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STORIA D’IMPRESA (BUSINESS

HISTORY)
THE FUTURE OF ECONOMIC, BUSINESS AND SOCIAL HISTORY (parte sulla
business history).

Nella prima parte dell’articolo Geoffrey Jones cerca di dimostrare come la business history, nel
staccarsi come disciplina dalla storia economica, porta dei contenuti rilevanti:
- Insiste perché mostra casi di diversità delle imprese. L’impresa non è una non solo nel senso
del settore ma anche della tipologia. Le imprese sono diverse ed è importante riconoscerlo.
- La storia d’impresa ha aiutato molto a mettere in evidenza l’imprenditorialità. La funzione
imprenditoriale è difficilmente individuabile; è difficile definire un codice per rappresentare
l’imprenditore ma l’impresa non c’è senza l’imprenditore.
- La business history mette in evidenza molto presto il ruolo dell’impresa multinazionale e si
accorge prima di altri settori della globalizzazione. L’impresa multinazionale viene quindi
messa sotto gli occhi dei riflettori.
- Negli ultimi 30 anni è stata messa in evidenza l’importanza e il rilievo strategico della
grande impresa.
Si accennano anche le recenti trasformazioni della business history: il dinamismo alimenta le
discipline; dove c’è dinamismo c’è interesse. Un primo dinamismo è l’ampiezza dei campi
osservati: all’inizio si studiavano principalmente le industrie manifatturiere ma con il passare del
tempo ci si è interessati anche ad altro (banche, turismo...). Un’altra grande transizione è stata
l’allargarsi delle strutture istituzionali che affrontano la storia d’impresa: le crescono questi enti c’è
movimento, incontro di idee. La prima cattedra di business history è degli anni ’90 in Bocconi.
C’è stata anche un’apertura a nuove geografie: prima si osservavano principalmente gli USA e il
Regno Unito. Al giorno d’oggi si studiano anche i casi di insuccesso, le imprese mancate (nel terzo
mondo).

STORIA ECONOMICA E SOCIALE DI BERGAMO: ANTONIO GREPPI


Con questo caso parliamo dell’impresa prima dell’industria. L’impresa può esistere anche in società
non industriali. Parliamo di Antonio Greppi, un imprenditore del ‘700, che fa business, impresa
prima dell’industria. È un caso molto interessante per la sua forte internazionalizzazione (nel ‘700
economico europeo).
Sappiamo che la famiglia di Greppi è di Bergamo e che possiede beni a Cazzano Sant’Andrea in
Val Gandino. Sposa Laura Cotta e hanno sei figli maschi (l’ultimo muore in giovanissima età).
Possiede delle proprietà fondiarie ma la famiglia si qualifica fiscalmente come mercantile:
commerciano principalmente lana e tessuti di lana (la Val Gandino era una zona famosa per il
commercio della lana, anche al giorno d’oggi). Lavora molto presto con il papà e diventa
procuratore generale curatore dei rapporti con i clienti esteri (al di là dell’Adda e al sud Italia).
Riesce a sostenere l’attività paterna rendendolo anche fornitore di manufatti di lana dell’esercito
asburgico. Lascia gli studi letterali e comincia a lavorare nella ditta. È inserito in un contesto che è
uno dei poli lanieri più importanti dell’Italia settentrionale.
In seguito, la famiglia diversifica e si lancia nell’ambito del ferro e in ambito finanziario (a Milano
c’è la tradizione di appaltare a privati la gestione delle gabelle, ovvero la gestione dell’esazione di
alcune imposte o della distribuzione di alcuni prodotti particolari come il sale, il tabacco).
La scelta della finanza diventa la scelta strategica nella vicenda di Antonio Greppi perché nel 1960
(poco dopo la morte del padre che lo porta a gestire da solo l’attività) riesce a inserirsi in un
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percorso di riforma della finanza pubblica a Milano e questo genera delle occasioni. C’è una spinta
determinata dal bisogno delle finanze pubbliche di finanziare la guerra che implica la necessità di
rivedere il sistema fiscale in tre direzioni:
- Manca una banca pubblica a Milano quindi nasce il Banco Sant’Ambrogio
- Il catasto: nasce il catasto teresiano. Si paga una quota annua. Voleva distribuire il carico
facendo pagare tutti ma meno (riducendo le esenzioni e le immunità che portavano molte
persone a non pagare le tasse).
- L’istituzione della ferma generale: si volevano eliminare le gabelle. Per importare i prodotti
erano previsti dei dazi, che però erano appaltati quindi lo stato non ci ricavava più nulla
perché il ricavo andava ai privati.
Lo Stato non è in grado di istituire una agenzia delle entrate e fa un bando per cercare
qualcuno che si occupasse della gestione centralizzata, in cambio di un prestito alla corona
per finanziare la guerra. Antonio Greppi (e altri 4) costituisce un’impresa e vince il bando.
Loro stessi dovranno chiedere dei soldi in prestito da dare alla imperatrice.
A condizioni diverse questa vicenda dura vent’anni, dal 1750 al 1770. L’affidamento delle
principali gabelle in un’unica compagnia è una grande novità. Per formare questa società
sfruttano la dinamicità della ditta paterna di Greppi e dell’estraneità dei soci alla realtà
milanese (c’erano interessi aristocratici e pregiudizi di ceto). Non c’era nessun aristocratico
a Milano che volesse rinunciare al suo diritto su una gabella e non c’era neanche un
aristocratico solidale contro un altro aristocratico per questo servivano dei soggetti esterni.
Questo accordo viene rinnovato due volte a condizioni sempre meno favorevoli ai fermieri e
sempre più favorevoli allo Stato. Lo Stato si accorge che i fermieri stanno facendo molti
soldi nel riscuotere i dazi alla mercanzia a ogni ingresso nei territori dello stato, i diritti sul
sale, polvere da sparo e tabacco... e quindi cambiano le condizioni: sono sempre meno
favorevoli per i fermieri (cambiano le contrattazioni per il canone).

Greppi viene usato per rompere un meccanismo aristocratico, cosa che non era facile da fare.
Quindi anche prima della rivoluzione industriale ci sono industria e industrialità.

UN’IMPRESA SENZA IMPRENDITORE

Quasi il contrario del caso 1, non solo perché si parla di industria ma perché si può definire vicenda
di un’impresa senza imprenditore unico.
Around the wheels. Business longevity and rolling stock in Italy from Gregorini to Lucchini.
Gregorini è stato l’imprenditore decisivo all’inizio mentre Lucchini è di oggi, attuale. Si tratta di
un’esperienza estremamente legata al territorio (ma non è un distretto), cosa molto diversa
all’attuale globalizzazione nella quale tutto è delocalizzato.

“Perché alcune imprese durano e altre no?”→ si parla di Business Longevity, in cui per longevità si
intende l’attualità radicata nella storia. La produzione caratteristica in questo territorio non è
scomparsa. Oggi la Lucchini RS (rolling stock) ha circa 1000 dipendenti e un fatturato maggiore di
245 milioni. La famiglia Lucchini è considerata leader mondiale per le ruote dei treni ad altissime
prestazioni, le famose ruote silenziose (importanti per l’alta velocità e la riduzione
dell’inquinamento sonoro).
Siamo nel tempo dell’industrializzazione, nella seconda parte dell’800, inizio 900 circa che ha a che
fare con una produzione di materiale rotabile (ecco il perché dell’ “around the wheels”). Nello
stabilimento vi erano 4 direttori:
1) direttore amministrativo
2) direttore della produzione di materiale rotabile,
3) direttore di produzione della fonderia,

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4) direttore del personale.
Zona lago d’Iseo, Lovere. Lo stabilimento compra la società di navigazione locale (di cui non era
soddisfatta) così da internalizzare i costi del trasporto e diversificarsi guadagnando.

Nel 1742 in un documento si attesta che in quel luogo si producono falci, vanghe, attrezzi per la vita
quotidiana (da lì il nome del posto, Fucine), ovviamente tutte di ferro. Negli anni ’90 del 700
Venezia utilizza questo territorio e le sue fucine per la produzione di cannoni per la guerra
(evidentemente ci sono le competenze necessarie per la produzione dei cannoni anche se prima si
producevano falci e attrezzi).
Poi ci sono i francesi (tra il 1796 e il 1814) che non cambiano la situazione, continuano con la
produzione dei cannoni e delle armi.
Con la restaurazione nel 1815 e il ritorno gli austriaci si arriva a un periodo di abbandono di questo
territorio, nel senso che scema l’utilizzo di armi ma anche di falci e attrezzi perché non c’è più la
domanda bellica ma anche perché gli austriaci privilegiano i propri territori. Si torna quasi
all’economia domestica e alla produzione agricola, se non all’abbandono.
Parallelamente, nello stesso territorio, si sviluppano altre vicende e le storie si incontreranno (come
per esempio la storia della ditta di Greppi incontra la storia del riformismo senza riforme del ‘700).
La famiglia Gregorini ha un’intuizione, ovvero manda il figlio Giovanni Andra Gregorini (1819-
1878) all’estero, in Stiria e Carinzia c’è concorrenza nell’ambito siderurgico così che poi lui potesse
apprendere. La famiglia approda a Lovere nei primi anni ‘50, dove vedono che c’è il lago, una
tradizione siderurgica, i materiali necessari ma soprattutto la torba (si tratta di un materiale che
emerge dal lago e quando opportunamente riscaldato può generare un gas che può alimentare le
fucine come il carbon fossile, che no era disponibile, e la legna, che era sempre più costosa).
Acquista un territorio e nel 1858 ha già 500 dipendenti per produrre ancora oggi:
- materiale rotabile (in Italia c’era il boom delle ferrovie) in ferro e acciaio;
- manufatti specifici in acciaio, pezzi di fonderia su richiesta (ogni tanto escono delle eliche di
transatlantici da quello stabilimento e sono pezzi unici, non di serie per questo servono le
competenze necessarie per essere prodotte).

Questa prima fase si può definire imprenditoriale Schumpeteriana, ovvero una fase di rottura e di
innovazione anche dal punto di vista sociale, infatti, Gregorini è promotore a Bergamo della prima
forma di società industriale bergamasca, una specie di Confindustria locale. Potenzia anche la
prospettiva internazionale partecipando alle esposizioni nazionali e internazionali, ottenendo premi
e riconoscimenti. A queste esposizioni incontra la possibilità di creare anche dei forni con dei
camini altissimi. I suoi viaggi servono per andare a caccia delle economie di scala così da poter
espandersi; compra tutte le società che gestiscono le miniere, le società intorno a lui.
Attua così un’integrazione verticale, quindi acquisisce ciò che serve per il funzionamento
dell’azienda cercando di restare sempre sulla frontiera della tecnica, nel senso restare aggiornati
tecnologicamente e non al margine delle conoscenze. Ha la possibilità di possedere tutta la filiera e
questo permette l’economia di scala, quindi di risparmiare sul prezzo di tutto per l’unità di prodotto.
C’è una internazionalizzazione e i prodotti vengono smerciati in Svizzera, Francia, Inghilterra,
Turchia, Grecia ed Egitto.
E’ eletto parlamentare a Roma, nell’area sinistra del partito liberale, rappresentando gli interessi dei
liberali e al ritorno muore in viaggio.
Nel 1878 muore Giovanni Andrea Gregorini e non ha figli maschi. Il passaggio di proprietà
all’interno della famiglia però non porta al declino
L’innovazione tecnologica è costante e permette di produrre ad es. 2 forni Siemens, un forno
elettrico Kyellin (novità del 900).
Con questa evoluzione cresce la necessità di investimenti e finanziamenti quindi a partire dal 1905
la famiglia viene sempre più diluita dalle partecipazioni in termini finanziari che si realizzano da
alcune famiglie rilevanti (Pesenti) e da grandi banche commerciali, come la Comit.
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Si trasforma in una società per azioni/di capitali e c’è bisogno di management (l’organizzazione è
sempre più complessa quindi servono competenze manageriali) e di grandi capitali. La prima guerra
mondiali ha come risultato numerosi stimoli da cui poi nasce il gruppo Gregorini-Franchi. A queste
unità produttive viene chiesto di partecipare allo sforzo bellico come imprese ausiliarie, quindi
destinate alla produzione di armi e munizioni. Questo porta anche alla fusione di gruppi quindi le
acciaierie Gregorini si uniscono alle acciaierie Franchi (con sede a Brescia).
Alla fine della guerra Lovere appartiene al gruppo Franchi-Gregorini. È la guerra che porta una
forte spinta. Ormai non è più identificabile un imprenditore o una famiglia; l’impresa stessa è
posseduta da stakeholder e investitori e non è più così autonoma, è all’interno di un gruppo.
C’è un socio, un management, una banca che da limiti e quindi bisogna gestire il disagio di gruppo
del primo dopoguerra (Biennio Rosso). Non serve più la manodopera della guerra e questo porta
anche alla riduzione del personale. Questo complesso industriale riesce però ad affrontare questo
dopoguerra, ma non in modo indolore.
Dopo la guerra si va verso la grande depressione con squilibri finanziari e il gruppo Gregorini-
Franchi viene salvato dallo stato finanziariamente e inserito nel 1929 nell’Ilva (grande consorzio di
imprese nazionalizzate per essere salvate dal crollo della borsa). Ma per affrontare la grande crisi di
questi grandi gruppi siderurgici la soluzione è l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, per
evitare che fallissero non solo le imprese ma anche le banche collegate. È un istituto nato per gestire
le proprietà di imprese in difficoltà acquisite dallo Stato.
Quindi Lovere diventa parte di un insieme di siti industriali di proprietà dello Stato. Non si chiama
più Acciaieria Gregorini, poi Ilva, Iri, stabilimento di Lovere e infine Lucchini SR. Romano Prodi
avvia il percorso di privatizzazione, ovvero di restituzione ai privati delle imprese nel 1993 (dal
1933). L’IRI era amministrata dal Ministero delle partecipazioni statali dopo la Seconda Guerra
Mondiale, ovvero il Ministero che doveva gestire le imprese di proprietà dello Stato.

Negli anni 30 quindi lo stabilimento:


 ha una specializzazione indotta
 accentra tutte le strategie con conseguenze decentrate in altre zone
 il management è scelto dallo stato quindi il manager è statale
 è caratterizzato dalla costante osmosi sia in entrata che in uscita, infatti le esportazioni erano
destinate a Germania, Francia, Turchia, Austria, Egitto, e USA.
Sempre di più Lovere è dipendente da strategie accentrate, le cui conseguenze erano territoriali.
Non c’è più una famiglia imprenditoriale ma si è soggetti a scelte politiche. Il bisogno di
management viene risolto con il management pubblico. All’interno di questo contesto Lovere
continua a conservare una ragione di esistere nella capacità di produrre per mercati lontani.
Continua a produrre rolling stock e manufatti per mercati di questo tipo. La sua forza in assenza di
imprenditori sta nella capacità di produrre per mercati lontani.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale c’è la stagione della Prima Repubblica che è scandita dal
miracolo economico (Golden Age) e dalle difficoltà economiche del ciclo dopo. Il boom in Italia è
limitato ma pur sempre significativo.
Lovere si inserisce nel boom perché il settore è in espansione e inoltre ad aiutare molto in questa
fase ci fu l’aristocrazia operaia, ovvero quella manodopera che conserva e migliora la qualità del
prodotto in virtù di un know-how derivato da un learning by doing. Si tratta di una specie di scuola
aziendale interna al fine di preparare adeguatamente gli operai. È anche una fase di riconfigurazione
delle partecipazioni statali: questi stabilimenti di stabilità dello Stato sono inseriti in holding
(Italsider), attravaerso i quali la siderurgia nazionale viene organizzata per capacità produttive.
L’export è crescente e il tutto si basa sull’innovazione, infatti nel 1975 si realizza in grandissimo
investimento per dimettere un certo modo di fare fusione e introdurre le novità dell’acciaieria
elettrica con l’impianto Asea Skf. Questo investimento viene infatti realizzato dallo Stato
imprenditore. Questa scelta rende possibile la presenza longeva dello stabilimento.
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Però lo Stato non fa solo del bene perché in questi stessi anni realizza, nell’ambito delle politiche
per la riduzione del dualismo nord-sud, degli interventi legislativi che implicano un favore fiscale
per alcune imprese che realizzano delle produzioni in alcune aree del sud Italia. Una % della
produzione inoltre doveva avvenire in stabilimenti del sud, che però non erano in grado di sostenere
tale produzione. Quindi avveniva che la produzione si svolgeva in altri stabilimenti (tra i quali
Lovere) fino all’ultima trasformazione, che avveniva al sud. In questo modo rispettava la
legislazione ma comportava alti costi di trasporto (dall’impianto nel quale avveniva la maggior
parte della produzione all’impianto del sud nel quale avveniva la trasformazione finale).
Tutto questo era dovuto all’essere parte di un sistema statale, che non doveva rispondere solo ai
criteri di economicità ma anche criteri politici, sociali, occupazionali...
Non fu comunque un’esperienza negativa al punto tale da mettere in difficoltà la produzione.

Nei primi anni ’90 inizia la privatizzazione: lo Stato decide di porre sul mercato interi pacchetti
azionari di imprese, in modo tale da fare cassa, corrispondere alla normativa europea sugli aiuti
statali.
Lovere è nel pacchetto delle privatizzazioni, va all’asta. La siderurgia viene spaccata in 4 e viene
data a 4 gruppi:
- Terni ad un tedesco (Krupp)
- Taranto alla famiglia Riva
- Dalmine e poco altro alla famiglia Rocca (famiglia argentina di origini italiane)
- Piombino (e altri stabilimenti tra cui Lovere) alla famiglia Lucchini.
I Lucchini non riescono a gestire lo stabilimento di Piombino perché troppo grande, senza
specializzazioni ed entra in difficoltà finanziaria quindi per aumentare il capitale si unisce ai russi
ma non basterà. Lascia Piombino ai russi ma non Lovere.
La storia è strana perché partendo da un imprenditore, Gregorini, fa tutti i passaggi detti in
precedenza e alla fine rimane Lovere rimane comunque da sola, nelle mani di un altro imprenditore.
Lovere continua a conservare la sua capacità di internazionalizzarsi verso i mercati di tutto il mondo
(e questo permise di affrontare le fasi di criticità, anche quella attuale) e sembrerebbe un caso di
quarto capitalismo. Sembra un caso di impresa senza imprenditore (c’era lo Stato). Sono tanti i
fattori da tenere in considerazione per quanto riguarda la business longevity: non bastano la capacità
dell’imprenditore (Greppi) o la capacità tecnologia e innovativa.
Ci sono virtù locali ma anche ambizioni internazionali perché non si ha paura di incontrare e
competere con mercati esteri.

L’IMPRENDITORIALITÀ ACCADEMICA

La costruzione di un ateneo avviene tra l’800 e il 900. Nelle Marche è importante Fois per la nascita
del Politecnico delle Marche, da ricordare perché si parla della costruzione di un’università non in
una grande città ma in una regione.
Agostino Gemelli (1878-1959), imprenditore universitario e fondatore UNICATT.

Fonti e studi
Nicola Raponi e Maria Bocci sono i principali studiosi e hanno pubblicato volumi riguardo
l’Università Cattolica; l’istituto Toniolo è l’ente che detiene il patrimonio dell’università. Inoltre vi
è un archivio di un certo livello su tutte le Cattoliche (Roma, Piacenza..) e vi sono enti che hanno
documenti della Cattolica (es. archivio EBIS di Brescia e le carte Vaticane).

