negare l’esistenza di un creatore; di conseguenza i
dibattiti sono molto accesi. Allora è presente anche un contrasto tra evoluzionisti e antievoluzionisti che è
costante e negli anni non trova soluzione.

La pubblicazione de L'Origine delle Specie da parte di Charles Darwin ha dato l'avvio al concetto di
evoluzione, il concetto contiene dentro di sé quella della selezione naturale; quest'ultima, a differenza della
teoria dell’evoluzione, è sempre dimostrabile. Sebbene la selezione naturale e i suoi effetti non siano idee
di Darwin, egli le ha prese in esame per dimostrare questa teoria.

DEFINIZIONE DI SPECIE
Parlando di questa teoria, si parla inevitabilmente di organismi viventi, i quali vengono raggruppati in
specie. Ma cosa vuol dire specie? Definire una specie non è così semplice, ma l'importante è che risponda a
questi requisiti:

- possibilità di classificare gli organismi in modo sistematico


- corrispondenza a gruppi discreti di individui simili tra loro
- comprensione dei modi in cui gruppi discreti di organismi siano comparsi in natura
- rappresentazione come risultati della storia evolutiva
- applicazione alla varietà più ampia possibile di organismi

BACKGROUND CULTURALE

Bisogna considerare la storia di Darwin soprattutto nella società in cui ha realizzato questa teoria.
Nell’ambiente londinese, all’epoca, diversi studiosi si ponevano quesiti: sulla vecchiaia del pianeta, ossia
quanto potesse essere antico, sulle modificazioni ambientali e sulla grande biodiversità degli esseri viventi.
Tutto questo background culturale ha influito sulle ricerche di Darwin e ha stimolato la ricerca di una
spiegazione ai tanti dilemmi.

Il primo che si occupò di dare una spiegazione sull’esistenza di organismi viventi tanto diversi tra loro, sulla
Terra, fu Linneo che classificò un elevatissimo numero di organismi. Ancor prima di Linneo si faceva
riferimento ad un concetto presentato come dogma, secondo il quale gli organismi fossero immutabili. La
considerazione che gli organismi viventi fossero dell’entità fisse e definite, quindi immutabili, si ritrova
anche in Aristotele e nei Testi Sacri, dove l’enorme biodiversità viene ricondotta all’esistenza di un creatore.

176
Inoltre, venivano accettate le estinzioni come conseguenza di catastrofi naturali. All’epoca di Darwin
c’erano due correnti di pensiero, una determinata dal pensiero religioso le cui teorie, reperibili nella Bibbia,
indicavano una natura sostanzialmente immutabile. L’altra tendenza, che si sviluppò durante l’Illuminismo
francese, definiva la natura in uno stato dinamico ed in continuo cambiamento.

Quindi c’erano due grandi correnti di pensiero:

- Natura dinamica in continuo cambiamento; sostenuta da Maupertuis, Buffon, J.O. de La


Mettrie (illuminismo francese)
- Natura immutabile; rinvenibile, per esempio, nella Bibbia e nel pensiero di Linneo

Difatti la teoria dell'evoluzione prende spunto da numerosissimi studiosi che prima di Darwin o suoi
contemporanei hanno elaborato teorie, che singolarmente alle volte erano anche sbagliate, ma da cui ha
preso spunto per confezionare la sua teoria dell'evoluzione.

Darwin si confrontò e prese spunto da diversi pensieri:

- Creazionisti, sostenitori della Teologia Naturale, che stabiliva che gli organismi viventi
fossero il prodotto della volontà di un creatore;
- gli studi di Carlo Linneo dai quali iniziò la tassonomia
- Cuvier che elaborò teoria delle catastrofi, secondo cui le catastrofi determinano
cambiamenti repentini e incrementi nella biodiversità
- James Hutton e il gradualismo che definiva un qualsiasi organismo viventi, o un qualsiasi
ambiente, derivante da piccoli cambiamenti accumulati nel tempo
- Charles Lyell e l’attualismo

All’epoca, secondo i testi biblici, si riteneva che la Terra avesse circa 6000 anni. Assecondando il
gradualismo e, dunque, considerando che i cambiamenti geologici derivino da variazioni piccole e lente (e
non da eventi improvvisi), allora la Terra sarebbe dovuta essere molto più antica. Quindi in qualche modo si
accettò che processi lenti e discreti possono sommarsi nel tempo per determinare cambiamenti di entità
notevole. Mancava, però, qualcosa di più definito e che desse spiegazioni maggiori sulla biodiversità.

THOMAS MALTHUS
Tra gli studiosi da cui prese spunto, ma che non erano suoi contemporanei, c’è Thomas Malthus.

Fu colui che pubblicò un libro in cui spiegava come le società si impoveriscono e per primo realizzò degli
studi che mettevano in relazione una popolazione rispetto all'ambiente in cui essa vive, definendo ciò che
oggi sappiamo essere la curva di crescita di una popolazione.

Quando abbiamo parlato di curva di crescita di una qualsiasi popolazione abbiamo parlato di capacità
portante. Completando il discorso la capacità contiene una parte ambientale ma contiene anche altri
numerosi fattori. Se la osserviamo solo dal punto di vista ambientale, la capacità portante è fissa e quindi
non si può modulare in base al tasso di crescita della popolazione. Se invece la si osserva con un’ottica un
po’ più ampia, contiene altri fattori che coinvolgono la popolazione e si può, in parte, modificare tale
valore.

177
Tralasciando il fatto che la capacità portante sia un valore fisso oppure un valore mobile, resta il fatto che
determini l’effetto della selezione naturale.

Allora Malthus deve essere preso in considerazione perché, in definitiva, studiando il rapporto tra la
popolazione londinese e l’ambiente in cui essi vivevano non ha fatto altro che mettere in evidenza l’effetto
ambientale ossia la selezione naturale.

J.B. LAMARCK
Il primo al quale si assegna una prima vera e propria teoria dell’evoluzione è Jean Baptiste Lamarck, da cui
deriva la corrente di pensiero chiamata lamarckismo; questa teoria fu subito contrastata e poi ben presto
abbandonata.

Con questa teoria Lamarck affermava che le porzioni del corpo che venivano maggiormente utilizzate e che
ovviamente determinano la sopravvivenza in un ambiente specifico, si sviluppavano e diventavano più
robuste, mentre quelle utilizzate meno si indebolivano. Secondo Lamarck le modifiche nel corso della vita
dell’organismo possono essere trasmesse alla progenie. Con la sua teoria Lamarck propose diversi esempi:
egli affermava che il maniscalco, mestiere molto diffuso all'epoca, sviluppava molto i propri bicipiti; allora
anche il figlio del maniscalco doveva essere dotato di bicipiti molto sviluppati.

Un altro esempio ancora più famoso è quello della giraffa. Secondo Lamarck, originariamente le giraffe
avevano un collo normale, ma siccome erano erbivori e dato che le foglie più tenere e gustose erano sulla
sommità di una pianta, allora queste giraffe primordiali allungavano il proprio collo per raggiungere le foglie
più in alto. Con l'alternarsi delle generazioni il collo si allungava sempre più. In definitiva la teoria di
Lamarck si basa sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti.

Nel discorso storico che stiamo svolgendo, inseriamo concetti che all’epoca erano ancora sconosciuti, quali
ad esempio l'ereditarietà poiché di genetica non si sapeva ancora nulla. Va ricordato che un
contemporaneo di Darwin, ossia Gregor Mendel conduceva studi che davano l’avvio alla genetica; tuttavia,
i due non si conobbero mai.

Lamarck venne soppiantato e criticato dopo che Darwin pubblicò la sua opera. Però ci fu un concetto, tra
quelli di Lamarck, che venne ripreso da Darwin: l’adattamento all’ambiente come risultato principale
dell’evoluzione, che essenzialmente introduce il concetto di selezione naturale.
Quindi con Lamarck si osserva qualcosa che oggi sappiamo essere sicuramente vero, cioè come
l’adattamento all'ambiente sia uno dei risultati principali dell'evoluzione. Sebbene abbandonato, bisogna
tenere presente il concetto di Lamarck per quanto concerne l'epigenetica e quindi oggi viene rivalutato su
alcuni aspetti.

CHARLES DARWIN
Charles darwin, come già detto, è considerato il padre dell'evoluzione.
Ma è effettivamente Charles Darwin il padre dell’evoluzione?
Se si considera padre di una teoria colui che l'ha scoperta per prima, allora, come vedremo
successivamente, in realtà Darwin non è stato il primo a definire una logica che può essere applicata a tutti
gli organismi viventi.
178
Il successo della sua pubblicazione deriva da anni di studi e dal background scientifico favorevole affinché
qualcuno potesse arrivare a elaborare teorie innovative e contrastanti rispetto a quelle presenti, fino ad
allora.
Darwin nasce nel 1809 a Shrewsbury e sviluppa, sin da piccolo, una spiccata propensione e curiosità
rispetto all’osservazione degli organismi viventi, nonostante non fosse uno studente particolarmente in
gamba. Vivendo in una famiglia benestante, grazie al supporto economico familiare, ebbe la possibilità di
coltivare le sue passioni giovanili. Di fatti, dopo la laurea, tramite conoscenze familiari, ebbe l’opportunità
di imbarcarsi sul Beagle, una nave cartografica che aveva l’obiettivo di percorrere tutti i territori dell’impero
britannico e ridisegnarne i confini. Durante le diverse tappe del viaggio ai fini delle valutazioni
cartografiche, Darwin aveva la possibilità di studiare ambienti diversi da quello inglese a cui era abituato.
Cominciarono, quindi, le sue osservazioni.
Partito nel 1831 e tornato nel 1836, in seguito a questa esperienza, Darwin acquisì notorietà nell’ambiente
londinese. Gli studiosi, a quel tempo, erano riuniti in società scientifiche, una delle più celebri era la
“Società Scientifica di Linneo”, dove i membri erano Darwin e gli studiosi precedentemente citati. Fu
proprio grazie al supporto dei suoi compagni che egli pubblicò l’Origine delle Specie.

Dopo anni di studi e riflessioni (non era infatti estremamente convinto dei risultati delle sue osservazioni), il
libro venne pubblicato da Darwin solo nel 1859. Ciò che accelerò la pubblicazione del suo lavoro fu il fatto
che Alfred Wallace, dopo un viaggio in Indonesia, elaborò prima di Darwin la teoria dell’evoluzione delle
specie, ripercorrendo quelli che erano gli stessi principi di Darwin.

Volendo essere corretti, dunque, bisognerebbe considerare come padre dell’evoluzione proprio Wallace, il
quale aveva elaborato per primo la teoria della selezione naturale che definisce il rapporto tra gli organismi
e l’ambiente in cui vivono e giustifica la variabilità delle specie viventi con gli stessi principi definiti da
Darwin.

