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DIRITTO AMMINISTRATIVO - CASETTA

CAPITOLO 1 - L’AMMINISTRAZIONE E IL SUO DIRITTO

LA NOZIONE DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Il termine “Amministrazione” indica in concreto la cura, la soddisfazione di pubblici

interessi. Esso è riferibile ad un qualsiasi soggetto che svolge un’attività rivolta alla

soddisfazione di interessi correlati ai fini che il soggetto stesso si propone di perseguire.

Questo appena riportato è il concetto di amministrazione-attività, ossia il concetto di

amministrazione in senso oggettivo.

Esso è strettamente collegato alla nozione di amministrazione in senso soggettivo in

quanto è amministrativa l’attività posta in essere dalle persone giuridiche pubbliche e

dagli organi che hanno competenza alla cura degli interessi dei soggetti pubblici.

Ma una definizione esaustiva non può certo ricavarsi dalle scarne disposizioni della

nostra Carta costituzionale, e neppure a livello di fonti primarie.

Allo stato, la nozione più ampia ed attendibile appare senz’altro quella dell’art. 1 del d.

lgs. 165/2001 che tuttavia non ricomprende gli enti pubblici economici.

Più in particolare, tale norma si riferisce a tutte le amministrazioni dello Stato “ivi

compresi gli istituti e le scuole, di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le regioni,

le province, i comuni, le comunità montane e loro consorzi ed associazioni, le istituzioni

universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, le aziende e gli

enti del Servizio sanitario nazionale, l’agenzia per la rappresentanza nazionale delle

pubbliche amministrazioni (ARAN).

LA NOZIONE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO

Il diritto amministrativo è la disciplina giuridica della pubblica amministrazione nella

sua organizzazione, nei beni e nelle attività ad essa peculiari e nei rapporti che,

esercitando tale attività, si instaurano con altri soggetti dell’ordinamento.


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La nozione di diritto amministrativo è strettamente correlata ad un certo

tipo di Stato. Negli Stati a regime amministrativo, l’attività della pubblica

amministrazione non si esaurisce nella sola attività di diritto pubblico; si assiste, infatti,

alla espansione dell’attività di diritto privato della pubblica amministrazione stessa.

Così l’attività amministrativa può essere esercitata dai soggetti pubblici tanto nelle

forme del diritto pubblico quanto nelle forme del diritto privato (si pensi ai contratti c.d.

ad evidenza pubblica).

Occorre domandarsi se la normazione concernente gli atti di diritto privato della

pubblica amministrazione possano essere attratti nel diritto amministrativo. La risposta

è in linea di principio negativa: i principi che li regolano sono propri del diritto privato.

Opposta conclusione va formulata per le norme che disciplinano l’attività

amministrativa posta in essere in vista della stipulazione di siffatti contratti (c.d.

“amministrazione pubblica del diritto privato”).

Anche i rapporti tra diritto penale e diritto amministrativo si sono fatti più stretti. Negli

ultimi decenni molti reati sono stati depenalizzati per diventare illeciti amministrativi,

pur essendo rimasta assolutamente immutata la relativa fattispecie.

L’AMMINISTRAZIONE COMUNITARIA ED IL DIRITTO AMMINISTRATIVO

COMUNITARIO

Il moltiplicarsi della disciplina dell’attività amministrativa posta dalle fonti comunitarie,

in particolare da direttive e regolamenti, offre esempi sempre più rilevanti di

condizionamento dell’azione amministrativa ad opera di tali fonti (diritto

amministrativo comunitario).

Va osservato che nelle ipotesi in cui siffatto diritto comunitario sia mediato dal diritto

interno di recepimento (come accade in tema di direttive), è quest’ultimo che

costituisce il parametro di legittimità dell’attività amministrativa: si tratta, dunque, di


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diritto amministrativo nazionale. Nei casi di regolamenti, nonché di norme

del Trattato e di direttive self executing, che esplicano effetti immediati nell’ambito degli

Stati, il diritto comunitario si applica invece direttamente alle amministrazioni nazionali

senza interposizioni normative ulteriori, diventando dunque “diritto amministrativo”.

Il diritto amministrativo comunitario in senso proprio è però soltanto quello avente ad

oggetto l’amministrazione comunitaria: esso disciplina atti di amministrazioni

comunitarie che producono direttamente effetti nei confronti di soggetti

dell’ordinamento italiano.

Per amministrazione comunitaria si intende l’insieme degli organismi e delle istituzioni

dell’Unione europea cui è affidato il compito di svolgere attività sostanzialmente

amministrativa e di emanare atti amministrativi.

Il moltiplicarsi dei compiti della Unione europea impone lo sviluppo dei raccordi tra

istituzioni comunitarie e amministrazioni nazionali e induce quindi ad una modifica

delle competenze di queste ultime e della loro organizzazione. L’aumento dei compiti

comunitari determina altresì la possibilità di un parziale ridimensionamento del campo

di azione dell’amministrazione interna, eroso dalla presenza dei soggetti comunitari.

Il discorso dovrebbe ulteriormente essere frazionato in quanto, mentre le

amministrazioni statali possono parzialmente controllare l’estensione dei poteri

dell’Unione essendo rappresentate nell’ambito del Consiglio dei ministri, le

amministrazioni locali sono quelle maggiormente “disarmate” nei confronti di tali

evenienze.

In questo senso un argine potrebbe derivare dall’applicazione del principio di

sussidiarietà. Esso (che in linea di massima implica come normale l’azione del livello di

governo inferiore e più vicino ai cittadini e prevede l’intervento del livello superiore di

governo soltanto se l’azione del primo non consenta la cura degli interessi affidati)

presenta in realtà due facce. Una garantista a favore del decentramento, e dei poteri

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locali, ai quali sono riservate le competenze salvo che essi non siano in

grado di assicurare la realizzazione degli obiettivi che debbono perseguire. L’altra che

viceversa può agevolare processi di accentramento a favore del livello di governo

superiore, consentendo a quest’ultimo di agire anche al di là delle competenze ad esso

attribuite formalmente, ogni qualvolta l’azione comunitaria si presenti la più efficace.

Introdotto anche nel nostro ordinamento dalla l. 59/1997 nonché, da ultimo, dalla l. cost.

n. 3/2001, questo principio è stato consacrato formalmente nel Trattato istitutivo della

Comunità europea e costituisce una vera e propria regola di riparto delle competenze

tra Stati membri e Unione. La presenza dell’amministrazione comunitaria determina,

infine, un mutamento del ruolo delle amministrazioni nazionali le quali sono spesso

chiamate a svolgere compiti esecutivi delle decisioni adottate dall’amministrazione

comunitaria.

Ciò determina una complicazione del procedimento amministrativo, nel senso che si

assiste alla partecipazione ad esso sia delle amministrazioni italiane, sia

dell’amministrazione comunitaria, che emana l’atto finale destinato a produrre effetti

per i cittadini; situazione che crea altresì dubbi e incertezze in ordine al giudice

(nazionale o comunitario) al quale deve rivolgersi il privato che si ritenga leso

dall’azione procedimentale.

È importante chiarire che cosa si debba intendere per esecuzione nel diritto

comunitario. L’esecuzione di molte decisioni spetta alle amministrazioni nazionali che a

tale attività sono tenute in ossequio all’art. 10 del Trattato CE; anche l’attuazione di

regolamenti e direttive spetta agli Stati membri che agiscono adottando atti legislativi

e amministrativi.

In realtà si deve distinguere tra esecuzione in via diretta ed esecuzione in via indiretta

che avviene cioè avvalendosi della collaborazione degli Stati membri: va peraltro

rilevato che il modello iniziale era quello di una Comunità che tendenzialmente non

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esegue, ma che “fa fare” agli Stati membri. Accanto a questo modello di

azione, si è sviluppato quello della c.d. esecuzione in via diretta, caratterizzato da

funzioni svolte direttamente dalla Comunità.

Occorre ora individuare con maggior precisione che cosa si debba intendere, sotto il

profilo soggettivo, per amministrazione comunitaria. Trattasi di un problema di non

facile soluzione, giacché l’individuazione di un potere esecutivo si scontra con la

difficoltà di separare nettamente i compiti del Consiglio da quelli della Commissione.

Soltanto in linea di massima e in via tendenziale si può affermare che la funzione

esecutiva è esercitata dalla Commissione, sulla base dell’art. 202 del Trattato CE,

essendo distribuite le funzioni normative ed amministrative tra Consiglio e

Commissione.

CAPITOLO 2 - ORDINAMENTO GIURIDICO E

AMMINISTRAZIONE: LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE

DIRITTO AMMINISTRATIVO E NOZIONE DI ORDINAMENTO GIURIDICO

Con il termine ordinamento giuridico generale si indica l’assetto giuridico e l’insieme

delle norme giuridiche che si riferiscono ad un particolare gruppo sociale.

È attraverso un’analisi mossa necessariamente dalla Costituzione, le cui prescrizioni

prevalgono sulle norme prodotte dalle altre fonti del diritto, che è possibile chiarire

quale sia la posizione dell’amministrazione nell’ordinamento giuridico generale, ossia

quali siano i suoi rapporti con gli altri soggetti del medesimo ordinamento.

L’AMMINISTRAZIONE NELLA COSTITUZIONE. INDIRIZZO POLITICO E

ATTIVITÀ DI GESTIONE

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Da quadro normativo costituzionale emergono diversi modelli di

amministrazione, nessuno dei quali può peraltro assurgere al rango di “modello”

principale.

Ai sensi dell’art. 98 Cost., l’amministrazione pare in primo luogo direttamente legata alla

collettività nazionale, al cui servizio i suoi impiegati sono posti.

Vi è poi il modello espresso dall’art. 5 Cost. e sviluppato nel titolo V della parte seconda,

caratterizzato dal disegno del decentramento amministrativo e dalla promozione delle

autonomie locali, capaci di esprimere un proprio indirizzo politico-amministrativo.

Ancora diverso è lo schema presupposto dall’art. 97 Cost., il quale contiene una riserva

di legge e mira a sottrarre l’amministrazione, regolata dalla legge, al controllo politico

del governo: un’amministrazione dunque indipendente dal governo e che si legittima

per la sua imparzialità ed efficienza. L’art. 97 Cost. pone contestualmente limiti anche al

legislatore il quale può incidere sull’amministrazione soltanto dettando regole per la

disciplina della sua organizzazione.

L’analisi dei modelli di amministrazione emergenti dal disegno costituzionale ha

consentito di rilevare come sullo sfondo sia costantemente presente la questione del

rapporto tra amministrazione, governo e politica.

Il governo, assieme al Parlamento, esprime un indirizzo qualificato dall’art. 95 Cost.

come indirizzo politico ed amministrativo; il momento amministrativo non è quindi

estraneo al governo. Per quanto poi attiene alla burocrazia, la Costituzione in nessuna

prescrizione ne vuole la “sterilizzazione politica”, né viene ostacolata l’appartenenza dei

funzionari pubblici a forze politiche antagoniste rispetto a quelle al potere.

Sussiste però l’esigenza che l’amministrazione sia leale verso la forza politica che

detiene la maggioranza parlamentare: in qualche misura, l’amministrazione deve

essere strumento di esecuzione delle direttive politiche impartite dal ministro che

assume la responsabilità degli atti del proprio dicastero.

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Ad una attenta analisi, l’attuale normativa sull’organizzazione pubblica pare

non tanto orientata nel senso di realizzare un’improbabile netta separazione tra politica

e amministrazione. Gli organi politici possono controllare e indirizzare il livello più alto

dell’amministrazione – la dirigenza – soltanto utilizzando gli strumenti quali: prefissione

di obiettivi e verifica dei risultati.

Specifico riflesso del problematico rapporto che corre tra politica, amministrazione e

diritto amministrativo è costituito dalla questione della distinzione tra atti

amministrativi e atti politici: questi ultimi sono sottratti al sindacato del giudice

amministrativo.

Quali esempi di atti politici che rivestono la forma amministrativa possono ricordarsi le

deliberazioni dei decreti legge e dei decreti legislativi; gli atti di iniziativa legislativa del

governo; la determinazione di porre la questione di fiducia; lo scioglimento dei consigli

regionali. Ci sono poi gli atti di alta amministrazione (ad es. i provvedimenti di nomina

dei direttori generali delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere)

caratterizzati da una amplissima discrezionalità , considerati l’anello di collegamento

tra indirizzo politico e attività amministrativa e soggetti alla legge ed al sindacato

giurisdizionale.

Sotto il punto di vista pratico, la distinzione tra atti di alta amministrazione e atti

amministrativi in senso stretto è però importante perché gli uni e gli altri sono

egualmente sottoposti al sindacato del giudice.

I PRINCIPI COSTITUZIONALI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

LA RESPONSABILITÀ

Il principio di responsabilità è enunciato dall’art. 28 Cost.: “I funzionari e i dipendenti

dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi

penali, civili e amministrative,

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degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si

estende allo Stato e agli enti pubblici”.

Il termine responsabilità è spesso utilizzato dalla normativa secondo un significato

differente da quello che emerge dall’art. 28 Cost., ove il costituente si riferisce alla

assoggettabilità ad una sanzione dell’autore di un illecito.

Si parla infatti sovente di “responsabile” per indicare il soggetto che deve rendere conto

del complesso dell’attività di un ufficio ad esso facente capo.

In questa direzione può anche essere letta la legge sul procedimento amministrativo, la

quale ha previsto l’istituzione della figura del responsabile del procedimento: tale figura

soddisfa piuttosto una esigenza di trasparenza e di identificabilità di un contraddittore

all’interno dell’amministrazione, nel segno del superamento del principio

dell’impersonalità dell’apparato amministrativo.

IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ

Il principio di legalità esprime l’esigenza che l’amministrazione sia assoggettata alla

legge. Siffatta definizione configge però con la circostanza che non tutta l’attività

amministrativa può essere considerata mera proiezione della legge, nel senso che

spesso residua un potere di scelta in capo all’amministrazione.

Nel nostro ordinamento giuridico convivono più concezioni del principio di legalità. In

primo luogo, esso è considerato nei termini di non contraddittorietà dell’atto

amministrativo rispetto alla legge (preferenza della legge). L’art. 4 disp. prel. cod. civ.

stabilisce che i regolamenti amministrativi “non possono contenere norme contrarie

alle disposizioni di legge”. Il principio di legalità può infatti anche richiedere qualcosa di

più rispetto alla non contraddittorietà e, cioè, l’esigenza che l’azione amministrativa

abbia uno specifico fondamento legislativo. Si tratta del principio di legalità inteso nella

sua accezione di conformità formale, nel senso che il rapporto tra legge e

amministrazione è impostato non solo sul divieto di quest’ultima di contraddire la legge,

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ma anche sul dovere della stessa di agire nelle ipotesi ed entro i limiti fissati

dalla legge che attribuisce il relativo potere.

Per quanto riguarda i provvedimenti amministrativi, al di là del principio di legalità

inteso come conformità formale esiste quello della conformità sostanziale. Con tale

nozione si intende fare riferimento alla necessità che l’amministrazione agisca non solo

entro i limiti di legge, ma altresì in conformità della disciplina sostanziale posta dalla

legge stessa, la quale incide anche sulle modalità di esercizio dell’azione e, dunque,

penetra all’interno dell’esercizio del potere.

Questa concezione si ricava dalle ipotesi in cui la Costituzione prevede una riserva di

legge (artt. 13, 23, 41, 51, 52).

Sussistono tuttavia alcune importanti differenze tra principio di legalità e riserva di

legge. Quest’ultima riguarda il rapporto tra Costituzione, legge ed amministrazione e,

imponendo la disciplina legislativa di una data materia, delimita l’esercizio del potere

normativo spettante all’esecutivo: la sua violazione comporta l’illegittimità

costituzionale della legge stessa.

Il principio di legalità, invece, attiene al rapporto tra legge ed attività complessiva della

pubblica amministrazione, dunque anche quella non normativa: il mancato rispetto del

principio determina l’illegittimità dell’azione amministrativa.

I parametri ai quali l’attività amministrativa deve fare riferimento sono più ampi della

sola legge in senso formale: ciò consente tra l’altro di spiegare perché si parli in dottrina

non solo di legalità ma altresì di legittimità, la quale consiste nella conformità del

provvedimento e dell’azione amministrativa a parametri anche diversi dalla legge,

ancorché alla stessa pur sempre collegati (norme regolamentari, statutarie e così via)..

In ragione del fatto che il potere si concretizza nel provvedimento, si comprende perché

il principio di legalità si risolva in quello di tipicità dei provvedimenti amministrativi: se

l’amministrazione può esercitare i soli poteri autoritativi attribuiti dalla legge, essa può

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emanare soltanto i provvedimenti stabiliti in modo tassativo dalla legge

stessa.

Occorre infine richiamare il principio del giusto procedimento, elaborato dalla Corte

costituzionale ed avente la dignità di principio generale dell’ordinamento: in particolare

esso esprime l’esigenza che vi sia una distinzione tra il disporre in astratto con legge ed

il provvedere in concreto con atto alla stregua della disciplina astratta.

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IL PRINCIPIO DI IMPARZIALITÀ

L’art. 97 Cost. pone espressamente due principi relativi all’amministrazione: trattasi del

principio di buon andamento dell’amministrazione e del principio di imparzialità.

Dottrina e giurisprudenza hanno affermato la natura precettiva e non semplicemente

programmatica della norma costituzionale, la quale pone una riserva di legge; è stato

così affermato l’applicabilità diretta dei due principi in esame tanto all’organizzazione

quanto all’attività amministrativa.

Per quanto concerne il concetto di imparzialità, si osserva che esso esprime il dovere

dell’amministrazione di non discriminare la posizione dei soggetti coinvolti dalla sua

azione nel perseguimento degli interessi affidati alla sua cura.

Imparzialità non significa dunque assenza di un orientamento dell’amministrazione.

Sotto questo profilo, il precetto costituzionale si rivolge sia al legislatore sia

all’amministrazione; in tal senso la norma costituzionale conterrebbe una riserva di

organizzazione in capo all’esecutivo. Applicazioni specifiche del principio sono la

posizione dei pubblici impiegati, i quali sono al servizio esclusivo della Nazione e,

dunque, non di interessi partigiani.

Il principio di imparzialità impone inoltre il criterio del pubblico concorso per l’accesso ai

pubblici uffici, inteso ad evitare la formazione di una burocrazia politicizzata e richiede

che la commissione giudicatrice sia formata prevalentemente da tecnici.

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L’azione dell’amministrazione potrebbe essere parziale anche se posta in

essere da un’organizzazione imparziale, sicché il principio va altresì riferito all’attività.

Con riferimento all’attività, il principio di imparzialità assume quindi un significato

differente da quello che riveste in ordine all’organizzazione, ove vi è l’esigenza astratta

che gli interessi siano considerati.

Occorre individuare le regole la cui osservanza garantisce la scelta imparziale in

presenza di una pluralità di interessi implicati. La parzialità ricorre quando sussiste un

ingiustificato pregiudizio o una indebita interferenza di alcuni di tali interessi.

IL PRINCIPIO DI BUON ANDAMENTO

Il principio di buon andamento impone che l’amministrazione agisca nel modo più

adeguato e conveniente possibile.

Il problema del buon andamento non deve essere confuso con quello del dovere

funzionale di buona amministrazione a carico dei pubblici dipendenti: peraltro tale

dovere non può andare al di là di ciò che alla diligenza di un amministratore di qualità

media può essere richiesto. Il buon andamento va invece riferito alla pubblica

amministrazione nel suo complesso: non al funzionario ma all’ente.

I CRITERI DI EFFICACIA, ECONOMICITÀ, EFFICIENZA E TRASPARENZA

Accanto ai principi tradizionali di buon andamento e di imparzialità, l’azione

amministrativa deve oggi attenersi ai criteri di economicità, efficacia, efficienza e

trasparenza.

Il criterio di efficienza indica la necessità di misurare il “rapporto tra il risultato

dell’azione organizzativa e la quantità di risorse impiegate per ottenere quel dato

risultato”: esso costituisce la “capacità di un’organizzazione complessa di raggiungere i

propri obiettivi attraverso la combinazione ottimale dei fattori produttivi”.

Il criterio di efficacia è invece collegato al “rapporto tra ciò che si è effettivamente

realizzato e quanto si sarebbe dovuto realizzare sulla base di un piano o programma”.

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Pertanto, efficienza ed efficacia non coincidono: un’amministrazione che

possa utilizzare pochissimi mezzi potrebbe essere efficiente ma non efficace, così come

un’attività efficace (perché raggiunge gli obiettivi prefissi) non necessariamente è

efficiente.

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Il criterio di trasparenza può essere riferito sia all’attività che all’organizzazione e,

dunque, alla duplice declinazione del termine amministrazione. Al concetto di

trasparenza in senso ampio, possono essere ricondotti molteplici istituti tra i quali il

diritto di accesso, la pubblicità degli atti, la motivazione, la univoca definizione delle

competenze, l’istituzione degli uffici di relazione con il pubblico, il responsabile del

procedimento e, più in generale, le attività di informazione e di comunicazione delle

amministrazioni.

Il principio del buon andamento, ed in particolare la tensione verso l’efficientismo che

esso evoca, non è sempre facilmente compatibile con l’ottica della legalità. Il conflitto è

destinato a proporsi con crescente intensità nell’attuale momento storico,

caratterizzato dall’introduzione, a livello normativo, di istituti legati ai valori

dell’efficienza e dell’efficacia.

L’amministrazione non può comunque essere identificata con una organizzazione che

deve essere responsabilizzata soltanto sui risultati: la presenza di interessi generali da

curare e l’utilizzo di risorse pubbliche non lo consentono.

I PRINCIPI DI AZIONABILITÀ DELLE SITUAZIONI GIURIDICHE DEI CITTADINI NEI

CONFRONTI DELLA P. A. E DI SINDACABILITÀ DEGLI ATTI AMMINISTRATIVI. IL

PROBLEMA DELLA RISERVA DI

AMMINISTRAZIONE

L’art. 24 Cost. stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti

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e interessi legittimi”.

La disciplina di cui all’art. 113 Cost. esprime l’esigenza che ogni atto della pubblica

amministrazione possa essere oggetto di sindacato da parte di un giudice e che tale

sindacato attenga a qualsiasi tipo di vizio di legittimità: si tratta del principio di

azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti dell’amministrazione e

del principio di sindacabilità degli atti amministrativi.

La circostanza che si parli di atti della “pubblica amministrazione” spiega la

sindacabilità anche degli atti regolamentari che non hanno i caratteri tradizionali degli

atti amministrativi (puntualità e concretezza).

Giova notare che, secondo la Corte costituzionale, la norma in esame non impedisce

l’emanazione delle c.d. leggi provvedimento (si tratta di leggi che hanno contenuto

puntuale e concreto alla stessa stregua dei provvedimenti amministrativi), purché sia

rispettato il canone di ragionevolezza. L’adozione di tali leggi determina, però,

l’impossibilità per il cittadino di ottenere la tutela giurisdizionale delle proprie situazioni

giuridiche davanti al giudice amministrativo ovvero al giudice ordinario, potendo la

legge provvedimento essere sindacata soltanto dalla Corte costituzionale, alla quale

tuttavia, come noto, non è possibile proporre direttamente ricorso da parte dei soggetti

privati lesi.

A questo proposito emerge il problema della riserva di amministrazione: ci si deve cioè

chiedere se esista un ambito di attività riservato alla pubblica amministrazione.

Di riserva dell’amministrazione potrebbe in primo luogo parlarsi nei confronti della

funzione giurisdizionale: in questo senso esiste un ambito sottratto al sindacato dei

giudici, ordinari e amministrativi, costituito dal merito. In taluni casi, però, l’ordinamento

dispone il superamento di tale riserva, prevedendo che il giudice amministrativo abbia

giurisdizione di merito, la quale consente di sindacare l’opportunità delle scelte

amministrative.

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Un caso diverso di riserva a favore dell’amministrazione, relativo però

all’esercizio della funzione regolamentare, pare emergere dall’art. 117 Cost., che

riconosce la potestà regolamentare regionale in ogni materia diversa da quelle di

competenza statale (così escludendo che in tale ambito possa intervenire la legge

statale) e la potestà regolamentare di comuni, province e città metropolitane “in ordine

alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.

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IL PRINCIPIO DELLA FINALIZZAZIONE DELLA P. A. AGLI INTERESSI

PUBBLICI

Dall’esame dell’art. 97 Cost. già emerge il principio di finalizzazione

dell’amministrazione pubblica: il buon andamento significa congruità dell’azione in

relazione all’interesse pubblico; l’imparzialità, direttamente applicabile all’attività

amministrativa, postula l’esistenza di un soggetto “parte” il quale è tale in quanto

persegue finalità collettive che l’ordinamento generale ha attribuito alla sua cura.

I PRINCIPI DI SUSSIDIARIETÀ, DIFFERENZIAZIONE E ADEGUATEZZA

Un ulteriore principio dell’ordinamento dettato con riferimento all’allocazione delle

funzioni amministrative è il principio di sussidiarietà, inteso nel senso di attribuzione di

funzioni al livello superiore di governo esercitabili soltanto nelle ipotesi in cui il livello

inferiore non riesca a curare gli interessi ad esso affidati.

Esso è stato dapprima previsto a livello comunitario, anche se in passato vi era chi

sosteneva che l’art. 5 Cost., pur non nominandolo, lo sottendesse, sicché sarebbe

dovuta risultare esclusa ogni indebita intromissione da parte di un potere pubblico

superiore all’interno di ogni capacità riconosciuta ai vari soggetti.

Invero, l’articolo ora citato riguarda il decentramento, figura che è riferibile in generale

a tutti i poteri decisori e che implica la necessità che tali poteri non siano tutti racchiusi

e conferiti in un “centro”.
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Il decentramento è un fenomeno organizzativo che può assumere varie

forme: il decentramento burocratico implicherebbe la responsabilità esclusiva degli

organi locali nelle materie di propria competenza e l’assenza di un rapporto di rigida

subordinazione con il centro: in realtà, nel nostro ordinamento per molto tempo gli

organi locali dello stato continuano ad essere legati a quelli centrali da rapporti di

subordinazione, il che frustra l’esigenza di avvicinare il momento della decisione agli

interessi locali ed ai cittadini.

Di conseguenza, parte della dottrina ritiene che in molti casi la presenza di organi statali

realizzi, o abbia realizzato, al più, un fenomeno di deconcentrazione.

Il decentramento autarchico può essere previsto a favore di enti locali, consentendo

così che la cura di interessi locali sia affidata a enti esponenziali di collettività locali,

ovvero a favore di altri enti.

Il principio di sussidiarietà gioca un ruolo fondamentale soprattutto nel quadro dei

rapporti regione-enti locali: esso è infatti annoverato dall’art. 4 della l. n. 59/1997 tra i

principi e i criteri direttivi cui deve attenersi la regione nel conferimento a province,

comuni ed enti locali delle funzioni che non richiedano l’unitario esercizio a livello

regionale.

Il principio di sussidiarietà può essere inteso in senso non solo verticale (relativamente

cioè alla distribuzione delle competenze tra centro e periferia), ma anche orizzontale

(nei rapporti tra poteri pubblici e organizzazioni della società).

L’art. 3 della stessa legge, in particolare, prevede la possibilità che gli enti locali

svolgano le proprie funzioni anche attraverso le attività che possono essere

“adeguatamente esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro

formazioni sociali”: il cittadino, da mero amministrato, viene dunque considerato come

promotore della vita politico-amministrativa.

La l. cost. 3/2001 ha costituzionalizzato il principio di sussidiarietà nelle sue accezioni

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verticale ed orizzontale all’art. 118, assieme ai principi di differenziazione e

adeguatezza.

PRINCIPI COST. APPLICABILI ALLA P. A.: EGUAGLIANZA, SOLIDARIETÀ,

DEMOCRAZIA

All’amministrazione, come agli altri soggetti pubblici, si applicano senz’altro i principi di

eguaglianza (art. 3 Cost.) e di solidarietà (art. 2 Cost.). Pure altri principi, comunque,

possono ad

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essa venire estesi. L’art. 52 Cost. stabilisce che l’ordinamento delle forze armate deve

essere “informato” allo spirito democratico della Repubblica.

Se il principio democratico informa l’ordinamento militare, esso, a maggior ragione,

deve essere riferibile al,l’amministrazione nel suo complesso: di conseguenza,

democratica deve essere anche l’azione amministrativa la quale, a sua volta, deve

concorrere alla realizzazione di una società più democratica, rimuovendo ad esempio

gli ostacoli che impediscono la piena eguaglianza dei cittadini. Il principio democratico,

nel suo significato più ampio, indica il governo della maggioranza nel rispetto dei diritti

delle minoranze.

L’AMMINISTRAZIONE NELLA COSTITUZIONE COME “POTERE DELLO

STATO”

Il principio tradizionale della separazione dei poteri (Montesquieu) postulava che le tre

funzioni, legislativa, esecutiva e giudiziaria, fossero distribuite tra poteri distinti. Si deve

notare come la situazione attuale sia profondamente mutata rispetto all’epoca in cui

venne elaborato il principio. In primo luogo sono stati riconosciuti altri poteri accanto ai

tre tradizionali.

In secondo luogo, mentre la funzione giurisdizionale è soltanto statale, quella

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amministrativa e quella legislativa sono distribuite tra altri soggetti.

Tra i vari poteri pubblici dell’ordinamento possono sorgere conflitti, nel senso che può

venire in discussione la spettanza di una o più potestà a uno o più di tali soggetti.

Il conflitto si dice “positivo” nell’ipotesi in cui autorità diverse affermino la titolarità della

medesima potestà; “negativo” se l’autorità invitata a esercitare una potestà neghi di

esserne titolare; “reale” quando la situazione di conflitto è potenziale, ossia non si è

ancora verificata, ma sussiste la possibilità che ciò accada, ad esempio in presenza

della pronuncia di una sola autorità.

In verità, la possibilità di conflitti si profila non soltanto nell’ipotesi di contestazioni tra

soggetti distinti dell’ordinamento ed aventi una sfera di competenza

costituzionalmente riservata – in tal caso si parla di conflitti di attribuzione – ma anche

in altri casi.

I conflitti possono sorgere, infatti, tra organi appartenenti a diversi ordini giurisdizionali e

si parlerà di conflitti di “giurisdizione” (ossia quando è dubbio se una data controversia

debba essere decisa dal giudice amministrativo o da quello ordinario); oppure tra

organi appartenenti allo stesso potere inteso come complesso organizzatorio e si

parlerà allora di conflitti di “competenza” (che possono essere “amministrativi”

quando il conflitto sorge tra più organi della stessa amministrazione, o “giurisdizionali”

quando il conflitto sorge tra più giudici dello stesso ordine e grado).

La Costituzione si occupa soltanto dei conflitti di attribuzione, affidando alla Corte

costituzionale il compito di risolverli (art. 134 Cost.).

15

CAPITOLO 3 - L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA: PROFILI

GENERALI

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I SOGGETTI DI DIRITTO NEL DIRITTO AMMINISTRATIVO:

GLI ENTI PUBBLICI

Ciascun ordinamento si preoccupa di individuare i soggetti che ne fanno parte. I

soggetti di diritto pubblico costituiscono nel loro complesso l’amministrazione in senso

soggettivo, che si articola nei vari enti pubblici.

Accanto all’amministrazione statale, vi sono le amministrazioni regionali nonché gli enti

esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti dall’ordinamento generale in quanto

portatori di interessi pubblici.

A sua volta, l’amministrazione statale (e il discorso vale anche per quella regionale e

locale) si articola in una serie di enti variamente collegati alla prima, ma da questa

distinti in quanto provvisti di propria personalità.

IL PROBLEMA DEI CARATTERI DELL’ENTE PUBBLICO

L’art. 97 Cost. stabilisce il principio generale secondo cui “i pubblici uffici sono

organizzazioni secondo disposizioni di legge”.

Oggi molti enti (consorzi, aziende speciali e così via) continuano comunque ad essere

istituiti da altri enti pubblici con determinazioni amministrative “sulla base di legge” e

non “per legge”: pertanto, si distingue in dottrina tra configurazione astratta e istituzione

concreta dell’ente. La complessa questione dell’individuazione degli enti pubblici, assai

dibattuta in dottrina, è stata risolta dalla giurisprudenza utilizzando una serie di indici

“esteriori”, nessuno dei quali è di per sé ritenuto sufficiente, ma che invece sono

considerati idonei ove considerati nel loro complesso. Tra questi indici di pubblicità si

ricordano: la costituzione dell’ente ad opera di un soggetto pubblico; la nomina degli

organi direttivi in tutto o in parte di competenza dello Stato o di altro ente pubblico;

l’esistenza di controlli o di finanziamenti pubblici; l’attribuzione di poteri autoritativi.

LA DEFINIZIONE DI ENTE PUBBLICO E LE CONSEGUENZE DELLA

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PUBBLICITÀ

Gli indici esteriori rilevatori della pubblicità, però, non sembrano idonei a consentire

l’individuazione dell’elemento essenziale della pubblicità di una persona giuridica.

Tale elemento va ricercato considerando la particolare rilevanza pubblicistica

dell’interesse perseguito dall’ente.

L’interesse è pubblico in quanto la legge, accertato che esso ha una dimensione

collettiva, l’abbia imputato ad una persona giuridica, tenuta giuridicamente a

perseguirlo: di qui il riconoscimento della “pubblicità” di quella persona giuridica.

È pur vero che molti soggetti privati perseguono anche finalità che potremmo

considerare collettive. In queste ipotesi, tuttavia, manca quel giudizio sulla rilevanza

dell’interesse che comporta la sua imputazione da parte dell’ordinamento all’ente, da

cui consegue la doverosità del suo perseguimento.

Ciò determina il fenomeno per cui l’ente pubblico non può disporre della propria

esistenza, a differenza dei soggetti privati, che possono decidere di “ritirarsi” e cioè

dimettere l’attività. Si noti

16

peraltro che l’indisponibilità della propria esistenza è soltanto una conseguenza, per

quanto assai rilevante, della doverosità del perseguimento dell’interesse pubblico.

Spesso non è semplice individuare l’imputazione legislativa cui si è fatto cenno: si

ritiene che possano soccorrere alcuni elementi rivelatori, tra i quali è particolarmente

importante l’utilizzo di denaro pubblico da parte dell’ente.