Ragione degli inizi


Fondare un’università costa ma secondo lui serviva uno strumento per far maturare le conoscenze e
il sapere. E’ accusato di medievalismo, perché aveva idee troppo corporative e antiche ma forse lo è
perché pensa ad un ateneo che sviluppi integralmente la persona, voleva un “progetto per l’Italia”. Il
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suo è un desiderio carismatico che proviene dal secondo 800 e nel primo 900 tutto questo diviene
un’urgenza. Il 2 aprile 1919, c’è un comitato su richiesta di Toniolo per creare un progetto e gettare
le basi per lo statuto.
Gemelli aveva in mente la necessità di una connessione non esteriore tra sapere scientifico e
appartenenza religiosa, quindi non bastava enunciarla ma serviva praticarla (dimostrare che scienza
e fede non erano in contraddizione. Bisognava superare l’autoesclusione del mondo cattolico
italiano. Pensava che il mondo cattolico avrebbe portato dei contributi in termini di medievalismo,
quindi recuperare l’idea della necessità di uno sviluppo integrale della persona umana, non
specializzato. Dietro c’è l’idea che sottende un progetto per l’Italia: non c’è solo la preoccupazione
che il cattolicesimo abbia bisogno di un’università ma anche l’idea che questo cattolicesimo possa
dare un contributo alla crescita del Paese. Anche in dialogo con una laicità l’idea era di dare un
contributo di crescita all’intero Paese e non esclusivamente ai cattolici.
L’idea non è nuova, è un desiderio carismatico che viene dal secondo Ottocento (Antonio Rosmini);
dal 1874 questo è oggetto di dibattito nei congressi dei ODC (movimento che riuniva i cattolici
italiani). Una spinta forte viene dall’ambiente bresciano:
- Giuseppe Tovini è un banchiere che fonda anche delle riviste come “Fede e Scuola” e la
prende in considerazione come centro di raccolta delle offerte per finanziare l’Università
Cattolica
- Angelo Zammarchi è un sacerdote che spinge per questo progetto
All’interno del mondo cattolico c’è una forte spinta verso il diritto e la libertà di insegnamento.
Sullo sfondo c’è anche la necessità di confrontarsi con un mondo che si sta modernizzando (la
Cattolica nasce nel 1921, prima del fascismo).
Quindi questo ragionamento diventa un’urgenza del primo ‘900.
Gemelli nel 1907 presenta una relazione nella quale si fa interprete di tutto quello pensato fino a
quel momento e fortemente intenzionato a realizzarlo. Anche al congresso della Fuci del 1915. La
Prima guerra mondiale porta uno sdoganamento dei cattolici dall’impegno istituzionale e politico (il
papa aveva proibito la partecipazione politica). Ma i cattolici partecipano alla guerra.
Il 2 aprile 1919 Toniolo spinge Gemelli a convocare un Comitato promotore (al quale partecipano
Olgiati, Bernareggi, Gramatica, Barelli, Meda, Rossi) per formulare il progetto e gettare le basi
dello Statuto. La nuova università ha infatti bisogno di un progetto e di uno statuto, che viene
realizzato in questo momento.

Fatica istituzionale ed economico-finanziaria


La prima fatica è interna al mondo cattolico: non tutti sono d’accordo con la nascita di un’università
cattolica; inoltre sono gli anni del Partito Popolare Italiano, che vuole portare laicamente una voce
del cattolicesimo. Molti sono convinti che un’università cattolica non sia necessaria perché si
preferiva un partito politico.
Siamo nel tempo del conflitto accademico Milano-Pavia.
Si istituisce l’Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori (ente morale nel sistema giuridico del
tempo), si riconosce nel 1920 e il 7 dicembre del 1921 cominciano le prime lezioni.
Riconoscimento della S.Sede avviene tra il dicembre 1920 e febbraio 1921; c’è un legame debole
con l’episcopato ma c’è un legame molto forte tra Vaticano e Istituto Toniolo; legame debole con
AC (Azione Cattolica), legame forte con associazioni femminili. La cattolica deve fare i conti
quindi con questi equilibri.
I corsi iniziano il 7 dicembre 1921, nella sede in via S.Agnese (opportunamente ristrutturata);
Raponi: «il finanziamento dell’UC, rifiutato da una banca cattolica, fu assicurato – dopo il capitale
iniziale di un milione donato dall’industriale laniero di Varallo conte Ernesto Lombardo – dai
contributi del mondo cattolico italiano e soprattutto dalle iniziative della Gioventù femminile di
AC: strumenti per la propaganda e la raccolta di offerte furono la rete di Delegate per l’UC,
l’Associazione Amici dell’UC, e dal 1923 l’istituzione di una Giornata a carattere nazionale per la

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raccolta di fondi»; L’imprenditorialità accademica all’inizio è questo: beneficienza, raccolta a
livello popolare, nascita di enti per il fundraising e la chiesa nazionale che viene coinvolta,
Ci furono vivaci polemiche in ambito non cattolico: monopolio statale dell’istruzione o sana
competizione?
Regio Decreto del 2 ottobre 1924: ottiene il riconoscimento formale come università libera, con il
diritto a rilasciare titoli con valore legale; il ministro Casati rimarcava «la peculiarità dei fini»,
«l’elevatezza dei criteri scientifici e didattici», «la bontà di parecchie sue innovazioni».
Si strutturano le Facoltà di Giurisprudenza, Lettere e filosofia, Scienze economiche e sociali,
Magistero; gli studenti passano da 283 nel 1923-24 a 6780 nel 1943-44.

Contributo scientifico e culturale


Gemelli voleva una didattica che fosse nel cuore della storia, non fuori.
Bocci: «sviluppo tecnologico, rafforzamento di discipline che in Italia erano in una fase quasi
aurorale (basti pensare alla psicologia e alle scienze sociali), confronto con la questione delle
istituzioni dello Stato e con quella dello sviluppo economico, dell’industrialismo e della
produzione»;
Si rende conto che manca l’economia in Italia e si occupa soprattutto delle scienze sociali e della
psicologia del lavoro.
Si fa riferimento alla filosofia neoscolastica per superare l’idealismo e l’attualismo gentiliano, alla
ricerca di un più fecondo innesto tra filosofia classica e cultura contemporanea; il laboratorio di
psicologia per offrire contributi originali alla stessa Psicologia e alla Psicopedagogia; nelle facoltà
di Giurisprudenza, Economia e Scienze politiche si formavano professionisti validi per le istituzioni
cattoliche ed il futuro della società civile.
In particolate, in UC nascevano interessanti elaborazioni per un nuovo assetto economico e politico
della società post-fascista, prendendo le mosse dall’analisi della grande depressione 1929-1932 e
dalla evidente crisi del capitalismo e della società occidentale (Fanfani, Vito, Saraceno, Vanoni).
Raponi: «i presupposti della scuola economica legata all’UC sono quindi la critica dell’economia
liberista, l’esigenza di una razionalizzazione dell’economia secondo principi propri ma compatibili
con l’etica del cristianesimo, la concezione organicista della società»;
Era molto importante anche la scuola di Statistica e il gruppo di docenti della seconda generazione a
servizio del nuovo ordine democratico (Vanni Rovighi, Lazzati, Romani, Fanfani), in sintonia ad
esempio con Dossetti e La Pira;
Docenti (reclutamento), laureati (analisi dei professionisti usciti dall’Università Cattolica) e relativi
«mercati»: prospettive di ricerca da praticare per delineare «lo specifico della vita accademica»,
ovvero la sua «produttività».

Costruzioni architettoniche e struttura a rete


Dal 1929 l’ateneo si trasferisce nell’antico monastero S. Ambrogio. Da qui per i prossimi vent’anni
si studiano dei progetti e l’ingresso dell’edificio, i servizi da offrire, le aule, i collegi femminili o
maschili e infine, le mense. E’ una proposta imprenditoriale innovativa ma non isolata.
Dal 1928 al 1949: un cantiere aperto con impegni crescenti; Cecilia De Carli documenta il ruolo
dell’architetto Giovanni Muzio; il punto di partenza è gemelliano: «molti la università la
concepiscono come una scuola ove un maestro espone le dottrine e prepara i giovani all’esercizio
della professione; la università non è in questo caso che una continuazione del liceo; per me la
università deve essere qualcosa d’altro»;
Si tratta di un ventennio che vede «tra il 1928 e il 1929 gli studi di progetto e l’edificio d’ingresso,
tra il 1931 e il 1932 i restauri del monastero e l’edificazione della cappella maggiore, tra il 1933 e il
1934 i collegi maschili, nel 1935 l’edificio Franciscanum, tra il 1937 e il 1938 le nuove aule, nel
1938 i collegi femminili, poi la ricostruzione delle parti offese dopo i bombardamenti del 1943, tra
il 1944 e il 1946 gli studi di psicologia e infine, nel 1949, le mense universitarie»;

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Alla nascita di nuove facoltà ed iniziative culturali corrispondeva una strategia di espansione
territoriale mirata;
Nel 1953 apriva a Piacenza la facoltà di Agraria, con realizzazioni anche qui continue specie negli
anni 1949- 1957 grazie al lavoro dell’architetto Mario Bacciocchi;
Nel 1926 il papa donava la sede di Castelnuovo Fogliani (sezione per religiose dell’Istituto
superiore di Magistero);
Il Collegio Alberoni, istituzione religiosa piacentina famosa per i suoi studi, dona l’area per la
costruzione della nuova facoltà,
Il ruolo del consorzio EPISA, Ente consortile per l’istruzione superiore agraria di matrice locale,
con sede presso l’Amministrazione provinciale;
Il progetto romano che si stabilizzava con l’apertura nel 1961 (rettore Vito) della facoltà di
Medicina;
Verso l’apertura a Brescia d’intesa con consorzi locali di finanziamento: legami personali,
riferimenti istituzionali, resistenze politiche, strategie accademiche;

L’ESORDIO DELL’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA IN ITALIA (1898-1918)

Si parla di un settore su cui si radica buona parte dello sviluppo industriale dei paesi più sviluppati
nel corso del XX secolo perché le innovazioni tecnologiche sono verso la fine 800 precedendo così
lo sviluppo Novecentesco. La Spagna è indietro rispetto a noi, nonostante siamo un paese
ritardatario.
Il 1898 è il periodo delle prime esperienze concrete automobilistiche in Italia mentre nel 1918, dopo
la Prima guerra mondiale, esplode la FIAT e l’industria automobilistica cambia.

Questione storiografica = questo argomento ha una rilevanza per chi scrive storia? Si!
L’ultimo scorcio del XIX rappresenta un periodo di grande trasformazione economica e sociale in
Italia. L’industria automobilistica si inserisce in questa fase contribuendo alle trasformazioni in atto,
essendo un prodotto nuovo per la viabilità (anche se è ancora presto per la catena di montaggio).
Gli inizi della produzione automobilistica italiana, dalle origini (ovvero le prime automobili italiane
presentate all’Esposizione nazionale di Torino del 1898) agli anni Venti del XX secolo (nel pieno
del cambiamento epocale dei metodi produttivi), vale a dire il tempo dei pionieri, dell’auto “un po’
giocattolo per amatori benestanti e un po’ impegnativo status symbol”, della produzione di élite in
ogni senso, della primissima celebrità all’estero, delle iniziali manifestazioni sportive di richiamo,
sono stati studiati in maniera frequente ma non sufficientemente focalizzata. Tracce degli inizi di
questo fondamentale settore industriale si possono infatti trovare in molti tipi di pubblicazione, con
una trattazione però in non pochi casi sintetica e sbrigativa.

Tecnica e passione = le innovazioni tecniche di base che hanno portato alla produzione
automobilistica sono il frutto di tecnici europei ed italiani ma alla superiorità tecnica non
corrisponde una superiorità industriale (quindi questo significa che queste intuizioni non sempre
diventano produzioni industriali).
All’inizio ci sono state importanti intuizioni, come Padre Eugenio Barsanti e Felice Matteucci che
negli anni 1851-58 creano il motore atmosferico, illustrato in una memoria all’Accademia dei
Georgofili di Firenze nel 1853, in cui sono anche inseriti dei principi base del motore a scoppio.
Nicholson tratta la produzione italiana definendola “nazione degli entusiasti” perché caratterizzata
non solo da capacità tecniche ma anche sportive (meno industriali).
Le protagoniste della belle époque sono le auto di prestazioni sportive dei fratelli Ceirano. Vincenzo
Lancia ha un ruolo rilevante perché oltre a creare la Lancia, prima, era un pilota Fiat ed era
ricordato durante la gara per la coppa Vanderbilt non perché abbia vinto ma perché nonostante
un’uscita fuori strada riesce a recuperare clamorosamente il distacco creato.

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Essenzialmente non c’è la produzione industriale ma c’è una grande visibilità internazionale, ci
sono le capacità e c’è un mercato che si sta allargando (però per un prodotto artigianale e poco di
serie, quindi abbastanza costoso).

Territori e famiglie = Valerio Castronovo in alcuni studi dimostra il legame tra l’industria di
automobili e certi territori e famiglie. La maggior parte delle industrie di auto sono localizzate nel
nord (Piemonte, Lombardia, Veneto...), tra l’altro territori già abituati a lavorare il ferro.

Strategie e mercati = si usano strategie o si fa tutto a caso? Franco Amatori si concentra sulle
strategie d’impresa collegandole ai caratteri del mercato (ha studiato soprattutto la Lancia).
Agli inizi le condizioni del mercato permettono alle imprese di limitate dimensioni di sopravvivere:
scarsa conoscenza del prodotto, domanda che eccede l’offerta, necessità di ampie abilità tecniche,
limitata incidenza del capitale fisso (essendo tutto molto artigianale molto era affidato alla capacità
del fattore lavoro perché non c’erano grossi macchinari), non adeguata dotazione infrastrutturale in
termini di rete stradale nazionale (c’erano poche strade percorribili), spazi per l’esportazione di
prodotti finiti (il mercato estero compra i prodotti grazie alla loro qualità e originalità).
La domanda interna era debole ma c’era una forte domanda internazionale.
L’Italia alla fine dell’800 è povera e il mercato estero è il protagonista dell’industria automobilista
ma il gusto italiano è comunque molto apprezzato nella domanda internazionale. Il mercato estero
riesce quindi a spingere la produzione interna nonostante diversi problemi come le politiche
protezionistiche. Nel primo dopoguerra si ha un periodo d’oro perché il 45% della produzione totale
è diretta negli USA.
Era però necessario oltrepassare gli eccessi della passione motoristica, artigianale e sportiva.
Bisognava velocemente superare ogni impronta artigianale e muoversi verso una direzione se non
ancora fordista, quanto meno di potenziamento della produzione in serie che mira ai grandi numeri,
anzitutto “separando nettamente la funzione produttiva da quella di studio e collaudo”.
Per muoversi in questa direzione le strategie adottate erano quella di integrazione, diversificazione e
riorganizzazione produttiva (chi fa così è vincente).
Integrazione verticale significa acquisire tutti i passaggi della filiera produttiva (a monte e a valle) e
farli diventare parte dell’impresa, cioè non solo le aziende fornitrici di materie prime, non solo la
produzione interna ma anche preoccuparsi della distribuzione.
Per quanto concerneva la strategia di integrazione verticale, essa si rivelava “decisiva nel
determinare la posizione di superiorità della Fiat sulle altre case automobilistiche”, anche perché
“non si arresta all’interno della fase produttiva, ma perviene alla creazione di una estesa rete di
vendita: congiungendo produzione e distribuzione alla vigilia della prima guerra mondiale la Fiat si
configura come una grande impresa in senso moderno, in grado, attraverso la sua fitta intelaiatura
organizzativa, di ridurre i costi unitari e di creare quindi una barriere all’entrata per eventuali
concorrenti”.
Con la Prima guerra mondiale, la Fiat essendo un modello di grande impresa in senso moderno si
diversifica creando diversi modelli di auto ma non solo, cambia la produzione con veicoli
industriali, motori marini per ripararsi dalle oscillazioni del mercato grazie alle commesse statali.
Amatori studia la Lancia nel 1911 e scopre che c’è una strutturazione: c’è l’ufficio tecnico, quello
contabile, reparti produttivi, officina generale, carrozzeria, 400 dipendenti, incremento di
macchinari. Non è ancora fordismo ma non c’è una stasi, c’è una riorganizzazione funzionale. Ci si
sposta dalle competenze esclusivamente tecniche alle scelte di management, che devono fare i conti
con il mercato.

Operai e società = Duccio Bigazzi studia il tema e analizza l’Alfa Romeo nel primo 900. Delinea il
profilo sociale della manodopera legata al settore automobilistico del nord Italia tra l’800 e il 900
mettendo in evidenza:
- l’alta professionalità (molto capaci nel fare);
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- l’adesione ai valori etici del lavoro (rispetto degli orari, dinamiche di gruppo e passione che
diventano un elemento distintivo);
- la partecipazione al movimento operaio organizzato.
L’Alfa crea un sistema di lavoro fondato sul dare valore al proprio ruolo, essere indipendenti e
avere un’etica solidaristica; infatti erano i protagonisti di tutte le tensioni sociali della Milano
prebellica.

Banche e Stato (ma non solo) = l’impresa automobilistica si sviluppa in un contesto istituzionale e
sociale.
Le banche danno risorse agli imprenditori che non le hanno e nel caso dell’Italia, le banche e lo
Stato aiutano un po’ si un po’ ma altre volte ci sono elementi di ostacolo. Il settore bancario ha un
ruolo contraddittorio con l’industria di auto perché ha ruolo sia speculativo che di investimento.
Lo Stato investe meno nelle strade rispetto alla ferrovia e non protegge l’industria automobilista
anzi la bastona con tasse alte (non come in Francia o USA in cui si promuove come settore). La
protezione doganale non è soddisfacente e la fiscalità era abbastanza pesante.
La Fiat trova a Torino una città favorevole all’impianto di una industria di questo tipo e le
istituzioni amministrative locali la assecondano con delle economie esterne, così da poter rilanciare
una città attardata e depressa (ristagnate da punto di vista economico e avvilita perché non era più la
capitale). Torino vuole diventare l’epicentro di un’Italia che lavora e che produce ma per farlo ha
bisogno di:
- ampie aree libere dove inserire degli impianti
- vicinanza di zone residenziali e quindi alla clientela più agiata
- la vicinanza alle principali vie di comunicazione stradali
- creare urbanizzazione
- far arrivare luce, acqua e gas.

Futuro della storia = Brescia ha una grande tradizione metallurgica-siderurgica e l’azienda


milanese Züst con la banca di Torino, Kuster, investono su risorse economiche.
L’azienda milanese Züst, unitamente ai capitali della banca Kuster di Torino, mobilitavano alcune
risorse economiche ed imprenditoriali di Brescia nel marzo del 1906, allorquando vedeva la luce la
società anonima Brixia Züst, con sede in città in via Palazzo vecchio 36 (nei pressi di piazza della
Loggia) ed un capitale di partenza pari a un milione di lire: promotori bresciani dell’iniziativa erano
Achille Bertelli, pioniere dell’aviazione e industriale chimico produttore del celebre cerotto,
Antonio Guindani, i cugini conti Gaetano e Berardo Maggi e il conte Camillo Martinoni, i quali
insieme costituivano il primo consiglio d’amministrazione.
La società anonima Brixia Züst è sempre stata all’avanguardia e le competizioni venivano viste
come modo per poter lanciare commercialmente le marche automobilistiche [1899 – prima
esposizione automobilistica]. Nel 1909 si aggiudica la fornitura di autocarri, quindi non vi era solo
la produzione di auto e nel 1917 viene liquidata e acquisita dalle Officine Meccaniche di Milano,
che produceva quasi solo autocarri per la zona di Brescia.
Eravamo a 100 anni fa e qui si capisce l’evoluzione delle imprese nel futuro, quindi fino ad oggi.

