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Gentile da Fabriano
1423 Adorazione dei magi
Destinata all’altare di una cappella gentilizia. Il campo della tavola tricuspidata non è diviso
a trittico, ma il corteo dei Magi si dispiega su tutta la superficie, sfruttando la forma
tripartita della parte alta per diversi focolai di azione, distinti uno dall’altro e lontani dal
primo piano dell’adorazione
Due gruppi separati, ma collegati nello stesso tempo dalla figura del giovane re: gli astanti,
e la Sacra Famiglia con i Magi
Questa scansione facilita l’osservazione dei mille particolari che arricchiscono la
narrazione, senza subordinarli a un principio unitario
Gentile inserisce vocaboli e schemi compositivi assunti tanto nell’arte contemporanea
quanto da opere antiche, che risultavano riconoscibili immediatamente ad un occhio
allenato
Pisanello
1425 Monumento Brenzoni a San Fermo Maggiore a Verona – Pisanello (affreschi) e Nanni
di Bartolo (scultura) Il monumento funebre, vero e proprio, è composto da:
sarcofago nel quale sono poste le spoglie del defunto;
In alto, due statue raffiguranti rispettivamente:
Angelo che apre il sarcofago stesso;
Gesù Cristo risorto che esce dalla tomba.
In basso, si trovano:
quattro guardie addormentate su un suolo roccioso, secondo l'iconografia tradizione
della Resurrezione di Gesù;
due figure femminili, in posizione leggermente rialzata, affiancano i quattro soldati
addormentati.
Ai lati, si notano:
due angeli che scoprono il drappo formando una specie di tenda triangolare;
Sulla sommità si trova una scultura raffigurante Dio Padre, inserita in un'edicola dipinta.
Il monumento funebre è inquadrato da una cornice quadrangolare, fatta da una treccia in pastiglia,
che ricama anche il profilo dei tendaggi.
Entro la cornice, ai lati del tendaggio, si trova l’Annunciazione, ambientata all’esterno
dell’abitazione della Madonna e all’interno della camera di Maria Vergine, dove compaiono:
a sinistra, san Gabriele arcangelo annunciante che presenta dei capelli molto vaporosi, colti
nel momento dell'atterraggio, e delle ali blu di lapislazzuli (quasi nulla di tutto ciò è visibile a
causa della caduta del colore e dell'ossidazione delle parti metalliche, che ora risultano
essere nere). L'Arcangelo è affiancato, in basso, da due colombi dal soffice piumaggio,
dipinti con la massima cura naturalistica.
Maria Vergine annunciata, raffigurata all’interno di un edificio con cupola dorata e con parti a
rilievo; essa è incoronata da un'aureola punzonata e doveva avere il mantello azzurro chiaro; è
colta dall'Arcangelo nel momento della preghiera, affiancata, in basso, da un cane con uno
splendido collare. L'interno della camera da letto della Madonna è reso profano da Pisanello con
un letto profilato d'oro con cuscini, un tappeto orientale, un arazzo con una scena di
corteggiamento, creando un ambiente tipicamente gotico.
Oltre la cornice si dispiega un pergolato formato da graticci vegetali, dove si vedono vari animali e
specie vegetali, culminanti in due cuspidi ai lati, dove sono collocati:
a sinistra, san Raffaele arcangelo;
a destra, san Michele arcangelo.
1433-38 San Giorgio e la principessa
L’affresco, che faceva parte di un ciclo più ampio, purtroppo perduto, è rimasto
lungamente esposto alle infiltrazioni d’acqua provenienti dal tetto della chiesa, e per
questo motivo si è in parte rovinato (soprattutto nella parte sinistra, quella con il
drago). In occasione di un restauro del secolo scorso è stato staccato dal muro,
riportato su tela e ricollocato nella sua posizione originaria. Purtroppo, durante
questa operazione sono cadute tutte le decorazioni metalliche e le dorature
Il soggetto dell’affresco rimanda a un’antica leggenda medievale, raccolta da Jacopo
da Varazze nella sua Leggenda Aurea del XIII secolo
Pisanello organizzò la scena intorno all’arco a tutto sesto che immette nella cappella.
Nella parte destra, scelse di rappresentare il momento in cui Giorgio si congeda dalla
principessa prima di combattere il drago (che, come il serpente, è simbolo di Satana)
A sinistra, nella parte oramai scialbata (cioè sbiadita) si trovava il mostro, circondato
da teschi e cadaveri, in attesa della sua regale vittima. Il santo, che come ogni vero
In un grande lago della Libia viveva un drago capace di uccidere eroe non tradisce la minima esitazione, è ritratto con un piede sulla staffa, con lo
con il fiato chiunque gli si avvicinasse; per placarne la furia, gli sguardo già rivolto al nemico da affrontare. La principessa, in piedi davanti a lui,
abitanti della vicina città di Trebisonda dovevano dargli assiste silenziosa alla scena. È vestita sontuosamente con un abito di foggia
periodicamente in pasto un ragazzo o una ragazza estratti a quattrocentesca, ornato di pelliccia. Porta i capelli in una elaborata acconciatura,
sorte. Giorgio, valoroso cavaliere, giunse da quelle parti proprio altissima e tenuta da larghe fasce, che, secondo la moda del XV secolo, prevedeva
mentre la principessa, destinata a essere immolata, attendeva che la depilazione della fronte.
si compisse il suo destino: affrontò il drago e lo uccise. Non era sola, al momento dell’incontro con l’eroico salvatore: era stata infatti
Ogni particolare di quest’opera sembra concepito per destare accompagnata da alcuni cavalieri e da un gruppo di curiosi, che affollano lo spazio
l’ammirazione del pubblico: l’eleganza del biondo cavaliere, la grazia e intorno. Insieme ai cavalli, Pisanello rappresentò, magistralmente, anche altri
il profilo inquieto della bella principessa dalle labbra sottili, la snella animali, un ariete accovacciato, un levriero e un cagnolino da compagnia.
figura del levriero, la solida e possente massa del cavallo visto di tergo,
i preziosi monumenti traforati della città di fiaba sullo sfondo, vere opere
d’oreficeria, persino i due impiccati che penzolano dalla forca con i colli
slogati, osservati da un corvo appollaiato sulla traversa. La caduta del
colore ha lasciato in vista il fondo preparatorio nero, lì dove in origine
c’era un cielo azzurro; questa perdita contribuisce a rendere la scena
ancora più irreale e ha quasi fatto sparire un arcobaleno che
preannunciava il lieto fine.
1438 Sant’Eustachio
Sant'Eustachio era un cavaliere romano che si convertì al Cristianesimo dopo aver assistito,
durante la caccia, alla visione del Cristo tra le corna di un cervo.
Il dipinto mostra un cavaliere sontuosamente vestito da parata, su un cavallo bianco dalla ricca
bardatura, accompagnato da più cani da caccia; egli si trova in una foresta ricchissima di
animali e davanti a lui si trova un cervo, nelle cui corna appare il Crocifisso di Cristo, alla cui
visione il santo si arresta ed alza una mano in un composto gesto di sorpresa.
Il tema sacro è un pretesto per rappresentare una foresta fiabesca brulicante di animali, colti
nei più vari atteggiamenti: cani che puntano, raspano o inseguono; la lepre che fugge; i cervi e
cerbiatti; l'orso in una grotta in alto a destra; le gru; i cigni nello stagno; gli uccellini nei cespugli.
Un sinuoso cartiglio, destinato forse a contenere un'iscrizione, si trova in basso a destra.
La ricchezza dei dettagli, più curati singolarmente che nell'insieme della composizione, le
incongruenze spaziali, i contrasti tra le ombre dello sfondo e la luce sui dettagli, sono tutti
elementi che concorrono a creare un ambiente irreale e di favola, secondo gli stilemi dell'arte di
Pisanello e del tardogotico in generale.
Gli animali qui non hanno valenze primariamente simboliche, come nella pittura gotica o
in quella rinascimentale, ma la loro presenza serve più che altro a comporre un campionario,
privo di volontà classificatoria o ordinatrice. Essi sono dipinti a partire dai dettagli, i più analitici
possibili, per poi venire accostati agli altri nella composizione dell'immagine: l'effetto che ne
scaturisce nell'osservatore è quello di una superficie vibrante, di difficile percezione
nell'insieme, che invita continuamente a indagare ogni singolo dettaglio.
In piedi, con una mano avvicinata al petto e nell'altra un libro aperto, con un vestito
all'antica con un'ampia toga
L'opera è permeata di forte classicità, soprattutto nella testa barbuta e ricciuta
Testimonia l'abbandono da parte di Ghiberti delle suggestioni del gotico
internazionale, prendendo parte al mondo dell'umanesimo fiorentino, ispirato
da Donatello
L'apostolo è invigorito nelle membra e col panneggio dall'andamento sfrondato. La
ridotta capacità della nicchia diede una maggiore illuminazione, che l'artista sfruttò,
incorniciando l'opera con la nicchia composta da due eleganti pilastrini scanalati e
una valva a raggi che forma una specie di aureola al santo
L'arco acuto ricorda comunque come Ghiberti fu una figura di mediazione tra il
retaggio tradizionale e le novità rinascimentali
Filippo Brunelleschi
1401 formelle porta Nord Battistero di Firenze
Cupola: studiò una forma ogivale, riducendo notevolmente le spinte laterali e controbilanciando esteticamente anche l'eccessivo sviluppo longitudinale della
chiesa gotica. Però, date le dimensioni, il tamburo non poteva reggere, e per lui era inaccettabile, oltre che ancora insufficiente, sostenerlo con archi rampanti
esterni.
Costoloni e ossatura: Cominciò a studiare una cupola a costoloni, ma con un'intelaiatura della massima leggerezza e solidità insieme. La cupola è formata
da otto costoloni maggiori che nascono dagli spigoli dell'ottagono del tamburo, e sedici costoloni minori, sistemati a coppie tra due maggiori. Lo spunto per tale
soluzione gli fu offerto certamente dal vicino Battistero. Ma pensando sempre al Pantheon e ad altri monumenti romani, completò l'armatura con archi
orizzontali che collegarono tutti i costoloni, realizzando una specie di "gabbia".
Doppia calotta: la cupola è a doppia calotta per "preservarla dall'umidità e conferirle maggiore magnificenza", ma anche per distribuire meglio i pesi all'interno e
all'esterno, col risultato di ridurlo della metà. All'esterno i pesi della cupola scendono attraverso gli otto costoloni maggiori esterni sugli otto contrafforti
angolari esterni.
All'interno i sedici costoloni minori (visibili solo all'interno della calotta) convogliano i pesi sui pilastri interni della chiesa. Questo sistema rende la
cupola autoportante. Tra le due calotte l'architetto ha inoltre lasciato uno spazio vuoto, dotato di scale e percorsi accessibili, utili anche per il mantenimento e
eventuali restauri dellaMasaccio
struttura. Il passaggio conduce fino alla base della lanterna. E' aperto al pubblico e di lassù si può ammirare uno splendido panorama.
Nuove macchine e impalcature: Brunelleschi con la sua fertile immaginazione inventò una serie di macchine, ponti sospesi, gru, argani e congegni meccanici
Masolino
per il trasporto dei materiali fino alleda Panicale
altezze vertiginose della cupola. Fu anche uno dei primi architetti che si occupò della sicurezza dei suoi operai, inventando
Donatello
nuovi tipi di impalcature e procedimenti nuovi e più sicuri di lavoro. Tra questi, praticò sulle pareti interne della cupola delle cavità per potervi ancorare i
suoi ponteggi sospesi, che potevano essere montati nel corso della costruzione.
LucaDai
Mattoni a spina di pesce: della
suoiRobbia
studi sugli edifici romani apprese la tecnica dei corsi di mattoni a spina di pesce. Sfruttando la forza di coesione offerta dai
mattoni collegati a spina, se ne servì per riempire gli spazi tra i costoloni, realizzando un equilibrio statico.
Beato Angelico
Lanterna: Completata la cupola, tutti i costoloni vennero a convergere in un anello di circa sei metri di diametro. Nonostante Brunelleschi avesse adottato tutti gli
accorgimenti possibili per renderla leggera, le spinte che agivano su quell'anello erano tali che cominciarono a verificarsi delle crepe: la cupola rischiava di
spalancarsi su se stessa. Risolse il problema costruendo una specie di "tappo" per chiudere l'anello. La lanterna, con il suo peso, bloccava tutte le spinte
convergenti sull'anello.
La lanterna in marmo conclude elegantemente la costruzione, ha la forma di tempietto circolare, funge da collegamento con costoloni, mediante le volute
classiche e gli otto archi rampanti, e fa e da perno a tutto l'edificio. Il modello è offerto dalla lanterna del Battistero.
L’effetto ottenuto è quello di rendere partecipe lo spettatore alle vicende rappresentate tramite lo spazio reale: immaginando di posizionarsi al centro della
cappella, ci troviamo immersi nel ciclo e veniamo coinvolti in prima persona nelle vicende raffigurate, partecipando così anche no i a quella storia salvifica.
La gestione dello spazio è resa straordinaria anche attraverso i dettagli all’interno delle singole scene.
Tributo: La storia più significativa per illustrare la dirompente novità della costruzione prospettica di Masaccio. L’episodio, raccontato nel Vangelo di
Matteo, viene qui illustrato attraverso tre momenti all’interno della stessa scena, che non vengono però raffigurati tutti in primo piano. Masaccio infatti
colloca il momento del miracolo vero e proprio in secondo piano, in prossimità del lago dove si trova il pesce in cui Pietro recupera la moneta d’oro. Per
leggere questo episodio bisogna seguire gesti e sguardi dei personaggi. È una scena in cui sono presenti sia la natura sia l’architettura, e Masaccio tramite
entrambe riesce a rendere lo spazio misurabile. Un altro elemento che ci mostra chiaramente come Masaccio sia riuscito a gestire in maniera inedita ed
eccellente la dimensione spaziale sono le aureole, non più piatte e astratte rispetto al contesto, ma pensate e realizzate come oggetti concreti che fendono
lo spazio circostante. La presenza della luce nel dipinto è pensata come proveniente dall’apertura realmente presente nella muratura della cappella e le
ombre vengono dipinte tenendo conto di questo aspetto. La luce è un elemento centrale nella pittura di Masaccio, in quanto capace di costruire solidi
volumi.
Tentazione: è più rovinata rispetto alla Cacciata e quindi il confronto forse non può essere completo e sincero fino in fondo, ma è sufficiente osservare
come vengono raffigurati Adamo ed Eva per comprendere l’orizzonte di ciascuno dei due artisti. I progenitori raffigurati da Masolino sono figure composte
ed eleganti, che si osservano negli occhi con uno sguardo fiero. La morbidezza della loro carne è resa tramite un leggero chiaroscuro. Tutto cambia
nella Cacciata: i corpi masacceschi trasmettono tutta la vergogna e il dolore provato, attraverso i loro gesti, rielaborati probabilmente da modelli scultorei,
e attraverso la loro dirompente presenza nello spazio. Esplicito è il dramma sul volto di Eva, mentre riusciamo ad intuire quello di Adamo anche se coperto
dalle mani. Già da questi due corpi si può comprendere come Masaccio conferisca ai suoi uomini e alle sue donne una grande umanità, portando in scena
le loro emozioni e i loro sentimenti. Osservando le altre scene ci si accorge che ogni figura ha una propria dignità, ha conquistato il proprio diritto a
partecipare agli eventi rappresentati, manifestato anche attraverso una presenza consapevole nello spazio. La composizione di Masaccio è essenziale, ma è
proprio grazie a quell’essenzialità della linea e dei volumi che questo pittore riesce a rappresentare l’uomo nella sua grandezza e a portarlo al centro della
sua idea di pittura. Masolino, invece, si sofferma ancora sulla rappresentazione dei dettagli, non soltanto dei personaggi ma anche delle architetture, come
elemento importante della sua concezione pittorica e risulta così ancora legato al gusto della pittura tardogotica, ancora dominante nell’ambiente
fiorentino.
1426 Polittico del Carmine/di Pisa (Maestà, Crocifissione, Adorazione dei Magi)
Madonna in trono con il Bambino e quattro angeli:evidente fisicità della Adorazione dei magi: l’opera più documentata dell’artista,
Madonna, messa in particolare e realistica evidenza da un panneggio pesante grazie alla meticolosità di un commissionario, che annotava
e fortemente chiaroscurato e, a differenza da quanto voluto dalla tradizione e conservava tutte le ricevute dei vari acconti e gli attestati di
non è rappresentata secondo i canoni di giovinezza, infatti il volto della madre solleciti fatti pervenire al Masaccio.
appare stanco e sdegnato. Il Bambino è colto nell’atto di mangiare un acino La predella a cui l’opera apparteneva, era composta da altri due
d’uva: simbolo del sangue di Cristo; la naturalezza di questo gesto è tipica di pannelli laterali che raffigurano i “Martiri di Pietro e Giovanni
Masaccio. La sua aureola, simbolo della luce divina, ubbidisce alle regole Battista”. Sulla destra della tavola, nella figura tra le due teste di
prospettiche del mondo circostante: essa appare di forma ellittica. Anche la cavallo – certamente uno staffiere – è stato identificato
prospettiva del trono è tracciata con grande rigore. Le rette di fuga coincidono l’autoritratto dell’artista. Secondo altri, invece, potrebbe trattarsi
con la superficie della seduta. Masaccio presuppone che il punto di vista dell’effige suo fratello minore. In altre figure gli studiosi vi
possa cadere all’altezza degli occhi dell’osservatore reale posto di fronte. identificarono il committente e suoi vicini parenti.
