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Nel 1721, aggregatosi a una compagnia di comici che si trasferivano a Venezia, riuscì a fuggire da
Rimini e a raggiungere la madre a Chioggia.
Nel 1721 abbandonò definitivamente la filosofia per dedicarsi agli studi giuridici, prima nel
prestigioso Collegio Ghisleri di Pavia, da dove quattro anni più tardi fu espulso per una satira troppo
audace contro le giovani della città, poi a Padova, dove si laureò nel 1731; qui iniziò a esercitare
la professione di avvocato e a ricoprire incarichi pubblici. Nel 1736 sposò Nicoletta Conio, che fu la
sua compagna per tutta la vita e dalla quale non ebbe figli.
Nel 1734 Goldoni conobbe a Verona il capocomico Giuseppe Imer e con lui tornò a Venezia con
l’incarico di scrivere testi per il teatro San Samuele.
In questo periodo compose melodrammi, intermezzi (brani comici tra un atto e l’altro, accompagnati
da musica) e tragicommedie in versi, tra cui Belisario (1734), suo primo successo. Nel 1738 al San
Samuele fu rappresentata la sua prima vera commedia, Momolo cortesan. Nel 1743, in occasione del
Carnevale, mise in scena La donna di garbo, commedia che segnò l’inizio di una nuova fase della
produzione goldoniana. Nello stesso anno, per ristrettezze economiche, dovette lasciare Venezia e
trasferirsi a Pisa, dove fu ammesso alla “Colonia” arcadica con il nome di Polisseno Fregejo e, per
qualche tempo, esercitò con successo la professione di avvocato. A Pisa entrò in contatto con il
celebre attore Antonio Sacchi, che gli chiese di ideare per lui un canovaccio: nacque così Il servitore
di due padroni (1745).
In quegli stessi anni, Goldoni conobbe a Livorno il capocomico Gerolamo Medebach, che era in
procinto di raggiungere Venezia con la sua compagnia per lavorare al teatro Sant’Angelo. Deciso ad
abbandonare l’avvocatura, accettò l’ingaggio offertogli da Medebach diventando drammaturgo del
teatro Sant’Angelo; si stabilì perciò a Venezia, dove portò a termine la riforma della commedia e
scrisse fino al 1753 le sue maggiori opere, tra cui La vedova scaltra, che ebbe grande successo, La
famiglia dell’antiquario, La bottega del caffè, La locandiera.
Conclusa la stagione teatrale 1752-1753, Goldoni, lasciò la compagnia Medebach per contrasti su
questioni economiche e passò al teatro San Luca, di proprietà dei nobili Vendramin. Gli anni al San
Luca (1753-1762) furono difficili, poiché Goldoni fu bersaglio di molte polemiche, scatenate sia
dall’abate drammaturgo Pietro Chiari (1712-1785), per ragioni legate alla concorrenza, sia da un altro
autore, Carlo Gozzi (1720-1806), fratello di Gasparo, rivale di Goldoni, che aveva una concezione
tradizionale del teatro. Per soddisfare il gusto del pubblico, Goldoni alternò le commedie di carattere,
frutto della sua riforma, a commedie d’ambiente o di argomento esotico, tra cui la Trilogia persiana.
Risalgono a questo periodo alcuni suoi capolavori come Il campiello, I rusteghi, Trilogia della
villeggiatura, Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte.
Nel 1762 Goldoni, a cinquantacinque anni, stanco delle polemiche e deluso dal pubblico che correva
ad assistere alle opere di Gozzi, accettò di trasferirsi in Francia per dirigere la Comédie
italienne (compagnia di attori italiani attiva a Parigi), dopo aver dato l’addio a Venezia e ai suoi
sostenitori con la sua ultima commedia veneziana, Una delle ultime sere di carnovale (1761).
In Francia lo attendevano altre delusioni, perché impresari, attori e pubblico pretendevano da lui
scenari per la Commedia dell’arte, tanto che riuscì a imporre una sola commedia di carattere, Il
burbero benefico (1771).
Chiamato presso la corte di Versailles come maestro d’italiano per le principesse reali, ottenne una
piccola pensione, che la rivoluzione gli tolse nel 1792. Tra il 1783 e il 1787 scrisse in francese
i Mémoires, memorie autobiografiche, che dedicò al re Luigi XVI, opera in cui, quasi ottantenne,
ripercorre i momenti più significativi della sua vita. Morì in miseria il 6 febbraio 1793.