Quest’ultimo, però, essendo molto conosciuto, godeva di una certa popolarità che intimoriva un po’
Wallace. Nonostante ciò, egli preparò il manoscritto e lo inviò a Darwin, il quale vide scritto tutto quello che
aveva elaborato durante anni di studi e, preso dallo sconforto, pensò di abbandonare l’idea di pubblicare il
risultato dei suoi studi. Furono i suoi colleghi scienziati della Società di Linneo a spingerlo a pubblicare
rapidamente il suo lavoro in modo da anticipare Wallace. L’atteggiamento che ebbe nei confronti di
Wallace ad oggi sarebbe considerato scorretto e, per risarcire Wallace, siccome era consapevole di non
aver agito nella maniera più corretta, gli fornì un vitalizio per tutta la vita.

TEORIA DI DARWIN ED ECOLOGIA


L’origine delle specie definisce:

- l’esistenza dell’evoluzione: la teoria dell’evoluzione come concetto è contenuta in questo


teso;
- la selezione naturale come meccanismo evolutivo.

In questi due concetti è contenuta la grandezza delle scoperte fatte dai due scienziati: viene utilizzato un
effetto dell’ambiente per spiegare l’enorme biodiversità che vive in questo pianeta, accettando l’esistenza
dell’evoluzione.

179
L’evoluzione è quindi un prodotto dell’azione della selezione naturale. L’evoluzione può essere messa in
discussione mentre la selezione naturale è un concetto valido che può essere sempre dimostrato. La
selezione naturale non è un concetto espresso da Darwin, ma lo riprese da studiosi precedenti.

Gli antievoluzionisti possono essere creazionisti, cioè coloro che non accettano l’evoluzione ma fanno
riferimento a qualcuno poiché altrimenti non si saprebbe a chi attribuire la creazione di tutti gli esseri
viventi del pianeta, ma non necessariamente. Questi concetti derivano dalle osservazioni di Darwin che
richiamano l’ecologia.

LE OSSERVAZIONI DI DARWIN

OSSERVAZIONE I

“Tutte le specie possiedono una fecondità potenziale talmente elevata che le dimensioni numeriche delle
loro popolazioni aumenterebbero in maniera esponenziale se tutti gli individui nati si riproducessero a loro
volta con successo.”

Si tratta di un’osservazione fondamentale in quanto con essa Darwin ha concettualizzato il potenziale


biotico.

OSSERVAZIONE II
Durante i suoi viaggi, però, osservò che “le dimensioni numeriche tendono a essere stabili, ad eccezione
delle fluttuazioni stagionali.”

Ciò significa che tutte le specie hanno, potenzialmente, una possibilità di riprodursi che farebbe aumentare
in maniera esponenziale il numero di individui, tuttavia questo in realtà non accade.

OSSERVAZIONE III
“Le risorse ambientali sono limitate.”

È, dunque, innegabile il legame delle tre osservazioni con l’ecologia. Le specie non si esprimono alla loro
massima potenzialità perché se la riproduzione di un numero di individui fosse maggiore rispetto alle
possibilità dell’ambiente, si assisterebbe all’insorgenza di conflitti per la sopravvivenza anche tra individui
della stessa popolazione, per cui, per ogni generazione, solo una parte riuscirebbe a sopravvivere.

Per questo motivo nonostante le specie possono esprimersi con potenzialità biotiche esponenziali di
riproduzione, queste sono limitate dalle risorse dell’ambiente. Darwin riuscì quindi a spiegare perché il
numero degli individui delle specie fosse costante. Inoltre, fu osservato che:

180
- Gli individui di una popolazione possiedono caratteristiche estremamente varie; non
esistono due individui esattamente uguali.
- Gran parte di questa variabilità è ereditabile.

LE CONCLUSIONI DI DARWIN
In virtù di questa variabilità fece una prima conclusione, ovvero che “La sopravvivenza non è un evento
casuale, bensì dipende dalle caratteristiche costituzionali (oggi diremmo costituzione genetica) di ogni
individuo. Gli individui che hanno ereditato caratteri in grado di consentire un adattamento migliore al
proprio ambiente, infatti, avranno una maggiore possibilità di riprodursi e lasciare un numero elevato di
figli rispetto ad altri individui meno adatti all’ambiente in cui vivono.”

“Questa capacità di alcuni individui di sopravvivere e riprodursi porta a un graduale cambiamento della
popolazione stessa, con l’accumularsi nel tempo delle caratteristiche favorevoli”.

Alcuni individui, essendo dotati di strumenti che li rendono più adatti all’ambiente in cui vivono, hanno più
possibilità di dar luogo a una nuova generazione, a cui trasferiranno i caratteri favorevoli per la
sopravvivenza. Di conseguenza, una popolazione viene selezionata rispetto a un carattere che consente
all’individuo che li possiede di dar luogo a una nuova generazione con più facilità rispetto a individui che
non lo presentano. In definitiva, quel carattere si accumula, di generazione in generazione, come fenotipo,
portando ad un cambiamento delle caratteristiche di una popolazione. Questo concetto vale se l’ambiente
non cambia, perché se cambia l’ambiente saranno favorevoli altre caratteristiche.

In definitiva Darwin concluse che:

- La selezione naturale è rappresentata dal successo riproduttivo differenziale.


- La selezione naturale agisce attraverso l’interazione tra l’ambiente e la variabilità innata dei
singoli individui che costituiscono una popolazione.
- Il prodotto della selezione naturale è l’adattamento di popolazioni di organismi al proprio
ambiente. Questo concetto è fondamentale in quanto la selezione naturale è lo strumento
del meccanismo evolutivo.

Dall’analisi delle scoperte di Darwin si evince inoltre che:

- Le diverse forme viventi si sono originate a partire da una forma ancestrale, attraverso
discendenti che presentavano modifiche rispetto all’antenato stesso.
- Il meccanismo responsabile dell’instaurarsi si tali cambiamenti è rappresentato dalla
selezione naturale che ha agito ininterrottamente per un periodo di tempo lunghissimo. Ed
è questa che determina il presentarsi delle caratteristiche di ogni specie.

TEORIA DI DARWIN E GENETICA


Si può fare un esempio per capire meglio ciò che intende Darwin: somministrando un insetticida a degli
insetti in un raccolto, molti muoiono, ma alcuni di questi hanno un gene che riesce a determinare una
resistenza all’insetticida. Da questi pochi sopravvissuti si originano delle progenie che conservano questo
gene resistente all’insetticida. L’insetticida, nell’esempio, rappresenta una modificazione dell’ambiente nel

181
quale vivono questi insetti; è necessario che qualcuno abbia un gene, evidentemente mutato, che gli
consenta di sopravvivere e di conseguenza dare origine ad una progenie che conserva quel carattere
resistente all’insetticida.

Darwin, dunque, ritiene che i caratteri soggetti a selezione naturale siano quelli che variano in modo
continuo nella popolazione stessa. Bisogna precisare che Darwin ha condotto i suoi studi pur non sapendo
nulla di genetica.

Tutta la terminologia e i concetti che appartengono alla genetica non erano noti a Darwin, il quale aveva
due limiti:

- studiare individui adulti;


- studiare il fenotipo, non avendo conoscenza del genotipo.

Un altro studioso, tuttavia, aveva cominciato gli studi sulla genetica: Gregor Mendel. Sebbene Darwin e
Mendel non si incontrarono mai, il concetto della teoria dell’evoluzione, nel tempo, venne arricchito da
altre discipline, tra queste sicuramente vi è la genetica.

Le scoperte di Darwin si sono aggiunte a quelle di Mendel dando luogo ad un nuovo concetto, il
neodarwinismo, anche definito come Sintesi Moderna. Questa considera come bersaglio della selezione
naturale il gene, e non l’individuo come riteneva Darwin, definendolo unità fondamentale dell’ereditarietà.
La Sintesi Moderna si basa sulla teoria dell’evoluzione di Darwin, sulla teoria dell’ereditarietà di Mendel,
sulla genetica delle popolazioni e sulla paleontologia.

ISOLAMENTO RIPRODUTTIVO

Ritorna, dunque, il concetto della capacità portante. Essa, infatti, incide su una popolazione attraverso la
selezione naturale. Le specie, dal punto di vista riproduttivo, sono isolate: individui di specie diverse non
possono accoppiarsi e dare origine a una nuova generazione, la riproduzione è garantita solo tra individui
della stessa specie. Questo avviene perché vi sono delle barriere riproduttive, cioè fattori di qualsiasi tipo
che impediscono a due specie diverse di incrociarsi per produrre una progenie vitale e fertile e
contribuiscono all’isolamento riproduttivo.

In realtà, un incrocio tra diverse specie può avvenire, ma dovrebbe dare origine a un individuo fertile in
grado a sua volta di procreare, cosa che in natura non accade a causa delle barriere riproduttive. Dal punto
di vista temporale, in base a quando intervengono, si distinguono in due tipi: prezigotiche o postzigotiche.

BARRIERE PREZIGOTICHE
Le barriere riproduttive prezigotiche intervengono prima della formazione dello zigote, cioè prima
dell’incontro tra spermatozoo e cellula uovo) e sono:

- l’isolamento da habitat: i singoli individui hanno habitat diversi e non si incontrano. Se


superano la prima barriera, si imbattono nella seconda.

182
- l’isolamento comportamentale: tra maschi e femmine delle due specie diverse non c'è
attrazione sessuale per motivi comportamentali. Se questa barriera viene superata, si passa
a quella successiva.
- l’isolamento temporale: tempi di fecondazione/fertilità diversi e incompatibili. Se questa
barriera viene superata si passa alla successiva.
- l’isolamento anatomico: ad esempio, sarebbe difficile incrociare un chihuahua e un
elefante; se questa barriera viene superata, si ha l’accoppiamento.
- l’isolamento gametico: ci deve essere un riconoscimento enzimatico tra i gameti delle due
specie.

Superate queste barriere si ha la fecondazione e si forma lo zigote.

BARRIERE POSTZIGOTICHE
Si ha quindi la formazione di un nuovo individuo, un ibrido, che potrebbe, tuttavia, essere sterile. L’unione
tra individui di specie diverse ha senso solo se si ha la formazione di ibridi che raggiungono la maturità
sessuale e sono fertili, in modo da poter garantire una nuova generazione. Tuttavia, gli ibridi sono sterili,
perciò si ha una nuova barriera postzigotica verso la formazione della nuova generazione di una nuova
specie, oppure degenerano rapidamente dopo la nascita e non raggiungono la maturità sessuale. Tra le
barriere postzigotiche, abbiamo:

- Ridotta vitalità degli ibridi: gli zigoti ibridi non si sviluppano oppure gli individui non
raggiungono la maturità sessuale (l’individuo deve sopravvivere);
- Ridotta fertilità degli ibridi: gli ibridi non producono gameti funzionanti;
- Degenerazione degli ibridi: la progenie degli ibridi è poco vitale o sterile.