Crocifissione: i quattro personaggi sono composti in modo geometricamente
rigoroso. Maria, a sinistra, piange di dolore, immobile e severa, avvolta nel
pesante mantello al quale il chiaroscuro conferisce una monumentalità
scultorea. San Giovanni, a destra, rivolto verso l’esterno del dipinto, ha
un’espressione sconfortata e attonita, mentre appoggia la testa sulle proprie
mani giunte ed intrecciate. Al centro, alto sulla croce del martirio, il Cristo è
rappresentato nella dolorosa immobilità della morte. La vista dal basso in alto
gli scorcia il collo insaccandoglielo nelle spalle. Le braccia tese, il corpo
pesante e le gambe tozze ci ricordano che il personaggio crocifisso è un
uomo, non Dio. In basso, di spalle, la Maddalena della quale non vediamo che
i capelli biondi e le mani protese verso Cristo. Di lei Masaccio riesce a farci
intuire il dolore straziante anche non mostrandoci il volto. E’ Giovanni, infatti,
l’unico a guardarla in viso, cosi che l’espressione dell’apostolo diventa anche
specchio psicologico dello sgomento della donna. Per quanto concerne la
prospettiva, le rette di fuga convergono nei piedi.
1426-28 Trinità
Raffigura una nicchia all’interno della quale si trova una scena con una crocifissione. Sotto di essa
inoltre è rappresentato un sarcofago con uno scheletro appoggiato al di sopra. Al centro viene
rappresentata la Santissima Trinità e a fianco sono dipinti i coniugi oranti. L’architettura che
incornicia la scena è composta da un arco classico sostenuto da due colonne con capitello.
Esternamente ai lati delle colonne inoltre sono raffigurate due paraste con capitello corinzio. Infine
all’interno del vano dove è rappresentata La Trinità è presente una volta a botte con lacunari.
Al suo interno Cristo è sulla croce. Dio Padre, al di sopra, sostiene il corpo. Tra di loro si libera lo
Spirito Santo sotto forma di colomba bianca. In basso, a sinistra Maria indica il Figlio crocifisso. A
destra invece San Giovanni guarda Gesù con un’espressione sofferente. In basso all’esterno del
vano, di fronte alle paraste sono raffigurati i due committenti. Sono inginocchiati ed in preghiera a
sinistra il marito e a destra la moglie interamente coperta da un velo blu. Alla base dell’affresco
sopra lo scheletro dipinto, deposto sul finto sarcofago, compare una scritta. L’iscrizione latina invita
l’osservatore a meditare sull’ineluttabilità della morte e si definisce un “memento mori” (ricordati
che devi morire). La scritta recita: IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON
VOI ANCO SARETE.
Il contenuto simbolico ed educativo de La Trinità di Masaccio spiega ai cristiani come arrivare alla vita eterna. La narrazione parte dal basso, dallo scheletro
appoggiato sul sarcofago. Questo scheletro che rappresenta la morte dalla quale ci si può salvare elevandosi verso Dio Padre. Infatti è attraverso la preghiera
simboleggiata dai committenti che si ottiene la fede necessaria per conquistare la vita eterna. Maria indica con la mano il Figlio cioè colui che ha tracciato la via
da seguire. Attraverso l’esempio di Cristo e lo Spirito Santo si giunge così a Dio padre che concede la salvezza.
La Trinità è un dogma cristiano ed era di estrema importanza per i domenicani ai quali apparteneva la Chiesa. Il modello iconografico seguito da Masaccio per
rappresentare il dogma è quello chiamato “Trono di grazia” diffuso alla fine del XIV a Firenze. Diversamente dalla tradizione Masaccio rappresentò Dio Padre in
piedi e non assiso su un trono. I due committenti sono inginocchiati ai lati del vano che ospita La Trinità. Gli storici segnalano che si tratta della prima volta nella
quale i committenti sono raffigurati in modo realistico nella scena. L’uomo e la donna hanno caratteristiche reali, umane infatti non possiedono l’aureola. Inoltre
sono stati dipinti con le stesse dimensioni dei personaggi sacri e ne condividono realisticamente lo spazio. Le caratteristiche fisionomiche poi sono fedeli ai due
personaggi. Inoltre essendo due persone anziane Masaccio ritrae i due coniugi riproducendo le rughe sul viso e i difetti del volto. Del committente in realtà non si
conosce l’identità. Alcuni storici ipotizzano che si possa trattare del priore domenicano Fra’ Benedetto di Domenico di Lenzo. Forse i due personaggi
rappresentati erano suoi parenti defunti, Berto di Bartolomeo e la moglie.
Donatello
1408 David marmoreo
1 2
1. San Giovanni Evangelista. Stucco
policromo.
2. San Giovanni Evangelista a Patmos.
Stucco policromo.
3. Ascensione di San Giovanni Evangelista.
Stucco policromo.
4. Martirio di San Giovanni Evangelista.
Stucco policromo.
3 4
Le opere certamente di Donatello, nella Sagrestia, erano otto medaglioni monumentali in stucco policromo (diametro di 215 cm, all’epoca paragonabili solo alle
grandi vetrate delle basiliche), con le Storie di san Giovanni evangelista, patrono della cappella (Resurrezione di Drusiana, Martirio, Visione a Patmos e
Ascensione) e quattro tondi con Evangelisti (Giovanni, Marco, Matteo e Luca), due soprapporte sempre in stucco (Santi Stefano e Lorenzo, Santi Cosma e
Damiano) e due porte bronzee a formelle (Porta dei Martiri e Porta degli Apostoli).Brunelleschi non fu contento dei lavori di Donatello alla sua Sagrestia: essi
andavano a intaccare quell’essenzialità decorativa di cui si faceva promotore, inoltre non aveva gradito il non essere stato interpellat o nemmeno per un parere: fu
la fine dell’amicizia e della collaborazione tra i due geni del primo Rinascimento. L’opera di Donatell o venne criticata per l'”eccessiva” espressività anche da
Filarete, che in un passo del Trattato di Architettura (1461-1464) sconsiglia di fare figure di apostoli come quelle di Donatello nella porta della sagrestia di San
Lorenzo, “che paiono schermidori”.
1443 David
Realizzato probabilmente per il nuovo palazzo civico voluto da Cosimo de’ Medici. Infatti il personaggio del
giovane re pastore divenne il simbolo delle virtù civiche della Repubblica di Firenze. Il
giovane David di Donatello dopo aver vinto il gigantesco guerriero Golia è in piedi vittorioso con una espressione
enigmatica. Il giovane poggia il piede sinistro sulla guancia dello sconfitto la cui testa giace a terra. David poggia
su di una corona d’alloro che orna anche il suo strano elmo. I capelli del ragazzo scendono fluenti sulle spalle.
Con la mano destra stringe saldamente la spada con la quale ha decapitato Golia mentre nella mano sinistra
stringe un sasso. Il giovane è completamente nudo tranne i calzari decorati che coprono anche parte dei piedi.
Sul capo mozzato di Golia è ancora calato il pesante elmo da battaglia.
Il giovane identificato come il futuro re giudeo David è infatti in possesso dei simboli che lo rappresentano. Si
tratta della pietra con la quale uccise Golia tramite una fionda. La mano destra stringe la spada che il giovane
utilizzò per decapitare il soldato. Infine in basso si trova la testa decapitata sulla quale il David si erge vittorioso.
La nudità del giovane eroe oltre a rimandare alla classicità rappresenta l’umiltà e il coraggio che sconfiggono la
forza bruta del superbo.
Secondo altre ipotesi il giovane indossa un copricapo molto simile al “pètaso” indossato dal dio Mercurio e i
calzari alati. La rappresentazione racconterebbe quindi l’uccisione di Argo Panoptes da parte del dio per liberare
la ninfa chiamata “Io” desiderata da Giove. La statua del David fu progettata da Donatello con particolare
attenzione alla resa naturale della muscolatura. Inoltre l’artista modellò il fisico del giovane con una postura
adatta a valorizzare esteticamente il corpo adolescente. Il modellato morbido permette infatti di apprezzare gli
effetti della luce che scivola sui rilievi appena accennati.
In alcune parti, come sui pettorali le fasce muscolari sono esili, sul ventre invece si notano già addominali
sviluppati. Questa indeterminatezza organica crea un mancato equilibrio che genera tensione formale e
narrativa. David esprime la forza in potenzialità di un corpo che sta crescendo.
Il Gattamelata è privo di elmo. La sua effige esprime così l’intelligenza del condottiero e non la potenza distruttrice di un guerriero spin to da una forza
superiore. Donatello scelse così di realizzare un ritratto del protagonista e non una sua idealizzazione. La fisionomia è infatti quella di un uomo avanti negli anni.
Lo scultore preferì esprimere la forza e la determinazione attraverso l’espressione del viso e la postura del corpo. Il Gattamelata in realtà si chiamava Erasmo da
Narni ed era un capitano di ventura. I suoi eredi commissionarono la statua equestre a Donatello per celebrare la figura del loro congiunto. Il monumento fu
eretto nel 1453. Donatello lasciò la città e fu pagato in gran parte dalla vedova del condottiero, Giacoma Bocarini Brunori e dal Senato veneziano con con la cifra
di 1650 ducati. Secondo Vasari, autore de Le Vite, il Gattamelata fu la prima opera di Donatello realizzata a Padova. Per questa commissione infatti partì nel
1443 da Firenze. Il Gattamelata morì nello stesso anno. Questa ipotesi, però, non è comunemente condivisa. Per altri la commissione fu del 1446 momento nel
quale Donatello cominciava a nutrire una discreta fama. I lavori iniziarono nel 1446. Nella primavera del 1447 lo scultore predispose infatti i modelli per la fusione
delle statue del cavaliere e del cavallo.
Il monumento al Gattamelata si trova in piazza del Santo a Padova, di fronte alla Basilica del Santo. Il modello al quale si ispirò Donatello per il monumento
al Gattamelata fu con molta probabilità la statua di Marco Aurelio che si trovava a Roma. Esisteva anche un altro esemplare al Regisole di P avia che però andò
perduto nel 1796. La fusione del bronzo non fu di semplice realizzazione. Furono necessari diversi an ni di preparazione e tentativi per arrivare alla statua
compiuta. Donatello visse a Padova per dieci anni, dal 1443 al 1453.
Il Gattamelata è svincolato da funzioni architettoniche e concepito come statua a se stante. Infatti la statua non fu pensata per essere posta all’interno di una
nicchia. Di conseguenza dialoga direttamente con lo spazio circostante. La statua del Gattamelata fu progettata come cenotafi o, cioè un monumento funerario
privo dei resti, sepolti altrove. La collocazione scelta per posizionare il monumento fu attentamente studiata. Fu scelta una zona antistante la basilica del Santo,
leggermente spostata rispetto al centro della facciata. Questa posizione, oltre a porre il cenotafio all’interno di un’import ante necropoli del tempo, favorisce
maggiore visibilità. Si trovava infatti allineato con una principale via di accesso.
Donatello riscoprì la classicità e soprattutto la statuaria antica. Insieme allo studio delle forme l’artista condusse quindi anche una riscoperta delle tecniche di
realizzazione. Infatti la fusione a cera persa era stata abbandonata durante il Medioevo. Il modello classico che Donatello util izzò per creare la statua equestre
del Gattamelata fu quella del Marco Aurelio. Sulla corazza del condottiero si trova la testa di Medusa. Altri elementi decorativi come putti musicanti si notano poi
sulla sulla cintura e piccole teste virili riconducono al mondo classico. Il monumento in bronzo del Gattamelata fu realizzato con la tecnica della cera
persa. Donatello ricoprì tale procedura classica già nel San Ludovico di Tolosa del 1421-1425. L’impresa dello scultore ottenne una menzione da Vasari che ne
segnalò già nel Cinquecento la grande importanza.Il modellato del cavallo descrive ampie zone sulle quali la luce scivola mor bidamente e rivela rotondità
muscolari. Si creano ombre profonde nella zona degli occhi, del muso e della criniera. In tal modo i particolari del cavallo emergono chiaramente. La figura
del Gattamelata è invece molto dettagliata. Le alternanze di luci e ombre rivelano le decorazioni dell’armatura e dei tratti del viso. La statua equestre
del Gattamelata si trova su di un basamento molto alto. Il punto di vista dell’osservatore è basso e determina quindi la sua monumentalità. T ale collocazione crea
così una distanza dal passante che si trova in posizione di inferiorità spaziale. Tradizionalmente il piedistallo fu utilizzato per isolare i l monumento e rimarcare
l’importanza del protagonista. Il Gattamelata non condivide lo spazio del popolo che si trova in basso. Lo spazio nel quale è posto è ideale e senza tempo. La
statua è come cristallizzata nella dimensione storica che rende il personaggio eterno. Il monumento è visibile nella sua inte rezza in posizione laterale
privilegiando il lato sinistro. La rappresentazione è quindi molto vicina a quella delle immagini celebrative stampate su medaglie o monete. Il cavallo poggia con lo
zoccolo anteriore su di una sfera scolpita. Tale scelta fu di tipo statico e consentì quindi di conferire maggiore equilibrio alla scultura. Lo scettro impugnato
dal Gattamelata e il fodero della spada sono obliqui. Il cavallo, invece contribuisce alla composizione determinando una solida orizzontale. Il busto eretto
del Gattamelata, invece, si erge in verticale. Il cavallo che sorregge il Gattamelata ha un aspetto molto potente e rivela proporzioni maggiori. La massa muscolare
dell’animale inoltre è mossa da un gesto controllato e sicuro che trasmette molta forza.
1447-50 Altare Basilica del Santo di Padova (madonna con bambino, miracolo della mula,
Deposizione)
Era un complesso formato da un'edicola architettonica, statue e rilievi realizzati in bronzo,
pietre, dorature e mosaici. Venne compiuto da Donatello intorno al 1450. L'impianto originale
doveva essere grandioso ma nel corso del tempo ha subito diverse modifiche e ricomposizioni
che hanno portato alla perdita dell'insieme originario. La ricomposizione che vediamo oggi è
una ricostruzione risalente al 1895 ed un'ultima soluzione che risponde solo in parte al
progetto donatelliano poichè tutta la parte architettonica è andata perduta.
Secondo una delle ipotesi più accreditate, sopra l'altare maggiore Donatello aveva creato un
grande baldacchino che formava una sorta di portico architravato con timpano arcuato,
colonne e pilastri entro il quale erano poste le sette statue di figure sacre a grandezza
naturale. Sull'alto basamento erano inoltre iseriti i bassorilievi. Alla struttura architettonica
dell'altare si era ispirato Andrea Mantegna per la sua Pala di San Zeno, conservata nella
chiesa di San Zeno a Verona.
L'impatto sul visitatore all'interno della Basilica è ancora di grande effetto: l'altare appare
come una sorta di quadro vivente con le grandi figure scure, in bronzo, che sembrano
guardarci dall'alto.
Attorno all'altare si inseriscono diversi rilievi in bronzo con scene dei miracoli di Sant'Antonio, i
simboli dei quattro Evangelisti, la Pietà e dodici pannelli verticali con angeli musicanti.
L'insieme è impressionante e spettacolare.
Madonna col bambino: Il gruppo centrale della Madonna col Bambino Santi: Rispetto ai pannelli della predella, le statue dei santi dell'Altare di Padova
forma l'asse della composizione e ad esso si riferisce la disposizione di non sono molto rifinite. Questo può essere dovuto in parte per la fretta con cui
tutte le altre statue dei santi. furono preparate e in parte perchè dalla posizione in cui doivevano trovarsi non
L'immagine della Madonna deriva dall'iconografia bizantina della in cui il potevano essere viste da molto vicino nè in piena luce. Ma come si può vedere dal
bambino veniva mostrato simbolicamente ancora nel grembo della confronto con altre opere mature di Donatello, probabilmente l'artista voleva
madre e offerto al sacrificio. Un esempio è offerto dal rilievo in avorio del sfruttare la potenza espressiva del non finito, che rende alcuni particolari più
VI secolo conservato al British Museum di Londra, in cui si può notare indistinti e lasci apiù spazio all'immaginazione dello spettatore.
che la posizione corrisponde esattamente a quella scelta da Donatello I volti dei personaggi colpiscono per il modellato audace e impressionistico: le
per la sua Madonna. Donatello, che anche in altre opere ha dimostrato fisionomie e le espressioni sono rese con immediatezza e con pochi essenziali
di conoscere molto bene l'arte bizantina, riprende questa antica dettagli, mentre le strutture e le forme d'insieme sono molto solide e ben salde. La
tradizione rappresentando la Madonna nell'atto di alzarsi dal trono sintesi con cui opera Donatello dà un grande senso di pathos e di grandezza
mentre tiene il bambino davanti a sè come se ucisse dal suo grembo. morale. L'insieme delle statue è impressionante: suggerisce un senso di presenza
L'espressione enigmatica, Lucasevera
dellaeRobbia
la visione perfettamente frontale fisica e spirituale di queste figure maestose che sembrano incombere dall'alto del
rendono questa immagine ieratica e un po' inquietante. Sul trono le due
Beato Angelico
sfingi sui bracciolo alludono alla Vergine come "Sedes Sapientiae" e
loro basamento.