1. Il pensiero e la poetica
Goldoni è un autore chiave nella storia del teatro. Egli attua una radicale riforma del teatro
comico che vede i protagonisti trasformarsi da maschere a personaggi, da figure fisse e stereotipate
a persone concrete, con un proprio carattere e una propria complessa personalità, persone “reali”
insomma, che si potevano incontrare nella società del suo tempo.
Goldoni, intellettuale sensibile all’evoluzione culturale del proprio tempo, sentiva l’esigenza di
accogliere nel teatro i nuovi valori di naturalezza e di razionalità sostenuti dall’Illuminismo; di fronte
a una classe borghese che si era ormai fatta gretta, ipocrita e ambiziosa, il suo sguardo critico si
fa ironia, ora amara ora divertita. E ancora, quando porta sulla scena le beghe quotidiane, le astute
macchinazioni, i pettegoli commenti dei salotti e dei campielli, egli non assume il ruolo di censore,
ma piuttosto quello di spettatore che osserva con simpatia quel mondo.
Pur mantenendo una tale posizione di equilibrio, Goldoni non manca, tuttavia, di indagare con
curiosità, senso di realismo e spirito critico la società dell’epoca, mettendone allo scoperto le
contraddizioni. Anche se privo dell’occhio analitico, che guiderà lo scrittore-scienziato ottocentesco
(Zola e Verga sottoporranno i ceti inferiori a una spietata indagine), egli dimostra, tuttavia,
una visione acuta delle differenze fra classi, dei difetti di ognuna, delle interazioni, a volte
imbarazzanti, fra popolo e potenti, del declino e parassitismo del ceto nobiliare. Attraverso le sue
opere egli intendeva indurre a riflettere sul presente. Il «mondo», cioè la società Contemporanea,
entrava sul palcoscenico e diventava materia dello spettacolo, mentre il «teatro», da luogo di
evasione e di divertimento fine a se stesso, diventava occasione per sviluppare una coscienza critica e
per riflettere su questioni sociali e morali.
• Tipizzazione del personaggio e identificazione fra attore e personaggio. Gli attori, che
interpretavano ruoli fissi, indossavano una maschera e un costume che li rendeva
immediatamente riconoscibili; anche portamento, espressioni verbali e gesti ripetitivi ne
facilitavano l’identificazione. Nacque così una serie di personaggi o maschere,
quali Lelio, Florindo, Flavio, Fabrizio, Ottavio, nella parte
dell’innamorato; Rosaura, Angelica, Isabella, Lucilla, nel ruolo dell’innamorata; i vecchi
ridicoli in competizione con i giovani nella ricerca dell’amore, come Pantalone e il dottor
Balanzone; i capitani vanitosi e arroganti, tra cui Bombardone, Capitan Fracassa, Capitan
Spaventa, Spaccamontagne. Molto popolari erano anche gli zanni, ovvero i servi; famose le
figure di Brighella, Arlecchino, Pulcinella.
• Improvvisazione della vicenda e del dialogo e il canovaccio. Le battute, i dialoghi e i gesti non
erano indicati in un testo scritto; esisteva solo un canovaccio che fissava l’argomento (o
soggetto) dell’opera, stabiliva le parti generiche e quelle lasciate all’estro dell’attore:
dipendeva dalla bravura di quest’ultimo, dalle sue capacità istrioniche, riuscire a improvvisare
sulla scena lazzi, ossia esibizioni di pura comicità costituite da scherzi, arguzie e giochi di
parole esilaranti, inseriti nel corso della recitazione. La riuscita dello spettacolo era legata
all’inventiva dell’attore, alla sua capacità di riunire o rielaborare materiali preesistenti,
raccolti nei cosiddetti “generici’’ o “zibaldoni’’, e alla reazione del pubblico. I gusti poco
raffinati degli spettatori inducevano gli attori a giocare spesso sulla battuta volgare, tanto che
le commedie avevano ormai smarrito ogni intento educativo. Non si raccontava più, come nel
teatro classico, la realtà sociale, ma si giocava soprattutto sulla comicità sguaiata.