Se viene superata l’ultima barriera, è possibile ottenere una progenie fertile.

Le barriere postzigotiche sono molto più presenti in natura e impediscono la formazione di una nuova
specie. L’incrocio tra un cavallo e un asino, ad esempio, supera le barriere prezigotiche ma il mulo è sterile,
quindi non supera le barriere postzigotiche.

POOL GENICO

Consideriamo il pool genico di una popolazione, che comprende tutti gli alleli relativi a tutti i loci genici di
tutti gli individui che compongono quella popolazione. Ricordiamo che:

- Locus genico = punto esatto in cui si trova il gene


- Alleli = forme alternative dello stesso gene
- Omozigosi = due alleli identici
- Eterozigosi = due alleli differenti

Quando tutti gli individui di una popolazione sono omozigoti per un certo allele, questo vien definito allele
fisso nel pool genico di quella popolazione. Se vi sono due o più alleli, ciascuno sarà caratterizzato da una
certa frequenza relativa (percentuale) nel pool genico.

183
LEGGE DI HARDY-WEINBERG
Possiamo quindi calcolare la frequenza allelica e la frequenza genotipica:

𝑁𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑝𝑖𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑜 𝑠𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑒𝑙𝑒 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒


- Frequenza allelica =
𝑁𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑙𝑙𝑒𝑙𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑞𝑢𝑒𝑙 𝑔𝑒𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒

𝑁𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑣𝑖𝑑𝑢𝑖 𝑐𝑜𝑛 𝑢𝑛 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖𝑐𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑔𝑒𝑛𝑜𝑡𝑖𝑝𝑜 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒


- Frequenza genotipica =
𝑁𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑣𝑖𝑑𝑢𝑖 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑜𝑝𝑜𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒

Il calcolo di queste frequenze, rispetto a due alleli, è il seguente:

- p= frequenza allele A
- q= frequenza allele a
- p+q=1
- p=1–q
- q=1–p
- (𝑝 + 𝑞)2 = 1
- 𝐴𝐴 = 𝑝 𝑥 𝑝 = 𝑝 2
- 𝐴𝑎 = (𝑝𝑥𝑞) + (𝑝𝑥𝑞) = 2𝑝𝑞
- 𝑎𝑎 = 𝑞 𝑥 𝑞 = 𝑞 2
- 𝑝 2 + 2𝑝𝑞 + 𝑞 2 = 1

Ad esempio, consideriamo 500 piante che hanno:

- 20 fiori bianchi: genotipo rr


- 480 fiori rossi: genotipo 320 RR e 160 Rr

Considerando 500 piante, abbiamo 1000 copie di geni per il colore dei fiori, di cui:

- R = 800 (640 + 160) 800/1000 80%


- r= 200 (40 + 160) 200/1000 20%

La frequenza allelica può essere studiata nell’alternarsi delle generazioni.

Le frequenze alleliche e dei genotipi, per un certo carattere, nel pool genico di una popolazione rimangono
costanti nel tempo di generazione in generazione, fino a quando non intervengono agenti esterni diversi
dalla segregazione mendeliana e dalla ricombinazione degli alleli. Questa legge viene definita legge di
Hardy-Weinberg.

Questa legge ci dice che, se facciamo un calcolo delle frequenze alleliche di una popolazione nelle diverse
popolazioni e questo calcolo è diverso da 1, significa che questa popolazione è in evoluzione. Se invece la
legge è verificata, la popolazione non è in evoluzione. Affinché questa legge sia validata, ci devono essere
una serie di requisiti:

- dimensioni elevate della popolazione


- assenza di migrazioni

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- assenza di mutazioni
- accoppiamenti casuali
- assenza di selezione naturale

solo le mutazioni possono modificare la legge di Hardy-Weinberg.

LA MUTAZIONI
Per mutazioni intendiamo:

- l’alterazione di un gene o di un cromosoma (modifica della sequenza nucleotidica),


- il prodotto di questa alterazione.

L’ambiente interviene sugli individui di una specie sotto forma di selezione naturale, che rappresenta lo
strumento dell’evoluzione. Il vantaggio di un individuo o di una popolazione rispetto ad un'altra si esprime
in termini di fitness riproduttiva, ovvero di capacità di portare avanti una nuova generazione. Le mutazioni
incidono proprio sulla fitness riproduttiva.

Se una mutazione è vantaggiosa, viene trasferita di generazione in generazione: il carattere da essa


determinato diventa sempre più predominante e determina una maggiore fitness riproduttiva per gli
individui che lo possiedono.

Le mutazioni deleterie, al contrario, vengono solitamente eliminate. Tuttavia, c’è una gradualità dell’effetto
delle mutazioni, infatti una mutazione svantaggiosa non fa arrivare l’individuo alla maturità sessuale o ne
altera la fitness riproduttiva; perciò, rimane confinata in quell’individuo e si elimina con la sua morte. Le
mutazioni leggermente deleterie vengono invece trasferite e si accumulano nella popolazione, portando ad
un meccanismo evolutivo che modifica le frequenze alleliche. Ovviamente questi sono concetti puramente
teorici. Quindi possiamo riassumere che le mutazioni sulla fitness possono essere:

- vantaggiose
- svantaggiose
• deleterie (vengono eliminate)
• leggermente deleterie (si accumulano nella popolazione)

185
L’EPIGENETICA
Quando parliamo di mutazioni in termini evolutivi, intendiamo un cambiamento della sequenza nucleotidica di un
gene che determina un certo fenotipo. Dunque, una mutazione comporta l’alterazione di quel fenotipo.

L’epigenetica riguarda le attività dei geni ma, mentre l’evoluzione fa riferimento alle sequenze di basi presenti in un
gene, l’epigenetica punta l’attenzione sul prodotto dei geni piuttosto che sulle loro sequenze.

Molte problematiche, in relazione alle patologie, che avevano una base genetica si stanno piano piano spostando sul
concetto di epigenetica. Inoltre, l’epigenetica rivaluta la teoria dell’evoluzione di Lamarck.

Il DNA per essere contenuto all’interno del nucleo della cellula viene associato a delle proteine basiche, gli istoni, che
consentono di “impacchettarlo”. Quando un DNA viene impacchettato, il meccanismo della trascrizione viene
influenzato, poiché l’RNA polimerasi non può accedere al promotore e procedere alla trascrizione. L’epigenetica
quindi, analizzando la funzionalità degli istoni, rappresenta un meccanismo di regolazione dell’espressione genetica.

I meccanismi di regolazione dell’espressione genetica possono essere molteplici. I geni si esprimono con efficienza
differente in base ai tessuti di appartenenza delle cellule, ma il genoma è uguale in tutte le cellule di tutto l’organismo.
I geni possono:

- funzionare o non funzionare


- esprimersi in modo differente in termini quantitativi: questo si determina già a livello di trascrizione
quindi si può produrre più RNA messaggero o meno RNA messaggero, determinando una
produzione di proteine in quantità diverse.

L’assetto che il DNA ha con gli istoni determina la possibilità d’ingresso dell’RNA polimerasi e quindi influenza
l’efficienza di trascrizione. In base a rapporto tra DNA e istoni possiamo avere:

- eterocromatina: è il DNA strettamente legato agli istoni, molto compatto,


- eucromatina: è il DNA che ha perso parzialmente il rapporto con gli istoni, è quasi despiralizzato e
consente la trascrizione.

L’epigenetica è quindi una branca della biologia che studia l’interazione casuale tra i geni e i loro prodotti, i quai
originano il fenotipo. La definizione di questa disciplina si è poi evoluta, infatti oggi l’epigenetica è lo studio dei
cambiamenti nella funzione genica che sono mitoticamente e meioticamente ereditabili e che non coinvolgono un
cambiamento nella sequenza genica.

L’epigenetica punta l’attenzione sul prodotto dei geni, determinato da modifiche chimiche del DNA e delle regioni che
circondano il DNA (istoni). Queste modifiche chimiche non coinvolgono la sequenza nucleotidica. Esse regolano
l’accesso dei fattori di trascrizione ai loro siti di legame sul DNA perciò regolano in modo diretto lo stato di attivazione
funzionale dei geni. Queste modifiche epigenetiche sono fortemente sensibili all’esperienza ambientale che l’individuo
ha. L’esperienza ambientale modula i livelli e la natura dei segnali epigenetici, quindi essi sono considerati
fondamentali nel mediare la capacità dell’ambiente di regolare il genoma: l’ambiente è capace di modulare
l’espressività di un gene attraverso l’epigenetica.

MECCANISMI EPIGENETICI
I meccanismi epigenetici costituiscono tutte le modifiche che il materiale genetico può subire durante la vita. Le
modifiche epigenetiche determinano il rimodellamento della cromatina, cambiando il livello di avvolgimento del DNA,

186
e quindi una maggiore o minore trascrizione di certe zone del genoma. Sono cambiamenti ereditari del genoma che
non dipendono dalla sequenza di nucleotidi.

I meccanismi che intervengono nello sviluppo embrionale, inoltre, si ripercuotono anche sull’adulto. Essi determinano
una sorta di signatura dell’individuo già a livello dello sviluppo embrionale, ma sono tutte delle modificazioni
reversibili. Quindi sia naturalmente che a livello artificiale si può intervenire per cambiare la signatura epigenetica. Le
principali modificazioni epigenetiche sono:

- modificazioni covalenti della citosina nel DNA


- varianti istoniche
- modificazioni post-traduzionali degli istoni
- complessi di rimodellamento della cromatina ATP dipendenti
- siRNA
- miRNA

IL MONDO A RNA

Gli RNA che vengono trascritti possono essere:

- mRNA codificanti (corrispondono al 3% del genoma),


- ncRNA non codificanti: Fino a poco fa, gli RNA non codificanti non venivano presi in considerazione e
i loro geni venivano considerati DNA spazzatura. Oggi sappiamo che non è così, in quanto questi geni
trascrivono RNA che regolano l’espressione di altri geni.

I non codificanti possono essere a loro volta:

- ncRNA costituitivi, tra cui


• tRNA
• rRNA
- ncRNA con funzione regolatoria, molto importanti per l’epigenetica.