La statua di San Francesco rivela la conoscenza degli affreschi di Assisi, la testa
rivelano l'ampia cultura visiva di Donatello. della figura è molto simile a quella del San Francesco dipinta da Cimabue nella
Sulla corona e sul petto si vedono alcuni cherubini. Il modellato dell basilica umbra. L'immagine di Sant'Antonio si riferisce ad un antico affresco
statua è cvuratissimo nei dettagli. Le superfici sono tormentate dalle fitte presente su uno dei pilastri nel presbiterio della Basilica in cui si trova.
pieghe della veste che seguono direzioni diverse, ora sinuose, ora
ondeggianti, ora raggiate: gli effetti di luce sono molto variati e la massa
del corpo risulta come svuotata di peso.
Miracolo della mula: Le quattro tavole sono concepite come scene di massa, estremamente ricche di dettagli e di vari microepisodi narrativi, con u na
molteplicità di figure difficile da eguagliare. Secondo le storie di sant'Antonio da Padova, quando si trovava nei pressi di Tolosa ebbe una discussione con
un eretico in merito all'eucaristia. Gli venne allora richiesta una prova pratica delle sue affermazioni: l'uomo aveva un'asina che ripromise di tenere digiuna per tre
giorni. Alla fine il santo le avrebbe offerto un'ostia consacrata e se essa l'avesse preferita alla biada avrebbe avuto ragione, cosa che puntualmente avvenne.
La scena, molto affollata, è ambientata in una chiesa, come dimostra l'altare rinascimentale al centro, davanti al quale sta il santo che, con un piede sul gradino,
si abbassa per offrire l'ostia alla mula, la quale sta davanti a lui e si è già inginocchiata. Dietro di loro si vedono i ser vitori che portano la biada. Gli astanti si
accalcano attorno alla scena e nei due vani sotto i due archi laterali, che sono in comunicazione con un passaggio diviso da una colonna. C'è chi si inginocchia
perché ha riconosciuto il miracolo, chi è sorpreso, chi si accalca per la curiosità, salendo anche sui plinti, chi chiama altre persone ad accorrere. La scena è così
ambientata nel quotidiano e la tensione emotiva nasce dal contrasto con l'evento miracoloso.
Lo sfondo presenta un'architettura sfarzosa, ripresa dall'arte romana anche se più che a un edificio reale si deve pensare a un mode llo di Leon Battista
Alberti nel De re aedificatoria. Tre solenni archi a tutto sesto perfettamente scorciati in prospettiva dominano lo sfondo (come nella Resurrezione di
Drusiana a Firenze), e sono scanditi in tutti gli elementi architettonici: le paraste scanalate, i rilievi sui pennacchi e sulla chiave di volta (molto simile agli archi
della basilica di Massenzio nel Foro Romano), il cornicione, la decorazione dell'estradosso e del sottarco. Essi però sono leggermente sottodimensionati rispetto
alle figure (gli uomini ad esempio rasentano con la testa le architravi), probabilmente per via delle difficile compenetrazione tra il triplice arco, che richiede
parecchio spazio, e la volontà di non creare figure troppo piccole. A un'osservazione attenta si nota come il fondo sia chiuso da grate che lasciano intravedere lo sviluppo
ulteriore in profondità dell'architettura, secondo una costruzione di estremo virtuosismo.
1455 Maddalena penitente
Scultura realizzata con legno di pioppo per rappresentare al meglio il dramma esistenziale della discepola
di Gesù. Maddalena penitente è in piedi su di una roccia. La donna è scalza e indossa una pelle allacciata
in vita che le ricopre il corpo fino alle ginocchia. Le braccia sono aderenti al corpo e le mani giunte. I
lunghi capelli sono scomposti. Ricadono sulle spalle e in avanti sul busto. Il volto è scheletrito e
l’espressione addolorata e contrita.
Donatello nel corso della sua lunga carriera utilizzò stili diversi nel realizzare le sue sculture. Fu un artista
classico che si ispirò alle opere dell’antica Roma. In Maddalena penitente, invece, realizzata nell’ultima
parte della sua vita, impiegò uno stile realistico e, quasi, espressionista. Infatti, la donna, discepola di
Gesù, ha il corpo emaciato e scolpito nel rigido legno di pioppo. Il volto, inoltre, è abbozzato e scavato. Il
legno conferisce al volto, alle parti del corpo e agli abiti di Maddalena penitente una rigidità e una
secchezza che ne sottolineano la sua condizione di sofferenza. Secondo gli storici Donatello scolpì un
capolavoro di naturalismo. Infatti con l’opera rappresenta il superamento del classicismo messo in crisi
nelle ultime opere del maestro.
Maddalena penitente è una scultura in legno di pioppo bianco. Il legno di questo albero è molto duro.
Difficilmente, infatti, è possibile ottenere volumi morbidi e sfumati. La scultura in legno fu molto
utilizzata nel Medioevo. Nel Rinascimento, invece, fu abbandonata a favore della scultura in
marmo. Donatello scelse di ricorrere a tale tecnica per rappresentare una Maddalena penitente,
mortificata nel fisico e nello spirito.
I quattro fori ai lati del cuscino lasciano pensare che la scultura fosse stata concepita per una fontana di
Palazzo Medici. E’ firmata OPUS DONATELLI FLO[RENTINI] e fu fusa in 11 parti poi assemblate. In
seguito alla cacciata dei Medici nel 1494 fu posta in Piazza della Signoria come simbolo della vittoria del
popolo sulla tirannia. Al momento del loro rientro non fu rimossa per non offendere la sensibilità dei
cittadini; cambiò sistemazione solo per lasciare il posto al David di Michelangelo.
DA SAPERE: Il soggetto può essere interpretato anche come la vittoria dell’Umiltà sulla Superbia o della
Virtù sul Vizio. Il medaglione sulla schiena di Oloferne raffigura infatti un cavallo imbizzarrito, simbolo
delle pulsioni sfrenate e irrazionali dell’anima
Beato Angelico
1433 Tabernacolo dei Linaiuoli
Un tempietto marmoreo di Lorenzo Ghiberti con pitture di Beato Angelico
L'opera è di misure eccezionali, paragonabile, nel panorama della pittura fiorentina, solo alla Maestà di Santa
Trinita di Cimabue o alla Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna. Più che un tabernacolo assomiglia a un
portale monumentale. Forse le misure e la forma furono dovute a una tavola o un affresco duecentesco già
presente, che venne rimpiazzato, o più probabilmente si voleva eguagliare con la pittura la maestosità delle
statue nelle nicchie di Orsanmichele.
Il tabernacolo è composto da una struttura marmorea rettangolare con cuspide triangolare, ove si trova una
mandorla col Cristo benedicente e Angeli cherubini. Al centro, entro un 'apertura ad arco, di trova la tavola
dell'Angelico, con la Maestà incorniciata da una fascia con dodici angeli musicanti. Davanti si trovano due
sportelli mobili dipinti su entrambi i lati con santi a tutta figura: all'esterno, visibili quando il tabernacolo è chiuso,
si trovano San Marco Evangelista (sinistra) e San Pietro (destra); all'interno San Giovanni Battista (sinistra) e
San Giovanni Evangelista (destra). La pala è completa di predella, divisa in tre pannelli con: San Pietro detta il
Vangelo a san Marco, Adorazione dei Magi e Martirio di san Marco. La figura di Marco ricorre perché era il
protettore della corporazione.
Il pannello centrale, sebbene fortemente danneggiato, presenta uno stile coerente con le prime opere
dell'Angelico, con un gradino marmoreo sul quale si trova il seggio; oltre due drappi di tendaggi (richiamo
all'attività tessile della corporazione?) si vede un soffitto dipinto come un cielo stellato (richiamo
all'Annunciazione di Washington di Masolino) dove vola la colomba dello Spirito Santo.
Il pannello centrale, sebbene fortemente danneggiato, presenta uno stile coerente con le prime opere
dell'Angelico, con un gradino marmoreo sul quale si trova il seggio; oltre due drappi di tendaggi (richiamo
all'attività tessile della corporazione?) si vede un soffitto dipinto come un cielo stellato (richiamo
all'Annunciazione di Washington di Masolino) dove vola la colomba dello Spirito Santo.
Le figure del tabernacolo sono caratterizzate dall'assialità prospettica e dalla centralità. La Madonna è incorniciata da una profusione di broccati e tendaggi dorati,
che le donano un'aurea di preziosità e sospensione paragonabile alle icone. L'importanza data alle stoffe può essere legata a motivi contingenti per l'attività della
corporazione, ma la loro presenza amplificano anche la luce, i volumi e i colori della Vergine col Bambino.
I santi, nonostante la dimensione che li rendeva i più grandi di qualsiasi altro pannello fiorentino dell'epoca, vennero rappresentati con estrema perizia e forse nel
disegno venne in aiuto Lorenzo Ghiberti, come sembra suggerire un passo dei Commentari e alcune somiglianze con le sue statue per Orsanmichele (in
particolare il San Matteo e il Santo Stefano, dei quali i dipinti sulle ante sembrano le trasfigurazioni pittoriche). Le figure maestose del Tabernacolo vennero
probabilmente create per compartecipare a pieno titolo proprio con i tabernacoli di Orsanmichele, dove le altre Arti avevano le statue dei loro santi protettori.
I santi sono dipinti con una calcolata tridimensionali e sembrano bucare la superficie pittorica, come statue appunto: San Gi ovanni Battista tiene la croce in avanti
rispetto al corpo; San Giovanni Evangelista, ha la mano destra tesa in segno di benedizione e il libro voltato verso lo spettatore; San Marco, protettore dei Linaioli,
ha una posa organizzata sulle linee diagonali e un libro un prospettiva; San Pietro infine tiene con le due mani il volume delle Epistole ed ha la mano destra
lievemente più avanti del corpo e la sinistra spinta fuori da sotto il mantello.
Gli angeli musicanti della cornice sono disegnati con grande libertà, maggiore che in opere anteriori, e forse intervenne n el loro disegno Ghiberti, anche se lo stato
di conservazione non permette di giudicare se furono effettivamente dipinti dall'Angelico o da un collaboratore.
San Pietro che detta il Vangelo a san Marco (sinistra): Il primo pannello della predella mostra San Pietro che detta il Vangelo a san Marco. Vi si vede il primo
apostolo che da un pulpito ligneo a base esagonale predica alla folla mentre a sinistra san Marco seduto sta scrivendo, con l 'aiuto di un novizio inginocchiato che
gli regge il calamaio. Partecipano alla scena numerosi personaggi abbigliati secondo la moda dell'epoca, mentre lo sfondo è composto da una serie di edifici in
prospettiva, che ricordano, più o meno fedelmente, scorci dell'architettura fiorentina dipinti con notevole rifinizione (il c ampanile della Badia, palazzo Vecchio, ecc.).
La forma della figura di san Pietro e la composizione con i personaggi di profilo e di spalle ricordano alcuni affreschi dell a Cappella Brancacci, in particolare la
Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra di Masaccio. La profondità spaziale è maggiore che in scene dipinte precedentemente.
Adorazione dei Magi (centrale): Il pannello centrale presenta un'innovativa Adorazione dei Magi, dove al posto del tradizionale corteo disposto orizzontalmente
come un fregio (come nell'Annunciazione di Cortona) si trova una composizione di tipo circolare. La Vergine col Bambino è sem pre seduta sulla destra a ricevere
l'omaggio di due Magi, mentre il resto del corteo è disposto su una fila parallela in secondo piano, con il terzo magio occup ato a parlare con san Giuseppe. Nella
testa del giovane tra i due cavalli, dipinta con una tecnica pointillista, si è voluta riconoscere la mano del giovane Piero della Francesca.
Martirio di san Marco (destra): La terza scena mostra il Martirio di san Marco: il corpo del santo, trascinato per le via di Alessandria, viene colto da una
grandinata prodigiosa che mette in fuga gli aguizzini. La parte destra è occupata dalla rappresentazione della tempesta dalla quale fuggono concitatamente i
personaggi, con azioni eloquenti che nell'opera dell'artista si ritrovano solo nelle scene della Vita dei santi Cosma e Damiano della pala di San Marco. La
rappresentazione atmosferica della tempesta richiama il Miracolo della Neve del Sassetta a Siena, ma non trova riscontro nell a pittura fiorentina.
Serie di dipinti autografi di Beato Angelico, realizzati con tecnica ad affresco su muro e sono custoditi
nel Museo Nazionale di San Marco a Firenze.Gli affreschi furono affidati a Beato Angelico – indicato da
autorevoli fonti – che iniziò quasi subito e pressoché parallelamente ai lavori di Michelozzo, decorando
le stanze che via via venivano strutturalmente trasformate.
L’Angelico vi lavorò con costanza fino al 1446-47, periodo in cui partì per Roma. Secondo alcuni
studiosi, tra i quali la Ciaranfi e Pope-Hennessy, l’artista si riattivò alla decorazione del convento anche
più tardi, al ritorno dal soggiorno romano. Questo farebbe presupporre, quindi, un periodo di
partecipazione ancora più ampio (1438 – 1446/50).
Per quanto riguarda la cronologia dei dipinti, tutti gli studiosi di storia dell’arte convergono sul fatto che
sia difficile stabilirne una precisa successione nella realizzazione delle singole composizioni, dal
momento che queste riportano episodi tra essi non collegabili.
Le celle, le cui raffigurazioni sono a tratte dal Vangelo, si trovano al primo piano, nei tre lati del chiostro
di Sant’Antonino.
Per quanto riguarda l’autografia dell’Angelico, questa è stata oggetto di accesi dibattiti nel corso dei
secoli, e molti studiosi misero in dubbio addirittura la poderosa entità degli interventi di collaborazione
dell’artista, e non soltanto la completa attribuzione.
In queste pagine analizzeremo soltanto sei affreschi che riportano all’Angelico, di cui, tre autografi (San
Domenico adorante, la Trasfigurazione, Cristo deriso), due prevalentemente attribuiti (Noli me tangere e
l’Annunciazione) ed uno realizzato con collaboratori (Natività).
1447 Cappella Nicolina nel Palazzo Apostolico Vaticano (Santo Stefano Condotto Al
Martirio e Lapidazione) Pianta rettangolare, tre pareti, decorate ciascuna nel registro superiore da un grande
lunettone con un affresco unico composto da due Storie di santo Stefano; il registro mediano
è invece composto da due scene separate per parete con Storie di san Lorenzo, tranne la
parete sinistra, con le finestre, che contiene una sola storia; il registro inferiore, dove si
aprono alcune porte, è infine decorato da una finta tappezzeria verde, oggi in larga parte
ridipinta successivamente con una predominanza di colori rosso e oro.
Le pareti sono di dimensioni uguali, ma l'arcone di entrata e quello che incornicia la parete
centrale hanno uno spessore voltato a botte che dà origine alla forma rettangolare del
pavimento; qui si trovano affrescati a grandezza naturale otto Padri della Chiesa sotto
nicchioni architettonici dipinti (Tommaso d'Aquino, Ambrogio, Agostino e
Bonaventura/Girolamo), mentre nel sott'arco sotto l'altare si trovano i santi Atanasio, Leone
Magno, Gregorio Magno e Giovanni Crisostomo. Negli sguanci delle finestre sono inseriti
rosoni e medaglioni con santi, di mano di aiuti. Nella volta infine si trovano i quattro
Gli affreschi della Cappella Niccolina sono caratterizzati da Evangelisti, seduti su nubi su sfondo azzurro stellato. Il Vasari descrive anche come
figure solide, gesti pacati e solenni, e un tono generale più sull'altare si trovasse una pala con la Deposizione, ma non si hanno tracce di quest'opera
aulico dell'abituale sinteticità meditativa dell'artista. Essi sono oltre la sua menzione.
profondamente diversi da quelli del convento di San Marco a
Firenze (1440-1445 circa), per via della ricchezza di dettagli, di La prima scena della Consacrazione di santo Stefano si svolge in una basilica scoperchiata,
citazioni colte e di motivi più vari ispirati a principi di ricchezza, dalla nitida architettura che lega elementi paleocristiani (le colonne con architrave della
complessità compositiva e varietà. navata centrale) con elementi gotici (il transetto con le volte a crociera), sapientemente
Come è stato acutamente fatto notare da studiosi come Pope- illuminata da sinistra verso destra: evidente è il carattere romano dell'architettura, che
Hennessy, le differenze non sono però da imputare a uno dimostra l'avvenuta assimilazione delle caratteristiche locali da parte del pittore fiorentino. Il
sviluppo nello stile dell'autore, quanto piuttosto alla diversa disegno delle lastre del paivimento indica gli assi della scena. Al centro della scena santo
destinazione della decorazione: in San Marco gli affreschi Stefano è inginocchiato mentre san Pietro, in piedi davanti all'altare con ciborio (un altro
dovevano accompagnare ed aiutare la meditazione dei elemento tipico delle basiliche romane), gli sta consegnando la pisside e la patena durante la
monaci, mentre in Vaticano essi dovevano celebrare la consacrazione come diacono. La figura curva di san Pietro e quella di santo Stefano sono
potenza e la vastità degli orizzonti intellettuali del papato, isolate in primo piano, mentre dietro di loro otto apostoli assistono alla scena, con pose
nell'impresa di rinnovare i fasti dell'antica Roma dopo il elganti e sciolte che ricordano altre opere dell'Angelico come la Pala di Annalena.
disastroso abbandono della città durante la cattività Il lato destro mostra invece la Distribuzione delle elemosine, ambientata sul sagrato della
avignonese. stessa chiesa, che vede santo Stefano mentre dà, attingendo a una bisaccia, alcune monete
Lo stile della cappella Niccolina sembra dopotutto agli astanti, tra cui una donna e un bambino con la mano tesa. Tra i personaggi si vedono un
preannunciarsi nelle vivaci narrazioni della predella della Pala frate che controlla la lista delle elemosine, un uomo che prega, un povero pellegrino che
di San Marco (1440-1443 circa) o in altre opere anteriori, accorre (tipico è il bastone - detto bordone - e il cappello a falde larghe) ed altri personaggi
magari predelle o opere minori, dove l'artista aveva potuto (un artigiano, una donna con un paniere) che se ne vanno dopo aver ricevuto l'aiuto. Sullo
dare un più libero sfogo al proprio estro creativo. sfondo si vede una via scorciata verso l'ipotetico punto di fuga centrale della lunetta, dove si
affaccia un giardino murato e varie abitazioni, mentre in alto si levano suggestive torri e
campanili. La scena in una via esterna ricorda l'importazione di alcune opere dell'Angelico
immediatamente precedenti al viaggio a Roma, come la Sepoltura dei santi Cosma e
Damiano, dalla predella della Pala di San Marco.