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LA STORIOGRAFIA NAZIONALE ED
INTERNAZIONALE
La storiografia è quell’indagine che si fa su studi ed argomenti relativi a eventi storici del passato; il
complesso delle opere storiche scritte in un determinato periodo o relative a un determinato
argomento o basate su un determinato metodo. Ci sono diversi approcci per la BI:
- approccio macroeconomico (fase 1)
- approccio microeconomico
- il “declino industriale” (più recente, ha a che fare con una interpretazione più pessimista)
- spunti dalla letteratura estera

Nella storiografia gli anni 70 sono un grosso spartiacque, anni in cui la Golden Age va in frantumi,
e fino a questo periodo ci si concentra soprattutto sull’approccio macroeconomico perché c’è
attenzione al processo di industrializzazione, in particolare dei paesi leader (e non all’impresa in sé).
Si ricercavano anche le modalità di aggancio dei paesi ritardatari.
Dopo gli anni 70 invece, si abbandona la ricerca precedente per focalizzarsi sull’approccio
microeconomico, basato su vicende singole, sulle scelte strategiche da fare per salvarsi in questo
periodo. Si passa da problemi generali dello sviluppo a vicende più particolari sulle aziende di quel
periodo. Aumenta anche l’interesse per i rapporti tra mercato, impresa e imprenditore nonostante
non siano gli unici protagonisti della storia delle imprese.
Agli inizi del XXI secolo è cresciuto l’interesse per la relazione tra il mercato, l’impresa e
l’imprenditore.
Vi sono le stesse fasi nella storia economica poiché fino agli anni 70 l’impresa è vista come
soggetto protagonista della fase dello sviluppo mentre successivamente si afferma un interesse per
l’interazione tra altri protagonisti dell’impresa: la proprietà, il management, le relazioni industriali e
i lavoratori.

APPROCCIO MACROECONOMICO

L’impresa è vista come riferimento allo sviluppo economico del paese e si concentra maggiormente
su queste questioni: capitale finanziario, capitale monopolistico e grande impresa.

Capitale finanziario a disposizione dell’impresa


Emergono due filoni di ricerca:
1. Il primo mise in evidenza come nell’età giolittiana (1896-1913) il capitale finanziario era
fondamentale perché giustificava il carattere monopolistico della grande impresa (es. Ilva e
Fiat): dove si concentra il capitale c’è sviluppo e diventa poi difficile competere con loro per
le stesse produzioni. Il fatto di crescere in numero limitato in alcuni settori ha garantito la
possibilità di controllare l’offerta e di conseguenza anche i profitti (se si tiene l’offerta bassa
crescono i prezzi e i profitti). Alcuni settori diventano quindi quasi monopoli.
Questo anche perché in quell’Italia le banche avevano interesse nell’evitare una crescita di
sviluppo per troppe persone, perché se si controlla l’offerta si garantiscono alti profitti.
2. La carenza di capitale è stata una tara d’origine del nostro modello di sviluppo: poche
imprese sono state finanziate dalle banche e la ricchezza prodotta, il PIL pro capite (i
consumi possibili), erano limitati e quindi il sistema finanziario era spento. Nella cultura
prevalente (soprattutto al Sud) persiste la tranquillità di non voler rischiare perché c’è la
vendita agraria (di terre). Inoltre, c’era il peso della speculazione, quindi anche chi investiva
non lo faceva per dare un contributo ma lo faceva per giocare sulle azioni. Già c’era poco

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denaro, un po’ era per lo sviluppo industriale oppure era per la speculazione. Da qui nasce
un dibattito sulla bontà o meno di un sistema che si muove sulla concentrazione industriale
(verso la grande impresa). C’è un ulteriore dibattito sul grado di potere monopolistico delle
imprese in Italia o quanta concentrazione monopolistica ci sia stata nei diversi periodi (per
alcuni il monopolio è positivo perché solo la grande azienda può raggiungere la massima
efficienza mentre per altri è male perché non ci possono essere solo grandi aziende). Il
capitale è il protagonista perché è uno degli elementi che l’impresa deve acquisire nel bene e
nel male per diventare tale.

Capitale monopolistico
Si è notata una relazione tra potere di monopolio e ristrettezza del mercato interno (più la domanda
del mercato interno è poca, più saranno meno le imprese a conquistarlo).
Questo porta alla difficoltà di un paese a voler crescere ma per farlo ha bisogno di impianti e deve
perciò comprimere salari aumentando la componente di risparmio per poter investire. Se c’è un
paese ritardatario con un mercato ristretto ma per innovare servono grandi impianti, ci saranno
poche imprese. Quindi l’oligopolio (mercato di poche imprese) è un inevitabile incidente di un
mercato limitato (Italia).
Questo dibattito ha portato ad altri approfondimenti:
- Mancata crescita del mercato interno dovuta alla strozzatura sul fronte delle BP (Bilance di
pagamenti).
- Mancate politiche di sostegno della domanda effettiva per le imprese (non si è cercato
abbastanza di trovare il modo per alzare la domanda).
- Il mercato interno ha generato una ristretta rete di relazioni tra banche, stato e imprese: ci
sono poche banche e poche imprese quindi la rete di relazioni non è sempre virtuosa, diventa
clientelare.

Grande impresa
La grande impresa in grado di fare potere monopolistico ma rispetto all’estero è più debole sotto
diversi profili:
- Per quanto riguarda la dimensione, è più piccola (mediamente la nostra grande impresa è
piccola)
- Ha performance/vicende non lineari a causa: delle frequenti crisi, di numerosi problemi nel
1920, nel 1933 (grande depressione) con Iri (Istituto di Ricostruzione Industriale che
statalizza le imprese) e anche del declino attuale. È un sistema cronicamente instabile.

La ristrettezza del mercato e i risultati inadeguati della grande impresa portano a:


 Mancato completamento della matrice intersettoriale (cioè come si incrociano gli ambiti
produttivi, l’indotto) nell’economia di mercato. L’unico periodo di allargamento di questa
matrice è la seconda dopoguerra, quando partono i settori degli elettrodomestici e della
chimica fine.
 Minore capacità di sostenere investimenti nella ricerca e sviluppo e quindi minori esternalità
(cioè i vantaggi che derivano dall’innovazione) per il sistema.
 Si consolida il sistema istituzionale che però è poco orientato all’istituzione tecnica, alla
ricerca scientifica e tecnologica.

Questi sono i tre grandi ambiti di interesse della storiografia macro, e sono collegati tra di loro.

Accanto a queste relazioni macroeconomiche ci sono due protagonisti importanti del sistema
industriale italiano: la banca e lo Stato (politiche economiche).
Che ruolo ha la banca? La banca ha ruolo dominante e autoritario. Negli ultimi anni del ‘800
l’Italia manca di grandi banche di investimento e nascono, grazie a capitali stranieri, Comit e Credit,
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che diventano l’espressione della finanziarizzazione del capitalismo. Si passa quindi dai banchieri
privati alle banche.
Ma avendo solo due banche non è capace ad evitare o meglio ad affrontare le crisi bancarie (1932-
1936, anno in cui c’è una legge bancaria che sterilizza la banca mista, che proibisce investimenti di
lungo periodo per evitare che crolli il sistema e che poi viene annullata verso gli anni 90),
nonostante sia al centro della vicenda italiana come testimoniano nel secondo dopoguerra gli istituti
di credito a medio termine (coloro che finanziano e fanno crescere le medie imprese).
Che ruolo ha lo Stato? Lo Stato ha ruolo fondamentale perché:
- garantisce la domanda in settori nuovi/innovativi (ferrovie, armamenti: è lo Stato a
finanziare questi settori);
- protegge imprese nascenti (1878-1887 sono date di grande crescita e viene introdotto un
protezionismo);
- favorisce l’economia di scala perché sostiene i processi di concentrazione delle imprese;
- quando assume direttamente la gestione delle imprese strategiche, diventa un organismo
politico che si occupa delle partecipazioni statali (soprattutto nel dopoguerra).
Riconoscere la centralità dello Stato ha portato ad un dibattito politico perché ci sono interventi a
favore e a sfavore: chi pensava che lo stato avesse sostenuto l’industria nascente e abbia realizzato
salvataggi a situazioni di crisi strutturale (es. Iri) e chi, invece, pensava che la politica doganale
impedisca la concorrenza e quindi di conseguenza l’innovazione e crei la dipendenza dalle
commesse statati e quando quelle finiscono, finisce tutto.
C’è stata molta attenzione anche sull’impresa pubblica, con cui lo Stato è intervenuto nel secondo
dopoguerra, e che diventa decisiva come mostrano questi esempi:
- l’Iri (impresa statale) investe risorse nella modernizzazione di servizi di telefonia
- Finsider e l’Eni affrontano temi come l’industria pesante e l’energia.
Senza dimenticare quanto sono decisivi i rapporti personali tra alcuni grandi manager e uomini
politici del governo per mettersi d’accordo su alcune scelte strategiche (es. innovazioni,
posizionamento).

APPROCCIO MICROECONOMICO

La crisi petrolifera e monetaria (caratterizzata da svalutazione e inflazione del 21%) degli anni 70
porta a cambiare visione, infatti dalle macrocategorie si passa alle rappresentazioni dinamiche
dedicate ai microcomportamenti, ai casi di studio in particolare (case studies).
Inoltre, cresce l’interesse per la piccola impresa, capace di affrontare le crisi grazie alle proprie
capacità dinamiche, l’impresa che si adatta ed è elastica (un’impresa si adatta quando è in grado di
produrre di più in alcuni periodi e meno in altri, senza necessariamente licenziare); se poi queste
non sono una qua e un là ma sono aggregate tra loro, parliamo di distretti industriali. Infatti, alcuni
economisti cominciano a studiare questi distretti poiché la considerano una “realtà che sorprende”
mentre secondo gli storici ci sono origini di un lungo periodo che spiegano il successo della piccola
impresa (es. l’importanza del fattore lavoro e di alcuni settori come quello della seta) e dei sistemi
locali in cui si articola - sistemi che valorizzano le capacità imprenditoriali e artigianali locali-. Altri
ancora invece, credono che in Italia ci siano stati macroimpulsi per le grandi imprese (es.
l’intervento dello Stato) ma anche microimpulsi territoriali per le piccole imprese (es. la forza delle
subculture e del localismo comunitario).
Questo approccio ha fatto si che emergessero altri protagonisti: la nuova borghesia industriale,
ovvero un nuovo ceto di imprenditori piccoli che mostrano come l’impresa diventi uno strumento di
mobilità sociale (nel secondo dopoguerra ci sono molti esempi di tali imprese che si affermano
grazie alle innovazioni tecnologiche). Anche in questo caso nasce un dibattito: secondo alcuni il
modello italiano è virtuoso perché ha dentro di sé una pluralità di imprese piccole, medie e grandi
che interagiscono tra loro nelle diverse componenti dell’apparato produttivo.

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È cresciuto il rilievo attribuito a una fascia dimensionale a metà tra grande e piccolo: il quarto
capitalismo, chiamate anche multinazionali tascabili (pur essendo territoriali si internazionalizzano
e si allontanano dalla piccola dimensione ma non raggiungono la grande: spesso dietro questa
trasformazione c’è il made in Italy. Sono soggetti dinamici con forti capacità di adattamento e di
innovazione.
Anche la piccola e media impresa hanno a che fare con Banca e stato soprattutto perché:
- se restano di piccole dimensioni, le banche le finanziano più facilmente e più volentieri
- si autofinanziano con le banche locali
- si afferma il family business (si preferiscono piccoli business).
- lo Stato interviene in termini di legislazione sul lavoro, sulle politiche fiscali e sulla
tolleranza per il sommerso (per il nero) che però permette alla PMI di risparmiare.
Nell’approccio microeconomico si affronta anche la questione dell’innovazione poiché la scarsa
capacità innovativa mette in evidenza che l’imprenditore delle PMI deve fare i conti con quello che
ha. La capacità innovativa modesta sarebbe la conseguenza ad un modello di sviluppo che doveva
confrontarsi con un’alta disponibilità di manodopera a basso costo (un imprenditore che ha tanta
manodopera a basso costo adotta tecnologie meno sofisticate perché il suo obiettivo è spendere
meno, e questo gli permette di rimanere sul mercato) ma bisogna anche dire che non raramente le
aree industriali sono aree di innovazione, di conoscenze innovative, silenziose, non codificate,
tutelate così che non possano essere rubate.
I temi per la prospettiva micro sono principalmente: governance e imprenditorialità. Il primo,
affronta i rapporti tra proprietà, management e contesto istituzionale; il secondo, evoca due
approcci: bisogna guardare le caratteristiche culturali e relazionali (non sono caratteristiche hanno a
che fare con il territorio chiuso perché si produce per altri mercati, non per se stessi) degli
imprenditori e bisogna guardare il ruolo dell’imprenditore innovatore (es. Pirelli).

IL DECLINO INDUSTRIALE

Rispetto ai due approcci precedenti, prevale la forma depressiva caratterizzata da un evidente


declino industriale partito nel 2007. Secondo Luciano Gallino la capacità competitiva dell’Italia
iniziava a venire meno già da prima o perlomeno in alcuni settori (chimica, auto, informatica..).
Secondo alcuni studiosi anche le privatizzazioni di un tot di imprese oligopolistiche caratterizzate
da una capacità tecnologia più avanzata hanno portato a questo declino; altri, invece, credono che la
capacità creativa italiana è stata soggetta a metamorfosi indotte dalle trasformazioni esterne come la
globalizzazione. Di mezzo ci sono idee che riconoscono aspetti positivi dell’ultimo periodo:
aumento dell’economia aperta, miglioramenti del sistema finanziario, più accumulazione di
capitali...

SPUNTI DELLA LETTERATURA ESTERA

La letteratura straniera si occupa di questo tema, come:


Franco Amatori che scrive sulla Business History Review di vicende italiane in termini descrittivi e
interpretativi: ritiene che il caso italiano sia stato fortemente ostacolato/danneggiato dalla politica
(in senso centrale e in senso burocratico).
Andrea Colli documenta sulla Business History il processo di internazionalizzazione delle imprese
italiane e il ruolo delle imprese famigliari sia in senso positivo che negativo (es. il ritorno di questo
tipo di impresa che continua a seguire il modello britannico). Colli non ha giudizio negativo a
riguardo.
Geoffrey Jones considera “the rise of the rest” nella storia d’impresa globale, intendendo per “rest”
i paesi non occidentali che emergono o meno (es. Africa) e analizzando il perché in questi paesi ci
sia o meno lo sviluppo d’impresa.

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LA STRUTTURA DELL’IMPRESA
NELL’800 E NEL 900
Come si configura l’impresa? Come si trasforma?
La struttura dell’economia italiana: per struttura dell’impresa si intende vedere in che modo
l’impresa fa parte di un modello economico come quello italiano. Tra le uniche fonti ci sono i
censimenti sia industriali sia della popolazione.

Nell’economia
italiana il numero
degli addetti alle
attività
industriali per
macro-settore
con una
declinazione
manifatturiera e
non, raddoppia
dall’unificazione
italiana ad oggi.
Dietro questo
dato c’è la partecipazione delle donne, la crescita di alcuni settori... L’industria manifatturiera
inoltre rappresenta una parte importante dell’industria.
Nel 1951 l’Italia è ancora un paese prevalentemente agricolo. Dal 1961, l’industria comincia a
prevalere sull’agricoltura in termini di occupazione, quindi si può parlare di affermazione della
rivoluzione industriale italiana. Nel 1981, i servizi
superano l’industria (la fetta maggiore della
popolazione è impiegata nei servizi) e quindi il
percorso italiano è un latecomer, è in ritardo. Tra il
’51 e l’81 cambia il mondo, in arco un tempo
abbastanza ristretto. I Paesi leader seguono questo
percorso con una gradualità ed in tempi più recenti;
la Spagna è in ritardo di circa 15 anni rispetto
all’Italia. L’Italia diventa un paese industriale in
fretta e per poco tempo.
Gli occupati dell’industria sono dunque la
maggioranza solo nelle rilevazioni del 1961 e del
1971, nonostante il fatto che essa costituisca l’asse
portante di tutte le economie sviluppate.
Il Giappone agli inizi è peggio dell’Italia, inizia a
industrializzarsi dopo l’Italia ma molto più
rapidamente. Il Regno Unito nel 1871 aveva già
finito la rivoluzione industriale e si stava già
terziarizzando.
Questa tabella mostra come sia diverso questo
processo nei vari Paesi.

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Il settore manifatturiero raggiunge in Italia la
massima importanza all’interno dell’industria
nel 1970. Viene ridimensionato in seguito con
lo sviluppo del settore terziario. Nel 2009 il
tetto più alto del peso occupazionale
dell’industria manifatturiera è quello dell’Italia
e della Germania. L’Italia è la seconda
agricoltura d’Europa dopo la Francia e il
secondo turismo dopo la Spagna e la seconda
manifattura dopo la Germania.

La distribuzione mostra il prevalere dell’area


lombarda, e rimane il leader ancora oggi. Il Veneto
supera il Piemonte mostrando lo spostamento del
baricentro industriale italiano dal triangolo industriale
al nord-est-centro. Appare (confrontando con altri
dati) anche come nel sud esista un mondo non censito,
che fa economia ma non alla luce del sole (ciò non
toglie che il divario c’è).

Nell 1961 vi sono flussi migratori dal sud al nord


Italia, dall’Italia al Belgio, Francia e Germania. Vi
sono inoltre una serie di problemi (periferie degradate,
sovraffollamento, problemi di istruzione, di igiene ed
istituzioni fragili perché nuove, per non parlare dei
costi sociali non indifferenti).
Negli anni 70 principalmente 3⁄4 degli occupati sono nell’industria manifatturiera.

Nel processo di industrializzazione italiano si


possono distinguere 2 fasi:
1. una prima fase, fino agli anni ’60, in
cui prevalgono le industrie leggere
(2/3 degli occupati): tessile,
alimentare, tabacco, pelle e legno;
2. una seconda fase in cui crescono
quelle pesanti (oltre il 50%):
meccanica soprattutto, siderurgia,
chimica.
Il settore tessile si ridimensiona in questa
seconda fase. Però rimane più a lungo a
livelli significativi perché rappresenta
l’originalità del modello italiano.

Invece, nello sviluppo dell’industria manifatturiera si distinguono due modelli:


1. Allargamento della base occupazionale ed un forte mutamento strutturale (con gradualità
l’industria pesante tende a prevalere su quella leggera);
2. Contrazione della base occupazionale (crescita terziario) e stabilità della specializzazione
settoriale (l’industria leggera non torna a superare l’industria manifatturiera pesante).

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Dal 1911 al 2001, il numero medio di addetti per
unità locale (per impresa) nell’industria italiana
aumenta del 40% e sino al 1981 è caratterizzato
da una crescita costante; nelle ultime tre
rilevazioni la dimensione media cala
significativamente, soprattutto nell’industria
pesante.

Nel 1911 si evidenzia un’economia senza grande


industria (le unità con meno di 10 addetti impiegano
il 40% dell’industria manifatturiera) Mentre dal
1927 al 1971 si verifica un aumento del peso degli
impianti di grandi dimensioni, che in seguito cala.
Nel 2001 più di un quarto degli addetti all’industria manifatturiera sono collocati in microimprese
con meno di 10 addetti; cresce la quota attribuiti alla classe dimensionale 10-50 addetti. Dal 1981
nel complesso risulta evidente l’ascesa delle imprese di dimensioni intermedie (50-100 addetti)
come nuove protagoniste dello sviluppo industriale italiano.

Vi sono quindi due fasi:


1. prima (dall’inzio agli anni 60) in cui la crescita dimensionale è dovuta ad un aumento del
peso delle grandi unità;
2. la seconda (con gli anni ’70-’80) con la riduzione della dimensione media spiegata dal calo
marcato della classe superiore, compensato dallo spostamento dalla classe inferiore (meno di
10 addetti) a quella intermedia (10-49).