Gli RNA non codifcanti regolatori possono essere distinti in:

- lncRNA: a lunga catena, maggiori di 200 nucleotidi


- Small ncRNA: a catena corta, minori di 200 nucleotidi. Tra questi, ricordiamo in particolare i
• microRNA
• siRNA

LNCRNA
Gli LncRNA:

- Sono formati da più di 200 nucleotidi


- Sono trascritti dall’RNA polimerasi II
- Non contengono la regione codificante ma hanno il capping, sono poliadenilati
- Sono presenti ad un livello più basso degli mRNA
- Le sequenze nucleotidiche dei LncRNA non sono conservate tra le specie
- Le sequenze nucleotidiche del promotore di LncRNA sono molto ben conservate
- sono tessuto specifici

187
I lncRNA sono un prodotto della trascrizione e sono classificati sulla base della posizione del segmento di DNA da cui
derivano. Li dividiamo in:

- senso: il lncRNA coincide con il filamento senso di un mRNA, l’informazione dell’lncRNA si


sovrappone all’informazione che serve per la sintesi di un mRNA.
- antisenso: il lncRNA coincide con il filamento antisenso di un mRNA
- intronici: il lncRNA deriva da un introne di un mRNA
- intergenici: il lncRNA è lontano da qualsiasi sequenza codificante e deriva da una porzione che si
trova tra due geni
- bidirezionali o divergenti: il lncRNA è trascritto in senso opposto a quello di un mRNA (richiama il
lncRNA antisenso) e la parte che determina la sintesi dell’lncRNA è lontana e non complementare
all’mRNA. LncRNA e mRNA sono distanziati.
- enhancer: il lncRNA deriva da una regione di DNA con funzione di enhancer.

La sintesi di questi RNA avviene nel nucleo, ma essi si trovano localizzati sia nel nucleo che nel citoplasma. Sulla base
della loro localizzazione cellulare, i lncRNA sono suddivisi in nucleari e citosolici. Alcuni lncRNA sono stati trovati in
entrambi i compartimenti.

Questi RNA non codificanti non interferiscono direttamente sul gene, ma interferiscono sugli mRNA da esso prodotti.
Inoltre, possono interferire anche rispetto al reclutamento di proteine che modulano la trascrizione (non la modulano
direttamente), cioè influenzano il compattamento del DNA e la trasformazione di eterocromatina in eucromatina. Il
risultato dell’attività di questi RNA non codificanti è quindi il “rilassamento” del DNA e la trascrizione. Ciò è possibile
attraverso la metilazione degli istoni, che riduce il compattamento del DNA e consente la trascrizione.

Nel nucleo:

1. I lncRNA reclutano e guidano gli enzimi coinvolti nelle modifiche epigenetiche degli istoni in un sito genico
specifico. La modulazione dello stato della cromatina dovuto all’azione di questi enzimi porta all’attivazione o
all’inibizione della trascrizione di quel determinato gene.
2. I lncRNA si legano a proteine che sono coinvolte nella trascrizione. Il legame dei lncRNA può:
• Attivare la trascrizione di un determinato gene: sono reclutate proteine che permettono il legame
dei fattori trascrizionali al promotore del gene
• Inibire la trascrizione di un determinato gene
3. I lncRNA si legano ai fattori trascrizionali bloccando il loro legame al promotore del gene da trascrivere.

Nel citoplasma, gli lncRNA:

- modificano la stabilità dell’mRNA,


- regolano la traduzione dell’mRNA
- interagiscono con i miRNA e cooperano con loro nella regolazione post-trascrizionale.

Gli lncRNA, più che avere un effetto specifico, modulano l’espressione dei geni.

La funzione della maggior parte dei lncRNA scoperti non è nota, mentre la funzione di altri è molto studiata e ben
conosciuta. I lncRNA più noti sono:

- XIST: lncRNA coinvolto nell’inattivazione di un cromosoma X


- HOTAIR: lncRNA antisenso al gene HOX, i geni HOX producono delle proteine che regolano l’attività
di altri geni durante lo sviluppo embrionale
- TERRA: lncRNA contenente regioni ripetute telomeriche

Nel 1998 viene scoperto un meccanismo naturale di regolazione genica post-trascrizionale: venne identificata
l’interferenza a RNA.
188
INTERFERENZE RNA
Ci sono 2 tipi di interference RNA:

- miRNA (microRNA):
• prodotti endogeni
• regolano l’espressione genica inducendo la degradazione dell’mRNA o inibendo la
traduzione
- siRNA (small interfering RNA):
• prodotti endogeni o estranei alla cellula
• a differenza dei miRNA, agiscono su un solo RNA bersaglio
• difendono il genoma di appartenenza dall’attività di elementi genetici estranei

miRNA e siRNA sono porzioni di RNA a doppio filamento che si lega alla proteina argonauta. Questa indirizza il
complesso verso l’interazione con un mRNA, determinando:

- il taglio dell’RNA bersaglio e quindi la distruzione dell’mRNA


- una repressione della traduzione dell’mRNA e la successiva distruzione dell’mRNA bersaglio
- la formazione di eterocromatina (con la metilazione) a livello del DNA rispetto al gene da cui è
trascritto lo specifico mRNA bersaglio, inibendone la trascrizione.

BIOGENESI DEI MIRNA


I miRNA vengono biosintetizzati nel nucleo e trasferiti nel citoplasma, dove subiscono un ulteriore processamento e
dove vengono conservati per svolgere la loro funzione. La biosintesi può essere:

- canonica
- non canonica

Nella biosintesi canonica, il gene attraversa una serie di fasi che costituiscono il processo di maturazione. Il gene di
partenza, attaccato dall’RNA polimerasi II, dà origine ad un pri-miRNA (miRNA priordiale). Poiché la trascrizione
coinvolge un gruppo di geni, si forma un complesso di 3 miRNA che hanno:

- il cappuccio al 5’
- la coda poli-A al 3’.

Dal pri-miRNA si passa al pre-miRNA, infatti vengono eliminate le estremità dando origine a delle strutture a forcina. I
pre-miRNA hanno 2 nucleotidi a singolo filamento che sporgono all’estremità 3’. Il taglio dei pri-miRNA è determinato
da un complesso microprocessore costituito da:

- DGCR8, una proteina che lega l’RNA a doppio filamento, che riconosce e si lega alla struttura a
forcina del pri-miRNA e che recluta la Drosha
- Drosha, una RNAsi che taglia il pri-miRNA formando un pre-miRNA costituito da 60-70 nucleotidi.
Alcuni pri-miRNA necessitano di proteine accessorie per avere un taglio specifico.

Questo complesso taglia le estremità del pri-miRNA e dà origine al pre-miRNA.

189
La biogenesi non canonica riguarda la formazione di miRNA che derivano da sequenze introniche. Se si forma un
miRNA che ricalca esattamente l’informazione presente in tutta la sequenza intronica, si parla di mirtroni, che sono
dei miRNA che contengono tutta l’informazione intronica. Questi possono essere anche:

- Più spostati verso il 5’, derivando da sequenze più vicine a questa estremità
- Più spostati verso il 3’, derivando da sequenze più vicine a questa estremità

I pre-miRNA si formano mediante splicing e grazie all’intervento dell’enzima deramificante del cappio (Ldbr).

Entrambe le vie portano alla formazione di pre-miRNA che vengono trasportati nel citoplasma attraverso la proteina
esportina e i pori nucleari. L’esportina è legata alla Ran. La Ran è una piccola proteina G monomerica (si chiama G
perché si può legare al GTP) che può trovarsi in due forme:

- RanGTP: forma attiva


- RanGDP: forma inattiva

Il pre-miRNA viene quindi trasportato nel citoplasma.

Una volta che si trova nel citoplasma, intervengono diversi enzimi e proteine che modificano ulteriormente il pre-
miRNA.

La ribonucleasi Dicer taglia il pre-miRNA formando un miRNA a doppio filamento sporgente al 3’ e costituito da circa
20pb. Dicer agisce in associazione con altre proteine che sono importanti nella formazione del successivo complesso
RISC. Infatti, il miRNA si lega alla proteina argonauta, che poi si lega all’enzima RISC: si forma quindi il complesso
proteico pre-RISC (RNA-induced silencing complex).

Siccome abbiamo il doppio filamento di miRNA, viene eliminato il “filamento passeggero”, quindi si forma un
complesso RISC con il singolo filamento guida del miRNA, che viene indirizzato verso un mRNA bersaglio.

Ci deve essere una complementarità di base tra il miRNA e il mRNA bersaglio.

Il meccanismo di inibizione dell’espressione genica viene definito dal grado di complementarità tra il miRNA e l’mRNA
bersaglio.

La complementarità tra mRNA e miRNA può essere:

- Imperfetta: si ha il blocco della traduzione.


- Perfetta:, si ha la degradazione dell’mRNA.

Ci sono cellule che hanno il compito di produrre e secernere miRNA, che vengono inglobati in delle vescicole. Esse
confluiscono nel torrente circolatorio e si parla di miRNA circolanti. I miRNA hanno l’obiettivo di raggiungere tutte le
cellule ed essere inglobate da quelle che possiedono recettori specifici, interagendo con il loro DNA. I miRNA possono
rappresentare dei biomarker di specifiche patologie. I miRNA hanno una funzione di regolazione che interviene nel
differenziamento e nell’attività di geni importanti nello sviluppo embrionale, tuttavia sono coinvolti anche in
numerose patologie, tra cui:

- Malattie cardiache
- Malattie del sistema nervoso
- Diabete
- Danni d’organo
- neoplasie

I miRNA regolano l’espressione genica di cellule diverse da quelle che li hanno prodotti!

190
La proteina argonauta

Sono proteine in grado di legare i frammenti di small interfering RNA (in particolare il filamento detto guida/antisenso)
e di svolgere attività endonucleasica contro gli mRNA complementari allo stesso filamento guida.

La proteina argonauta presenta domini diversi con funzioni specifiche (non ha subunità):

- Il dominio PAZ è coinvolto nel legame all’estremità 3’ OH dell’RNA


- Il dominio PIWI consiste di un canale carico positivamente, che gli conferisce le caratteristiche di
RNA-binding protein, dal momento che l’acido ribonucleico è carico negativamente
- Il dominio MID riconosce la regione 5’UTR del filamento guida.

LA BIOGENESI DEI SIRNA


La caratteristica principale del siRNA è che ha come riferimento uno specifico mRNA.

Le molecole di siRNA si producono a partire da lunghe molecole di RNA prodotte da elementi genetici normalmente
silenti o estranei alla cellula, quali trasposoni, virus o transgeni. Rappresentano un sistema di difesa contro l’invasione
di elementi genetici estranei alla cellula. Anche i siRNA inizialmente subiscono processi di maturazione quali capping e
poli-adenilazione, e subiscono tagli dall’enzima Dicer che conferiscono loro una conformazione a forcina.
Interagiscono anch’esse con proteine argonaute nel complesso con l’enzima RISC, che li indirizzano verso un mRNA
bersaglio (complementare) da degradare. La complementarità è completa e porta alla degradazione dell’mRNA.

La complementarità può essere:

- estesa, porta ad una degradazione rapida dell’mRNA


- meno estesa, porta ad una repressione della traduzione con conseguente degradazione del mRNA.

Dobbiamo ricordarci che un mRNA, se presente nel citoplasma, deve essere tradotto ma se il gene è spento l’mRNA
deve essere degradato da enzimi che lo attaccano da entrambe le estremità. I miRNA e i siRNA sono ampliamente
coinvolti in questo turnover.