La riforma di Goldoni
Alla base del progetto riformistico del teatro comico di Goldoni c’erano due esigenze di natura
diversa: una letteraria, finalizzata a eliminare dallo spettacolo comico il gusto dell’eccesso e del
grottesco; una morale, volta a superare la volgarità connaturata alla Commedia dell’arte, al fine di
restituire allo spettacolo la sua funzione educativa. Da qui la scelta di mettere in scena, soprattutto
nelle prime commedie riformate, personaggi virtuosi, come il mercante, attivo e parsimonioso, la
“putta onorata”, la “serva amorosa”.
La riforma del teatro attuata da Goldoni troverà il suo compimento con le opere scritte a partire dal
1748, ma fu un processo graduale. Egli avviò questo processo scrivendo inizialmente la parte del solo
protagonista (Momolo cortesan, 1738), poi ampliando sempre di più le battute del copione, sino a
creare, con La donna di garbo (1743), la prima opera interamente scritta; poco dopo, con Il servitore
di due padroni (1745) e Tonin Bellagrazia (1745), trasformò tradizionali maschere, come Pantalone e
Arlecchino, conferendo loro caratteri individuali.
Nelle commedie degli anni Quaranta, infatti, Goldoni mantenne inizialmente le maschere della
Commedia dell’arte (il servo truffaldino, il vecchio avaro, il giovane svagato e innamorato), ma
gradualmente le trasformò in personaggi, con carattere e personalità diversi dai protagonisti delle
altre commedie. Soprattutto nei confronti del genere femminile, Goldoni riuscì a creare personaggi
originali, intriganti, capaci di affascinare il pubblico dell’epoca.
L’arte di Goldoni sta anche nell’aver riformato il teatro conservando gli elementi migliori della
Commedia dell’arte, quali la performance attoriale nella recitazione, il gusto per il colpo di scena, gli
improvvisi mutamenti di situazione. Una delle commedie più rappresentative è Il servitore di due
padroni, che Goldoni scrisse prima come semplice canovaccio, poi in forma compiuta. Vi domina il
gusto per l’equivoco, per l’intreccio burlesco, per il dialogo rapidissimo, mentre il travestimento e lo
sdoppiamento guidano i fili della trama. Le riprese di elementi della Commedia dell’arte sono
frequenti anche nella produzione successiva, soprattutto nel periodo parigino, in cui Goldoni cercò
di adeguarsi ai gusti del pubblico francese.
Il rinnovamento del teatro comico fu, quindi, il risultato di una difficile mediazione fra tradizione ed
esigenza di riforma, necessaria per adeguare la commedia alle tendenze culturali e ai gusti del
pubblico dell’epoca. Goldoni cercò pertanto di:
Dal punto di vista della lingua e dello stile Goldoni porta in scena il dialetto veneziano, parlato
quotidiano dei popolani, ma anche dei nobili, dei cavalieri e delle “donne di garbo” quando mescolato
ad un approssimato francese tanto di moda, infarcito di lombardismi, venetismi, toscanismi. La lingua
dell’uso comune di tono medio si fa, quindi, specchio di una società composita che vive sulla scena.
2. La produzione letteraria
Nel corso della sua lunga carriera, Goldoni compose più di duecento testi, tra
cui commedie, tragicommedie, libretti per melodramma, intermezzi.
A scopo didattico, suddividiamo la produzione di commedie in due periodi: il primo dal 1730 al 1748,
che segna una fase di transizione verso la riforma della commedia; il secondo dal 1748 al 1787,
contraddistinto dalle più importanti fasi creative dell’autore.
1. Prima fase (1748-1753): la rappresentazione realistica dei valori borghesi
La prima fase della riforma coincise con l’attività di scrittore per il teatro Sant’Angelo e con la
collaborazione con la compagnia Medebach. Al centro della scena compaiono la realtà
quotidiana e personaggi borghesi, tra cui spicca la figura del mercante veneziano, che, esaltato nei
suoi valori di onestà e rispettabilità, offre un perfetto esempio di virtù. Nasceva così la
nuova commedia di carattere in cui, attraverso lo scambio di battute con altri personaggi, è delineata
la realtà sociale e psicologica di un personaggio.
Nel 1748 Goldoni compose per il teatro Sant’Angelo alcuni capolavori, quali La vedova scaltra, la
prima realizzazione compiuta della commedia di carattere, La buona moglie, La putta onorata, in cui
risaltano personaggi ritratti realisticamente nella Venezia del Settecento. Il Cavaliere e la
dama (1749) presenta un confronto fra un mercante operoso e un nobile gretto e arrogante, mentre
nelle due commedie del 1750, Il padre di famiglia e La famiglia dell’antiquario, la maschera di
Pantalone assume i tratti di un umile eroe della laboriosità borghese.