Talora l’ordinamento considera di pubblico interesse la presenza necessaria di un

soggetto sul mercato, sicché il pubblico interesse è individuato nel fatto che tale

soggetto svolga attività economiche. Vengono così istituiti gli enti pubblici economici a

cui non vengono riconosciuti poteri autoritativi.

La qualificazione di un ente come pubblico è importante perché comporta conseguenze

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giuridiche di rilievo:

a) soltanto gli enti pubblici possono emanare provvedimenti che hanno efficacia sul

piano dell’ordinamento generale alla stessa stregua dei provvedimenti dello

Stato, impugnabili davanti al giudice amministrativo.

Al fine di comprendere il significato di questa potestà occorre muovere

dall’esame del concetto di autonomia. La legge può attribuire agli enti

l’autonomia finanziaria (possibilità di decidere in ordine alle spese e di disporre di

entrate autonome), quella organizzativa (possibilità di darsi un assetto

organizzativo diverso rispetto a modelli generali), l’autonomia tributaria

(possibilità di disporre di propri tributi) o quella contabile (potestà di derogare al

normale procedimento previsto per l’erogazione di spese e l’introito di entrate).

b) Soltanto agli enti pubblici è riconosciuta la potestà di autotutela. L’ordinamento

attribuisce cioè a tali enti la possibilità di risolvere un conflitto attuale o

potenziale di interessi e, in particolare, di sindacare la validità dei propri atti

producendo effetti incidenti su di essi.

c) Le persone fisiche legate da un rapporto di servizio agli enti pubblici sono

assoggettate ad un particolare regime di responsabilità penale, civile e

amministrativa.

d) Gli enti pubblici sono tenuti al rispetto dei principi alla pubblica amministrazione;

alcuni loro beni sono assoggettati ad un regime speciale.

e) L’attività che costituisce esercizio di poteri amministrativi è di regola retta da

norme peculiari. Anche l’attività che gli enti svolgono utilizzando gli strumenti del

diritto comune è disciplinata da regole specifiche volte in particolare ad

assicurare che la scelta del contraente sia effettuata nel rispetto dei principi di

imparzialità e di economicità.

f) Gli enti pubblici possono utilizzare procedure privilegiate per la riscossione delle

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entrate patrimoniali dello Stato.

g) Gli enti pubblici sono soggetti a particolare rapporti o relazioni (con lo Stato, la

regione o il comune, a seconda dei casi), la cui intensità varia in ragione

dell’autonomia dell’ente.

IL PROBLEMA DELLA CLASSIFICAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI Gli

enti possono essere suddivisi in gruppi.

1. enti associativi, nei quali i soggetti facenti parte del corpo sociale sottostante

determinano direttamente o a mezzo di rappresentanti eletti o delegati le

decisioni fondamentali dell’ente. In essi si verifica quindi il fenomeno della

autoamministrazione. Questi enti sono caratterizzati dalla presenza di

un’assemblea avente soprattutto compiti deliberanti;

2. enti a struttura rappresentativa, nei quali i “soggetti interessati determinano la

nomina della maggioranza degli amministratori non direttamente, ma attraverso

le proprie organizzazioni”;

3. enti a struttura istituzionale, nei quali la nomina degli amministratori è

determinata da soggetti estranei all’ente: ciò presuppone la destinazione di un

patrimonio alla soddisfazione di un interesse; la prevalenza dell’elemento

patrimoniale spiega l’ampia gamma di controlli cui questi enti sono

tradizionalmente sottoposti.

Le classificazioni più importanti sono peraltro indubbiamente quelle operate dal

legislatore. La Costituzione contempla all’art. 5 gli enti autonomi (“autonomie locali”) e,

ai fini della

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sottoposizione al controllo della Corte dei conti, all’art. 100 Cost. quella degli enti a cui lo

Stato contribuisce in via ordinaria.

La legge ha di recente introdotto la categoria delle autonomie funzionali, o enti locali

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funzionali, per indicare quegli enti – università, camere di commercio, ecc. –

ai quali possono essere conferiti funzioni e compiti statali.

Un’altra categoria di enti pubblici è costituita dagli enti pubblici economici e dagli enti

statali non economici (c.d. parastatali).

Un’ulteriore e importante categoria di enti è costituita dagli enti territoriali: comuni,

province, città metropolitane, regioni e Stato.

L’ente è politicamente rappresentativo del gruppo stanziato sul territorio e opera quindi

tendenzialmente nell’interesse di tutto il gruppo. Ma soltanto gli enti territoriali possono

essere titolari di beni demaniali, posti al servizio di tutta la collettività.

Quanto esposto consente anche di precisare quale sia la rilevanza del territorio per gli

enti non territoriali: esso al più costituisce un criterio di delimitazione della loro sfera

d’azione e di competenza, non un decisivo criterio di appartenenza per i soggetti.

A conferma del carattere di atipicità degli enti pubblici, è molto frequente la tendenza

ad introdurre regimi di diritto speciale: ad es., la legislazione più recente ha istituito una

serie di enti pubblici denominati “agenzie”, direttamente disciplinate dalla legge

istitutiva.

RELAZIONI E RAPPORTI INTERSOGGETTIVI E FORME ASSOCIATIVE

Al fine di indicare la posizione reciproca tra enti, la dottrina ha spesso utilizzato concetti

quali la strumentalità e la dipendenza.

Nella strumentalità strutturale e organizzativa di un ente nei confronti di un altro ente,

stabilita dalla legge, il primo viene a rivestire una posizione sotto alcuni aspetti simile a

quella di un organo. Questa situazione implica che l’ente “principale” disponga di una

serie di poteri di ingerenza nei confronti dell’ente subordinato.

Un secondo tipo di relazione intersoggettiva comprende enti dotati di una posizione di

maggior autonomia: si tratta di enti che svolgono un’attività che si presenta come

rilevante per un altro ente pubblico territoriale, in particolare per lo Stato.

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La dipendenza e la strumentalità hanno dunque natura funzionale, anche se

esse comportano l’assoggettamento dell’ente ad una serie di controlli e di

condizionamenti dell’attività. Sono poi individuabili enti che non si pongono in relazione

di strumentalità con lo Stato o con altro ente pubblico.

Ma il concreto contenuto di queste relazioni varia da caso a caso, dipendendo dal tipo

di poteri che lo Stato (o l’ente territoriale in posizione di supremazia) può esercitare nei

confronti dell’ente. Ricordiamo, in particolare, i poteri di vigilanza e di direzione.

La vigilanza era tradizionalmente considerata una figura di controlli di legittimità di un

soggetto sugli atti di un altro, distinguendosi in ciò dalla tutela, che attiene ai controlli di

merito. Invero, il suo contenuto si estrinseca anche nell’adozione di una serie di atti,

quali l’approvazione dei bilanci e delle delibere particolarmente importanti dell’ente

vigilato, nella nomina di commissari straordinari, nello scioglimento degli organi

dell’ente. Ciò indica che tra vigilanza e potere di controllo vi è differenza, perché la

vigilanza si esplica anche mediante attività di amministrazione attiva.

La direzione è caratterizzata da una situazione di sovraordinazione tra enti che implica

il rispetto, da parte dell’ente sovraordinata, di un ambito di autonomia dell’ente

subordinato. In particolare, la direzione si estrinseca in una serie di atti – le direttive –

che determinano l’indirizzo dell’ente. Dalle relazioni stabili e continuative occorre tenere

distinti i rapporti che di volta in volta possono instaurarsi tra enti. Si tratta

dell’avvalimento e della sostituzione.

L’avvalimento non comporta trasferimenti di funzioni ed è caratterizzato dall’utilizzo da

parte di un ente degli uffici di altro ente.

Tali uffici svolgono attività di tipo ausiliario, ad esempio preparatoria ed esecutiva, che

rimane imputata all’ente titolare della funzione, senza che si determini alcuna deroga

all’ordine delle competenze, trattandosi di una vicenda di tecnica organizzativa.

Con il termine sostituzione si indica in generale l’istituto mediante il quale un soggetto

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(sostituto) è legittimato a far valere un diritto, un obbligo o un’attribuzione

che rientrano nella sfera di

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competenza di un altro soggetto (sostituito), operando in nome proprio e sotto la

propria responsabilità.

L’ordinamento disciplina il potere sostitutivo tra enti nei casi in cui un soggetto non

ponga in essere un atto obbligatorio per legge o non eserciti le funzioni amministrative

ad esso conferite, e la giurisprudenza sottolinea che il legittimo esercizio del potere di

sostituzione richiede la previa diffida.

Il potere sostitutivo in caso di inerzia può essere esercitato direttamente da un organo

dell’ente sostituto, ovvero da un commissario nominato dall’ente sostituto.

L’art. 5 del d. lgs. 112/1998 disciplina i poteri sostitutivi dello Stato in caso di accertata

inattività delle regioni e degli enti locali che comporti inadempimento agli obblighi

derivanti dall’appartenenza all’Unione europea o pericolo di grave pregiudizio agli

interessi nazionali. Occorre ancora far cenno alla delega di funzioni amministrative,

figura che ricorre nei rapporti tra Stato e regioni e tra regioni ed enti locali. Queste

deleghe sono operate con legge: si tratta quindi di un atto di organizzazione dei pubblici

uffici in attuazione dell’art. 97 Cost., comportante uno stabile trasferimento della

titolarità dei poteri.

La delega di funzioni dallo Stato alle regioni e dalle regioni agli enti locali ha subito un

notevole impulso ad opera della l. 59/1997. la recente riforma di cui alla l. cost. 3/2001,

sostituendo l’art. 118 Cost., ha costituzionalizzato l’istituto del “conferimento” di funzioni

amministrative ai vari livelli di governo locale sulla base dei “principi di sussidiarietà,

differenziazione ed adeguatezza”.

È ora necessario analizzare alcune forme associative, tradizionalmente distinte in

federazioni e consorzi, che possono essere costituite tra enti. Le federazioni di enti

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svolgono attività di coordinamento e di indirizzo dell’attività degli enti

federati, nonché attività di rappresentanza degli stessi. Esse non si sostituiscono

tuttavia mai agli enti federati nello svolgimento di compiti loro propri (Aci, Coni, Anci,

ecc.).

I consorzi costituiscono una struttura stabile volta alla realizzazione di finalità comuni a

più soggetti. Essi agiscono nel rispetto di alcuni limiti derivanti dall’ esercizio del potere

direttivo e di controllo spettante ai consorziati. I consorzi sono obbligatori quando un

rilevante interesse pubblico ne imponga la necessaria presenza.

Nell’ambito delle forme associative tra enti, debbono altresì essere ricordate le unioni di

comuni di cui all’art. 32 del T.U. degli enti locali.

LA DISCIPLINA COMUNITARIA: GLI ORGANISMI DI DIRITTO PUBBLICO

L’ordinamento comunitario riserva all’amministrazione degli Stati membri una

peculiare disciplina in vista della tutela della concorrenza e dei mercati.

L’amministrazione pubblica condiziona il gioco della concorrenza soprattutto sotto una

duplice prospettiva: in quanto soggetto che, a mezzo di proprie imprese, presta servizi e

produce beni in un regime particolare; e in quanto operatore che detiene una quota di

domanda di beni e servizi assai rilevante.

Con riguardo alla prima prospettiva, i problemi principali sono l’individuazione della

nozione di impresa pubblica e la disciplina degli aiuti e dei finanziamenti pubblici.

La direttiva 80/273 della Commissione definisce le “imprese pubbliche” come le

imprese nei confronti delle quali i pubblici poteri possono esercitare, direttamente o

indirettamente, un’influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione

finanziaria o della normativa che le disciplina. Con riguardo alla seconda prospettiva, la

questione può essere così riassunta: l’amministrazione, al fine di soddisfare esigenze

collettive, non avendo mezzi e organizzazioni sufficienti, deve sovente ricercare

contraenti sul mercato per affidare loro la realizzazione di opere o per richiedere

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prestazioni e beni di valore economico complessivo rilevantissimo.

L’amministrazione costituisce quindi un soggetto economico potenzialmente assai

pericoloso nei confronti di una corretta concorrenza sui mercati e del rispetto della

parità degli operatori interessati.

Le condizioni di concorrenza sono allora create artificialmente in virtù dell’imposizione

di una serie di regole, quali la non discriminazione, l’indizione delle gare, la trasparenza

delle operazioni

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concorsuali e così via, la cui finalità preminente pare volta a garantire l’interesse

concorrenziale dei potenziali contraenti, laddove nell’ordinamento nazionale sembra

dominare l’interesse che sia operata la scelta del migliore soggetto in vista della finalità

pubblica da soddisfare. Altra nozione di rilievo introdotta dal diritto comunitario è quella

di organismo di diritto pubblico. Si tratta di organismi:

∙ istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere

non industriale o commerciale;

∙ aventi personalità giuridica;

∙ la cui attività è finalizzata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da

altri organismi di diritto pubblico.

Le tre condizioni hanno carattere cumulativo.

LE FIGURE DI INCERTA QUALIFICAZIONE: LE S.p.A. A

PARTECIPAZIONE PUBBLICA

Le società a partecipazione pubblica sono soggette ad una disciplina particolare: l’art.

2458 c.c. prevede la possibilità per lo Stato (o altro ente pubblico) che abbia

partecipazioni azionarie di nominare amministratori o sindaci, nonché di revocarli.

In ordine alle società per azioni con partecipazione pubblica degli enti locali, oggi il T.U.,

come modificato dall’art. 35 della l. 448/2001, consente che i servizi pubblici locali privi
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di rilevanza industriale siano gestiti mediante affidamento diretto a “società

di capitali costituite o partecipate dagli enti locali, regolate dal codice civile”.

L’art. 120 del T.U. enti locali, ammette che comuni e città metropolitane, anche con la

partecipazione della provincia e della regione, possano costituire società per azioni “per

progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana”.

Tali società sono soggetti privati nei limiti in cui possano disporre della propria

esistenza e del proprio oggetto.

VICENDE DEGLI ENTI PUBLBICI

La costituzione degli enti pubblici può avvenire per legge o per atto amministrativo

sulla base di una legge, anche se in molti casi la legge si è limitata a riconoscere come

enti pubblici organizzazioni nate per iniziativa privata.

In ordine all’estinzione degli enti pubblici, deve innanzitutto osservarsi che essa può

aprire una vicenda di tipo successorio (a titolo universale o a titolo particolare: nel

primo caso occorre l’integrale devoluzione al nuovo ente degli scopi pubblici dell’ente

soppresso), normalmente disciplinata direttamente dalla legge. L’estinzione può essere

prodotta dalla legge o da un atto amministrativo basato sulla legge.

Quanto alle modificazioni degli enti pubblici, si possono ricordare il mutamento degli

scopi, le modifiche del territorio degli enti territoriali, le modificazioni delle attribuzioni.

Anche il riordino degli enti pubblici può comportare l’estinzione degli stessi o la loro

trasformazione in persone giuridiche private.

LA PRIVATIZZAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI

La scelta di privatizzare gli enti pubblici è sostenuta da una pluralità di ragioni. In

particolare, quando tale vicenda comporti la trasformazione dell’ente in società per

azioni, questa è in grado di reperire capitale di rischio sul mercato ed ha una snellezza

d’azione maggiore. La privatizzazione, inoltre, è stata introdotta anche ai fini della

riduzione dell’indebitamento finanziario.


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Più in generale, la privatizzazione che non sia soltanto formale (mera trasformazione

dell’ente in persona giuridica privata) comporta che il potere pubblico rinunzi ad essere

imprenditore e, quindi, incide profondamente sul modello di intervento pubblico

nell’economia.

Le tappe fondamentali della privatizzazione possono essere riassunte nei termini

seguenti. In primo luogo, l’ente pubblico economico viene trasformato in società per

azioni (privatizzazione c.d. “formale”) con capitale interamente posseduto dallo Stato;

successivamente si procede alla dismissione della quota pubblica (privatizzazione c.d.

“sostanziale”).

Si possono avere tre possibili modalità di alienazione delle azioni: offerta pubblica di

vendita, cessione delle azioni mediante trattative dirette con i potenziali acquirenti,

ricorso ad entrambe le procedure.

I PRINCIPI IN TEMA DI ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI

Per realizzare i propri fini, l’amministrazione ha bisogno di un insieme di strutture e di

mezzi personali. Al riguardo è stato osservato che l’art. 97 Cost. può essere letto come

norma di ripartizione della funzione di indirizzo politico tra governo e parlamento:

poiché l’attività di organizzazione è espressione di quella di indirizzo, si desume la

sussistenza di una riserva di organizzazione in capo all’esecutivo, il quale può così

modellare le proprie strutture in ragione delle esigenze spesso mutevoli che si trova a

dover affrontare.

L’art. 97 si riferisce all’amministrazione statale. Va però richiamata l’interpretazione che

ammette l’applicabilità dei principi desumibili dall’art. 97 Cost. all’amministrazione nel

suo complesso. Da ultimo, l’art. 117 prevede che comuni, province e città metropolitane

abbiano “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello

svolgimento delle funzioni loro attribuite”. In questo caso, a differenza di quanto accade

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per lo Stato, vi è dunque un riconoscimento costituzionale della riserva di

organizzazione.

Accanto alle norme giuridiche di organizzazione debbono poi essere ricordati gli atti di

organizzazione non aventi carattere normativo, quali gli atti di istituzione di enti, di

organi o di uffici o costitutivi di consorzi.

L’attività di organizzazione si svolge dunque su molteplici livelli: la legge, gli atti

amministrativi di organizzazione e le concrete “determinazioni” assunte dalle singole

amministrazioni nel rispetto delle leggi e degli atti organizzativi. Si aggiunga che alcuni

profili attinenti in generale all’organizzazione (e più in particolare al rapporto di lavoro)

sono rimessi anche alla contrattazione collettiva.

L’ORGANO

Problema essenziale delle organizzazioni è quello della riferibilità ad esse di situazioni

giuridiche e di rapporti giuridici. Le prime elaborazioni teoriche attribuivano la

personalità giuridica soltanto allo Stato, mentre in seguito si riconobbero altre

soggettività.

Atteso che le persone giuridiche costituiscono una creazione del diritto e, dunque, sono

naturalmente incapaci di agire, si trattava di spiegare come invece esse potessero

agire. Le principali soluzioni prospettabili erano due: ricorrere all’istituto della

rappresentanza, alla stessa stregua di quella necessaria disposta per le persone fisiche

incapaci di agire, ovvero utilizzare la figura dell’organo.

Attraverso l’organo la persona giuridica agisce e l’azione svolta dall’organo si considera

posta in essere dall’ente.

Di conseguenza, la capacità giuridica spetta all’ente, che è centro di imputazione di

effetti e fattispecie, laddove sul piano naturalistico occorre pur sempre l’opera

dell’uomo preposto all’organo. Pare allora corretto riferire la capacità di agire soltanto

all’organo e ritenere l’ente mero centro di imputazione di effetti e di attività: più

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esattamente, la persona fisica consente tale imputazione in capo all’ente.

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L’organo è dunque uno strumento di imputazione e, cioè, l’elemento dell’ente che

consente all’ente stesso di rapportarsi con altri soggetti giuridici o comunque di

produrre effetti giuridici preordinati all’emanazione di atti aventi rilevanza esterna.

Più in particolare, l’organo va identificato nella persona fisica o nel collegio in quanto

investito della competenza attribuita dall’ordinamento.

Per fare qualche esempio, il provvedimento adottato dal sindaco è provvedimento del

comune; il bando emanato dal dirigente statale è atto statale.

Posto che i poteri vengono attribuiti soltanto all’ente avente la soggettività giuridica, e

che esso si avvale di più organi, ognuno di essi, pur senza esserne titolari, esercita una

quota di quei poteri, detta competenza.

La competenza è ripartita secondo svariati criteri: per materia, per valore, per grado o

per territorio. Essa va tenuta distinta dall’attribuzione, espressione che sarà impiegata

per indicare la sfera di poteri che l’ordinamento generale conferisce ad ogni ente

pubblico. L’attribuzione è di norma collegata con la personalità giuridica dell’ente.

L’IMPUTAZIONE DI FATTISPECIE IN CAPO AGLI ENTI DA PARTE DI

SOGGETTI ESTRANEI

Molteplici sono le ipotesi nelle quali attività pubbliche vengono esercitate da soggetti

privati: si pensi alle funzioni certificative spettanti al notaio, alla possibilità che

concessionari emanino atti amministrativi o eroghino servizi pubblici, alla potestà

spettante ai cittadini di procedere all’arresto in caso di flagranza di reato, al potere

degli interessati di produrre dichiarazioni sostitutive di certificazioni, alla possibilità di

affidare a terzi la riscossione dei tributi.

Il privato può agire direttamente in base alla legge, ovvero in forza di un atto della

pubblica amministrazione. Egli riceve spesso un compenso da parte dell’ente pubblico


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oppure degli utenti che fruiscono della sua attività. L’attività si configura nei

confronti dei terzi come pubblicistica, alla stessa stregua di quella che avrebbe posto in

essere l’ente pubblico sostituito.

CLASSIFICAZIONE DEGLI ORGANI

Circa gli organi, sono state prospettate varie distinzioni.

Sono esterni gli organi competenti ad emanare provvedimenti o atti aventi rilevanza

esterna (i dirigenti, in particolare, adottano gli atti che “impegnano l’amministrazione

verso l’esterno). Gli organi procedimentali (o organi interni) sono quelli competenti ad

emanare atti aventi rilevanza endoprocessuale.

Organi centrali sono quelli che estendono la propria competenza all’intero spettro

dell’attività dell’ente; gli organi periferici, viceversa, hanno competenza limitata ad un

particolare ambito di attività, di norma individuabile secondo un criterio geografico.

Gli organi ordinari sono previsti nel normale disegno organizzativo dell’ente; gli organi

straordinari operano invece in sostituzione degli organi ordinari (in genere essi sono

denominati “commissari”).

Gli organi permanenti sono stabili; gli organi temporanei svolgono funzioni solo per un

limitato periodo di tempo (si pensi alle commissioni di concorso).

Gli organi attivi sono competenti a formare ed eseguire la volontà dell’amministrazione

in vista del conseguimento dei fini ad essa affidati; gli organi consultivi rendono pareri;

gli organi di controllo sindacano l’attività posta in essere dagli organi attivi.

La distinzione rispecchia quella tra attività amministrativa attiva (che ha la finalità di

curare gli interessi pubblici), attività consultiva (mediante la quale vengono espressi

pareri) e attività di controllo (la cui finalità è quella di verificare l’attività amministrativa

attiva alla luce di un parametro prefissato).

Gli organi rappresentativi sono quelli i cui componenti, a differenza degli organi non

rappresentativi, vengono designati o eletti dalla collettività che costituisce il sostrato

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dell’ente.

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Tipico esempio di organo rappresentativo è il sindaco; organo non rappresentativo è

invece il prefetto.

Vi sono poi organi con legale rappresentanza, un particolare tipo di organo esterno che

esprime la volontà dell’ente nei rapporti contrattuali con i terzi e che, avendo la

capacità processuale, conferisce la procura alle liti per agire o resistere in giudizio (ad

es. il sindaco e il presidente della provincia).

Da quanto detto emerge che la personalità giuridica spetta solo all’ente; alcuni organi,

tuttavia, per espressa volontà di legge, sono anche dotati di personalità giuridica (e

sono pertanto detti organi con personalità giuridica od organi-enti – si pensi all’ISTAT).

Sono organi monocratici quelli il cui titolare è una sola persona fisica; negli organi

collegiali si ha la con titolarità di più persone fisiche considerate nel loro insieme.

Per capire il funzionamento degli organi collegiali, occorre distinguere tra quorum

strutturale e quorum funzionale. Il primo indica il numero di membri che debbono

essere presenti affinché il collegio sia legittimamente costituito (di solito si tratta della

metà più uno dei componenti). Il quorum funzionale indica il numero di membri presenti

che debbono esprimersi favorevolmente sulla proposta affinché questa si trasformi in

deliberazione.

La deliberazione si perfeziona con la proclamazione fatta dal presidente: le sedute

vengono documentate attraverso processi verbali redatti dal segretario e servono ad

esternare la deliberazione adottata.

RELAZIONI INTERORGANICHE. MODELLI TEORICI:

GERARCHIA,DIREZIONE, COORDINAMENTO

Tra gli organi di una persona giuridica pubblica possono instaurarsi relazioni

disciplinate dal diritto, le quali hanno carattere di stabilità e riflettono la posizione


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reciproca di essi nell’ambito della organizzazione.

La gerarchia esprime la relazione di sovraordinazione-subordinazione tra organi

diversi. Nella gerarchia in senso proprio non sussiste una vera e propria separazione di

competenza tra organi interessati dalla relazione. Più precisamente l’organo

subordinato non dispone di una propria esclusiva sfera di competenza, e l’organo

superiore ha una competenza comprensiva anche di quella del secondo.

Più in particolare, i poteri caratteristici della relazione gerarchica sono:

∙ potere di ordine, di direttiva e di sorveglianza sull’attività degli organi subordinati, i

quali possono essere sottoposti a ispezioni e inchieste;

∙ potere di decidere i ricorsi gerarchici proposti avverso gli atti dell’organo

subordinato; ∙ potere di annullare d’ufficio e di revocare gli atti emanati

dall’organo subordinato; ∙ potere di risolvere i conflitti che insorgano tra organi

subordinati;

∙ poteri in capo all’organo superiore di avocazione e sostituzione.

Più controversa è la spettanza all’organo superiore del potere di delega, che si ritiene

sussistente nei casi previsti dalla legge.

Tipico della relazione gerarchica è, come detto, il potere di emanare ordini

relativamente alle funzioni e mansioni dell’inferiore gerarchico: se il dipendente ritenga

l’ordine palesemente illegittimo, deve farne rimostranza al superiore, dichiarandone le

ragioni, ma è poi obbligato ad eseguirlo se l’ordine viene rinnovato per iscritto.

Altro tipo di relazione interorganica è la direzione, caratterizzata dal fatto che, pur

essendoci due organi posti in posizione di disuguaglianza, sussiste una più o meno

ampia sfera di autonomia in capo a quello subordinato.

23

L’organo sovraordinata ha in particolare il potere di indicare gli scopi da perseguire, ma

deve lasciare alla struttura sottoordinata la facoltà di scegliere le modalità e i tempi

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dell’azione volta a conseguire quei risultati. Nella direzione, l’organo

sovraordinata ha più in particolare il potere di indirizzo (con il quale vengono fissati gli

obiettivi), il potere di emanare direttive e quello di controllare l’attività amministrativa in

considerazione degli obiettivi da conseguire.

Altri poteri, quali quello di avocazione o di sostituzione, possono di volta in volta essere

attribuiti dalla legge.

L’organo subordinato può disattendere le direttive motivando adeguatamente. Il diritto

positivo mostra comunque che la inosservanza delle direttive configura la

responsabilità dirigenziale, confermando l’efficacia vincolante delle stesse.

Si è detto che presupposto della gerarchia è l’identità di competenza tra organi

sottoordinati e organi sovraordinata. La moltiplicazione dei centri di potere ha però

imposto la individuazione di strumenti più pregnanti di collegamento tra le varie

attività.

In dottrina si individua il coordinamento, riferendolo a organi in situazione di

equiordinazione preposti ad attività che, pur dovendo restare distinte, sono destinate ad

essere ordinate secondo un disegno unitario.

Gli strumenti che dovrebbero consentire il coordinamento non sempre sono

inquadrabili nell’ambito di un rapporto di pariordinazione.

Segue: IL CONTROLLO

Un’ultima importante relazione interorganica è costituita dal controllo.

Il controllo, che nel linguaggio comune indica un’attività di verifica, esame e revisione

dell’operato altrui, costituisce nel diritto amministrativo un’autonoma funzione svolta da

organi peculiari. In quanto relazione interorganica, il controllo consiste in un esame, da

parte in genere di un apposito organo, di atti e attività imputabili ad un altro organo

controllato. Si conclude con la formulazione di un giudizio, positivo o negativo, sulla

base del quale viene adottata una misura. Il controllo può anche essere esercitato da

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organi di un ente nei confronti di organi di altro ente: in tal senso, si

distingue tra controlli interni ed esterni.

Le misure che possono essere adottate a seguito del giudizio che costituisce la prima

fase del controllo sono di vario tipo: repressive (annullamento dell’atto), impeditive (le

quali ostano a che l’atto produca efficacia), sostitutive (controllo sostitutivo).

Nel controllo sugli organi la misura è la sostituzione all’organo ordinario nel

compimento di alcuni atti. In altri casi la misura è lo scioglimento dell’organo.

Nell’ambito dei controlli sugli atti, infine, si distingue tra controlli preventivi (rispetto alla

produzione degli effetti degli atti) e successivi (i quali si svolgono quando l’atto ha già

prodotto i suoi effetti). Esempi di controlli preventivi sono quelli esercitati nei confronti

degli atti delle regioni (da un organo statale) e degli enti locali (da un organo

regionale). In una via di mezzo tra controlli preventivi e controlli successivi si collocano i

controlli mediante riesame, i quali procrastinano l’efficacia dell’atto all’esito di una

nuova deliberazione dell’autorità decidente.

Fatta questa premessa, analizziamo ora i principali controlli.

IN PARTICOLARE: IL CONTROLLO DI RAGIONERIA ED IL CONTROLLO

DELLA CORTE DEI CONTI

Un particolare tipo di controllo (contabile e di legittimità) è il controllo di ragioneria

esercitato dagli uffici centrali del bilancio a livello centrale e dalle ragionerie provinciali

a livello di organo decentrati delle amministrazioni statali, i quali provvedono alla

registrazione degli impegni di spesa risultanti dai provvedimenti assunti dalle

amministrazioni statali e possono inviare osservazioni sulla legalità della spesa senza

che ciò abbia effetti impeditivi sull’efficacia degli atti.

Controllo successivo esterno e costituzionalmente garantito è quello esercitato dalla

Corte dei conti, attraverso il meccanismo della registrazione e dell’opposizione del visto.

In sintesi, il quadro dei controlli spettanti a tale organo contempla:


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24

∙ un controllo preventivo sugli atti;

∙ un controllo preventivo sugli atti che il Presidente del Consiglio dei ministri richieda

di sottoporre temporaneamente a controllo o che la Corte dei conti deliberi di

assoggettare per un periodo determinato a controllo;

∙ un controllo successivo sui titoli di spesa relativi al costo del personale, sui contratti

e i relativi atti di esecuzione;

∙ un controllo successivo sugli atti “di notevole rilievo finanziario individuati per

categorie ed amministrazioni statali”;

∙ un controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via

ordinaria; ∙ un controllo sulla gestione degli enti locali effettuato dalla sezione

autonomie (il controllo si conclude con un referto al Parlamento);

∙ un controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle

amministrazioni pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di

provenienza comunitaria.

La disciplina del controllo preventivo risulta dalla combinazione della l. 20/1994 e del

t.u. della Corte dei conti. Ai sensi dell’art. 27 della l. 340/2000, l’atto trasmesso alla Corte

diviene in ogni caso esecutivo trascorsi sessanta giorni dalla sua ricezione senza che

sia intervenuta una pronuncia della sezione di controllo, salvo che, nel predetto termine,

la Corte abbia sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 81

Cost., ovvero abbia sollevato, in relazione all’atto, conflitto di attribuzione.

L’esito del procedimento di controllo è comunicato dalla sezione nelle ventiquattro ore

successive alla fine dell’adunanza e le deliberazioni sono pubblicate entro trenta giorni

dalla data dell’adunanza stessa.

Il t.u. della Corte dei conti contempla anche il meccanismo della registrazione con

riserva, il quale consente all’atto di venire vistato e registrato. In particolare, a fronte

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della ricusazione del visto, il Consiglio dei ministri può adottare una

deliberazione con cui insiste nella richiesta della registrazione.

La registrazione con riserva impegna la responsabilità politica dell’esecutivo: per

questa ragione, ogni quindici giorni, la Corte dei conti trasmette al parlamento un

elenco con tutti i provvedimenti registrati con riserva.

Per quanto attiene all’esito negativo del controllo in via preventiva (ossia mancata

registrazione che può avvenire nelle varie fasi sopra elencate), in precedenza si

affermava trattarsi di un mero fatto, non formalizzato in alcun atto, impeditivo

dell’efficacia del provvedimento, mentre oggi è da ritenere che il rifiuto debba essere

esternato, atteso che, in caso contrario, il silenzio equivarrebbe ad assenso e, dunque, a

controllo positivo.

In ordine agli atti assoggettati al controllo successivo della Corte dei conti, si discute in

dottrina e in giurisprudenza circa le conseguenze dell’esito negativo del controllo:

secondo un orientamento si avrebbe un implicito annullamento dell’atto controllato;

secondo un’altra tesi vi sarebbe l’obbligo per l’amministrazione di prendere atto della

pronuncia di illegittimità e, dunque, non dare corso all’esecuzione dell’atto, ovvero di

annullare l’atto stesso.

L’EVOLUZIONE NORMATIVA IN TEMA DI CONTROLLI. I CONTROLLI

INTERNI

Il sistema italiano è stato per lungo tempo caratterizzato dalla prevalenza dei controlli

preventivi di legittimità sui singoli atti che impedivano di cogliere e valutare nella sua

complessità l’attività amministrativa, costituita dagli atti nel loro insieme.

Una vera e propria svolta normativa è stata operata dal d. lgs. N. 289/1999 che

stabilisce che le pubbliche amministrazioni, nell’ambito della propria autonomia,

debbano istituire i controlli interni, articolati in controllo di regolarità amministrativa e

contabile, controllo di gestione, valutazione della dirigenza e valutazione e controllo


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strategico.

Vengono così introdotte quattro tipologie di attività che fanno capo al controllo

interno. Il potenziamento dei controlli interni corrisponde alla riduzione o

eliminazione di quelli esterni.

25

Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è volto a garantire la legittimità, la

regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa e deve rispettare, in quanto

applicabili, i principi generali della revisione aziendale asseverati dagli ordini e collegi

professionali operanti nel settore. Il controllo di gestione costituisce la seconda

tipologia di controlli interni e mira a “verificare l’efficacia, efficienza ed economicità

dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di

correzione, il rapporto tra costi e risultati.

La terza tipologia di controllo interno è costituita dalla valutazione della dirigenza: essa

è svolta da strutture e soggetti – comunque diversi da quelli cui è demandato il

controllo di gestione – che rispondono direttamente ai dirigenti posti al vertice dell’unità

organizzativa interessata. I risultati dell’attività di gestione costituiscono oggetto sia

della responsabilità dirigenziale, sia della valutazione della dirigenza, anche se si deve

rimarcare come la responsabilità dirigenziale sorga pure nell’ipotesi di inosservanza di

direttive generali.