L'affresco Santo Stefano riceve il diaconato e distribuisce le elemosine occupa la lunetta della parete di sinistra e da qui iniziano le Storie di santo Stefano. Beato
Angelico lavorò alla Cappella Niccolina durante il suo soggiorno romano tra il 1445 e il 1450. I primi documenti che attestano gli affreschi sono datati tra il 9
maggio e il 1 giugno 1447, durante il pontificato di Niccolò V, ma è possibile che fossero già stati avviati nei due anni precedenti, sotto Eugenio IV. Gli affreschi di
quella che era la cappella privata del papa dovevano essere terminati, dopo una pausa nell'estate 1447 quando il pittore si r ecò a Orvieto, entro la fine del 1448. Il
1 gennaio 1449 l'Angelico riceveva infatti la commissione per un nuovo lavoro.
La lunette del registro superiore sono divise in due episodi tramite l'espediente di un muro di separazione verticale al centro, ma l'ambientazione generale è la
medesima. In questa doppia scena ad esempio sia la piattaforma rialzata delle chiesa (a sinistra) e del suo sagrato (a destra), sia il cielo sono in comune. La
lunetta ha una precisa corrispondenza con le scene delle Storie di san Lorenzo del registro inferiore, in particolare la Cons acrazione di san Lorenzo come
diacono, sotto questa lunetta, e San Lorenzo distribuisce le elemosine nella parete successiva.
Michelozzo di Bartolomeo Commissionato da Cosimo il Vecchio all’architetto Michelozzo (Michelozzo di
Bartolomeo Michelozzi) negli anni Quaranta del Quattrocento, per dare una degna
1444 - 1460 Palazzo Medici residenza alla Casata dei Medici, ai tempi potente famiglia di Firenze.
L’edificio concepito da Michelozzo, considerato uno dei capolavori dell’architettura
rinascimentale, è una costruzione imponente ed austera, di forma pressoché cubica, il
cui stile avrebbe profondamente influenzato quello di molti edifici successivi, tra cui
Palazzo Strozzi, realizzato circa quarant’anni più tardi.
Va detto che l’attuale Palazzo Medici Riccardi è molto più grande dell’edificio
progettato da Michelozzo, dato che esso venne notevolmente ampliato nel Seicento,
pur mantenendo lo stile originario.
Le facciate meridionale e occidentale del palazzo sono caratterizzate da un
rivestimento a bugnato -molto marcato nella prima fascia, poi via via più leggero – e da
due ordini di bifore, una combinazione che diventerà in seguito una sorta di “marchio di
fabbrica” di molti palazzi della Firenze rinascimentale.
L’aspetto esterno austero contrasta con le forme più delicate del cortile, circondato su
tutti i lati da un portico con colonne di ordine composito; sotto il porticato è collocata la
scultura cinquecentesca Orfeo di Baccio Bandinelli. Un piccolo giardino si trova poi sul
retro del palazzo.
Alla metà del Seicento, l’edificio fu venduto alla famiglia Riccardi, una dinastia di
abbienti banchieri che ristrutturarono ed ampliarono il palazzo raddoppiandone la
Leon Battista Alberti facciata ed aggiungendo nuovi interni in stile Barocco, riccamente decorati.
1453 Palazzo Rucellai Leon Battista Alberti progettò Palazzo Rucellai a Firenze, e ne affidò la realizzazione a Bernardo
Rossellino. Venne ispirato da una recente attività di Brunelleschi che gli diede l’idea
di sperimentare l’architettura dell’antica Roma nell’edilizia fiorentina di quel tempo. Adattò gli schemi
monumentali classici agli edifici già presenti in quell’epoca e ci riuscì grazie all’incarico datogli
da Giovanni di Paolo Rucellai, un ricco mercante fiorentino. Lo incaricò di costruire una nuova
residenza in uno dei quartieri più antichi di Firenze. L’artista così dovette adattare il suo progetto
originario in uni spazio assai più ristretto ed irregolare, delimitato da caseggiati in stile medievale.
Questo ostacolo però rafforzò la sua fantasia compositiva, elaborò
infatti soluzioni architettoniche brillanti ed efficaci, che lasciarono un segno profondo nell’architettura e
nell’urbanistica dell’epoca, sfruttando ogni centimetro della superficie assegnatagli.
Elementi tipici dello stile classico romano come archi, bassorilievi e pilastri furono replicati in dimensioni
minori nella facciata dell’edificio, dando una solida impressione di forza ma allo stesso tempo, l’ossatura
interna dell’edificio veniva delicatamente avvolta intorno ad un cortile circondato da logge e porticati,
offrendo uno spettacolo di quiete silenziosa ai suoi abitanti. Il complesso raccoglieva maestosità ed
esclusività in una sola immagine. L’architettura classica diventava così parte integrante dell’edilizia
privata.
La facciata di Palazzo Rucellai è suddivisa da un reticolo geometrico regolare, e nel suo interno si
inseriscono le bifore che hanno in rilievo lo stemma della famiglia Rucellai, fregi e blasoni.
Questo reticolo è definito orizzontalmente dalle cornici marcapiano, cioè da cornici che evidenziano i piani
del palazzo, e verticalmente da lesene. Quest’ultime si concludono con capitelli raffiguranti i tre ordini
classici, ovvero dorico, ionico e corinzio.
Nel dipinto di Paolo Uccello intitolato Niccolò da Tolentino alla testa della cavalleria fiorentina la prospettiva geometrica è usata per organizzare il dipinto.
L’artista infatti creò una scena sulla quale la prospettiva agisce nei confronti di cavalli e cavalieri. Anche le armi, in mano ai soldati oppure a terra, sono
sottoposte ad un rigoroso controllo prospettico. Pare inoltre che la scena rappresentata sia solo un pretesto per realizzare un teatro prospettico ideale. Se si
osservano attentamente le lance spezzate a terra si nota che i pezzi creano una griglia prospettica.
Questa disposizione regolare dei frammenti ordina e misura lo spazio come avviene per un pavimento piastrellato. Inoltre il loro orientamento disposto in
corrispondenza delle linee di fuga permette di percepire una progressione di profondità. L’effetto di questa esercitazione prospettica non tiene conto di
eventuali aggiustamenti. Infatti il soldato disteso a terra, a sinistra, pur essendo in primo piano, pare molto più piccolo di quelli a cavallo. Anche gli altri tre
pannelli che illustrano La Battaglia di San Romano furono concepiti con la stessa intenzione.
Il formato dell’opera Niccolò da Tolentino alla testa della cavalleria fiorentina è panoramico. La scena si svolge quindi nella dimensione orizzontale che
permette di rappresentare diversi personaggi. I due eserciti si affrontano al centro e sono schierati a destra, quello fiorentino e a sinistra quello senese.
Nonostante l’articolazione schematica dello spazio Paolo Uccello utilizzò diversi punti di vista che rendono l’immagine irreale.
Il dipinto si può suddividere in due metà orizzontali sovrapposte. In basso il condottiero fiorentino che affronta l’esercito senese. In alto sono rappresentate
alcune scene di caccia che si svolgono nelle campagne. L’orizzonte non è visibile e la scena pare osservata da una posizione alta che permette una
rappresentazione simile ad una mappa. Questo effetto si realizza nel secondo piano che risulta descritto con un punto di vista diverso rispetto al primo
piano. Le lance dei soldati di Firenze, a sinistra, creano una scansione regolare dello spazio. Sono infatti allineate su oblique parallele.
1438–40 Battaglie di San Romano
Niccolò da Tolentino, che indossa un elaborato cappello, guida l’assalto dei soldati
fiorentini contro le truppe di Siena. Il condottiero avanza e ordina l’attacco su di un
cavallo bianco bardato con finimenti preziosi. Dietro di lui i trombettieri trasmettono
l’ordine suonando i loro lunghi strumenti. Un araldo avanza sventolando un grande
stendardo. L’esercito di Firenze giunge intanto da sinistra per cogliere di sorpresa i
senesi. Sul terreno sono caduti pezzi di lance, armi e armature. Un soldato è a terra
disteso sotto gli zoccoli dei soldati di Firenze. Le armature che vengono raffigurate erano
utilizzate nei tornei cavallereschi. Una siepe con fiori divide la scena dal paesaggio della
campagna toscana dove giovani nobili cacciano armati di balestra e giavellotto. Si notano
anche, verso l’alto, i due cavalieri che corsero ad avvisare il capitano Michele Attendolo
che determinerà la vittoria. I cavalieri in rosso e argento sono fiorentini mentre quelli
senesi portano i colori nero e argento.
La tavola intitolata Niccolò da Tolentino alla testa della cavalleria fiorentina fa parte di
un trittico che narra le fasi della Battaglia di San Romano del 1432. Durante il
combattimento i fiorentini guidati da Niccolò da Tolentino sconfissero i senesi. Il dipinto
è uno dei primi esempi di opera che documenta un avvenimento storico. La tavola è
quella delle tre più danneggiata, soprattutto nella parte bassa nella quale emerge la
preparazione del fondo. Venne inoltre tagliata nella parte arcuata per adattarla alla
nuova sede dopo l’acquisto da parte di Lorenzo il Magnifico.
1447–48 Diluvio Universale e recessione acque, ciclo nel Chiostro Verde di Santa Maria
Novella
L’opera è parte della serie di affreschi con Storie della Genesi che decorano il lato nord del
Chiostro Verde, tutti realizzati a monocromo con un pigmento a base di terra verdastra, da
cui deriva il nome del luogo. La particolarità del dipinto, diviso in due scene, è costituita dal
doppio punto di fuga prospettico che conferisce un tono irreale alla composizione. I
personaggi che tentano di salire sull’arca sono vertiginosamente scorciati verso il fondo,
come i cadaveri allineati di fronte a Noè in primo piano.
Gli affreschi furono pesantemente danneggiati dall’alluvione del 1966. Furono restaurati
attraverso il distacco dell’intonaco superficiale che venne trasferito su tela, per poi essere
ricollocato nella posizione d’origine
Primo esempio in Italia di ritratto femminile, assieme al Ritratto di principessa estense di Pisanello,
databile al 1435-1449 circa, mentre è il più antico doppio ritratto conosciuto in assoluto. Inoltre si
tratta del primo dipinto in Europa dove il ritratto è inserito in uno sfondo architettonico e con un
paesaggio, ispirato agli esempi dei Primitivi fiamminghi, che spesso Lippi usò come fonte d'ispirazione.
Il motivo della finestra che si apre su un paesaggio visto a volo d'uccello è infatti tipicamente nordico, e
in questo caso Lippi creò una banchina affacciata su un canale, decorata da fioriere e su cui si
affacciano alcune abitazioni.
La protagonista è ritratta di profilo, riccamente abbigliata alla maniera francese e ingioiellata, con un
alto copricapo caratterizzato da un doppio lembo di tessuto scarlatto ricadente sulle spalle ("infulae").
Essa guarda avanti verso un'apertura, da dove si affaccia un giovane che le sta davanti. I loro sguardi
sono alteri e composti e sembrano non incontrarsi. Dietro la donna si trova una finestra aperta da cui si
intravede un paesaggio campestre.
Domenico Veneziano
1440 Ritratto di Matteo Oliveri
1445–47 Pala di Santa Lucia de Magnoli (predella: Battista nel Deserto, miracolo di san
Zanobi)
Maria in Maestà è seduta al centro della tavola con in braccio Gesù Bambino. Ai lati, in piedi, vi sono
invece quattro Santi, due a sinistra e due a destra. La Vergine indossa un abito pieghettato di colore rosa
stretto in vita e porta un ampio mantello blu. Con la mano destra poi sostiene il Bambino in piedi sulla sua
gamba.
A partire da sinistra San Francesco indossa un saio. Osserva in basso e tiene un libretto rosso in mano. San
Giovanni Battista alla sua destra invece indica la Vergine al centro. Con la mano sinistra inoltre regge la
croce astile che lo contraddistingue. A destra di Maria San Zanobi ha la mano destra alzata in segno di
benedizione. Infine Santa Lucia, dipinta di profilo, sorregge un piattino e una penna. L’ambiente nel quale
si svolge la scena è una architettura gotica in marmo policromo. Frontalmente tre archetti a sesto acuto
incorniciano i personaggi della scena. Sul gradino inferiore infine è presente la scritta: OPVS DOMINICI DE
VENETIIS HO[C] MATER DEI MISERERE MEI DATVM EST.
Si tratta di una Sacra Conversazione con la Maestà della Madonna. I Santi sono, a partire da Sinistra, San
Francesco, San Giovanni Battista, San Zanobi e Santa Lucia alla quale è dedicata la chiesa dove si trovava la
Pala.
Domenico Veneziano non si limitò ad applicare le regole prospettiche per ottenere una rappresentazione convincente, secondo le tecniche a lui contemporanee. Ne dà infatti
una propria interpretazione cogliendo influssi da altri artisti. Così la monumentalità dei personaggi, solidi nel volume e dalle posizioni composte, deriva dalle ricerche del
Masaccio. Il San Giovanni Battista poi ricorda lo stile di Andrea del Castagno. Infine le vesti sono modellate morbidamente e senza chiaroscuri profondi, sugger endo uno spazio
mentale più che solido.
La Pala di Santa Lucia de’ Magnoli è una tempera su tavola. Tale tecnica fu utilizzata ancora per tutto il Quattrocento dalla maggior parte degli artisti. A par tire dagli ultimi
decenni del secolo invece Antonello da Messina e pochi pittori introdussero l’olio come legante per superfici più elastiche e resistenti. Inoltre attraverso sottili velatur e
trasparenti fu possibile creare immagini più dettagliate e brillanti. I colori, chiari e ben armonizzati tra loro sembrano quelli dei dipinti di Beato Angelico. Colori caldi e colori
freddi poi sono distribuiti in modo molto equilibrato e formano un insieme armonico nel quale non prevale un’unica atmosfera cromatica. Inoltre, la luce è naturale e proviene
dall’alto, filtrando dallo spazio aperto sopra le architetture. È una luce serena che illumina in modo diffuso personaggi e particolari architettonici senza creare forti chiaroscuri.
Lo spazio è chiaramente leggibile e geometrico, costruito sapientemente utilizzando la prospettiva. Il punto di vista dell’os servatore si trova all’altezza del piano sul quale poggia
il trono della Vergine. Sono però tre i punti di fuga verso i quali corrono le linee di fuga. Tre aranci si affacciano oltre la loggia contro il cielo blu. La composizione della Pala di
Santa Lucia de’ Magnoli si articola intorno ad un asse centrale che separa le due parti, sinistra e destra che si riflettono in modo simmetrico. Le architetture poi rispettano questa
simmetria come anche la disposizione dei personaggi, due per lato.
Gli archetti che chiudono, in alto gli spazi, sono a sesto acuto e in numero di tre, uno centrale che scandisce lo spazio riservato alla Madonna e al Bambino, due laterali che
incorniciano i Santi. La Pala presenta un ambiente strutturato su tre volumi. Questo artificio permette quindi di percepire un ambiente unico ma tradizionalmente suddiviso in
scomparti. Si tratta così di un espediente per suggerire un nuovo modello. L’opera, infatti, rappresenta un primo esempio di Pala d’altare privo di s comparti e di fondo in oro.
Tali caratteristiche appartenevano infatti alla tradizione iconografica medievale.
Predella: La tavoletta mostra un'iconografia unica delle storie di san Giovanni Battista, cioè il momento
in cui abbandona le proprie eleganti vesti civili per indossare quelle da eremita, fatte di pelli e peli di
cammello, per incamminarsi lungo la via dell'ascetismo. Forse Domenico si ispirò a una scena dei
perduti affreschi di Pisanello e Gentile da Fabriano nella basilica del Laterano. L'opera è soprattutto
straordinaria per l'ambientazione montana, realizzata in maniera del tutto innovativa, con le rocce
appuntite composte come "prismi di luce" dai colori tenui e accesi. Si tratta di un'evoluzione del
paesaggio rispetto alle tradizionali rocce scheggiate della tradizione bizantina e poi gotica (delle quali
conserva comunque l'evidenza delle asperità), aggiornata alle nuove iconografie paesistiche
di Masaccio nella Cappella Brancacci (Pagamento del tributo, Predica di san Pietro).
Amorevole è la cura dei dettagli, dagli arbusti ai sassolini del sentiero, rivelatori di un gusto di
transizione tra tardo gotico e rinascimento, come dimostra anche una certa assenza di precisa
collocazione spaziale della figura del santo, che non proietta ombre. Più originale è invece il nudo del
protagonista, chiaramente ispirato alla statuaria antica e legato a una reinterpretazione cristiana del
mito di Ercole al bivio, allora molto in voga. Il cielo inoltre non è più l'astratto fondo oro dei pittori
precedenti, ma è un naturale colore azzurro venato di nubi e che si schiarisce verso l'orizzonte.
