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Carlo Goldoni

La vita
Le varie esperienze giovanili
Carlo Goldoni nacque a Venezia nel 1707 da una famiglia di condizione borghese.
Il padre era sempre in movimento tra diverse città italiane, in cerca di una sistemazione economica. Il ragazzo
lo seguì a Perugia, dove compì i primi studi; poi fu inviato a Rimini per affrontare gli studi superiori, ma di lì
fuggì sulla barca di una compagnia di comici per raggiungere la madre a Chioggia. Studiò legge all’Università
di Pavia e fu ospite del prestigioso collegio Ghislieri, ma ne fu cacciato in seguito a una satira da lui composta
sulle donne della città. Seguirono anni inquieti, di continui spostamenti e avventure amorose.
Ripresi gli studi di legge, si impiegò come coadiutore aggiunto alla cancelleria criminale di Chioggia
(esperienza che gli fornirà la materia per le Baruffe chiozzotte), poi come coadiutore alla cancelleria di Feltre.
La morte del padre lo mise dinanzi alla necessità di provvedere alla madre.
Affrettò il conseguimento della laurea in Legge a Padova, e si avviò alla professione di avvocato. Nel frattempo
però aveva preso corpo quella prepotente vocazione teatrale che si era preannunciata in lui sin dai primi anni, e
che era stata coltivata con assidue letture della letteratura teatrale italiana e straniera e con frequenti contatti con
il mondo della scena. In una delle sue peregrinazioni conobbe a Verona il capocomico Giuseppe Imer, e grazie
a lui ottenne l’incarico di scrivere i testi per il teatro veneziano di San Samuele.
In questa prima fase della sua produzione per il teatro affrontò vari generi: tragicommedie, melodrammi,
intermezzi. È questa una produzione scarsamente originale. Ma Goldoni si provò presto anche nel genere
comico, che gli era più congeniale, e, in polemica con la Commedia dell’Arte che ancora dominava le scene,
avviò una radicale “riforma” del teatro comico, che portò avanti con prudente gradualità. Dalla sua attività di
scrittore per il teatro non ricavava però ancora di che vivere. Le sue condizioni economiche erano alquanto
precarie, tanto che dovette fuggire da Venezia a causa dei debiti. Si stabilì a Pisa, dove riprese la professione
forense e dove entrò nella locale “colonia” dell’Arcadia. Non smise però la sua produzione di testi per il teatro,
né i contatti con il mondo della scena. Conosciuto a Livorno il capocomico Girolamo Medebac, fu da questi
convinto a impiegarsi come “poeta di teatro” presso la sua compagnia, con un contratto stabile, che prevedeva
la stesura di otto commedie all’anno, e dietro un certo compenso fisso, abbastanza soddisfacente. Così Goldoni
lasciò definitivamente l'avvocatura e divenne scrittore di teatro per professione.
L’attività di scrittore per il teatro: la compagnia Medebac
Nel panorama degli intellettuali del Settecento Goldoni rappresenta una figura nuova: in un’età in cui gli
scrittori o fanno parte dei ceti privilegiati che vivono delle loro rendite, oppure sono al loro servizio, godendo
della protezione di un grande signore che funge da mecenate, Goldoni è lo scrittore che vive di ciò che
guadagna scrivendo. In questo anticipa la figura dello scrittore quale si imporrà nella società borghese a partire
dall’Ottocento. Goldoni non scrive più esclusivamente per un pubblico di letterati, come era proprio degli
intellettuali del suo tempo, bensì per il mercato. Il teatro è un’impresa commerciale: agli spettacoli il pubblico,
proveniente dai vari strati sociali, accede a pagamento, quindi il proprietario della sala e il capocomico ne
ricavano un utile. Essi investono denaro nel teatro, e vogliono ricavarne denaro: lo spettacolo di conseguenza
deve incontrare i gusti del pubblico pagante, deve aver successo e attirare molti spettatori.
Lo scrivere commedie deve dunque obbedire alle leggi del mercato: e a questo obbligo Goldoni si adattò
sempre con grande disponibilità, cercando di compiacere i gusti e le richieste del pubblico, producendo delle
“merci” che si “vendessero” bene.
Il teatro era allora in Italia l’unico campo culturale in cui già esistesse un mercato vero e proprio, quindi
presentava condizioni che erano in certo modo in anticipo sugli altri settori, e prefigurava realtà a venire. Nulla
del genere poteva riscontrarsi nel campo strettamente letterario, poiché i libri avevano una circolazione
estremamente limitata, quindi non esisteva la figura dello scrittore che si rivolgesse al mercato per ricavarne un
lucro.
Goldoni lavorò per la compagnia Medebac, che recitava al teatro Sant’Angelo, dal 1748 al 1753, scrivendo un
numero elevato di commedie, in cui continuò a perseguire con tenacia la sua riforma, vincendo
progressivamente le resistenze del pubblico, degli attori, dell’impresario. Dopo l’insuccesso di una commedia,
al fine di stimolare nuovamente l'interesse del pubblico, Goldoni prese con gli spettatori l’impegno di scrivere
per la stagione successiva ben sedici commedie nuove, e riuscì nell’impresa. Il mercato implica concorrenza: e
Goldoni dovette affrontare quella del suo rivale Pietro Chiari, uno scrittore spregiudicato e disinvolto che, per
ottenere successo, ricorreva a tutti i mezzi e praticava tutti i generi di commedie. La “sfida” con Chiari durò a
lungo, appassionando il pubblico e suscitando fiere polemiche, che provocarono addirittura l’intervento della
censura.