Il pubblico seguì con interesse le commedie riformate di Goldoni, ma sorsero delle forti opposizioni:
l’abate Pietro Chiari cominciò a parodiare il nuovo genere, mettendone in ridicolo le particolarità. La
polemica fra i due fu portata anche in tribunale e la censura intervenne bloccando le rappresentazioni
di entrambi i Contendenti (La vedova scaltra e la sua parodia, Scuola delle vedove). Per rispondere a
tali attacchi, Goldoni promise per la stagione teatrale del 1750-1751 di comporre 16 commedie: di
questo gruppo fanno parte Il teatro comico (1750), un testo metateatrale in cui Goldoni mette in
scena l’allestimento di uno spettacolo, Pamela nubile (1750), La bottega del caffè (1751), vivace
quadro di vita veneziana, I pettegolezzi delle donne (1751), commedie che, come anche La
locandiera (del 1752), trattano il conflitto fra nobiltà e borghesia e mettono in scena alcuni
brillanti personaggi femminili.
Pamela nubile
CARATTERISTICHE: prima commedia priva di maschere, è tratta dal romanzo Pamela o la virtù
ricompensata scritto nel 1740 dall’inglese Samuel Richardson.
TEMA/ARGOMENTO: la giovane cameriera Pamela non cede alla corte del nobile Bonfil, suo
padrone, pur essendone innamorata. Solo quando si scoprirà che anche lei è di nobili origini, si
celebreranno le nozze.
La locandiera
CARATTERISTICHE: commedia in tre atti ambientata a Firenze.
TEMA/ARGOMENTO: protagonista della commedia è Mirandolina, che gestisce la sua locanda
cui approdano clienti di ogni ceto sociale, tra cui il Conte di Ripafratta, misogino e scortese nei
suoi confronti. La locandiera si vendica facendolo innamorare di sé. Ottenuto il suo scopo,
decide di sposare Fabrizio, il cameriere della locanda.
Conclusa la stagione teatrale al teatro Sant’Angelo, il Carnevale del 1753 segna il passaggio al teatro
San Luca, che dà il via alla seconda fase della riforma, caratterizzata dalla critica alla borghesia,
accusata di essere incapace di portare a termine l’impegno di rinnovamento sociale e culturale. La
condanna della figura del borghese, condotta da Goldoni con le armi di una bonaria ironia, risulta
evidente nei suoi grandi capolavori comici: I rusteghi (1760), commedia in dialetto, La casa
nova (1761), rappresentazione dell’amore per il lusso e per la moda, la Trilogia della
villeggiatura (1761) e Sior Todero brontolon (1762), che porta in scena lo scontro tra generazioni.
Questo periodo è segnato anche dal ritorno alla rappresentazione di figure tratte dal mondo
popolare, colte con simpatia e affetto nel loro ambiente nella commedia Il campiello (1756), un
vivace quadro di vita di una piazzetta veneziana, frequentata da gente ritratta nei suoi aspetti più
genuini, nelle sue abitudini, nei suoi valori etico-comportamentali incorrotti e tradizionali, nelle sue
virtù e difetti. Dopo questa commedia, ne nascono altre interamente in dialetto come Le baruffe
chiozzotte(1762). Infine, Una delle ultime sere di Carnovale (1762) costituisce il commiato di Goldoni
da Venezia.
I rusteghi
CARATTERISTICHE: è una commedia rappresentata per la prima volta nel 1760.
TEMA/ARGOMENTO: l’opera porta sulla scena il conflitto generazionale fra giovani e anziani
(“rusteghi”, dalla mentalità gretta e meschina).
Le baruffe chiozzotte
CARATTERISTICHE: commedia in dialetto di Chioggia che uscì nel 1762.
TEMA/ARGOMENTO: argomento del l’opera sono le «baruffe» tra pescatori e donne di
Chioggia, che scoppiano quando, al ritorno degli uomini dalla pesca, alcune donne insinuano
che altre avrebbero civettato, in assenza dei mariti, con il battellaio Toffolo; i contrasti alla fine
si ricompongono con il richiamo al buon senso.