Straordinaria è infine, per gli anni quaranta del Quattrocento, la presenza di montagne sfumate in
lontananza dalla foschia, tra primi esempi a Firenze di prospettiva aerea.
Piero della Francesca La più famosa e celebrata tra le sue opere giovanili. Realizzata per l’Abbazia camaldolese di Sansepolcro, città
1440 Battesimo di Cristo natale dell’artista, costituiva la parte centrale di un polittico, destinato probabilmente all’altar maggiore,
completato, per le restanti parti, dal pittore Matteo di Giovanni. L’episodio del battesimo di Gesù, cui l’artista
fa riferimento, è narrato nei Vangeli di Marco (1,9-11), Matteo (3,13-17) e Luca (3,21-22). Il Vangelo di
Giovanni riporta la testimonianza da parte di Giovanni Battista della discesa dello Spirito Santo su Gesù ma
senza parlare del battesimo di Cristo. Giovanni Battista giunse nei pressi del Mar Morto, dove confluisce il
fiume Giordano, e lì iniziò a predicare l’avvento del Regno di Dio e ad amministrare il battesimo per il
perdono dei peccati. Si presentò a lui il giovane Gesù, e gli chiese di essere battezzato. Ma Giovanni,
avendolo riconosciuto, cercò di sottrarsi. Allora Giovanni lo battezzò. Secondo i Vangeli, in quel momento lo
Spirito Santo, in forma di colomba, scese su di lui.
Al centro, la figura di Gesù, sovrastato dalla colomba, simbolo dello Spirito Santo. Cristo è affiancato, a
sinistra, da un albero, simbolo della vita che si rigenera con l’avvento del Salvatore, e a destra da
san Giovanni Battista, vestito di una pelle a brandelli. Il Redentore è mostrato frontalmente, immobile, con le
mani giunte e gli occhi umilmente abbassati. La perfezione del suo corpo e la sua posa rigida e austera lo
rendono simile ad un’antica statua greca e d’altro canto il colore pallidissimo della sua pelle, richiamato da
quello dell’albero, contribuisce a conferirgli tale aspetto scultoreo.
All’estrema sinistra, tre angeli assistono all’evento. Quello con un drappo rosa sulla spalla, seminascosto
dall’albero, guarda dritto verso l’osservatore. Il suo compito è quello di agganciare lo sguardo del fedele e di
richiamare la sua attenzione. Egli svolge, insomma, la stessa funzione del “festaiuolo”, colui che, nel teatro
rinascimentale commentava e presentava gli spettacoli. Sul fondo si scorgono dei farisei. Uno di loro, il più
vecchio, indica il cielo con il braccio destro, puntando alla colomba sospesa sul Cristo. Questo suo gesto è
enfatizzato dalla posizione parallela della gamba sinistra del Battista. All’estrema destra, un neofita si spoglia
per essere a sua volta battezzato: un lampo di realismo, in una scena così intellettualmente concepita, che
richiama i bellissimi, e naturalissimi, neofiti dipinti da Masaccio nella Cappella Brancacci. Un possibile
modello iconografico per quest’uomo che si sveste potrebbe essere il perduto affresco di Pisanello nella
Basilica di San Giovanni in Laterano, di cui resta uno studio al Louvre.
La Madonna della Misericordia: Fulcro dell'altare ed immagine di attrazione immediata, quasi magnetica
per il riguardante, è la tavola centinata al centro. Su un luminosissimo fondo oro, prescritto dalla com
mittenza, domina imperturbabile e distante, carica di una sacralità al di sopra di ogni limite geografico e
temporale tra mondo antico ed era cristiana, emblema di sovranità al di fuori della sfera terrena, la Regina
Crocifissione: Molto spesso, nell’arco dei secoli, gli studiosi Celeste, la Vergine Incoronata in veste di Mater Misericordiae. Il volto bellissimo, perfetto nell' assoluta
hanno avanzato ipotesi di similitudini cromatiche e di geometria dei lineamenti, si imposta pienamente frontale sul collo slanciato ed eretto sottolineato dalla
espressività con il pannello cuspidale del “Polittico del linea netta e precisa dell'ovale dello scollo. Nell'assoluta impassibilità di questo volto cosi giovane, eppure
Carmine” di Pisa – ad uguale tematica – realizzato grave di sublime sapienza, lo sguardo intenso rivolto in basso all'umanità in preghiera, dagli occhi
dal Masaccio.l’enfatizzazione dei moti di drammaticità, leggermente a mandorla, dal fascino vagamente esotico, promette di comprendere, assistere, proteggere
attraverso i quali si manifesta l’intenso dolore della Madonna, chi la invochi con fiducia inf ondendo conforto, consolazione e speranza. L'utilizzo di un fondo dorato, che
come pure quello di San Giovanni, appare cosa alquanto potrebbe essere inteso come volontà di riallacciarsi ai pre-rinascimentali, risponde in realtà, come
eccezionale nell’arte di Piero della Francesca. abbiamo visto, a una richiesta dei committenti. Inoltre, come nella pittura gotica, si nota un'assenza di
In effetti, ciò potrebbe trarci in inganno, e, in considerazione a proporzioni tra i personaggi e la Vergine. L'insieme è tuttavia perfettamente rinascimentale, poiché la
questo, potremmo leggere nelle braccia aperte della Madonna doratura non è un semplice strato di fondo. Inoltre, i personaggi si stagliano nettamente e con grande
e di San Giovanni, messaggi più solenni e liturgici, spogli di ogni semplicità nel manto della Vergine. Piero applica le regole della prospettiva, ma trae altresì ispirazione
doloroso rigonfiamento, in linea con un Cristo abbastanza dalla bella Madonna della Misericordia di Parri di Spinello del santuario della Madonna delle Grazie ad
composto e privo di violente contorsioni del corpo. Arezzo.
1452–66 Storie della Vera Croce nella basilica di San Francesco di Arezzo
Nel 1452 Bicci di Lorenzo, artista designato dalla ricca famiglia di mercanti di Arezzo, i Bacci, per
dipingere il ciclo di affreschi dentro la chiesa di San Francesco, muore lasciando incompiuto il lavoro.
Subentra così Piero della Francesca, che si dedica all’opera con lentezza: l’ultimo pagamento
documentato è del 1466. Nel mezzo, persino un soggiorno a Roma, chiamato da papa Niccolò V per
dipingere le stanze vaticane.
Quando si appresta a decorare la cappella Bacci, sa che dovrà riuscire a inquadrare la sua arte
rivoluzionaria, geometrica e prospettica in un vano gotico; concepire qualcosa di dirompente su una
strada già troppe volte battuta da altri.
La storia della Vera Croce, desunta da un’opera medievale celebre, la “Legenda Aurea” di Jacopo da
Varagine. Protagonista “Il” legno: quello dell’albero più antico, quello fra le cui venature era scorso il
sangue di Cristo, quello in grado di accompagnare attraverso la morte e ridare la vita. La storia di
questa leggenda è lunga e complessa: un groviglio di tradizioni, varianti e interpretazioni che abbraccia
pellegrini, racconti di viaggiatori e testi sacri fra mito e storia.
1 Morte di Adamo (Adamo morente e Seth incontra l’arcangelo Michele e Adamo morto e albero della vita ): Intorno ad Adamo morente, la moglie Eva, oramai vecchissima, il
figlio Seth anch’esso incanutito e giovani nipoti stanno ad ascoltare le ultime volontà del patriarca. Adamo sta per morire, ed è infatti accasciato sulla destra , con l'anziana Eva
alle sue spalle. Suo figlio Seth riceve dall'arcangelo Michele (sullo sfondo) il germoglio dell'Albero della Conoscenza, che poi mette (scena centrale) in boc ca al padre morto.
Dall'Albero, che visse fino ai tempi di Salomone, nascerà il legno per la Croce di Cristo. Nel gruppo sulla destra, Adamo, arrivato a novecentotrent'anni di età sta per morire ed ha
ancora tre giorni di tempo per evitare la sua fine. Privo di forze, trovandosi seduto a terra sofferente con il capo sorretto da Eva, si raccomanda al figlio Seth (I'uomo con i capelli
bianchi fra la donna di fronte vestita in nero e il giovane che si tiene appoggiato al bastone) che corra dall'angelo "a le p orte del Paradiso terrestre", per chiedergli "l'olio de la
misericordia". A sinistra del gruppo, sullo sfondo (ben visibile nel particolare), si vede l'arcangelo Michele che nega l'olio a Seth e che, in alternativa, gli consegna qualche seme
colto dall'albero del Peccato, da portare alla bocca del vecchio patriarca. Questi, con l'assunzione dei "granelli" avrebbe a vuto la garanzia che quando il seme avesse fatto
"frutto", sarebbe completamente "guarito" e "sano". Sulla sinistra, il seppellimento del patriarca nella cui bocca, sotto la lingua, Seth mise i semi ("granelli'), o meglio, come fu
scritto, "piantò quel ramoscello ....... piantato che fue, crebbe uno grande albore" (quello che domina al centro della composizione). Ancora più a sinistra compaiono fig ure
cariche di drammatica espressività – quali non appariranno più in tutti gli altri episodi – soprattutto in quella femminile a braccia levate (ben visibile nel particolare).
Adamo morto è circondato dal figlio Seth ricurvo sulla salma del padre, da una giovane donna a braccia aperte che urla il suo dolore, da gruppo di figure nude con, al centro, un
giovane paludato in vesti di colore azzurro e rosso. Sullo sfondo due giovani adamiti assistono alla scena guardandosi negli occhi. La pianta rappresentata da Piero è la nuova
sorgente di vita che darà i frutti promessi nel segno della profezia richiamata dai colori rosso (regalità) e az zurro (divinità).
1
2 Adorazione della Croce e incontro tra Salomone e la Regina di Saba (Adorazione del Legno e Incontro tra la regina di Saba e re Salomone): La Regina di Saba, attraversando
un ponte, riconosce in una trave il legno dell'albero della Conoscenza e si inginocchia ad adorarlo. Nella parte destra, in un interno, la Regina si incontra con re Salomone, davanti
al quale si inchina in segno di sottomissione. L'albero spuntato posto sopra la tomba di Adamo si conservò fino all'epoca di Salomone (970 -930 a.C. circa), quando questi lo fece
abbattere. La tavola che ne ricavarono non poteva essere impiegata in nessuna maniera perché talvolta risultava troppo grande , talvolta troppo piccola, facendo infuriare coloro
i quali avevano il compito di modificarla ed assemblarla, tanto che "gli artefici, adirati, si riprovarono e gittaronla in un luogo perché fosse ponticello a' vi andanti" (sul Siloe, un
piccolo lago che si trovava nelle vicinanze).
La regina di Saba, che arrivò all''incontro per ascoltare "la sapienza di Salomone e volendo passare il detto laghetto, dove il legno era posto, vidde per ispirito che il Salvatore del
mondo dovea essere appiccato (riferito al crocifisso da appendere) in quello legno; e però non volse valicare sopra quello le gno", si genuflesse per meglio venerarlo (vedi parte
sinistra della composizione), circondata dalle proprie dame. Sulla sinistra, in secondo piano, gli staffieri stanno dialogando tra loro in attesa che si compia il rito. Sullo sfondo, una
meravigliosa paesaggistica collinosa nella quale dominano due grandi alberi. Nella raffigurazione di destra, dove l' "ordine di colonne corinzie divinamente misurate" (Le Vite del
Vasari) si oppone alla naturale paesaggistica coronante la scena dell'Adorazione, viene raffigurato l'incontro di Salomone con la regina di Saba, rispettivamente attorniati da
dignitari e dame. È bene osservare che in tutto l'ambito della "Legenda aurea", tale incontro non riveste nessun interesse; a llora perché tanto rilievo da parte dell'artista? Tale
scena potrebbe mettere in evidenza l'interessamento di Piero per il mondo aulico, non certamente per sfarzosità ma per la controllata intonazione del cerimoniale.La regina di
Saba con cinque ancelle, palafrenieri e cavalli al seguito, giunta in prossimità di quel Legno, usato come ponte sul lago, s’inginocchia assorta in preghiera in un paesaggio etereo
di colline e magnifici alberi come quello della Valtiberina. In Piero la premonizione della regina di Saba diviene atto sommesso di preghiera e di riflessione che si
coglie nell’attesa serena dei paggi intorno ai cavalli e nella pacata compostezza delle ancelle.
Il ricevimento nella reggia contrappone ed unisce allo stesso tempo la regina di Saba al re Salomone. La regina, inchinatasi per ossequiare il re di Gerusalemme, occupa con le
cinque ancelle del suo seguito la parte destra della scena, mentre il re, posto al centro della scena, è accompagnato alla si nistra da quattro chierici ed alti dignitari di corte.
Salomone è coperto da un mantello tessuto a fiori di melograno: segno di abbondanza e ricchezza. Abiti regali e sacerdotali insieme, con il cappello in uso ai cardinali resi denti a
Roma intorno alla metà del XV sec., potendo raffigurarsi in esso il cardinale Bessarione, protettore dell’Ordine dei Frati Minori e artefice della riconciliazione tra le chiese
d’oriente e d’occidente (come avvenne nel Concilio di Firenze intorno al 1439/ 1440). Tra chierici orientali e nobili dignita ri possono essere individuati i committenti di Piero della
famiglia Bacci e, forse, l’artista autoritratto sullo sfondo. Saba, di fronte al re, lascia anch’essa intravedere, oltre il trasparente velo bianco che la adorna, il motivo a fiori di
melograno della bianca veste.
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1468–70 Flagellazione
Considerata come una delle opere più controverse del Rinascimento. Il dipinto fu quasi
certamente eseguito a Urbino, dove il pittore si era trasferito dalla fine degli anni
Cinquanta e dove visse, a più riprese, per un lungo periodo. Committente del quadro
potrebbe essere stato Federico da Montefeltro, duca di Urbino e suo grande ammiratore.
Federico era un guerriero; tuttavia, aveva acquisito nel tempo la cultura degna di un
sovrano europeo e aveva alimentato nella sua corte un clima di sontuoso e raffinato
mecenatismo.
La Flagellazione riunisce due scene distinte eppure connesse fra di loro: a destra, in primo
piano, tre uomini sembrano colloquiare insieme, in una strada affiancata da edifici antichi e
rinascimentali. A sinistra, Cristo legato alla colonna è flagellato al cospetto di Pilato, che
Quest’opera ha costituito e continua a costituire uno degli osserva la scena seduto sul trono. Questa pagina del Vangelo è ambientata sotto una loggia
enigmi più avvincenti della storia dell’arte. Nel corso del classica, sostenuta da colonne composite scanalate, coperta da un soffitto a cassettoni, e
tempo sono state formulate almeno dieci ipotesi ispirata apertamente alla contemporanea architettura di Leon Battista Alberti, grande
interpretative differenti, delle quali ricordiamo solo la più architetto del Rinascimento che di Piero era amico. La pavimentazione in cotto della piazza
recente e attendibile. Il dipinto sarebbe un’allegoria della è percorsa da lunghe strisce di marmo bianco; il pavimento della loggia, invece, è
Chiesa tribolata dai Turchi, con un chiaro riferimento riccamente decorato con grandi tarsie marmoree bianche e nere. La scena è resa con
alla presa di Costantinopoli, avvenuta otto anni prima della grande perizia tecnica attraverso la definizione attenta di ogni particolare.
realizzazione del dipinto, nel 1453. È stato osservato, a Nella Flagellazione, i due gruppi di figure, benché apparentemente estranei fra di loro, sono
sostegno di questa ipotesi, che la colonna alla quale è legato idealmente unificati da una costruzione prospettica assai complessa, che è poi la vera
Cristo è sormontata dalla statua classica di un uomo che protagonista della tavola. Tale prospettiva sembra voler indicare che il quadro non va letto
sorregge un globo; si sa che un monumento simile era stato da sinistra a destra, come vorrebbe la logica, ma da destra a sinistra, lasciando intuire che il
eretto in onore di Costantino nell’appena rifondata titolo dell’opera è fuorviante: la flagellazione di Cristo, così relegata in secondo piano,
Costantinopoli. sembra avere in sé stessa un valore simbolico e appare evocativa di qualcos’altro, forse un
Ponzio Pilato, che assiste impotente alla tortura, sarebbe in fatto storico contemporaneo alla vita dell’artista.
realtà l’imperatore di Bisanzio Giovanni VIII. I flagellatori Le due scene sono inscrivibili, insieme, in un rettangolo i cui lati si relazionano fra loro
sarebbero gli infedeli, e in effetti sia gli atteggiamenti sia le secondo la formula proporzionale della sezione aurea, pari al numero 1,618, amato e
fisionomie rimandano alle figure dei pirati turchi e mongoli. applicato in architettura sin dai tempi dell’antica Grecia. D’altro canto, a un esame attento
Il personaggio di spalle sarebbe invece il sultano Maometto dell’opera si scoprono ovunque rapporti numerici, figure geometriche, corrispondenze,
II che intendeva insediarsi sul trono di Bisanzio: egli è infatti parallelismi che rivelano quanto studio abbia dedicato Piero della Francesca alla sua
a piedi scalzi, mentre è Giovanni VIII a indossare i purpurei composizione e che hanno spinto la critica a definire la Flagellazione come un “sogno
calzari imperiali, che solo gli imperatori bizantini potevano matematico”.
portare. I tre uomini in primo piano sarebbero invece, da
sinistra: il cardinale Bessarione, ossia il delegato bizantino
che molto si adoperò durante il Concilio di Ferrara e Firenze
del 1438-39, nella speranza di ottenere l’aiuto occidentale
contro gli Ottomani e di scongiurare la caduta di
Costantinopoli; Tommaso Paleologo, pretendente senza
speranza al trono di Bisanzio (e difatti anch’egli è scalzo);
infine, Niccolò III d’Este, il quale ospitò parte del Concilio a
Ferrara.