Si evidenziano quindi due fasi distinte nello sviluppo manifatturiero italiano (prima degli anni ’70 e
dopo) con differenze rispetto ai competitori industriali. La prima fase è caratterizzata da:
- tecnologie della seconda rivoluzione industriale
- impresa fordista
- allargamento matrice settoriale (si va a completare il quadro dei settori attivi in Italia)
- crescita occupazione industriale
- triangolo industriale (nord-ovest)
- crescita dimensionale dell’impresa nella sua classe superiore
La seconda fase è caratterizzata da:
- contrazione occupazionale
- espansione di nuove aree regionali (nord-est-centro)
- stabilità nelle specializzazioni settoriali (il settore manifatturiero pesante rimane prevalente
ma smette di crescere)
- espansione della piccola e media impresa
Dal 2001 si crea una nuova discontinuità con un lieve ritorno all’aumento dei livelli occupazionali,
dei settori dell’industria pesante e delle classi dimensionali medio-grandi. Evidente è anche la
divergenza rispetto ai paesi leader e una maggiore somiglianza con i paesi in via di sviluppo.
17
POTERE DI MERCATO, PROPRIETÀ E
CONTROLLO DELLE IMPRESE
Il tema della proprietà e del controllo delle imprese evoca quello del loro potere di mercato,
dell’arretratezza relativa di un paese che insegue imitando tecnologie e modelli organizzativi e del
capitalismo monopolistico (ruolo del capitale finanziario). In generale il mercato italiano si è
dimostrato troppo piccolo (economicamente, per quanto riguarda la domanda interna, quindi di
conseguenza può sostenere poche imprese) e a causa di ciò si alimentavano relazioni stringenti tra
banche, stato e imprese (a volte molto clientelari). La crescita economica era limitata a causa di
arretratezza, carattere monopolistico e intrecci politici. Le imprese stesse avrebbero favorito la
limitazione del mercato per mantenere privilegi: questa è una delle accuse che si rivolgono alla
storia della Fiat.
Alcuni ritengono invece che il modo in cui si è organizzata l’impresa italiana (spesso in gruppi)
abbia funzionato (anche oggi infatti siamo secondi in molti ambiti, quindi non primi ma nemmeno
ultimi).

La concentrazione è la misura del potere di monopolio. L’elevata concentrazione è un’imperfezione


del mercato perché nel mercato perfetto non ci sono gruppi dominanti. Il mercato ideale sarebbe la
concorrenza perfetta.
Più la quota di mercato è nelle mani delle imprese, più è grande il potere di mercato di quelle
imprese. Meno sono le imprese, più si va verso il monopolio. Più imprese ci sono, meno potere di
mercato hanno le imprese.
Altri studi dicono che l’Italia non è così caratterizzata da grandi imprese monopolistiche e
sembrerebbero esserci bassi livelli di concentrazione perché prevalgono le piccole e medie imprese.
Misurare i livelli di concentrazione in un mercato non è facile. In primis bisogna decidere quali
criteri utilizzare:
- Numero degli addetti (se un’impresa ha tutti gli addetti del settore è monopolio)
- Attivo totale
- Fatturato
- Valore aggiunto
In genere si usa l’indicatore C4, ovvero la
quota percentuale della variabile scelta
delle prime quattro imprese nel mercato.
Per esempio si prende in considerazione
l’attivo totale delle prime quattro imprese
di un settore e si confrontano con il settore:
se questa percentuale rappresenta il 90%
dell’attivo totale del settore c’è un
oligopolio. Se controllano l’1% dell’attivo
totale significa che ci sono moltissime
imprese che operano in quello specifico
settore.
Nella tabella si vede che sono
monopolistici i settori che hanno un C4
maggiore dello 0,59. Nel settore
manifatturiero in generale si può notare una
certa competitività. Se si considera uno
settore specifico del settore manifatturiero c’è una incoerenza: alcuni sono monopolistici. Nel 1913

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8 settori sono monopolistici. Nel settore delle gomme c’è solo un’impresa, ovvero la Pirelli (che
rimane monopolistico anche se si aggiungono altre imprese). Nel 1971 c’è una maggiore
competitività e meno settori monopolistici.

Si può ragionare anche in termini di


concentrazione aggregata, ovvero la
quota di attivo coperta dai diversi
segmenti del settore delle imprese. Le
prime 200 e 100 imprese coprono
sempre un fetta consistente del totale,
rappresentando in Italia una realtà con
poche imprese molto grandi e
moltissime di dimensioni ridotte.

Ma cosa determina mutamenti significativi nella concentrazione? Le economie di scala e le barriere


di costo assolute (le spese di impianto, le cose necessarie da attivare per cominciare). Dopo la
Seconda guerra mondiale la bassa concentrazione si ricollega proprio all’apertura commerciale del
periodo. Per esempio le industrie di elettrodomestici esportavano molto della loro produzione.
Negli anni poi 1961-1971 prosegue un modello industriale flessibile che non si aggiorna dal punto
di vista delle attrezzature ma insegue la domanda.
Con il prevalere dell’approccio microeconomico l’interesse per il tema della concentrazione è calato
(perché l’interesse è il case study) anche se risulta evidente la concentrazione aggregata più bassa
rispetto ai paesi concorrenti.
Negli anni 80 c’è un calo della grande impresa a causa:
- della ristrutturazione indotta dall’inflazione degli anni 70
- delle nuove “tecnologie flessibili”

I GRUPPI DI IMPRESE

La concentrazione complessiva aumenta significativamente nel 1960 in cui c’è un’espansione


economica fortemente concentrata
nell’industria. L’introduzione dei gruppi
cambia profondamente la struttura competitiva
dei settori, infatti calano quelli competitivi e
prevalgono quelli semi-competitivi e
monopolistici (seconda Rivoluzione Industriale
+ economie di scala).
La realtà dei gruppi d’impresa è una realtà
caratteristica del capitalismo italiano e mostra
una maggiore concentrazione (il gruppo
comprende più imprese). Non è facile definire
il profilo del gruppo perché non ci sono i dati
sulle partecipazioni azionarie.
Rimodulando il C4 non sulle prime quattro
imprese ma sui primi quattro gruppi si vede
che la realtà è molto più monopolistica e concentrata. L’apparenza dell’impresa singola nasconde la
forza dei gruppi. È difficile inquadrare i gruppi ma i gruppi ci sono.

Il gruppo è una strategia di crescita che crea insiemi di imprese tra loro legate da intrecci azionari
con lo scopo di garantire il controllo su politiche e strategie. È una ricerca di una forma efficiente di
organizzazione.
19
Secondo molti studiosi vi sono meccanismi di controllo che rappresentano il capitalismo italiano in
un senso “collusivo” e ciò porterebbe ad una limitata contendibilità delle proprietà delle imprese.
Dopo la Seconda guerra mondiale, pochi grandi gruppi esercitavano un predominio sulla vita
economica nazionale. I gruppi non hanno impedito il miracolo economico. Ci sono stati episodi che
hanno cercato di rompere lo schema dei gruppi, per esempio quando negli anni ’60 lo stato ha
nazionalizzato l’energia elettrica (questo ha portato alla rottura del potere che alcuni grandi gruppi
avevano in questo settore).
Altri credono esista un’élite finanziaria che supera l’esistenza di gruppi, come pure l’esistenza di
due poli industriali distinti: quello privato e pubblico. Altri ancora pensano sia fondamentale il
ruolo dell’industria di stato fino agli anni 70.

Le imprese possono essere suddivise in gruppi con all’interno diversi componenti. Un componente
arriva a comprendere per un settore anche la maggioranza delle imprese.
Da questo momento si evidenziano 2 fasi storiche:
1. Fino al 1936, in cui il sistema si regge sul rapporto tra imprese industriali e poche grandi
banche.
2. Dal 1952 al 1972, in cui le grandi banche miste sono sostituite da nuovi soggetti finanziari.

Si intuisce quindi una realtà nella quale il gruppo


gerarchico esiste e persiste. Ha nella maggior part
dei casi una struttura piramidale e collega imprese
giuridicamente autonome ma connesse da legami
azionari.
Al centro si posiziona una holding che a volte
utilizza più subholding mentre ai vertici di queste
holding non ci sono solo le grandi famiglie
(Agnelli) ma anche banche o multinazionali. I
gruppi prevalgono nei servizi (finanza e
assicurazioni) e nella manifattura di grande
dimensione (Fiat).
Nel 1993, agli esordi delle privatizzazioni, i primi
venti gruppi sono quelli elencati nella tabella. Il
primo gruppo nel 1994 è l’Iri, quindi un gruppo
pubblico, che controlla 442 imprese. Nell’Iri
c’erano delle subholding per settore. Anche l’Eni
appartiene allo Stato.
La Banca d’Italia svolge una funzione pubblica
ma aveva un azionariario privato.

In termini di densità l’Italia si posiziona sotto la Germania e sopra la GB; nel lungo periodo la
coesione è alta sino al 1960 e poi decrescente (tecnologie ICT e legislazione per la concorrenza);
Altri studi recenti (Colli e Vasta 2010) propongono tipologie di gruppi: privati (Fiat, Pirelli, Falck),
pubblici (Iri), monosettoriali (elettrici sino all’Enel; ), misti (manager pubblici e capitale privato,
Montecatini), ad elevata diversificazione (De benedetti: Olivetti + Buitoni/Perugina + Mondadori);

PROPRIETÀ E CONTROLLO

Per la valutazione del potere delle imprese, migliori sono i sistemi di proprietà e di controllo,
minore è il rischio che proprietari e manager facciano prevalere i loro interessi rispetto a quello
dell’impresa.

20
Ma per esserne sicuri sono necessarie due condizioni:
1. sistemi istituzionali che garantiscono che la proprietà sia determinata da un mercato
efficiente (Borsa);
2. una governance che impedisca ai controllori di perseguire obiettivi diversi dal profitto degli
azionisti.

A questo punto si confrontano 2 tipi ideali di sistema:


- le economie libere di mercato con meccanismi concorrenziali puri, ovvero il caso di USA e
Regno Unito (con regole particolari, come quelle a tutela degli investitori istituzionali);
- le economie coordinate con relazioni collaborative, cioè scambi di informazioni in reti o
gruppi, come in Europa e Giappone (maggiore controllo da parte delle banche, con rischi di
accordi banche-imprese); c’è una minore predisposizione all’innovazione, data la minore
concorrenza

Nel caso italiano dal 1933-36 (con Iri + legge bancaria) sino alle privatizzazioni degli anni 90, il
protagonista è lo Stato.
Il modello di controllo delle imprese italiane è originale rispetto ai due sistemi prima descritti
perché c’è l’economia di mercato ma con una forte influenza dello Stato. L’industria di Stato
emerge con con le criticità del ’29-’32 e nelle fasi successive prosegue. In questo modo la politica
privilegia obiettivi diversi dall’efficienza dell’impresa: può affrontare questioni sociale come
l’innovazione, come i grandi investimenti e il dualismo economico nord-sud (anche se non è stato
affrontato).

Il sistema di proprietà e controllo implica:


- l’elevata concentrazione della proprietà
- l’estesa presenza della proprietà famigliare con un sistema di holding
- gruppi piramidali
- patti di sindacato e clausole statutarie rispetto alle trasformazioni societarie
- forte presenza dello Stato proprietario, che incide in un senso di concentrazione di proprietà

Questo schema si rompe dal 1993: è stato liberalizzato il credito quindi è stata data la possibilità a
tutte le banche di fare investimenti (anche straniere) e anche ad altri istituti finanziari è stato
concesso di partecipate al capitale delle imprese.
Le privatizzazioni sono state un modo per superare la presenza dello Stato come gruppo.

In conclusione il sistema italiano delle imprese manifatturiere appare poco concentrato; esistono
però differenze tra i settori. Considerando i gruppi, il potere di mercato delle imprese risulta molto
maggiore e questi prevalgono nel sistema italiano ma con modelli differenziati in base alle
caratteristiche della proprietà e alla diversità delle strategie di crescita. Nel capitalismo italiano il
ruolo della politica è dunque pervasivo ed influente al massimo.

21
LA GRANDE IMPRESA
Alfred Chandler dà molta importanza alla grande impresa perché è protagonista di un triplice
investimento in impianti, management e marketing. Ha molti dipendenti, quindi, ha bisogno di
qualcuno che li governi, il management.
L’economia di scala che queste imprese producono sono una ragione per cui queste durano di più.

Il grafico considera l’attivo delle 200 grandi


imprese italiane e lo rapporta al PIL. Il top 200
manufatturiero segue lo stesso percorso del top
200 collettivo mentre per quanto riguarda i servizi
c’è stata una lenta ascesa con un’impennata in
tempi recenti. Nonostante la rilevanza della
piccola media impresa in Italia, la grande impresa
ha un peso rilevante sul PIL.
Fino agli anni ’70 c’è stata una crescita constante,
con poi una crisi causata dalla globalizzazione.
L’impresa dei servizi è stata invece stabile fino al
’52 (parliamo della grande impresa e non del
settore in generale) e la terziarizzazione della
grande impresa comincia in seguito.

La struttura settoriale nelle prime 200


grandi imprese tra il 1913 e il 2001
non è così diversa.
Le imprese manifatturiere sono
cresciute fino al 1971per l’apogeo del
paradigma fordista.
Anche le utilities crescono fino al
1936 ma poi vi è un calo evidente
soprattutto dopo la nazionalizzazione
dell’energia elettrica. Nel 2001 la
situazione migliora grazie alla
liberalizzazione dell’energia e alle
multi-utility (società multi servizi)
locali.
Le imprese dei servizi iniziano a
salire dal 1952.

Agli inizi del 900, c’è una rilevanza di tessile e abbigliamento (quindi la grande impresa è ferma
alla prima rivoluzione industriale) che rappresenta una forte differenza rispetto agli altri paesi
industrializzati anche in termini di scarsità di imprese metallurgiche; vi furono maggiori analogie
per chimica e trasporti, specie con il caso britannico per quanto concerne la produzione di beni di
consumo.
Dopo la Seconda guerra mondiale rimane significativo anche se in calo il tessile, ma soprattutto
emergono il petrolifero, le macchine elettriche, la metallurgia. Negli anni della Golden Age fino al
1971, i settori tradizionali (tessile, abbigliamento, alimentare) si irrigidiscono nuovamente mentre

22
crescono fortemente stampa, minerali non metalliferi (cemento), meccanica (elettrodomestici) e
macchine elettriche (informatica). Negli ultimi 30 anni, si è verificato un adattamento alla terza
Rivoluzione grazie anche alla crescita delle imprese ICT e dei trasporti; cresce anche l’alimentare e
la pelle con le espressioni dei marchi Made in Italy.
Confrontandoci con gli altri Paesi stiamo parlando di convergenza di schemi settoriali ma non da un
punto di vista dimensionale (nel 1917 la 200esima grande impresa negli USA sarebbe stata settima
in Italia perché le grandi imprese italiane mediamente sono più piccole).

Le grandi impresi dei servizi fino al 1952 sono instabili ma che poi si riprendono. Nel 1913 il 60%
delle imprese opera nel settore dei trasporti, nonostante la nazionalizzazione delle ferrovie del 1905.
Inoltre, sono rilevanti
altri due settori:
commercio e
immobiliare. Tra la
prima e la seconda
guerra mondiale vi è:
- una riduzione dei
trasporti
- un aumento delle
società
immobiliari
- un commercio
stabile
- aumento
dell’importanza
della telefonia
Dopo la Seconda guerra mondiale c’è stato un calo immobiliare ma una notevole crescita di
trasporti marittimi.
La Golden Age era caratterizzata da numerosi cambiamenti, quali: la crescita del commercio
(vendita di auto e vendita al dettaglio), la crescita di società ausiliarie nei trasporti (per la gestione
delle autostrade) e la crescita di società di servizi alle imprese.

23
Durante la fine del 900, si affermano le società ICT, trainate dal settore delle telecomunicazioni.

Secondo Chandler le grandi imprese emergono di


fronte a dei mutamenti tecnologici importanti,
conservando un vantaggio competitivo nel tempo
ma in realtà, soprattutto nel caso italiano, ci sono
numerosi cambiamenti (turbolenze) nella
popolazione delle grandi imprese italiane; quindi
non è per niente facile consolidare il primato una
volta raggiunto l’apice del ranking.
Nel campo manifatturiero, solo 8 imprese sono
presenti nelle prime 200 in tutti gli anni
benchmark e non sono nemmeno imprese leader
dell’industria italiana (tranne Fiat e Ilva che sono
costantemente nelle prime posizioni del ranking); i
periodi in cui c’è stata maggiore turbolenza sono
stati gli anni tra il 1981-91 e il 1991-2011 (terza
Rivoluzione) mentre nei servizi la turbolenza è
ancora maggiore poiché sono 773 imprese su 1176
che compaiono una volta sola e i periodi di
maggiore turbolenza sono stati dal 1913 al 1921,
1936-1952 e 1971-81.

Lo Stato influenza fortemente lo sviluppo della grande impresa, infatti, all’inizio del 900 l’Italia è
ancorata alla realtà della rivoluzione industriale e mostra uno squilibrio/ritardo con una percentuale
molto alta rispetto ad esempio alla Germania che ormai è molto più avanti [infatti, ciò che da noi
era grande (500 dipendenti) all’estero bisognava moltiplicarlo x 10 o x 50].
La tabella indica in
grassetto le imprese
pubbliche e alcune si
vede che passano da
essere private a
pubbliche. Agli inizi si
evidenziano società
non statali ma che
vengono poi salvate
dallo Stato, come
l’Ilva. Dagli anni 30
cresce il numero di
società statali in alto
nel ranking (Agip,
Enel). Nel 2001 non
esiste più alcuna
società manifatturiera
fra le prime 10 poiché
vi è la terziarizzazione della grande impresa italiana.
La lamentela al sistema italiano è quella che l’industria italiana è stata sempre troppo statale. Si
passa dall’industria di Stato ai servizi di Stato (nel 2001 8 delle prime 10 imprese, che sono tutte di
servizi, sono statali). Lo Stato si è impadronito del capitalismo contemporaneo.

24
Nel 900, appunto, le privatizzazioni sono qualcosa che incide sul settore anche se non sono totali
ma parziali poiché ciò significa che qualcosa sta ancora nelle mani dello stato. Delle imprese
pubbliche lo stato possiede almeno il 20% sul totale, andamento scandito dalla nascita dell’Iri
(Istituto per la Ricostruzione Industriale, ente pubblico italiano dal 1933).

Quindi cruciale è il ruolo della grande impresa manifatturiera che raggiunge il suo apice agli inizi
degli anni 70; si alternano cambiamenti di struttura (non si tratta di un percorso lineare), con
un’affermazione ritardata delle tecnologie della seconda Rivoluzione, un’affermazione più rapida,
invece, del petrolio e una contemporanea affermazione della terza Rivoluzione Industriale (più
vicina all’ICT). Per l’impresa di servizi è invece determinante la fine del XX secolo con il regime
tecnologico ICT.
Una forte turbolenza però caratterizza i settori sia manifatturieri che dei servizi.
Dagli anni 30 fondamentale era il ruolo dello Stato (già attivo in precedenza) e le imprese pubbliche
sono viste come “fattore sostitutivo” per uno sviluppo ritardatario. Lo Stato rimane protagonista
anche oggi, passando dall’impresa di Stato ai servizi di Stato.

25
LE PMI
Per alcuni la grande impresa rappresenta essenzialmente l’obiettivo da raggiungere, la forma di
organizzazione che permette di arrivare e far crescere il capitalismo; per altri invece è la fase finale
del capitalismo che si esaurisce nella proprietà statale.
In Europa la grande impresa è protagonista solo dopo la Seconda guerra mondiale e quindi
l’occupazione è maggiormente concentrata nelle PMI; in Italia, sono molte di più le PMI, anche nel
periodo della Golden Age.
Si pensa ci siano 2 motivi principali per questo:
1. le PMI rappresentano le fasi iniziali dei nuovi regimi tecnologici, in seguito però poche
imprese sopravvivono;
2. le PMI, inoltre, esistono per la loro capacità di creare nicchie di mercato o nicchie
tecnologiche (non tutte le tecnologie favoriscono le economie di scala; più flessibilità).
Altro elemento è la capacità territoriale che permette di creare sistemi locali di produzione fino ad
arrivare ai distretti industriali moderni. Altri studiosi dicono che le PMI e le grandi imprese si
necessitano l’un l’altra oppure legano la piccola impresa con il ciclo produttivo generale.