La quarta tipologia di controllo interno è costituita dalla valutazione e controllo

strategico, mirante a valutare “l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di

attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo

politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti. Mediante

questa attività di valutazione si tende a verificare l’effettiva attuazione delle scelte

contenute nelle direttive ed altri atti di indirizzo politico”.

Rispetto agli altri controlli, quelli interni si differenziano per alcuni caratteri specifici.

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1. hanno ad oggetto l’intera attività e non soltanto singoli atti. Anzi, possono

riguardare anche elementi quali le prestazioni dei dirigenti e l’adeguatezza delle

scelte compiute in sede di attuazione degli strumenti di determinazione

dell’indirizzo politico;

2. si svolgono sulla base di parametri anche e soprattutto diversi dalla

legittimità; 3. non hanno efficacia automaticamente paralizzante

dell’attività stessa;

4. detti controlli sono di norma successivi o concomitanti rispetto al “farsi del potere”.

RAPPORTI TRA ORGANI E UTILIZZO, DA PARTE DI UN ENTE, DEGLI

ORGANI DI UN ALTRO ENTE

Dalle relazioni interorganiche devono essere tenuti distinti i rapporti che, di volta in

volta, possono correre tra organi diversi, rapporti in cui è assente il carattere di stabilità

che connota le sole relazioni.

Taluni di questi rapporti comportano una modificazione dell’ordine delle competenze. In

questo ambito debbono essere ricordati l’avocazione, la sostituzione e la delegazione.

Nella avocazione un organo esercita i compiti, spettante ad altro organo in ordine a

singoli affari, per motivi di interesse pubblico e indipendentemente dall’inadempimento

dell’organo istituzionalmente competente.

La sostituzione ha invece come presupposto l’inerzia dell’organo sostituito

nell’emanazione di un atto cui è tenuto per legge e consiste nell’adozione, previa diffida,

da parte di un organo sostituto degli atti di competenza di un altro organo. L’organo

sostituto è di norma un commissario. La sostituzione attiene all’attività di controllo sugli

atti e non già sugli organi i quali, non essendo sostituiti, possono continuare a svolgere

la propria attività, fatta eccezione per quella relativa all’adozione dell’atto che essi

avevano l’obbligo di emanare.

Dalla sostituzione nell’emanazione di atti di competenza di un altro organo, deve essere


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distinta la sostituzione di organi dell’ente, fenomeno definito come gestione

sostitutiva coattiva e caratterizzato dallo scioglimento dell’organo o degli organi

dell’ente e dalla nomina di altri soggetti (spesso denominati commissari), quali organi

straordinari che gestiscano l’ente per un periodo limitato di tempo.

La delegazione è la figura in forza della quale un organo investito in via primaria della

competenza di una data materia consente unilateralmente, mediante atto formale, ad

un altro organo di esercitare la stessa competenza. La delegazione richiede una

espressa previsione legislativa. La delegazione fa sorgere un rapporto nell’ambito del

quale il delegante mantiene poteri di direttiva, di vigilanza, di revisione e di avocazione

(che in realtà è revoca della delega).

26

L’organo delegatario è investito del potere di agire in nome proprio, anche se per conto

e nell’interesse del delegante, sicché la responsabilità per gli illeciti eventualmente

commessi rimane in capo al delegatario stesso.

Dalla delegazione ora esaminata va distinta la delega di firma, che non comporta

alcun spostamento di competenza: quest’ultima spetta infatti sempre all’organo

delegante, mentre il delegato ha soltanto il compito di sottoscrivere l’atto; l’atto sarà

dunque imputabile al delegante, così come in capo ad esso sorge l’eventuale

responsabilità nei confronti dei terzi.

L’organo di una persona giuridica può anche essere organo di altra persona giuridica:

ad esempio, il sindaco, organo del comune, in qualità di ufficiale del governo è pure

organo dello Stato e, dunque, realizza una vicenda di imputazione in capo allo Stato

dell’attività da esso posta in essere. Vero è, comunque, che lo Stato si giova

dell’apparato organizzatorio comunale allorché il sindaco operi in qualità di ufficiale di

governo, alla stessa stregua di quanto accade nelle ipotesi in cui un ente si “avvalga”

dell’ufficio di un altro ente, il quale svolge soltanto funzioni tecniche ed ausiliari e senza

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che si verifichino spostamenti di competenza e di responsabilità.

GLI UFFICI E IL RAPPORTO DI SERVIZIO

L’organizzazione pubblica non si esaurisce negli enti e negli organi finora esaminati.

All’interno dei primi e accanto ai secondi esistono infatti gli uffici, nuclei elementari

dell’organizzazione. Gli uffici sono costituiti da un insieme di mezzi materiali (locali,

risorse, attrezzature e così via) e personali e sono chiamati a svolgere uno specifico

compito che, in coordinamento con quello degli altri uffici, concorre al raggiungimento

di un certo obiettivo.

All’interno dell’ufficio, tra gli altri addetti, si distingue la figura del preposto il quale, se in

situazione di primarietà, è il titolare; l’ufficio il cui titolare sia temporaneamente assente

o impedito, viene affidato al supplente, mentre si ha la reggenze nell’ipotesi di

mancanza di titolarità. Gli addetti e i titolari che prestano il proprio servizio presso l’ente

sono legati alla persona giuridica da un particolare rapporto giuridico (rapporto di

servizio) che ha come contenuto il dovere di agire (dovere di ufficio) prestando una

particolare attività.

Il dovere di ufficio ha ad oggetto comportamenti che il dipendente deve tenere sia nei

confronti della pubblica amministrazione, sia nei confronti dei cittadini.

I soggetti legati da un rapporto di sevizio all’amministrazione sono di norma dipendenti.

Ricorre in questi casi il “rapporto di servizio di impiego”.

Il contenuto del rapporto di servizio varia a seconda che il soggetto sia funzionario

onorario o pubblico impiegato: nel primo caso tale contenuto è ridotto, in quanto a

fronte del diritto all’ufficio, vi è il diritto ad un trattamento economico a titolo di

indennità, ma non vi è il diritto alla carriera; nella seconda ipotesi, esso è più articolato e

deriva dalle norme di legge e da quelle contrattuali.

Il rapporto di servizio lega all’ente tutti i soggetti-persone fisiche che fanno parte

dell’organizzazione e si distingue dunque nettamente dal rapporto organico, perché

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quest’ultimo corre soltanto tra il titolare dell’organo e l’ente e viene in

evidenza ai fini dell’imputazione delle fattispecie.

I titolari degli uffici devono comunque essere “investiti” della titolarità dell’organo o

dell’ufficio con un atto specifico.

Talora il rapporto organico si costituisce in via di mero fatto e, cioè, in assenza di atto di

investitura. In particolare, allorché le funzioni esercitate “di fatto” siano essenziali e

indifferibili, si ritiene che il meccanismo di imputazione proprio dell’organo possa

ugualmente funzionare pur in assenza di un atto di investitura. In queste ipotesi anche il

rapporto di servizio si instaura in via di fatto e l’organo viene definito funzionario di fatto.

Una volta instaurato, il rapporto di servizio a titolo professionale è caratterizzato da

vicende e può anche estinguersi (fisiologicamente per scadenza del termine): tali

vicende sono disciplinate dalla normativa che ha ad oggetto il rapporto di dipendenza

presso le pubbliche amministrazioni e dalla contrattazione collettiva. Per quanto

riguarda il rapporto organico, in caso di estinzione del rapporto di servizio occorre

procedere alla investitura di un nuovo titolare.

In ordine agli uffici a titolarità onoraria, in passato si riteneva che, al fine di assicurare la

continuità dell’esercizio della funzione amministrativa, i titolari potessero continuare ad

esercitare i propri compiti anche quando fosse scaduto il periodo della loro investitura.

27

La figura in esame, denominata prorogatio, va tenuta distinta da quella della proroga

degli organi, che consiste in un provvedimento con il quale si prolunga la durata del

rapporto. A seguito di una sentenza della Corte costituzionale, oggi è stato sancito in

linea generale il divieto di prorogatio.

LA DISCIPLINA ATTUALE DEL RAPPORTO DI LAVORO DEI

DIPENDENTI DELLE PP.AA.

Le persone fisiche legate alle amministrazioni pubbliche da rapporto di servizio


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professionale sono assoggettate ad un regime che presenta alcune note

distintive rispetto alla disciplina privatistico del rapporto di lavoro: la distanza tra i due

modelli è stata nei tempi recenti notevolmente diminuita, mentre in passato il pubblico

impiego presentava i caratteri di vero e proprio ordinamento speciale. I principi della

c.d. “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego possono così sintetizzarsi:

a) i rapporti di lavoro sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile, fatte salve

le diverse disposizioni contenute nel d. lgs. 165/2001 e dalla contrattazione sia sul

piano individuale che collettivo;

b) la legge comunque prevede limiti all’autonomia contrattuale individuale o

collettiva (si pensi alla disciplina legale, non derogabile mediante contrattazione,

della parità di trattamento e dell’attribuzione delle mansioni;

c) restano assoggettati alla disciplina pubblicistica gli organi, gli uffici, i principi

fondamentali dell’organizzazione, i procedimenti di selezione per l’accesso al

lavoro, e quelli di avviamento, i ruoli, le incompatibilità, le responsabilità;

d) le organizzazioni sindacali, al di fuori delle materie economiche, devono essere

“consultate” o informate senza che sia richiesto il loro consenso;

e) la contrattazione collettiva si svolge a vari livelli (nazionale o integrativa). Nella

contrattazione collettiva nazionale la parte pubblica è legalmente rappresentata

da un’apposita Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche

amministrazioni (Aran: essa ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è

soggetta al potere di indirizzo esercitato dalle pubbliche amministrazioni), della

cui assistenza, comunque, le pubbliche amministrazioni possono avvalersi ai fini

della contrattazione integrativa;

f) Sotto il profilo giurisdizionale sono devolute al giudice ordinario, in funzione di

giudice del lavoro, tutte le controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei

dipendenti, con l’eccezione di quelle dei dipendenti sottratti alla privatizzazione e

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le controversie in materia di procedure concorsuali di assunzione;

g) I dipendenti sono assoggettati ad una particolare responsabilità amministrativa,

penale e contabile; la responsabilità disciplinare prevede la definizione ad opera

dei contratti collettivi della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni; ove

non siano previste dai contratti collettivi procedure di conciliazione stragiudiziali,

l’interessato può impugnare la sanzione inflittagli dinanzi al collegio arbitrale di

disciplina che emette la sua decisione entro novanta giorni.

h) Il reclutamento del personale (non dirigenziale) avviene tramite procedure

selettive che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno;

i) Viene eliminato il potere di gestione degli organi politici e affermato il principio

della distinzione tra indirizzo politico (spettante agli organi politici) e gestione

(spettante ai dirigenti).

LA DIRIGENZA E I SUOI RAPPORTI CON GLI ORGANI POLITICI

Ai dirigenti sono stati attribuiti poteri autonomi di gestione, con il compito di organizzare

il lavoro, gli uffici e le risorse umane e finanziarie, nonché di attuare le politiche

delineate dagli organi di indirizzo politico-amministrativo, rispondendo del

conseguimento dei risultati.

28

L’accesso alla qualifica di dirigente nelle amministrazioni statali e negli enti pubblici

non economici avviene mediante concorso per esami indetto dalle singole

amministrazioni ovvero per corso concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola

superiore della pubblica amministrazione. Il rapporto di lavoro si fonda su un contratto,

mentre nel passato, per i dirigenti della qualifica più elevata, in quanto non soggetti alla

privatizzazione, si basava su un atto amministrativo unilaterale (che è rimasto per i

dirigenti non privatizzati).

Per il conferimento dell’incarico (che è rinnovabile) si tiene conto delle attitudini e delle

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capacità professionali del dirigente, valutate anche in considerazione dei

risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati.

La definizione dell’oggetto, degli obiettivi e della durata dell’incarico è contenuta nel

provvedimento di conferimento dello stesso, mentre la definizione del trattamento

economico spetta al contratto individuale che accese al provvedimento medesimo.

Non necessariamente tutti i dirigenti hanno la titolarità di uffici dirigenziali: allorché ad

essi non sia affidata tale titolarità, i dirigenti svolgono funzioni ispettive, di consulenza,

studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento.

Propria dei dirigenti è poi la responsabilità dirigenziale: essa sorge allorché non siano

stati raggiunti gli obiettivi o in caso di inosservanza delle direttive imputabile al

dirigente. Tale responsabilità, che rivela la inidoneità dell’incarico, si collega all’attività

complessiva dell’ufficio cui egli è preposto.

La sanzione è l’impossibilità del rinnovo dello stesso incarico.

La responsabilità riguarda essenzialmente il mancato raggiungimento degli obiettivi,

per la valutazione dei quali è essenziale il controllo di gestione. Il raggiungimento degli

obiettivi rileva anche ai fini del trattamento economico.

All’interno dell’organizzazione del lavoro presso le pubbliche amministrazioni, ci si può

domandare se sia possibile la relazione gerarchica o quella di direzione.

Sappiamo che l’organo politico “superiore” fissa gli obiettivi, assegna le risorse,

impartisce direttive generali, si astiene dall’ingerirsi nella gestione e valuta i risultati

finali. Il dirigente preposto agli uffici dirigenziali generali risponde nei confronti del

politico della propria gestione, la quale avviene in modo autonomo e disponendo di

poteri di sovraordinazione nei confronti dei dirigenti (i quali a loro volta hanno poteri

analoghi, anzi rafforzati, nei confronti degli uffici da essi dipendenti), l’organo politico

risponde, invece, in via immediata o mediata, all’elettorato.

La ricostruzione di questa relazione in termini di direzione, tuttavia, non convince

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pienamente. Alla luce di una rigida distinzione tra le competenze degli

organi di governo e quelle dirigenziali, deve ritenersi che il criterio della competenza

escluda la possibilità di applicare una relazione di sovraordinazione-sottoordinazione,

mentre è preferibile parlare di sfere di competenza separate e differenti. Pare assai

significativo al riguardo che il ministro non possa, neppure in caso di inerzia, sostituirsi

al dirigente, ma debba procedere alla nomina di un commissario ad acta: la

separazione è talmente rigida che non tollera una diretta ingerenza del politico

nell’attività del dirigente mediante il tipico potere che, appunto, comporta una

alterazione dell’ordine legale delle competenze.

Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o

amministrativi, la responsabilità non si estende però ai titolari di organi politici che in

buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito

l’esecuzione. Tale norma precisa i limiti della responsabilità ministeriale sancita dall’art.

95 Cost., nell’ipotesi di responsabilità amministrativa.

I dirigenti preposti agli uffici dirigenziali generali, nei confronti dei dirigenti definiscono

gli obiettivi e attribuiscono le risorse, “dirigono, coordinano e controllano l’attività dei

dirigenti e dei responsabili dei procedimenti”, anche “con potere sostitutivo in caso di

inerzia” e “decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti amministrativi

non definitivi dei dirigenti”.

Parrebbe dunque trattarsi di relazione gerarchica: tuttavia, la mancanza del potere di

impartire ordini e la predefinizione delle competenze dei dirigenti paiono far emergere

una versione più attenuata della gerarchia intesa in senso proprio: sussiste infatti una

sfera di autonomia non comprimibile – se non in caso di inerzia – in capo ai dirigenti.

29

I SOGGETTI DI DIRITTO: LE FORMAZIONI SOCIALI E GLI

ORDINAMENTI AUTONOMI
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Un ruolo importante rivestono i soggetti di diritto costituiti dalle

organizzazioni sociali. Molte di queste formazioni sono costituite da aggregazioni di

individui sorretti da finalità etiche, religiose, ideali e che perseguono interessi,non

caratterizzati dallo scopo di lucro, in parte coincidenti con quelli affidati alla cura

soggetti pubblici.

Da questo punto di vista, si pongono le questioni dell’eventuale ruolo pubblicistico che a

tali organizzazioni potrebbe essere attribuito, dell’eventuale conferimento di poteri

peculiari, nonché dei limiti entro i quali lo Stato può ingerirsi nella loro struttura ed

attività.

Rientrano in questo ambito moltissime associazioni quali le comunità terapeutiche, le

istituzioni pro-loco, le organizzazioni impegnate nei settori della ricerca, dello sport,

dell’istituzione, della beneficenza, della protezione civile, dell’assistenza, del servizio

civile.

Più in generale, lo spazio di queste organizzazioni pare comunque destinato ad

aumentare nei limiti in cui il “pubblico” si ritiri dalla vita sociale, anche a seguito della

costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale.

La normativa di settore prevede che le organizzazioni che perseguono finalità di

interesse generale possano ricevere finanziamenti pubblici e siano talora sottoposte a

forme di controllo o vigilanza, ovvero ad un regime fiscale favorevole.

In merito alle ONLUS, tali organizzazioni sono definite come le associazioni, i comitati, le

fondazioni, le società cooperative e gli altri enti di carattere privato, con o senza

personalità giuridica, i cui statuti o atto costitutivi, redatti nella forma dell’atto pubblico

o della scrittura privata autenticata o registrata, contengano espressamente una serie

di indicazioni tra le quali ricordiamo: lo svolgimento di attività in particolari settori;

l’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale; il divieto di distribuire, anche

in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la

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vita dell’organizzazione; l’obbligo di impiegare gli utili o gli avanzi di

gestione per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle ad esse direttamente

connesse.

Altre formazioni danno luogo ad organizzazioni i cui rapporti con l’ordinamento statale

sono assai più complessi, tali da configurarli come veri e propri ordinamenti autonomi.

Per quanto riguarda le confessioni religiose, l’art. 8 Cost. stabilisce che quelle diverse

da quella cattolica (la Chiesa cattolica è considerata ordine sovrano e indipendente)

possono organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con

l’ordinamento giuridico italiano. L’ordinamento sportivo, in via di principio, non è invece

considerato al riparo dell’ingerenza delle disciplina statale, perché privo di garanzia

costituzionale.

Tuttavia, la legge riconosce alle federazioni sportive l’”autonomia tecnica, organizzativa

e di gestione”, nel rispetto delle disposizioni che tutelano la libertà di associazione. Il

problema che però maggiormente interessa il diritto amministrativo è quello della

qualificazione come pubblici di alcuni soggetti che contestualmente sono soggetti degli

ordinamenti separati. Il CONI (Comitato olimpico nazionale italiano), ente

dell’ordinamento sportivo, ad esempio, secondo il diritto italiano, un ente pubblico.

L’”intrusione” pubblicistica ha dato luogo a delicati problemi con riferimento agli

ordinamenti che godono di tutela costituzionale.

I MEZZI. IN PARTICOLARE I BENI PUBBLICI. NOZIONE E

CLASSIFICAZIONE CODICISTICA

Al fine di svolgere i propri compiti, le amministrazioni pubbliche devono utilizzare non

solo risorse umane, ma anche mezzi materiali: mezzi finanziari e beni.

Tra i beni che appartengono agli enti pubblici, rivestono una particolare importanza i

c.d. “beni pubblici” i quali sono assoggettati ad una normativa differente rispetto a

quella che si applica agli altri beni per ciò che riguarda i profili dell’uso, della
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circolazione e della tutela. Tali profili ne giustificano la considerazione

unitaria.

30

Sussistono anche beni appartenenti ad enti pubblici ma soggetti alla normativa di

carattere generale sulla proprietà privata, fatte salve alcune disposizioni in tema di

contabilità pubblica. Questi ultimi costituiscono, nel loro complesso, il patrimonio

disponibile degli enti pubblici (patrimonio mobiliare e patrimonio fondiario ed edilizio:

essi sono il linea di massima destinati a produrre un reddito secondo le regole

dell’economia privata), così detto per distinguerlo dal patrimonio indisponibile:

quest’ultimo va ricondotto ai beni pubblici.

Il complesso dei “beni pubblici” appartiene alle pubbliche amministrazioni a titolo di

proprietà pubblica.

La circostanza che si tratti di proprietà spiega l’appartenenza dei frutti all’ente titolare

del bene ed il fatto che la cosa, una volta persi i caratteri di bene pubblico, resti nella

proprietà dell’ente. È questo il principio della elasticità della proprietà.

Al fine di comprendere l’essenza della proprietà pubblica occorre osservare che

l’ordinamento valuta necessario che alcuni beni appartengano agli enti pubblici perché

dotati della idoneità a soddisfare gli interessi imputati a quegli enti.

Da questo punto di vista la proprietà pubblica è dunque l’esempio più pregnante di

proprietà funzione.

La titolarità della proprietà dei beni pubblici appartenenti agli enti pubblici trova la sua

fonte innanzitutto nella legge. Così alcuni beni appartengono allo Stato o alla regione ex

lege: si tratta di taluni beni del demanio naturale (marittimo e idrico) e del patrimonio

indisponibile (miniere), nonché di altri beni quali i beni di interesse artistico, storico o

archeologico esistenti o ritrovati nel sottosuolo, i relitti marittimi e di aeromobili e così

via. Ma siffatta titolarità può derivare anche da:

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a) fatti acquisitivi: acquisto della proprietà di beni mediante l’occupazione,

l’invenzione, l’accessione, la specificazione, l’unione, l’usucapione, la successione

regolata dall’art. 586 c.c. (“in mancanza di altri successibili, l’eredità è devoluta

allo Stato”);

b) atti di diritto comune (contratti, testamento, donazione, pagamenti,

provvedimenti giudiziari di esecuzione);

c) fatti basati sul diritto internazionale (confisca e requisizione bellica, indennità di

guerra, successione ad altro Stato) o basati sul diritto pubblico interno (successione

tra enti).

IL REGIME DEI BENI DEMANIALI

I beni demaniali sono tassativamente indicati dalla legge e comprendono i beni

demaniali necessari e i beni demaniali accidentali.

I beni del demanio necessario sono costituiti a loro volta dal demanio marittimo (il lido

del mare, le spiagge, i porti, le lagu8ne, le rade, le foci dei fiumi), dal demanio idrico

(fiumi, torrenti, laghi ed altre acque pubbliche, i ghiacciai. La loro gestione è affidata

alle regioni e agli enti locali competenti per territorio, realizzandosi così la scissione tra

titolarità e gestione del bene – d. lgs. 112/1998) e dal demanio militare (opere destinate

alla difesa nazionale nonché le opere – porti, aeroporti, strade, ferrovie, stazioni radio,

ecc. – destinate al servizio delle comunicazioni militari. L’ordinamento tiene distinti

questi beni da altri beni (caserme, armamenti, navi e aeromobili) che, pur essendo

preordinati alla medesima finalità difensiva, fanno parte del patrimonio indisponibile.

Accanto ai beni del demanio necessario, la legge contempla i beni del demanio

accidentale, composto da strade, autostrade, aerodromi, acquedotti, immobili

riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico, raccolte dei musei,

pinacoteche, archivi, biblioteche e dagli altri beni che sono assoggettati al regime

proprio del demanio.

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Non rientrano nel demanio stradale le strade vicinali (strade private

gravate da servitù di pubblico transito) e le strade militari di uso pubblico – facenti

parte del demanio militare – sulle quali le autorità militari consentono il pubblico

transito.

I beni del demanio accidentale possono appartenere a chiunque, ma sono tali qualora

appartengano ad un ente pubblico territoriale. Ulteriore differenza rispetto ai beni del

demanio

31

necessario deriva dal fatto che essi non sono costituiti esclusivamente da beni

immobili, potendo consistere anche in universalità di mobili.

I beni demaniali, facciano essi parte del demanio necessario ovvero di quello

accidentale, sono dunque caratterizzati, dal punto di vista soggettivo,

dall’appartenenza a enti territoriali: ciò in quanto essi sono direttamente preordinati

alla soddisfazione di interessi imputati alla collettività stanziata sul territorio e

rappresentata dagli enti territoriali.

Oltre alla distinzione tra demanio statale, demanio regionale, demanio provinciale e

comunale, occorre distinguere i beni demaniali naturali (i quali sono tali per natura,

indipendentemente dall’opera dell’uomo: ad esempio, il lido del mare) rispetto a quelli

del demanio artificiale, costruiti appunto dall’uomo (come le strade e gli acquedotti).

Infine, alcuni beni sono riservati necessariamente allo Stato o alla regione. In ogni caso,

tutti i beni demaniali sono assoggettati alla disciplina posta dall’art. 823 c.c.: essi “sono

inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore dei terzi, se non nei modi e

nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”.

A causa della sancita in commerciabilità dei beni demaniali, sono nulli di diritto gli

eventuali atti dispositivi di essi posti in essere dalla pubblica amministrazione.

Va inoltre esclusa in modo assoluto la trasferibilità dei beni del demanio necessario, i

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quali sono, come si è detto, beni “riservati” e non possono che appartenere

allo Stato o alle regioni. Per gli altri beni del demanio è invece ipotizzabile il loro

passaggio a diverso ente territoriale, sempreché si tratti di beni che non siano legati in

modo indissolubile al territorio dell’ente proprietario e purché permanga la loro

distinzione pubblica.

Altra regola è quella contenuta nell’art. 823 c.c.: “spetta all’amministrazione la tutela dei

beni che fanno parte del demanio pubblico”.

L’amministrazione dispone anche di poteri di autotutela: ciò significa che, anziché

utilizzare gli ordinari rimedi giurisdizionali che l’ordinamento prevede a tutela della

proprietà, essa può direttamente procedere a tutelare i propri beni in via

amministrativa, irrogando sanzioni ed esercitando poteri di polizia demaniale.

I beni del demanio naturale (lido del mare, spiaggia, fiume, torrente o lago) acquistano

la demanialità per il solo fatto di possedere i requisiti previsti dalla legge.

I beni “artificiali” diventano invece demaniali nel momento in cui rientrino in uno dei tipi

fissati dalla legge e, cioè, nel momento in cui l’opera sia realizzata, purché siano di

proprietà dell’ente territoriale. Per alcuni di essi, come le strade, occorre altresì la

destinazione pubblica e il bene è pubblico soltanto se – e fino al momento in cui –

esiste tale destinazione.

La cessazione della qualità di bene demaniale, a seconda dei casi, deriva oltre che

dalla destinazione del bene, dal fatto della perdita dei requisiti di bene demaniale e

dalla cessazione della destinazione. Vi può poi essere l’intervento legislativo che

“sdemanializza” alcuni beni (come le strade ferrate).

La cessazione dei requisiti di bene demaniale è spesso attestata da uno specifico atto

amministrativo. Nell’ipotesi di beni riservati, tale sdemanializzazione ha soltanto finalità

dichiarative: il bene non è più pubblico perché ha perduto i caratteri di bene pubblico e

non già perché l’amministrazione ha modificato il suo regime con un atto

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amministrativo.

IL REGIME GIURIDICO DEI BENI DEL PATRIMONIO INDISPONIBLE

I beni del patrimonio indisponibile sono indicati dagli artt. 826 e 830 c.c.

Dispone l’art. 826: “fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste, le

miniere, le cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del

fondo, le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e

artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, le caserme, gli

armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra”. “Fanno parte del patrimonio

indisponibile dello Stato o, rispettivamente delle pr5ovince e dei comuni, secondo la

loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri

beni destinati a pubblico servizio”.

Ai sensi dell’art. 830 c.c. i beni degli enti pubblici non territoriali destinati a un pubblico

servizio sono assoggettati alla disciplina dei beni patrimoniali indisponibili.

I beni in esame presentano caratteri assai differenti tra di loro.

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Alcuni sono riservati ad enti pubblici, sicché nessun altro soggetto dell’ordinamento è

legittimato ad acquistarli: si pensi alle miniere, alle acque minerali e termali e alle cave

e torbiere sottratte al proprietario.

Altri beni sono patrimoniali indisponibili per il solo fatto di appartenere ad un ente

pubblico particolare (come le foreste regionali), ovvero a qualsiasi ente pubblico (cose

mobili di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico).

Infine, vi sono beni che assumono il carattere della indisponibilità soltanto in

conseguenza di una destinazione pubblica: paradigmatico è l’esempio dei beni

immobili destinati a un pubblico servizio (sedi e arredi degli uffici).

In ordine ai beni del patrimonio indisponibile occorre ancora osservare:

a) le cave e le torbiere (sottratte alla disponibilità del proprietario), le acque termali

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e minerali e le foreste sono state trasferite al patrimonio indisponibile della

regione dal d.p.r. 616/1977;

b) le miniere sono riservate esclusivamente allo Stato, ma possono essere coltivate

sia direttamente da esso, sia da terzi ai quali siano date in concessione;

c) le cose mobili di interesse storico, paletnologico, paleontologico e artistico,

appartenenti a qualsiasi ente pubblico, sono assoggettate alla disciplina dei beni

patrimoniali indisponibili salvo che siano costituite in raccolte di musei, di

pinacoteche, di archivi e di biblioteche: in quest’ultimo caso si tratta di beni del

demanio accidentale.

I beni del patrimonio indisponibile sono assoggettati alla disciplina dell’art. 828 c.c.: essi

“non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi

che li riguardano”.

In ogni caso e in linea di principio, i beni del patrimonio indisponibile non sono

assolutamente incommerciabili: gli atti di disposizione, tuttavia, debbono rispettare il

vincolo di destinazione. L’atto di trasferimento di tali beni che non rispetti la disciplina

legislativa, di conseguenza, non è nullo perché avente ad oggetto una res fuori

commercio, ma annullabile per violazione dei “modi di legge” stabiliti per sottrarli al

vincolo di destinazione.

Occorre tuttavia aggiungere che:

∙ alcuni beni del patrimonio indisponibile sono incommerciabili in via assoluta in

quanto trattasi di beni riservati (ad esempio le miniere); gli altri invece sono

incommerciabili e sottratti alla garanzia patrimoniale di creditori soltanto in

costanza di destinazione pubblica;

∙ altri beni ancora sono soggetti ad un regime di inalienabilità, salvo permesso

amministrativo: è il caso dei beni forestali, la cui alienazione è soggetta ad

approvazione.

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Quanto all’acquisto e alla perdita dei caratteri di bene pubblico, deve

distinguersi a seconda che si tratti di beni che sono pubblici in virtù del solo fatto di

possedere i caratteri indicati dall’ordinamento, ovvero che sia richiesto un attori

destinazione pubblica, aspetto particolarmente importante per gli edifici destinati a

sede di pubblico ufficio o a un pubblico servizio.

DIRITTI DEMANIALI SU COSE ALTRUI, DIRITTI D’USO E USI CIVICI

Accanto al diritto di proprietà demaniale sui beni pubblici, l’ordinamento prevede

l’esistenza di altri diritti reali soggetti al medesimo regime giuridico, accomunati alla

proprietà nel concetto di “appartenenza”.

Si tratta, più specificamente, dei diritti spettanti agli enti territoriali sui beni altrui.

Quanto ai diritti demaniali su beni altrui, si pensi al diritto di servitù gravante su fondo

privato al fine della realizzazione di un acquedotto pubblico, ovvero alla servitù di via

alzaia, la quale grava sui fondi laterali ai corsi d’acqua navigabili imponendo di lasciare

libera una fascia di terreno al fine di consentire lo spostamento dei barconi.

Dalle servitù prediali pubbliche vanno tenute distinte le limitazioni pubbliche della

proprietà privata, le quali non creano diritti in capo all’amministrazione, ma restringono

soltanto le facoltà del

33

proprietario di alcuni beni privati – in particolare di quelli posti in prossimità di immobili

demaniali o di un edificio di interesse storico, archeologico o artistico – imponendo

obblighi di non facere (una “limitazione” della proprietà è costituita dal divieto di

costruire in aderenza.

Tipici esempi di diritti d’uso pubblico gravanti su beni privati sono quelli di visita dei

beni privati di interesse storico e quelli che attengono alle strade private (strade

vicinali), ai vicoli e agli spiazzi aperti al pubblico traffico.

Rispetto ai diritti d’uso pubblico presentano profili di analogia gli usi civici: entrambe le

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categorie sono beni collettivi, perché appartengono a collettività di abitanti;

si tratta di godimento e d’uso e anche di proprietà, spettanti alla collettività su terreni di

proprietà di comuni o di terzi e che hanno ad oggetto, di volta in volta, il pascolo, la

pesca, la caccia, la raccolta della legna, dei funghi e così via.

La presenza di usi civici e di diritti d’uso pubblico comporta, per il proprietario del fondo

gravato, l’obbligo di sopportare che membri della collettività godano dei suoi beni.

L’USO DEI BENI PUBBLICI

Per quanto riguarda il profilo del godimento e dell’uso, anch’esso è particolare e assai

differente rispetto a quello della proprietà privata; la sua analisi consente di cogliere il

rapporto tra bene e collettività.

Per una prima categoria di beni la distanza rispetto alla proprietà privata è meno

marcata, atteso che ne è consentito essenzialmente l’uso diretto e riservato al

proprietario pubblico che lo impiega per lo svolgimento dei propri compiti.

Un altro esempio di uso diretto è quello dei beni del patrimonio indisponibile destinati a

sedi di uffici o a servizi pubblici: il bene è strumentale all’esercizio di una certa attività

posta in essere dall’amministrazione titolare del bene.

In molti altri casi, il bene è in grado di soddisfare anche altre esigenze: si realizza così

l’uso promiscuo. Si pensi alle strade militari che, accanto all’interesse della difesa, sono

in grado di soddisfare l’interesse generale della pubblica circolazione.

Poi vi è l’uso generale di quei beni pubblici che assolvono la loro funzione a servizio

della collettività (demanio idrico, stradale, beni di interesse storico e così via). Tale uso

costituisce uno dei mezzi rivolti alla rimozione degli ostacoli che “impediscono il pieno

sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti” all’organizzazione

politica, economica e sociale del Paese (art. 3 Cost.). in alcuni casi esso è subordinato

al pagamento di una somma, come accade nell’ipotesi di pedaggio autostradale.

L’uso particolare invece si ha quando il bene è posto al servizio di singoli soggetti. È

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questo il caso delle riserve di pesca, delle concessioni di beni pubblici, delle

concessioni di derivazione di acque pubbliche, ecc.

Occorre in ultimo accennare ad un ulteriore e sempre più rilevante uso diretto dei beni

degli enti pubblici, costituito dal conferimento dei beni stessi come capitale di

dotazione nelle aziende speciali ovvero in società per azioni: il bene

dell’amministrazione proprietaria diventa in queste ipotesi elemento del ciclo produttivo

posto in essere da altro soggetto giuridico pubblico.