Andrea Mantegna
1453-47 Cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova (affreschi)
La cappella era dedicata ai santi Giacomo e Cristoforo, con le due pareti laterali dedicate alle storie di ciascuno dei due s anti,
composte da sei episodi disposti su tre registri sovrapposti: registro inferiore, mediano e superiore, quest'ultimo composto
da una lunetta a tutto tondo. Nonostante la molteplicità delle maestranze attive nel cantiere, non sempre chiaramente
distinguibili, lo schema compositivo dell'intero ciclo viene riferito a Mantegna, che ideò probabilmente il sistema unitario di
cornici architettoniche. Le storie raffigurate dipendevano dalla Leggenda aurea.
La parete nord (lato sinistro guardando l'altare) era interamente dipinta da Mantegna, dedicata alle storie di san Giacomo e
comprendeva:
Vocazione dei santi Giacomo e Giovanni
Predica di san Giacomo
San Giacomo battezza Ermogene
Giudizio di san Giacomo
Miracolo di san Giacomo
Martirio di san Giacomo
La parete sud (lato destro guardando l'altare) comprende le Storie di san Cristoforo e Mantegna ne ha dipinte solo due:
Martirio di san Cristoforo
Trasporto del corpo decapitato di san Cristoforo
Sulla parete centrale, dove si apre la finestrella, si trova una stretta e alta rappresentazione dell'Assunzione della Vergine di
Mantegna. Esistono inoltre alcuni frammenti, come un Serafino, proveniente forse dai pilastri.
All'epoca degli affreschi agli Eremitani Mantegna dipingeva già con una precisa applicazione della prospettiva unita ad una rigorosa ricerca antiquaria, ben più profonda di quella
del suo maestro Squarcione. La decorazione ad affresco, che si protrasse per quasi un decennio, mette in luce, nel caso di Ma ntegna, il progressivo affinamento del suo
linguaggio.
San Giacomo
Nelle prime Storie di san Giacomo, in particolare nella lunetta, la prospettiva mostrava ancora qualche incertezza, mentre nelle due scene sottostanti essa appare invece ormai
ben dominata. Il punto di vista, centrale nel registro superiore, è abbassato nelle scene sottostanti e unifica lo spazio dei due episodi, con il punto di fuga di entrambe le scene
impostato sul pilastrino centrale dipinto. Aumentano nelle scene successive gli elementi tratti dall'antico, come il maestoso arco trionfale che occupa due terzi del Giudizio, a cui
vanno aggiunti medaglioni, pilastri, rilievi figurati e iscrizioni in lettere capitali[6], derivati probabilmente dall'esempio degli album di disegni di Jacopo Bellini, il padre
di Gentile e Giovanni. Le armature, i costumi e le architetture classiche, a differenza dei pittori "squarcioneschi", non erano semplici decorazioni di sapore erudito, ma
concorrevano a fornire una vera e propria ricostruzione storica degli eventi. Tra le innovazioni di questi primi affreschi ci sono anche l'uso di scorci vertiginosi, la ricchezza di
figure, come nel brulicante fondale del Martirio, dominato da una città medievale ideale. La tecnica si evolve gradualmente da un tratto duro e, in alcuni passaggi, delicato, a un
tratteggio più denso e chiaroscurato, che dà alle figure la consistenza dei marmi e le pietre dure. Ciò, assieme all'impostazione monumentale "all'antica", contribuisce a dare alle
figure umane una certa rigidità, che le faceva apparire come statue.
Nell'Andata di san Giacomo al martirio la linea dell'orizzonte è al di sotto e all'esterno del quadro, generando una visione in scorcio dal basso verso l'alto (di s otto in su'); in tal
modo le figure acquistano in monumentalità e sicurezza volumetrica. Dietro ai personaggi, in evidenza si trova una volta a botte con cassettoni, un lato della quale si trova sopra
il punto di fuga, dando alla scena una certa artificiosità; lo squarcio tra la folla, usato per dare profondità, è una citazione di Donatello, il pezzo antico come in tutte le altre scene
viene usato nella composizione per fornire una ricostruzione storica degli eventi recuperando la monumentalità del mondo roma no che muta le figure in statue.
San Cristoforo
Più sciolto appare l'episodio del Martirio di san Cristoforo, dipinto nella seconda fase degli affreschi (1454-1457), dove le architetture hanno acquistato un tratto illusionistico
che fu una delle caratteristiche base di tutta la produzione di Mantegna. Nella parete sembra infatti aprirsi una loggia, dove è ambientata la scena di martirio, con
un'impostazione più ariosa ed edifici tratti non solo dal mondo classico. Le figure, tratte anche dall'osservazione quotidiana, sono più sciolte e psicologicamente individuate, con
forme più morbide, che suggeriscono l'influenza della pittura veneziana, in particolare di Giovanni Bellini, del quale dopotutto Mantegna aveva sposato la sorella nel 1454.
1455 Orazione nell’orto Non si conoscono le circostanze della creazione del piccolo dipinto, che viene in genere posto a ridosso
dell'Orazione nell'orto della predella della Pala di San Zeno (1457-1459, oggi a Tours) e dell'Orazione
nell'orto di Giovanni Bellini (1459), con la quale ha più di un'analogia compositiva. Non c'è concordia tra gli
storici dell'arte su quale sia l'esatta cronologia delle tre opere: se quella di Bellini viene in genere
considerata come l'ultima, alcuni pongono come modello iniziale la tavola di Tours, altri quella di Londra. La
datazione riportata dalla National Gallery di Londra è 1455-6 circa per il dipinto di Mantegna, 1458-60 circa
per quello di Bellini. In ogni caso il modello originario pare essere un disegno di Jacopo Bellini, contenuto
nell'album di Londra.
Gesù sta pregando nel Getsemani, rappresentato come un arido paesaggio roccioso dove il Salvatore è in
ginocchio su uno sperone rialzato, che assomiglia a un altare. Davanti a lui sono apparsi alcuni angeli che gli
preannunciano il destino mostrandogli gli strumenti della Passione.
In basso stanno tre apostoli addormentati (Pietro, Giacomo il Maggiore e Giovanni), mentre sullo sfondo
stanno arrivando i soldati ad arrestare Cristo, guidati da Giuda, che indica loro la via esplicitamente
distendendo il braccio. In lontananza si vede la città ideale di Gerusalemme (con monumenti della Roma
antica, di Venezia e di Verona), all'ombra di due aspri picchi rocciosi. La firma dell'artista si trova sulla roccia
vicino alla testa di Giovanni.
La scena si svolge in un'atmosfera cupa e crepuscolare, che accentua con i contrasti cromatici la
drammaticità dell'evento. Cristo ad esempio è vestito di scuro, isolandolo rispetto agli apostoli vestiti di
colori sgargianti, quasi a prefigurarne l'ineluttabile dramma. Anche l'albero secco e l'avvoltoio sono presagi
di una imminente morte, mentre i germogli e il pellicano (che si credeva nutrisse i propri figli strappandosi
le proprie carni, sacrificandosi insomma come il Cristo) sono simboli della vita e della resurrezione.
L'immagine del coniglio allude all'anima che tende a Dio. L'albero divelto allude al peccato. Gli aironi sono
un simbolo di Gesù. Le mura, chiaramente restaurate, sono, invece, un riferimento ai passi biblici che
narrano delle loro numerose distruzioni e riparazioni.
1456 San Sebastiano di Vienna
L'opera è stata datata dai vari studiosi entro un arco molto ampio, che va dagli anni cinquanta a quelli settanta e oltre del XV
secolo. Le ipotesi più accreditate legano però l'opera al periodo padovano (conclusosi nel 1460 con la partenza dell'artista
per Mantova), come dimostrerebbe la complicata firma in greco, che venne verosimilmente concepita nel clima umanistico
erudito di Padova. La stessa città era stata investita da un'epidemia di peste nel 1456-1457 e la figura di san Sebastiano è il più
diffuso protettore dalle epidemie. L'opera potrebbe quindi essere stata un segno di devozione e un ringraziamento per la fine
del contagio.
San Sebastiano è rappresentato legato a una colonna di un monumento romano in rovina, poggiante su una piattaforma con
pavimento a scacchiera, oltre la quale si apre un lontano paesaggio di sfondo. Il santo è ritratto nudo con il solo perizoma,
secondo la consuetudine del secondo Quattrocento che offriva agli artisti l'occasione di dare una talentuoso saggio di
conoscenza anatomica. Il santo è trafitto dalle frecce del martirio, che stanno conficcate nel corpo in profondità. Il fisico del
giovane è asciutto e somigliante ad una statua greca. Un tipico confronto è con l'analogo San Sebastiano di Parigi, più grande e
probabilmente successivo (di alcuni anni o anche, se legato al matrimonio di Chiara Gonzaga come si crede, databile al 1481),
con un'impostazione generale simile, ma alcune differenze nell'atteggiamento del santo (più contorto nella tavola viennese) e
nell'uso del colore (più morbido e sfumato nella tavola parigina).
Sul pilastro a destra del santo corre una scritta in greco (TO.EPΓON.TOY.ANΔPEΟY, "Opera di Andrea") che attribuisce la
paternità dell'opera al Mantegna. Nella città sullo sfondo è forse riconoscibile Verona, città alla quale rimanda anche la curiosa
presenza di una nube a forma di cavaliere in alto a sinistra, legata alla leggenda di re Teodorico, descritta sui rilievi
della basilica di San Zeno a Verona. L'estraneità di Teodorico con la storia di san Sebastiano ha fatto pensare che si potesse
anche trattare di un accenno a un cavaliere dell'Apocalisse, come simbolo della peste contro cui san Sebastiano veniva
implorato.
La scena è corredata da vari frammenti di sculture e architetture in rovina, ben compatibili con la cultura epigrafica padova na,
con una somiglianza tra alcuni dettagli architettonici con quelli della Circoncisione del Trittico degli Uffizi, in particolare il
pilastro e la sua decorazione a candelabre.
1460 Pala di San Zeno L’opera suscitò subito immediata ammirazione e si configurò come un esempio per tutti gli artisti, giovani e meno
giovani, che operavano in città: era un dipinto rivoluzionario, che portava a Verona quella cultura
rinascimentale che si era sviluppata a Padova e si stava diffondendo, lentamente, in tutto il Veneto. Una cultura
fatta di interesse per l’antico, di preciso senso dello spazio, di ricerche prospettiche, di statuaria monumentalità.
Tutte queste caratteristiche, già sviluppate da un ancor giovane Mantegna (all’epoca della realizzazione della Pala
di San Zeno, l’artista aveva infatti ventott’anni), fecero la loro comparsa a Verona con l’arrivo della pala.La portata
rivoluzionaria di un’opera che arrivava in una città ancora legata alla propria arte tardogotica che, in ritardo
rispetto ad altre località, iniziava ad aprirsi alle novità rinascimentali, fu sconvolgente: perché queste novità
arrivarono tutte insieme in un unico momento. E basta dare un’occhiata anche rapida al dipinto per rendersi conto
della distanza che poneva rispetto alla produzione artistica veronese contemporanea.L’arte che fino ad allora si
produceva a Verona venne spazzata via in un colpo solo. Perché, con la Pala di San Zeno, Mantegna reali zzò quello
che è considerato da più parti come il primo polittico pienamente rinascimentale dell’intera Italia settentrionale, e
di conseguenza, con la sua opera, l’artista portò il Rinascimento, con tutte le sue novità, a Verona.
Se fino a prima, a Verona e dintorni, i polittici erano rigidamente divisi e ogni scomparto faceva storia a sé, adesso
permane la divisione, per non creare un distacco troppo netto col passato, ma ciò che vediamo al di là delle
colonne che dividono gli scomparti è una scena intera, uno spazio unico. Una concezione che derivava dallo studio
delle opere di Donatello per la Basilica di Sant’Antonio a Padova: in particolare, Mantegna riprese la struttura che
Donatello aveva ideato per l’Altare del Santo (oggi perduta), e la applicò alla sua Pala di San Zeno. E c’è inoltre da
notare come Mantegna abbia adottato l’espediente di progettare una cornice con gli scomparti suddivisi
da colonne classiche, che sembrano quasi far parte esse stesse della scena. L’impressione è quella di trovarsi al di
qua di una loggia, scalata in profondità e di cui la cornice è parte integrante, dove trovano posto i personaggi: al
centro, la Madonna col Bambino assieme ad angioletti festanti, sul lato sinistro i santi Pietro, Paolo, Giovanni
Evangelista e Zeno, mentre sul lato destro i santi Benedetto, Lorenzo, Gregorio Magno e Giovanni Battista.
L’illusionismo prospettico con cui Andrea Mantegna rende credibile lo spazio descritto dal dipinto è un altro degli
aspetti nuovi della pala, che verrà poi ulteriormente approfondito con le ricerche successive dell’artista.
La loggia marmorea è scolpita con medaglioni entro cui Mantegna ha ambientato scene mitologiche, mentre sul fregio appaiono putti classicheggianti. E proprio nella ricerca di
legami con l’antichità classica sta un altro dei motivi della portata rivoluzionaria del polittico. Non deve sorprendere il fatto che, nella stessa scena, compaiano assieme motivi
desunti da repertori pagani, ed elementi propri della religione cristiana: per gli uomini del Rinascimento, esisteva una continuità tra il cristianesimo e il paganesimo, e si
pensava che gli scritti di molti autori pagani (pensiamo a Virgilio, per rimanere nell’area in cui lavorò Mantegna) annunciassero in qualche modo l’avvento del cristianesimo. E
dobbiamo poi considerare che Mantegna nutriva una forte passione per l’arte classica, che ebbe modo di sviluppare durante il suo apprendistato nella bottega di Francesco
Squarcione, pittore noto per i suoi elevatissimi interessi antiquari (e, per inciso, tipicamente squarcioneschi sono i festoni appesi alle architetture). Così, molti dei motivi che
appaiono nella pala di San Zeno, sono desunti dalla conoscenza di monumenti romani, attraverso calchi e riproduzioni in possesso di Francesco Squarcione: Mantegna avrebbe
poi approfondito le antichità classiche, più avanti nel tempo, con un soggiorno diretto a Roma.I simboli che rimandano alla classicità come all’era che ha preceduto l’avvento
del cristianesimo non sono gli unici presenti nel dipinto, che ha una notevole rilevanza anche dal punto di vista simbolico. Il simbolo forse più evidente di tutta la composizione
è l’uovo di struzzo da cui pende la lucerna al centro della scena, proprio sopra il capo della Vergine: è un rimando all’Immacolata Concezione, p erché anticamente vigeva la
credenza secondo la quale le uova di struzzo si schiudessero grazie all’azione dei raggi del sole. E il sole ha sempre rappresentato Dio: Dio quindi feconda l’uovo attraverso lo
Spirito Santo e fa nascere la Madonna. I festoni che decorano la loggia sono carichi d’uva, simbolo dell’Eucarestia, e di pomi, simbolo del peccato originale redento da Cristo
attraverso il suo sacrificio. La decorazione presente sulla sommità del trono della Vergine, a forma di ruota, rimanda invece al rosone della Basilica di San Zeno.Come ribadito
sopra, la Pala di San Zeno segnò l’inizio di una nuova epoca per l’arte veronese: tutti gli artisti del tempo iniziarono a rivedere il proprio stile per aggiornarlo sulle novità
introdotte da Andrea Mantegna, e sulla scorta della lezione mantegnesca si originò una generazione di validissimi pittori che diedero il via al Rinascimento veronese. A
cominciare da tre giovaniCosmè Turadi Mantegna: Francesco Benaglio (1432 circa - dopo il 1492), Domenico Morone (1442 circa - 1518) e Liberale da Verona (1445 circa -
contemporanei
1530), che possiamo un po’ considerare i capiscuola del Rinascimento a Verona. Il primo a recepire le novità fu Francesco Benaglio, che era coetaneo di Mantegna: appena tre
anni dopo la realizzazione della Pala di San Zeno, realizzò il Trittico di San Bernardino, opera tuttora conservata nella chiesa di San Bernardino a Verona, opera derivata
direttamente dall’esempio del polittico mantegnesco, e opera che possiamo considerare la prima pala rinascimentale realizzata da un artista di scuola veronese. La generazione
successiva a quella di Morone e Benaglio, egregiamente rappresentata da artisti come Francesco Morone, figlio di Domenico, Giovan Francesco Caroto, Niccolò
Giolfino, Girolamo dai Libri e altri, sviluppò le idee dei loro insegnanti aggiornandole a seconda del proprio percorso formativo: c’era chi, come Caroto, rimase affascinato dalla
delicatezza e dalla sensibilità correggesca, chi invece, come Francesco Morone e Girolamo dai Libri, guardò al colorismo e alla naturalezza dei pittori di area veneziana
come Giovanni Bellini e Antonello da Messina, e non mancò chi, come Niccolò Giolfino, guardò alla pittura del centro Italia ispirandosi principalmente a Raffaello. Insomma:
Mantegna, con la sua pala, aveva innescato un importante processo di rinnovamento, che fece nascere una delle più interessanti scuole della nostra storia dell’arte.