La terza fase è poco significativa per la produzione teatrale, mentre è più interessante sul versante
autobiografico, poiché Goldoni compose i Mémoires (“Memorie”, 1783-1787), in cui chiarisce il suo
rapporto con il teatro e il senso della sua riforma.
A questo periodo appartengono tre commedie messe in scena a Parigi dagli attori della Comédie
italienne: Il ventaglio (1765), che non incontrò il gusto del pubblico, e le due commedie scritte in
francese, Il burbero benefico (1771, tradotta in italiano dallo stesso Goldoni nel 1789), che riscosse
molto successo, e L’avaro fastoso (1776), accolta invece freddamente.
In Francia Goldoni fu costretto a scendere a compromessi con i princìpi della propria riforma: il
pubblico transalpino, già abituato alle innovazioni di Molière, cercava nel teatro italiano l’evasione,
la vivacità e il gusto farsesco della Commedia dell’arte. Goldoni fu quindi indotto a tornare in parte a
soluzioni precedenti, utilizzando le maschere e ricollocando nell’intreccio improvvisi colpi di scena.
La locandiera
La locandiera è una commedia in prosa che Goldoni stese probabilmente tra l’ottobre e il novembre
del 1752. L’opera fu rappresentata per la prima volta al teatro Sant’Angelo di Venezia dalla
compagnia Medebach, durante il Carnevale del 1753. Per il carattere della protagonista, Mirandolina,
l’autore si ispirò alla personalità esuberante della prima attrice della compagnia, Maddalena Raffi
Marliani, che portò per prima sulla scena il personaggio. Dal pubblico Contemporaneo e dallo stesso
Goldoni, La locandiera non venne riconosciuta come capolavoro; solo la critica ottocentesca
ne apprezzò il valore, tanto che il ruolo di Mirandolina fu interpretato dalle più famose attrici
dell’epoca e del Novecento, come Eleonora Duse. L’opera apparve a stampa presso un editore
fiorentino nello stesso anno in cui fu rappresentata; successivamente fu accolta nell’edizione Pasquali
delle opere goldoniane, curata dall’autore nel 1762.
La locandiera si compone di tre atti, introdotti da una dedica al senatore fiorentino Giulio Rucellai,
giurista e letterato, amico di Goldoni, e da una prefazione (“L’autore a chi legge”), in cui Goldoni
sintetizza i Contenuti principali e definisce questa commedia come «la più morale, la più utile, la più
istruttiva» della sua produzione. La vicenda è ambientata a Firenze, ma è facile cogliere l’ispirazione
data dalla città di Venezia, già all’epoca un vivace luogo di passaggio per genti di diversa provenienza.
• Atto primo. Alla locanda di Mirandolina alloggiano il Marchese di Forlipopoli, che vanta un
grande titolo ma è senza quattrini; il Conte d’Albafiorita, che ostenta la sua ricchezza
specialmente nei costosi doni a Mirandolina; il Cavaliere di Ripafratta, che si comporta in
modo altero e sprezzante. I primi due sono innamorati di Mirandolina, il terzo la disprezza,
così come disprezza tutte le donne. Mirandolina si propone di farlo innamorare.
• Atto secondo. Mirandolina comincia a circuire il Cavaliere con finezze e attenzioni, senza però
esagerare. Quando pensa che sia arrivato il momento opportuno, gli si presenta in camera
con un vassoio e gli serve un intingoletto fatto con le proprie mani. Nella conversazione
asseconda il Cavaliere, antepone la propria libertà all’amore, ma, al tempo stesso, gli fa
intendere di nutrire simpatia per lui. Il Cavaliere decide di partire e chiede il conto.
Mirandolina, che va di persona a portarglielo, a un tratto finge di essere colta da malore e di
cadere come svenuta su una sedia (scena XVII). Il Cavaliere la soccorre e, nell’emozione,
dichiara che è innamorato. Mirandolina ha raggiunto il proprio scopo.
• Atto terzo. Il Cavaliere manda a Mirandolina in regalo una boccetta d’oro Contenente spirito
di melissa (essenza contro gli svenimenti), ma lei la rifiuta. Innamorato senza rimedio, il
Cavaliere prega Mirandolina, ma invano, di accettare la boccetta. La donna si rende conto
di aver spinto il gioco troppo oltre e decide di sposare Fabrizio, uno dei servitori presso la sua
locanda. Intanto il Marchese e il Conte, convinti che la locandiera abbia accettato la corte del
Cavaliere, decidono di lasciare la locanda. Nel frattempo, nasce un diverbio tra il Conte e il
Cavaliere e i due arrivano a misurarsi in duello, ma vengono fermati da Mirandolina che
annuncia il suo matrimonio con Fabrizio; poi la donna prega i suoi clienti di trovarsi un’altra
sistemazione, perché non vuole più spasimanti intorno.