GLI ISTONI

Gli istoni sono proteine basiche e sono costituiti per circa il 20% da amminoacidi carichi positivamente come la lisina e
l’arginina.

Il complesso istonico è il rocchetto attorno al quale si avvolge il DNA. Quando è funzionale si parla di ottamero
istonico. La funzione degli istoni è quella di compattare il DNA nel nucleo. Dal punto di vista evolutivo, gli istoni sono le
proteine più conservate e i loro geni vengono utilizzati nelle indagini filogenetiche (specialmente l’istone H4).

Gli istoni sono proteine, quindi hanno estremità carbosso terminali e azoto terminali. Le estremità azoto terminali
sono soggette a diversi tipi di modificazioni post-traduzionali. Alcune modifiche servono per la condensazione e
replicazione del cromosoma, mentre altre servono per la riparazione e la trascrizione.

Le eventuali modifiche che accadono sugli istoni coinvolgono anche il DNA (e viceversa, poiché c’è una forte
interazione tra istoni e DNA corrispondente). Gli enzimi che modificano gli istoni e gli enzimi che metilano il DNA
interagiscono tra loro. L’acetilazione degli istoni consente l’accesso al DNA da parte delle demetilasi responsabili della

191
rimozione dei gruppi metilici, così come la metilazione aumenta localmente i livelli di affinità per la deacetilasi. Le
modificazioni epigenetiche sono quindi modificazioni ereditabili che non alterano la sequenza nucleotidica dei geni,
ma ne alterano l’attività, e possono consistere in meccanismi di:

- Acetilazione – deacetilazione degli istoni della cromatina


- Metilazione – demetilazione del DNA

Queste modificazioni, se consideriamo lo sviluppo embrionale, rappresentano una sorte di imprinting che determina
le condizioni dell’adulto e che è ereditabile.

La metilazione del DNA riguarda la citosina e si realizza attraverso la DNA metil transferasi (DNMT). Questo enzima ha
bisogno di cofattori (acido folico, vitamina b12 adrenosil metionina) e di un donatore del gruppo metile (metionina,
colina). La DNMT transferasi è in grado di indirizzare una metilazione:

- sia se un’emielica ha una citosina metilata, e quindi bisogna metilare l’altra emielica,
- sia se occorre una metilazione de novo.

La citosina che viene metilata è quella appartenente alle isole CpG (la P sta per il fosfato che unisce le due basi). La
metilazione delle isole CpG (aree che precedono il promotore, contenenti C e G) determina il silenziamento del gene.
Non si tratta di un vero e proprio interruttore, c’è in realtà una modulazione dell’attività del gene, quindi possiamo
avere livelli più o meno intensi di metilazione. La metilazione può anche avvenire sulle code amminoacidiche
istoniche.

L’acetilazione, ossia l’aggiunta di un gruppo acetile a livello di specifiche lisine delle code istoniche, è operata dalle
acetiltransferasi istoniche (HT) e riduce la carica degli istoni, rilassando la cromatina e facilitando l’accesso dei fattori
di trascrizione.

La reazione inversa, la deacetilazione, viene gestita dalla deacetilasi istoniche(HDAC) che, rimuovendo i gruppi acetile,
riducono localmente i livelli di trascrizione del gene poiché il DNA torna a compattarsi.

Altre modificazioni epigenetiche, oltre alla metilazione (che riguarda il DNA e le code istoniche corrispondenti con cui
il DNA interagisce) e l’acetilazione, sono la fosforilazione e l’ubiquitinazione.

Il termine cromatina intende il DNA associato alle proteine nucleari, che possono essere:

- istoni
- proteine non istoniche

La maggior parte delle proteine associate al DNA sono istoniche basiche, mentre le proteine non istoniche hanno un
punto isolettrico più basso di quelle istoniche, sono più acide.

Le proteine nucleari, essendo proteine, sono composte da amminoacidi e la natura di questi ultimi stabilisce nel
complesso l’acidità o basicità della proteina. Per esempio, le proteine istoniche conterranno principalmente
amminoacidi basici: nell’amminoacido H1 vi è una maggior componente di lisina, per H2a e H2b anch’essi ricchi di
lisina, mentre l’H3 e l’H4 contengono prevalentemente arginina.

PROTEINE ISTONICHE
Ogni istone presenta un corpo globulare ed, alla sua estremità amminoterminale, una coda flessibile. La somiglianza
tra loro suggerisce una possibile derivazione da un antenato comune per duplicazione genica e successiva divergenza.

192
La coda amminoterminale è la parte più interessante per l’epigenetica. La coda sporge dal nucleosoma ed è un target
di modificazioni covalenti, importanti per la struttura della cromatina. Le modifiche che avvengono sulle code
istoniche comprendono l’addizione o la rimozione di composti chimici dalle catene laterali di specifici residui
amminoacidici.

PROTEINE NON ISTONICHE


Anche le proteine non istoniche sono coinvolte nella compattazione del DNA e nella regolazione dei geni. Tra queste la
proteina non istonica HMG (High Mobilty Group) si lega al solco maggiore del DNA curvandolo, stimolando così la
compattazione della cromatina.

Le proteine non istoniche presentano un dominio amminoacidico detto chromo domain implicato nella regolazione
della struttura del cromosoma e delle regioni eterocromatiche.

Il rappresentante più conosciuto e meglio studiato di questa classe è la proteina HP1, scoperta in Drosophila
melanogaster. L’HP1 si lega preferenzialmente alle regioni eterocromatiniche. HP1 è una proteina molto conservata
sia a livello di sequenza nucleotidica che a livello di sequenza genica. Sono state identificate proteine ad essa
omologhe dal lievito fino ai mammiferi.

Il cromodominio di HP1 interagisce con la lisina 9 mutata dell’istone H3, un’interazione chiave nella formazione di un
dominio eterocromatico.

FENOMENI EPIGENETICI

Se noi consideriamo un organismo diploide, per ogni gene avremo due alleli, anche con la stessa sequenza genica.
L’epigenetica implica che questi due alleli possono mostrare degli stadi di espressione differenti e queste differenze
sono ereditabili. Questo fenomeno può essere spiegato se si ammette l’esistenza di due stati della cromatina:

- Quello nativo
- Quello determinato o epigenetico, con proprietà che consentono di distinguere le relative componenti, o il
loro assemblaggio macromolecolare, da quello dello stato nativo.

Alcuni fenomeni epigenetici presenti innatura sono l’eterocromatina facoltativa e l’imprinting.

ETEROCROMATINA FACOLTATIVA – INATTIVAZIONE X


E’ l’eucromatina che assume lo stato di eterocromatina solo in particolari tessuti o momenti dello sviluppo, e che può,
in altri momenti del ciclo vitale, ritornare ad assumere le caratteristiche di eucromatina.

Lo stato più conosciuto è l’inattivazione di uno dei due cromosomi X nelle femmine di mammifero, o l’inattivazione
delle regioni del cromosoma Y già presenti nel cromosoma X (se non fossero inattivate, il maschio presenterebbe una
copia in eccesso del gene, diploidia).

Presumibilmente, una dose doppia di prodotti genici del cromosoma X sarebbe letale, per questo motivo le cellule
femminile ne inattivano uno dei due. Il cambiamento non è permanente e irreversibile, poiché il cromosoma X
eterocromatico è riattivato durante la formazione delle cellule germinali della femmina.

193
Il cromosoma X inattivato si perpetua allo stato di eterocromatina, quello attivo è invece una componente
dell’eucromatina. Quando un cromosoma X paterno o materno viene inattivato in una cellula, tutti i discendenti di
quella cellula ereditano fedelmente lo stesso tipo di inattivazione. Se l’inattivazione è casuale, l’embrione avrà dei
gruppi clonali di cellule in cui è inattivo il cromosoma X di origine paterna e gruppi clonali in cui è inattivo quello di
origine materna.

E’ ancora incerto il meccanismo con cui si esprime l’epigenetica. Nell’inattivazione del cromosoma X, un possibile
meccanismo che porta all’inattivazione dei geni può essere determinato dal loro differente livello di metilazione del
DNA. Nel cromosoma X inattivo le isole CpG del promotore 5’ dei geni ad esso associati risultano essere metilate,
mentre nel corrispondente cromosoma X attivo queste regioni sono ipometilate o non sono affatto metilate.

Il primo gene identificato entro la regione XIC dell’uomo manifestava caratteristiche che ne rendevano probabile
l’implicazione nel processo di inattivazione dell’X. Questo gene, XIST, è espresso dell’X inattivo ma non da quello
attivo. Il gene XIST codifica per una molecola di RNA che non viene tradotta in proteina.

La modulazione epigenetica segna il destino delle cellule che si differenziano nei tessuti, poiché interviene sin dalle
prima fasi embrionali della formazione della vita individuale, infatti:

- Segna il destino delle cellule che si divideranno a formare i singoli tessuti


- Risolve possibili conflitti derivanti dalla riproduzione sessuale, che rappresenta
• Un vantaggio evolutivo, poiché consente una continua mescolanza genica
• Uno svantaggio, poiché fornisce al nuovo essere due metà di corredo genetico, una metà materna e
una metà paterna.

Quindi: Come deve comportarsi la cellula? Quali informazioni deve seguire?

Il meccanismo epigenetico si realizza già al principio dello sviluppo e causa la cosiddetta “signatura epigenetica”,
processo molto delicato nelle prime fasi dello sviluppo perché interagiscono dei geni che regolano la crescita del
nuovo individuo. Nei mammiferi femmine la soluzione trovata è stata quella di silenziare alcuni geni chiave per lo
sviluppo contenuti in uno dei due cromosomi X. Il silenziamento di questi geni avviene quindi silenziando uno dei
cromosomi X: questo meccanismo prende il nome di imprinting genomico.

Nei topi, i geni imprintati sono circa 200, mentre nell’essere umano sono circa 150.

Il silenziamento del cromosoma X avviene al sedicesimo giorno dopo la fecondazione e si tratta di un’inattivazione
random:

- 50% inattivazione X materno


- 50% inattivazione X paterno.

La femmina è quindi un mosaico genico.

Il cromosoma X contiene 1100 geni che svolgono ruoli significativi sia nel sistema immunitario sia nel cervello.
Contiene il più grosso numero di geni correlati con il sistema immunitario. Contiene geni che codificano un elevato
numero di microRNA, che ricoprono ruoli fondamentali in vari meccanismi epigenetici. Il fatto che ci sia un
meccanismo di inattivazione in uno dei cromosomi X determina delle caratteristiche proprie del sesso femminile:

- Vivono mediamente di più,


- Si ammalano di meno di malattie infettive e tumori,
- Si ammalano molto di più,
- Subiscono le malattie autoimmuni e in generale infiammatorie.

Quando abbiamo una duplice copie del cromosoma X nelle femmine, abbiamo una condizione che può rappresentare
sia un vantaggio sia uno svantaggio.