Discontinuità e continuità
Secondo alcuni studiosi questa dinamica è spiegata dalla composizione settoriale di alcune
produzioni in Italia, a “ciclo di vita” del prodotto (un prodotto viene introdotto, se viene accolto si
arriva a una maturazione, i mercati si saturano quindi si può diversificare e infine c’è un declino),
quindi dalla piccola si passa alla grande impresa in base alle congiunture. Quindi negli anni ’70 la
grande impresa è arrivata perché la piccola impresa ha seguito il ciclo di vita di alcuni prodotti. In
seguito per gli stessi motivi la dimensione si ridurrà, perché per alcuni prodotti i mercati sono saturi
o non c’è più la domanda (negli anni ’70 la crisi è stata una crisi di domanda causata dalla
disoccupazione e dalla mancanza di redditi).
Nel XX secolo la dimensione media dell’impresa era comunque più piccola rispetto agli altri paesi
europei. In Italia il fattore produttivo più abbondante era la manodopera (quindi di conseguenza a
basso costo). Un paese con scarse poche risorse naturali deve approfittarsi dell’abbondanza di
lavoro che ha. Tanto lavoro che permette di specializzarsi in un settore leggero che necessita di
meno impianti e più manodopera (es. industria naturale, tessile e artigianato).
Negli USA invece mancava la popolazione e si è meccanizzato il più possibile per sostituire il
fattore che mancava.
Considerando invece la dinamica nel tempo della distribuzione per classi dimensionali, la sequenza
declino/ascesa della piccola impresa può essere interpretata alla luce del succedersi dei regimi
tecnologici (fino al 1971, seconda rivoluzione industriale con economie di scala; dopo, ICT che
favorisce flessibilità organizzative, varietà produttive e organizzazioni non più affidate a manager
ma a imprenditori largamente diffusi sul territorio per motivi storico-sociali) . Questo insieme di
elementi fa si che emerga l’efficacia della PMI.
Fino al 1971 il vantaggio dell’economia di scala andava perseguito ma poi diminuì. Il vantaggio si
sposta verso l’imprenditorialità e verso produzioni di nicchia diffuse sul territorio per motivi
storico-sociali.

I distretti industriali
A questo punto, negli anni ’70-’80, la PMI torna protagonista rispetto a una stagione precedente,
nella quale era considerata inefficiente. Questo è dovuto al decentramento produttivo della grande
impresa, che entra in crisi e che nel fallire deve frantumarsi (quindi il risultato è la riduzione delle

26
dimensioni).La grande impresa comincia a decentrare delle produzioni e a licenziare lavoratori che
poi diventeranno imprenditori.
Dagli anni 80 le imprese si collegano tra loro per creare sistemi che si chiamano sistemi locali di
produzione (oggi sistemi industriali). Queste imprese collegate possono costituire quindi un sistema
e nascono gli studi che tendono a individuare questi sistemi. Vengono chiamati sistemi locali di
produzione quelle agglomerazioni di piccole imprese specializzate in fase di produzione di beni
omogenei in aree geografiche ben delimitate.
Si ritiene che questa agglomerazione di imprese non sia una novità ma sia frutto di una
manipolazione di materiali esteri (es. ferro), di un riconoscimento del lavoro, di una solidarietà.
Questi sistemi vengono distinti dai distretti industriali perché nella definizione vengono aggiunte
caratteristiche sociali, civili e culturali. La PMI, inserita prima in un sistema e poi in un distretto,
diventa importante perché viene vista come un’istituzione inserita in un contesto di un territorio,
che ha una struttura sociale e culturale. Più imprese devono partecipare a una parte della filiera,
quindi quello che emerge è l’interesse per la PMI.
Gli storici-economici si sono occupati di questo aspetto, poi anche i sociologi, che hanno messo in
evidenza le connessioni tra il sistema politico, la struttura sociale e l’organizzazione economica: c’è
concorrenza con l’esterno ma all’interno c’è cooperazione (cooperare per competere e non operare
per competere come fa la grande impresa). Gli economisti dei distretti prevedono quattro requisiti
affinché ci sia un distretto:
- Valori condivisi
- Diverse forme di lavoro
- Imprenditori puri (non manager, quindi che
non sanno solo gestire ma sanno innovare)
- Una scomposizione del processo di
produzione
Nel ’99 c’è la legale formalizzazione della
distinzione tra sistema e distretto: il primo è una
concentrazione di imprese piccole e medie con una
peculiare organizzazione interna; il secondo è un
sistema produttivo locale concentrato con
specializzazione produttiva di sistemi di imprese.

Nel 2001 esistevano 156 distretti. Il triangolo


industriale non è protagonista ma lo è di più il nord-
est e le Marche. Non si tratta solo di distretti
manifatturieri. Si potrebbe dire che è un ulteriore
tratto distintivo del dualismo, infatti è caratteristico
di una parte del territorio Italiano (al sud c’è molto
poco e soprattutto in Puglia).

I vantaggi del distretto sono:


- che non si deve formalizzare ogni scambio perché sono naturali e formalizzare in alcuni casi
costa;
- all’interno ha reti di comunicazione e distribuzione raggiungibili;
- può specializzarsi sui prodotti di una fase (con il rischio di non diversificare però ci sono dei
vantaggi);
- il territorio ha imprenditorialità diffusa;
- maggiore semplicità nella gestione dei processi di produzione perché le transazioni tra
imprese si svolgono attraverso rapporti prevalentemente fiduciari, fondendo cooperazione e
competizione; motivo per cui il motto del distretto era “cooperare per competere” in cui il
nemico sta fuori.
27
È stata sottolineata l’esistenza di una gerarchia delle imprese all’interno dei distretti: da una leader
(medio) dipendono in subfornitura tante altre (Merloni e DeLonghi). Insomma, i distretti italiani
passerebbero da una configurazione circolare (imprese orizzontalmente e verticalmente integrate)
ad una struttura a stella (un nucleo centrale con raggi).

In questo modo è possibile affrontare le sfide dell’economia globale che evidenziano alcuni punti
critici quali:
- i costi della commercializzazione all’estero;
- le asimmetrie informative per l’accesso ai mercati lontani;
- le economie di scala.
Ci sono anche processi selettivi all’interno del distretto: c’è concorrenza all’interno per emergere
nella fornitura di una parte specializzata. Poi esiste anche la competizione tra distretti.

Dalla seconda metà dell’800 le imprese cooperative caratterizzano il modello di sviluppo italiano
(manifattura, artigianato, servizi..). Sono generalmente imprese no-profit con una base solidaristica
e l’obiettivo è il mutuo soccorso.
Inoltre non ci sono quote di
azionariato prevalenti.
Tra il 1951 e il 2001 questo
numero di imprese è aumentato e
rilevante è stato l’aumento degli
addetti di queste imprese (quasi
triplicato).
L’impresa cooperativa condivide
con i distretti il legame per il territorio, favorisce comportamenti solidali e i legami di appartenenza:
vive in un tessuto di relazioni alle origini ma poi intercetta un’utenza che crede nel servizio offerto
e nel lavoro. C’è anche un’attenzione alla qualità del lavoro. Risponde alla concorrenza cercando di
evitare la mobilità e i licenziamenti, compensando semmai la dinamica salariale con partecipazione
alle decisioni e sostegno in termini di servizi alla persona e alla famiglia (usa altri strumenti per
evitare la mobilità del lavoro).
Si evidenzia oggi una convergenza tra le strategie delle imprese capitalistiche e quelle delle
cooperative, viste le pressioni competitive esterne, la fine della normativa fiscale di favore spesso
prevista, e la capacità anche per le coop di accedere ai mercati dei capitali attraverso forme indirette
di partecipazione. Questo ha portato critiche ai vantaggi offerti all’impresa cooperativa, che sarebbe
un vantaggio ingiustificato. Se anche le coop accedono ai mercati dei capitali allora bisogna
sostenerne anche l’onere fiscale (c’è un dibattito da questo punto di vista).

Le imprese artigiane hanno una dimensione molto piccola e hanno goduto di agevolazioni
pubbliche per sostenere le difficoltà. Sono molti i settori in cui si trovano le imprese artigiane, con
una quota significativa. La quota delle imprese artigiane cresce sulla % dell’occupazione. La
legislazione ha quindi avuto una certa efficacia (perché questa impresa è stata considerata qualcosa
da tutelare). Ci sono degli studi che diversificano questi aiuti, che non sono solo fiscali. Certi
interventi indicavano estensione del welfare (sanità, pensioni) e sostegno al reddito per imprese
marginali (marginali per la dimensione e rilevanza). Va detto anche che all’artigianato si
riconducono interventi tendenti a conservare questa presenza collegandola al turismo. L’artigianato
può trovare forza nel turismo (secondo in Europa).

IL “QUARTO CAPITALISMO” DELLE MEDIE IMPRESE

Il “quarto capitalismo” è una realtà che nell’universo della piccola impresa e nei distretti si è
presentata in situazioni di ricomposizione e gerarchizzazione (imprese che si sono scomposte e neo
28
configurate). Questo è avvenuto grazie all’intervento di alcune multinazionali, per esigenze
tecnologiche, per la necessità di creare gruppi strategici per affrontare la competizione globale. Non
ci sono solo stimoli di questo tipo ma c’è anche tutto quello che ha a che fare con il riconfigurarsi
dell’Unione Europea in senso economico: i trattati di Maastricht del ’92-’93 che devono
riconfigurare la finanza pubblica per la moneta unica. Maastricht ha determinato una nuova
disciplina valutaria, cercando di costringere i Paesi a smettere di svalutare per ottenere dei vantaggi
competitivi (le piccole-medie imprese godevano di questo perché costava di meno quello che si
esportava) e le imprese a superare l’affidamento bancario per rivolgersi alla borsa e ai mercati
obbligazionari per le proprie esigenze finanziarie per le periodiche ristrutturazioni. Tutto l’universo
delle PMI deve affrontare tematiche di questo tipo.
Sul modello della Mittelstand tedesca nasce la Mittelstand italiana, ovvero un insieme di imprese
medio-grandi organizzate a forma di gruppo con una holding, spesso a controllo famigliare e
rappresenta il quarto capitalismo italiano (dopo quello della grande impresa privata, quello pubblico
e quello distrettuale).
Ha dimensione variabile (più di 50 o 100 addetti). Operano nei settori più tipici del Made in Italy
(tessile, abbigliamento, macchine utensili specializzate) e si trovano principalmente in nord-est e
centro Italia. Hanno una forte proiezione internazionale perché è lì che trovano gli stimoli per stare
sul mercato. La struttura è quella di una holding, con spesso dietro una famiglia. Si riconosce
qualche opportunità fiscale, non essendo una grande impresa.
L’unico problema è il coinvolgimento delle famiglie: problema della successione. Non sempre ci
sono le competenze necessarie nella successione.
Tre tipologie principali: pionieri con la prima forma del quarto capitalismo (dalla fine del XIX
secolo), baby boomer (secondo dopoguerra, ovvero il periodo clue), latecomer (dagli anni 70-80:
griffes e made in Italy).

Le PMI rappresentano un periodo della storia industriale italiana. Può attribuirsi al vantaggio
comparato italiano, ovvero l’ampia dotazione del fattore lavoro, quindi a basso costo.
Configura un sistema basato sull’imprenditore proprietario.
Le PMI hanno capacità di adattamento e di cambiamento di forma così come mostrano i sistemi
locali, i distretti e il quarto capitalismo delle medie imprese. Altre letture mettono in evidenza
l’influsso del cambiamento tecnologico, quindi peserebbe meno avere il fattore lavoro a basso costo
e peserebbe di più il cambiamento tecnologico, che si adattava meglio alla PMI.
Probabilmente nel futuro, scompariranno i sistemi con minore capacità innovativa.

29
L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA
Il cambiamento tecnologico si pone al centro dei processi di crescita economica, infatti da fattore
esogeno-residuale (non misurabile dal punto di vista della causalità) per i modelli neoclassici
diventa endogeno quando si riconosce l’importanza dello stock di conoscenza disponibile in un
sistema per fare innovazione (sono importanti R&S e il capitale umano). Più si fa ricerca, più si
innova.
Dagli anni 80, si riconosce alla tecnologia un ruolo fondamentale nei percorsi di sviluppo e
bisognava saper sfruttare le opportunità delle nuove tecnologie, sapendo valorizzare le proprie
social capabilities. Non è automatico investire per ottenere: bisogna ragionare in termini di sistema
per essere all’avanguardia.
Per questo ogni paese dispone di un National System of Innovation (NSI): un sistema di istituzioni
(pubbliche e private) le cui attività modificano e diffondono le nuove tecnologie.
Si possono comprendere in questo sistema di istituzioni anche: il sistema finanziario, le routine
nelle imprese (se i protocolli non comprendono un’attenzione all’innovazione, l’innovazione non si
fa), l’efficacia nei rapporti tra sistema della ricerca e sistema delle imprese, il sistema educativo
(spesso trascurato), le reti tra istituzioni (contatti tra questi enti, che non sempre hanno la
consapevolezza di dover fare i conti con una logica di sistema).
L’impresa non solo è coprotagonista, ma anche destinataria e ha il compito di valorizzare tutti
questi elementi.

Esistono due tipi di indicatori che combinati tra loro misurano l’intensità del progresso tecnico e
sono:
1. Quelli di input: misurano la quantità di risorse che il sistema nazionale dedica alle attività di
ricerca (volume di spesa in R&S rispetto al PIL).
2. Quelli di output: capacità di realizzare brevetti.
La combinazione dei indicatori due permette di misurare il cambiamento tecnologico nel
complesso.
Il TAI (Technology Achievement Index), introdotto dalle Nazioni Unite, rappresenta la
multidimensionalità del progresso tecnico: un insieme di variabili legate alla creazione e diffusione
delle tecnologie.

Il sistema italiano della ricerca scientifica si


caratterizza nel lungo periodo per la scarsità
di risorse e secondo alcuni questo è dovuto
all’assenza di attenzione da parte dello Stato
verso la conoscenza.
C’è un forte divario tra l’Italia e gli altri paesi
industrializzati e nel 2010 siamo all’ultimo
posto, anche sotto la Spagna (che è 20 anni in
ritardo nello sviluppo economico). Questo
dato dimostra che ogni volta che si redige una
legge di bilancio ci sono delle soluzioni per
investire in ricerca.

30
La distribuzione delle spese in R&S
per settore dice che nel 1963 prevale
la ricerca svolta dalle imprese private,
in seguito cresce quella delle imprese
pubbliche (ma solo fino alle
privatizzazioni). Pubblica
amministrazione e imprese pubbliche
hanno investito significativamente in
ricerca, almeno fino al 1995, anche
perché le stesse spese dei privati
erano in realtà frutto di finanziamenti
statali.
Anche per quanto riguarda il numero
di ricercatori l’Italia si trova sotto
molti paesi (cresciamo, ma sempre
meno di altri paesi). Nei primi due anni benchmark la Spagna si trovava sotto l’Italia mentre ora
l’ha superata.

L’output è l’esito, il prodotto, il risultato dell’attività innovativa. Il dato più tracciabile dell’attività
innovativa è la brevettazione. Nel lungo periodo l’Italia non muta la sua posizione. In campo di
innovazioni spicca il Giappone ma la posizione della Gran Bretagna peggiora. E per quanto
riguarda l’andamento dei brevetti, il processo si può dividere in 4 fasi:
1. Prima guerra mondiale = forte crescita
2. Fascismo = arretramento
3. Golden Age = massimo storico
4. Post Golden Age = riduzione costante
Nella chimica dipendiamo molto dall’estero ma dopo la Seconda guerra mondiale si recupera
(testimoniato dal Nobel nella chimica del 1963) e si affermano specializzazioni nella gomma,
meccanica, tessile e nella pelletteria.
L’RTA misura il
vantaggio comparato per
un Paese; dice se un Paese
ha un vantaggio
comparato rispetto ad altri.
Per il periodo 1978-1985 e
1986-1993 l’Italia rimane
specializzata in settori
tradizionali come
l’abbigliamento, le
calzature, gli elettrodomestici e le macchine per il trasporto delle merci ma marcata è la
despecializzazione nei settori tecnologici.

Il TAI permette di partecipare con successo alla terza Rivoluzione Industriale perché punta molto su
4 aspetti:
1. capacità di creare tecnologia,
2. diffusione innovazioni recenti,
3. diffusione innovazioni consolidate,
4. presenza di skills elevate.

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L’Italia nel 2001 è al ventesimo posto; è un paese con forti difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti
tecnologici in atto a livello mondiale. Non solo ha problemi nel creare tecnologia ma anche nel
diffonderla (nel renderla un patrimonio condiviso).

Questa figura mostra sull’asse orizzontale la capacità innovativa in termini di TAI e su quello
verticale la ricchezza (PIL
pro capite). Gli USA hanno
un’alta capacità innovativa
e un reddito alto. La
Bulgari ha una bassa
capacità innovativa e un
reddito basso. L’Italia ha
una bassa capacità
innovativa (ai livelli di
Grecia e Ungheria) ma con
livello di reddito superiore
alla media. Quanto si può
andare avanti ad essere
ricco senza la capacità
innovativa? Anche la Corea
del Sud è in un quadrante
anomalo.

I fondi da destinare alla ricerca scientifica e tecnologica sono scarsi e il modello italiano appare
come esempio di adattamento “originale” ai mutamenti imposti dal susseguirsi dei diversi “regimi
tecnologici”.
Anche la fase della golden age non è frutto di appropriate politiche industriali (come in Giappone),
ma di una congruenza tecnologica congiunturale con i vantaggi comparati italiani (lavoro a basso
costo). Le politiche industriali giapponesi hanno invece molto a che fare con una spinta
all’innovazione.
Chi vede criticamente questi elementi coglie una sostanziale inefficacia nel sistema complessivo,
compreso il sistema educativo e la legislazione sugli standard industriali.

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LAVORO E RELAZIONI INDUSTRIALI
Il rapporto tra impresa e lavoro evoca diverse questioni come quelle riguardanti l’occupazione e le
sue caratteristiche, ma anche i salari e l’organizzazione del lavoro. In termini di meccanismi di
domanda/offerta il salario rappresenta il prezzo del lavoro.
Dal punto di vista qualitativo il lavoro entra nella funzione di produzione delle imprese non solo
come fattore produttivo (quanti lavorano) ma anche come insieme di competenze e abilità correlate
con le tecnologie adottate. I differenziali salariali dipendono anche da queste competenze ed abilità.
Salari crescenti comportano consumi crescenti (domanda elevata) e investimenti per soddisfare la
domanda crescente.
Inoltre, c’è il tema delle relazioni industriali (RI), in cui i sindacati svolgono un ruolo centrale, con
strumenti sempre nuovi e anche conflittuali. Questi alterano la concorrenza perfetta e agiscono
anche per ottenere riforme sociali.

È sempre stato più importante il costo del lavoro rispetto alla qualità della domanda e dell’offerta
dello stesso, come pure al funzionamento del mercato del lavoro nell’impresa o sul territorio. In
Italia il lavoro era uno dei vantaggi comparati ma se veniva a costare di più era un problema.
Tutti riconoscono che il fattore produttivo italiano più importante sia l’offerta di lavoro non
specializzato con bassi salari e ampi margini per la crescita dei profitti e degli investimenti.
Negli anni tra le due guerre ci sono stati bassi salari e flessibilità nel mercato del lavoro.
Durante il periodo della Golden Age vi è l’apertura ai mercati internazionali che ha costretto la
specializzazione in settori per i quali si poteva valorizzare offerta di lavoro disponibile intercettando
la domanda internazionale crescente.
Gli ultimi 30 anni in Italia sono stati caratterizzati dalla crescita dell’integrazione economica
internazionale attraverso 3 trasformazioni:
1. il declino della grande industria,
2. la specializzazione in beni tradizionali,
3. la deregolamentazione del mercato del lavoro e il contenimento dei salari.