L’attenzione dell’autore si concentra su Mirandolina, di cui delinea con precisione i tratti e
la civetteria oltre alle doti borghesi di imprenditrice (una delle sue preoccupazioni è quella di favorire
i buoni affari della propria locanda). Goldoni nella prefazione all’opera manifesta una sorta di disagio
di fronte alla propria creazione: il lettore «dirà anzi non aver io dipinto altrove una donna più
lusinghiera, più pericolosa di questa». Attorno a Mirandolina gravita un invincibile alone di seduzione:
ai suoi piedi cadono, a poco a poco, tutti gli uomini della commedia. La donna è sempre attenta a
esercitare il suo fascino sugli spasimanti, accetta con disinvoltura omaggi e regali, dosa con
parsimonia gesti e attenzioni. Il potere di Mirandolina è tale che sfugge anche alla pianificazione dello
stesso Goldoni: «Io non sapeva quasi cosa mi fare nel terzo (atto)» confessa al lettore. Mirandolina
progetta una vendetta perfida, che eccede di molto il danno subito.
Le sue azioni sembrano suggerite dalla gratuità più che da una motivazione precisa: sottomettere il
Cavaliere non ha alcuna utilità pratica, è solo la manifestazione del potere femminile nei confronti
degli uomini. Il proposito è portato avanti, come in una battaglia o in un gioco, con una vera e propria
strategia: Mirandolina sembra prima assecondare il Cavaliere nelle sue idee, condivide con lui il
disprezzo per il Marchese e il Conte, lo riempie di gentilezze, finge di soffrire per la sua partenza. La
stessa noncuranza è manifestata nei confronti di Fabrizio, il giovane che accetta di sposare (peraltro
secondo un desiderio espresso dal padre della donna prima di morire): tale gesto non è dettato
dall’amore, ma solo dalla scelta di porsi in una condizione di legittimità borghese. Mirandolina sa
bene che Fabrizio è facile da manipolare e non sarà un marito ingombrante.
Il tipo della donna abile nel parlare e seduttrice d’uomini era già stato sviluppato da Goldoni nelle
commedie La donna di garbo (1743), La vedova scaltra (1748) e La Castalda (1751). Ora il
personaggio raggiunge una grandezza artistica nella densa caratterizzazione psicologica e
nell’ambiguità dei gesti, che lo rendono intrigante e moderno anche agli occhi del lettore
Contemporaneo.
I personaggi della commedia, oltre a Mirandolina, sono otto: il Cavaliere di Ripafratta, il Marchese di
Forlipopoli, il Conte d’Albafiorita, Ortensia e Dejanira (due commedianti di passaggio), Fabrizio (il
cameriere), il servitore del Cavaliere e il servitore del Conte. «Mirandolina è il centro della vicenda,
attorno a cui si dispongono, in funzione complementare, gli altri “caratteri”, o appena accennati in
un tratto psicologicamente concluso (la boria del Marchese, la vanità del Conte) o aperti a
un’indagine evolutiva (la misoginia del Cavaliere)» (G. Nicastro). I personaggi si muovono
nel microcosmo della locanda, che offre uno spaccato sociale del mondo settecentesco,
caratterizzato dall’interazione fra diverse classi (aristocrazia, borghesia, popolo).
Fin dalla prima scena è messa in ridicolo la superbia del Marchese che, fiero della sua antica nobiltà
di sangue, ama ripetere continuamente: «Son chi sono». In realtà è uno squattrinato che va in cerca
di prestiti, sempre pronto a farsi offrire un bicchiere di vino o una tazza di cioccolata. Ma la satira di
Goldoni si appunta anche sulla presunzione del Conte, un borghese arricchito che ha da poco
comprato il titolo e si vanta di poter spendere per fare dei regali a Mirandolina. Un ruolo di rilievo è
assunto dal Cavaliere, uomo duro e scorbutico, che manifesta la sua superbia nobiliare
negli atteggiamenti dispotici verso il proprio servitore e verso la stessa locandiera. Il personaggio è
una rielaborazione del tipo classico del misogino, che disprezza le donne; tale attitudine non si
manifesta qui tanto nell’odio verso il genere femminile, quanto nel desiderio di evitare ogni contatto
con una popolana. Lo sgarbo verso la locandiera è però pagato a caro prezzo: irretito nella rete di
seduzione, il Cavaliere si innamora follemente per essere poi denigrato pubblicamente di fronte a
tutti i clienti della locanda.