Dal teatro San Luca a Parigi
Con la compagnia Medebac Goldoni entrò in attrito, soprattutto per questioni
economiche. Nel 1753 passò al teatro San Luca. Seguì un periodo difficile, in cui, anche per vincere la
concorrenza di Chiari, Goldoni tentò vie diverse dalla commedia realistica sino allora perseguita,
sperimentando tematiche esotiche e avventurose. All’ultimo periodo di attività per il San Luca appartengono
però alcuni dei suoi testi più maturi. Intanto intorno alla commedia goldoniana si infittivano le polemiche,
soprattutto ad opera di Carlo Gozzi, un letterato aristocratico e conservatore che avversava la “riforma”,
proponendo un teatro fiabesco e fantastico, che conservava aspetti della vecchia Commedia dell’Arte e che
incontrò largo favore negli spettatori. Amareggiato per il successo dell’avversario, che sembrava sottrargli il
suo pubblico affezionato, Goldoni accettò l’invito a recarsi a Parigi per dirigere la Comédie italienne. Qui però
lo scrittore trovò ancora in piena voga i canovacci e le maschere della Commedia dell’Arte, e dovette
ricominciare dal principio a lottare per la sua riforma. Il pubblico parigino dimostrò freddezza per le novità di
Goldoni (anche a causa della lingua, la cui perfetta
conoscenza era indispensabile per cogliere le sfumature di una commedia che delineasse caratteri e ambienti, e
non si limitasse a una sequela di buffonerie). Perciò Goldoni dovette adattarsi a tornare agli scenari che da
tempo aveva abbandonato. Nel 1771, tuttavia, ottenne un buon successo con una commedia scritta in francese,
Le bourru bienfaisant, in cui riprendeva il modello di Molière. Entrato nelle grazie della corte, fu assunto come
maestro di italiano delle principesse reali, ottenendo una modesta pensione. Scoppiata la Rivoluzione, tutto il
mondo in cui era vissuto fu sconvolto dalle radici. Nel 1792 l’Assemblea Legislativa sospese anche la sua
pensione, in quanto concessa dal re: lo scrittore sopravvisse pochi mesi, in miseria,
e morì nel febbraio del 1793, proprio il giorno in cui l’Assemblea riconosceva nelle sue commedie «un presagio
della caduta del dispotismo».
La visione del mondo: Goldoni e l’Illuminismo
Goldoni e il clima culturale del suo tempo
Goldoni non fu certo un illuminista militante e neanche uno scrittore impegnato nella battaglia civile in nome
dei nuovi princìpi riformatori. È vero che nei primi decenni del secolo penetra a Venezia la cultura europea più
moderna e illuminata: i ceti burocratici e borghesi, attraverso i contatti con i paesi stranieri, vengono a
conoscenza delle idee più innovatrici e introducono in patria i primi saggi di una filosofia dei “lumi”, ed anche i
nobili, attraverso i viaggi, divengono il tramite di un aggiornamento culturale. A Venezia inoltre è intensa la
produzione libraria, che diffonde le opere più importanti della nuova “filosofia”, così come molto viva è la
pubblicistica. Il pensiero innovatore viene così assorbito da ampi strati della società civile.
Goldoni, pur non essendo uomo di vasta cultura, risentì del clima generale attraverso gli intensi contatti con la
realtà del suo tempo stabiliti durante i suoi frequenti viaggi in Italia e attraverso l’amicizia con personalità
straniere presenti a Venezia, che gli permise di conoscere realtà europee più avanzate, di cui sentì fortemente il
fascino. In Goldoni si possono dunque riconoscere le componenti di quella «media civiltà illuministica», di
quella mentalità diffusa nei ceti medi che avevano assimilato, adattandole al loro orizzonte mentale e alle loro
esigenze, le idee dominanti, mettendole in pratica in forme prudenti e al tempo stesso concrete.
Motivi “illuministici” in Goldoni
Innanzitutto vi è in Goldoni un’adesione alla vita nella sua esclusiva dimensione mondana, un’estraneità ad
ogni ansia di trascendente. Di qui deriva l’antipatia per ogni forma di metafisica e l’esaltazione di una filosofia
pratica, fondata sul “buon senso”, che si misuri con i problemi concreti della vita civile, avendo come fine il
bene comune. Goldoni ha fortissimo il senso della socialità, dei rapporti che legano gli uomini in una
collettività. Tutto ciò che può compromettere questo sereno e produttivo vivere sociale è respinto da lui in
quanto dannoso e riprovevole. Il rispetto della sincerità, la trasparenza dei comportamenti, la fedeltà agli
impegni presi sono i tipici valori di una civiltà borghese e mercantile, che è la società in cui Goldoni si forma.
Questa centralità della figura dell’«uomo dabbene», del cittadino «onorato», leale, onesto, attivo, è legata alla
fiducia in una convivenza umana libera, aperta, ispirata agli ideali della «ragione» e della «natura». Di qui
nasce l’antipatia per la superbia e la prepotenza dei nobili, per la loro ostentazione vacua dei titoli, per il loro
puntiglio feudale e per il loro ozio parassitario.