I BENI PRIVATI DI INTERESSE PUBBLICO

I beni di interesse pubblico sono, ad esempio, le strade vicinali e le autostrade costruite

e gestite dai privati concessionari.

Paradigmatico è il caso dei beni culturali di proprietà privata. Si pensi alle opere d’arte

di particolare valore, ovvero ai beni di interesse storico e archeologico che

appartengono ad un privato.

Si è proposto in dottrina di configurare il bene culturale come bene immateriale di

proprietà pubblica inerente a una o più cose e distinto dal bene patrimoniale privato di

cui quelle stesse cose costituiscono il supporto materiale. Dalla qualificazione del bene

come culturale, deriva la

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presenza di due regimi: quello proprio della titolarità formale del bene, e quello

pubblicistico, connesso all’inerenza a pubblici interessi del bene stesso.

Il bene culturale, anche se “privato” nell’appartenenza, rivela quindi il suo aspetto di

pubblicità in quanto la sua conservazione soddisfa interessi pubblici, ovvero perché, in

forza degli obblighi che gravano sul proprietario, esso è addirittura rivolto al pubblico

sotto il profilo della fruizione. Una volta ammesso l’affidamento al privato della gestione

del bene pubblico compenetrato nella cosa che rientra nella proprietà del privato

stesso, si oppongono minori difficoltà alla prospettiva di affidamento in gestione al

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privato pure dei beni che appartengono alla proprietà pubblica.

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CAPITOLO 4 - L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI

CENNI ALL’ORGANIZZAZIONE STATALE: QUADRO GENERALE

Lo Stato-amministrazione può essere qualificato come ente pubblico, dovendosi

riconoscere ad esso la qualità di persona giuridica in forza di espressi riferimenti

normativi: si pensi, ad esempio, all’art. 28 Cost. che si riferisce alla responsabilità civile

dello Stato e all’art. 822 c.c., il quale disciplina i beni appartenenti allo Stato.

Resta il rilevante problema del carattere unitario della sua personalità.

L’amministrazione statale è infatti estremamente disgregata ed ha perso l’originaria

compattezza: l’attribuzione dei poteri può avvenire soltanto a favore delle

organizzazioni che abbiano l’idoneità ad essere centri di riferimento di rapporti giuridici

attivi e passivi, anche senza possedere la personalità giuridica. Si tratta, infatti, di un

riflesso della titolarità di autonomi rapporti sostanziali.

IN PARTICOLARE: IL GOVERNO E I MINISTERI

Quanto all’analisi degli apparati amministrativi dello Stato, occorre precisare che al

vertice dell’organizzazione statale è collocato il governo, formato dal Presidente del

Consiglio dei ministri, dal Consiglio dei ministri e dai ministri (art. 92 Cost.).

Invero, anche il Presidente della Repubblica svolge alcune importanti funzioni attinenti

all’attività amministrativa: si pensi al potere di nomina dei più alti funzionari ed

all’emanazione dei regolamenti governativi.

Ai sensi dell’art. 5 della legge 400/1988, il Presidente del Consiglio dei ministri svolge i

seguenti compiti: “indirizza ai ministri le direttive politiche ed amministrative in

attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri”; “coordina e promuove l’attività

dei ministri in ordine agli atti che riguardano la politica generale del governo”.

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La presidenza del Consiglio ha una struttura organizzativa propria alla

quale fanno capo vari dipartimenti e uffici, per l’esercizio delle funzioni di impulso,

indirizzo e coordinamento attribuitogli dalla Costituzione e dalle leggi.

Il Presidente individua altresì con propri decreti gli uffici di diretta collaborazione e, sulla

base delle relative proposte, quelli dei ministri senza portafoglio (che sono titolari di

dipartimento) o sottosegretari della presidenza.

Le funzioni del Consiglio dei ministri sono indicate dall’art. 2 della legge 400/1988:

accanto a quella di indirizzo politico e a quella normativa, possiamo ricordare i poteri di

indirizzo e coordinamento, nonché i poteri di annullamento di ufficio di atti

amministrativi. I ministri sono gli organi politici di vertice dei vari dicasteri. Tali organi

sono importanti sotto il profilo amministrativo: l’amministrazione statale è infatti

ripartita sulla base dei ministeri. Il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri

sono determinati dalla legge.

Con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio

dei ministri, possono inoltre essere nominati ministri senza portafoglio i quali, pur

essendo membri del governo, non sono titolari di dicasteri (ma di dipartimenti) e,

dunque, né di un apparato organizzativo di uffici, né dal punto di vista contabile, della

gestione di uno stato di previsione della spesa (si pensi al ministro per le pari

opportunità).

Il ministro può essere coadiuvato da uno o più sottosegretari nominati con decreto del

Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, di concerto con il

ministro che il sottosegretario coadiuverà, sentito il Consiglio dei ministri. Il loro numero

non è fissato dalla legge.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri è il segretario del Consiglio

dei ministri. A non più di dieci sottosegretari può essere conferito il titolo di vice ministro,

se ad essi sono conferite dal ministro competente deleghe. I vice ministri possono

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essere invitati a partecipare alle

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sedute del Consiglio dei ministri, senza diritto di voto, per riferire su argomenti e

questioni attinenti alla materia loro delegata.

Ci sono poi le agenzie, strutture che svolgono attività a carattere tecnico-operativo di

interesse nazionale, attualmente esercitate da ministeri ed enti pubblici: la previsione

della loro istituzione vuole rafforzare il ruolo di governo del ministero, svuotato da

compiti di amministrazione attiva. Le agenzie operano comunque più in generale al

servizio delle amministrazioni pubbliche, comprese quelle regionali e locali. Esse hanno

autonomia nei limiti stabiliti dalla legge, sono sottoposte al controllo della Corte dei

conti e ai poteri di indirizzo e vigilanza del ministro; devono essere organizzate in modo

da rispondere alle esigenze di speditezza, efficienza ed efficacia dell’azione

amministrativa e si giovano di un finanziamento annuale a carico dello stato di

previsione del ministero.

Le agenzie possono avere anche personalità giuridica (si pensi alle agenzie fiscali).

LE STRUTTURE DI RACCORDO TRA I VARI MINISTERI

I ministeri non operano in modo completamente separato.

In primo luogo, il coordinamento dell’attività dei vari ministeri è assicurato dall’azione

politica del Consiglio dei ministri, dal Presidente del Consiglio dei ministri (che

“mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando

l’attività dei ministri”, art. 95 Cost.). Di rilievo è poi il consiglio di gabinetto, organo

collegiale ristretto costituito dal Presidente del Consiglio e dai ministri da lui designati

sentito il Consiglio dei ministri.

Altri organi collegiali sono i comitati interministeriali.

Il più importante è sicuramente il Cipe (comitato interministeriale per la

programmazione economica); esso è presieduto dal Presidente del Consiglio dei

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ministri ed è composto da ministri. Il Cipe è competente in via generale “su

questioni di rilevante valenza economico-finanziaria. Di rilievo sono anche il Cicr

(comitato interministeriale per il credito e il risparmio), il quale si occupa di politica

creditizia, e il Cis (comitato interministeriale per le informazioni) che si occupa di

politica della sicurezza.

L’unità dell’azione statale è altresì garantita da una serie di organi e strumenti di

raccordo “orizzontali”, costituiti da strutture facenti parte dell’amministrazione statale e

che sono al servizio dei vari ministeri (avvocatura dello Stato, Corte dei conti, Consiglio

di Stato, Cnel). Il quadro organizzativo è completato a livello periferico dai dipartimenti

provinciali che si occupano delle amministrazioni statali decentrate e che sono

articolati al loro interno nelle ragionerie provinciali.

Il servizio nazionale di statistica si articola in una serie di uffici presenti presso ciascun

ministero e ciascuna azienda, collegati funzionalmente all’Istat (Istituto centrale di

statistica). Incardinati presso un unico complesso organizzativo, ma svolgenti attività a

favore di tutta l’organizzazione statale, sono ancora:

∙ l’avvocatura dello Stato, composta da legali che forniscono consulenza alle

amministrazioni statali e provvedono alla loro difesa in giudizio. L’avvocatura è

incardinata presso la presidenza del Consiglio dei ministri; al suo vertice è

l’Avvocato generale dello Stato, avente sede in Roma e nominato con decreto del

Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei ministri. Pur facendo

capo alla presidenza del Consiglio, svolge le proprie funzioni in modo

indipendente;

∙ la direzione generale del demanio del ministero delle finanze, che amministra i beni

immobili appartenenti allo Stato;

∙ il provveditorato generale dello Stato, che assicura la consulenza per l’acquisto di

beni e servizi da parte delle amministrazioni dello Stato.

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Il servizio di tesoreria dello Stato è costituito invece dall’insieme di

operazioni e atti attraverso i quali il denaro acquisito dalla pubblica amministrazione

viene raccolto, conservato e modificato. Oggi, il servizio di cassa è affidato alla Banca

d’Italia.

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IL CONSIGLIO DI STATO, LA CORTE DEI CONTI E IL CNEL

All’unità dell’azione dello Stato, infine, è preordinata l’attività dei altri organi,

caratterizzati dall’indipendenza di cui godono, nonché dalla circostanza che essi non

svolgono funzioni di amministrazione attiva, bensì funzioni strumentali (consultive, di

controllo, di proposta) rispetto all’attività degli organi costituzionali.

Il Consiglio di Stato, oltre ad avere funzioni giurisdizionali, è l’organo di consulenza

giuridico amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione.

La Corte dei conti dispone di funzioni giurisdizionali ed anche consultive, queste ultime

principalmente con riferimento ai disegni di legge governativi che modificano la legge

sulla contabilità dello Stato ed alle proposte di legge riguardanti l’ordinamento e le

funzioni della Corte. Per l’esercizio delle sue funzioni amministrative, la Corte dei conti è

composta da tre sezioni di controllo (una per gli atti del governo e dell’amministrazione

centrale, una per gli enti locali ed una per gli enti cui lo Stato contribuisce in via

ordinaria; per ultima, è stata istituita una sezione di controllo per affari comunitari e

internazionali.

Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), previsto dall’art. 99 Cost. come

organo ausiliario del governo, a differenza degli altri due organi esaminati, non è

inserito nell’apparato amministrativo. Esso è composto da un presidente e da 111

membri e svolge compiti di consulenza tecnica (rendendo pareri facoltativi) e di

sollecitazione nelle materie dell’economia e del lavoro dell’attività del parlamento

(attraverso l’iniziativa legislativa), del governo e delle regioni.

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LE AZIENDE AUTONOME

Accanto al modello di amministrazione ministeriale, l’organizzazione statale di

completa in virtù della presenza di altre figure soggettive – le aziende autonome – e di

enti strumentali ad essa. Le aziende autonome, o amministrazioni dello Stato ad

ordinamento autonomo, sono amministrazioni caratterizzate dal fatto di essere

incardinate presso un ministero e di avere ciò nonostante una propria organizzazione,

separata da quella ministeriale.

Le amministrazioni autonome svolgono in genere attività prevalentemente tecnica,

amministrano in modo autonomo le relative entrate, dispongono di capacità

contrattuale e sono titolari di rapporti giuridici, pur non avendo un proprio patrimonio.

Peraltro, poiché la loro attività consiste nella produzione di beni e di prestazioni di

servizi, molte di esse, ritenendosi preferibile l’adozione del regime imprenditoriale, sono

state trasformate in enti pubblici economici o in società per azioni.

Prive di norma di personalità giuridica, esse sono di solito rette dal ministro che ne ha

altresì la rappresentanza.

Il termine di azienda non è impiegato dalla legislazione con riferimento soltanto a quelle

statali: a livello regionale, ad esempio, sono aziende le Aziende sanitarie locali, enti delle

regioni aventi personalità giuridica.

LE AMMINISTRAZIONI INDIPENDENTI

La categoria delle amministrazioni indipendenti è sorta in certa misura per ovviare

all’incapacità dell’organizzazione amministrativa di provvedere ai compiti ad essa

attribuiti, incapacità in via di massima imputata all’indebito condizionamento politico

ed alle carenza tecniche degli organi amministrativi.

Come autorità indipendenti vengono generalmente ricordati: la Banca d’Italia, la

Consob, l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private (Isvap), l’Autorità per le

garanzie nelle comunicazioni, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato,


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l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas. In dottrina si discute se la Banca

d’Italia, a cui partecipano istituti di credito di diritto pubblico, istituti previdenziali e

assicurativi, sia da includere tra le autorità indipendenti. Essa è qualificabile come ente

pubblico a struttura associativa, è istituto di emissione e svolge le funzioni di vigilanza

sulle aziende di credito e di governo del settore valutario e monetario. Il suo

38

organo di vertice è costituito dal Governatore: esso rimane in carica a tempo

indeterminato ed è nominato (e revocato) dal Consiglio superiore dell’Istituto, con

decisione che deve essere approvata con decreto del Presidente della Repubblica su

proposta del Presidente del Consiglio dei ministri di concerto con il ministro del tesoro,

sentito il Consiglio dei ministri.

L’elemento veramente caratterizzante delle autorità consiste nel fatto che esse sono

indipendenti dal potere politico del governo pur dovendo, di norma, trasmettere

relazioni a questo, oltre che al Parlamento, in ordine all’attività svolta. Di conseguenza,

le autorità non sono tenute ad adeguarsi all’indirizzo politico espresso dalla

maggioranza e adottano, in posizione di relativa terzietà, decisioni simili a quelle degli

organi giurisdizionali.

La circostanza che le autorità indipendenti non rispondano politicamente all’esecutivo

– ma neppure ad altri soggetti – ha suscitato dubbi in ordine alla legittimità

costituzionale della scelta legislativa di istituirle: esse, prive di “copertura

costituzionale”, sfuggono quasi completamente al modello generale fondato sul

principio della responsabilità ministeriale.

È opportuno un accenno alla natura di una ulteriore figura che, almeno per il momento,

non è istituita a livello di organizzazione statale ma che, pur non rientrando nella

categoria delle autorità indipendenti, presenta alcuni profili di analogia con esse: si

tratta del difensore civico. Esso è nato come soggetto chiamato ad atteggiarsi a snodo

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flessibile e informale di collegamento tra cittadini e poteri pubblici, in grado

di assicurare una maggiore trasparenza dell’organizzazione amministrativa, capace di

offrire ulteriori occasioni di giustificabilità della sua azione e di consentire forme di

partecipazione, forse atipiche, ma comunque aggiuntive rispetto a quelle tradizionali.

Riferimento essenziale del dibattito teorico è oggi costituito dal T.U. degli enti locali, che

definisce il difensore civico comunale e provinciale come garante “dell’imparzialità e

del buon andamento della pubblica amministrazione”.

La legge attribuisce al difensore civico una pluralità di funzioni che costituisce forse il

limite stesso all’istituto: è difficile pensare che in un medesimo soggetto si concentrino

poteri correlati ad esigenze tanto diverse, che vanno dalla tutela dei cittadini al

controllo all’attività amministrativa, dalla difesa della legalità alla ricerca della

trasparenza, dall’azione finalizzata al miglioramento del rapporto

cittadini-amministrazione alla responsabilizzazione dei soggetti pubblici.

In ogni caso trattasi di poteri non incisivi come quelli di altri organi: il difensore civico

non può infatti annullare o riformare atti, imporre misure sanzionatorie conseguenti al

controllo o comunque emanare provvedimenti decisori.

L’effettività della sua azione è correlata, infatti, anche e soprattutto alla capacità di

persuadere le amministrazioni interessate: il difensore può riuscire in tale operazione in

quanto rivesta una posizione peculiare, nella quale l’autorevolezza del titolare

dell’ufficio si coniughi con una indipendenza notevole nei confronti dell’amministrazione

interessata.

In sintesi: il difensore civico, alla stessa stregua delle autorità indipendenti, trova

dunque il proprio riferimento costituzionale nell’art. 97 Cost.; a differenza delle

amministrazioni indipendenti, a tacere della diversità in ordine al campo di azione, esso

non dispone però di poteri decisori.

GLI ENTI PARASTATALI E GLI ENTI PUBBLICI ECONOMICI

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Si è detto che l’organizzazione statale è completata dalla presenza di enti

strumentali rispetto ad essa.

In primo luogo vengono in evidenza gli enti parastatali, quali gli enti di promozione

economica; gli enti preposti ad attività sportive, turistiche e del tempo libero; gli enti

scientifici di ricerca e di sperimentazione; gli enti culturali e di promozione turistica.

Tutti gli enti del parastato sono assoggettati al controllo della Corte dei conti: tra essi di

particolare spicco l’Inps e l’Inail.

Ricompreso tra gli enti parastatali è anche il Coni, soggetto che si pone al vertice

dell’ordinamento sportivo pubblicistico italiano, e che svolge compiti di potenziamento

dello sport nazionale e di sorveglianza e di tutela delle organizzazioni sportive.

Un’altra categoria di enti strumentali che occorre analizzare è quella degli enti pubblici

economici. Questi sono titolari di imprese ed agiscono con gli strumenti di diritto

comune. La

39

tendenza legislativa è quella di operarne la trasformazione in società per azioni,

strumento ritenuto più adatto ai fini della gestione dell’impresa.

All’interno degli enti economici, si distinguono quelli che svolgono direttamente attività

produttiva di beni e servizi da quelli che detengono partecipazioni azionarie in società a

capitale pubblico. La legislazione distingue talora nettamente la disciplina alla quale

sono soggetti gli enti pubblici economici rispetto a quella propria degli enti pubblici tout

court.

Ad esempio, i dipendenti sono sottratti alla giurisdizione della Corte dei conti per la

responsabilità in cui essi siano incorsi nei confronti dell’ente, anche se sul punto si

riscontrano incertezze in giurisprudenza.

Di natura pubblica è invece il rapporto con lo Stato, sotto il profilo della costituzione e

dell’estinzione, della nomina degli amministratori, della vigilanza e così via. In ultimo, si

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nota che gli enti pubblici economici sono sottratti al regime fallimentare. Gli

ordini e collegi professionali sono enti pubblici associativi che realizzan9o

l’autogoverno della categoria di professionisti che rappresentano. Normalmente gli

ordini concernono soggetti che, per svolgere la professione, abbisognano di una laurea,

laddove i collegi riguardano le professioni per le quali è necessario un titolo di istruzione

secondaria superiore. Altri enti, i quali non sono ascrivibili a categorie perché dotati di

peculiarità proprie, sono la Siae e l’Istituto per il commercio con l’estero (Ice),

quest’ultimo avente natura di ente pubblico non economico.

L’AMMINISTRAZIONE STATALE PERIFERICA

L’amministrazione dello Stato è presente non solo al centro, ma anche sul territorio

nazionale secondo il modello del decentramento burocratico: sul territorio nazionale

convivono infatti l’amministrazione statale periferica, quella regionale e degli enti locali.

L’amministrazione statale periferica non si presenta in modo omogeneo anche se, in

linea di massima, può osservarsi che gli ambiti territoriali di decentramento che

ricorrono con più frequenza sono costituiti dalla provincia e, talvolta, dalla regione.

Al vertice di ogni ufficio periferico è presente un dipendente del ministero, mentre la

difesa in giudizio e le funzioni consultive spettano alle avvocature distrettuali dello

Stato, aventi sede in ogni capoluogo in cui opera una Corte d’appello.

Il controllo sulla spesa è esercitato dai dipartimenti provinciali incardinati presso il

ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e, in particolare,

dalle articolazioni di tali dipartimenti costituite dalle ragionerie provinciali.

Le ripartizioni periferiche sono svariate: vi è peraltro un organo periferico che,

storicamente, ha assunto un ruolo prevalente nell’ambito provinciale. Si tratta del

prefetto, organo del ministero dell’interno, preposto all’ufficio territoriale del governo,

chiamato sia a rappresentare il potere esecutivo nella provincia, sia più in generale, a

svolgere la funzione di tramite tra centro e periferia. Ha importanti compiti in tema di

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ordine pubblico e di sicurezza pubblica nella provincia, di espropriazione, di

elezioni politiche ed amministrative, di esercizio del diritto di sciopero nei pubblici

servizi.

In ordine al problema del rapporto, a livello regionale, tra le funzioni amministrative

statali e quelle regionali, deve essere ricordato che la Costituzione ne affidava il

coordinamento al Commissario del governo nella regione (art. 124, ora abrogato dalla l.

cost. 3/2001).

L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA TERRITORIALE NON STATALE.

DISCIPLINA E RIFORME

40

L’attuazione del disegno costituzionale, che prevede la presenza delle regioni, ha

incontrato una serie di difficoltà dovute in un primo tempo all’ostruzionismo di alcune

forze politiche e, successivamente, al condizionamento del centralismo.

Va più in generale notato che, storicamente, si è assistito ad una ingerenza notevole

dello Stato nei confronti delle regioni. Va inoltre ancora osservato che la l. cost. 3/2001

non contiene alcuna disposizione transitoria e che il contrasto tra legislazione vigente e

nuova disciplina costituzionale potrebbe essere risolto in via ermeneutica, privilegiando

interpretazioni conformi a Costituzione. Inoltre, al fine di evitare i principali dubbi e

problemi interpretativi, sarebbe stato sufficiente che il legislatore fosse intervenuto

abrogando le leggi palesemente in contrasto con il nuovo quadro costituzionale.

Ciò non è peraltro avvenuto. Più d’una appaiono, al riguardo, le possibili soluzioni.

Occorre innanzitutto distinguere le ipotesi di contrasto tra disciplina sostanziale posta

dalla legge ordinaria e nuove prescrizioni costituzionali (caso emblematico è quello dei

controlli sugli atti delle regioni e degli enti locali) da quelle in cui la riforma

costituzionale modifica la previdente potestà legislativa e amministrativa, in particolare

attribuendo la competenza a legiferare alle regioni e conferendo funzioni agli enti locali.
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In ordine alle prime ipotesi di contrasto, si potrebbe ritenere che la l. cost.

3/2001, almeno nella parte in cui contenga norme precettive, abbia abrogato le

disposizioni di legge con esse incompatibili.

Altra tesi è quella secondo cui la legge in contrasto con la Costituzione dovrebbe essere

configurata come viziata per illegittimità sopravvenuta.

Altro problema è se, in attesa della legislazione regionale, il legislatore statale possa

continuare a legiferare nelle materie spettanti alla potestà regionale prima

dell’intervento regionale: la tesi positiva, che è stata sostenuta in dottrina e in

particolare dal legislatore (l. 55/2002), permette di configurare le relative leggi statali

come norme suppletive al momento dell’entrata in vigore della fonte regionale. Va

peraltro aggiunto che l’art. 117 Cost., nel definire le materie di competenza legislativa

esclusiva statale, indica alcuni ambiti per così dire “trasversali” che potrebbero

consentire uno spazio di intervento importante per il legislatore statale.

Discorso in parte diverso può essere condotto in relazione alle funzioni amministrative.

Occorre infatti sottolineare che l’art. 118 Cost. ammette una doppia lettura: quella

secondo cui i comuni sono “titolari” di tutte le funzioni amministrative, secondo il

modello dei “poteri originari” (di propri poteri e funzioni parla anche l’art. 114), e quella

in forza della quale le funzioni ed i poteri sono ad essi conferiti da regioni e Stato (“poteri

derivati”). La prima lettura emerge dal comma 1 dell’art. 118 che configura come

eccezione alla regola il conferimento di funzioni a enti diversi dai comuni; la seconda

dal comma 2 che, con riferimento a tutti gli enti territoriali, fa cenno a funzioni “proprie”

e funzioni “conferite con legge statale o regionale,m secondo le rispettive competenze”.

Ciò specificato, al fine di tratteggiare con maggior precisione il ruolo delle regioni,

occorre esaminare più da vicino le attribuzioni, anche ripercorrendo in sintesi

l’evoluzione della normativa. Le regioni dispongono di potestà legislative e

amministrative.

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L’art. 117 Cost. prevede la potestà legislativa regionale c.d. concorrente

relativamente ad alcune materie e stabilisce che alle regioni “spetta” (ma non è

riservata) la “potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente

riservata alla legislazione dello Stato”. Rispetto al previdente sistema, caratterizzato

dalla indicazione tassativa delle materie devolute alla competenza regionale, si è così

operato un decisivo rafforzamento del ruolo normativo delle regioni.

Le regioni, ai sensi dell’art. 118 Cost., esercitano altresì funzioni amministrative conferite

ad esse “per assicurarne l’esercizio unitario” “sulla base dei principi di sussidiarietà,

differenziazione ed adeguatezza” (al fine di comprendere siffatta disposizione, si

consideri che in linea di massima tutte le funzioni amministrative sono attribuite ai

comuni): si tratterà presumibilmente delle funzioni di indirizzo, di programmazione e di

controllo.

Quanto ai limiti che le regioni incontrano nell’esercizio delle funzioni amministrative, va

osservato che fin dalle prime leggi che ne hanno attuato il trasferimento alle regioni, è

stato configurato un potere governativo di indirizzo e coordinamento, “attinente ad

esigenze di carattere unitario”. Di uno dei fondamenti di questo potere (l’interesse

nazionale) non vi è più traccia.

L’accennato art. 118 Cost. consente di affrontare il tema degli “altri enti locali”. 41

Oggi il termine è usato nel dettato costituzionale soltanto nell’art. 123, per indicare i

“governo locali” diversi dalle regioni (e dunque, in primo luogo, città metropolitane,

province e comuni: art. 120).

Parte della dottrina considera enti locali le comunità montane, i consorzi ed i

comprensori di enti territoriali. Altri autori estendono ancor più i limiti della categoria,

fino a ricomprendervi gli enti pubblici infraregionali. Tuttavia, l’art. 2 del T.U. enti locali

precisa che, ai fini del T.U. medesimo, “si intendono per enti locali i comuni, le province,

le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni”.

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Un deciso impulso al perfezionamento del sistema regionale fu apprestato

dalla l. 59/1997, contenente delega al governo per il conferimento di funzioni e compiti

alle regioni ed agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la

semplificazione amministrativa. In particolare, questa legge diede attuazione al titolo V

della Costituzione, come allora vigente, che imponeva l’attribuzione alle regioni delle

funzioni loro spettanti, nel segno di un significativo rafforzamento delle autonomie

territoriali.

Giova ribadire che il quadro costituzionale è oggi profondamente mutato a seguito

della promulgazione della l. cost. 3/2001.

Ciò premesso, si può osservare che la l. 59/1997 mirò a realizzare una localizzazione

territoriale delle funzioni e dei compiti amministrativi in ragione della loro strumentalità

rispetto agli interessi della collettività. La legge utilizzò il termine conferimento,

comprensivo dei vari istituti mediante i quali funzioni e compiti potevano essere

assegnati, nel quadro costituzionale allora vigente, a regioni, comuni, province,

comunità montane e altri enti locali: trasferimento, delega e attribuzione. La legge si

ispira in primo luogo al principio di sussidiarietà: nell’art. 2 della l. 59/1997, il principio di

sussidiarietà è indicati espressamente tra i principi e i criteri direttivi vincolanti per il

governo nella disciplina da esso posta mediante decreto delegato, precisando che, ove

possibile, le responsabilità politiche debbono essere attribuite all’autorità

territorialmente più vicina ai cittadini interessati. Il conferimento deve avvenire

rispettando inoltre i principi di completezza, di efficienza e di economicità, di

cooperazione tra Stato, regioni ed enti locali, di responsabilità ed unicità

dell’amministrazione, di omogeneità, di adeguatezza, di differenziazione nell’allocazione

delle funzioni, di copertura finanziaria e patrimoniale dei costi, di autonomia

organizzativa e regolamentare e di responsabilità degli enti locali nell’esercizio delle

funzioni e dei compiti amministrativi ad essi conferiti.

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La legge mira ad imporre un criterio di riparto tra funzioni statali e regionali

improntato al principio secondo cui la competenza in generale è della regione, fatti

salvi i compiti e le funzioni statali attinenti ad una serie di materie. Ma all’interno delle

varie materie conferite alle regioni, vengono lasciati allo Stato alcuni compiti, scelta

questa che frustra il disegno di una netta ripartizione verticale di materie, affidate alla

cura di un solo soggetto, giacché in alcune di esse vi è la commistione di più

competenze, statali, regionali e degli enti locali.

In attuazione della l. 59/1997 è stato emanato il d. lgs. 112/1998 che ha proceduto ad

operare il conferimento di funzioni e compiti. Tale decreto specifica che “il conferimento

comprende anche le funzioni di organizzazione e le attività connesse e strumentali

all’esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti, quali fra gli altri, quelli di

programmazione, di vigilanza, di acceso al credito, di polizia amministrativa”.

Risulta dunque evidente l’intento di decentrare il più possibile compiti e funzioni a

regioni ed enti locali: ciò trova conferma nel comma 4 dell’art. 1 del d. lgs. 112/1998,

secondo cui “in nessun caso le norme del presente decreto legislativo possono essere

interpretate nel senso della attribuzione allo Stato”.

La c.d. legge Bassanini (l. 59/1997), riformando l’amministrazione a Costituzione

invariata, non poteva ampliare la potestà legislativa della regione, ma soltanto incidere

sui suoi compiti amministrativi.

Il nuovo testo dell’art. 120 Cost. disciplina il potere sostitutivo del governo nei confronti

degli “organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nel

caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa

comunitaria oppure di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero

quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in

particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e

sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”.

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42

La normativa prevedeva che il decentramento avvenisse anche da parte delle regioni e

a favore di province, comuni e altri enti locali. L’art. 4 della l. 59/1997, infatti, stabilisce

che la regione conferisca a tali ultimi enti “tutte le funzioni che non richiedono l’unitario

esercizio a livello regionale”.

La riforma Bassanini si occupa anche dei già citati poteri di indirizzo, di coordinamento

e di direttiva.

Nell’abrogare precedenti disposizioni, l’art. 8 della legge stabilisce che “gli atti di

indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali, gli atti di

coordinamento tecnico, nonché le direttive relative all’esercizio delle funzioni delegate,

sono adottati previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le

regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, o con la singola regione

interessata”.

Se l’intesa non si perfeziona con l’assenso del governo e dei presidenti delle regioni e

delle province autonome entro 45 giorni dalla prima consultazione, gli atti possono

essere adottati “con deliberazione del Consiglio dei ministri, previo parere della

Commissione parlamentare per le questioni regionali da esprimere entro 30 giorni dalla

richiesta.

La Corte costituzionale, sentenza n. 408/1998, sul presupposto che la funzione di

indirizzo e coordinamento sia espressione del potere di assicurare la salvaguardia di

interessi unitari non frazionabili, ha peraltro dichiarato l’illegittimità costituzionale

dell’art. 8 l. 59/1997, nella parte in cui, disciplinando un procedimento non

necessariamente coinvolgente il Consiglio dei ministri, sottrae a tale organo,

responsabile della politica generale del governo, l’esercizio della funzione stessa, con

l’effetto di ripristinare l’efficacia della disposizione abrogata (art. 2, comma 3, l.

400/1988)che stabiliva quella competenza.

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I RAPPORTI CON LO STATO E L’AUTONOMIA CONTABILE

DELLA REGIONE

Al fine di cogliere in modo sufficientemente chiaro il ruolo delle regioni non è sufficiente

elencare i poteri di cui dispongono, ma occorre altresì far cenno ai condizionamenti che

le stesse possono incontrare nel corso della loro attività.

La Corte costituzionale ha individuato, quale principio generale al quale dovrebbero

essere improntati i rapporti tra Stato e regione nelle ipotesi in cui di verifichino

interferenze tra le rispettive competenze, quello della leale cooperazione.

Il principio impone la previsione di adeguate forme di raccordo procedurale tra regione

e Stato, in grado di assicurare, ad esempio, la mutua informazione e il rispetto

dell’obbligo di preavviso in vista dell’adozione di provvedimenti sostitutivi. Esso è ora

costituzionalizzato dall’art. 120 Cost. Sempre nella prospettiva dei rapporti tra Stato e

regioni, sul piano organizzativo si deve richiamare, oltre alla commissione parlamentare

per le questioni regionali di cui all’art. 126 Cost., l’istituzione della Conferenza

permanente per i rapporti tra lo Stato, la regione e le province autonome, “con compiti

di informazione, consultazione e raccordo, in relazione agli indirizzi di politica generale

suscettibili di incidere nelle materie di competenza regionale”. Con d.p.c.m. 2-7-1996 è

stata inoltre istituita la Conferenza Stato-citta-autonomie locali, con compiti “di

coordinamento nei rapporti tra lo Stato e le autonomie locali”.

Le conferenze citate sono organi statali, anche se sono a composizione mista. Prima di

analizzare però l’organizzazione regionale, occorre far cenno al problema del potere di

annullamento governativo degli atti amministrativi regionali, al sistema dei controlli

statali delineato dall’ordinamento in ordine agli atti e agli organi regionali, nonché

all’autonomia finanziaria delle regioni.

In ordine al primo aspetto, deve essere ricordato che, a garanzia dell’autonomia

costituzionalmente riconosciuta alle regioni, il potere di annullamento da parte del


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governo non è esercitabile nei confronti degli atti amministrativi regionali: la

Corte costituzionale (sentenza 229/1989), infatti, ha dichiarato incostituzionale l’art. 2

comma 3 della legge 400/1988 che, come già visto, attribuiva al Consiglio dei ministri

siffatto potere nei confronti delle regioni.

43

Per quanto attiene ai controlli, ai sensi dell’art. 125 Cost. gli atti amministrativi delle

regioni erano soggetti al controllo di legittimità esercitato da un organo dello Stato. La

legislazione ordinaria li aveva profondamente modificati.

Oggi, l’art. 125 Cost. è stato abrogato dalla l. cost. 3/2001 e l’opinione dominante è nel

senso che i controlli in esame siano stati eliminati.

Ricordiamo poi che il controllo sulla gestione del bilancio e del patrimonio esercitato

dalla Corte dei conti anche nei confronti delle amministrazioni regionali “concerne il

perseguimento degli obiettivi stabiliti dalle leggi di principio e di programma”.

Per quanto attiene al controllo sugli organi, l’art. 126 Cost. prevede la possibilità che il

consiglio regionale venga sciolto (potere mai esercitato fino ad oggi) e il presidente

della giunta rimosso con decreto del Presidente della Repubblica, sentita una

commissione di deputati e senatori costituita per le questioni regionali, quando

abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge.