194
Solitamente il rapporto di attivazione dei cromosomi materni e paterni nella donna corrisponde a 1:1. Questo
equilibrio però può essere spostato da meccanismi di riattivazione e ciò può avere effetti nella crescita e nello
sviluppo dell’individuo.

Ci può essere un ricorso alla riserva dell’X silenziato: questo fenomeno viene chiamato skewing-spostamento. Consiste
nello spostare la bilancia 50:50 a favore dell’uno o dell’altro.

Lo sbilanciamento porta vantaggi in età avanzata e problematiche in età giovanile.

Uno studio condotto su una popolazione femminile di 73-101 anni studiata per 13 anni ha documentato che la
maggior sopravvivenza è legata a una maggiore attività di sbilanciamento. Questo dato è stato confermato da uno
studio comparativo su maschi e femmine di 90 anni dove le donne hanno una maggiore capacità di cambiamento
dell’espressione genica rispetto ai maschi.

Un alto grado di skewing è positivo in età avanzata, ma in età giovanile può essere pericolo. E’ stata rilevata la parziale
riattivazione del cromosoma silenziato in pazienti con lupus, che rende iperattivo il gene che codifica un recettore
linfocitario che induce i linfociti B ad una sovrapproduzione di anticorpi. Proprio perché causata principalmente dallo
“skewing”, il lupus è una malattia autoimmune prettamente femminile, con un rapporto di manifestazione
donna/uomo di 9:1.

Il cromosoma X conferisce una maggiore flessibilità nell’immunità femminile, ma può al tempo stesso essere un punto
di vulnerabilità epigenetica e costituisce il bersaglio di numerosi fattori sociali, ambientali e comportamentali che
concorrono alla genesi delle malattie autoimmuni.

EPIGENETICA IN UTERO – IL RUOLO DELLO STRESS

Già Sigmund Freud evidenziava l’importanza delle prime esperienze di vita nel plasmare la modalità di regolazione
delle emozioni e quindi le possibili patologie psichiatriche da adulto. Questo processo ha una valenza epigenetica,
nonostante Freud non ne conoscesse i meccanismi. Anche lo sviluppo embrionale è sottoposto ai meccanismi
epigenetici, come per esempio il ruolo dello stress. Lo stress, infatti, può essere causato da fattori:

- Psichici
- Sociali
- Ambientali

Questo ha una valenza epigenetica, tanto che possiamo parlare di epigenetica in utero.

E’ stato condotto uno studio su giovai nati da donne gravide tra il 1944 e il 1945, durante la seconda guerra mondiale.
Queste madri avevano sofferto la fame durante il terzo mese di gravidanza, con una dieta ipocalorica per via della
guerra. I figli di queste donne sono nati con un peso minore del normale. I ricercatori hanno documentato in questi
figli, in età adulta, un aumento di incidenza di vari disturbi psichiatrici, tra cui disturbi dell’umore (ansia e
depressione), disordine di personalità antisociale, schizofrenia e un accelerato declino delle funzioni cognitive all’età
di 56-59 anni. In aggiunta, presentavano anche diabete, obesità e problemi cardiovascolari.

Di conseguenza è stata evidenziata la possibile esistenza di alcuni meccanismi epigenetici con cui la fame nella
gestante e la mancanza del corretto apporto calorico hanno determinato alterazioni in geni fondamentali nella
corretta crescita dell’individuo anche in vita adulta.

Altri studi hanno dimostrato che “i figli della fame” sessant’anni dopo presentavano una metilazione del gene che
comanda la sintesi di IGF2 (fattore insulinosimile tipo 2) che regola la crescita del feto e che, se è scarsamente attivo,
determina un basso peso alla nascita.

195
Lo studio dimostra che le condizioni ambientali nella prima fase della vita possono causare cambiamenti epigenetici
che persistono per tutta la vita.

Ci sono anche esperienze di laboratorio condotte su animali. Uno di questi esperimenti ha avuto come oggetto del
proprio studio la serotonina. La serotonina ha molteplici funzioni, tra cui l’aumento del fattore NGF1-A. Questo fattore
consente l’acetilazione istonica e diminuisce la metilazione del DNA. Un aumento di serotonina determina un
aumento di questo fattore.

Ciò determina che l’”asse dello stress”, ovvero l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, si sviluppi e funzioni in maniera
efficiente. Lo studio in questione analizza una popolazione di topi neonati e la loro crescita con presenza o mancanza
di cure parentali. In caso di presenza di cure parentali i topi cresceranno con un “asse dello stress” efficiente ed una
volta diventati a loro volta genitori elargiranno anche loro le cure parentali nei confronti dei cuccioli. Al contrario, con
una diminuzione di serotonina causata dalla mancanza di cure parentali, ci sarà una bassa espressione del gene NGF1-
A e di conseguenza un fenotipo più “stressato”, perché l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene non funzionerà in maniera
efficiente e porterà i topi di questa cucciolata a non fornire cure parentali alla propria progenie.

EPIGENETICA IN VITA ADULTA

Meccanismi epigenetici intervengono in tantissime situazioni. Studi condotti su 17000 persone hanno riscontrato una
relazione tra i livelli socioeconomici dell’infanzia e la metilazione di alcuni geni in età adulta, correlando l’epigenetica
alla posizione sociale.

Si è fatto uno studio su 80 coppie di gemelli monozigoti per evidenziare gli effetti dell’ambiente sui meccanismi
epigenetici. Sono state riscontrate differenze epigenetiche significative in circa 1/3 dei gemelli monozigoti che
aumentano con l’età e con la diversificazione delle abitudini e degli ambienti di vita. La segnatura epigenetica sul DNA
è quindi stabile ma anche reversibile.

Una dieta ricca di carne e formaggi è una dieta ricca di metionina, che può portare ad un’ipermetilazione di alcune
aree cerebrali, con aggravamento della schizofrenia. Al contrario, una dieta ricca di antiossidanti e alimenti che
inducono una maggior sintesi di s-adenosil-metionina può essere efficace per contrastare la depressione unipolare.

Gli esseri umani possono cambiare il loro stato epigenetico in senso antidepressivo attraverso tecniche di gestione
dello stress (meditazione, yoga, tai chi).

Le caratteristiche epigenetiche presenti in un soggetto derivano quindi dal contesto storico sociale, dal tipo di
alimentazione e di attività fisica, dal tipo di insulti ambientali subiti, dalla gestione dello stress e dall’opera di
generazione in generazione.

IMPRINTING GENOMICO

Il termine imprinting è stato coniato da Konrad Lorenz negli anni ’30 per indicare l’insorgere di un comportamento in
seguito ad esperienze vissute durante i momenti critici dello sviluppo. Questo concetto costituisce l’imprinting
biologico.

L’imprinting genomico è una marcatura che si basa su un meccanismo epigenetico. Consiste nell’espressione
differenziata di un materiale genetico, a seconda che esso derivi dal genitore di sesso maschile o dal genitore di sesso
femminile. L’imprinting genomico è un meccanismo epigenetico di regolazione trascrizionale, attraverso il quale
l’espressione di un gruppo di geni è limitata ad un solo allele parentale. Se abbiamo due alleli:

196
- con l’imprinting materno si esprime solo l’allele paterno e viene inibito quello materno,
- con l’imprinting paterno si esprime solo l’allele materno e viene inibito quello paterno.

L’espressione di alcuni geni dipende quindi dal genitore da cui sono stati ereditati. I genomi di origine materna e
paterna contribuiscono in maniera equa alla formazione dello zigote, ma possiamo avere un effetto fenotipico diverso
durante lo sviluppo. Il termine imprinting indica proprio la differente marcatura cui alcuni geni o cromosomi specifici
sono sottoposti durante la gametogenesi, determinando l’espressione differenziale di tali geni nell’embrione e
nell’adulto o il comportamento differenziale dei cromosomi. L’imprinting si esprime con 3 fasi:

- Instaurazione
- Trasmissione fedele
- Cancellazione

L’imprinting è infatti instaurato durante la gametogenesi; viene mantenuto attraverso le divisioni mitotiche nella
progenie; e ritorna allo stato nativo durante la meiosi, per permettere l’instaurarsi dell’imprinting specifico del sesso
dell’individuo.

Consideriamo quindi uno stato nativo e uno stato epigenetico. In base alla natura del bersaglio molecolare che
determina la conversione tra lo stato nativo e quello epigenetico (determinato), i meccanismi alla base degli effetti
epigenetici possono essere suddivisi in due classi. Infatti, ci sono due target che determinano uno stato epigenetico sui
quali può agire l’imprinting:

- Uno è determinato dalle modificazioni che avvengono sul DNA,


- l’altro dalle modificazioni che avvengono sulle proteine associate al DNA.

METILAZIONE DEL DNA


La principale modificazione del DNA è la metilazione. Essa è una modificazione covalente. Ciò nonostante, una base
metilata riconosce comunque la base complementare che si trova nell’emielica complementare.

La metilazione è una modificazione di una base senza alterare la sequenza. Gli enzimi che effettuano tale
modificazione si chiamano DNA-metiltransferasi ed operano all’interno di specifiche sequenze. La metilazione del DNA
è un meccanismo epigenetico in quanto non altera la sequenza nucleotidica del DNA.

La metilazione è un meccanismo che avviene sia nei procarioti che negli eucarioti, ma con alcune differenze.

Nei procarioti possono essere metilate sia l’adenina che la citosina. La metilazione del DNA in questi organismi ha tre
principali ruoli biologici:

- riconoscimento del DNA estraneo (non self) da quello endogeno


- coinvolgimento nel meccanismo della riparazione del DNA
- controllo della replicazione del DNA e del ciclo cellulare.

Negli eucarioti l’unica base che può essere metilata è solo la citosina, che può presentare diversi livelli di metilazione a
seconda della specie presa in considerazione. Ci sono 3 tipi di DNA-metiltransferasi:

- Dnmt1
- Dnmt3a
- Dnmt3b.

L’enzima Dnmt1 è una metilasi di mantenimento e riconosce specificatamente il DNA emi-metilato (cioè che ha
metilato le citosine alle isole CpG di una sola emielica). Al termine della duplicazione del DNA, la Dnmt1 aggiunge un
gruppo metile in corrispondenza della citosina non metilata nel CpG del filamento di nuova sintesi, davanti alla

197
citosina metilata del CpG del vecchio filamento. Questo garantisce la trasmissione stabile del pattern di metilazione
del DNA alle cellule figlie.

MODIFICAZIONI ISTONICHE
Un altro possibile meccanismo epigenetico in grado di regolare l’espressione genica sono le modificazioni istoniche.