Questa borghese antipatia per il privilegio porta Goldoni a vagheggiare un’uguaglianza
primitiva degli uomini, al di là delle gerarchie sociali stabilite. Tali spunti egualitari sono però vagheggiamenti
utopici di una realtà ideale, non pretendono certo di essere applicati alla lettera nella realtà. La mentalità di
Goldoni è prudentemente riformatrice: lo scrittore rispetta l’ordine gerarchico delle classi e auspica una
tranquilla convivenza tra i vari ceti, ciascuno con la sua fisionomia specifica, le sue diverse virtù, la sua diversa
funzione nel corpo sociale.
Per questo Goldoni ammira le società mercantili del Nord e le idoleggia come la sede di tutte le virtù morali e
civili. Anche questa disposizione cosmopolita è un tratto che collega Goldoni alle idee dominanti della «media
civiltà illuministica». L’ideale di vita che traspare da questa ammirazione per l’Inghilterra e l’Olanda è quello
di una civiltà laboriosa e pacifica, in cui si afferma un nuovo tipo di eroe, l’uomo onesto che si realizza nella
sfera della sua attività produttiva, sollecito del bene della sua famiglia ma anche del benessere e del progresso
della sua città.
La dimensione della vita cittadina è quella in cui meglio si può affermare questa pacata, fattiva socievolezza
dell’uomo: la città è la sede delle più varie attività, dei traffici, degli scambi, della civile e garbata
conversazione, ma anche dei momenti di divertimento e di gioia collettiva, degli spettacoli, delle feste.
Questa visione ispirata ad un’aperta socievolezza induce Goldoni a vedere negativamente ogni chiusura retriva,
che mortifichi la libera espansione della personalità nei suoi rapporti con gli altri, con la vita sociale. Per
questo, in alcune commedie, presenta in una luce critica i padri di famiglia autoritari, che opprimono mogli e
figli imponendo loro un costume di vita soffocante.
Agli occhi di Goldoni un simile comportamento è un attentato contro la «natura» e la «ragione», che esigono
che l’individuo possa esprimere liberamente se stesso, al di fuori di ogni vincolo assurdo e insensato.
La controprova della sintonia fra Goldoni e la visione media dell’età illuministica è il giudizio positivo che del
suo teatro diedero gli illuministi stessi. Voltaire, per esempio, lo elogiò come «pittore della Natura».
La riforma della commedia
Il declino della Commedia dell’Arte
Quando Goldoni intraprese la sua attività di scrittore per il teatro la scena comica era ancora dominata dalla
Commedia dell’Arte, che aveva trionfato nell’età barocca, ed in cui gli attori impersonavano le maschere
tradizionali, improvvisando le battute senza seguire un testo interamente scritto, ma solo sulla base di un
sommario canovaccio che indicava le azioni dell’intrigo. Nei confronti di questo tipo di teatro Goldoni assunse
atteggiamenti fortemente polemici.
I motivi del suo rifiuto erano: la volgarità buffonesca a cui era scaduta la comicità, la rigidezza stereotipata a
cui si erano ridotti i tipi umani rappresentati dalle maschere, la ripetitività della recitazione degli attori, la
costruzione sgangherata e incoerente degli intrecci avventurosi e sentimentali e la loro assoluta
inverosimiglianza.
Effettivamente la Commedia dell’Arte era in decadenza e mostrava segni di involuzione e inaridimento nella
ripetizione ormai stanca di certi schemi. Tuttavia, a ben vedere, la critica di Goldoni si appuntava sulla
Commedia dell’Arte in sé, sul suo impianto stesso, sulla visione del reale che esso presupponeva.
«Mondo» e «Teatro»
Il bisogno di una riforma si originava nel clima della cultura arcadica e razionalistica. Goldoni, come tutti gli
intellettuali del suo tempo, si era formato in quel clima, e non poteva non risentirne.
Il razionalismo arcadico aveva già ispirato prima di Goldoni tentativi di riforma da parte di alcuni scrittori
toscani, ma i loro tentativi si collocavano in un ambito puramente letterario ed erano rimasti confinati nel
chiuso delle accademie, senza incidere veramente nella realtà della scena e dello spettacolo. Goldoni al
contrario non era un puro letterato: era un autentico uomo di teatro, che viveva e lavorava a contatto diretto con
il pubblico e ne conosceva perfettamente gli umori e i bisogni, così come conosceva dall’interno i meccanismi e
le esigenze della scena. In questo era favorito dal fatto di vivere a Venezia, una città che era una vera capitale
europea del teatro.
La sua “riforma” non è quindi solo la riforma di un genere letterario, ma un’operazione di ambito più vasto, che
mira a incidere soprattutto sullo spettacolo, nei suoi rapporti con la vita sociale.
Come Goldoni stesso proclama, nella sua riforma non si è tanto ispirato a precettistiche e a modelli libreschi,
poiché i due «libri» su cui ha studiato sono il «Mondo» e il «Teatro», cioè la realtà vissuta e la scena viva, lo
spettacolo.
In tal modo Goldoni sintetizza perfettamente le due direttrici fondamentali della sua riforma: da un lato vuole
produrre testi che piacciano al pubblico, dall’altro egli aspira ad una commedia che sia «verisimile», che rifletta
realisticamente la società contemporanea, i caratteri umani che vi si muovono, i problemi che vi si agitano.