Tra i servitori, il personaggio di maggior rilievo è Fabrizio, destinato a sposare la locandiera e quindi
a diventare borghese anche lui. Tale possibilità è accennata nella prima scena del primo atto: lo
spettatore registra l’informazione e non rimane tanto stupito quando, alla fine del terzo atto,
Mirandolina annuncia che sposerà proprio lui. Fabrizio è sinceramente innamorato della padrona, sa
però che deve comportarsi da subalterno. Tra i personaggi minori compaiono anche due
commedianti, Ortensia e Dejanira, che sono più vicine alle figure della Commedia dell’arte: esse
rappresentano un mondo popolare e pittoresco, che vive di espedienti e di finzioni (si fingono
nobildonne), peraltro immediatamente smascherate da Mirandolina che sa giudicare i clienti alla
prima occhiata.
La locandiera rappresenta un perfetto esempio di commedia riformata, in cui le maschere della
Commedia dell’arte sono diventate caratteri. La sapienza della costruzione si rivela nell’incastro delle
scene, nelle simmetrie fra i personaggi e nell’abile uso dei “da sé”, con cui il personaggio si rivolge a
se stesso per esprimere i propri pensieri e sentimenti. La locandiera è una versione al femminile del
mercante goldoniano: è abile ed energica, sa stare al gioco dei suoi spasimanti e, al momento di
prendere marito, con spiccato senso di concretezza, sceglie un uomo che, rispetto alla propria
condizione sociale, è inferiore a lei, in modo da essere sempre, anche dopo le nozze, la sola e vera
padrona. Goldoni, nella prefazione, sottolinea l’intento morale ed educativo della commedia: egli
non nutre alcuna simpatia per i nobili sfaccendati che oziano alla locanda, si ingegnano a corteggiare
Mirandolina, ostentano titoli o denaro e trattano i subalterni con sussiego, e invita gli uomini a porre
attenzione alle moderne «Sirene» incantatrici, ben rappresentate da Mirandolina, capaci di
distruggere un uomo per capriccio.
Come nelle altre commedie riformate, anche nella Locandiera Goldoni si ispira al «Mondo» e al
«Teatro». Il «Mondo» è costituito dal realismo dei personaggi, di cui vengono delineati i caratteri (la
vanità e la superbia dei nobili, l’operosità e la sagacia di Mirandolina); il «Teatro», invece, appare sia
nella messa in scena sia nella recita di Mirandolina, ricca di trovate e di finzioni che divertono lo
spettatore e testimoniano la grande arte di Goldoni di presentare i personaggi con un’abilità e
un’arguzia che sembrano anticipare le esperienze del teatro novecentesco.
Le malizie di Mirandolina
La locandiera, atto II, scene IV, XVIXVII
Il Cavaliere di Ripafratta è seduto a tavola nella sua stanza; con lui c’è il servitore che gli porta una
salsa mandata da Mirandolina. Entra quindi in scena la locandiera e serve al Cavaliere lo squisito
intingolo; è l’inizio di una scena di seduzione: la donna usa tutte le sue arti per far cadere innamorato
lo schivo Cavaliere, come le battute con le quali finge di condividere la sua opinione sulle donne, e il
ricorso a uno strategico svenimento per costringere l’uomo a prendersi cura di lei.
SCENA IV
Entra il Marchese e pretende di dire la sua sul vino di Borgogna, poi invita tutti ad assaggiare il suo vino di Cipro. Il
Cavaliere, per compiacenza, loda il vino del Marchese, mentre Mirandolina dice apertamente che non le piace. Viene
mandato un bicchiere al Conte, che ricambia con un’intera bottiglia delle Canarie; il Marchese interpreta il gesto come un
affronto Il Conte pranza con due commedianti, Ortensia e Dejanira, arrivate poco prima alla locanda, e le induce a sedurre
il Cavaliere, che si proclama nemico delle donne. Ma i tentativi di queste provocano solo l’irritazione del Cavaliere, che è
ormai innamorato di Mirandolina, e che per questo motivo decide di partire (scene V-XV).