Lo scioglimento e la rimozione possono altresì essere disposti per ragioni di sicurezza

nazionale; l’approvazione di una mozione di sfiducia nei confronti del presidente della

giunta, la rimozione, l’impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie

dello stesso comportano le dimissioni della giunta e lo scioglimento del consiglio.

In ordine ai rapporti finanziari tra Stato e regione, va notato che, ai sensi dell’art. 119

Cost., le regioni, così come comuni, province e città metropolitane, hanno autonomia

finanziaria “di entrata e di spesa”. Esse “stabiliscono e applicano tributi ed entrate

propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della

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finanza pubblica e del sistema tributario”.

Il coordinamento delle finanza pubblica e del sistema tributario è materia di

legislazione concorrente.

Per quanto attiene al ruolo dello Stato, l’art. 119 prevede l’istituzione di un fondo

perequativo “per i territori con minore capacità fiscale per abitante” e la destinazione

da parte dello Stato di risorse aggiuntive nonché l’effettauzione di interventi speciali “in

favore di determinati” regioni o enti locali per “promuovere lo sviluppo economico, la

coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per

favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal

normale esercizio delle loro funzioni”.

Le regioni e gli enti locali possono ricorrere all’indebitamento “solo per finanziare spese

di investimento”.

Dal principio di autonomia finanziaria deriva che la regione ha un bilancio autonomo

rispetto a quello statale. Il d. lgs. 76/2000 adegua il sistema contabile delle regioni a

quello dello Stato; esso disciplina in particolare il bilancio pluriennale, il bilancio

annuale, la legge finanziaria regionale, le leggi di spesa e il rendiconto.

La regione dispone infine di un proprio patrimonio.

L’ORGANIZZAZIONE REGIONALE

Per quanto attiene all’organizzazione regionale, si rileva che:

∙ il consiglio regionale esercita le potestà legislative e le altre funzioni ad esso

conferite dalla Costituzione e dalle leggi;

∙ la giunta regionale è l’organo esecutivo, esercita potestà regolamentare e dispone

anche di poteri di impulso e di iniziativa legislativa;

∙ il presidente della giunta regionale rappresenta la regione; dirige la politica della

giunta e ne è responsabile, promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali;

dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla regione, conformandosi

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alle istruzioni del governo della Repubblica.

Ai sensi dell’art. 123 Cost., la forma di governo di ciascuna regione è determinata dallo

statuto. Il presidente della giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga

diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto; il presidente eletto nomina e

revoca i componenti della giunta.

44

Sul piano della legislazione ordinaria, l’art. 4 T.U. degli enti locali, consente alla regione

di organizzare l’esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i

comuni e le province.

Per la cura degli interessi ad essa affidata, la regione può avvalersi anche di enti

dipendenti che si caratterizzano anche e soprattutto sotto il profilo squisitamente

strutturale come uffici regionali entificati.

Tra i soggetti di diritto pubblico operanti nell’ambito dell’organizzazione regionale,

particolarmente importanti sono le aziende sanitarie locali, aventi il compito di

assicurare livelli di assistenza sanitaria uniforme nel proprio ambito territoriale e che il

d. lgs. 502/1992 qualifica coke aziende dotate di personalità giuridica pubblica e di

autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.

Si aggiunga che le regioni possono assumere partecipazioni in società finanziarie

regionali il cui oggetto rientri nelle materie regionali.

La legge 127/1997 prevede, inoltre, la presenza di difensori civici regionali.

LA POSIZIONE E LE FUNZIONI DEGLI ENTI LOCALI

I comuni, le province e le città metropolitane rappresentano gli ulteriori livelli di

autonomia riconosciuti espressamente dalla Costituzione.

Essi, denominati “enti locali”, sono, al pari delle regioni, “enti autonomi con propri statuti,

poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114 Cost.).

Oggi, l’autonomia di questi poteri locali è direttamente sancita dalla Costituzione, la

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quale li indica accanto allo Stato come ordinamenti costituenti la

Repubblica, secondo una logica non già di articolazione gerarchica avente come

vertice lo Stato, bensì di tendenziale pariequazione. L’art. 114 Cost. riconosce una

peculiare posizione a Roma, definita capitale della Repubblica, la disciplina del cui

ordinamento è affidata a legge dello Stato.

La legge 142/1990 ha comunque segnato un momento decisivo dell’evoluzione della

normativa relativa alle autonomie locali: essa non solo ha riconosciuto potestà

statutaria a comuni e province, ma ha inteso porre una disciplina generale,

sottraendola al rischio di deroghe particolari. In relazione al ruolo delle regioni nel

sistema delle autonomie, va osservato che la presenza della regione non comporta un

offuscamento dell’ente locale, al quale, anzi, la regione è dalla Costituzione impegnata

a attribuire funzioni. Ma, mentre l’importanza della regione è risultata rafforzata dalla l.

142/1990, tanto che è stato affermato che le regioni costituiscono “il centro propulsore

dell’intero sistema delle autonomie locali”, la disciplina successiva (l. 265/1999) sembra

invece mirare ad un rafforzamento più evidente del ruolo dell’ente locale, limitando

l’ingerenza della regione stessa.

LE FUNZIONI DEL COMUNE

Ai sensi dell’art. 118 Cost., ai comuni sono attribuite tutte le “funzioni amministrative”:

questa, come già visto, è la regola, cui si può derogare soltanto per “assicurarne

l’esercizio unitario”. La disciplina costituzionale non parla più di “delega”, ma di

“conferimento”: in relazione alle materie delegate dalla regione, viene comunque in

evidenza l’art. 4 T.U., il quale dispone che le regioni organizzano l’esercizio delle funzioni

amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province, disposizione questa

che pare implicare l’uso della delega di funzioni agli enti locali. L’art. 3 del T.U. definisce il

comune come “l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e

ne promuove lo sviluppo”.

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L’art. 13, anticipando il disegno poi recepito dalla recente riforma

costituzionale, attribuisce al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la

popolazione ed il territorio comunale precipuamente nei settori organici dei servizi

sociali, dell’assetto e dell’utilizzo del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto

non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale.

45

Il comune “gestisce” alcuni servizi di competenza statale. In realtà, mentre la titolarità

delle funzioni spetta allo Stato, l’esercizio delle stesse è demandato al sindaco, quale

ufficiale del governo. Il sindaco si presenta in questa occasione come organo dello

Stato.

In tema di funzioni va infine ricordato che il T.U. consente agli enti locali di disciplinare

mediante proprio statuto le funzioni delle unioni dei comuni e dei municipi e di proporre

lo statuto della città metropolitana con l’indicazione delle sue funzioni.

Importanti funzioni sono state conferite al comune in relazione all’istituto dello sportello

unico per le attività produttive.

LE FUNZIONI DELLA PROVINCIA

L’art. 3 del T.U. definisce la provincia come ente intermedio tra comune e regione, che

rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne coordina lo sviluppo. L’art. 19

attribuisce a tale ente le funzioni amministrative di interesse provinciale, che riguardino

vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale, relative ad una serie di settori

specifici e tassativamente indicati.

La provincia assume particolare rilievo anche nel settore ambientale: esercitano

funzioni amministrative di autorizzazione e di controllo per la salvaguardia dell’igiene

dell’ambiente già di competenza delle unità sanitarie locali.

Gli artt. 19 e 20 T.U. affidano altresì alla provincia, la quale pure svolge le funzioni

attribuite o delegate dallo Stato e dalla regione, importanti compiti in tema di

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promozione e coordinamento di attività e di realizzazione di “opere di

rilevante interesse provinciale sia nel settore economico, produttivo, commerciale e

turistico, sia in quello sociale, culturale e sportivo”, nonché compiti di programmazione

e, soprattutto, di pianificazione territoriale (va ricordata in particolare la redazione del

piano territoriale di coordinamento).

L’ORGANIZZAZIONE DI COMUNI E PROVINCE

La legge dello Stato disciplina gli organi degli enti locali.

Con riferimento ai comuni, essa definisce espressamente come “organi di governo” il

sindaco, il consiglio e la giunta: in seno alle autonomie esistono tuttavia altri organi, si

pensi al direttore generale, ove esistente, ai dirigenti, ai revisori dei conti.

Gli organi di governo durano in carica cinque anni.

Il sindaco (o il presidente della provincia) è l’organo responsabile dell’amministrazione

del comune (o della provincia). Esso rappresenta l’ente, convoca e presiede la giunta e

sovrintende al funzionamento dei servizi e funzioni statali e regionali attribuite al

comune e alla provincia. Sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio, il sindaco e il

presidente della provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei

rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende ed istituzioni.

Il consiglio comunale (il consiglio provinciale) è l’organo di indirizzo e di controllo

politico amministrativo. Esso ha competenza limitatamente ad alcuni atti fondamentali

indicati dalla legge. Il sindaco (o il presidente della provincia), sentita la giunta, nel

termine fissato dallo statuto, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle

azioni e ai progetti che intende realizzare.

I consigli provinciali e comunali dei comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti

sono presieduti da un presidente eletto tra i consiglieri nella prima seduta, cui sono

attribuiti autonomi poteri di convocazione e di direzione dei lavori e delle attività del

consiglio. Il consiglio si avvale, quando lo prevede lo statuto, di commissioni costituite

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nel proprio seno con criterio proporzionale.

I consigli sono dotati di autonomia finanziaria e organizzativa.

La giunta comunale (la giunta provinciale) è l’organo a competenza residuale: essa

collabora con il sindaco o con il presidente della provincia nell’amministrazione del

comune o della provincia, attua gli indirizzi generali del consiglio e svolge attività

propositiva e di impulso nei confronti del consiglio. Il sindaco e il presidente della

provincia nominano i componenti della giunta, tra cui un

46

vicesindaco e un vicepresidente, e ne danno comunicazione al consiglio nella prima

seduta successiva alla elezione.

Alle dirette dipendenze del sindaco (o del presidente della provincia), della giunta o

degli assessori possono essere costituiti “uffici di supporto” per l’esercizio delle funzioni

di indirizzo e di controllo. Il numero degli assessori è fissato dallo statuto, il quale può

anche limitarsi a individuare il numero massimo. Nei comuni con popolazione superiore

a 15 mila abitanti e nelle province gli assessori sono nominati anche al di fuori dei

componenti del consiglio; nei restanti comuni tale possibilità può essere prevista dallo

statuto.

In caso di approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del sindaco (o del

presidente della provincia) e della giunta, il sindaco, il presidente della giunta e le

rispettive giunte cessano dalla carica e si procede allo scioglimento del consiglio e alla

nomina di un commissario. il sindaco, dopo la proclamazione, giura dinanzi al consiglio

(ma tale atto non condiziona l’esercizio delle funzioni).

I dirigenti, i quali svolgono la propria attività sulla base di incarichi a tempo

determinato, sono responsabili, in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza

amministrativa e dell’efficienza della gestione ed hanno tutti i compiti di attuazione

degli obiettivi e dei programmi definiti con atti di indirizzo adottati dall’organo politico.

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Ai dirigenti è attribuita la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica

“mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali

e di controllo”. I dirigenti, sulla base dello statuto e del regolamento, possono esercitare

funzioni delegate dal sindaco.

L’art. 108, infine, ammette che il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15 mila

abitanti e il presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o

provinciale, possano nominare un direttore generale, al di fuori della dotazione

organica e con contratto a tempo determinato. Egli può essere revocato dal sindaco (o

dal presidente) previa deliberazione della giunta.

La durata del suo incarico non può eccedere quella del mandato del sindaco (o del

presidente): tale organo costituisce quindi una sorta di fiduciario del sindaco, incaricato

di gestire i collegamenti tra livello politico e livello gestionale.

Nei comuni con popolazione inferiore a 15 mila abitanti è consentito procedere alla

nomina del direttore generale previa stipula di convenzioni tra comuni, le cui

popolazioni assommate raggiungano i 15 mila abitanti.

Al vertice della struttura burocratica dell’ente locale era tradizionalmente collocato il

segretario, organo alle dipendenze dello Stato e nominato dall’amministrazione degli

interni. Con la riforma di cui alla l. 127/1997, tale organo, pur legato ad un rapporto

funzionale con l’ente (a tempo determinato), dipende da apposita agenzia avente

personalità giuridica di diritto pubblico sottoposta alla vigilanza del ministero

dell’interno, ed è nominato dal sindaco (o dal presidente della provincia) tra gli iscritti in

apposito albo, per la durata del mandato del sindaco (o del presidente della provincia).

Il segretario può essere revocato con provvedimento motivato del sindaco o del

presidente della provincia, previa deliberazione della giunta, per violazione dei doveri

d’ufficio.

Un nuovo sindaco (o presidente) può riconfermare il segretario, ovvero nominarne uno

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nuovo non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dal suo

insediamento; decorso il termine di centoventi giorni senza nuova nomina, il

precedente segretario è confermato. Il segretario “svolge compiti di collaborazione e

funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in

ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai

regolamenti. Tale organo inoltre partecipa, con funzioni consuntive, referenti e di

assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta e ne cura la verbalizzazione; può

rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte ed autenticare scritture private ed atti

unilaterali nell’interesse dell’ente.

Il segretario non può trovarsi in posizione subordinata rispetto al direttore generale,

anche perché le funzioni svolte sono tendenzialmente differenti: al segretario spetta

garantire la legittimità, l’economicità e l’efficacia dell’azione amministrativa; il direttore

è responsabile dell’attività gestionale in ordine al raggiungimento degli obiettivi

dell’ente.

47

I CONTROLLI SUGLI ATTI E SUGLI ORGANI DEGLI ENTI LOCALI

Al fine di illustrare in modo compiuto il grado di autonomia di cui godono comuni e

province, occorre affrontare il problema dei controlli ai quali la loro attività e i loro

organi sono sottoposti e quello della loro autonomia finanziaria e tributaria.

In origine, gli enti locali subivano una notevole ingerenza da parte del governo centrale.

Il controllo sugli atti veniva svolto dal Co.re.co. (organo regionale) e dal difensore

civico, ove istituito e veniva distinto in necessario, facoltativo ed eventuale. La legge n.

142/1990 aveva già soppresso il controllo di merito e ridotto le categorie di atti soggetti

a controllo. Si discute se sopravviva il controllo sostitutivo: ai sensi dell’art. 136 T.U.,

qualora i comuni e le province, sebbene invitati a provvedere entro un congruo termine,

ritardino od omettano di compiere atti obbligatori per legge, si provvede a mezzo di

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commissario ad acta nominato dal difensore civico regionale, ove istituito,

ovvero dal comitato regionale di controllo (organo regionale). Il commissario provvede

entro sessanta giorni dal conferimento dell’incarico. Il T.U. art. 138 annovera tra i controlli

l’annullamento straordinario governativo ex l. 400/88. I controlli interni degli enti locali

sono disciplinati dall’art. 147 T.U., il quale dispone che la loro organizzazione è effettuata

dagli enti medesimi anche in deroga ai principi generali obbligatori per i ministeri e

consente tra più enti, mediante convenzione, la istituzione di uffici unici per

l’effettuazione dei controlli stessi.

I controlli sugli organi spetta allo Stato ed è disciplinato dagli artt. 141 e ss. T.U. enti locali.

Questa normativa attribuisce il potere di scioglimento dei consigli comunali e

provinciali in capo al Presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno.

Le cause di scioglimento sono: a) il compimento di atti contrari alla Costituzione, gravi e

persistenti violazioni di legge; b) l’impossibilità di assicurare il normale funzionamento

degli organi e dei servizi per dimissioni, impedimento permanente, rimozione,

decadenza, decesso del sindaco o del presidente della provincia; c) la mancata

approvazione del bilancio nei termini (in questa ultima ipotesi è prevista la nomina di

un commissario da parte del Co.re.co.).

Con il decreto di scioglimento si provvede alla nomina di un commissario che esercita

le attribuzioni conferitegli con il decreto stesso, ad eccezione del caso in cui lo

scioglimento sia dovuto a dimissioni, impedimento permanente, rimozione, decadenza,

decesso del sindaco o del presidente della provincia: in questa ipotesi lo scioglimento

non “dipende” dal comportamento del consiglio, sicché il consiglio e la giunta

rimangono in carica sino all’elezione del nuovo consiglio e del nuovo sindaco o

presidente della giunta e le funzioni del sindaco e del presidente sono svolte

rispettivamente dal vicesindaco e dal vicepresidente.

Il consiglio si scioglie inoltre nel caso di approvazione consiliare di una mozione di

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sfiducia. Con il decreto di scioglimento è nominata una commissione

straordinaria per la gestione dell’ente.

I RAPPORTI FINANZIARI E LA CONTABILITÀ NEI COMUNI E NELLE

PROVINCE

Per quanto attiene ai rapporti finanziari, è stata riconosciuta al comune e alla provincia

autonomia finanziaria e potestà impositiva autonoma che può essere in parte da essi

disciplinata con propri regolamenti.

La possibilità per gli enti locali di istituire tributi propri pare tuttavia trovare un ostacolo

nell’art. 23 Cost.

L’art. 234 T.U. stabilisce poi che la revisione economico-finanziaria sia affidata ad un

collegio dei revisori dei conti.

Ai sensi dell’art. 49 T.U. “su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta ed al

consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere in ordine alla

sola regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti

impegno di spesa o diminuzione di entrata, del responsabile di ragioneria in ordine alla

regolarità contabile”: il parere di regolarità tecnica è obbligatorio solo nei casi in cui la

proposta relativa a spese o minori entrate implichi valutazioni di carattere tecnico.

48

Il parere di regolarità è reso dal segretario allorché l’ente non abbia funzionari

responsabili dei relativi servizi.

Va infine ricordato che l’art. 28 della l. 488/1998 estende il patto di stabilità assunto dal

Governo in sede comunitaria non solo alle regioni, ma anche a province, comuni e

comunità montane: tali enti devono ridurre il disavanzo annuo e il rapporto tra

l’ammontare del debito e il prodotto interno lordo.

GLI ISTITUTI DI PARTECIPAZIONE NEGLI ENTI LOCALI

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L’art. 8 T.U. disciplina gli istituti di partecipazione, specificando che i comuni

(si noti, non le province) valorizzano le libere forme associative e promuovono gli

organismi di partecipazione all’amministrazione locale.

Inoltre, il medesimo articolo prevede forme di consultazione della popolazione e

procedure per l’ammissione di istanze, petizioni, proposte di cittadini singoli o associati

dirette a promuovere interventi per ola migliore tutela di interessi collettivi.

L’istituto del referendum è in generale caratterizzato dal fatto che la relativa richiesta

proviene dagli elettori, mentre l’articolo in esame non pare escludere che la sua

indizione sia proposta dagli organi comunali.

Quali limiti per il ricorso alla consultazione ed al referendum, la legge prevede la loro

attinenza alle materie di esclusiva competenza locale e la necessità che essi non

abbiano luogo in coincidenza con operazioni elettorali provinciali, comunali e

circoscrizionali.

Tra gli istituti di partecipazione sono poi ricompresi:

∙ l’azione popolare (ogni elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che

spettano al comune: in caso di soccombenza le spese sono a carico dell’elettore,

salvo che il comune, costituendosi, abbia aderito all’azione;

∙ il diritto di accesso agli atti amministrativi (eccetto quelli riservati per espressa

indicazione di legge o per effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del

sindaco o del presidente della provincia che ne vieti l’esibizione, in quanto la loro

diffusione può pregiudicare il diritto alla riservatezza delle persone, dei gruppi o

delle imprese);

∙ il diritto di accesso alle informazioni di cui è in possesso l’amministrazione, alle

strutture ed ai servizi degli enti, alle organizzazioni di volontariato e alle

associazioni.

Va ancora precisato che, a seguito della riforma di cui alla l. cost. 3/2001, la materia

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degli istituti di partecipazione rientra ora nella potestà legislativa delle

regioni.

TERRITORIO E FORME ASSOCIATIVE

Il territorio è elemento costitutivo del comune; la regione con propria legge, sentite le

popolazioni interessate, istituisce nuovi comuni e può modificare le loro circoscrizioni e

la loro denominazione. L’art. 5 T.U. prevede che “salvo i casi di fusione tra più comuni,

non possono essere istituiti nuovi comuni con popolazione inferiore a 10 mila abitanti o

la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri comuni scendano sotto tale

limite”.

la legge regionale che istituisce nuovi comuni deve stabilire che “alle comunità di

origine o ad alcune di esse siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di

decentramento”. Lo statuto comunale – e non la legge regionale – può a sua volta

contemplare l’istituzione di municipi nei territori interessati dal processo appena

ricordato, di istituzione di nuovi comuni a seguito di fusione decisa dalla regione.

La legge contempla poi le unioni di comuni, enti locali costituiti da due o più comuni di

norma contermini “allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di

loro competenza”. Una particolare forma di unione è costituita dalla comunità

montana.

49

Le forme di incentivazione dell’esercizio associato delle funzioni da parte dei comuni,

afferma che occorre prevedere una “maggiorazione dei contributi nelle ipotesi di

fusione e di unione, rispetto alle altre forme di gestione sovracomunale”.

In sintesi, con riferimento al loro grado di stabilità, le forme associative previste dal T.U.

possono essere ordinate come segue: accordi di programma, per la definizione e

l’attuazione di opere e di interventi; convenzioni, al fine di svolgere in modo coordinato

funzioni e servizi determinati; uffici comuni, istituiti mediante convenzioni, ai quali

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affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche; delega (ad un solo ente

dell’esercizio delle funzioni); consorzi (soggetti distinti dagli enti che li costituiscono per

la gestione associata di uno o più servizi e per l’esercizio di funzioni); esercizio associato

di funzioni e servizi; unioni di comuni (che danno luogo alla creazione di un ente locale).

L’art. 53 T.U. enti locali, consente al sindaco, ove non sussistano organi di

decentramento comunale, di delegare ad un consigliere comunale l’esercizio delle

funzioni di ufficiale del governo nei quartieri o nelle frazioni.

CITTÀ METROPOLITANE E COMUNITÀ MONTANE

L’art. 114 Cost. qualifica le città metropolitane come enti autonomi con propri statuti,

poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione, alla stessa stregua delle

regioni, delle province e dei comuni.

Il T.U. prevede la figura dell’area metropolitana, comprendenti i comuni di Torino,

Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli (si noti che la Costituzione

configura invece come ente la città metropolitana).

La regione, su conforme parere degli enti locali interessati, procede alla delimitazione

territoriale dell’area metropolitana.

L’amministrazione si articola in due livelli: la città metropolitana e i comuni. In

particolare, nelle aree metropolitane, il comune capoluogo e gli altri comuni possono

costituirsi in città metropolitane ad ordinamento differenziato (sicché, mentre la

delimitazione dell’area è obbligatoria, l’istituzione della città può anche non verificarsi).

La legge parifica la città metropolitana alla provincia, la parificazione è, però, soltanto

tendenziale, in quanto la città esercita ovviamente funzioni ulteriori rispetto alla

provincia, ossia le funzioni appunto conferite dalla regione. L’art. 23 precisa comunque

che possono costituirsi in città metropolitane i comuni “uniti da contiguità territoriale e

da rapporti di stretta integrazione in ordine all’attività economica, ai servizi essenziali, ai

caratteri ambientali, alle relazioni sociali e culturali”.

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La comunità montana è invece un ente locale ad appartenenza

obbligatoria costituito con provvedimento del presidente della giunta regionale “tra

comuni montani e parzialmente montani anche appartenenti a province diverse per la

valorizzazione delle zone montane per l’esercizio di funzioni proprie, di funzioni conferite

e per l’esercizio associato di funzioni comunali”.

Spettano alle comunità montane le funzioni attribuite dalla legge e gli interventi per la

montagna stabiliti dalla Unione europea o dalle leggi statali e regionali.

Le comunità montane hanno autonomia statutaria nell’ambito delle leggi statali e

regionali; un organo rappresentativo e un organo esecutivo composti da sindaci,

assessori o consiglieri dei comuni partecipanti, eletti dai rispettivi consigli con il sistema

del voto limitato. Le norme sulla comunità montana si estendono alle comunità isolane

o di arcipelago.

50

CAPITOLO 5 - SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE E LORO

VICENDE

PREMESSA. QUALITÀ GIURIDICHE, STATUS, CAPACITÀ E SITUAZIONI

GIURIDICHE

Una delle funzioni essenziali dell’ordinamento giuridico è quella di risolvere conflitti di

interessi intersoggettivi. Gli interessi sono aspirazioni dei soggetti verso i beni ritenuti

idonei a soddisfare bisogni.

Poiché tali conflitti sorgono tra soggetti diversi dell’ordinamento, esso deve

preliminarmente riconoscere i soggetti come tali.

La soluzione del conflitto comporta la qualificazione giuridica dei comportamenti dei

soggetti coinvolti: ad esempio, il divieto, la possibilità o la necessità giuridica alcune

azioni. Tali comportamenti sono in definitiva qualificati nei confronti dell’ordinamento e

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delle sue norme in relazione alla particolare posizione del soggetto che li

pone in essere.

Siamo così giunti a fornire una prima definizione del concetto di “situazione giuridica

soggettiva”, la concreta situazione cioè in cui è collocato – o meglio, di cui è “titolare” –

un soggetto dall’ordinamento. Le situazioni sono svariate: diritto soggettivo, interesse

legittimo, potere, obbligo e dovere.

Ogni soggetto del diritto costituisce sul piano dell’ordinamento giuridico un centro di

riferimento di una serie di situazioni e rapporti giuridici.

I modi di essere giuridicamente definiti, di una persona, di una cosa, di un rapporto

giuridico, si definiscono qualità giuridiche. Si pensi alla qualità di residente,

presupposto per l’esercizio del diritto di elettorato attivo in un certo comune.

Diverso significato assume il termine di status, utilizzato in ordine al soggetto che si trovi

in una particolare posizione (es. status di cittadino, di impiegato pubblico). Gli status

sono le qualità attinenti alla persona che globalmente derivano dalla sua appartenenza

necessaria o volontaria ad un gruppo e rappresentano il presupposto per l’applicazione

al soggetto di una serie di norme.

La riferibilità effettiva di situazioni giuridiche ad un soggetto presuppone la idoneità di

questo ad esserne titolare. Tale idoneità è la capacità giuridica riconosciuta

dall’ordinamento ai propri soggetti; soltanto in presenza di essa vengono dunque

conferite dall’ordinamento stesso le situazioni giuridiche.

L’amministrazione ha una capacità giuridica in ordine ai poteri di diritto comune meno

estesa di quella delle persone fisiche.

Dalla capacità giuridica si distingue la capacità di agire, che consiste nella idoneità a

gestire le vicende delle situazioni giuridiche di cui il soggetto è titolare e che si acquista

con il compimento del diciottesimo anno d’età, salvo che la legge non stabilisca un’età

diversa. Si discute se la capacità d’agire possa essere riferita direttamente all’ente,

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ovvero sia esclusiva della persona fisica preposta all’organo che fa agire

l’ente. La diversità di opinioni ha importanza soprattutto ai fini della qualificazione della

natura della responsabilità extracontrattuale degli enti pubblici: ove si ritenga infatti

che l’ente abbia capacità di agire, è più semplice concludere nel senso che risponda

direttamente per gli illeciti compiuti dai propri dipendenti, laddove, riferendo (secondo

l’opinione più attendibile) la capacità di agire soltanto alle persone fisiche preposte agli

organi, si dovrebbe concludere che la responsabilità dell’ente per gli illeciti da queste

commesse sia indiretta (l’opinione oggi dominante è però contraria).

La capacità di agire, che concerne categorie astratte di situazioni giuridiche, differisce

poi dalla legittimazione ad agire, la quale si riferisce invece a situazioni specifiche e

concrete (attive o passive): ad esempio, il soggetto ha la capacità di agire in relazione

al potere di intervento nei

51

procedimenti amministrativi, ma ha la legittimazione ad agire soltanto se in concreto

sia pendente un procedimento che coinvolga suoi interessi.

POTERE, DIRITTO SOGGETTIVO, DOVERE E OBBLIGO

Al fine di fornire la definizione delle situazioni giuridiche, è necessario distinguere tra le

situazioni che sussistono nell’ambito di concreti rapporti giuridici e le altre che si

collocano all’esterno di essi. Particolarmente importante è il potere, potenzialità

astratta di tenere un certo comportamento ed espressione della capacità del soggetto,

e perciò da esso inseparabile: di qui l’impossibilità di un trasferimento del potere da un

titolare ad un altro (si pensi al potere di disposizione di un bene e al potere di agire in

giudizio).

Nel diritto amministrativo occorre poi ricordare che, oltre ai poteri amministrativi, molte

amministrazioni dispongono del potere normativo.

Va aggiunto che la possibilità astratta di tenere un certo comportamento produttivo di

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effetti giuridici si concretizza mediante atti giuridici, i più importanti dei quali

sono i provvedimenti, che presentano i caratteri di tipicità dei relativi poteri.

Allorché la legge attribuisca al titolare la possibilità di realizzare il proprio interesse

indipendentemente dalla soddisfazione dell’interesse pubblico curato

dall’amministrazione, si profila la situazione giuridica di vantaggio costituita dal diritto

soggettivo.

Potere e diritto sono termini inconciliabili: ove sussista potere non esiste diritto

soggettivo e ove il privato sia titolare di un diritto non può affermarsi l’esistenza di un

potere amministrativo. Poiché il potere amministrativo comporta una incisione nella

sfera dei privati, esso deve essere tipico e cioè predeterminato dalla legge in ossequio

al principio di legalità che esprime la garanzia delle situazioni dei privati stessi.

Le norme che riconoscono interessi pubblici “vincenti” su quelli privati, sono norme di

relazione, caratterizzate cioè dal fatto di risolvere conflitti intersoggettivi di interessi.

Oltre alle situazioni di vantaggio che esorbitano dai singoli rapporti (poteri), vi sono

altresì situazioni sfavorevoli non racchiuse in rapporti concreti. Queste situazioni sono

riconducibili alla figura del dovere, vincolo giuridico a tenere un dato comportamento

positivo (fare) o negativo (non fare): anche l’amministrazione è soggetta a doveri

propri di tutti i soggetti dell’ordinamento. In particolare essa deve osservare il dovere di

buona fede e correttezza, nonché quello di rispettare i diritti altrui.

Allorché la necessità di tenere un comportamento sia correlata al diritto altrui, si versa

nella situazione di obbligo: si pensi al diritto di credito, connesso all’obbligazione del

debitore.

L’INTERESSE LEGITTIMO

Occorre ora focalizzare l’attenzione sui rapporti tra amministrazione e soggetti privati.

Nei confronti dell’esercizio del potere dell’amministrazione, il privato si trova in uno stato

di soggezione: la pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa è l’interesse

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legittimo. L’interesse legittimo può essere definito come la situazione

soggettiva di vantaggio, costituita dalla protezione giuridica di interessi finali che si

attua non direttamente ed autonomamente, ma attraverso la protezione indissolubile

ed immediata di un altro interesse del soggetto, meramente strumentale, alla

legittimità dell’atto amministrativo e soltanto nei limiti della realizzazione di tale

interesse strumentale.

La piena protezione giuridica riguarda non già tale interesse, bensì la legittimità

dell’azione e spetta al privato anche a fronte di un’inerzia dell’amministrazione.

Pur se l’interesse legittimo è una situazione soggettiva di vantaggio che comporta una

serie di possibilità in capo al titolare, essa si inserisce in un contesto di soggezione

all’esercizio del potere. Il titolare, tuttavia, può non limitarsi ad attendere il

comportamento dell’amministrazione. Infatti, oltre a reagire nei suoi confronti, egli ne

può influenzare lo svolgimento.

Non va poi taciuto, ma il rilievo è importante, che poteri di influire sul corretto esercizio

dell’azione amministrativa sono riconosciuti dalla legge anche a chi non è titolare di

interessi legittimi.

52

Per quanto attiene ai poteri riconosciuti al titolare dell’interesse legittimo, si possono

ricordare, in primo luogo, i tradizionali poteri di reazione: il loro esercizio si concretizza

nei ricorsi amministrativi e nei ricorsi giurisdizionali, volti ad ottenere l’annullamento

dell’atto amministrativo. Accanto a quelli ora descritti possiamo poi aggiungere i poteri

di partecipare al procedimento amministrativo; di accedere ai documenti della

pubblica amministrazione.

Spesso si fa cenno all’esistenza di una peculiare categoria, quella degli interessi

procedimentali, che avrebbero la caratteristica di attenere a “fatti procedimentali”. In

dottrina è stato obiettato che si tratterebbe in realtà di facoltà che attengono

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all’interesse legittimo. Gli interessi procedimentali hanno invero un campo

d’azione assai più ampio di quello dell’interesse legittimo. L’interesse legittimo, in ogni

caso, sorge non già tutte le volte in cui, anche in modo secondario ed indiretto, un

soggetto venga in qualche modo implicato dall’esercizio di un potere, bensì quando (e

soltanto quando) la soddisfazione del suo interesse dipende dall’esercizio di un potere.

Dunque non è sufficiente una disposizione che semplicemente assicuri la

partecipazione ad un procedimento .

D’altronde l’interesse procedimentale risulta spesso sfornito di tutela effettiva, non

potendosi ricorrere al giudice per la sua violazione, a differenza di quanto accade

nell’ipotesi di titolarità di interesse legittimo.

INTERESSI DIFFUSI E INTERESSI COLLETTIVI

Tradizionalmente si afferma che l’interesse legittimo è un interesse differenziato rispetto

ad altri interessi e qualificato da una norma.

L’interesse è qualificato perché preso in considerazione da una norma che lo protegge;

risulta differenziato rispetto alla pluralità degli interessi che fanno capo ai consociati. È

necessario adesso distinguere tra interessi diffusi e interessi collettivi.

Gli interessi diffusi si caratterizzano sotto un duplice profilo: dal punto di vista soggettivo

appartengono ad una pluralità di soggetti; dal punto di vista oggettivo attengono a

beni non suscettibili di fruizione differenziata. Essi, così definiti, riflettono la

contraddizione di un interesse che per essere tale dovrebbe costituire l’aspirazione di un

soggetto ad un bene .

Gli interessi collettivi, viceversa, sono gli interessi che fanno capo ad un gruppo

organizzato, onde il carattere della personalità e della differenziazione, necessario per

qualificarli come legittimi e per aprire la via alla tutela davanti al giudice

amministrativo.