Dalla “maschera” al “carattere”
Per questo egli ritiene che non siano più utilizzabili le maschere tradizionali. La sua
commedia «verisimile» vuole rappresentare dei caratteri colti nella loro individualità, irripetibili e
inconfondibili, in tutta la complessità e mutevolezza delle loro sfumature psicologiche e comportamentali,
come quelli che agiscono nella realtà vissuta.
Le maschere invece costituiscono dei tipi fissi, che nascono dall’astrazione dei tratti comuni ad una varietà di
individui concreti, come appunto il vecchio avaro e libidinoso,il servo sciocco, il servo astuto.
Tra la “maschera” e il “carattere” vi è la stessa distanza che separa la maschera e il volto: questo è infinitamente
vario da uomo a uomo, e infinitamente mutevole nelle sue espressioni che traducono i moti interiori, quella
invece è sempre identica, irrigidita nella materia che la compone.
Goldoni afferma che i caratteri sono in numero finito in quanto al genere, ma sono infiniti nelle specie.
In uno dei suoi testi più maturi, I rusteghi, arriverà a rappresentare ben quattro varianti diverse di uno stesso
carattere, quello dell’uomo «rustico», scontroso e ruvido.
Questa ricerca dell’individualità concreta, nella sua dimensione personale irripetibile, è un aspetto
caratterizzante il nuovo gusto che nasce dall’imporsi della civiltà borghese moderna, in contrapposizione alla
tendenza ad una tipicità astratta che era propria dell’arte classica antica e rinascimentale.
Il carattere così “borghese” della visione goldoniana è indubbiamente ascrivibile alla sua condizione sociale,
alla sua provenienza dal ceto medio e alla sua stessa collocazione professionale.
Ma non sarebbe comprensibile senza il contesto di Venezia, in cui, grazie alle antiche tradizioni mercantili si
era affermata da tempo una solida e prospera classe borghese, con una coscienza di sé ed un sistema di valori
fortemente delineati.
La nascita di una commedia realistica è favorita dalla presenza a Venezia di un vasto pubblico borghese, che si
compiace al veder rappresentare se stesso, la propria psicologia, i propri princìpi etici sulle tavole del
palcoscenico.
Il rapporto tra caratteri e ambienti: la commedia borghese
I “caratteri” goldoniani non sono però individualità tra loro isolate, collocate su uno sfondo neutro e astratto:
essi sono sempre radicati in un contesto sociale molto concreto e precisamente delineato, che incide in modo
profondo sulla loro conformazione psicologica.
Secondo Goldoni i sentimenti, i vizi, le virtù degli individui assumono una diversa fisionomia a seconda
dell’ambiente sociale in cui essi si sono formati e vivono.
Egli stesso lo afferma in modo molto chiaro. La gelosia, egli sostiene, è una passione comune a tutti gli uomini,
ma si manifesta in modi diversi nei vari ceti sociali.
Per questo le commedie goldoniane, se sono fitte di caratteri individuali sapientemente tratteggiati,
ricostruiscono anche ambienti sociali colti in tutte le loro componenti, nei modi di pensare, di comportarsi, di
esprimersi. Si sogliono in genere distinguere nella produzione di Goldoni le commedie di “carattere”, intese a
delineare una figura, e le commedie “d’ambiente”, intese a descrivere un particolare settore della vita sociale.
Goldoni in genere si ferma alla superficie colorita dei fenomeni e non riesce a cogliere la tragicità dei grandi
conflitti che si agitano nelle coscienze o che lacerano il tessuto sociale.
Oltre ad avere questo valore anticipatore rispetto alla letteratura ottocentesca, la commedia goldoniana presenta
forti affinità con la commedia borghese che nasce nel
clima dell’Illuminismo europeo, in particolare con il «genere serio» teorizzato e praticato da Diderot.
Era una commedia che si collocava in posizione mediana tra la vecchia tragedia e la vecchia commedia, ed in
cui c’era posto non più solo per le virtù eroiche e sublimi ma anche per le virtù modeste, praticate
quotidianamente dagli uomini comuni dei ceti medi. In queste opere, «nella medietà di soggetto e di tono» si
rispecchiava «la vita reale, fuori della stilizzazione eroica della tragedia, della stilizzazione farsesca della
commedia a soggetto».
Il significato del distacco dalla Commedia dell’Arte
È evidente che la Commedia dell’Arte non può essere considerata il “negativo” e quella goldoniana il
“positivo”, che finalmente trionfa sconfiggendo cattivo gusto e volgarità. Non è che la “nuova” commedia sia
“migliore” di quella precedente: si tratta solo di due tipi diversi di teatro, rispondenti a due diverse civiltà, l’uno
a quella barocca, l’altro a quella del razionalismo illuministico e del realismo borghese.
Da quanto è emerso finora si può comprendere perché l’improvvisazione della vecchia Commedia dell’Arte
non fosse più praticabile da Goldoni. Gli attori non improvvisavano dal nulla, in ogni recita, battute e testi: la
loro improvvisazione era resa possibile dal fatto che essi si basavano su elementi fissi, ricorrenti: i canovacci,
con le loro vicende meccanicamente ripetute, i lazzi, i generici, quei repertori di tirate che venivano recitate
identiche in determinate situazioni. Solo su questa base l’attore poteva poi improvvisare. La sua bravura poteva
dare origine a soluzioni straordinarie, ma proprio queste convenzioni, irrigidendo il reale entro schemi fissi,
rendevano impossibile rappresentare le infinite sfumature dei caratteri e degli ambienti del «Mondo», a cui
Goldoni si voleva ispirare.