Le modificazioni istoniche determinano la transizione tra uno stato attivo e uno inattivo della cromatina. Si esplica con
delle modificazioni post traduzionali degli istoni (si verificano dopo che gli istoni vengono sintetizzati). Si tratta di
modificazioni covalenti delle code amminoterminali degli istoni che sporgono dal nucleosoma. Consistono
nell’aggiunta o rimozioni di composti chimici sulle code istoniche, e sono:

- fosforilazione
- acetilazione
- metilazione
- ubiquitinazione

La metilazione è una modificazione covalente che avviene in posizione 5’ dell’anello pirimidinico della citosina nelle
isole CPG. La modificazione corrisponde all’aggiunta di un gruppo metile ad opera della DNA metil tranferasi. Va altresì
specificato che la metilazione può avvenire solo nel caso in cui ci sia un donatore di metile Tale metilazione determina
un silenziamento del gene, tranne in alcune eccezioni particolari (dipende da dove si trova l’isola CPG)

Tutte queste modifiche avvengono sugli istoni alle estremità N-term delle proteine. Tali modificazioni istoniche sono
connesse alla metilazione del DNA

La stessa modificazione può interessare residui amminoacidici diversi ed un residuo può essere soggetto a più
modificazioni in contemporanea. Tante modificazioni in contemporanea determinano il risultato finale. Nelle code
troviamo quindi un profilo di modificazione che si conserva, tanto da essere definito codice istonico, un codice che
agisce in concomitanza con il codice genetico. E’ stata infatti avanzata l’ipotesi che le combinazioni di queste
modificazioni costituiscano il codice istonico, utilizzato per definire stati funzionali diversi. Una volta modificate, le
code istoniche forniscono un segnale specifico in grado di essere riconosciuto da proteine di rimodellamento della
cromatina, capaci di modificare il suo stato.

Generalmente l’acetilazione degli istoni è associata ad un’iperattività trascrizionale, mentre la metilazione delle code
istoniche a silenziamento genico. La lisina 9 di H3, ad esempio, può essere sia acetilata che metilata. L’acetilazione è
associata alla cromatina trascrizionalmente attiva; al contrario, se la regione di cromatina viene metilata a livello del
DNA, le proteine che si legano al DNA metilato richiamano le deacetilasi istoniche, che rimuovono i gruppi acetile, e le
metil transferasi istoniche metilano gli istoni. Il risultato è la condensazione della cromatina. Non mancano però le
eccezioni.

Gli RNA interferenza sono direttamente interessati in queste trasformazioni della cromatina. L’RNA interference può
dirigere la formazione di eterocromatina. I piccoli RNA trascritti (siRNA) che promuovono la formazione
dell’eterocromatina sono situati nelle ripetizioni eterocromatiniche dei centromeri.

La metilazione del DNA avviene nelle isole CpG, ricche di guanina e citosina. La metilazione delle CpG, generalmente,
determina un silenziamento del gene.

L’acetilazione degli istoni e la metilazione del DNA sono eventi la cui regolazione è interconnessa. La prima consente
l’accesso al DNA anche alle demetilasi (enzimi), che hanno il compito di rimuovere il gruppo metile dagli istoni. Ciò
comporta una perdita di compattezza della cromatina, attivando l’espressione genica. L’acetilazione è catalizzata
dall’enzima istone-acetiltransferasi

198
La metilazione del DNA invece aumenta l’affinità per le deacetilasi istoniche. Tali enzimi permettono al DNA di tornare
ad uno stato compatto, in quanto sono enzimi che rimuovono i gruppi acetile. La metilazione degli istoni (H3 in questo
caso particolare) induce quindi la metilazione del DNA.

RIPROGRAMMAZIONE EPIGENETICA NEI GAMETI

I gameti sono cellule differenziate e altamente specializzate che portano tutte le informazioni necessarie per l’avvio di
un nuovo ciclo di vita dopo la fecondazione. Sia il genoma materno che quello paterno sono necessari per lo sviluppo
embrionale poiché sono programmati in modo diverso e sono funzionalmente non equivalenti.

Le differenze funzionali tra genomi materni e paterni sono attribuite ad un’espressione differenziale degli alleli, che
dipende da un imprinting che viene determinato durante lo sviluppo. Quando si ha un imprinting di questi geni,
l’imprinting viene mantenuto nei tessuti somatici durante lo sviluppo embrionale, ma vengono cancellati nelle cellule
germinali primordiali; pertanto, l’impronta genomica può essere invertita nella linea germinale.

La metil-transferasi de novo è in grado di metilare un DNA che ha entrambe le emieliche non metilate. Durante la
formazione dei gameti, abbiamo una metilazione determinata da questo enzima. Se si ha la fecondazione, si ha la
demetilazione, sia arriva allo stato di blastocisti, al differenziamento delle cellule (si verifica una nuova metilazione),
perciò prima della nascita si alternano meccanismi di metilazione e demetilazione.

L’epigenetica, dal punto di vista evolutivo, non comporta una modificazione della sequenza nucleotidica di un gene,
ma ciò nonostante (la signatura) è comunque ereditabile.

La signatura epigenetica è ereditabile, quindi rivalutiamo le teorie di Lamarck che aveva intuito che ci sono
modificazioni che avvengono durante la vita, che cambiano il fenotipo e che possono essere ereditabili. Facendo una
cronostoria degli eventi storici si comprende in un primo momento che l’ambiente influisce sul DNA, come ad esempio
comportando mutazioni. Solo successivamente si arriva alla scoperta dei meccanismi epigenetici. L’epigenetica allarga
la prospettiva, perché prende in considerazione anche l’ambiente che agisce sulle modificazioni epigenetiche. Darwin
aveva degli strumenti limitati, le sue osservazioni consideravano solo il fenotipo e si limitavano ad individui adulti. Le
modificazioni epigenetiche allargano la prospettiva, perché coinvolgono anche lo sviluppo embrionale.

199
EVO-DEVO
La vera disciplina che ha aperto l’orizzonte è l’evo-devo, cioè l’insieme della biologia evoluzionistica (neodarwinismo)
e della biologia dello sviluppo (Studia come si realizza lo sviluppo embrionale): ci deve essere una relazione tra lo
sviluppo embrionale e l’evoluzione.

La biologia evoluzionistica descrive come gli organismi che derivano da un antenato comune cambiano nel tempo. La
biologia dello sviluppo si occupa di come i processi di sviluppo possono condizionare i processi evolutivi. L’evo devo
spiega alcuni aspetti che l’evoluzione non è in grado di spiegare.

L’evo devo, attraverso lo studio dello sviluppo embrionale, vuol essere un’interpretazione della biologia
evoluzionistica, dando un apporto in più alla spiegazione dei meccanismi evolutivi. Dalle sue osservazioni, Darwin
poteva valutare come gli organismi cambiano: tutti gli organismi derivano da un organismo comune, ma le forme
cambiano da una specie all’altra.

Nella natura c’è un’enorme varietà di forme di organismi viventi. Ci dono diversi approcci per dare una spiegazione di
quest’ultima.

Uno è quello del biologo evolutivo. La biologia evoluzionistica cerca la risposta nella storia degli organismi, per capire
se i loro predecessori avevano delle forme in comune o se ne avevano delle altre e, nel caso, come mai esse sono
cambiate. Conferivano un vantaggio adattativo in un determinato ambiente? Se sì, quale? Ci sono altri organismi che
sfruttano le stesse forme? Se sì, che rapporto di parentela c’è tra loro? Tutti questi studi rientrano nella filogenesi,
cioè lo studio dei rapporti tra le varie specie e la ramificazione delle relazioni evolutive che si possono stabilire tra di
loro.

Un altro approccio alla domanda sulla varietà delle forme è quello di chi studia lo sviluppo embrionale di ogni specie,
cioè l’insieme di processi grazie ai quali, a partire da una singola cellula fecondata, si ottiene un individuo complesso e
completo. Durante lo sviluppo embrionale le cellule si dividono e si differenziano, assumendo identità diverse: cellule
muscolari, cardiache, ossee, epatiche, nervose, etc.

Il biologo dello sviluppo, davanti ad una particolare forma, si chiede quali processi si differenziamento l’abbiano resa
possibile. Perché quel paio d’ali si forma sempre su quel segmento e non su quello precedente o successivo? Quali
meccanismi molecolari consentono la formazione di un arto con un certo numero e un certo tipo di dita?

La biologia dello sviluppo tenta di dare risposte in riferimento alla varietà delle specie studiando lo sviluppo
embrionale e i processi di differenziamento che hanno postato alla formazione di un individuo. L’insieme di questi
meccanismi costituisce l’ontogenesi.

L’incrocio tra questi due approcci ha portato alla nascita di una disciplina che può essere considerata relativamente
giovane dal punto di vista scientifico. Si tratta della biologia evolutiva dello sviluppo, anche nota come evo-devo
(evolution and development).

L’evo-devo spiega che la grande complessità morfologica e la diversità che riscontriamo negli organismi pluricellulari
delle varie specie sono il risultato di processi di sviluppo che si sono via via evoluti nel tempo in risposta alla selezione
naturale. La selezione naturale quindi non agisce più su un semplice carattere ma sull’intero processo di sviluppo
dell’organismo. Lo sviluppo può essere:

- diretto: gli embrioni si sviluppano direttamente in forme simili all’adulto


- indiretto: lo sviluppo progredisce attraverso uno stadio larvale, di forma diversa.

Riassumendo, quindi:

200
- la biologia dello sviluppo studia come un organismo cambia attraverso il suo ciclo vitale (ontogenesi)
- la biologia evoluzionistica studia come tutte le specie cambiano attraverso le generazioni (filogenesi).

Darwin non conosceva i processi di sviluppo embrionale, perciò l’evo devo allarga la prospettiva.

I GENI HOX

L’evo-devo nasce intorno al 1990. Prima dell’ufficializzazione dell’evo-devo erano stati fatti degli esperimenti e, tra gli
anni ‘70 e ’80, ci fu un’importante scoperta che permise l’avvento dell’evo-devo: la scoperta del gruppo HOX dei geni
Homeobox.

I geni HOX sono la classe meglio conosciuta di geni selettori omeotici che controllano il posizionamento delle diverse
strutture corporee lungo l’asse principale del corpo. In animali come gli insetti, dal corpo suddiviso in segmenti,
mutazioni di geni HOX causano la trasformazione di un tipo di segmento in un altro.

Nella Drosophila, una mutazione del gene Ultrabithorax (Ubx), che è un gene HOX, trasforma il terzo segmento
toracico (T3) che normalmente è caratterizzato in minuscoli bilancieri, in una copia del secondo segmento toracico
(T2) che possiede un paio di ali. Il risultato della mutazione del gene Ultrabithorax è che il moscerino ha un numero
soprannumerario di ali, cioè possiede un altro paio di ali.

In Drosophila, una mutazione del gene Antennapedia (Antp) causa l’espressione erronea della proteina Antp nelle
cellule che normalmente danno origine alle antenne e questo provoca la sostituzione delle antenne con un paio
soprannumerario di zampe. Questi geni HOX controllano quindi lo sviluppo embrionale.