Cosmè Tura
1460 musa (Calliope) per lo studio di Belfiore a Ferrara
L'opera viene in genere indicata come una delle prime rappresentative dello stile dell'artista e della scuola ferrarese in
generale. Sotto la superficie pittorica, a olio, è stata scoperta una precedente pittura a tempera che mostrava la musa
in un trono di canne d'organo, riferimento evidente alla musica, tanto che alcuni ipotizzano che il soggetto originale
potesse essere stato Euterpe.
La musa, analogamente ad altre tavole della serie, come la Thalia di Michele Pannonio, è raffigurata seduta su un
fastoso trono, con in mano un rametto di albero da frutta, in questo caso un ciliegio. Il punto di vista è ribassato, con
un aspetto solido delle figure, che contrasta con la frivolezza esuberante delle decorazioni del trono. Esso è
rappresentato secondo le regole della prospettiva in marmi policromi, a cui sono applicate decorazioni dorate a forma
di grossi delfini, secondo al stilizzazione tipica dell'epoca, con denti aguzzi e pinne attorcigliate a formare complessi
giochi lineari, sottolineati dalla luce incidente che fa sembrare tutto metallico o brillante come gemme. Altri elementi
che richiamano il mondo marino sono la conchiglia dietro la testa della Musa, i coralli e le perle.
Il prototipo di questo tipo di decorazione sfarzosa e colta (numerose sono le citazioni dell'antico) è la bottega
di Francesco Squarcione a Padova, dove Tura ebbe una prima formazione. Ma la sua fantasia si fa ancora più sfrenata
degli squarcioneschi, combinando gli elementi decorativi con grande libertà fino a raggiungere una tensione quasi
surreale. Il panneggio appare rigido e scultoreo, come se fosse sbalzato nella pietra. A ciò si aggiungono echi del
mondo cortese, molto vivo alla corte estense di Ferrara, come l'attenzione al dettaglio ricercato quale le damascature
delle maniche della veste. Un altro input del ferrarese è la luce chiara di Piero della Francesca, dal quale imparò
probabilmente anche le regole per la costruzione prospettica e l'uso dei colori a olio, a cui va aggiunta anche l'influenza
dei fiamminghi nella cura lenticolare dei dettagli, evidente soprattutto negli accenti brillanti delle gemme e delle perle.
La decorazione, realizzata con tecnica a fresco, comprende, insieme alle rappresentazioni andate perdute (quelle con le lettere), le quattro pareti del salone
principale (largo 11, lungo 24 ed alto 7,50 m.) dell’omonimo palazzo a Ferrara. Le superfici affrescate sono suddivise in sezioni uguali tra loro e
simmetricamente opposte, intervallate le une dalle altre da lesene simulate.
Ogni sezione, simboleggiante un mese, è a sua volta divisa in tre registri. In quello in alto è rappresentato il trionfo del dio al quale il mese è riferito; nella
zona mediana, il relativo segno astrologico integrato da simboli minori, quali i “decani”, ovvero, periodi astrologici della durata di dieci giorni; nel registro in
basso – di tutte le sezioni – è rappresentato il duca Borso d’Este che come sovrano adempie ai suoi incarichi.
1473-78 Polittico Griffoni
Pala d’altare dedicata a San Vincenzo Ferrer commissionata intorno al 1470-1472 da Floriano
Griffoni. per la sua cappella nella Basilica di San Petronio a Bologna. Il Polittico segnò l’inizio della
sua collaborazione con il più giovane Ercole de’ Roberti, dando così vita a uno dei più formidabili
sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme ai due artisti lavorò
l’intagliatore Agostino de Marchi da Crema, che realizzò la cornice, oggi purtroppo andata
perduta. L’opera venne smembrata nel 1725 per volontà del nuovo proprietario della
cappella, Monsignore Pompeo Aldrovandi, che ridusse i pannelli dipinti a dei quadri da stanza. Le
tavole approdarono poi sul mercato antiquario, giungendo infine nei nove Musei internazionali che
oggi ne sono i proprietari.
Ercole de’ Roberti
1481 Madonna in trono con santi
Il dipinto fu commissionato dai Canonici Portuensi per l'altare maggiore di Santa Maria in Porto
Fuori a Ravenna per celebrare la memoria del fondatore dell'ordine, il Beato Pietro degli Onesti,
per volontà del quale la chiesa era stata eretta, in seguito a un voto fatto alla Vergine nel 1096,
quando la nave su cui viaggiava di ritorno dalla Terra Santa era scampata miracolosamente alla
tempesta che l'aveva sorpresa al largo del porto di casa. La scena sacra si svolge sotto
un'architettura porticata, una vasta campata aperta sui quattro lati, dietro la quale, visibile
attraverso i due grandi tendaggi rossi tirati, si apre un vasto paesaggio, forse raffigurante proprio
Ravenna. La composizione architettonica pare alludere al mistero dell'Incarnazione: lo spazio
diventa il luogo della manifestazione del divino, nel quale ha sede il trono-tabernacolo sul quale
sono mostrati e si offrono la Vergine col Bambino: la Madonna, inoltre, pare sovrastare il porto di
Ravenna, divenendone la protettrice. Molti elementi decorativi sembrano alludere alla
Resurrezione come fondamento della Salvezza dell'uomo: le rosette sugli intradossi degli archi, le
testine dei cherubini sugli estradossi, i ciuffetti di erbe che spuntano dalle crepe del marmo, i due
nudi di Sansone e David nei pennacchi frontali (le cui vittorie prefigurano il trionfo di Cristo). Il
sedile del trono su cui siede la Vergine è decorato da una serie di formelle poste su registri
sovrapposti (per gli episodi raffigurati si veda M. Molteni 1999); la base ottagonale rimanda alla
Resurrezione. Ai lati della Vergine, in ginocchio, vi sono a sinistra Sant'Anna in atto di porgere il
cardellino (simbolo della Passione) al Bambino mentre Santa Elisabetta è assorta in preghiera:
bisogna ricordare che alle due sante è dedicato il ciclo di affreschi che decorava il presbiterio della
chiesa. In primo piano compaiono Sant'Agostino e il Beato Pietro degli Onesti. La pala portuense è
l'unica opera di De Roberti provvista di un definitivo appiglio documentario nonché di un preciso
riferimento cronologico, da quando Ricci (1904) pubblicò un documento relativo ai pagamenti
effettuati dai canonici portuensi nei confronti dell'artista nel corso del 1481. Il tappeto che si
intravede sui gradini del trono: esso appartiene ad una tipologia di cui non si conserva più alcuna
traccia (la stessa che si nota nel dipinto di Holbein 'Gli Ambasciatori' della National Gallery di
Londra). Testimonianza di tappeti simili si trovano in altri dipinti come quello di Andrea da Faenza
(Norcia, Palazzo Comunale) del primo quarto del XVI secolo, di Francesco Morone (Soave, Chiesa
Parrocchiale 1526- 1529) e di Sperindio Cagnoli (Cerano, 1510 ca.) che tuttavia non hanno i
cantonali presenti nel dipinto di Ercole de' Roberti. Anche nella Pala Bentivoglio di Lorenzo Costa
(Bologna, chiesa di san Giacomo Maggiore, 1488) ai piedi della Madonna c'è un tappeto con
bordura e frangia molto realistica.
Jan Van Eyck
1432 Ritratto del Cardinale Niccolò Albergati
Importante protagonista della politica pontificia sotto Martino V. Durante un congresso di pace
ad Arras incontrò van Eyck, che lo ritrasse su un disegno dove erano appuntati anche note per la
colorazione in previsione di effettuarne il ritratto, che venne concluso negli anni immediatamente
successivi. Il prelato è ritratto di tre quarti, come consueto nella pittura fiamminga fin dagli anni
trenta del XV secolo, su uno sfondo scuro che esalta al massimo l'effigie, posta invece in piena luce. Il
contrasto luminoso è attenuato da una luce diffusa, che rischiara l'anziano cardinale i cui tratti
sembrano suggerire un certo affaticamento psicologico. Nonostante i segni dell'età però l'anziano
sembra emanare una calma bonaria, che sembra saper affrontare con solenne tranquillità gli affanni
della sua esistenza. Il confronto tra schizzo e quadro suggerisce che il pittore abbia sottilmente
modificato l'immagine del prelato sottoponendo l'immagine ritratta nello schizzo, più fresca e
verosimigliante, ad un'opera di revisione morale, impartendo al viso del prelato, sereno e non
particolarmente imponente nello schizzo, un'aria di pensosa autorità. Un'analisi delle dimensioni
relative delle diverse parti del viso del prelato dimostra che Jan van Eyck ha modificato le proporzioni
della figura: le spalle del cardinale siano più ampie rispetto alla testa e che l'apertura delle maniche è
più distante dalla linea delle spalle, dando l'impressione di una persona più alta che nel disegno
preparatorio.
Per quanto il quadro sembri nel complesso più allungato del disegno originale, la semplice ipotesi di una deformazione derivante dall'uso di lenti per
ingrandire l'immagine, non spiega adeguatamente le dimensioni dell'orecchio: esso infatti è stato significativamente aumentato in dimensione per suscitare
la sensazione di vetustà (infatti le orecchie ed il naso delle persone continuano a crescere per tutta la vita e le persone anziane hanno naso e orecchie più
grandi), vetustà che manca nello schizzo preparatorio, caratterizzato da un orecchio piccolo, quasi infantile appunto ove pur non manca la vecchiezza della
pelle. Il naso è stato alleggerito nella tonalità e nella curva inferiore, impartendogli nobiltà ed autorità al posto di una certa mondanità. La bocca è stata
atteggiata con labbra serrate, che comunicano pensosità, cancellando la pacifica espressione raccolta dallo schizzo, e l'occhio di sinistra è stato corretto per
rafforzare l'estressione pensosa. Il taglio di capelli è stato alleggerito e reso più austero. Nel complesso, l'autore soffonde nella figura del Cardinale Albergati
una autorità e profondità di pensiero che non si colgono nello schizzo preparatorio. Interessante è anche notare come la cappa cardinalizia si presenti come
sfocata e priva di dettaglio, quasi riducendola a mero simbolo di stato sociale, rispetto alla perfetta definizione del viso del prelato, facendone così il vero ed
unico centro d'attenzione.
1433 Madonna di Lucca
Presenta un'iconografia inconsueta, fondendo una Madonna del Latte con la Maestà (cioè la Madonna in trono). Il
trono è decorato da intagli leonini, resi con magistrali effetti di luce, che richiamano ai trono di Salomone (Primo
Libro dei Re 10:18-20 e Cronache 9:17-19). La stanza è piccola, soprattutto in rapporto al trono, e si tratta di un
effetto voluto che accresce l'atmosfera di intimità familiare della rappresentazione.
Vari oggetti arricchiscono la composizione e hanno vari significati: dalla descrizione di un interno ricco (il tappeto
turco, il parato del trono) alla specificazioni di simboli. In questo senso l'acqua e il vetro sono simbolo della purezza
"senza macchia" di Maria, mentre le due arance sul davanzale sono un richiamo al frutto proibito del Peccato
originale, spesso indicate al posto della mela nei paesi nordici.
Vero protagonista della composizione è l'ampio mantello rosso di Maria, che riempie tutta la parte inferiore del
dipinto, disegnando delle pesanti increspature che nascondono il corpo della Vergine. Il virtuoso panneggio
abbondante e frastagliato, senza schematismi, è una delle caratteristiche tipiche di molte opere di van Eyck, e la sua
sovrabbondanza dà quasi la sensazione di avanzare verso lo spettatore, avvicinando così l'icona sacra.
La Madonna col Bambino in un interno, della quale esistono altre versioni di van Eyck e di seguaci, dava
l'opportunità di sperimentare acuti effetti di luce, che varia a seconda delle superfici che incontra: viene assorbita
dai paramenti, è opaca sul legno, translucida sull'acqua e sul vetro, forte sugli incarnati dei protagonisti, che
emergono con forza dalla penombra. Alcuni effetti sembrano anticipare la sofisticata pittura d'interni di Vermeer,
come i frutti sul davanzale.
Il morbido tappeto ai piedi della Vergine dà a van Eyck la possibilità di dimostrare le sue capacità in termini di
definizione spaziale tramite l'applicazione della prospettiva. Lo spazio dei fiamminghi non è però organizzato come
negli italiani, poiché la linea dell'orizzonte è più alta e la definizione delle pareti è di solito incompleta, non mostra
cioè tutti gli elementi: l'effetto che ne deriva è quello di uno spazio più avvolgente, che include lo spettatore nella
raffigurazione.
1434 Coniugi Arnolfini Probabilmente l’opera più celebre del pittore fiammingo, doppio ritratto di Giovanni Arnolfini, ricco mercante di
Lucca trasferitosi nelle Fiandre per curare gli affari di famiglia, e di sua moglie, la cui identità non è stata ancora
chiarita. I due sposi facevano parte della comunità di mercanti e banchieri italiani residenti a Bruges. Il dipinto
appartenne per un certo periodo agli Arnolfini, poi entrò a far parte della collezione reale spagnola e intorno alla
metà del XIX secolo fu acquistato dalla National Gallery di Londra, che ancora oggi lo espone.
L’uomo e la donna, riccamente abbigliati, sono mostrati nella loro camera da letto, descritta in ogni minuto dettaglio,
mentre si rivolgono allo spettatore tenendosi per mano. Giovanni Arnolfini, dall’aspetto assai severo, sta compiendo
un gesto cerimonioso con la sua mano destra, che può essere interpretato sia come saluto sia come giuramento. È
assai probabile che i due stiano pronunciando la loro promessa di fedeltà matrimoniale alla presenza di testimoni.
Gli Arnolfini, infatti, non sono soli nella stanza. Un grande specchio convesso alle loro spalle riflette l’ambiente nella
sua totalità e ci rivela che sono presenti altre due figure, una delle quali sarebbe lo stesso Van Eyck (che difatti si
firmò asserendo di “essere stato lì”). Tale espediente geniale coinvolge l’osservatore nell’evento che si sta svolgendo,
attraverso una finzione illusoria ma del tutto verosimile.
Gli Arnolfini, infatti, non sono soli nella stanza. Un grande specchio convesso alle loro spalle riflette l’ambiente nella
sua totalità e ci rivela che sono presenti altre due figure, una delle quali sarebbe lo stesso Van Eyck (che difatti si
firmò asserendo di “essere stato lì”). Tale espediente geniale coinvolge l’osservatore nell’evento che si sta svolgendo,
attraverso una finzione illusoria ma del tutto verosimile.
L’opera, magistrale per la sua eleganza e la minuzia di ogni particolare, ci propone una delle più belle rappresentazioni di ambiente domestico del Nord Europa. Osserviamo il
muro screpolato, le tavole del bel pavimento ligneo, piuttosto larghe e poste con una connessione geometrica che serve a dare l’indicazione di una prospettiva centrale. Anche il
solaio è in legno, con travi dallo stretto intervallo, disposte in senso longitudinale. Lo splendido lampadario che domina al centro ha un corpo centrale tornito e i bracci
riccamente sagomati.
Il letto è a baldacchino; la tappezzeria, di un bel rosso acceso, è la stessa che fodera i cuscini sulla panchetta. L’ambient e è come ovattato, pervaso da una certa calda atmosfera
familiare. A sinistra, sotto la finestra, s’intravede un mobile basso sul quale è stata posata la frutta. La luce filtra dalla grande finestra a croce, tipica del Rinascimento del Nord, i
cui vetri sono a fondo di bottiglia, connessi a piombo; i portelli inferiori lasciano intravedere il paesaggio esterno. Si osservi che, per motivi di economia, solo la parte superiore
della finestra è munita di vetri; le imposte, però, si possono chiudere anche solo parzialmente, per riparare dal freddo nei giorni invernali senza lasciare la camera nella completa
oscurità.
L’immagine, nonostante sia permeata da un profondo senso di quotidianità, è ricca di simboli che rimandano al vero tema affrontato dall’artista, quello del matrimonio. La
donna, che ha un atteggiamento di sottomissione nei confronti del marito, raccoglie sul ventre un lembo del suo ampio vestito: gesto di buon auspicio che allude al le sue future
gravidanze. Anche il colore verde dell’abito simboleggia la fertilità.
Il cane raffigurato ai suoi piedi, ben più espressivo dei due padroni, è simbolo di fedeltà coniugale. Persino la frutta simboleggia il frutto del matrimonio, dunque i fig li che
verranno. Perfino i semplici zoccoli di legno del marito, dalle stringhette di cuoio invecchiato, e le pantofole rosse della moglie ricordano che quel luogo è reso sacro dalla
promessa coniugale: per questo gli sposi stanno umilmente a piedi nudi.
Hugo van der Goes
1473-78 Trittico Portinari
Il pannello centrale del trittico rappresenta una Adorazione dei pastori. La scena si basa sulle visioni di Santa Brigida di Svezia. A sinistra, è dipinto San Giuseppe, lievemente in
disparte rispetto alla Vergine e al bambino. La scena centrale continua nei pannelli laterali. Su quello di sinistra vi sono i componenti maschi della famiglia Portinari, mentre su
quello di destra, le donne. I pannelli posteriori sono visibili quando il trittico è chiuso. Su di essi è dipinta una Annunciazione con stile monocr omo. I fiori rappresentati, gigli e iris,
simboleggiano la purezza della Vergine. Nel bicchiere si osserva poi una colombina, pianta funeraria che rappresenta la passione di Cristo. Nel Trittico Portinari, Hugo van der
Goes inserì molte fisionomie umane. I tre pastori a destra ad esempio hanno visi molto particolari.