La perfetta fusione di «Mondo» e «Teatro» a cui egli aspirava vi era impossibile, ed il «Teatro»,
nella sua dimensione di spettacolo, autonoma dalla realtà oggettiva, aveva il sopravvento. La ricchezza di
sfumature della realtà vissuta poteva essere colta solo se lo scrittore stendeva preventivamente il copione per
intero, se ogni minimo aspetto della vicenda da rappresentare era preordinato con cura, e se l’attore era costretto
a imparare fedelmente a memoria ciò che il “poeta di teatro” aveva scritto.
Una riforma graduale
Nel condurre la sua battaglia per la nuova commedia Goldoni incontrò inevitabilmente ostacoli e difficoltà.
Innanzitutto da parte degli attori, che, essendo abituati a recitare “all’improvviso” e con le maschere, e avendo
sviluppato in tale campo un’eccellente professionalità, si trovavano a disagio nel mutare radicalmente moduli di
recitazione e nel dover imparare a memoria la parte. Goldoni seppe tuttavia sfruttare abilmente proprio la
professionalità degli attori: più volte, in vari
testi, egli afferma di aver modellato il “carattere” della commedia che stava scrivendo sulle peculiari possibilità
espressive dell’attore, addirittura sulla sua particolare psicologia. Così riuscì a trasformare quello che era un
ostacolo esterno in uno stimolo per la sua creazione.
Anche il pubblico a tutta prima restò sconcertato dalle commedie “realistiche” di Goldoni, in cui non ritrovava
più gli intrighi complicati che lo avvincevano, le maschere a cui era tanto affezionato ed i lazzi che lo
divertivano. Di conseguenza gli stessi impresari guardavano con sospetto le innovazioni goldoniane, poiché
temevano di perdere il favore del pubblico, e quindi il profitto dei loro investimenti. Goldoni, conformemente al
suo carattere, adottò una tattica prudente e graduale, che gli consentì di vincere a poco a poco tutte le resistenze,
sia degli attori e degli impresari sia del pubblico. Bisogna anche tener presente che l’idea della nuova
commedia andò precisandosi a poco a poco attraverso una serie di tentativi e di esperimenti.
L’idea di un percorso coerente e lineare, in nome di una prepotente “vocazione” che lo guidava e lo sosteneva
fermamente a ogni passo senza mai farlo deflettere, è solo una ricostruzione a posteriori, che risale soprattutto
ai Mémoires, redatti nella tarda vecchiaia.
L’accrescimento delle parti scritte, l’eliminazione delle maschere e le opposizioni alla riforma
Goldoni cominciò con lo stendere per intero solo la parte del protagonista, lasciando all’improvvisazione
tradizionale tutto il resto.
Solo nel 1743, l’autore arrivò a comporre una commedia in cui tutte le parti erano scritte, La donna di garbo.
Venivano nel frattempo ancora conservate le maschere, ma, con sottile abilità, esse venivano trasformate
dall’interno, in modo che sotto la maschera cominciava a delinearsi un carattere individuale. Esemplare fu la
trasformazione subita da Pantalone, che assunse i tratti inconfondibili del mercante veneziano, con la sua
peculiare concezione della vita e la sua salda moralità. In tal modo il pubblico era rassicurato dal trovarsi di
fronte la maschera ben nota e amata, e poteva assimilare senza scosse i nuovi contenuti che la commedia
veicolava. Al termine di questo processo di mutazione anche le maschere vennero eliminate, e sulla scena si
ritrovarono solo personaggi individuali.
Grazie a questa accorta gradualità nell’applicare la riforma il pubblico si abituò a veder rappresentati in scena
aspetti e problemi della sua vita quotidiana facilmente riconoscibili. Il pubblico borghese ritrovava in questi
spettacoli i propri valori e la propria concezione della vita, fondata sulla ragione, sul buon senso, sulla fedeltà
alla natura, quindi veniva a costituire non un ostacolo per lo scrittore, ma uno stimolo.
Un altro ostacolo all’affermarsi del suo teatro realistico, che spesso aveva intenti di critica sociale e
rappresentava vizi comuni delle varie classi, in particolare della nobiltà, Goldoni lo trovò nella situazione
politica della Repubblica di Venezia. L’oligarchia nobiliare al potere si chiudeva sempre più gelosamente a
difendere l’assetto vigente, guardando con sospetto ogni fermento innovatore e ogni spunto critico. Per questo,
se Goldoni voleva rappresentare criticamente in scena i vizi della nobiltà, era costretto ad ambientare le sue
commedie in altre città, in modo da evitare ogni sospetto che le sue critiche potessero indirizzarsi alla nobiltà
veneziana.
L’itinerario della commedia goldoniana
La prima fase: la celebrazione del mercante
Il «Mondo» che si riflette nella commedia goldoniana è essenzialmente la società veneziana contemporanea.
Venezia è una repubblica oligarchica in cui il potere è in mano ad una ristretta cerchia di famiglie nobili, che lo
esercitano in senso fortemente conservatore, ma possiede anche un solido ceto borghese che gode di notevole
floridezza economica. Degli ideali e degli interessi di questo ceto Goldoni è il consapevole interprete e il
celebratore.