I geni HOX sono riuniti in due complessi di geni localizzati sul cromosoma 3, chiamati complessi Antennapedia e
Bithorax. I I geni HOX fanno parte di una famiglia di geni e quindi di rispettive proteine ad essi associate. Se andiamo a
osservare le proteine codificate da questi geni, c’è una sequenza amminoacidica che si chiama Omeodominio,
ricorrente per tutte le proteine: si tratta della famiglia degli Homeobox.

Si confermò l’idea che i geni HOX regolassero la trascrizione di altri geni. Tutti i phila posseggono i geni Hox e le
sequenze dell’omeodominio (sequenze amminoacidiche) simili alle omologhe in drosophila.

I mammiferi hanno 4 complessi di geni HOX per un totale di 13 differenti geni HOX:

- Hoxa
- Hoxb
- Hoxc
- Hoxd

Le differenze strutturali di rilievo tra ali posteriori dei ditteri e delle farfalle derivano semplicemente dall’accensione o
dallo spegnimento di un particolare gene Hox. Le differenze, quindi, non sono determinate da differenti espressioni
del gene Ubx, che è invece espresso in entrambi i casi.

La divergenza tra i due gruppi di insetti nella morfologia delle ali posteriori è causata dalla differente espressione di
altri geni, regolati da uno specifico gene HOX.

I geni Hox codificano proteine (fattori di trascrizione) che regolano la trascrizione legandosi a regioni di controllo del
DNA (enhancer) di geni a valle (target).

La scoperta dei geni Hox spiega come si sia evoluta la diversità animale. Con la scoperta dei geni Hox, l’evo devo ha
avuto una valenza. I geni che sono coinvolti nel controllo dello sviluppo embrionale (ontogenesi) se mutati possono

201
dare origine a nuovi caratteri nell’adulto (filogenesi). La riproduzione consente di trasferire questi nuovi caratteri alle
generazioni future.

I geni che controllano lo sviluppo sono coinvolti nei meccanismi evolutivi, in quanto il cambiamento della regolazione
di questi geni è trasmissibile.

L’ecologia non è distante da queste discipline. Esistono due forze contrapposte:

- il potenziale biotico della specie


- la capacità portante dell’ambiente

L’evo-devo esprime un meccanismo evolutivo mettendo in evidenza come la selezione naturale (capacità portante) si
contrappone alle pressioni interne all’organismo, le forze genomiche che spingono alla realizzazione di alcuni caratteri
(potenziale biotico).

Le differenze tra i vari organismi non sono attribuibili alla semplice presenza di geni specifici, ma dipendono da come
questi geni vengono regolati durante lo sviluppo embrionale ed evolutivo.

L’origine della varietà degli organismi viventi non risiede nel numero di geni che possiedono, ma nelle loro modalità di
regolazione, attraverso segnali provenienti dall’ambiente interno alla cellula o esterno alla stessa.

La regolazione di geni specifici che controllano lo sviluppo embrionale e le mutazioni che accadono su questi geni si
ripercuotono dal punto di vista evolutivo.

I geni Homeobox che controllano i geni dello sviluppo esprimeranno delle proteine regolatrici e vengono chiamati geni
master. I geni master sono una sorta di cassetta degli attrezzi presente in tutti gli organismi viventi. La variabilità che
osserviamo dipende dall’utilizzo che noi facciamo di uno specifico attrezzo, cioè di uno dei geni master. I processi di
sviluppo dipendono da un’espressione differenziale dei geni master che codificano proteine denominate fattori di
trascrizione, che:

- regolano l’espressione di geni strutturali (bersaglio)


- possono fungere da attivatori, se si legano a sequenze enhancer oppure da repressori se interagiscono con
sequenze silencer.

I geni dello sviluppo sono soggetti a complesse interazioni che vengono definite network di regolazioni geniche. Tra i
principali geni master troviamo i geni per definire:

- i piani strutturali del corpo (Hox)


- la formazione degli occhi
- la formazione degli arti
- la formazione del cuore.

Le sequenze geniche dei geni master sono viste come dei moduli. Quando abbiamo organismi che hanno un antenato
comune, questi moduli sono sempre gli stessi ma sono utilizzati e si organizzano in maniera differente: il genoma di un
organismo è strutturato in moduli interdipendenti. Un modulo per una specie può servire per sviluppare una
particolare struttura corporea, mentre in un altro organismo lo stesso gene serve per sviluppare una struttura diversa,
nonostante siano sempre gli stessi. I moduli sono degli attrezzi che servono all’organismo per la costruzione del
fenotipo, perciò le variazioni che accadono su un singolo modulo si ripercuotono sull’intero organismo.

La biologia dello sviluppo rappresenta una chiave interpretativa della biologia evolutiva. Non descrive solo come i
processi di sviluppo cambiano nel tempo. Si occupa anche, e soprattutto, di come i processi dello sviluppo possono
condizionare i processi evolutivi. Le nuove forme sarebbero così alla base del cambiamento evolutivo che si realizza
attraverso “modifiche” dei geni master. La diversità dei viventi è, perciò, legata a pochi geni (cassetta degli attrezzi).

202
Secondo gli studiosi, il principale motore dell’evoluzione morfologica sarebbe legato a cambiamenti nelle interazioni
tra geni regolatori dello sviluppo. Il “trucco” dell’evoluzione consisterebbe, quindi, nel convertire “vecchi” geni a
nuove funzioni (cooptazione genica). La cooptazione genica si ha quando dei medesimi geni, posizionati in sequenze
diverse, danno luogo a funzioni diverse.

Per esempio, il gene Distalles coinvolto nello sviluppo degli arti nella Drosophila, in alcune farfalle è cooptato per lo
sviluppo delle macchie a forma di occhi sulle ali.

1) I geni Hox definiscono il fenotipo e lo sviluppo embrionale secondo le caratteristiche della specie.
2) La mutazione di questi geni può determinare un nuovo fenotipo.
3) Il nuovo fenotipo è sottoposto alla pressione ambientale, in termini evolutivi.
4) La selezione naturale può dare origine a due effetti:
• Se il nuovo fenotipo non è in grado di dare progenie fertile, viene eliminato;
• Se il nuovo fenotipo è in grado di dare progenie fertile, porterà nuove caratteristiche nella specie.

ADATTAMENTO

Gli organismi viventi sono perfettamente progettati per sopravvivere e riprodursi nell’ambiente in cui vivono. Queste
peculiarità determinate dai caratteri sono definite come “adattamento”.

La teoria dell’evoluzione spiega questi adattamenti come un processo di cambiamenti che si sviluppa attraverso due
meccanismi

- Selezione naturale: quelli meglio equipaggiati si affermano sugli altri;


- Selezione sessuale: ricerca di un compagno e possibilità di accoppiamento. la selezione sessuale si esprime
attraverso dei prodotti che favoriscono l’accoppiamento (es. ornamenti, armamenti, etc.). Quelli meglio
equipaggiati propagheranno questi caratteri alle generazioni successive.

La teoria dell’evoluzione è molto generale: ci sono cose che ci aspetteremmo di vedere, ma non vediamo. Ci sono
delle caratteristiche ricorrenti tra gli organismi viventi. Ad esempio, i mammiferi sono estremamente diversificati ma
presentano delle caratteristiche ricorrenti: una giraffa e un carlino hanno colli di lunghezze molto diverse, ma in
entrambi casi il collo è formato da 7 vertebre cervicali. Sembrerebbe quindi che la presenza di 7 vertebre ha portato
un vantaggio evolutivo e rappresenta un carattere dominante, in quanto ha “superato” la selezione naturale. Ci sono
tuttavia delle eccezione:

- Il lamantino ha 6-8 vertebre


- Il bradipo ha 6-9 vertebre

Si perde quindi la regola del 7, ma si fa fatica a trovare una spiegazione in termini di selezione naturale.

Un altro esempio è la variabilità del numero di segmenti nei centopiedi geofilomorfi. Essi hanno un numero di
segmenti che va da 27 a 191 e che è sempre dispari, quindi avranno sempre un numero dispari di paia di zampe (un
paio per ogni segmento). Il numero è fissato alla nascita (anche se è difficile pensare, in termini di selezione naturale,
perché un numero pari di paia di zampe non dovrebbe essere adattativo). Tuttavia, esiste un individuo con 80 paia di
zampe.

L’evo devo dà una spiegazione a questi caratteri “fuori dalle regole”. La spiegazione risiede infatti in un allargamento
della prospettiva offerto dall’evo-devo: mentre la teoria evolutiva studia il cambiamento nel tempo delle forme e delle
funzioni, l’evo-devo studia il cambiamento nel tempo degli interi processi di sviluppo evolutivo, valutando come le
specie cambiano nel corso del tempo e nel corso del ciclo vitale.

203
Darwin, con la sua teoria, aveva messo in evidenza la variazione, l’eredità e la selezione naturale. Nella teoria di
Darwin c’è quindi il cambiamento di un fenotipo in altri fenotipi possibili.

Poniamo l’evidenza sulla figura del Cavallo nel gioco degli scacchi e lo paragoniamo ad un carattere. Il cavallo ha la
possibilità di muoversi formando una L. Le sue “trasformazioni possibili” sono determinate dai possibili movimenti che
può compiere. Le modificazioni non possibili sono invece tutte le caselle che non può raggiungere, perché occupate o
perché non sono consentite dal suo schema di movimento. Tra le trasformazioni possibili, alcune posizioni sono poco
convenienti, perché porteranno il cavallo ad essere mangiato da altre pedine. Quindi, tra le trasformazioni possibili,
una sola può essere realizzata.

Analizziamo due caratteri di una sfera: grandezza e colore. Ci aspettiamo di poter vedere ognuna delle trasformazioni
possibili, ma nella realtà dobbiamo valutare la probabilità per cui si possa manifestare un carattere rispetto ad un
altro. Non dobbiamo considerare solo una mutazione che può trasformare la manifestazione di un gene: dobbiamo
considerare il paesaggio adattativo, che determina che ci sono maggiori probabilità che la trasformazione avvenga in
una certa direzione.

Le forma dei viventi si costruiscono attraverso un processo di sviluppo e tutti i processi sono coordinati
dall’informazione genetica. In natura esistono dei cambiamenti di fenotipo che possono essere appartenente:

- semplici, che coinvolgono caratteri vicini: ad esempio, la trasformazione del colore rosso delle coccinelle in
giallo coinvolge caratteri vicini
- difficili, che comportano una distanza notevole dal carattere originale: ad esempio, la trasformazione della
disposizione dei puntini neri sulle Sali della coccinella.

Se i caratteri sono vicini, il percorso per compiere un cambiamento è molto più complesso. Al contrario, se due
caratteri sono distanti, il percorso è più semplice.

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