L’evoluzione giurisprudenziale è segnata da numerosi tentativi di individuare i criteri di

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“trasformazione” degli interessi collettivi e diffusi in interessi differenziati

facenti capo a soggetti privati.

Tra i criteri utilizzati a tal fine vi è quello di un collegamento stabile e non occasionale

dell’associazione che si fa carico della cura di interessi superindividuali con il territorio

sul quale si producono gli effetti di atti amministrativi, soluzione che però ha finito per

penalizzare le organizzazioni aventi carattere nazionale.

IL PRPBLEMA DELL’ESISTENZA DI ALTRE SITUAZIONI GIURIDICHE

SOGGETTIVE

Occorre ora accennare ad una vicenda apparentemente contraddittoria, quale ad

esempio la situazione del proprietario che sia soggetto all’esercizio del potere di

espropriazione: ebbene, in quanto esista il potere, come si è osservato, non ricorre il

diritto; tuttavia il privato è qui innegabilmente titolare di un diritto (di proprietà).

Al fine di superare l’apparente antinomia, soccorre il principio di “relatività” delle

situazioni giuridiche soggettive: lo stesso rapporto di un soggetto con un bene può

presentarsi ora come un diritto soggettivo, ora come un interesse protetto solo in modo

riflesso. Di conseguenza, il diritto di proprietà si configura come diritto in quanto non

venga in considerazione un potere dell’amministrazione di disporre dell’interesse del

privato.

53

Non si può dunque parlare di degradazione o affievolimento del diritto, fenomeno che

si riferirebbe alla vicenda di un diritto il quale, venendo a configgere con un potere, si

trasformerebbe in interesse legittimo.

L’interesse legittimo non nasce dalla trasformazione di un diritto, ma è situazione

distinta perché interesse legittimo e diritto soggettivo hanno ad oggetto immediato

beni diversi, sicché manca il presupposto stesso per una trasformazione dell’uno

nell’altro.
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Secondo parte della giurisprudenza sussisterebbero ipotesi di diritti “non

degradabili”. Non sussistono dunque situazioni intermedie tra diritto soggettivo e

interesse legittimo: inconsistente è la figura del diritto affievolito (che ricorrerebbe

nell’ipotesi in cui un diritto sorga da un provvedimento, ad esempio una concessione,

sicché sarebbe destinato ad essere eliminato a seguito della revoca dell’atto).

La dottrina parla talora di diritto in attesa di espansione per indicare la situazione in cui

l’esercizio di un diritto dipenda dal comportamento dell’amministrazione, che

consentirebbe appunto l’espansione dello stesso.

Va esclusa dal novero delle situazioni giuridiche la facoltà, che è la possibilità di tenere

un certo comportamento materiale.

Controversa è l’autonomia concettuale della figura dell’aspettativa, la situazione in cui

versa un soggetto nelle more del completamento della fattispecie costitutiva di una

situazione di vantaggio (diritto, potere). Essa, non essendo tutelata in via assoluta, non

è un diritto: d’altro canto, se con il termine “aspettativa” si indica una situazione tutelata

come interesse legittimo, essa deve essere qualificata come tale, mentre se è

assolutamente priva di tutela, è irrilevante per il diritto. In alcuni casi, tuttavia,

l’ordinamento protegge la possibilità del soggetto privato di conseguire un diritto.

LE SITUAZIONI GIURIDICHE PROTETTE DALL’ORDINAMENTO

COMUNITARIO

Le situazioni giuridiche protette dall’ordinamento comunitario consistono

essenzialmente in poteri. In particolare, vengono in rilievo le disposizioni sui servizi

pubblici e quelle sulla libera circolazione delle persone e dei capitali, sulla libertà di

stabilimento, sulla libera prestazione dei servizi, sulla libertà di concorrenza, sulla libertà

di circolazione dei beni.

Il principio della libera circolazione delle persone implica l’abolizione delle

discriminazioni tra i lavoratori degli Stati membri fondate sulla nazionalità. Per quanto
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attiene al diritto amministrativo giova ricordare che una deroga alla libertà

di circolazione è ammessa per motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità

pubblica.

Il Trattato disciplina altresì la libertà di stabilimento la quale comporta la costruzione e

la gestione di imprese alle medesime condizioni fissate dall’ordinamento del paese di

stabilimento per i propri cittadini.

La libertà di stabilimento si differenzi dalla libera prestazione di servizi. Il servizio è

definito come ogni prestazione fornita dietro enumerazione da un cittadino di uno Stato

membro stabilito in uno Stato membro a favore di una persona stabilita in uno Stato

diverso (ma appartenente all’Unione). Anche nel settore della libera circolazione dei

servizi e della libertà di stabilimento vige la riserva giustificata da motivi di ordine

pubblico, di sicurezza pubblica e di sanità.

Una ulteriore ed assai rilevante libertà garantita dal diritto comunitario è la libertà di

concorrenza, la quale può essere lesa a seguito della presenza di poteri amministrativi

che condizionino oltre misura l’attività delle imprese.

Interessa il diritto amministrativo anche la libertà di circolazione dei beni: in particolare,

le misure amministrative che comportino indebite restrizioni delle importazioni e delle

esportazioni configgono con la disciplina comunitaria.

LE MODALITÀ DI PRODUZIONE DEGLI EFFETTI GIURIDICI

La capacità e i poteri, come si è visto, sono strettamente legati alla soggettività e sono

acquistati a titolo originario. Consegue che i poteri sono intrasmissibili, onde non esiste

la vicenda della

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traslazione di un potere amministrativo da un soggetto pubblico ad un privato

mediante un provvedimento.

Le vicende possono essere prodotte dall’ordinamento al verificarsi di alcuni fatti (si

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pensi alla nascita o alla morte) o al compimento di alcuni atti (ad esempio

l’intimazione al pagamento o l’iscrizione in certi albi: c.d. meri atti), che hanno la

funzione di semplici presupposti per la produzione dell’effetto; la “causa” di quella

vicenda giuridica è però da rintracciare direttamente nell’ordinamento.

È questo lo schema norma-fatto-effetto, nel senso che la norma disciplina

direttamente il fatto e vi collega la produzione di effetti.

Talora la legge può determinare la produzione dell’effetto non già in relazione a tutti i

rapporti di un certo tipo, bensì con riferimento ad un singolo rapporto. La legge viene

allora definita legge provvedimento e non presenta il carattere della generalità.

Del tutto diversa è la seconda modalità di dinamica giuridica, quella secondo lo

schema norma potere-effetto: l’effetto non risale immediatamente alla legge, ma vi è

l’intermediazione di un soggetto che pone in essere un atto, espressione di una scelta,

mediante il quale si regolamenta il fatto e si produce la vicenda giuridica.

Ove il tipo di dinamica sia quello che si incentra sullo schema norma-fatto-effetto,

l’amministrazione può essere “coinvolta”, sia perché pone in essere un fatto (ad es.

comportamento illecito), sia perché emana un mero atto al quale l’ordinamento

direttamente collega la produzione di effetti.

Nei casi in cui la dinamica giuridica sia invece inquadrabile nello schema

norma-potere effetto, l’amministrazione pone in essere atti espressione di autonomia.

Tali atti producono effetti giuridici in relazione ad un particolare rapporto giuridico, a

seguito dell’esercizio di un potere conferito in via generale e astratto dalla legge.

Può trattarsi della costituzione di diritti (concessioni) o di obblighi (ordini), della

modificazione di preesistenti situazioni giuridiche (autorizzazioni), ovvero della

estinzione di situazioni giuridiche (espropriazioni). L’esercizio di alcuni poteri

amministrativi produce invece effetti preclusivi. Deve ancora essere aggiunto che la

dinamica norma-potere-effetto comporta il riconoscimento in capo al destinatario

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dell’esercizio del potere amministrativo di un interesse legittimo. Attribuire

un siffatto potere, dal cui esercizio scaturirà l’effetto finale, altro non significa infatti che

decidere di rendere disponibile per l’amministrazione il bene della vita cui aspira il

privato: di qui la titolarità, in capo al destinatario dell’esercizio del potere, di un interesse

legittimo.

Viceversa, laddove lo schema sia quello della norma-fatto-effetto (vantaggioso), la

legge accorda direttamente un diritto soggettivo in quanto non prevede alcuna

intermediazione provvedimentale tra l’aspirazione del privato e la sua soddisfazione.

I POTERI AMMINISTRATIVI: I POTERI AUTORIZZATORI

Occorre ora analizzare i principali poteri amministrativi, sottolineando che i loro

elementi sono trasfusi nei provvedimenti finali.

Questi poteri sono costituiti da: poteri autorizzatori, poteri accessori, poteri oblatori,

poteri sanzionatori, poteri di ordinanza, poteri di programmazione e di pianificazione,

poteri di imposizione di vincoli e poteri di controllo.

Il potere autorizzatorio ha l’effetto di rimuovere i limiti posti dalla legge all’esercizio di

una preesistente situazione di vantaggio; il suo svolgimento comporta la previa verifica

della compatibilità di tale esercizio con un interesse pubblico.

Attraverso l’esercizio del potere autorizzatorio, l’amministrazione esprime il proprio

consenso preventivo all’attività progettata dal richiedente (un importante esempio di

provvedimento permissivo è rappresentato dal permesso di costruire).

L’autorizzazione spesso addirittura instaura una relazione tra soggetto pubblico e

soggetto privato caratterizzata dalla presenza di poteri di controllo e di vigilanza in

capo all’amministrazione, preordinati alla verifica del rispetto delle condizioni e dei

limiti imposti all’esercizio dell’attività consentita mediante atto autorizzativi.

Dal ceppo comune all’autorizzazione, la dottrina e in parte la giurisprudenza hanno poi

enucleato alcune figure specifiche: abilitazione, nullaosta, dispensa, approvazione,

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licenza.

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Le abilitazioni sono atti il cui rilascio è subordinato all’accertamento dell’idoneità

tecnica di soggetti a svolgere una certa attività. Considerazioni in parte analoghe

possono essere svolte con riferimento all’omologazione, rilasciata dall’autorità a

seguito dell’accertamento della sussistenza in una cosa, di norma destinata ad essere

prodotta i serie, di tutte le caratteristiche fissate dall’ordinamento a fini di tutela

preventiva (prodotti pericolosi) o per esigenze di uniformità dei modelli.

Il nullaosta è un atto endoprocedimentale necessario, emanato da un’amministrazione

diversa da quella procedente, con cui si dichiara che, in relazione ad un particolare

interesse, non sussistono ostacoli all’adozione del provvedimento finale.

Il nullaosta attiene dunque ai rapporti tra diverse amministrazioni. Il diniego del

nullaosta costituisce fatto impeditivi della conclusione del procedimento.

La dispensa è il provvedimento con cui l’ordinamento, pur vietando o imponendo in

generale un certo comportamento, prevede però che l’amministrazione possa

consentire in alcuni casi una deroga all’osservanza del relativo divieto o obbligo.

Allorché la deroga ad un divieto generale avvenga in base allo schema

norma-fatto-effetto si parla di esenzione.

L’approvazione è il provvedimento permissivo, avente ad oggetto non già un

comportamento, bensì un atto rilasciato, a seguito di una valutazione di opportunità e

convenienza dell’atto stesso. L’approvazione opera dunque come condizione di

efficacia dell’atto ed è adesso successiva. La licenza, figura che oggi la legge tende a

sostituire all’autorizzazione, era definita, secondo parte della dottrina, come il

provvedimento che permette lo svolgimento di un’attività previa valutazione della sua

corrispondenza ad interessi pubblici.

Tutti i provvedimenti analizzati (salvo la dispensa), possono essere ricondotti

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nel’ambito del potere autorizzatorio.

I POTERI CONCESSORI

Tra i poteri il cui esercizio determina effetti favorevoli per i privati, accanto a quelli

autorizzatori sono di rilievo i poteri concessori.

L’esercizio di tali poteri produce l’effetto di attribuire al destinatario medesimo status e

situazioni giuridiche (diritti) che esulavano dalla sua sfera giuridica in quanto

precedentemente egli non ne era titolare.

A differenza di ciò che accade nell’autorizzazione, l’ordinamento non attribuisce

originariamente al privato la titolarità di alcune situazioni giuridiche, ma conferisce

all’amministrazione il potere di costituirle o trasferirle in capo al privato stesso.

Esistono molteplici esempi di concessioni: la concessione di esercizio di servizi pubblici,

la concessione della cittadinanza, la concessione di costruzione e gestione di opere

pubbliche. La concessione è detta traslativa quando il diritto preesiste in capo

all’amministrazione (si pensi alla concessione di servizi pubblici), sicché esso è

“trasmesso” al privato, mentre è costitutiva nei casi in cui il diritto attribuito è

totalmente nuovo, nel senso che l’amministrazione non poteva averne la titolarità

(sarebbe tale la concessione di cittadinanza o di onorificenze). L’esame della vicenda

concessoria non presenta peculiari problemi allorché essa attenga a beni pubblici: in

questi casi, infatti, è evidente che al privato, in assenza di concessioni, sarebbe precluso

lo sfruttamento delle utilitates connesse al bene (medesimo discorso vale per il caso

della cittadinanza).

Viceversa, maggiori questioni e dubbi si profilano in ordine alle concessioni di opere

pubbliche e di pubblici servizi.

Per quanto riguarda la concessione di opere pubbliche, la legislazione mira ad

equipararle all’appalto o, quanto meno, a limitare la discrezionalità di cui gode

l’amministrazione chiamata a rilasciarle al fine di evitare che la stessa possa

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svincolarsi dalle regole poste a tutela della concorrenza. Non a caso, la

recente legislazione definisce tali concessioni come “contratti”.

La natura contrattuale della concessione, in passato, era stata affermata da parte della

dottrina anche in ordine alla concessione di servizi pubblici, figura che ricorre allorché

l’ordinamento intenda garantire alla collettività alcune prestazioni ed attività e

consenta all’amministrazione di affidarne lo svolgimento a soggetti privati appunto

mediante un provvedimento concessorio.

56

Al riguardo va però osservato che la disposizione di essi deve avvenire mediante atti di

natura pubblicistica. Non è quindi da accogliersi la tesi della qualificazione del potere

esercitato dall’amministrazione come meramente privatistico.

Nel novero dei provvedimenti concessori rientrano le sovvenzioni, caratterizzate dal

fatto che esse attribuiscono al destinatario vantaggi economici.

La terminologia usata dal legislatore non è sempre uniforme: in generale, le sovvenzioni

riguardano lo svolgimento di attività imprenditoriali, i contributi attengono ad attività

culturali o sportive, mentre i sussidi sono attribuzioni rientranti nella beneficenza

generale. Il vantaggio può essere diretto (erogazione di somme) o indiretto (sgravi da

alcuni oneri) e non sussiste l’obbligo, in capo al beneficiario, di pagare alcun

corrispettivo, sicché si può ravvisare, a differenza delle altre ipotesi concessorie, un

intento di liberalità.

I POTERI ABLATORI

I poteri ablatori incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario. Essi

hanno segno opposto rispetto a quelli concessori, nel senso che impongono obblighi

(privando il soggetto della libertà di scegliere se agire: ablatori personali), ovvero

sottraggono situazioni favorevoli in precedenza pertinenti al privato, attribuendole di

norma, ma non necessariamente, all’amministrazione (ablatori reali).

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L’effetto ablatori può incidere su diritti reali, diritti personali o su obblighi a

rilevanza patrimoniale. Tra i provvedimenti ablatori reali vengono in evidenza le

espropriazioni, le occupazioni, le requisizioni, le confische ed i sequestri.

Nell’ambito dei provvedimenti ablatori che incidono su diritti personali si esamineranno

in particolare gli ordini.

L’espropriazione è il provvedimento che ha l’effetto di costituire un diritto di proprietà o

altro diritto reale in capo ad un soggetto (detto espropriante: non necessariamente si

tratta dell’amministrazione che emana il provvedimento), previa estinzione del diritto in

capo ad altro soggetto (espropriato) al fine di consentire la realizzazione di un’opera

pubblica o per altri motivi di pubblico interesse e dietro versamento di un indennizzo.

Secondo la Corte costituzionale l’indennizzo dovrebbe costituire un “serio ristoro”. La

legge prevede anche la possibilità di procedere all’occupazione temporanea di alcuni

beni. L’ipotesi più rilevante era in passato costituita dall’occupazione d’urgenza e

riguardava il possesso delle cose destinate all’espropriazione allorché la realizzazione

dell’opera per la quale si procedeva ad espropriazione fosse dichiarata indifferibile ed

urgente, ed era accompagnata dall’obbligo di pagare un indennizzo.

Le requisizioni sono provvedimenti mediante i quali l’amministrazione dispone della

proprietà o, comunque, utilizza un bene di un privato per soddisfare un interesse

pubblico. Tra i vari tipi: le requisizioni in proprietà, che riguardano soltanto cose mobili e

possono essere disposte dietro corresponsione di un’indennità; la requisizione in uso è

un provvedimento che ha come presupposto l’urgente necessità: essa riguarda beni sia

mobili sia immobili e comporta la possibilità di poter utilizzare il bene (che rimane in

proprietà del titolare) per il tempo necessario e pagando un’indennità.

I caratteri dell’urgenza, della temporaneità e dell’indennità presenti nella stessa

fattispecie, valgono a differenziare la requisizione in uso sia dall’espropriazione, sia dalle

ordinanze di necessità e urgenza, che non aprono la via all’indennizzo.

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Ai sensi della l. 2248/1865, “allorché per grave necessità pubblica l’autorità

amministrativa debba senza indugio disporre della proprietà privata…essa procederà

con decreto motivato, sempre però senza pregiudizio dei diritti delle parti.

La confisca è un provvedimento ablatorio a carattere non già espropriativi, bensì

sanzionatorio ed è la misura conseguente alla commissione di un illecito

amministrativo: si pensi all’ipotesi di confisca dell’immobile realizzato abusivamente.

Il sequestro è il provvedimento ablatorio di natura cautelare: esso mira in genere a

salvaguardare la collettività dai rischi derivanti dalla pericolosità del bene.

Alcuni provvedimenti ablatori incidono non già su diritti reali, bensì sulla complessa

sfera giuridica del privato, privandolo di un diritto o di una facoltà.

57

Gli ordini hanno in particolare l’effetto di imporre un comportamento al destinatario.

Essi si distinguono in comandi (ordini di fare: si pensi all’ordine di demolire il manufatto

abusivo) e di divieti (ordini di non fare: è tale il divieto di circolazione stradale), nonché

in generali e particolari (questi ultimi rivolti ad un singolo soggetto).

Dagli ordini si distinguono le direttive, che rispetto agli ordini presentano una minore

vincolatività. Va ancora aggiunto che all’ordine, il quale crea l’obbligo, va tenuta

distinta la diffida, che consiste nel formale avvertimento ad osservare un obbligo che

trova il proprio fondamento in altro provvedimento o nella legge.

Esistono poi poteri ablatori caratterizzati dal fatto che impongono obblighi a rilevanza

patrimoniale: si pensi ai provvedimenti prezzi e a tutti i casi di prestazioni imposte.

Con particolare riferimento agli atti che creano un obbligo di dare va notato che

l’acquisto a favore dell’amministrazione avviene non già direttamente a seguito del

provvedimento, bensì come conseguenza dell’adempimento dell’obbligo di dare da

parte del privato.

I POTERI SANZIONATORI
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Per sanzione per lo più si intende la conseguenza sfavorevole di un illecito

applicata coattivamente dallo Stato o da altro ente pubblico, mentre per illecito la

violazione di un precetto compiuta da un soggetto: la sanzione costituisce dunque la

misura retributiva nei confronti del trasgressore. Si crea così un rapporto diretto tra

questo e la sanzione: essa è diretta a colpire il comportamento antigiuridico del

soggetto.

Stabilito dunque: che la sanzione ha carattere eminentemente affittivo e che essa è la

conseguenza di un comportamento antigiuridico di un soggetto, ne discende che:

a) non è sanzione la misura, di carattere preventivo e cautelare, che non

presuppone l’accertamento della violazione della legge, a meno che non sia

fondata sull’accertato pericolo della violazione stessa da parte del soggetto;

b) non è sanzione la dichiarazione di nullità o la rimozione dell’atto invalido, perché

la reazione dell’ordinamento opera qui soltanto nei confronti dell’atto;

c) non è sanzione la reintegrazione dello stato di cose antecedente alla

trasgressione.

Nella vigente legislazione, così come non è definito il concetto di sanzione, non è

neppure definito il concetto di sanzione amministrativa.

Le sanzioni amministrative non hanno un contenuto loro peculiare, ma si possono

individuare in modo soltanto residuale, quali misure afflittive non consistenti in sanzioni

penali o in sanzioni civili. Per quanto riguarda i principi generali delle sanzioni

amministrative, essi operano sul piano delle fonti (principio di legalità), sul piano della

successione delle leggi nel tempo (principio di

irretroattività), sul piano della interpretazione (principio del divieto di analogia). È

necessario adesso distinguere tra sanzioni ripristinatorie colpiscono la res e mirano a

reintegrare l’interesse pubblico leso, e sanzioni afflittive, le quali si rivolgono

direttamente all’autore dell’illecito; tra sanzioni pecuniarie e sanzioni interdittive:

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queste ultime incidono sull’attività del soggetto colpito.

Posizione a parte occupano le sanzioni disciplinari le quali, tradizionalmente oggetto di

una regolamentazione peculiare, si riferiscono ai soggetti che si trovano in un

particolare rapporto con l’amministrazione.

La legge contempla poi un peculiare gruppo di sanzioni amministrative, le sanzioni

accessorie.

La violazione del precetto, presupposto la cui sussistenza apre la via all’emanazione del

provvedimento sanzionatorio, dà luogo all’illecito amministrativo.

Per quanto attiene all’elemento psicologico, ai fini della sussistenza dell’illecito si

richiede il dolo o la colpa.

L’accertamento dell’illecito e l’applicazione della sanzione avvengono all’interno del

processo penale.

58

I POTERI DI ORDINANZA, I POTERI DI PROGRAMMAZIONE E DI

PIANIFICAZIONE, I POTERI DI IMPOSIZIONE DEI VINCOLI, I POTERI DI

CONTROLLO

Il potere di ordinanza, esercitatile nelle situazioni di necessità e urgenza, è caratterizzato

dal fatto che la legge non predetermina in modo compiuto il contenuto della statuizione

in cui il potere può concretarsi.

Il potere di ordinanza, il cui esercizio dà luogo alla emanazione delle ordinanze di

necessità e urgenza, pare dunque non rispettare il principio di tipicità dei poteri

amministrativi che, in applicazione del principio di legalità, impone la previa

individuazione degli elementi essenziali dei poteri a garanzia dei destinatari degli stessi.

La Corte costituzionale ha peraltro fissato alcuni limiti nel rispetto dei quali la legge

riconosce il potere di ordinanza è compatibile con la Costituzione: rispetto delle riserve

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di legge fissate dalla Carta costituzionale e dei principi dell’ordinamento

generale, necessità di una adeguata motivazione e di efficace pubblicazione, efficacia

limitata nel tempo.

Rientrano in questa fattispecie le ordinanze con tingibili e urgenti del sindaco, le

ordinanze dell’autorità di pubblica sicurezza e le ordinanze che possono essere

adottate nelle situazioni di emergenze sanitarie o di igiene pubblica.

Le ordinanze ora esaminate vanno distinte dai provvedimenti d’urgenza, atti tipici e

nominati suscettibili di essere emanati sul presupposto dell’urgenza ma che, tuttavia,

sono di contenuto predeterminato dal legislatore.

Debbono ancora essere ricordati i poteri di pianificazione e i poteri di programmazione.

La programmazione indica il complesso di atti mediante i quali l’amministrazione

individua le misure coordinate per intervenire in un dato settore.

Al fine di conservare alcuni beni immobili che presentano peculiari caratteristiche

ambientali, urbanistiche e così via, la legge attribuisce all’amministrazione il potere di

sottoporre gli stessi a vincolo amministrativo.

I POTERI STRUMENTALI E I POTERI DICHIARATIVI. LE DICHIARAZIONI

SOSTITUTIVE.

L’amministrazione, in occasione dell’esercizio del potere, pone in essere atti che sono

non già provvedimentale, bensì strumentali ad altri poteri (pareri, proposte, atti di

controllo, accertamenti, detti anche atti dichiarativi).

L’efficacia dichiarativa incide su di una situazione giuridica preesistente rafforzandola,

specificandone il contenuto o affievolendola impedendo così la realizzazione della

situazione in una certa direzione: è il caso della cancellazione di alcuni beni dagli

elenchi di beni pubblici. Taluni atti dichiarativi hanno invece la funzione di attribuire

certezza legale ad un dato, precludendo ai consociati di assumere che il dato sia

diverso da come è raffigurato nell’atto stesso. Questi atti, detti di “certazione”, dunque,
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producono certezze che valgono erga omnes. Essi sono tipici e nominati.

Le conoscenze acquisite dall’amministrazione sono spesso conservate e ordinate in

appositi registri, albi, liste, elenchi, casellari.

Pure altri atti di accertamento, rendendo possibile la conoscenza del fatto registrato,

hanno un effetto di certezza: essa è però detta “notiziole”, in quanto è superabile con la

prova contraria. La certezza può poi essere “messa in circolazione” mediante certificati,

i quali sono atti con cui appunto si riproduce una certezza.

Il certificato è quindi il documento “tipico” rilasciato a terzi da un’amministrazione

avente funzione di ricognizione, riproduzione e partecipazione di stati, qualità personali

e fatti contenuti in albi, elenchi o e registri pubblici o comunque accertati da soggetti

titolari di funzioni pubbliche. È bene tenere in considerazione che tra certificazione e

certificato c’è lo stesso rapporto che corre tra contenuto e contenente.

59

Si noti infine che la registrazione non è un certificato, in quanto in essa è prevalente la

funzione di acquisire conoscenza rispetto a quella di esternare, propria del certificato.

Il certificato ha normalmente i caratteri dell’atto pubblico, essendo rilasciato da un

pubblico ufficiale autorizzato a darvi pubblica fede, e fa piena prova, fino a querela di

falso, tanto in sede amministrativa quanto in sede giurisdizionale, di ciò che in esso è

dichiarato e della provenienza. Occorre distinguere gli attestati, che sono atti

amministrativi sempre tipici, ma in suscettibili di creare la medesima certezza legale

creata dalle certazioni e che, a differenza dei certificati, non mettono in circolazione una

certezza creata da un atto di certificazione.

Negli ultimi anni si è fatta sempre più pressante la duplice esigenza di alleggerire il

carico di lavoro dei pubblici ufficiali e di consentire al privato di potere provare, nei suoi

rapporti con l’amministrazione, determinati fatti, stati e qualità a prescindere

dell’esibizione dei relativi certificati. Si tratta dell’istituto giuridico della dichiarazione

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sostitutiva, che è un atto del privato capace di sostituire una certificazione

pubblica – la dichiarazione è ammessa però nei soli casi stabiliti dall’ordinamento –

producendone lo stesso effetto giuridico.

Le dichiarazioni sostitutive si distinguono dai certificati in quanto: non provengono da

un ente pubblico; sono destinate a confluire soltanto in un singolo rapporto tra cittadino

ed amministrazione (i certificati, invece, valgono in generale, ossia anche nei rapporti

tra i cittadini); le dichiarazioni sostitutive hanno peraltro la stessa validità temporale

degli atti che sostituiscono.

La mancata accettazione della dichiarazione sostitutiva costituisce violazione dei

doveri d’ufficio. La legge attribuisce alla pubblica amministrazione il compito di

controllare la veridicità delle dichiarazioni sostitutive, il che avviene mediante raffronto

tra il contenuto delle stesse e quello degli atti di certazione.

Vi sono due tipi di dichiarazioni sostitutive. La dichiarazione sostitutiva di certificazione è

il documento, sottoscritto dall’interessato (anche non in presenza del funzionario

amministrativo addetto) in sostituzione dei certificati: in luogo di tale dichiarazione il

cittadino può produrre il certificato o la copia autenticata, ovvero esibire un documento

di identità che li attesti.

Il T.U. in materia di documentazione amministrativa, prevede altresì che il cittadino

possa rendere al funzionario competente dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà,

ossia atti con cui il privato comprova tutti gli stati, fatti e qualità personali non compresi

in pubblici registri, albi ed elenchi, nonché stati, fatti e qualità personali relativi ad altri

soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.

L’art. 7 del T.U. poi, specifica che il controllo sulle dichiarazioni sostitutive debba

avvenire anche a campione, e in tutti i casi in cui “sorgano fondati dubbi” sulla loro

veridicità. Esso è effettuato secondo due modalità: consultando direttamente gli archivi

dell’amministrazione certificante, ovvero richiedendo alla medesima conferma scritta

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della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei registri.

La recente normativa ha previsto che le dichiarazioni sostitutive possono essere

utilizzate anche nei rapporti tra privati che vi consentano: in tal caso l’amministrazione

competente per il rilascio della relativa certificazione è tenuta a fornire, su richiesta del

privato corredata dal consenso del dichiarante (non già il certificato,ma) conferma

scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei dati custoditi.

I POTERI RELATIVI AD ATTI AMMINISTRATIVI GENERALI

In precedenza si è fatto riferimento a poteri il cui servizio produce effetti nei confronti di

situazioni puntuali e concrete.

L’amministrazione può tuttavia determinare effetti giuridici in relazione a tutti i rapporti

che abbiano le medesime caratteristiche. I relativi atti amministrativi sono detti

generali, in quanto sono in grado di produrre effetti nei confronti di una generalità di

soggetti. Si pensi ai bandi di concorso, alla chiamata alle armi.

Tali atti sono ricollegabili allo schema norma-potere-effetto: la legge non produce

direttamente l’effetto in quanto attribuisce il relativo potere all’amministrazione.

La circostanza che gli atti amministrativi generali costituiscano esercizio di un potere

amministrativo consente di giustificare la loro derogabilità per il caso singolo da parte

dell’amministrazione, fatto salvo l’obbligo di motivare.

Una particolare categoria di atti amministrativi generali è costituita dalle autorizzazioni

ge

ner

ali.

60

CENNI AD ALCUNE TRA LE PIÙ RILEVANTI VICENDE GIURIDICHE IL CUI

STUDIO INTERESSA IL DIRITTO AMMINISTRATIVO: IL DECORSO

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DEL TEMPO E LA RINUNCIA

Molte vicende rilevanti per il diritto amministrativo sono prodotte secondo l’illustrato

schema norma-fatto-effetto, essendo ricollegate al sussistere di peculiari fatti o

qualità: si pensi all’acquisto dei diritti fondamentali connesso alla nascita.

Talvolta il presupposto per la produzione dell’effetto è un atto giuridico (mero atto). si

pensi all’intimazione di pagare nel diritto privato, che produce l’effetto, disciplinato dalla

legge, della costituzione in mora.

Tra i fatti va menzionato il decorso del tempo: esso produce la nascita o la

modificazione di una serie di diritti ed è alla base degli istituti della prescrizione e della

decadenza. Come si è già detto, il potere, in quanto attributo della soggettività, non è

trasmissibile. Essa non è neppure trascrittibile al seguito del decorso del tempo.

Il potere, infatti, trascende i singoli rapporti: la circostanza che esso non sia esercitato in

un singolo caso ed in un singolo rapporto può determinare la decadenza limitatamente

al caso o al rapporto considerati, ma non impedisce che lo stesso potere possa essere

esercitato in altri casi o in altri rapporti.

Il diritto soggettivo è invece soggetto a prescrizione, ove non esercitato per un certo

periodo di tempo. Si pensi al diritto di percepire lo stipendio, che si prescrive in cinque

anni. Tra gli atti che producono vicende estintive di diritti si annovera poi la rinuncia,

negozio avente più propriamente effetto abdicativi cui può seguire un effetto traslativo

o estintivo. Il potere, intrasmissibile e imprescrittibile, non può essere oggetto di un atto

di rinuncia. Sono invece normalmente rinunciabili i diritti soggettivi (diritto all’indennizzo

nel caso di espropriazione o il diritto ad una onorificenza), salvo che il legislatore non

imponga un divieto a tutela dell’interesse del titolare.

Problema non molto indagato è quello della possibilità di rinunciare agli interessi

legittimi. Riguardo si deve rispondere negativamente osservando che, avendo ad

oggetto tali interessi la pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa nell’esercizio

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di un potere, il loro titolare non può disporne in quanto non può disporre del

potere correlato.

In altri termini, l’interesse legittimo segue il potere ed il suo esercizio.

Ammissibile è invece la rinuncia allo strumento di reazione processuale (e cioè

all’esercizio del potere di azione nel caso concreto), così come possibile è la rinuncia al

bene finale della vita o la disposizione dello stesso (si pensi alla vendita del terreno in

ordine al quale si è richiesta la concessione edilizia destinata ad essere sostituita dal

permesso di costruire.

SEGUE: FATTI, ATTI E NEGOZI COSTITUTIVI DI OBBLIGHI. RINVIO.

Particolarmente rilevanti nel diritto amministrativo sono inoltre fatti, atti e negozi

costitutivi di obblighi in capo a soggetti pubblici: trattasi del contratto, del fatto illecito,

della legge e delle atre fonti di cui all’art. 1173 c.c.

L’ESERCIZIO DEL POTERE: NORME DI AZIONE, DISCREZIONALITÀ E

MERITO

Vediamo meglio, adesso, la modalità di dinamica giuridica incentrata sullo schema

norma-potere effetto.

Nel momento in cui viene attribuito un potere, l’amministrazione deve agire in vista del

perseguimento dell’interesse che costituisce la ragione dell’attribuzione del potere

medesimo (ad

61

es. selezione del miglior candidato nel caso di concorso; pubblica utilità nell’ipotesi di

espropriazione).

Essa, in teoria, potrebbe essere lasciata “libera” di scegliere le modalità di azione

ritenute più consone nei singoli casi. Molto più spesso, tuttavia, le modalità di azione

sono individuate in via generale e astratta mediante norme giuridiche.

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Le norme che disciplinano l’azione amministrativa, proprio perché hanno ad

oggetto l’azione dell’amministrazione e non l’individuazione di assetti intersoggettivi,

sono definite norme di azione.

La discrezionalità amministrativa è dunque lo spazio di scelta che residua allorché la

normativa di azione non predetermini in modo completo tutti i comportamenti

dell’amministrazione. Questo tipo di discrezionalità, c.d. “pura”, va distinta dalla

discrezionalità “tecnica”, che è la possibilità di scelta che spetta alla amministrazione

allorché sia chiamata a qualificare fatti suscettibili di varia valutazione.