Nella prima fase della sua commedia, per tutto il periodo in cui lavora per la compagnia Medebac al teatro
Sant’Angelo, il mercante veneziano ha un rilievo centrale nei suoi copioni. Il mercante, che si presenta ancora
sotto la maschera di Pantalone ma assume già una sua concreta fisionomia individuale, è una figura positiva,
portatrice di tutta una serie di valori: schiettezza, puntualità e rispetto degli impegni, buon senso e concretezza
nel valutare le cose, moralità ineccepibile e forte attaccamento alla famiglia, laboriosità e senso dell’economia,
culto della reputazione, del buon nome, dell’onorabilità. Goldoni definisce «il ceto de’ Mercadanti» come «il
profitto e il decoro delle nazioni».
In questa celebrazione del mercante si manifesta anche una contrapposizione polemica alla nobiltà. La nobiltà è
colpita dalla critica goldoniana in quanto superba e prepotente, oziosa, dissipatrice e parassitaria, inutile al
corpo sociale, attaccata ai suoi titoli vuoti che non garantiscono il valore autentico dell’individuo. Goldoni
ritiene che i nobili abbiano il dovere di partecipare alla vita economica del loro paese, contribuendo così alla
pubblica felicità. Goldoni non mette dunque in discussione le gerarchie sociali esistenti, ma le accetta
pienamente. In questo periodo come Goldoni conserva aspetti esterni della Commedia dell’Arte, quali le
maschere, così, inizialmente, cala i nuovi contenuti realistici in intrecci ancora tradizionali. Ma gradatamente la
macchinosità dell’intreccio scompare, lasciando il posto a vicende più lineari, che si adattano con più
naturalezza ai casi della realtà quotidiana, evitando complicazioni e imprevisti artificiosi: nascono così
commedie che sembrano “fatte di nulla”, in cui si succedono casi di persone comuni, mosse dai sentimenti più
usuali, conversazioni che si possono sentire nella vita familiare di tutti i giorni. Parallelamente la struttura della
commedia si fa policentrica, corale. Tutti i personaggi divengono importanti, nella rete di rapporti che li legano
e che mettono in rilievo la diversa fisionomia degli individui. È questa la fase in cui meglio emerge la volontà
goldoniana
di costruire un «genere serio», una sorta di dramma borghese, non esente dall’intento moralistico ed edificante
di “correggere” i vizi della società attraverso una moderata comicità e di proporre modelli positivi di virtù.
La seconda fase: incertezze e soluzioni eclettiche
La seconda fase della commedia goldoniana che è segnata dal passaggio al teatro San Luca, è più eclettica e
incerta, e rivela un disorientamento, per certi versi persino un ritorno indietro. Goldoni si trova di fronte a varie
difficoltà: una sala molto più vasta, meno adatta alla rappresentazione della vita quotidiana e di interni
familiari, attori meno noti e meno bravi, un impresario non facile da trattare come il nobile Vendramin, le
polemiche sempre più aspre con i suoi avversari, come Chiari.
Ma la difficoltà maggiore è la volubilità del pubblico che sembra tornare a preferire un teatro più fantasioso.
Perciò Goldoni, per non lasciarsi sfuggire il successo, deve inseguire questi umori mutevoli sperimentando
generi vari, passando dalla prosa ai versi quando la voga lo impone, e scrivendo testi romanzeschi ambientati in
paesi esotici.
Nelle commedie “di carattere”, che pur continua a scrivere, all’esaltazione della figura positiva del mercante,
Goldoni preferisce sostituire una galleria «di personaggi tarati, infermi, maniaci, in preda ai tic più impensati»,
ritratti con un impegno satirico duro e sarcastico. Sono eloquenti già solo i titoli.
Tutti questi personaggi non hanno quella qualità della «socievolezza» che Goldoni tanto ammira nei mercanti,
tendono a rifiutare i rapporti col prossimo, astenendosi dalla vita sociale. In questi personaggi nevrastenici e
misantropi sembrano proiettarsi le sofferenze di Goldoni stesso, colpito in questo periodo da crisi nervose.
In questa fase si collocano però anche varie commedie di ambiente popolare. Si tratta di commedie corali, in
cui l’azione nasce da esili pretesti, equivoci, chiacchiere, pettegolezzi. Il popolo veneziano è portato in scena
sulla base di un’osservazione diretta e attenta dei suoi comportamenti e del suo linguaggio, ed è ritratto con
scoperta simpatia per la sua vitalità spontanea. Questa attenzione al popolo anticipa quello che sarà pochi anni
dopo uno dei testi più rilevanti di Goldoni, Le baruffe chiozzotte.
I testi più maturi
La crisi anche psicologica degli anni 1753-57 trova sfogo in un viaggio a Roma. Al suo ritorno a Venezia
Goldoni si scrolla di dosso incertezze e malinconie e torna con rinnovato entusiasmo alla sua commedia
“nuova”. Tra il 1759 e il 1762 si collocano così alcuni dei testi più maturi, in cui Goldoni torna con occhio
mutato a considerare il suo oggetto di indagine preferito, la borghesia veneziana. La seconda metà del secolo
vede una grave crisi di questo ceto.
Quelle che erano virtù della borghesia si trasformano in vizi, il senso dell’economia diventa avarizia, la
rigorosa difesa della reputazione diviene superbia, la puntualità diviene ostinazione.