Per quanto riguarda i mercati del lavoro, ci sono stati pochi studi. È stata però discussa la causa del
dualismo salariale tra grande (più efficiente e quindi capace di pagare salari maggiori, anche
diversificando all’interno) e piccola impresa (meno efficiente e competitiva quindi con salari
inferiori).
L’industrializzazione italiana è caratterizzata dal reclutamento locale (GE, MI, TO, Terni,
Piombino, Prealpi lombarde), oltre alle migrazioni dal sud dopo la Seconda guerra mondiale. Le
grandi imprese occupano maschi giovani, mentre le diffuse industrie tessili e meccaniche del nord
occupano, non solo in tempi di guerra, giovani donne.
Per il reclutamento prevale all’inizio il sistema sociale, le relazioni familiari, l’appartenenza politica
e associativa; anche quando si cerca di strutturare il collocamento prevalgono procedure informali.
Forti sono le interazioni sociali tra il mercato del lavoro e il territorio, al fine della regolazione della
conflittualità, della mobilità del lavoro specializzato, dell’attenuazione delle differenze sociali
(dipendente-imprenditore).

Il lavoro entra nella produzione non solo come costo (del fattore), ma anche come competenze e
abilità richieste nell’applicare tecnologie specifiche. Dobbiamo considerare che il lavoro italiano
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non solo è abbondante, ma portatore di competenze e mediamente priva di istruzione. Diventa
quindi problematico studiare come è avvenuto l’incontro tra questa manodopera specializzata e le
trasformazioni della prima Rivoluzione Industriale (tessile soprattutto) e del quarto Regime
tecnologico (petrolio, automobile, produzione di massima).
Nonostante l’apparente distacco tra la manodopera e le trasformazioni tecnologiche, si può
constatare che se il ruolo del capitale umano può essere importante affinché questi trasformamenti
tecnologici possano essere declinati all’interno dell’impresa, l’esperienza italiana si propone in
termini di debolezza.
Ci sono degli studi in cui si attesta che il ruolo ricoperto dall’istruzione secondaria è scarso, in sia
comparato con altri Paesi sia in senso assoluto.
Ma quindi come è stato possibile il mercato economico? Bisogna fare i conti con una realtà che è
riuscita a valorizzare esperienze e competenze acquisite sul lavoro (una specie di learning by
doing), nell’esercizio di mansioni tipiche di un mestiere praticato in impresa. Spiccano alcuni studi
sulla figura dell’operaio professionale addestrato in officina e quindi sul posto di lavoro o in scuole
interne all’impresa, senza formalizzazione dei tempi e dei metodi di lavoro.
Dal punto di vista salariale per questa figura prevale la componente variabile (il cottimo); in
condizioni di domanda crescente crescono i salari e quindi i costi, con un aumento anche del potere
rivendicativo dei lavoratori (1963, 1969).

Le piccole imprese sono caratterizzate da un sapere non formalizzato (trasmesso territorialmente) e


da flessibilità nelle competenze praticate e spesso quello del lavoratore è un sapere specifico legato
a fasi del ciclo produttivo molto segmentate (si diventa esperti di una fase perché non si possono
imparare tutte). Nei distretti si crea un circolo virtuoso che va dal sapere specifico del lavoratore
all’innovazione dell’imprenditore, che nella piccola impresa sono sinergicamente collegati.

Le relazioni industriali influenzano direttamente i risultati economici di un’impresa, di un settore e


di un Paese e in particolare esistono 2 modelli:
1. Paesi anglosassoni: le relazioni industriali implicano la negoziazione che verte su temi del
lavoro (salari, condizioni lavorative) e la rappresentanza è organizzata per mestiere o settore
con negoziazione decentrata (c’è il sindacato di tal mestiere o di tal settore). La
negoziazione è prevalentemente decentrata, ovvero nei luoghi del lavoro perché i mestieri
sono diversi.
2. Europa continentale: c’è l’apertura a temi di politica economica e la rappresentanza è
strutturata a livello centrale con negoziazione fortemente centralizzata.
La letteratura sulle relazioni industriali in Italia descrive spesso archi temporali limitati, con
influenze ideologiche sia marxiste che di orientamento liberale.
Esistono poi scarse informazioni sulle dinamiche salariali; certo è che permangono nel tempo sia la
prevalenza dell’offerta sulla domanda di lavoro, sia un’elevata politicizzazione delle rappresentanze
sindacali.

Tra le prime espressioni sindacali in Italia abbiamo le Camere del lavoro locali per
l’intermediazione tra offerta e domanda di lavoro (a livello territoriale) e le Federazioni dei mestieri
a livello settoriale (ma non di tutti i mestieri, in particolare di ferrovieri e tipografi). Nel 1901 nasce
la FIOM, ovvero la Federazione italiana degli operari metalmeccanici, che ancora oggi oggi è una
delle federazioni più potenti.
Le Camere del lavoro portano avanti istanze dal punto di vista politico: nascono come luoghi per
l’intermediazione tra domanda e offerta perché la disoccupazione è povertà e però molto
rapidamente avanzano delle istanze. Non va dimenticato che le Camere del lavoro non svolgono la
funzione di un sindacato centralizzato, ma sono importanti anche per le dinamiche politiche locali
perché interagisce con le municipalità. Nelle città dove non c’è la Camera del lavoro c’è l’Ufficio

34
del lavoro, spesso di matrice cattolica. Nel settembre del 1904 c’è stato il primo sciopero generale
promosso a Milano (generale nel senso che coinvolge più settori).
Nel 1906 nasce la CGDL (Confederazione generale del lavoro), il primo sindacato unitario dei
lavoratori, in cui confluiscono buona parte delle Camere e delle Federazioni (non vuol dire che
scompaiono, a lungo convivono ma vi aderiscono).
Lotta economica e lotta politica si mischiano sempre di più per l’arretratezza della classe
imprenditoriale che “scarica” la propria responsabilità sul ceto operaio. I sindacati volevano il
“collocamento di classe” (volevano il riconoscimento del ceto operaio in modo tale da rivendicare
diritti in termini di collocamento), le imprese volevano scegliere autonomamente la manodopera
(licenziare e riassumere liberamente). Nascono appositi Uffici pubblici misti sindacati-impresa-enti
territoriali, che stipulano contratti collettivi basati sul closed shop: le imprese del territorio si
impegnavano ad attingere ad alcune liste di persone del territorio; ai sindacati veniva riconosciuta
l’esclusiva nella rappresentanza e nel reclutamento (volevano raccogliere i lavoratori ed assegnarli
quindi le imprese dovevano cercare lavoratori presso i sindacati) in cambio di meno conflittualità.
In generale però le imprese, sfruttando l’eccesso di manodopera, continuarono con il reclutamento
informale.

La Prima guerra mondiale e il fascismo sono due spinte per cambiare le cose.
La Prima guerra mondiale è implica un intervento dello Stato nei meccanismi produttivi ma anche
l’organizzazione produttiva di tipo militare (chi non si presentava al lavoro era considerato un
disertore). Sindacati e impresa partecipano allo sforzo bellico coordinato dallo Stato (collaborazione
tra tutte le forze sociali).
Questo grande sforzo porta a una dimensione di collaborazione tra tutte le forze sociali, che
rappresenta una condizione straordinaria, fuori dall’ordinario. Il dopoguerra per questo è delicato
perché vengono promosse misure a tutela della disoccupazione (le migliaia di persone assunte
durante la guerra poi vengono lasciate a casa) e la firma da parte della FIOM nel 1919 dell’accordo
per le 8 ore giornaliere (di modernità e di riconoscimento delle condizioni di lavoro devastanti che
c’erano in periodo di guerra). Nel primo dopoguerra ci sono quindi alcuni interventi di
considerazione del lavoro.
Il tutto si rompe a causa degli squilibri sociali e del biennio rosso, con tentativi di socializzazione
delle fabbriche (le fabbriche vengono occupate e gestite comunitariamente, senza un imprenditore).
In questo momento prende quota il fascismo, che vuole superare gli elementi di instabilità
Il regime smantella quindi le istituzioni di tutela acquisite ed emargina i sindacati con la nascita
della “Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali” (tutelata dallo Stato e quindi
controllata da esso).
Nel 1925 viene firmato il patto Palazzo Vidoni, sottoscritto con Confindustria per l’esclusiva della
rappresentanza.
Nel 1926 viene promulgata la legge Rocco, con la quale viene abolito il diritto di sciopero (è control
il bene della nazione, dell’economia e dell’impresa stessa).
Nel 1927 viene redatta la Carta del lavoro, che privilegia nel collocamento gli iscritti al partito
fascista.
A partire dagli anni Trenta, il collocamento passava sotto il controllo dello Stato insieme alla
contrattazione collettiva, come pure nasceva una magistratura del lavoro che rinviava però alle
decisioni del Ministero delle corporazioni.
I lavoratori ottennero: norme sul cottimo (ovvero il lavoro remunerato in funzione della quantità),
ferie pagate (novità), indennità di licenziamento, assegni familiari. In cambio di questo però si
perdono le libertà sindacali.
Il sindacato non era una libera organizzazione, ma un organismo governativo.

Già prima della fine della Seconda guerra mondiale nasceva (rinasce) la CGIL, dove confluivano
cattolici, comunisti, socialisti (i sindacati sono uniti contro il fascismo). L’organizzazione di base si
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fondava sulle Commissioni interne (rappresentanza aziendale) e in alcuni casi sui Consigli di
gestione (organismi di stampo tedesco per la partecipazione all’amministrazione dell’azienda).

Tutto ciò tramonta, anche come esperienza di decentramento sindacale, con il 1948:
1. Accordo che pone il collocamento sotto il controllo statale (con approvazione sia di
Confindustria che dei sindacati: entrambi preferivano una contrattazione fortemente
accentrata)
2. Scissione sindacale (con CGIL di sinistra, la CISL come sindacato bianco e la UIL con una
componente socialista): c’è stato un dibattito sulle ragioni, perché hanno condizionato ciò
che succede dopo. C’è chi critica questa scissione perché rompere l’unità del sindacato
rafforza la controparte.
Tutto ciò rafforza la posizione degli imprenditori.
La legge 264/1949 regola le relazioni industriali: consolida il collocamento statale e pone il divieto
della mediazione privata, ovvero quella informale a che prevaleva (sistema mai rispettato, con
indebolimento dei sindacati che non riescono a controllare il collocamento); negli anni ‘50 si
confermano quindi bassi salari e meccanismi informali nel reclutamento (bassa conflittualità).
Con gli anni ’60, quando il miracolo economico inizia anche a cambiare la struttura sociale, cambia
il quadro: i bassi livelli di disoccupazione tornano a valorizzare il ruolo del sindacato, che torna ad
operare in maniera coordinata (senza però mai fondersi).
Nasce nel 1958 Intersind, che rompe il fronte unitario. È un’associazione imprese pubbliche. Le
imprese possedute dallo Stato decidono di organizzarsi in organizzazioni distinte rispetto a quelle
unitarie. È stata una scelta politica alla ricerca di minori conflitti e maggiori intese con la stagione
riformista della DC.

La congiuntura tornata problematica (la Golden Age finisce già nel ’62-’63) e la contestazione
portano all’autunno caldo del 1969, con un notevole spostamento del baricentro a favore dei
sindacati; c’è una forte politicizzazione dell’azione rivendicativa con vertiginoso aumento della
conflittualità (contesto delle brigate rosse, terrorismo di Stato, terrorismo nero, shock petroliferi,
disoccupazione e stagnazione, crisi valutaria). In tutto questo, politicizzare la rivendicazione è un
problema.
Nel 1970 si crea lo Statuto dei lavoratori (che formalizza una serie di conquiste): ampliamento
diritti dei lavoratori, collocamento più in mano del sindacato con la “chiamata numerica”
(comunque ancora non rispettata), interventi in tempi di crisi, ancora oggi in uso come la cassa
integrazione, punto unico scala mobile (adattamento dei livelli salariali ai livelli di prezzo,
all’inflazione), collocamento speciale per giovani.
La contrattazione diventa in parte “molecolare”, cioè decentrata a livello aziendale: situazione
difficile da gestire con sindacato politicizzato e atteggiamento strumentale delle imprese.
Il 1980 porta alla fine della conflittualità con sconfitta del sindacato. Nell’estate c’è una vertenza
alla FIAT per 14.000 licenziamenti e famosa marcia dei quarantamila. Enrico Berlinguer (leader di
un partito politico) spinge alla resistenza. In termini anglosassoni è sbagliato che un partito politico
faccia sindacato e viceversa. Viene indetta quindi una marcia per chiedere la fine delle ostilità,
moderazione e da entrambe le parti, ma soprattutto ai sindacati di porre fine all’escalation per non
portare Torino a uno scontro sociale. Partecipano quaranta mila persone e rappresenta una sconfitta
per il sindacato.

Si apre una nuova stagione di deregolamentazione e flessibilità. Il sindacato torna debole.


Con gli accordi di S.Valentino del 1983 CISL e IUL sottoscrivono la disponibilità a rinunciare a
quello scatto di scala mobile, all’ancoraggio dei redditi all’inflazione (perché l’inflazione cresceva e
di conseguenza anche i salari e questo portava a un nuovo aumento dell’inflazione e così via).
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Ci sarebbe stata però una fase di scarso adattamento salariale all’inflazione e la CGIL non ci sta,
quindi sottopone a referendum il provvedimento di abolizione della scala mobile. Il referendum
però non passa.
Cosa influisce nel mondo del lavoro affinché rinunci alla scala mobile? La consapevolezza
dell’affermarsi delle nuove tecnologie e l’emergere della piccola impresa. Diminuzione dei diritti ed
emergere del “nero” (per compensare il mancato adattamento all’inflazione).
Comincia ad affermarsi la cultura del neoliberismo, che si fa forte della logica della
deregolamentazione.
Dal collocamento alle condizioni di stabilità del lavoro, tutto viene rimesso in discussione secondo
una logica di liberalizzazione dei mercati e di concertazione (stato-imprese-sindacati) nelle scelte di
politica economiche, specie dopo la crisi valutaria del 1992. Si ritorna alla mano invisibile della
libera concorrenza. Iniziano quindi una serie di interventi liberalizzanti.
Pacchetto Treu 1997: accettare la logica delle imprese di collocamento private e il decentramento
delle competenze in tema di collocamento alle regioni. Lavoro interinale.
Legge Biagi 2003: rapporto di lavoro come rapporto di mercato individuale (moltiplicazioni di
forme contrattuale come esito dell’accordo tra le parti).
Riforma Fornero 2012: più radicale liberalizzazione del mercato del lavoro (alla ricerca di una
maggiore flessibilità ma con il rischio della precarietà).

L’elevata offerta di lavoro non specializzato è il tratto distintivo del sistema Italia.
L’Italia è caratterizzata dal lavoro non specializzato in cui vi sono 2 modelli interpretativi:
- bassi salari come occasione per l’accumulazione industriale di base.
- bassi salari come condizione per sviluppare i vantaggi comparati del paese da inserire nella
competizione internazionale.
Le diverse fasi dello sviluppo nazionale si possono leggere diversamente a seconda del modello
adottato.
Le caratteristiche del mercato del lavoro influenzano le relazioni industriali: debolezza sindacale,
lentezza nel riconoscimento delle libertà sindacali, eccessiva politicizzazione dei sindacati,
arretratezza della classe imprenditoriale, al cui interno sono prevalsi orientamenti di pieno controllo
sull’impresa (rifiuto dei comitati di gestione e dell’accettazione di una condivisione con chi è parte
dell’impresa).

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IL FINANZIAMENTO DELLE IMPRESE
Gli strumenti finanziari ed i mercati in cui questi operano hanno come scopo l’attenuazione dei
costi di acquisizione delle informazioni e dei costi delle transazioni per le imprese quando operano
nella raccolta delle necessarie risorse per produrre. L’economia è spesso asimmetrica da un punto di
vista informativo quindi costa avere l’informazione migliore.
Il costo più consistente in età moderne era l’usura: oggi il mercato finanziario ha superato l’usura,
che non può mettere il tasso di interesse a piacimento.
I sistemi finanziari svolgono 5 funzioni:
1. fanno circolari informazioni sulle imprese
2. determinano condizioni di controllo dei creditori sui debitori (quando io presto qualcosa, lo
faccio a certe condizioni, mi servono delle garanzie)
3. riduzione rischi di investimento
4. raccolgono risparmio
5. facilitano transizioni

Sistemi basati sulla banca (bank oriented)


Risponde meglio al free riding dei mercati (meccanismo per cui si acquisiscono di informazioni da
usare senza averne sostenuto i costi). C’è un forte legame forte tra finanza e impresa (l’istituto di
credito offre migliore sorveglianza) e c’è migliore controllo sulla corporate governance: la banca
può prevedere dei suo consulenti all’interno del consiglio di amministrazione per controllare il
finanziamento. La banca è molto più prudente rispetto al mercato perché condivide direttamente il
costo del fallimento. C’è una minore liquidità di sistema perché le banche non sono infinite e non
hanno denaro infinito; possono però gestire una migliore articolazione intertemporale dei rischi.

Sistemi basati sui mercati (borse, market oriented)


Evitano i rischi che le banche stesse estraggano rendite da rapporti privilegiati con le imprese (dopo
che si fidelizzano i clienti le banche non offrono più il migliore tasso di interesse), hanno maggior
attitudini a sostenere attività innovative (banche sono più prudenti ed avverse al rischio). Ci sono
poi forme di gestione del rischio più affinate: le banche gestiscono il rischio pluri-affidando e
diversificando l’investimento; nella borsa può fare dei ragionamenti liberi dalle tempistiche.
Inoltre la borsa è libera dai rischi di collusioni imprese-banche.

Il valore delle azioni dice quanto il sistema


è orientato al mercato. L’Italia del 1978 ha
il valore più basso.

Nella seconda tabella si prendono i prestiti al settore


privato e si calcola il valore di scambi di Borsa. Se il
valore è 1 significa che tutto passa dalla Borsa. Nel
1988 solo lo 0.04 era Borsa, tutto il resto passava
dalle banche.
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I paesi anglosassoni registrano la prevalenza del finanziamento attraverso la borsa, con convergenza
degli altri ma solo dopo la Seconda guerra mondiale, mentre nel caso di Italia e Francia dopo le
liberalizzazioni (privatizzazioni) dei primi anni ‘90. Le privatizzazioni hanno usato il canale della
Borsa, che però è poi risceso (vedi tabella sopra).
In Italia il peso delle attività di Borsa rispetto al credito totale è nel lungo periodo modesto con 3
fasi di maggiore dimensione:
1. età giolittiana,
2. anni 60,
3. fine anni ‘90 fino al 2007.

La struttura bancaria italiana comprende:


- Banche ordinarie di medio-grandi dimensioni, private e pubbliche
- Istituti di risparmio di dimensioni piccole senza fini di lucro e su base solidaristica (casse
risparmio, banche popolari, casse rurali-BCC)

Le banche ordinarie hanno una forma di centralizzazione del credito: la banca deve erogare credito
facendo conto con le voci di bilancio della banca quindi ogni filiale deve fare i conti con le risorse
disponibili a livello centrale.
Hanno avuto un grande ruolo nel finanziare le imprese nel periodo fine ‘800- 1933: dal periodo
dello sviluppo industriale che ha bisogno di risorse per crescere alla nascita dell’IRI, che porta alla
nazionalizzazione di due grandi banche. Queste banche diventano pubbliche quindi il loro ruolo di
finanziamento alle imprese lo svolgono in qualità di banche pubbliche, nonostante la legge bancaria
del 1936, che vietava alle banche pubbliche di avere partecipazioni alle imprese.
Per questo negli anni ‘70 ci sono delle crisi e cresce l’esposizione formalmente a breve termine
delle imprese verso le banche: le imprese avevano bisogno di soldi ma le banche non potevano fare
questo tipo di investimenti, ovvero di prestito a lungo termini, perché era vietato.
Tutto cambia nel 1993 con il testo unico bancario, che concede di nuovo alle banche di fare questi
investimenti. Inoltre, dal 1992, la privatizzazione coinvolge anche il sistema bancario.
La banca universale finanzia l’attività industriale (fa prestiti di lungo termine), opera in condizioni
di stabilità monetaria e tassi di interesse controllati dalla banca centrale, agisce mediante aperture di
credito (apre delle pratiche per prestare), anticipazioni (rispetto ai redditi che conseguiranno coloro
a cui vengono prestati i soldi), investimenti diretti in azioni e partecipazioni, fino agli anni ‘20
sconto di cambiali finanziarie.
L’istituto di risparmio è decentrato e privilegia la logica di rete. È una molteplicità di banche
capillarmente diffuse sul territorio, è legato a piccole e medie imprese, non richiede coordinamento
con la politica economica (perché gestiscono le loro risorse anche a breve termine), usa cambiali,
avalli e sconti.