La scelta discrezionale c.d. “pura” può attenere a vari profili dell’azione amministrativa,

quali il contenuto del provvedimento, la stessa decisione relativa al “se” ed al “quando”

rilasciarlo. Viene ad importanza la definizione di merito amministrativo, merito

attribuito alla scelta esclusiva dell’amministrazione la quale, tra la pluralità di scelte

così individuate, preferirà quella ritenuta più opportuna.

Da questo punto di vista si può dire che il merito costituisce la sfera di attività riservata

all’amministrazione.

Tale nozione di merito non va confusa con quella impiegata in ambito

processuale-civilistico. Il termine “merito” viene anche utilizzato per indicare un tipo

particolare di giurisdizione del giudice amministrativo, caratterizzato dalla possibilità

già ricordata per tale giudice, in casi tassativamente stabiliti dalla legge, di sindacare

non solo la legittimità dell’atto, ma anche la rispondenza dello stesso a criteri di

opportunità e convenienza.

NORME DI RELAZIONE E NORME DI AZIONE SUI PROBLEMI DEL

RIPARTORTO DI GIURISDIZIONE

Le norme di relazione proteggono in particolare i diritti soggettivi. Si può dunque dire

che alla violazione di una norma di relazione consegue la lesione di un diritto

soggettivo. Poiché il giudice che tutela i diritti soggettivi è il giudice ordinario, come
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affermato dalla Costituzione, la stessa situazione può essere descritta

affermando che il giudice ordinario sindaca la violazione delle norme di relazione.

Sul piano sostanziale va aggiunto che, ove l’amministrazione agisca in violazione di una

norma di relazione, essa pone in essere un comportamento che non è espressione di un

potere. L’atto amministrativo emanato in assenza di un potere è dunque da qualificare

come nullo ed è sindacabile dal giudice ordinario. Posto che esso è emanato in una

situazione in cui manca il potere, si può aggiungere che il giudice ordinario ha

giurisdizione nei casi in cui l’amministrazione abbia agito in carenza di potere, ponendo

in essere un atto nullo e, cioè, non produttivo di effetti. Diverse da tali norme sono quelle

che disciplinano le modalità di esercizio dei poteri amministrativi (norme di azione).

Poiché l’azione amministrativa è legittimamente svolta quando sia posta in essere nel

rispetto di esse, e poiché l’interesse legittimo è la pretesa alla legittimità dell’azione

amministrativa, si può concludere che l’interesse legittimo è anche la pretesa

all’osservanza delle norme di azione.

Sotto il profilo processuale la tutela dell’interesse legittimo è affidata al giudice

amministrativo: atteso che l’interesse legittimo è leso dall’inosservanza di una norma di

azione, è possibile asserire che il giudice amministrativo sindaca la violazione delle

norme di azione.

Dunque: l’azione amministrativa che non rispetti le norme di azione è sicuramente

illegittima; gli effetti così prodotti sono quindi precari, in quanto l’atto è emanato in una

situazione in cui il potere sussiste ma è stato esercitato in modo non corretto.: si può

allora concludere che la giurisdizione del giudice amministrativo si individua in base al

canone del cattivo esercizio del potere amministrativo. Il giudice che accerti al

violazione delle norme di azione dovrà eliminare sia l’atto,

62

sia i suoi effetti, emanando una decisione di annullamento. Il regime dell’atto posto in

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essere in violazione di norme di azione è dunque l’annullabilità.

LE NORME PRODOTTE DALLE FONTI COMUNITARIE

Tra tali fonti spiccano i regolamenti comunitari, atti di portata generale, obbligatori e

direttamente applicabili nei rapporti c.d. “verticali” tra pubblici poteri e cittadini, e le

direttive comunitarie, vincolanti per lo Stato membro in ordine al risultato da

raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e

ai prezzi per conseguire quel risultato.

Secondo la corte costituzionale, il regolamento comunitario deve essere applicato dal

giudice interno anche disapplicando la legge nazionale incompatibile, sicché la norma

regolamentare comunitaria finisce per costituire parametro di legittimità dell’atto

amministrativo. Il potere-dovere di disapplicazione riguarda anche il giudice

amministrativo; la Corte costituzionale ha affermato anche la valenza dell’istituto della

disapplicazione pure in relazione alle situazioni contenute nelle sentenze emanate dalla

Corte di giustizia, nonché alle direttive comunitarie che contengano norme precise e

incondizionate (c.d. direttive self executing).

Si è così individuata la categoria delle direttive immediatamente applicabili dalle

nostre amministrazioni (la cui efficacia è però solo verticale, nel senso che si produce

unicamente nei confronti dello Stato, mentre u cittadini non possono farle valere nei

rapporti con altri cittadini). Il regime dell’atto amministrativo conforme ad una fonte

interna disapplicabile perché in contrasto con la disciplina comunitaria sarà di nullità

se la norma interna è attributiva del potere, mentre sarà di mera annullabilità nelle

ipotesi in cui la norma nazionale sia una semplice norma di azione.

LE FONTI SOGGETTIVAMENTE AMMINISTRATIVE: CONSIDERAZIONI

GENERALI

L’attenzione va ora riposta sulle fonti che sono atti soggettivamente amministrativi. Si

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tratta di regolamenti che sono emanati da organi amministrativi titolari del

potere normativo, consistente nella possibilità di emanare norme generali e astratte.

L’attività normativa dell’amministrazione è soggetta non solo al principio di preferenza

della legge, ma anche a quello di legalità il quale, secondo la accezione di conformità

formale, impone che ogni manifestazione di attività normativa trovi il proprio

fondamento in una legge generale che indichi l’organo competente e le materie in

ordine alle quali esso può esercitarla.

La categoria degli atti amministrativi generali spesso non è facilmente differenziabile

da quella degli atti normativi, i quali ultimi, secondo parte della dottrina e della

giurisprudenza, sarebbero caratterizzati dalla astrattezza, inteso il termine come

indefinita ripetibilità dei precetti. In ogni caso la natura normativa dell’atto

soggettivamente amministrativo è innegabile quando esso possieda i caratteri formali

e segua al procedimento che l’ordinamento fissa per quel particolare tipo di fonte.

Qualora ricorra lo schema norma-potere-effetto, atti amministrativi generali e atti

normativi presentano le seguenti differenze:

∙ solo questi ultimi sono astratti, intendendo per astrattezza il carattere derivante

dalla necessità di un ulteriore esercizio di poteri ai fini della produzione dell’effetto; ∙

solo gli atti normativi sono espressione di un potere diverso da quello

amministrativo.

I REGOLAMENTI AMMINISTRATIVI

Sotto il profilo del soggetto e dell’organo da cui provengono, i regolamenti si

distinguono in regolamenti governativi, regolamenti ministeriali e regolamenti degli enti

pubblici.

63

La disciplina dei regolamenti governativi è oggi fissata dalla legge 400/1988. Per la loro

emanazione la legge richiede la deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere

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del Consiglio di Stato. Emanati con decreto del Presidente della Repubblica

e sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti, essi sono pubblicati nella

Gazzetta ufficiale e debbono essere espressamente denominati “regolamenti”.

L’art. 17 della l. 400/1988 prevede diversi tipi di regolamenti governativi.

I regolamenti esecutivi rappresentano le fonti governative mediante le quali sono poste

norme di dettaglio rispetto alla legge o al decreto legislativo da eseguire.

I regolamenti attuativi e integrativi rispetto a leggi che pongono norme di principio,

possono essere adottati al di fuori delle materie riservate alla competenza regionale (in

caso contrario lo Stato invaderebbe la sfera di competenza della regione). Mentre i

regolamenti esecutivi si limitano a specificare la legge, quelli ora in esame possono

sviluppare i principi posti dalla legge, introducendo elementi di integrazione.

I regolamenti indipendenti sono emanati per disciplinare le materie in cui ancora

manchi la disciplina da parte di leggi o atti aventi forza di legge, sempre che non si

tratti di materie comunque riservate alla legge.

Vi sono poi i regolamenti che disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento delle

amministrazioni pubbliche.

La legge disciplina poi i regolamenti di delegificazione (il termine delegificazione indica

l’attribuzione al potere regolamentare del compito di disciplinare materie anche in

deroga alla disciplina posta dalla legge) o “autorizzati”, i quali possono essere adottati

solo a seguito di una specifica previsione di legge. La norma dispone che “Con decreto

del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il

Consiglio di Stato, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non

coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi

della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del governo,

determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione

delle norme vigenti, con l’effetto dell’entrata in vigore delle norme regolamentari”.

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Un massiccio impiego dei regolamenti di delegificazione è previsto per

l’attuazione di direttive comunitarie, adottati sulla base di una speciale procedura

caratterizzata dall’intervento delle commissioni permanenti competenti per materia

delle Camere a seguito dell’emanazione della legge “comunitaria”.

La legge contempla poi regolamenti ministeriali, nonché regolamenti interministeriali,

adottati con decreti interministeriali in quanto attinenti a materie di competenza di più

ministri.

ALTRE FONTI SECONDARIE: STATUTI E REGOLAMENTI DEGLI ENTI

LOCALI. I TESTI UNICI

L’autonomia normativa è riconosciuta non solo a Stato e regioni, ma anche ad altri enti

pubblici. Essa si estrinseca mediante l’emanazione di statuti e regolamenti.

L’autonomia statutaria e regolamentare degli enti locali è stata espressamente

riconosciuta dalla l. 142/1990 e succ. modif. (ora T.U. degli enti locali) secondo un

modello nel quale alla legge spetta dettare le linee fondamentali dell’organizzazione

dell’ente, lasciando alle scelte autonome la possibilità di arricchire ed integrare tale

disegno.

Dal punto di vista della collocazione nel quadro delle fonti, il rapporto dello statuto con

la legge non può essere colto richiamando meramente la nozione di gerarchia, ma

impone di utilizzare piuttosto quella di competenza. Si tratta infatti di un atto

espressione di autonomia costituzionalmente riconosciuta, che deve unicamente

osservare i principi dalla Costituzione, senza che vi sia spazio per una diretta ingerenza

della legge statale o regionale negli ambiti non espressamente assoggettati a

disciplina legislativa.

Secondo quanto dispone il T.U. enti locali, lo statuto (comunale o provinciale) ha un

contenuto obbligatorio ed uno facoltativo.

Lo statuto deve, infatti, stabilire “le norme fondamentali per l’organizzazione dell’ente ed
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in particolare specifica le attribuzioni degli organi, le forme di garanzia e di

partecipazione delle

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minoranze…lo statuto stabilisce altresì i criteri generali in materia di organizzazione

dell’ente, le forme di collaborazione fra comuni e province, della partecipazione

popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni ed ai

procedimenti amministrativi…”. Lo statuto può vere anche altri contenuti, facoltativi, nei

limiti in cui residuino spazi di scelta dalla legislazione vigente.

Lo statuto è deliberato (medesima procedura è prevista per le modifiche) dal consiglio

con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. Lo statuto è soggetto al

controllo del Co.re.co. e, successivamente, in quanto atto normativo, alla pubblicazione

sul bollettino ufficiale della regione. Esso viene altresì affisso all’albo pretorio dell’ente e

inviato al ministero dell’interno per essere inserito nella raccolta ufficiale degli statuti.

Decorsi trenta giorni dalla affissione all’albo pretorio, lo statuto entra in vigore.

Ma la normazione degli enti locali no si esaurisce nello statuto.

Ai sensi dell’art. 17 T.U. enti locali, “nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo

statuto, il comune e la provincia adottano regolamenti per l’organizzazione ed il

funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento

degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni”.

Oggi, l’art. 117 Cost. dispone che comuni, province e città metropolitane abbiano

“potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento

delle funzioni loro attribuite”: si tratta dunque del già citato riconoscimento

costituzionale di una riserva di regolamento.

Rimane il dubbio se il regolamento sia da qualificare come fonte di rango secondario

rispetto allo statuto: la risposta potrebbe essere positiva, atteso che l’art. 114 Cost., nel

definire invia generale comuni, province, città metropolitane (e regioni) come enti

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autonomi, ha cura di precisare che essi si dotano di “propri statuti”, senza

citare i regolamenti, confermando la posizione privilegiata della fonte statutaria. Si può

piuttosto osservare che essa non potrà contenere disposizioni così dettagliate da

comprimere la riserva di regolamento.

Non sono invece fonti del diritto le circolari, gli atti che pongono le c.d. norme interne e

la prassi. Un cenno meritano poi i testi unici, i quali raccolgono in un unico corpo le

norme che disciplinano una certa materia. Essi non hanno carattere innovativo se, con il

solo fine di raccogliere in un testo ufficiale le disposizioni vigenti, sono formati da

un’autorità che non dispone, nel caso, di potestà normativa (sarebbero mere fonti).

Infine, la legge riconosce potestà normativa ad alcune autorità indipendenti. La scelta

presta il fianco ad alcune critiche, sia perché non sono tipizzati i limiti della potestà e la

procedura di formazione dell’atto normativo, sia perché (motivo ben più grave) le

autorità indipendenti sono soggetti privi di legittimazione e di responsabilità politica.

CAPITOLO 6 - IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO 65

INTRODUZIONE

L’emanazione del provvedimento finale è di norma preceduta da un insieme di atti, fatti

ed attività, tutti tra di loro connessi in quanto concorrono all’emanazione del

provvedimento stesso. Essi confluiscono nel procedimento amministrativo.

I casi di provvedimenti emanati senza porre in essere un procedimento sono

pochissimi: si può immaginare l’ipotesi dell’atto d’urgenza adottato immediatamente

dall’organo individuale competente.

Il procedimento amministrativo è stato definito come “forma della funzione”: il

passaggio dall’attribuzione del potere alla concreta produzione dell’effetto finale è

contraddistinto da una serie coordinata di attività e di atti “endoprocedimentale” che

costituisce la funzione. Essa fa in qualche modo da tramite tra una situazione statica (il

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potere) e un’altra situazione statica (l’effetto prodotto dall’atto). in tale

ambito si colloca il procedimento amministrativo.

La più recente normativa pare voler configurare il procedimento come modulo nel cui

interno far confluire l’esercizio di più poteri provvedimentale, in particolare autorizzativi

e concessori, tra di loro connessi in quanto riferiti ad una medesima attività del privato.

CENNI SULLA DISCIPLINA COMUNITARIA

L’importanza del diritto comunitario in materia procedimentale deriva sia dal fatto che

gli organi comunitari pongono in essere molteplici procedimenti destinati ad avere

effetti nel nostro ordinamento, sia dal fatto che sempre più numerose norme di origine

comunitaria condizionano l’azione dell’amministrazione nazionale interferendo con la

disciplina interna del procedimento.

Il procedimento amministrativo comunitario è soprattutto configurato come modulo

garantistico di tutela delle situazioni giuridiche soggettive, ll’interno del quale deve

essere assicurato il diritto di difesa in tutti quei procedimenti che sfociano in atti

sfavorevoli per il destinatario.

L’ESPERIENZA ITALIANA: LA LEGGE 241/1990 E IL SUO AMBITO DI

APPLICAZIONE

La l. 241/1990 reca “norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di

accesso ai documenti amministrativi”. La legge italiana non contiene, infatti, una

disciplina completa ed esaustiva del procedimento, ma si limita a specificare alcuni

principi e a disciplinare gli istituti più importanti; d’altro canto, essa si occupa anche di

aspetti che solo indirettamente riguardano il procedimento, quali il diritto di accesso.

Un primo problema che si pone all’interprete è quello di delimitare l’ambito di

applicazione della legge. La legge sembra operare direttamente nei riguardi delle

regioni a statuto ordinario fino a quando esse non avranno legiferato in materia mentre,

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con riguardo alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di

Trento e Bolzano, precisa che, entro un anno dalla entrata in vigore della legge, tali enti

debbono provvedere ad adeguare i rispettivi ordinamenti alle norme fondamentali

contenute nella legge medesima.

Occorre peraltro ricordare che la recente riforma costituzionale (l. 3/2001), ampliando

notevolmente le materie rientranti nella potestà legislativa regionale, sembra aprire la

via al proliferare della disciplina regionale sul procedimento, con un possibile

superamento della l. 241/1990.

Circa l’ambito oggettivo di applicazione della legge, va ricordato che l’attività

amministrativa si caratterizza per il profilo funzionale, per essere cioè diretta alla cura

dell’interesse pubblico. Muovendo da tale premessa si può concludere nel senso che la

legge sul procedimento si applichi altresì alla c.d. attività contrattuale della pubblica

amministrazione. Infatti, pur se l’atto finale è un negozio di diritto comune, il formarsi

della volontà della pubblica amministrazione è pur sempre un’attività orientata

all’interesse pubblico e, come tale, procedimentalizzata.

66

I PRINCIPI ENUNCIATI DALLA LEGGE 241/1990

L’art. 1 della legge afferma che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla

legge ed è retta dai criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità.

L’azione è economica quando il conseguimento degli obiettivi avvenga con il minor

impiego possibile di mezzi personali, finanziari e procedimentali. L’economicità si

traduce nell’esigenza del non aggravamento del procedimento se non per straordinarie

e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria.

Al fine di comprendere questa prescrizione, si rammenta che, all’interno del

procedimento, si trovano atti previsti dalla legge e atti che l’amministrazione ritiene

opportuno ed utile adottare (tipico esempio: i pareri facoltativi). In applicazione del

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principio in esame, debbono essere ritenuti illegittimi gli atti superflui, in

particolare le duplicazioni ingiustificate di pareri e di momenti istruttori.

L’efficacia è il rapporto tra obiettivi prefissati ed obiettivi conseguiti ed esprime la

necessità che l’amministrazione, oltre al rispetto formale della legge, miri anche e

soprattutto al perseguimento nel miglior modo possibile delle finalità ad essa affidate.

La pubblicità è un carattere che costituisce conseguenza diretta della natura

pubblicistica dell’amministrazione; questa richiede la trasparenza dell’amministrazione

stessa e della sua azione agli occhi del “pubblico”.

Applicazione concreta del principio di pubblicità è costituita dal diritto di accesso ai

documenti amministrativi. In senso lato, si rapportano alla pubblicità anche gli istituti

della partecipazione al procedimento amministrativo e della motivazione del

provvedimento.

La legge non richiama il concetto di efficienza (rapporto tra mezzi impiegati e obiettivi

conseguiti). Vi sono, tuttavia, numerose altre disposizioni normative che introducono

altresì il canone dell’efficienza e si preoccupano di garantirne la vigenza e

l’applicazione.

Un ulteriore principio enucleabile dalla l. 241/1990 è quello che potrebbe definirsi

dell’azione in via procedimentale: ai sensi dell’art. 2, l’amministrazione deve infatti

concludere il procedimento “mediante l’adozione di un provvedimento espresso”. La

regola soffre tuttavia importanti eccezioni desumibili dalla stessa legge (in particolare,

l’ipotesi del silenzio assenso di cui all’art. 20).

LE FASI DEL PROCEDIMENTO

Il procedimento deve seguire un particolare ordine – in linea di massima prefissato

dalla legge – nella successione degli atti e delle operazioni che lo compongono:

a) nel procedimento, innanzitutto, sono presenti atti che assolvono ad una funzione

preparatoria rispetto all’emanazione del provvedimento finale, confluendo nella

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cosiddetta fase preparatoria;

b) segue la fase decisoria, in cui viene emanato l’atto o gli atti con efficacia

costitutiva, nel senso che da essi sgorga l’effetto finale sul piano

dell’ordinamento generale (denominato appunto “efficacia”);

c) il procedimento si chiude, quindi, con quegli atti che confluiscono nella fase

integrativa dell’efficacia, che è eventuale, in quanto in alcuni casi la legge non la

prevede, con la conseguenza che il provvedimento produrrà comunque l sua

efficacia dopo la fase decisoria.

La distinzione tra tali fasi no deve far dimenticare che il procedimento serve, nel suo

complesso, per decidere, e che ciò avviene in modo graduale e per momenti successivi:

il procedimento, infatti, si configura come un continuum che non tollera suddivisioni

artificiose. Tra i due estremi del procedimento – l’iniziativa e l’integrazione dell’efficacia,

ove prevista, altrimenti l’emanazione del provvedimento finale – trovano posto i c.d. atti

endoprocedimentali, destinati a produrre effetti rilevanti nell’ambito del procedimento

stesso; essi, infatti, sono costitutivi dell’effetto endoprocedimentale che l’ordinamento

amministrativo ad essi collega, contribuendo altresì a condizionare in vario modo la

scelta discrezionale finale.

67

La conoscenza delle fasi in cui si articola il procedimento è importante, giacché

l’illegittimità di uno degli atti del procedimento determina in via derivata l’illegittimità

del provvedimento finale. Il terzo pregiudicato, però, può dolersi unicamente a

condizione che vi sia stata l’emanazione del provvedimento finale. Tuttavia, in sede

giurisdizionale, il terzo potrà far valere e dedurre anche i vizi che attengono agli atti

endoprocedimentali in quanto essi hanno concorso alla formazione del provvedimento

che ha concluso il procedimento. Pure la mancata adozione di un atto dovuto e

l’alterazione dell’ordine procedurale danno luogo ad una illegittimità, la quale si riflette

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sul provvedimento finale che sarà a sua volta illegittimo: si pensi, al

riguardo, alla omissione di un parere obbligatorio, ovvero alla posticipazione di un

parere rispetto alla emanazione del provvedimento finale.

Non è poi da escludere che un atto endoprocedimentale possa produrre di per sé effetti

esterni e che, se lesivo di situazioni giuridiche soggettive, possa essere impugnato. Il

fenomeno è spiegabile ricorrendo all’idea della pluriqualificazione degli atti e delle

fattispecie giuridiche. Lo stesso atto può cioè rilevare sia come atto del procedimento,

sia come atto, avente effetti esterni, lesivo di posizioni giuridiche di alcuni terzi.

L’effetto esterno può essere prodotto anche da un atto che determini l’arresto del

procedimento. Ma mentre l’atto esplicito di arresto può essere, a seconda dei casi,

legittimo o illegittimo, il rifiuto puro e semplice di emanare un atto è sempre illegittimo

anche se, in ipotesi di silenzio, si dovrà applicare la disciplina del rifiuto.

Sempre con riferimento agli atti interni del procedimento, si deve osservare come

spesso la loro emanazione sia preceduta da uno specifico procedimento, sicché

nell’ambito di uno stesso procedimento possono innestarsi anche più subprocedimenti,

i quali costituiscono le serie di fasi preordinate alla emanazione di un atto che fa parte

del procedimento principale.

RAPPORTI TRA PROCEDIMENTI AMMINISTRATIVI

Tra più procedimenti amministrativi possono sussistere molteplici rapporti.

Talora il rapporto deriva dal fatto che alcuni procedimenti costituiscono una fase di un

procedimento principale; questi procedimenti vengono definiti subprocedimenti. I

procedimenti si dicono invece connessi allorché l’atto conclusivo di un autonomo

procedimento condiziona l’esercizio del potere che si svolge nel corso di un altro

procedimento (connessione funzionale).

La connessione più importante è costituita dalla presupposizione: al fine di esercitare

legittimamente un potere, occorre la sussistenza di un certo atto che funge da

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presupposto di un altro procedimento.

Quali esempi di rapporto di presupposizione possiamo ricordare la dichiarazione di

pubblica utilità rispetto all’emanazione del decreto di esproprio.

Si tratta di una circostanza che deve sussistere affinché il potere sia legittimamente

esercitato. Si pensi, ad esempio, alla situazione di urgenza che è il presupposto dei

provvedimenti contingibili. L’illegittimità dell’atto che funge da presupposto rispetto al

successivo procedimento può inficiare anche il provvedimento finale, in quanto incide

sulla validità del legittimo esercizio del successivo e diverso potere.

In altri casi, l’assenza di un provvedimento, ovvero la conclusione con un atto di diniego

di un procedimento, impedisce la legittima conclusione di altro procedimento (si pensi

all’ipotesi in cui l’apertura di locali destinati all’esercizio di una determinata attività si

consentita soltanto a coloro che posseggono l’iscrizione ad un particolare albo).

Vi sono altresì ipotesi in cui la presenza di un atto, conclusivo di procedimento, osta

all’emanazione di un certo provvedimento: il rilascio di un provvedimento di

concessione in sanatoria impedisce di concludere il relativo procedimento

sanzionatorio con la comminatoria della sanzione stesa.

L’INIZIATIVA DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

68

Il procedimento si apre con l’iniziativa, che può essere ad istanza di parte, o d’ufficio.

L’iniziativa ad istanza di parte è caratterizzata dal fatto che il dovere di procedere sorge

a seguito (e solo a seguito) dell’atto d’impulso proveniente da un soggetto privato

oppure da soggetto pubblico diverso dall’amministrazione cui è attribuito il potere, o da

un organo differente da quello competente a provvedere.

Negli ultimi due casi, l’istanza consiste in un atto amministrativo: più esattamente si

deve parlare di richiesta o proposta. Quest’ultima può essere vincolante o non

vincolante; se vincolante, la proposta comporta il dovere dell’amministrazione

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procedente di conformarsi alla stessa e, dunque, di far proprio il contenuto

dell’atto proposto. Ove si tratti di proposta non vincolante, si ritiene sussistente la

possibilità dell’amministrazione di valutare l’opportunità di esercitare il potere o di non

eseguirla.

Secondo una opinione dottrinale, la richiesta in senso proprio è l’atto di iniziativa,

consistente in una manifestazione di volontà, mediante il quale un’autorità sollecita ad

altro soggetto pubblico l’emanazione di un determinato atto amministrativo. Un

particolare esempio di richiesta che proviene da un organo di amministrazione attiva è

la richiesta di parere.

Dalla richiesta si distingue la designazione, la quale consiste “nella indicazione di uno o

più nominativi all’autorità competente a provvedere ad una nomina”; essa non è atto di

iniziativa procedimentale.

L’istanza, in senso proprio, invece, proviene dal solo cittadino ed è espressione della sua

autonomia.

La richiesta e la proposta mirano alla cura di intessi pubblici, l’istanza è posta in essere

in funzione di interessi particolari.

Tutte queste fattispecie richiamate – ad eccezione della proposta non vincolante –

sono comunque caratterizzate dal fatto che sorge, quale effetto endoprocedimentale, il

dovere per l’amministrazione di procedere.

A fronte dell’istanza, l’amministrazione deve dar corso al procedimento, ma può anche

rilevarne l’erroneità e la incompletezza; in tale ipotesi, prima di rigettare l’istanza, essa

deve procedere alla richiesta della rettifica.

Il dovere per l’amministrazione di procedere, tuttavia, sorge soltanto quando

l’ordinamento riconosca la sussistenza di una posizione qualificata in capo al privato.

In caso contrario, l’atto del privato non si configura come istanza in senso proprio, bensì

come mera denuncia, mediante la quale si rappresenta una data situazione di fatto

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all’amministrazione, chiedendo l’adozione di provvedimenti e/o, più

genericamente, di misure, senza tuttavia che l’ordinamento riconosca in capo a quel

privato un interesse protetto.

L’iniziativa d’ufficio è prevista dall’ordinamento nelle ipotesi in cui il tipo di interessi

pubblici affidati alla cura di un’amministrazione esiga che questi si attivi

automaticamente al ricorrere di alcuni presupposti, indipendentemente dalla

sollecitazione proveniente da soggetti esterni. Le segnalazioni devono normalmente

essere soggette ad una verifica, la quale in ogni caso attiene alla sufficienza del fatto

rappresentato ai fini dell’attivazione del procedimento.

IL DOVERE DI CONCLUDERE IL PROCEDIMENTO

L’individuazione del momento in cui il procedimento ha inizio è importante giacché

soltanto con riferimento ad esso è possibile stabilire il termine entro il quale il

procedimento stesso deve essere concluso.

In senso proprio, il procedimento si conclude con l’emanazione dell’ultimo atto della

serie procedimentale, che non necessariamente coincide con il provvedimento. D’altro

canto, fino a che non si perfeziona la c.d. fase integrativa dell’efficacia, il provvedimento

non produce effetti, sicché il procedimento non può certi dirsi concluso.

Il legislatore chiarisce che la pubblica amministrazione ha il dovere di concludere il

procedimento “mediante l’adozione di un provvedimento espresso”: di conseguenza, il

termine si intende rispettato quando l’amministrazione, entro novanta giorni – ovvero

entro il diverso termine fissato in via regolamentare – emani il provvedimento finale.

A fronte dell’inutile decorso del termine senza che l’amministrazione abbia emanato il

provvedimento, il cittadino ha a disposizione una serie di rimedi giuridici.

69

Il ritardo può innanzitutto causare una responsabilità dell’amministrazione per lesione

di interessi meritevoli di tutela.

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In caso di inerzia, il cittadino può inoltre reagire utilizzando gli strumenti

(ricorso avverso il silenzio) previsti a fronte del c.d. silenzio inadempimento: esso si

forma allorché l’amministrazione non abbia emanato l’atto nel termine fissato, in un

contesto in cui l’ordinamento non attribuisce a quel comportamento alcun effetto

giuridico equivalente al rilascio di un provvedimento positivo o di diniego.

Talora l’ordinamento attribuisce poteri sostitutivi in capo ad amministrazioni diverse da

quelle competenti a provvedere che siano rimaste inerti.

Il ritardo nell’emanazione dell’atto amministrativo può altresì integrare un’ipotesi di

illecito disciplinare a carico del dipendente. A ciò si aggiunga che l’ordinamento

prevede altresì la responsabilità civile a carico dell’agente: il privato può chiedere il

risarcimento dei danno conseguiti all’omissione o al ritardo nel compimento di atti o di

operazioni cui l’impiegato sia tenuto per legge o per regolamento. A tal fine,

l’interessato, quando siano trascorsi sessanta giorni dalla data di presentazione

dell’istanza (dunque, nelle ipotesi di procedimento ad iniziativa di parte), deve

notificare una diffida all’amministrazione e all’impiegato, a mezzo d’ufficiale giudiziario;

decorsi inutilmente trenta giorni dalla diffida, egli può proporre l’azione volta ad

ottenere il risarcimento.

Si noti che tale procedura è prevista dalla legge anche nel caso di omissione o ritardo di

atti endoprocedimentali da compiersi d’ufficio.

L’art. 328 c.p. stabilisce, inoltre, che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico

servizio il quale, entro trenta giorni dalla richiesta redatta in forma scritta da chi vi abbia

interesse, non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del

ritardo, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire due milioni.

Affinché si integri il reato, comunque, è sufficiente l’inerzia nel compiere un atto

(richiedendosi però sempre il requisito del dolo), il quale non necessariamente è il

provvedimento finale. In relazione al problema del tempo, va ricordato che nel nostro

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ordinamento vige il principio secondo cui tempus regit actum: ogni atto

deve essere disciplinato dalla normativa vigente al momento in cui esso è posto in

essere. Il principio vale anche per il provvedimento finale sicché, nell’ipotesi in cui la sua

emanazione richieda, ai sensi della normativa sopravvenuta, l’esistenza di atti

endoprocedimentali non previsti dalla legge precedente e non sussistenti,

l’amministrazione dovrà rifiutarsi di emanarlo (fatta salva l’ipotesi di integrazione).

Nel silenzio della legge, ciò non impedisce la salvezza degli atti endoprocedimentali già

emanati, anche se è mutata la disciplina, purché la fase in cui essi si collocano non sia

totalmente incompatibile con la nuova normativa.

Per quanto infine attiene all’ipotesi i cui lo ius superveniens intervenga nella fase

procedimentale di controllo, la tesi seguita dalla Corte dei conti è quella secondo cui,

non avendo in essa il provvedimento ancora acquisito efficacia, l’organo di controllo

deve tener conto della legislazione vigente al momento in cui sta espletando la sua

attività (non omogeneo è l’orientamento dei Tar).

IL RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO

La legge 241/1990 disciplina la figura del responsabile del procedimento: l’art. 4

stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute a determinare, per ciascun tipo

di procedimento relativo ad atti di loro competenza, l’unita organizzativa responsabile

dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del

provvedimento finale.

Adempiuto l’obbligo di determinare le singole unità organizzative competenti, seguirà

l’individuazione, all’interno di ciascuna unità organizzativa, del responsabile del

procedimento, persona fisica che agirà in concreto.

Quanto alle funzioni del responsabile, è possibile osservare in via preliminare che dalla

lettura della normativa emerge non già il profilo della responsabilità in senso tecnico,

bensì quello di guida del procedimento, di coordinatore dell’istruttoria e di organo di

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impulso. Il responsabile rappresenta, inoltre, l’essenziale punto di

riferimento sia per i privati, sia per l’amministrazione procedente e per gli organi di altre

amministrazioni coinvolte dal soggetto procedente.

70

Il responsabile può anche chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni

o istanze erronee o incomplete.

Questo istituto – regolarizzazione delle domande dei privati e della documentazione

prodotta – è assai importante: l’amministrazione può ammettere il cittadino a

correggere gli errori materiali in cui sia incorso nella redazione di istanze o domande,

nonché completare la documentazione incompleta o non conforme alla normativa.

Il responsabile ha compiti di impulso del procedimento: propone l’indizione o, avendone

la competenza, indice le conferenze di servizi, le quali hanno un rilievo istruttorio (ma

anche decisorio); inoltre, ove non abbia la competenza ad emanare l’atto finale,

trasmette gli atti all’organo competente per l’adozione; altrimenti emana egli stesso

tale provvedimento.

Da tutto quanto esposto è evidente che il responsabile del procedimento sia il soggetto

dell’amministrazione che instaura il dialogo con i soggetti interessati al procedimento

mediante la comunicazione dell’avvio del procedimento, lo prosegue nella fase della

partecipazione anche dopo l’emanazione del provvedimento finale, mediante la

comunicazione, la pubblicazione e le notificazioni previste dall’ordinamento.

La disciplina pone però una serie di problematiche.

In primo luogo, occorre stabilire che cosa si intenda per unità organizzativa

responsabile; si conviene che debbano intendersi le varie partizioni organizzative.

Altro problema deriva dal fatto che l’art. 4 della l. 241/1990 dispone che le pubbliche

amministrazioni devono individuare, per ciascun tipo di procedimento, le unità

organizzative responsabili dell’istruttoria “nonché dell’adozione del provvedimento

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finale”. Si tratta cioè di capire se ci debba essere o meno identità tra unità

organizzative responsabili dell’istruttoria e unità deputate all’adozione dell’atto

terminale del procedimento.