Goldoni coglie con lucidità questi processi. A Goldoni viene meno la base sociale del suo ottimismo. Così dopo
aver innalzato il suo elogio alla figura del mercante, ora la guarda con occhio più critico e più severo: al
Pantalone aperto e illuminato, che contrappone il suo pacato buon senso ai puntigli oziosi e alle convenzioni
assurde della nobiltà, si sostituisce il «rustego», chiuso nel proprio ambiente familiare, attaccato al proprio
meschino tornaconto, grettamente conservatore, lodatore del passato, ottusamente autoritario e incapace di
aprirsi alle esigenze dei tempi. Con questa figura asociale si scontrano invece i giovani e le donne, portatori di
un’idea più aperta di socialità, che rivendicano il diritto a una vita più libera e gioiosa, svincolata dalla cappa
oppressiva dell’ambiente familiare.
Esemplari di questa tendenza sono I rusteghi e Sior Todero brontolon, due testi impostati proprio su questo
conflitto tra donne e giovani da un lato e vecchi retrivi dall’altro. Nella Casa nova e nella “trilogia” della
villeggiatura Goldoni punta invece la sua critica sul difetto opposto alla grettezza dei «rusteghi», l’eccesso di
ostentazione sociale della borghesia, la smania di apparire ad ogni costo, al di sopra delle proprie possibilità e
anche a prezzo della rovina.
Comunque sia, da questo mondo così asfittico e opprimente Goldoni sembra voler uscire con la riscoperta del
popolo: del 1762 sono le Baruffe chiozzotte, in cui rappresenta la vita dei pescatori di Chioggia. Il popolo agli
occhi dello scrittore conserva quella vitalità, quella spontaneità dei sentimenti, quella capacità di relazioni
sociali che la borghesia veneziana, ripiegata su se stessa, sembra avere perdute; non solo, ma nel popolo
sembrano sopravvivere allo stato genuino quei valori fondamentali che nella borghesia si sono come atrofizzati
o rovesciati di segno, la schiettezza, la laboriosità, il senso della famiglia e dell’onore.
C’è da dire però che Goldoni resta ancora al di qua di quell’autentica rivoluzione che sarà operata nel secolo
successivo: la sua rappresentazione del popolo non arriva a cogliere la durezza disumana della condizione dei
ceti subalterni e i conflitti che la dilacerano. Goldoni mette in scena solo schermaglie sentimentali, ripicche,
futili pettegolezzi, e li guarda dall’alto con divertita bonomia e sorridente paternalismo. Pur nella vivezza e
autenticità dei dettagli, colti e resi attraverso una conoscenza diretta e un acuto spirito di osservazione, il mondo
delle Baruffe è ancora sostanzialmente idillico: a Goldoni sfugge quella “tragicità” del quotidiano, inserita nel
corso della storia, che sarà messa in evidenza dai Promessi sposi e dai Malavoglia.
La fase parigina
Tra gli altri motivi che spinsero Goldoni a lasciare Venezia e a trasferirsi a Parigi si aggiunse forse anche questa
delusione da lui patita nei suoi più autentici convincimenti, quest’insofferenza per un ambiente divenuto chiuso
e soffocante, non più animato da quella «socievolezza» che per lui era il valore più alto.
Si è già detto delle amarezze che attendevano Goldoni a Parigi e della necessità per lui di tornare indietro a
recuperare gli scenari della Commedia dell’Arte, a cui il pubblico francese era rimasto affezionato. I testi da lui
scritti in questo periodo puntano ad una costruzione calibratissima dell’intreccio. Ne è un esempio Il ventaglio,
dove la trama è del tutto evanescente e conta solo il sapiente meccanismo dell’azione, che si fonda su una serie
fittissima di equivoci, fraintendimenti e scambi di persona derivanti dal passaggio di mano in mano dell’oggetto
del titolo, che vengono a comporsi in un elegante balletto.
Al “carattere” lo scrittore torna con Le bourru bienfaisant . Ma il protagonista è ben lontano dai «rusteghi» e
dal «sior Todero brontolon»: non esiste più alcun nesso organico tra l’individuo e l’ambiente sociale, il
carattere è isolato allo stato puro.
Gli anni della vecchiaia sono occupati dalla stesura dei Mémoires. Si tratta di un’autobiografia, redatta in
francese, che però non è tanto la ricostruzione delle vicende di una vita, quanto delle tappe di una vocazione e
di una carriera teatrali.
Il teatro per Goldoni era l’interesse e la passione dominante, che riempiva quasi interamente la sua vita: era
naturale perciò che la ricapitolazione della propria esistenza si risolvesse principalmente nella ricostruzione dei
suoi rapporti con il teatro. Nella ricostruzione a posteriori della vecchiaia la riforma della commedia appare
come un percorso rettilineo e coerente. Noi oggi sappiamo che non fu così, e possiamo anche cogliere errori
nelle date e nelle ricostruzioni dei fatti: i Mémoires restano tuttavia un documento prezioso per la comprensione
di tutta un’esperienza.
Il libro talora si appesantisce di lunghi elenchi e riassunti di commedie, ma contiene anche molti spunti
narrativi vivaci. Goldoni rievoca con arguzia e con il distacco ironico del vecchio le vicende della sua gioventù,
le peregrinazioni di città in città, le scapestrataggini, le avventure amorose. Spiccano anche alcuni ritratti di
personaggi, delineati con una vivacità in cui è sempre stata riconosciuta la sua abilità di uomo di teatro, e che
danno vita a vere e proprie scene di commedia.