L’Italia nel XIX secolo aveva poche banche universali (ovvero un po’ più grandi e che svolgono
anche attività di investimento e queste sono il Banco di Roma, Comit, Credit e SBI) che
sostenevano con capitali prevalentemente tedeschi le grandi imprese industriali del nord (tessile e
poca siderurgia). In più, non solo prestavano ma gestivano una gamma di operazioni finanziarie
come le trasformazioni societarie e le ristrutturazioni interne (realizzare investimenti per
organizzarti diversamente). Erano poche e non grandissime; inoltre non sempre finanziavano le
imprese innovative, erano prudenti.
Per investimenti rilevanti bisognava comunque ricorrere alla Borsa, che fino alla crisi del 1907
svolge un ruolo significativo, anche per le banche stesse che potevano trasferire i rischi e recuperare
liquidità rivolgendosi al mercato mobiliare. La crisi del 1907 impedisce questo trasferimento, per
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cui le banche si ritrovano un alto volume di riporti e nessuna garanzia, per cui interviene la Banca
d’Italia che indirizza, verso le banche miste in crisi, la liquidità delle filiali e delle istituzioni
pubbliche. La Prima guerra mondiale porta inflazione e profitti altissimi per le imprese, per cui le
imprese si emancipano dalle banche. Però è anche un tempo di fusioni tra imprese per raggiungere
grandi dimensioni ed economie di scala che corrispondono a complesse architetture finanziarie
indipendenti dal sistema bancario, anche emettendo obbligazioni (cosa che le PMI non potevano
fare).
La svolta deflazionistica del 1926 lega di più banche e imprese, anche per le condizioni di alti tassi
di interesse richieste dal cambio, ma è soprattutto la crisi del 1929-1934 a chiudere l’esperienza
delle banche miste. Le banche in questione vengono allora pubblicizzate, e le quote di imprese
detenute vengono rinviate ad una holding pubblica: l’IRI, che viene a detenere i pacchetti azionari
tolti dai bilanci di queste banche.
La legge bancaria del 1936, separa l’attività bancaria da quella di investimento e si afferma un
nuovo sistema di intermediazione con le imprese pubbliche che emettono titoli a reddito fisso.
Dal 1947 il ruolo delle maggiori banche nelle attività di investimento era molto ridimensionato: le
imprese private avevano i profitti, le imprese pubbliche si finanziavano con le obbligazioni (che
sono come mini titoli di Stato perché sono emesse da imprese di proprietà dello Stato), la Banca
d’Italia ed il sistema politico democratico (DC) valorizzano soprattutto le banche di credito
ordinario locali, di minori dimensioni ma legate al territorio, a cui si permette di fare prestiti a breve
termine (anche se erano alle imprese, chiudendo un occhio, perché non si potevano rivolgere tutte
alle grandi banche che erano poche).
La crisi degli anni 70 porta le imprese ad indebitarsi con le banche e cresce anche l’inflazione. Il
costo di questo debito cresce quindi con l’inflazione. Ci si indebita anche a breve termine, che è
molto costoso.
Si cerca di attivare nuovi strumenti finanziari come i fondi di investimento ma la crisi della borsa
del 1987 rallenta la strategia. Nascono in questa fase anche le prime authorities come la Consob nel
1974, Isvap nel 1982 e Agcom nel 1990. Nascono come enti di vigilanza sulla Borsa, sul
commercio, per i consumatori nascerà più avanti il Codacons. Tutto questo avviene in condizione di
stabilità monetaria perché dopo la dichiarazione di Nixon dell’inconvertibilità del dollaro in oro il
sistema di cambi fissi (che aveva regolato il rapporto tra valute) salta e inizia una instabilità
valutaria. I rapporti e instabili tra le valute erano un costo altissimo per le imprese e ci sono settori
che si sgretolano (chimica, auto ed elettronica).
Dagli anni 90 si affermano la liberalizzazione finanziaria (con il Testo unico bancario del 1993) e le
nuove logiche dell’integrazione economica europea con la liberalizzazione del movimento dei
capitali, il ritorno dei finanziamenti diretti delle banche ordinarie alle imprese e la privatizzazione
delle banche pubbliche. Banche e Borsa tornano a funzionare come in età giolittiana, verso
l’instabilità finanziaria dell’ultimo decennio.

Per corrispondere alle esigenze della storia secolare delle banche e delle esigenze territoriali
nascono agli inizi le casse di risparmio, che non finanziano l’industria però c’è l’intuizione di
mobilitare il piccolo risparmio per finanziare l’impresa. L’obiettivo di questo ente non è il profitto
ma la filantropia. Con questo strumento le aristocrazie terriere gestiscono i risparmi del ceto medio
e delle classi modeste, sostenendo anche operazioni immobiliari, anticipando alle amministrazioni
comunali e collocando titoli di stato.
Dal 1864 alle casse di risparmio si aggiungono le banche popolari: più legate alla borghesia
provinciale cittadina (meno contadini, che erano legati alle casse di risparmio) che in forma
cooperativa permettono ai soci la responsabilità limitata, finanziando le piccole imprese locali.
Si basano su rapporti di conoscenza e fiducia, finanziano attività commerciali e manifatture
chiedendo garanzie patrimoniali personali dei soci; reputazione e reti sociali informali sostituivano
l’informazione e la trasparenza. Finanziano le piccole imprese locali perché godono di vantaggi
informativi. Si tutela chiedendo garanzie patrimoniali personali ai soci o a coloro che chiedono
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prestiti. È la reputazione a contare molto, le reti sociali informali che sostituiscono l’informaizone e
la trasparenza.
Questi tipi di istituti non sono ovunque: il sud Italia è poco strutturato. Nel sud Italia agivano
operatori finanziari non professionali: senza istituti non ci sono regole quindi senza regole c’è
sfruttamento (usura). Questi istituti non svolgono operazioni in Borsa e nel caso in cui
l’investimento vada male ricorrono ad aiuti consortili: fondi per intervenire in situazioni di rischio.
È per questo spazio limitato e per questa prudenza che questi istituti soffrono di meno della crisi del
1929-32 e ottengono nel secondo dopoguerra sostegno e favore legislativo perché ritengono di poter
aiutare la PMI.
Le casse di risparmio crescono anche dimensionalmente e sono interessate a muoversi
territorialmente e a investimenti di lungo periodo (lo Stato usa questi enti per gestire i fondi
agevolati per le piccole e medie imprese). Svolgono quindi un ruolo importante (tra gli anni 50 e
70). Ad amministrare dal 1950 sono i rappresentanti dei gruppi industriali, in modo tale da
influenzare i consigli delle banche.
Nascono anche organismi finanziari paralleli a quelli tradizionali, che ulteriormente fanno
convergere risorse finanziare alla piccola e media impresa sui territori. Hanno competenze
sovrapposte e forti poteri di mercato (e politici): mediocrediti regionali, Federconsorzi e Consorzi
fidi di categoria. Tali istituti locali si rivelano adatti a sostenere un sistema di imprese di ridotte
dimensioni aziendali, flessibilità e scomposizione dei processi di produzione. La liberalizzazione
mercati fa convergere i due sistemi (banche e casse di risparmio) attraverso numerose fusioni.

Il finanziamento pubblico avviene anche con salvataggi diretti. Lo Stato non può far la banca ma
c’è l’esigenza di immettere liquidità nel sistema. Storicamente è avvenuto in modi diversi, anche
con interventi diretti (IRI).
In principio c’è il circuito rappresentato dagli Enti Beneduce (Beneduce è il tecnico non politico
coinvolto negli anni del regime per studiare il rapporto tra economia e finanzia e la gestione
dell’economia in tempi di crisi) ma anche la stessa impresa pubblica è una forma di finanziamento.
Questi enti emettono obbligazioni a lungo termine con garanzia pubblica così da espandersi
monetariamente al di fuori dei canali ordinari; fortemente finanziate erano le imprese per la
realizzazione di opere pubbliche infrastrutturali.
Dopo la crisi del 1929-1934 che segna la scomparsa delle banche universali e nasce l’IRI: le banche
miste vengono rese pubbliche, le loro partecipazioni azionarie assegnate a questo nuovo ente, la
Banca d’Italia diventa protagonista dell’attività bancaria subordinandola agli obiettivi di politica
economica, vengono limitate le forme di house banking (creazione di banche ad opera di imprese,
che è pericoloso perché se va male l’impresa di conseguenza va male anche la banca). La Banca
d’Italia ha anche un compito di vigilanza dell’attività bancaria.
La questione del credito industriale (finanziare lo sviluppo nel secondo dopoguerra) vede la nascita
di Mediobanca nel 1946. Mediobanca è un ente partecipato dalle tre grandi banche pubbliche per
fare investimento alle grandi imprese. Alle tre grandi banche pubbliche (Comit, Credit, Banco di
Roma) è proibito finanziare le imprese quindi lo fanno attraverso Mediobanca. È la storia di grandi
investimenti per grandi famiglie e grandi imprese.
C’era anche il tema di finanziare le imprese pubbliche: lo Stato poteva non finanziarle e non fare
crescere l’economia ma lo fa. ENI diventa quello che è grazie allo Stato che investe. Le holding di
settore ricevono fondi di investimento. Nasce anche l’ente di salvataggio Egam.
Queste imprese pubbliche sottoscrivevano obbligazioni emesse da imprese statali. In alcuni casi è lo
Stato direttamente che sottoscrive obbligazioni.
Anche le imprese private ottengono sostegni statali, non solo le imprese pubbliche. C’è un boom di
partecipazioni statali negli anni 1979-1984 con conseguente crisi delle imprese pubbliche; anche le
imprese private ottengono sostegni statali con crediti agevolati, contributi alla produzione,
agevolazioni fiscali.

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Tutto questo entra in difficoltà con i primi anni ’90. Partecipare all’Unione Europea implica
accettare una logica di liberalizzazione e concorrenza. La moneta unica implica una disciplina
fiscale. L’UE e la moneta unica impongono uno stop alle politiche di sostegno statale rivolte alle
imprese nazionali mediante l’allargamento della spesa pubblica. Si vogliono conservare almeno due
superholding per conservare un ruolo diretto dello stato in almeno due settori per competere sul
mercato internazionale ma l’Europa non è d’accordo perché non ci sarebbe la libera concorrenza.
Allora si va verso al privatizzazione mediante lo spacchettamento delle singole parti dell’industria
di Stato. Questo ha portato alla riduzione radicale del finanziamento pubblico all’impresa e il
passaggio da interventi verticali a orizzontali, quindi non più interventi per settore ma sul tema
(green, innovazione...).

Dal 1977 al 1996 i fondi di investimento hanno


vivacizzato la Borsa italiana e in seguito ciò ha
portato alla separazione tra evoluzione della borsa ed
economia reale.
Il numero delle imprese quotate in Borsa è ridotto
considerando il lungo periodo. In questo senso la
dimensione della Borsa italiana è scarsa anche da un
confronto internazionale; i livelli di capitalizzazione
del mercato azionario rispetto al PIL ci dicono che
una crescita c’è a partire dalle liberalizzazioni degli
anni Novanta sino al picco del 1999 con il 66% del
PIL.

Gli studi disponibili ci dicono anche che le


emissioni di azioni hanno rappresentato una
quota modesta della raccolta complessiva di
mezzi finanziari per l’accumulazione delle
imprese. Le imprese hanno diversi modi per
capitalizzarsi e uno di questi è emettere
azioni e in cambio di queste si ottiene un
pezzo di dividendo, quindi bisogna passare
dalla Borsa valori (in cambio delle
obbligazioni si ottiene un tasso di interesse).
Mettendo in relazione aumenti di capitale a
pagamento e dividendi distribuiti si ottiene la
tabella 8.5, che indica quanto sia stato utilizzato in maniera fruttuosa (segno +) il canale di
finanziamento costituito da autofinanziamento più raccolta capitale di rischio: unico ciclo lungo
positivo dal 1977 al 1996 laddove i fondi di investimento hanno vivacizzato la Borsa italiana; in
seguito risulta sempre più evidente la separazione tra evoluzione della borsa ed economia reale.

In Italia il finanziamento delle imprese è basato sulle banche così come nell’Europa continentale e
in Giappone. Il ruolo della Borsa è modesto a parte le 3 fasi espansive (età giolittiana fino al 1907,
Golden Age e da metà anni ’80 fino a fine secolo).
Il sistema bancario ruota attorno a 2 tipologie di banche:
1. grandi aziende di credito con molti sportelli su base nazionale e usano aperture di credito,
anticipazioni, partecipazioni azionarie fino al 1936 e dal 1994, intrattengono rapporti diretti
esclusivi e di lunga durata con le imprese, esercitano una valutazione del merito di credito
accurata;
2. istituti come le casse di risparmio, rivolti alle imprese medio-piccole e legate ai sistemi
territoriali che usano: cambiale, avallo, sconto, rapporti multipli con le imprese, valutano il
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merito del credito in maniera formale e fiduciaria, non intervengono in borsa e dipendono
poco dalla politica monetaria.

La legislazione del 1936 (che ha impedito alle banche di fare investimenti di lungo periodo) non ha
impedito alle banche locali di crescere nel loro ruolo (sostenere la media impresa) e la
liberalizzazione di mercati finanziari di fine secolo ha fatto convergere (e fondere) le due realtà. Lo
stato ha svolto un ruolo cruciale nel finanziamento delle imprese grazie a trasferimenti a vario
titolo, partecipazioni azionarie e conferimenti dal bilancio pubblico.

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LA POLITICA INDUSTRIALE
La politica industriale è ogni forma di intervento statale che riguarda l’industria ed esistono 5
possibili interventi:
1. Struttura legale (normativa del settore)
2. Modificare tecnologia (favorirne la diffusione)
3. Modificare mercati dei prodotti (influire sulla concorrenza + protezione imprese giovani)
4. Modificare mercati fattori (aiuti investimenti + infrastrutture; età lavoro, orario, salario)
5. Modificare l’importanza relativa industrie (sostegno settori o aree depresse)
Lo Stato ha storicamente svolto una parte attiva nella configurazione del sistema economico italiano
che si possono distinguere in fasi storiche:

Le origini: l’età liberale (1860-1880)


Si tratta del primo ventennio post-unitario (destra storica).
Si realizzano ferrovie prima in direzione nord-sud e poi verso i collegamenti secondari sotto la
gestione di imprese private cui lo stato assicura un reddito minimo. È l’infrastruttura necessaria per
unificare il Paese. È una questione complessa finanziariamente che ha bisogno di capitali esteri e di
un impegno dello Stato gravoso su un bilancio già gravato.
Le ferrovie vengono realizzate come iniziativa di successo, con costruzione e gestione di imprese
private cui lo stato assicura un reddito minimo.
La politica economica liberale classica, liberista (per il libero scambio), non concepisce altre forme
di intervento dello stato; la concorrenza avrebbe spinto verso la nascita spontanea dell’industria
nazionale. L’inserimento nell’economia internazionale era fondamentale e bisognava diminuire le
barriere doganali (richiesto da Francia e Inghilterra per sostenerci nell’indipendenza contro
l’Austria).

Il protezionismo e il sostegno al sistema militare-industriale (1880-1921)


Dal 1878 al 1887 la sinistra storica al potere decide di aumentare i dazi per proteggere l’industria
nascente (non sottoponendola alla concorrenza ma garantendo una domanda interna) e solo nel
1921 viene modificato il sistema tariffario. Si discute sull’efficacia del protezionismo perché utile
per le industrie nascenti ma forse erano sbagliati i settori (era meglio proteggere la meccanica e non
la siderurgia: strano perché la meccanica sono produzioni più innovative mentre la siderurgia era
una tradizione). Il dazio sul grano ha forse innalzato il costo-opportunità del lavoro: sfamare la
manodopera, se costa di più il grano, costa di più. Anche senza dazi forse la quota dell’industria sul
PIL sarebbe rimasta invariata, dato che la protezione non era così marcata.
L’interesse strategico-militare per alcuni settori (specie siderurgia e poi anche meccanica) giustifica
poi una serie di aiuti e di interventi, specie durante la Prima guerra mondiale (per rendersi autonomi
dal punto di vista militare): dazi, nascita di complessi (Terni), cantieristica (capace di esportare in
Argentina e Turchia). Dal 1882 i produttori nazionali ottengono un diritto di precedenza sugli ordini
di materiale rotabile per le ferrovie: dopo l’unificazione siamo costretti ad importare non solo le
locomotive, ruote e i binari ma anche le traversine di legno perché non c’erano le industrie adatte
per produrle. Dal 1905 si ha la vera e propria nazionalizzazione delle ferrovie.
Anche mediante salvataggi viene sostenuto il “complesso militare-industriale” in difficoltà:
bancarotta della Terni, 1911 salvataggio Ilva e Piombino, dopoguerra con l’Ansaldo, Iri dopo la
crisi 1929-1934.
La politica industriale in questa fase è dunque importante, ma è difficile valutarne la funzione
dinamica. Per il sud non è andata molto bene perché non ha portato il superamento del dualismo
nord-sud. Nel1904 c’è la legge per Napoli (insediamento siderurgico di Bagnoli).
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La politica industriale del fascismo (1922-1940)
Il regime usa tutti gli strumenti tradizionali (commesse, salvataggi) ma ne aggiunge altri nei critici
anni Trenta: tariffe, l’autarchia, poli di sviluppo e la regolamentazione dei mercati (oltre
naturalmente all’Iri).
C’è un nuovo ricordo al protezionismo e quindi un aumento tariffario dalla fine degli anni Venti,
riducendo ancora le importazioni, anche con accordi di clearing (compensiamo gli scambi,
scambiando qualcosa in cambio di altro), controllo dei flussi di valuta (tutto era controllato
dall’Istituto Italiano Cambi). Se importiamo troppo, in particolare le risorse strategiche, non
possiamo essere una potenza. Tutto questo per non dipendere più dall’estero (quindi allontana dai
mercati internazionali).
C’è un ampio spettro di politiche per rendere il paese autosufficiente in caso di guerra, soprattutto
per quanto riguarda le materie prime di importazione. Si cercano quindi prodotti sostitutivi in Italia
e nelle colonie: Isml per ricerca sull’alluminio o Istituto Donegani per la gomma sintetica.
Nobel per la chimica a Giulio Natta per le ricerce sulla polimerizzazione per la produzione di
materie plastiche (settore strategico). C’è un interesse per un’autosufficienza di qualità.
Il regime stabilisce leggi speciali per lo sviluppo di zone industriali e concede lo status privilegiato
di città portuali a Venezia e Livorno.
Inoltre c’è il controllo del mercato del lavoro in cui si sciolgono i sindacati e si abolisce lo sciopero.
C’è anche un ostacolo alle migrazioni verso le città industriali del nord (serviva il permesso). Per i
mercati dei beni, nel 1926 c’è la concessione di esenzioni alle fusioni e riconoscimenti dei cartelli
(accordi oligopolistici) mentre nel 1936 vengono resi obbligatori per settore questi cartelli. In
preparazione alla guerra si spinge verso un’economia di scala per evitare le criticità della piccola
dimensione. C’è un tentativo di unificazione standard industriali (Uni).
Quali sono gli esiti di tutto questo?
Efficace fu la costituzione di cartelli (c’è stata la possibilità per gruppi di accrescersi e diventare più
resilienti); le aree speciali ebbero un buon successo (Porto Marghera, Bolzano): i tentativi di
industrializzazioni hanno funzionato.
Anche l’autarchia fu relativamente efficace mostrando un mix soddisfacente di misure restrittive ed
aperture a seconda degli obbiettivi dei settori coinvolti. La politica salariale è stata un successo,
subordinata di volta in volta agli obiettivi prescelti (per quota 90): in fondo il divieto di libera
associazione sindacale ha impedito ai lavoratori di godere degli aumenti di produttività realizzati a
vantaggio degli investimenti (anche se poi non sempre è stato così).
Certo l’intervento più significativo, incisivo e duratura rimane quello legato alla nascita dell’Iri:
salvataggio banche, gestione di imprese in partecipazione con un sostanziale controllo del sistema
industriale nazionale fino alle privatizzazioni dei primi anni ’90.