L’opinione secondo cui l’unità organizzativa responsabile coincide con il settore

competente ad adottare il provvedimento finale ha il pregio di consentire comunque di

individuare l’unità responsabile per ciascun tipo di procedimento, anche in caso di

inerzia dell’amministrazione; altrimenti, la mancata determinazione

dell’amministrazione impedirebbe di fatto l’applicabilità delle norme sul responsabile

del procedimento.

Si deve allora concludere che il responsabile del tipo di procedimento coincide con

l’organo competente ad emanare l’atto nei casi di mancata individuazione dell’unità

organizzativa da parte dell’amministrazione mentre, allorché essa si attivi, possa anche

indicare unità responsabili del tipo di procedimento diverse da quelle competenti.

La coincidenza tra responsabile del procedimento e dirigente dell’unità organizzativa è

spesso peraltro prevista dalle fonti (regolamenti e leggi regionali) che hanno dato

attuazione alla l. 241/1990.

L’individuazione del responsabile non comporta l’automatica attrazione in capo a tale

soggetto della responsabilità civile, penale e disciplinare, soluzione questa che, a tacere

di altri aspetti, deresponsalizzerebbe gli organi competenti ad emanare i singoli atti

endoprocedimentali. Piuttosto, ove il responsabile abbia correttamente agito (si pensi

in particolare agli atti di impulso e di sollecitazione da questi posti in essere), dovrebbe

potersi individuare il soggetto che ha effettivamente rallentato o bloccato il

procedimento.

In conclusione, ancorché la legge parli di “responsabile del procedimento”, deve essere

ribadito soprattutto il ruolo di guida e di coordinamento in seno al procedimento

rivestito da tale soggetto.

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LA COMUNICAZIONE DELL’AVVIO DEL PROCEDIMENTO

L’avvio del procedimento deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei quali il

provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, a quelli che per legge devono

intervenirvi, nonché ai soggetti, diversi dai diretti destinatari, che siano individuati o

facilmente individuabili qualora dal provvedimento possa loro derivare un pregiudizio.

I destinatari dell’atto sono i soggetti nella cui sfera giuridica si produce la vicenda

giuridica (tipica) determinata dall’esercizio del potere.

Maggiori problemi sorgono in relazione alla categoria dei “soggetti individuati o

facilmente individuabili ai quali potrebbe derivare un pregiudizio dal provvedimento.

71

In linea di massima, si tratta di quei soggetti che sarebbero legittimati ad impugnare il

provvedimento favorevole nei confronti del destinatario in quanto pregiudicati dal

provvedimento stesso.

La comunicazione dell’avviso è un compito del responsabile del procedimento. In via di

norma, essa deve essere fatta mediante comunicazione personale; può anche essere

effettuata secondo modalità differenti, stabilite di volta in volta dall’amministrazione,

quando per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o

risulti particolarmente gravosa.

Nel silenzio della legge, va ritenuto che tale adempimento vada compiuto senza ritardo

e, comunque, entro un termine ragionevole tenuto conto delle circostanze.

La comunicazione deve contenere i seguenti elementi: amministrazione competente,

oggetto del procedimento, ufficio e persona del responsabile del procedimento, ufficio

in cui si può prendere visione degli atti.

L’istituto della comunicazione è strettamente collegato alla partecipazione al

procedimento, nel senso che consente agli interessati di essere posti a conoscenza

della pendenza di un procedimento nel quale possono intervenire rappresentando il

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proprio punto di vista. La comunicazione non é necessaria nei casi di

subprocedimenti che confluiscano nel solco di un procedimento principale.

La giurisprudenza ha ritenuto che si possa legittimamente derogare all’obbligo di

comunicazione nel caso di procedimenti finalizzati all’occupazione d’urgenza delle aree

destinate alla costruzione di opere pubbliche e di ingiunzioni di demolizione o di

sospensione di lavori. L’art. 7 della l. 241/1990 si occupa dei provvedimenti cautelari e

consente all’amministrazione la loro adozione “anche prima della effettuazione della

comunicazione” dell’avvio del procedimento. in questi casi l’amministrazione può

soltanto differire nel tempo la comunicazione. La dottrina ha posto in luce l’esistenza di

altri procedimenti, c.d. “riservati”, in ordine ai quali non dovrebbe essere ammessa la

partecipazione. In questi casi, in effetti, la comunicazione dell’avvio dl procedimento e

la partecipazione potrebbero frustrare gli interessi curati dall’amministrazione ovvero la

riservatezza dei terzi.

La giurisprudenza ha comunque spesso interpretato in senso restrittivo la norma che

configura l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento: oltre all’individuazione di

intere categorie di procedimenti nei quali sussisterebbero esigenze di celerità, essa ha

talora escluso la sussistenza dell’obbligo nelle ipotesi di procedimento ad istanza di

parte (perché il privato è per ciò stesso a conoscenza della pendenza di un

procedimento) e di attività vincolata, ovvero, più in generale, ritenendo che per certi

procedimenti non sia utile o rilevante il contraddittorio.

L’omissione della comunicazione di avvio del procedimento configura una ipotesi di

illegittimità, che può essere fatta valere soltanto dal soggetto “nel cui interesse la

comunicazione è prevista”. Il legislatore vuole in sostanza evitare che l’atto finale venga

caducato, con la conseguenza di aprire la via alla ripetizione del procedimento, su

iniziativa di chi faccia valere un vizio che abbia pregiudicato la situazione di altro

soggetto.

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L’ISTRUTTORIA PROCEDIMENTALE

L’istruttoria è la fase del procedimento funzionalmente volta all’accertamento dei fatti e

dei presupposti del provvedimento ed alla acquisizione e valutazione degli interessi

implicati dall’esercizio del potere. Essa è condotta dal responsabile del procedimento.

Dunque, l’istruttoria del procedimento amministrativo serve per acquisire interessi e

verificare fatti. La distinzione tra fatti e interessi si complica nella realtà delle cose, in

quanto sussiste una stretta correlazione tra gli uni e gli altri, nel senso che il fatto

implica e consente di evidenziare interessi e, per contro, l’interesse e la verifica della sua

esistenza possono richiedere l’accertamento di una situazione di fatto.

Fatta questa premessa, si precisa che l’attività conoscitiva in senso proprio si svolge

mediante una serie di operazioni i cui risultati vengono attestati da dichiarazioni di

scienza, acquisite al procedimento. i dati di fatto rilevanti possono essere individuati

dall’amministrazione oppure rappresentati dai terzi attraverso lo strumento della

partecipazione.

72

Gli interessi vengono introdotti nel procedimento attraverso l’iniziativa

dell’amministrazione procedente, l’acquisizione delle determinazioni di altri soggetti

pubblici, la indizione della conferenza di servizi e la partecipazione procedimentale.

L’OGGETTO DELL’ATTIVITÀ ISTRUTTORIA

Nel nostro ordinamento amministrativo vige il principio inquisitorio, in forza del quale

l’amministrazione non è, in linea di massima, vincolata dalle allegazioni dei fatti

contenute nelle istanze e nelle richieste ad essa rivolte.

La sussistenza del principio inquisitorio pone il problema dell’oggetto dell’attività

istruttoria e, dunque, dell’individuazione della porzione di realtà nei confronti della quale

l’amministrazione deve rivolgere la propria attenzione ai fini di provvedere

legittimamente.
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L’attività di selezione e di evidenziazione dei fatti e degli interessi non è priva

di limiti e, in quanto tale, deve essere adeguatamente motivata. Essa deve in primo

luogo rispettare il principio di non aggravamento del procedimento. Al fine di

circoscrivere l’ambito della porzione di realtà e dello spettro degli interessi che

l’amministrazione ha il dovere di acquisire, è inoltre importante il riferimento al criterio

della pertinenza all’oggetto del procedimento. Infine, non vanno dimenticati i canoni di

logicità e congruità che devono guidare anche la decisione in ordine all’estensione

dell’attività istruttoria.

LE MODALITÀ DI ACQUISIZIONE DEGLI INTERESSI; CONFERENZA DI

SERVIZI C.D. “ISTRUTTORIA”

Gli interessi rilevanti sono acquisiti al procedimento sia attraverso l’iniziativa

dell’amministrazione procedente, sia a seguito dell’iniziativa dei soggetti titolari degli

interessi stessi. Le vie per la loro rappresentazione nel corso del procedimento sono

diverse. L’amministrazione procedente può richiedere all’amministrazione cui è

imputato l’interesse pubblico da acquisire di esprimere la propria determinazione.

In ordine alla partecipazione, la normativa apre la via alla esternazione non tipizzata

degli interessi pubblici, indipendentemente dalla richiesta avanzata dal responsabile

del procedimento. Per quel che riguarda la conferenza di servizi, è importante rilevare

come in sede istruttoria sia possibile acquisire gli interessi pubblici rilevanti in un’unica

soluzione.

Secondo quanto già chiarito, la conferenza è indetta dal responsabile del procedimento

e consiste in una riunione di persone fisiche in rappresentanza delle rispettive

amministrazioni, ciascuna delle quali esprime il punto di vista dell’amministrazione

rappresentata che confluisce, poi, in una determinazione concordata.

Le diverse possibilità indicate di acquisizione degli interessi pubblici coinvolti dal

procedimento in itinere non sono perfettamente equivalenti quanto al tipo di interessi


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che consentono di introdurre. Mediante la partecipazione, infatti, possono

essere rappresentati interessi da parte di soggetti pubblici soltanto nel caso in cui dal

procedimento possa derivare loro un pregiudizio, laddove la conferenza di servizi può

essere indetta per esaminare gli interessi pubblici “coinvolti”, senza specificazioni

ulteriori e pertanto anche nel caso in cui dal provvedimento finale possa derivare un

indiretto beneficio.

LA PARTECIPAZIONE PROCEDIMENTALE

Uno degli strumenti più importanti previsti dalla l. 241/1990 per introdurre interessi

pubblici e privati nel procedimento è costituito dalla partecipazione.

Ai sensi degli artt. 7 e 9 della legge, sono legittimati all’intervento nel procedimento i

soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti

diretti, i soggetti che per la

73

legge debbono intervenire nel procedimento ed i soggetti che possono subire un

pregiudizio dal provvedimento, purché individuati o facilmente individuabili. Possono

inoltre intervenire nel procedimento i portatori di interessi pubblici o privati, nonché i

portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un

pregiudizio dal provvedimento.

La differenza principale tra le categorie indicate rispettivamente dall’art. 7 e dall’art. 9

riguarda le modalità con cui i soggetti acquisiscono la conoscenza della pendenza di

un procedimento nel quale intervenire.

L’art. 9 consente infatti la partecipazione ai soggetti cui possa derivare un pregiudizio

dal provvedimento; l’art. 7 prevede invece un dovere dell’amministrazione (di

comunicare l’avvio del procedimento), il quale non può comportare un eccessivo

aggravio per l’amministrazione stessa, mentre la partecipazione disciplinata all’art. 9 è

indipendente dal ricevimento dell’avviso del procedimento.

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Gli statuti degli enti locali possono ampliare la cerchia dei soggetti titolari

del potere di partecipazione, prevedendo numerosi strumenti ed istituti quali:

consultazione, istanze, petizioni, proposte, referendum, azioni popolari, diritto di accesso

e di informazione dei cittadini. Nell’analisi del tema della partecipazione, la dottrina ha

spesso utilizzato la nozione di parti del procedimento. Tuttavia, il concetto di parte non

può essere riferito in senso proprio alla funzione amministrativa e al potere: gli

intervenienti non svolgono nessuna funzione amministrativa in quanto il potere è

attribuito soltanto alla pubblica amministrazione. Unica vera parte necessaria è dunque

l’amministrazione o, meglio, l’amministrazione procedente.

ASPETTI STRUTTURALI E FUNZIONI DELLA PARTECIPAZIONE

La partecipazione al procedimento consiste nel diritto di prendere visione dei relativi atti

e nella presentazione di memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha il

dovere di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento.

In ossequio al già rilevato principio secondo cui per partecipare occorre conoscere, va

considerato che per la categoria di soggetti indicati all’art. 7 della l. 241/1990, la

comunicazione di avvio del procedimento è atto strumentale e necessario per garantire

la partecipazione. Considerando che la funzione del procedimento è quella di

consentire la migliore cura dell’interesse pubblico, si deve ritenere che anche la

partecipazione sia strumentale alla più congrua decisione finale in vista dell’interesse

pubblico: essa ha cioè funzione collaborativa. Certo, il soggetto che partecipa,

soprattutto se si tratta di un privato, interviene per tutelare la propria posizione.

I fatti rappresentati dagli intervenienti non possono essere accettati acriticamente:

l’autore della rappresentazione, infatti, potrebbe avere maliziosamente alterato la

realtà, la quale ultima, inoltre, è pur sempre rappresentata attraverso la valutazione

soggettiva dell’interveniente. Ogni rappresentazione implica una “selezione” dei fatti,

con la conseguenza che l’amministrazione può essere chiamata ad estendere l’ambito

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oggettivo della realtà indagata, onde ricercare i fatti implicati di quella

rappresentazione.

Mediante la partecipazione è pure dato introdurre ipotesi di soluzione, le quali vanno ad

arricchire il quadro delle possibilità all’interno del quale l’amministrazione opererà la

scelta finale (funzione “collaborativa” della partecipazione).

IL DIRITTO DI ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI

La partecipazione offre la possibilità ai soggetti legittimati di “presentare memorie

scritte e documenti” nonché di “prendere visione degli atti del ”procedimento”(art. 10 l.

241/1990). Occorre, però, premettere che l’accesso ha anche una sua autonomia

rispetto al procedimento, nel senso che il relativo potere può essere esercitato pure a

procedimento concluso. Si tratta, infatti, di un istituto che si collega non alla sola

trasparenza procedimentale, bensì anche al principio di trasparenza inteso in senso

lato.

74

Il diritto di accesso è autonomo pure rispetto all’azione che il soggetto potrebbe

esperire davanti ad un giudice per contestare la legittimità dell’azione amministrativa,

come dimostra il fatto che la richiesta di accesso non sospende i termini per agire.

Per quanto riguarda l’accesso collegato alla partecipazione, i soggetti legittimati ad

esercitare il diritto di accesso sono tutti i soggetti che abbiano titolo a partecipare al

procedimento. L’art. 10 T.U. enti locali, che si occupa dell’accesso ai documenti degli enti

locali, stabilisce che legittimati all’accesso sono tutti i cittadini, singoli o associati, e

prevede l’obbligo per gli enti locali di dettare norme regolamentari per assicurare ai

cittadini l’informazione sullo stato degli atti e delle procedure e sull’ordine di esame

delle domande, progetti e provvedimenti che li riguardino; il regolamento deve altresì

assicurare “il diritto dei cittadini di accedere, in generale, alle informazioni di cui è in

possesso l’amministrazione”.

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Il diritto di accesso si esercita nei confronti delle amministrazioni pubbliche,

delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi (i

quali possono anche essere soggetti privati che, in quanto svolgenti attività di rilievo

pubblicistico, sono equiparati ai soggetti pubblici).

Sotto il profilo oggettivo, il diritto di accesso riguarda i documenti amministrativi, di cui

l’art. 22 della l. 241/1990 fornisce una definizione assai ampia: è considerato tale ogni

“rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra

specie del contenuto di atti, anche interni, formati dalle pubbliche amministrazioni o,

comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa.

La richiesta di accesso deve essere motivata, indicare gli estremi del documento ovvero

gli elementi che ne consentano l’individuazione e far constare l’identità del richiedente.

Il D.P.R. 352/1992 introduce la possibilità di esercitare in via informale il diritto di accesso

(accesso informale), “mediante richiesta, anche verbale, all’ufficio

dell’amministrazione centrale o periferica, competente a formare l’atto conclusivo del

procedimento o a detenerlo stabilmente”. La richiesta, “esaminata immediatamente e

senza formalità, è accolta mediante indicazione della pubblicazione contenente le

notizie, esibizione del documento, estrazione di copie, ovvero altra modalità idonea”,

la richiesta formale (accesso formale), che avviene con atto scritto, può essere

prescelta dal richiedente, ovvero imposta dall’amministrazione “qualora non sia

possibile l’accoglimento immediato della richiesta in via informale, ovvero sorgano

dubbi sulla legittimazione del richiedente.

A seguito della domanda di accesso, l’amministrazione può: invitare il richiedente a

presentare istanza formale (nel caso di richiesta informale che non sia

immediatamente accoglibile); rifiutare l’accesso (carenza di legittimazione del

richiedente o di relativa motivazione); differire l’accesso; limitare la portata

dell’accesso (consentendolo soltanto ad alcune parti del documento); accogliere

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l’istanza. Si osserva che mentre il rifiuto, il differimento e la limitazione

all’accesso debbono essere motivati, la legge non stabilisce nulla in ordine

all’accoglimento.

Con riferimento al caso in cui l’amministrazione non si pronunci sulla richiesta di

accesso, l’art. 25 della l. 241/1990 dispone che trascorsi inutilmente trenta giorni dalla

richiesta questa si intende respinta.

In caso di accoglimento, il diritto di accesso si esercita mediante esame gratuito ed

estrazione di copia del documento. L’esame dei documenti avviene presso l’ufficio

indicato nell’atto di accoglimento della richiesta.

Il differimento dell’accesso è consentito nei casi in cui la conoscenza dei documenti

impedisca o gravemente ostacoli lo svolgimento dell’azione amministrativa.

Non tutti gli atti sono suscettibili di essere conosciuti dai cittadini. L’art. 24 prevede

direttamente alcune categorie di documenti sottratti all’accesso (esempio: documenti

coperti dal segreto di Stato e degli altri casi di segreto o di divieto di divulgazione

previsti dalla legge).

L’esclusione dei documenti amministrativi dal regime dell’accesso può essere disposta

a salvaguardia dei seguenti interessi: sicurezza, difesa nazionale e relazioni

internazionali; politica monetaria e valutaria; ordine pubblico, prevenzione e

repressione della criminalità; riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese.

Di particolare rilievo è il limite al diritto d’accesso connesso alla tutela della riservatezza.

Con il termine “riservatezza” si indica quel complesso di dati, notizie e fatti che

riguardano la sfera privata della persona e la sua intimità. La pretesa del cittadino alla

riservatezza implica l’esclusione

75

di “altri” dalla conoscenza di certi fatti e situazioni: per tale motivo la privacy è destinata

in numerose occasioni a configgere con l’esigenza di diffondere atti che siano in

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possesso della pubblica amministrazione e che contengano indicazioni

relative a dati attinenti alla sfera personale dei soggetti.

Ovviamente, quando concessa, deve essere garantita agli interessati “la visione degli

atti relativi ai procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o

difendere i loro interessi giuridici”. Occorre comunque notare che la legge consente, nei

casi di conflitto tra accesso e privacy, non già l’accesso pieno, bensì la sola “visione”

degli atti, escludendo così il diritto di estrazione di copia.

A parziale correttivo di tale situazione è intervenuta la legge 675/1996 sulla tutela dei

dati personali, la quale mira a garantire la libertà di circolazione delle informazioni,

circondandola di garanzie e di limiti.

In primo luogo, l’art. 43 afferma esplicitamente che “restano ferme le vigenti norme in

materia di accesso ai documenti amministrativi ed agli archivi di Stato”.

Si deve poi segnalare che l’art. 4 esclude dall’applicazione della legge il trattamento di

dati effettuati da alcuni soggetti, tra i quali merita ricordare i “soggetti pubblici per

finalità di difesa o di sicurezza dello Stato o di prevenzione, accertamento o repressione

dei reati, in base ad espresse disposizioni di legge che prevedano specificamente il

trattamento”.

Ai sensi dell’art. 27, inoltre, il trattamento dei dati personali da parte di soggetti pubblici

è “consentito soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali, nei limiti stabiliti

dalla legge o dai regolamenti”.

Tuttavia, la soluzione del problema dei rapporti tra le due normative non pare ancora

raggiunta con chiarezza. Quel che è certo è che il vero problema attiene ai dati sensibili

di cui all’art. 22 della l. 675/1996 (e cioè i dati idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica,

le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a

partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, lo stato di salute e

la vita sessuale), in ordine ai quali la legge sulla privacy detta una disciplina

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particolarmente garantista.

Infatti, per diffondere o comunicare questi dati, la legge richiede in generale il consenso

scritto dell’interessato, l’autorizzazione del garante per poter trattare i dati stessi e, per

quanto riguarda gli enti pubblici, la specifica autorizzazione da parte di “espressa

disposizione di legge, nella quale siano specificati i tipi di dati che possono essere

trattati, le operazioni eseguibili e le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite”.

Subito dopo l’emanazione della legge sulla privacy, la dottrina ha sostenuto la

necessità di impedire l’accesso ai dati sensibili, in quanto l’art. 22 della legge 675/1996

richiederebbe fini e modalità di comunicazione e diffusione di questi ultimi che la l.

241/1990 non riesce a soddisfare. Parte della giurisprudenza, invece, ritiene che la

disciplina sull’accesso e quella sulla privacy siano perfettamente autonome, come

dimostrerebbe il fatto che l’art. 43 della 675/1996 lascia vigenti le norme sull’accesso.

Il Consiglio di Stato ha tuttavia da ultimo affermato che, dopo l’entrata in vigore della

legge 675/1996, ai sensi dell’art. 22 della stessa, la comunicazione dei dati sensibili da

parte dell’amministrazione a fronte della domanda di accesso può avvenire solo se

espressamente consentita dalla legge. Per gli altri dati, invece, troverebbe di

conseguenza applicazione la legge 241/1990.

La disciplina del diritto di accesso è completata dalla previsione di una particolare

tutela giurisdizionale assicurata dal giudice amministrativo “contro le determinazioni

concernenti il diritto d’accesso” e nei casi di rifiuto, espresso o tacito, o di differimento.

Nell’ipotesi in cui si sia rivolto al difensore civico, il richiedente potrà adire il giudice

amministrativo entro trenta giorni dal ricevimento dell’esito della istanza rivolta al

difensore. La legge, infine, istituisce presso la presidenza del Consiglio dei ministri una

Commissione per l’accesso ai documenti, nominata con decreto del Presidente della

Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, sentito il Consiglio dei ministri e

presieduta dal sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio. La Commissione

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vigila affinché venga attuato il principio di piena conoscibilità dell’azione

amministrativa, redige una relazione annuale sulla trasparenza dell’amministrazione e

propone al governo le modificazioni normative necessarie per realizzare la garanzia del

diritto di accesso.

76

PROCEDIMENTO, ATTI DICHIARATIVI E VALUTAZIONI

Affinché i fatti diventino rilevanti nel procedimento, essi debbono essere accertati

dall’amministrazione procedente o da altra amministrazione.

Pure nelle ipotesi in cui siano consentite le dichiarazioni sostitutive, il soggetto pubblico

mantiene il potere di controllare la veridicità delle dichiarazioni del cittadino.

L’amministrazione pone in tal caso in essere atti dichiarativi: questi atti sono costituiti

da dichiarazioni di scienza che conseguono ad un procedimento costituito da un

insieme di atti ed operazioni finalizzate ad apprendere.

Ricordiamo in particolare gli accertamenti.

Taluni atti dichiarativi hanno la funzione di attribuire certezze legali che valgono erga

omnes (si tratta degli atti di certazione).

Pure le valutazioni tecniche vengono poste in essere a seguito di un’attività volta ad

apprendere la sussistenza del fatto. Esse, però, differenza degli accertamenti,

riguardano fatti complessi. Si tratta pur sempre di un’attività non decisionale: in caso

contrario l’atto non sarà da annoverare tra quelli istruttori.

Con riferimento al tema del procedimento, vengono in primo luogo in evidenza gli atti di

accertamento della sussistenza dei fatti che costituiscono il presupposto per

l’emanazione di un provvedimento. Tali atti producono soltanto effetti

endoprocedimentali, che attengono cioè al procedere dell’azione verso la sua

conclusione.

Poiché gli atti dichiarativi qui analizzati non modificano la situazione preesistente, la

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posizione giuridica del privato interessato dal comportamento complessivo

della pubblica amministrazione non muta: in particolare, atteso che tali atti

costituiscono un momento di un procedimento che sfocia in un provvedimento, il

cittadino sarà titolare di un interesse legittimo.

Come si è visto, al fine di operare la qualificazione di un fatto complesso, talora non è

sufficiente porre in essere una semplice attività di apprendimento e una consequenziale

dichiarazione di scienza, ma è richiesta un’attività di valutazione e, cioè, la

formulazione di un giudizio estimativo, frutto di esercizio di discrezionalità tecnica.

L’art. 17 della legge 241/1990 si riferisce alle valutazioni tecniche, occupandosi del caso

in cui esse siano richieste ad enti o organi appositi e questi non provvedano entro

novanta giorni dal ricevimento della richiesta o in quello previsto specificamente dalla

legge.

Si osservi però, che ai sensi dell’art. 14 della legge sopra citata, allorché sia intervenuta

la valutazione di impatto ambientale (positiva), questa limita l’operatività delle

disposizioni che regolamentano il procedimento, in ossequio al principio secondo cui

alcuni interessi non tollerano di essere sacrificati. In pratica, l’amministrazione

procedente non può prescindere dal parere o dalla valutazione tecnica nelle sole ipotesi

in cui tali atti debbano essere resi da amministrazioni preposte alla tutela della salute.

La scelta del legislatore, che impone comunque di procedere alla valutazione tecnica, è

particolarmente significativa soprattutto se confrontata con la disciplina dei pareri, per

cui in particolari circostanze è consentito all’autorità procedente di proseguire

indipendentemente dalla loro acquisizione.

Nell’ambito della dinamica norma-potere-effetto si configura in tal modo una sorta di

riserva di valutazione tecnica in capo ad alcuni organi ed enti: la valutazione non è

sostituibile o superabile né dalla parte privata, né dall’amministrazione decidente, né,

almeno in linea di principio, dal giudice eventualmente chiamato a sindacare la

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legittimità del provvedimento finale che si basi su quella valutazione, anche

se si ritiene tradizionalmente che il giudice amministrativo possa sindacare la

valutazione tecnica da un punto di vista per così dire “esterno”, ossia esaminando la

logicità dell’operazione seguita dall’amministrazione.

La piena sindacabilità delle valutazioni tecniche è invece riconosciuta al giudice

ordinario, chiamato però a giudicare di controversie in ordine alle quali la parte deduce

la violazione di un diritto soggettivo la cui soddisfazione non può essere subordinata a

scelte amministrative.

LE ATTIVITÀ ISTRUTTORIE DIRETTE ALL’ACCERTAMENTO DEI FATTI 77

Come visto, l’istruttoria è governata dal responsabile del procedimento che, in

particolare, è chiamato ad accertare i fatti. Molto spesso il responsabile utilizza uffici o

servizi di altre amministrazioni.

L’ordinamento consente anche, in taluni casi, che una parte dell’attività istruttoria sia

svolta da privati: ad esempio, in tema di procedimenti concernenti gli interventi di

sostegno pubblico per lo sviluppo delle attività produttive. Non appaiono invece

suscettibili di affidamento ai privati le attività che comportino l’effettuazione di scelte in

vista dell’interesse pubblico.

Controversa è la soluzione al problema della natura dei poteri istruttori. Deve escludersi

che l’amministrazione disponga di poteri “impliciti” che consentano di indagare la

realtà anche incidendo sulla sfera giuridica dei terzi. In tema vige infatti sempre il

principio di tipicità e normatività dei poteri amministrativi. Di conseguenza, i poteri il cui

esercizio potrebbe comportare una incisione nella sfera giuridica del terzo debbono

essere espressamente conferiti dalla legge.

I poteri che si esplicano in atti i quali non incidono sui diritti dei privati si possono invece

ritenere connaturati del potere di disporre.

Per acquisire la conoscenza della realtà e degli interessi, l’amministrazione si avvale di

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numerosi strumenti.

Alcuni atti istruttori sono previsti come obbligatori dalla legge. L’istruttoria non si

esaurisce però necessariamente nel compimento di questi atti: l’amministrazione può

porre in essere ulteriori atti “all’uopo necessari”, indipendentemente dall’attribuzione di

specifici poteri da parte dell’ordinamento.

Il principio inquisitorio è applicabile anche alla scelta dei mezzi istruttori (perizie,

sopralluoghi, ispezioni, inchieste) che l’amministrazione può utilizzare per acquisire la

conoscenza di fatti rilevanti ai fini della determinazione finale.

L’ampia possibilità di decisione in ordine alla natura e all’estensione dei mezzi istruttori

incontra il limite costituito dal principio di non aggravamento del procedimento.

I fatti semplici sono spesso rappresentati nel procedimento mediante le seguenti

attività delle parti:

∙ esibizione di documenti di identità o di riconoscimento in corso di

validità; ∙ acquisizione diretta di documenti;

∙ produzione di certificati, di documenti o di autocertificazioni.

Da un punto di vista teorico, la distinzione tra dichiarazioni sostitutive di certificati e

autocertificazione sta nel fatto che le prime, sostituendo appunto un certificato,

riguardano dati contenuti in pubblici registri, mentre le seconde attengono a situazioni

non consacrate in atti di certazione. In tal senso, rispetto alle dichiarazioni sostitutive, le

autocertificazioni paiono caratterizzarsi per un contenuto più esteso.

Tra i procedimenti volti ad accertare i fatti possono ricordarsi le inchieste e le ispezioni,

le quali hanno normalmente ad oggetto accadimenti e comportamenti, ovvero ancora

beni di pertinenza di soggetti terzi.

L’inchiesta amministrativa è un istituto che mira ad una acquisizione di scienza

relativa ad un evento straordinario che non può essere conosciuto ricorrendo alla

normale attività ispettiva (l’inchiesta è infatti svolta da un organo istituito ad hoc) e si

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conclude di norma con una relazione. L’ispezione è un insieme di atti, di

operazioni o di procedimenti mirati ad acquisizioni di scienza che ha ad oggetto il

comportamento di persone.

Strutturalmente, l’ispezione consiste in un atto che l’amministrazione rivolge all’organo

o all’ufficio competente, e non istituito ad hoc, che dovrà compiere l’ispezione stessa e

che attribuisce dunque la legittimazione all’organo o all’ufficio a procedere all’ispezione

nel caso concreto. L’atto ha però come vero destinatario il soggetto terzo che “è

sottoposto” all’ispezione.

Il procedimento si chiude solitamente con una relazione, un rapporto o un verbale. La

distinzione tra ispezione e inchiesta, netta in teoria, nei fatti è spesso assai ardua, atteso

che i due istituti possono confondersi.

78

LA FASE CONSULTIVA

Una volta acquisiti tutti gli interessi coinvolti nella scelta finale e verificati i fatti rilevanti,

l’amministrazione deve procedere ad una valutazione di siffatto materiale istruttorio. In

alcune ipotesi questa valutazione viene effettuata mediante atti emanati da appositi

uffici o organi che confluiscono in un ulteriore momento della fase istruttoria, costituita

dal subprocedimento consultivo.

Gli atti mediante i quali viene esercitata questa forma di attività, detta appunto

consultiva, ed aventi un contenuto di giudizio, sono i pareri.

Il giudizio attiene spesso soltanto a valutazioni tecniche, ma può investire anche

l’apprezzamento di interessi pubblici.

I pareri in senso stretto devono essere nettamente distinti da altri atti, detti

“pareri-note”, che hanno la funzione di rappresentare il punto di vista o gli interessi

dell’amministrazione che li emana. Ma soltanto il parere è espressione della funzione

consultiva.

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Alla stessa stregua, non devono essere confusi con i pareri gli atti (spesso

denominati a loro volta “pareri”) resi da consulenti o esperti privati, i quali non svolgono

funzioni di amministrazione consultiva.

I pareri si distinguono come segue:

∙ pareri obbligatori, se la loro acquisizione è prescritta dalla legge; si noti che

l’obbligatorietà non attiene al fatto che l’organo consultivo sia tenuto a rendere il

parere: ciò accade in ogni caso;

∙ pareri facoltativi: essi non sono previsti dalla legge; l’amministrazione può di

propria iniziativa richiederli, purché ciò non comporti un ingiustificato

aggravamento del procedimento;

∙ pareri conformi: si tratta dei pareri che lasciano all’amministrazione attiva la

possibilità di decidere se provvedere o meno; se essa provvede, non può però

disattenderli; ∙ pareri semivincolanti: tali pareri possono essere disattesi soltanto

mediante l’adozione del provvedimento da parte di un organo diverso da quello che

di norma dovrebbe emanarlo;

∙ pareri vincolanti: si tratta di pareri obbligatori che non possono essere disattesi

dall’amministrazione, salvo che essa non li ritenga illegittimi.

Il riferimento alla funzione consultiva, quale elemento essenziale del parere, consente di

risolvere altresì il problema della possibilità di sanare successivamente un

provvedimento emanato senza che sia stato richiesto un parere obbligatorio. La

risposta deve essere negativa, atteso che un parere successivo non è in grado di

adempiere alla funzione consultiva la quale, per sua natura, deve svolgersi prima che

sia emanata la decisione.

Il subprocedimento consultivo inizia con la richiesta di parere, la quale consiste nella

formulazione di un quesito, prosegue con lo studio del problema, con la discussione,

con la determinazione, con la redazione e si conclude con la comunicazione all’autorità

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richiedente. Il parere va ad arricchire il quadro istruttorio di cui quest’ultima

dispone. Ciò spiega perché l’amministrazione procedente debba adeguatamente

motivare nel caso in cui decida di disattendere il parere.

Il procedimento consultivo è disciplinato espressamente dall’art. 16 della l. 241/1990, cui

tra l’altro fa richiamo l’art. 139 T.U. enti locali.

Il parere obbligatorio deve essere reso entro quarantacinque giorni. Nell’ipotesi di pareri

facoltativi, gli organi sono tenuti a dare immediata comunicazione alle amministrazioni

richiedenti del termine entro il quale il parere sarà reso. Decorso il termine previsto

senza che sia stato comunicato il parere, è in facoltà dell’amministrazione richiedente

di procedere indipendentemente all’acquisizione del parere.

La ratio della scelta legislativa di consentire comunque la prosecuzione del

procedimento anche in mancanza del parere pare potersi rinvenire nel principio di non

aggravamento del procedimento. questa disciplina non si applica però nei casi in cui il

parere debba essere reso da amministrazioni preposte alla tutela ambientale,

paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini.

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