Un’opera autobiografica vengono a comporre anche le prefazioni premesse da Goldoni ai
17 volumi delle Opere nell’edizione Pasquali, in cui lo scrittore racconta le vicende della sua vita,
prevalentemente in rapporto al suo teatro, fino al 1743. Queste prefazioni vengono definite usualmente
Memorie italiane.
La lingua
Opere come le commedie goldoniane, che volevano ritrarre dal vivo la realtà quotidiana, i personaggi e i fatti
comuni, e che dalla scena parlavano direttamente a un pubblico vasto e socialmente eterogeneo, composto non
solo di letterati, non potevano certo usare la lingua della tradizione letteraria, una lingua libresca, irrigidita nel
suo lessico aulico e nella sua sintassi complessa e latineggiante: per rendere il dialogo delle situazioni reali
della vita dovevano ricorrere alla lingua della conversazione quotidiana. Cosa che non era affatto facile: data la
secolare frammentazione politica della penisola non esisteva in Italia una lingua unitaria d’uso quotidiano. La
“lingua italiana” era in realtà uno strumento essenzialmente letterario, impiegato nella comunicazione scritta o
ufficiale: le lingue dell’uso erano i dialetti. L’italiano era usato nella conversazione quotidiana quasi
esclusivamente quando dovessero comunicare tra loro persone di diversa provenienza regionale, che non si
sarebbero ben comprese parlando i rispettivi dialetti. Questo italiano “parlato” era perciò una lingua
inevitabilmente convenzionale, povera e intessuta di frasi fatte. La lingua di Goldoni comunque rivela
consistenti residui dialettali, provenienti non solo dalla “lingua madre” dell’autore, il veneziano, ma anche da
altre parlate settentrionali. La struttura interna dialettale dell’italiano di Goldoni è rivelata soprattutto dalla
sintassi prevalentemente paratattica che allinea in parallelo le varie frasi ignorando i più complessi legami di
subordinazione.
Quando poi Goldoni si rivolge più direttamente al pubblico della sua città usa il dialetto veneziano. In tal caso
ci troviamo davvero di fronte ad una lingua viva, duttile nelle infinite varietà delle sue sfumature, ricca di
colore. La lingua veneziana possedeva poi quella grazia e mollezza musicale che era particolarmente adatta a
rendere il mondo goldoniano, sostanzialmente sereno, per lo meno nelle sue forme esteriori, fatte di mondana
piacevolezza, di levità giocosa, di garbato umorismo.
In Goldoni non c’è scontro di dialetti, ma un rigoroso unilinguismo. Ciò non vuol dire che il suo dialetto
veneziano sia una lingua monocorde. Proprio per i suoi intenti realistici Goldoni è attento a cogliere e a
riprodurre le sfumature che differenziano le parlate dei vari strati sociali: si ha così un veneziano più popolare,
quello delle classi umili e della piccola borghesia.
La locandiera
Nell’abbondantissima produzione delle commedie goldoniane La locandiera spicca, offrendosi come il
capolavoro dello scrittore veneziano.
Dando alle stampe la commedia, Goldoni premette una prefazione, L’autore a chi legge, in cui insiste sul fatto
che nella vicenda di Mirandolina ha voluto dare un esempio della «barbara crudeltà» e dell’«ingiurioso
disprezzo» con cui le seduttrici «si burlano dei miserabili che hanno vinti».
Queste dichiarazioni rispondono evidentemente all’intento di compiacere il moralismo benpensante del
pubblico, e con ogni probabilità nascono anche dal moralismo dello stesso autore; tuttavia le parole citate
possono egualmente essere un’utile chiave di lettura del testo, perché testimoniano come Goldoni non guardi
con simpatia e compiacimento la sua protagonista, proponendo l’esaltazione dell’“eterno femminino” che in lei
si incarna, della grazia e del fascino femminile, come spesso si è interpretato, ma voglia presentarla in una luce
critica, persino con una certa durezza. Tenendo presente questa indicazione preliminare, si può passare alla
lettura del testo.
Le baruffe chiozzotte
La vicenda della commedia Le baruffe chiozzotte si svolge a Chioggia, in un ambiente di pescatori. Mentre gli
uomini sono in mare, scoppia un litigio fra le donne di due famiglie, per colpa di un giovane barcaiolo, Toffolo,
che ha fatto la corte a due ragazze contemporaneamente, suscitando fra loro invidie e gelosie; di qui scaturirà
poi il litigio più grave tra Toffolo e i due fidanzati delle ragazze, che coinvolgerà di nuovo tutte le donne, per
risolversi poi alla fine in una pacificazione generale, grazie anche all’intervento della giustizia, rappresentata
dal giovane coadiutore del Cancelliere.
La commedia tratta un tema lieve, un litigio nato da futilissimi motivi, che si allarga a coinvolgere numerosi
personaggi con sviluppi spassosi. Goldoni osserva divertito il piccolo mondo dei pescatori chioggiotti e delle
loro donne, che egli ben conosce avendo in gioventù esercitato la funzione di coadiutore del Cancelliere proprio
a Chioggia.
Il suo è lo sguardo del borghese, che contempla quel mondo popolare dall’alto della sua collocazione sociale e
della sua superiore cultura, ma si compiace di disegnare macchiette caratteristiche e colorite, ciascuna con dei
tratti colti direttamente dal vivo. A ciò contribuisce anche la riproduzione del dialetto chioggiotto, con la
vivacità e la spontaneità dei modi del parlato.

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