Le politiche industriali nella “Golden Age” (1950-1973): impresa pubblica e sovvenzioni


Dopo la guerra si affermano nuove forme di sostegno rivolte alle industrie private senza intenzioni
dirigiste attaverso aiuti in denaro per la ricostruzione, aiuti alla Fiat in fornitura dei prodotti
intermedi, Piano Marshall (elettrico, meccanico, metallurgico: settori strategici per la ricostruzione).
Negli anni 50 si raggiungono eccellenti risultati per le imprese a partecipazione statale: senza le
imprese dell’Iri non ci sarebbe stato il miracolo economico. La possibilità di forti investimenti è
stata garantita dal fatto che settori e imprese fossero nelle mani dello stato (diffusione della rete
telefonica e siderurgia).
Si ha la liberalizzazione commerciale poiché ci sono le integrazioni economiche europee (Ceca,
Euratom, Cee). Reinserirsi nei meccanismi di funzionamento dell’economia a stampo occidentale
significava porre fine all’autarchia ma riproporsi e riaprirsi.
Esperienze di programmazione economica: 1955 schema Vanoni, 1967 primo piano fallimentare
(impossibile combinare interessi contrastanti).
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Importanti interventi dei governi riformatori di centro-sinistra: nazionalizzazione dell’Enel 1962
(per mantenere un ruolo significativo dell’intervento dello stato nell’economia).
Anni ‘60 e ‘70: sovvenzionamento investimenti alle imprese in diversi modi (contributi a fondo
perduto, credito agevolato) con rete di istituti finanziari per crediti a medio e lungo termine
(mediocrediti, sezioni di credito speciale di alcune banche, Isveimer, Irfis).
Interventi consistenti per lo sviluppo al sud ma di scarsa efficacia: Cassa per il Mezzogiorno (1950):
ente per la distribuzione finalizzata di risorse per lo sviluppo del sud + risorse di Iri e Svimez. Nel
1957 c’è legge sulle aree e sui nuclei industriali (obbligo imprese pubbliche a costruire in meridione
il 60% dei nuovi impianti; nella maggior parte dei casi si rivelano cattedrali nel deserto); favore per
la diffusione di relazioni politico-clientelari.

La strategia dei “campioni nazionali” negli anni 70 -80


La crisi degli anni 70 viene affrontata con la cooperazione di governo, imprese e sindacati ma il
risultato è deludente perché vi sono troppi attori, intrecci politici e incapacità governativa. La Legge
675/1977 per la ristrutturazione industriale crea “campioni nazionali” in grado di competere nei
mercati internazionali ma anche qui i risultati sono deludenti.
Nel settore della chimica si crea concorrenza tra Anic (dell’ENI), Montedison, Sir e Liquichimica.
Ogni imprese si muove autonomamente e tutte competono negli stessi spazi e ricevono sovvenzioni
statali grazie a legami con uomini politici: non è il modo migliore per usare i soldi dello stato.
Questo porta alla incapacità di competere a livello internazionale in modo adeguato.
L’Alfa Romeo viene venduta a basso costo alla Fiat per evitare l’arrivo della Ford.
In tempi di crisi le imprese medio-piccole italiane mantengono un buon tasso di crescita e ottengono
il supporto dallo stato (non tanto quanto le grandi imprese) con crediti agevolati diffusi sul territorio
nazionale. Negli anni 80 si presta più attenzione al sostegno della R&S: non solo è fondamentale la
l’investimento dello Stato in ricerca ma anche la ricerca privata, dal momento in cui è finanziata
dallo Stato.

Concorrenza e regolazione: le privatizzazioni degli anni 90


Gli anni 90 sono caratterizzati dalla liberalizzazione di mercati (favorire la concorrenza) e dalle
privatizzazioni.
Nel 1992, i grandi enti pubblici industriali e bancari (le industrie e banche Iri) vengono trasformati
in società per azioni, trasferendone la proprietà al Tesoro, che le vende. Questo percorso è
pluriennale. Dal ’93 iniziano le vendite effettuate da Eni e Iri, poi Credito Italiano...
Questo processo prosegue anche in condizione di instabilità politica (anni ’90) e di instabilità
valutaria (anni di crisi finanziarie in oriente con ripercussioni internazionali). La maggior
operazione è la privatizzazione dell’Eni.
Nel 1995 nasce l’Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, senza il quale non si
sarebbero potuti privatizzare i servizi (Enel e Telecom).
Le privatizzazioni infatti dovevano essere precedute da interventi legislativi di liberalizzazione che
implicavano la costituzione delle autorità di controllo: nascono l’Autorità garante della concorrenza
e del mercato (1990), per le garanzie delle comunicazioni (1997), per l’energia elettrica e il gas
(1995). Inevitabilmente le vendite delle partecipazioni pubbliche hanno avuto un ruolo rilevante per
lo sviluppo del listino azionario: la capitalizzazione della Borsa passa dal 14% del Pil nel 1995 al
70% nel 2000, anche se poi tornerà a calare.

Concorrenza, regolazione e politiche industriali nel XXI secolo


Con il nuovo secolo cambia la cornice culturale delle politiche industriali, quindi da una visione
interventista si ha una strategia volta a tutelare la concorrenza e regolare i settori a rete come quelli
delle imprese di pubblica utilità. L’art. 97 del trattato UE regola il funzionamento del mercato unico
e finanzia le regioni del continente con i “fondi strutturali”. Si riducono gli aiuti diretti dello stato e
gli interventi previsti non sono più verticali (in favore di un settore o di un’impresa) ma orizzontali
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(tipologie predefinite e trasversali per ogni settore: ambiente, ricerca, imprese in difficoltà,
occupazione e formazione). Gli aiuti di Stato per obiettivi orizzontali in Italia e Spagna sono stati
utilizzati tardi ma in Svezia sono sempre stati privilegiati.

Conclusioni
La politica industriale ha un posto di rilievo nella storia italiana e nel tempo ha assunto varie forme:
commesse, protezionismo, salvataggi, IRI, aiuti ricostruttivi, programmazione macro, aiuti al sud e
“campioni nazionali”. La grande impresa pubblica rappresenta la forma più rilevante di politica
industriale in Italia, pur nascendo come esperienza di salvataggio.
L’intervento nel Mezzogiorno è stato fallimentare.
La svolta liberista di fine secolo pone degli interrogativi come la scomparsa della grande impresa
industriale e se rimangono da aiutare le PMI. Il Made in Italy, fulcro del settore manifatturiero
italiano oggi, fatica a sfruttare le politiche orizzontali di sostegno alla R&S e alla formazione, per la
debolezza tecnologica che in genere caratterizza le PMI.

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LO SVILUPPO DELLE IMPRESE
PUBBLICHE
Le vicende legate all’intervento diretto dello Stato nell’economia, attraverso imprese da esso
direttamente possedute e controllate, risalgono molto indietro nel tempo anche se in tempi recenti il
ruolo e l’esistenza stessa dell’impresa pubblica sono divenuti oggetto di aspre critiche. Il declino
delle fortune dell’impresa pubblica si spiega in primo luogo con le crescenti difficoltà economiche,
finanziarie e organizzative che essa è andata conoscendo negli ultimi decenni del XX secolo:
difficoltà che derivano essenzialmente dalla sua natura pubblica e dunque politica.
Tuttavia è giusto riconoscere che l’instaurazione di regimi dirigisti e autarchici in tanti Paesi
dell’Europa centrale e meridionale, la diffusione dei sistemi socialisti basati sulla collettivizzazione
dei mezzi di produzione nell’Europa dell’est, la progressiva svolta verso forme di economia mista
potevano essere considerate altrettante reazioni ai fallimenti di mercato che piagavano l’economia
capitalista.
Negli anni Settanta e Ottanta, tuttavia, a seguito delle fattive performance realizzate dalle economie
miste e, poi, dal collasso dei regimi collettivisti, si è aperta una profonda riflessione sull’efficacia
del big government, una riflessione che ha portato a sfidare ciò che nei decenni successivi alla
grande crisi era sembrato uno sbocco inevitabile dell’evoluzione del capitalismo.
In questo quadro generale le singole esperienze nazionali hanno mostrato caratteri differenti, come
differenti sono stati i settori dell’attività economica maggiormente interessati al fenomeno.
Con l’espressione impresa pubblica intendiamo in realtà una molteplicità di attività in qualche
modo legate allo Stato: esse concernono tanto le imprese possedute e/o gestite a livello centrale
(imprese pubbliche in senso stretto, aziende autonome, imprese a partecipazione statale), quanto
quelle che operano a livello decentrato, come le aziende municipali. Nel caso poi di stati federali
(Usa, Germania) è necessario introdurre un terzo livello di intervento pubblico: in Germania ad
esempio imprese di questo tipo, cioè federali, operavano nelle ferrovie, nella posta e nei telefoni.

MOTIVI E AMBITI DELLE NAZIONALIZZAZIONI

Nell’esperienza storica svariati sono i fattori che sottendono la scelta di nazionalizzare attività
precedentemente in mano ai privati o di creare ex novo imprese pubbliche. Semplificando, i motivi
delle nazionalizzazioni possono essere raggruppati in tre categorie principali.
La prima concerne ragioni di carattere politico e ideologico: queste furono fondamentali nelle
politiche di collettivizzazione dei regimi socialisti, tuttavia hanno avuto un qualche ruolo anche nei
programmi di nazionalizzazione dei Paesi occidentali dopo il secondo conflitto mondiale (si prova a
governare lo sviluppo). Alla base di questi ultimi vi era la convinzione che l’allargamento della
proprietà e dell’attività pubblica avrebbe dato adito a un cambiamento fondamentale nella
distribuzione del potere all’interno della società, di cui avrebbero beneficiato i lavoratori a scapito
del capitale privato.
In secondo luogo vi sono motivazioni di carattere sociale: esse riguardano, ad esempio, la volontà di
garantire l’occupazione, di offrire migliori condizioni di lavoro alla manodopera e di promuovere
nuove relazioni industriali, come nel caso delle imprese pubbliche italiane e francesi del secondo
dopoguerra. In latri casi possono porsi l’obiettivo di stimolare lo sviluppo di una classe
imprenditoriale nazionale ancora assente e troppo debole. Questo vuole anche dire considerare gli
aspetti demografici.
Ancora, vi sono numerose ragioni di carattere economico, di cui quelle forse più comunemente
addotta riguarda i cosiddetti market failure, cioè i fallimenti dell’economia di mercato: la proprietà
pubblica inoltre è non solo giustificata ma necessaria in situazioni in cui vi è assenza o insufficienza

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di informazioni, oppure quando l’esistenza di effetti economici e sociali esterni assume importanza
tale da rendere insoddisfacente il criterio della convenienza privata. Il caso più tipico è quello dei
monopoli naturali, che si hanno nei settori dei servizi di pubblica utilità (luce, acqua, gas).
Un secondo ordine di motivazioni economiche è connesso agli obiettivi di promozione della
crescita economica e dello sviluppo sociale nelle aree e nei settori arretrati. A livello settoriale, poi,
l’intervento diretto dello Stato nell’economia può essere mirato a stimolare settori strategici o a
mettere in atto iniziative produttive in settori industriali trascurati (sempre in Italia vedi i casi Agip
ed Eni).
Un terzo ordine di motivi che spiegano la proprietà pubblica delle imprese riguardano i salvataggi:
in tali occasioni lo Stato tenta di salvare le imprese private affette da crisi gravissime, come nel caso
italiano nei primi anni Trenta (vicenda Iri).
Ulteriori ragioni economiche possono infine riguardare gli effetti di redistribuzione del reddito e di
stabilizzazione del sistema economica che deriverebbero da un’attenta politica di nazionalizzazione.
Nonostante la diffusa convinzione che le imprese pubbliche abbiano operato e operino soltanto in
un ridotto numero di attività interessate da monopoli naturali, in realtà il loro raggio di azione
risulta in pratica illimitato. Seguendo lo schema di Dieter Bos è possibile per fare chiarezza
raggruppare gli ambiti in cui si sono trovate a operare le imprese pubbliche in quattro categorie
principali:
1. quella dei pubblici servizi (elettricità, acqua, gas, poste, telefoni);
2. i settori dell’industria di base (miniere, siderurgia, petrolio, chimica);
3. le banche e le assicurazioni;
4. l’istruzione e la salute.

LE ORIGINI STORICHE DEL FENOMENO

L’ampliarsi del ruolo dello Stato nell’economia è un fenomeno senza dubbio esploso nel XX
secolo, con tuttavia alcuni precedenti importanti. Possono dunque essere individuate tre fasi di
evoluzione storica di tale fenomeno:
1. una prima fase, che affonda le sue radici nell’età moderna e che giunge sino alla fine
dell’Ottocento, della quale importa mettere in rilievo, più che la consistenza degli interventi,
la progressiva maturazione di un nuovo atteggiamento dello Stato nei confronti
dell’economia e della società. È soprattutto nell’Ottocento che vanno ricercate le premesse
economiche, politiche e ideologiche di quel diverso atteggiarsi dei rapporti fra Stato e
mercato e fra pubblico e privato. Tali premesse maturarono principalmente nei Paesi
“secondi arrivati” sul cammino dell’industrializzazione, Usa, Belgio, Germania e Francia,
tutti Paesi accomunati dalla crescente fiducia che lo Stato potesse e dovesse svolgere un
ruolo di primo piano nel processo di rincorsa alla nazione leader sul piano industriale,
l’Inghilterra rimasta invece a lungo ancorata a posizioni di non interventismo statale e di
liberismo economico;
2. i primi quarant’anni del XX secolo, nei quali, a seguito delle vicende del primo conflitto
bellico e, soprattutto, dei disastrosi effetti della grande depressione, entrarono in crisi i
tradizionali meccanismi di funzionamento dell’economia di mercato e si ebbero i primi
significativi interventi dello Stato nella sua funzione di imprenditore;
3. il periodo che va dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri, la fase cioè dell’apogeo,
prima, e della crisi, poi, delle politiche di nazionalizzazione tanto nei Paesi occidentali,
quanto in quelli avviatisi on ritardo all’industrializzazione.
A partire dalla fine del XIX secolo si precisava la distinzione tra due modelli d’intervento statale:
quello continentale, nel quale la presenza dello stato nell’economia era destinata a divenire sempre
più ampia (stato imprenditore), e quello statunitense, caratterizzato da una quota ridotta di
produzione pubblica, ma da una più severa regolamentazione dei mercati da parte di apposite
autorità esterne (stato regolatore).
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Nel primo caso, in particolare, si configuravano 4 tradizioni e influenze di diversa matrice:
1. la tradizione francese di una burocrazia fortemente autoritaria e accentratrice;
2. la nuova visione dello Stato maturata in Germania nella seconda metà dell’Ottocento sulla
scorta della filosofia idealistica, per la quale l’azione individuale è incapace di risolvere i
problemi d’interesse collettivo;
3. la tradizione del socialismo scientifico che propugnava la collettivizzazione dei mezzi di
produzione;
4. l’influenza della scuola di pensiero keynesiana che fornì il contributo più importante alla
fondazione teorica dell’economia mista.
Nel secondo caso si andarono configurando, tra XIX e XX secolo, quarantasette agenzie federali di
regolazione e controllo, la maggior parte delle quali tuttora attive, nonostante la politica di moderata
deregolamentazione portata avanti dalle amministrazioni repubblicane.

LE IMPRESE PUBBLICHE FINO ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Il caso più macroscopico di nazionalizzazione era rappresentato dall’esperienza della Germania di


Weimar, dove fra Reich e singoli Stati, larghi settori non solo dei servizi e delle infrastrutture
(ferrovie, poste, elettricità), ma anche della produzione (miniere, chimica, alluminio) erano finiti
sotto il controllo della mano pubblica, sovente nella forma dell’azionariato di Stato. Nel 1925 ben
1,2 milioni di lavoratori erano impiegati nelle attività produttive del Reich, e comunque di tutto
rispetto era l’importanza anche del secondo e terzo livello di intervento pubblico: sempre nel 1925
250.000 tedeschi lavoravano nelle imprese dei Lander, mentre nel 1930 l’85% del gas tedesco e
quasi la metà dell’energia elettrica erano appannaggio di aziende municipali.
A prescindere dalla fase bellica, iniziative per nulla trascurabili, sebbene isolate, avevano
accomunato i principali paesi dell’Europa occidentale: la BBC (1926) in GB, la statalizzazione delle
ferrovie, l’INA (1912) e l’AGIP (1926) in Italia, la Compagnia francese del petrolio (1924) in
Francia, numerose iniziative bancarie e finanziarie in Spagna.
Se già con la grande guerra il processo di intervento degli organismi statali nella vita economica
aveva subito un’accelerazione e un ampliamento, le crisi sociali e politiche del dopoguerra, e
soprattutto i disastrosi effetti sull’economia e la società seguiti alla crisi del 1929 e alla successiva,
prolungata depressione, portarono a un vero e proprio cambiamento di clima e ad un radicale
ripensamento dei tradizionali modi di funzionamento dell’economia di mercato. Fu così che negli
anni Trenta una prima, pervasiva politica di nazionalizzazioni fu intrapresa soprattutto nei Paesi
europei che più avevano risentito della crisi economica, molto spesso per salvare imprese o intere
industrie in crisi: basti pensare alla vicenda italiana dell’IRI.
Fra i paesi democratici, comunque, la Francia fu senz’altro quella che, sotto il governo del Fronte
popolare (1936-37), si spinse più avanti sul terreno delle nazionalizzazioni. Fra queste, la più
importante fu quella delle ferrovie, con la creazione di una società mista con partecipazione
maggioritaria dello Stato.

L’IMPRESA PUBBLICA NEL SECONDO DOPOGUERRA

La vera grande stagione delle nazionalizzazioni prese avvio all’indomani del secondo conflitto
mondiale: l’assunzione (diretta o indiretta) della proprietà e della gestione delle attività economiche
da parte dello Stato e gli sforzi rivolti alla programmazione economica, divennero i capisaldi delle
politiche di ricostruzione e sviluppo dei Paesi a economia mista. A livello politico non fu
trascurabile il fatto che il peso specifico delle forze di sinistra, del cui bagaglio teorico-politico il
binomio nazionalizzazione-pianificazione era parte integrante, divenisse più rilevante che in passato
In GB il settore pubblico si andò allargando soprattutto durante i governi laburisti, anche se la
nazionalizzazione delle industrie automobilistiche, e in particolare della Rolls-Royce, venne
effettuata da un governo conservatore.
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In Francia le due fasi più importanti di espansione postbellica del settore pubblico dell’economia si
sono avute nel 1944-48 e nel 1982. Nella prima, con la partecipazione dei partiti socialista e
comunista al governo, venivano nazionalizzate la Banca di Francia, altre 4 banche di deposito, il
trasporto aereo e gran parte del settore assicurativo. Nuovi governi socialisti poi portarono a una
nuova imponente ondata di nazionalizzazioni: in particolare con la legge 11 febbraio 1982 furono
nazionalizzate l’industria siderurgica e la quasi totalità del sistema bancario, l’industria delle
telecomunicazioni e cinque gruppi industriali di primo piano.
Tutto ciò trova riscontro, con le originalità del caso, anche in Belgio, Paesi Bassi, Italia. Comunque
nel secondo dopoguerra il fenomeno della nazionalizzazione non è limitato al continente europeo:
fra i Paesi industrializzati, il Canada ha rappresentato probabilmente il caso più significativo, con
larghi settori dei trasporti pubblici e del comparto energetico passati in mano pubblica.

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