SCENA XVI
1. tondo: piatto. 11. fare la zuppa: intingere il pane nel vino. Mirandolina si
2. con franchezza: liberamente, cioè senza il timore di dover mostra esitante perché vuole che il Cavaliere la inviti a sedersi.
difendermi dal corteggiamento. 12. non le ho mai potute vedere: il Cavaliere si riferisce al
3. Quando: qui con valore casuale. passato, ma ora sta cambiando atteggiamento.
4. per dar nel genio: per soddisfare il gusto. 13. la sofferenza: la pazienza.
5. Domani a Livorno: il Cavaliere, temendo di innamorarsi, 14. si... incontrano: capita di trovare caratteri («sangui») che
decide di andarsene. vanno d’accordo.
6. le dà nel genio: le piace. 15. Non dia nelle debolezze: non ceda («dia») alle debolezze.
7. bisogna... buono: bisogna bere del vino buono. 16. Viva... senza malizia: senza secondi fini. In realtà questo
8. offerisce: offre. brindisi è un capolavoro di malizia.
9. Beverò le sue bellezze: il gesto è confidenziale, l’espressione 17. principiava: iniziavo.
galante. 18. flussione: infiammazione, congestione.
10. galeotta: il Cavaliere ricambia il tono confidenziale, 19. due doppie: due monete (la doppia era una moneta d’oro
mostrando di capire le intenzioni di Mirandolina, che vuole in uso all’epoca).
farlo innamorare. Galeotto, nei romanzi del ciclo bretone, è il 20. affatto: del tutto.
Cavaliere che favorisce l’amore tra Lancillotto e Ginevra, 21. il colpo... svenimento: lo svenimento è falso; fa parte del
moglie di re Artù. piano di seduzione.
Mirandolina procede nella seduzione del Cavaliere con una serie di attenzioni che sembrano del tutto
naturali e spontanee, mentre nascondono un abilissimo piano. Nella scena IV del secondo atto la
locandiera si presenta nella camera del cliente per portargli una pietanza fatta con le sue mani. Con
atteggiamento di umiltà («sono una serva di chi favorisce venire alla mia locanda»), induce l’uomo,
solitamente assai scorbutico, a entrare in conversazione, a esprimere apprezzamenti sul cibo e
perfino a rivolgerle dei complimenti.
Il Cavaliere rivela agli spettatori di sentirsi in pericolo («Eh, se non vado via...», scena XVII) e, inquieto
e agitato, decide di partire. Mirandolina gioca allora le ultime carte: le lacrime e lo svenimento.
La locandiera mette in atto una vera e propria commedia con il Cavaliere, fingendo di opporre
resistenza alle sue richieste, simulando ritrosia di fronte alla proposta di bere con lui, fingendo di
sottrarsi ai suoi apprezzamenti, e ottiene proprio ciò che vuole, cioè intrattenersi con l’ospite allo
scopo di farlo innamorare. A tratti, seguendo il suo disegno assai ben congegnato, è lei stessa a
prendere l’iniziativa, ad assumere atteggiamenti confidenziali, come bere dal bicchiere del Cavaliere
o brindare con lui. Quando parla con l’ospite è educata e cortese, ha un atteggiamento umile e
servizievole, ma nel breve monologo finale rivela il suo vero volto, la sua natura scaltra e
disincantata e il piano di seduzione che ha messo in atto: «Ora poi è caduto affatto. Molte sono le
nostre armi, colle quali si vincono gli uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo
è uno svenimento».
La locandiera riesce, alla fine, a esercitare il proprio fascino sul Cavaliere, che notoriamente ha in odio
le donne e che precedentemente si era comportato con lei – come avviene qui con il servo – in modo
arrogante e altezzoso. Dal canto suo l’uomo progressivamente cade nella rete di Mirandolina, che
brinda dichiarando un paradossale “senza malizia”, mentre in realtà tutta la vicenda è incentrata su
una ben studiata astuzia che trova il suo momento culminante nello svenimento finale, tipico
espediente della Commedia dell’arte, che diventa qui l’ultimo di un crescendo di azioni ben calcolate
e controllate dalla locandiera. Il Cavaliere, colto di sorpresa e turbato, ma anche narcisisticamente
compiaciuto, decide di non partire più e rivela apertamente di essersi innamorato di lei.