IlTrittico Portinari di Hugo van der Goes giunse a Firenze nel 1483, dove divenne il dipinto fiammingo più imitato dagli artisti del tardo Quattrocento. Soprattutto furono Piero di
Cosimo e Leonardo a prendere esempio dall’opera. La tavola fu commissionata da Tommaso Portinari, agente della famiglia de’ Medici a Bruges. Il dipinto venne poi portato a
Pisa su di una nave. Attraverso l’Arno giunse a Firenze il 28 maggio 1483 e condotto alla chiesa di Sant’Egidio nell’Ospedale di Santa Maria Novella.
Il Trittico Portinari è il capolavoro di Hugo van der Goes perché è stato realizzato con un taglio molto realistico. Inoltre le grandi dimensioni e la costruzione dello spazio con la
sola luce affascinarono i fiorentini contemporanei come il Ghirlandaio. La perfezione dei particolari è altissima, soprattutto, nel vaso in primo piano con i gigli e le iris.
La pittura ad olio rende la tavola molto brillante e le figure sembrano, quindi, lucide e definite. Lo spazio di questa scena si ispira a quello delle Sacre rappresentazioni e
raggiunge un effetto teatrale. I personaggi sono inseriti in uno scenario molto elaborato e ultraterreno. Infatti, figure celesti sono presenti e affiancate a personaggi terrene. La
profondità, come in tutte le opere fiamminghe, è sottolineata dalla luce. L’orizzonte poi è molto alto e pare un palcoscenico sul quale si svolge l’evento dipinto. L’intera scena
infine presenta una notevole profondità ottica e sono visibili chiaramente, paesaggi molto lontani.
Hans Memling
Antonello da Messina
1474 San Girolamo nello studio
È molto probabile che Antonello lo realizzò durante il suo soggiorno a Venezia negli anni 70 del Quattrocento.
Antonello riuscì ad assorbire tutte le novità che incontrò sul suo percorso lasciando però sempre il segno del suo
stile. In particolare le opere di questo artista furono influenzate dalla pittura dei Paesi Bassi e qui lo vediamo bene
nella cura dettagliata che usò per rappresentare gli oggetti come l’asciugamano appeso al mobile o nel modo in cui
realizzò il paesaggio attraverso la finestra. Molto probabilmente a Napoli, dove l’artista si formò, vide nelle
collezioni reali di pittura fiamminga un’opera di Jan van Eyck molto simile a questa e a cui si ispirò. Il tema del
dipinto era molto diffuso nel XV secolo.
Protagonista è San Girolamo, uno dei quattro Padri della Chiesa, famoso per la cosiddetta Vulgata e cioè la
traduzione che fece della Bibbia dal greco al latino. Lo studiolo del santo, ricavato all’interno di un vasto ambiente
goticheggiante, è uno scrigno organizzato alla perfezione, con lo scrittoio, i sedili, ampi scaffali e persino due vasi
per erbe aromatiche. Sono molti anche gli animali presenti. In primo piano un pavone, simbolo della chiesa e una
coturnice che allude alla verità di Cristo. Vediamo inoltre un leone che si aggira nell’ambiente che fa da sfondo. Il
felino, secondo la leggenda, divenne fedele al santo perché questi lo aiutò estraendogli una spina dalla zampa.
Il pavimento è uno straordinario esempio di virtuosismo prospettico con le sue piastrelle geometriche che
suggeriscono la profondità dello spazio. E così questa piccola tavola di 45×36 centimetri ci appare come una
composizione vastissima inquadrata all’interno di una grande finestra ad arco. Un espediente spesso utilizzato per
collegare illusionisticamente il nostro spazio reale con quello costruito nel dipinto. A completare il capolavoro il
sorprendente utilizzo della luce che penetra nell’opera da varie fonti rendendo estremamente reale il tutto.
Il nome della pala deriva dalla chiesa veneziana di San Cassiano a cui era originariamente destinata. Venne commissionata da Pietro Bon ed ebbe un
dirompente successo tra i colleghi veneti, sia per l'uso, fino ad allora piuttosto inconsueto, dei colori a olio, sia per l'innovativa composizione.Della grande
pala d'altare, una Sacra conversazione, restano oggi solo la Vergine sul trono rialzato e quattro santi a mezzo busto: san Nicola di Bari, santa Maria
Maddalena, sant'Orsola e san Domenico. In origine ve ne erano quattro per parte, tra cui san Giorgio e san Sebastiano.
Derivata pare da un'altra pala d'altare di Giovanni Bellini nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (perduta, ma nota da un'incisione di Francesco Zanotto),
l'opera era caratterizzata da un maggior respiro compositivo, calibrato con grande cura, con i santi meno serrati e disposti a semicerchio attorno all'alto
seggio della Vergine, inserito a sua volta in una sobria ambientazione architettonica. Si creava così un andamento di tipo piramidale in cui le figure appaiono
perfettamente a loro agio con grande naturalezza. La novità più stupefacente era data però dagli effetti atmosferici creati dalla luce, che unificano l'opera
con toni caldi e rendono più naturale la rappresentazione: il lume dorato inonda le figure, restituendo con scioltezza i vari dettagli e i rapporti spaziali tra le
figure. Accanto a una sintesi geometrica di alcuni brani, come il corpo della Vergine, si incontrano virtuosismi prospettici, come il volto della Vergine e il libro
con tre palle d'oro retto da san Nicola (allusione all'episodio in cui le regalò a tre fanciulle povere perché avessero la dote per sposarsi), e si sposano inoltre
con sottigliezze ottiche della pittura fiamminga.
1476 San Sebastiano
Il San Sebastiano era lo scomparto centrale del trittico smembrato (Trittico di San Giuliano), già nella chiesa veneziana
di San Giuliano. Sebastiano proteggeva dalla peste. Il santo campeggia seminudo legato ad un albero al centro di una via
su cui si affacciano alcuni edifici probabilmente attribuibili a Venezia che, scorciati in prospettiva, incorniciano la sua
figura e ne esaltano la monumentalità, grazie anche al punto di vista ribassato. Al centro si trova un passaggio sospeso su
una doppia arcata, oltre la quale campeggia un sereno cielo azzurrino.
Sebastiano, che come avveniva dal XV secolo offriva la possibilità di ritrarre un dettagliato saggio di anatomia umana, è
ritratto in piedi, leggermente curvo verso destra, con indosso un perizoma e con cinque frecce conficcate in cinque parti
del suo corpo: una poco più sopra al suo ginocchio destro, una nella sua coscia sinistra, una nel suo ventre, una nel suo
addome ed una conficcata in pieno petto. La sua espressione è priva di dolore ma manifesta una pacata mestizia nella
sopportazione del martirio.
Lo sfondo è animato da una serie di figurette che creano anche alcune scenette "di genere": due donne affacciate dalla
balaustra su un tappeto, un soldato ubriaco di scorcio, una donna col figlio in braccio, una coppia di armati e una di esotici
mercanti in conversazione.
Vi si colgono molteplici influenze: dalla simmetrica disposizione matematica degli elementi dello sfondo alla Piero della
Francesca (evidente anche nel complesso disegno del pavimento), alle sperimentazioni illusionistiche di Andrea
Mantegna (l'uomo sdraiato in scorcio è una citazione del Trasporto del corpo di san Cristoforo nella Cappella Ovetari, così
come lo scorcio di edifici sullo sfondo), fino alla dolcezza fatta di toni soffusi alla Giovanni Bellini nella rappresentazione
naturalistica del corpo del santo. Tipico di Antonello è poi il senso della luce, derivato dalla diretta conoscenza
della pittura fiamminga, che tanta importanza ebbe negli sviluppi dell'arte veneziana dopo il suo soggiorno.
1476 Pietà
Antonello da Messina torna nel 1476, quando ha circa 47 anni, definitivamente a Messina, dopo
aver rifiutato l'offerta di diventare ritrattista ufficiale per i signori di Milano, gli Sforza. Col suo
ritorno nella sua città natale di Messina il pittore accentuerà molto il realismo e l'intensità
espressiva in opere davvero stupefacenti come l'Annunciata di Palermo e la Pietà appunto, dipinta
tra il 1476 e il 1478, su committenza di un privato.
La scena che Antonello da Messina immagina e rappresenta non è narrata da nessun Vangelo. Cristo
è già stato deposto dalla croce e sta per essere messo nel sepolcro. Prima di compiere la sepoltura,
un angelo piangente ci mostra Cristo morto in tutta la sua drammaticità: il volto con la bocca ancora
aperta, le mani cadenti, il fianco squarciato da cui esce sangue in abbondanza. L'immagine del Cristo
e dell'angelo è inserita in un paesaggio con teschi e tronchi secchi che simboleggiano la morte,
mentre in secondo piano la città e il verde della natura simboleggiano la Resurrezione. Nello sfondo
è possibile notare la città di Messina nel 400, in cui è possibile osservare la rappresentazione il
duomo cittadino con il suo campanile circondato dalle imponenti mura perimetrali della città.
Si tratta senza dubbio di un'opera per un committente privato, dipinta per indurre chi la guardava a
meditare sulla passione di Cristo. Il realismo con cui è resa la morte, il contrasto fra l'incarnato
roseo dell'angelo e quello più cadaverico di Cristo, il dolore estremo dell'angelo, il contrasto fra
figure in primo piano e paesaggio, avevano lo scopo di coinvolgere emotivamente lo spettatore e
ricordargli a quale prezzo era stata guadagnata da Cristo la sua salvezza.
Il volto del Cristo è stato probabilmente ripreso dalla piccola tavoletta del Cristo alla colonna (1476
circa) di Antonello, che oggi è visibile al Museo del Louvre. L'iconografia invece in cui il Cristo morto
è sorretto dall'angelo è di origine nordica, ma era già presente nelle opere di Carlo Crivelli. Il corpo
del Cristo è reso naturalisticamente, sia nel costato sanguinante che nel volto sofferente a cui fa da
contrappunto la bellezza idealizzata del volto dell'angelo.
Giovanni Bellini
1455 Trasfigurazione
L'opera fa parte del nucleo di opere cosiddette "mantegnesche" della fase giovanile del Bellini, dove
cioè sono evidenti le influenze del cognato Andrea Mantegna. Per questo la datazione si colloca vicino
al periodo 1455-1460, quando Mantegna fece probabilmente anche un soggiorno a Venezia, facilitando
il contatto tra i due pittori. La firma del Mantegna, nel cartiglio in basso, è ritenuta apocrifa e fu
all'origine dei primi errori attributivi. La provenienza del dipinto è ignota; perché al momento del
lascito alla città di Venezia, nel 1830, il donatore Teodoro Correr aveva distrutto ogni documentazione
riguardante la sua storia precedente.
L'opera era originariamente cuspidata e in un secondo momento venne "attualizzata" dandole la forma
rettangolare attuale.
Elia e Mosè si manifestano accanto a Gesù sul monte Tabor, mentre poco più in basso sono rimasti
folgorati gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, secondo un'iconografia che ha le sue origini
dai vangeli sinottici.
Tutta la composizione è concepita secondo un moto ascendente, diviso dagli strati rocciosi, che
culmina nella figura biancovestita di Cristo. Le figure sono inarcate sulle proprie spalle, con le teste
forzate in scorci arditi, dettati probabilmente da un desiderio di emulare le stupefacenti illusioni
prospettiche di Mantegna. La scansione dei piani infatti è enfatizzata prospetticamente da una visione
"da sotto in su" del gruppo superiore di Cristo tra i profeti.
Spiccano le linee spezzate e il segno asciutto e incisivo, nelle rocce come nei panneggi, con
un'espressività cruda che andrà progressivamente attenuandosi nelle opere successive di Giovanni. Ne
è un esempio il paesaggio che, soprattutto a sinistra, è già impostato a una maggiore dolcezza e a un
realismo fresco che qui si incontra forse per la prima volta in un'opera dell'artista. Grazie infatti alla
nuova enfasi posta sulla luce e il colore, la veduta è intenerita e riesce a immergere la scena miracolosa
in una dolce atmosfera vespertina, derivata dall'esempio fiammingo.
1460 Pietà
Bellini è un disegnatore straordinario: è la perfetta definizione dei personaggi e di ogni
minuto particolare a dettare i connotati dell’opera. Del resto, a Venezia i fiamminghi
erano ben noti (e collezionati) e Giovanni Bellini guarda anche a loro. Le tre figure – a
grandezza naturale – hanno di fronte a loro una balaustra, che è poi il bordo della
tomba Gesù, come in funzione di altare e di separazione tra chi osservi e le tre figure
sacre.
Nel contempo però, la mano sinistra di Gesù, ancora contratta per il vulnus inferto dai
chiodi, poggia sul medesimo parapetto creando un collegamento con lo spettatore.
In realtà, il rapporto tra spettatore ed opera è in questo caso particolarmente
complesso. Dobbiamo, infatti, partire da lontano. Dall’arte bizantina (a Venezia
Bisanzio era ben nota) dove al dipinto era attribuito il potere di far coincidere illusione
e realtà: cioè Maria, Gesù e Giovanni sarebbero realmente di fronte allo spettatore.
Dunque, l’immagine dovrebbe produrre l’effetto di far vivere agli astanti le stesse
emozioni che avrebbero provato se fossero stati realmente presenti nel tragico
momento. Non a caso, Bellini sceglie di scrivere nel cartiglio (che è anche la sua firma)
la frase: “Se questi occhi turgidi evocano gemiti, l’opera di Giovanni Bellini potrebbe
piangere”. E’ impossibile staccare lo sguardo dal viso della Madre che sfiora quello del
Figlio divenendo rappresentazione universale dello strazio di una madre che pianga suo
figlio.
E’ come se la Vergine cercasse un ultimo sguardo dagli occhi chiusi del Cristo. Come se
cercasse di percepire l’ultimo sospiro dalle labbra semichiuse.
Tutto il resto è perfezione e ricerca spasmodica della resa assoluta del particolare. Le
mani, bianchissime quelle del Cristo, rosee quelle della Madonna. Le barbe ed i capelli.
La sottilissima striscia di sangue sul sudario di Gesù colata dalla ferita del costato.
Il disegno, come detto, la fa da padrone. Ad iniziare dai visi dei personaggi. La scelta di
avere come sfondo – dalle spalle in su – solo un cielo grigio leva ogni distrazione allo
spettatore e porta ancor più verso le figure dei personaggi.
Pietro Perugino
1480-81 Registro intermedio cappella sistina ----> Consegna delle chiavi a San Pietro
Opera nella quale il paesaggio architettonico è disegnato nel rispetto di rigorose regole
prospettiche.Fu realizzato con il contributo di aiuti, probabilmente gli artisti Pinturicchio,
Signorelli e Bartolomeo della Gatta. I personaggi della scena sono posti al centro del dipinto.
Gesù è in piedi a sinistra, riconoscibile grazie alla aureola che porta sul capo. Indossa un abito
porpora e un mantello blu. I suoi capelli sono lunghi e biondi, ondulati e ricadono dietro la
schiena e sulle spalle. Con la mano destra porge le chiavi a San Pietro. L’apostolo, invece, è
inginocchiato di fronte a Cristo, a destra. Indossa un abito blu e un mantello giallo che copre il
corpo in basso, avvolto intorno al braccio destro. San Pietro ha un aspetto anziano, con capelli e
barba bianchi. Infine, una grossa chiave pende al centro tra i due personaggi. A destra e a
sinistra vi sono gli apostoli e otto altri personaggi contemporanei all’artista.
Giuda si trova a sinistra, di spalle, con l’aureola sul capo. L’apostolo, inoltre, porta una veste
L’affresco del Perugino è un dipinto sacro che decora le pareti della gialla e un mantello blu. La grande piazza nella quale si svolge la scena è coperta da un lastricato
Cappella Sistina. È considerato un’importante testimonianza della pittura geometrico. In secondo piano, a sinistra e a destra sono dipinti due gruppi di persone. Sullo
del Quattrocento italiano. I personaggi sono realizzati con l’utilizzo del sfondo, al centro, si trova un edificio dalle forme rinascimentali. Ai lati vi sono altri due edifici
chiaroscuro. Perugino progettò l’ambiente architettonico utilizzando la che ricordano il modello dell’arco di trionfo romano. Sull’edificio centrale compare la scritta
prospettiva geometrica. Inoltre, nel paesaggio di fondo è presente un latina “IMENSV[M] SALOMO[N] / TEMPLVM TV / HOC QVARTE / SACRASTI // SIXTE / OPIBVS /
accenno di prospettiva aerea nel colore delle montagne. In primo piano i DISPAR RELIGIONE / PRIOR”.
personaggi assumono posture statiche mentre nelle scene di secondo I personaggi contemporanei all’artista sono stati identificati come Alfonso di Calabria, Perugino,
piano è presente un maggiore movimento. l’architetto Dolci, il Pontelli, il Bregno, il Pinturicchio, Bartolomeo della Gatta e Alfonso
Il dipinto intitolato Consegna delle chiavi a Pietro di Pietro Perugino è un d’Aragona. Nel gruppo di sinistra, in secondo piano, è rappresentato l’episodio della moneta del
affresco. Tale tecnica consiste nel dipingere direttamente sull’intonaco censo. L’interpretazione della scena rappresentata a destra, invece, è più controversa. Potrebbe
appena applicato. L’intervento dell’artista poi deve essere limitato al essere la tentata lapidazione di Cristo oppure la cattura del Redentore e frastornazione fra i
tempo in cui l’intonaco è ancora umido. In tal modo il pigmento penetra suoi seguaci. L’edificio centrale rappresenta il tempio di Gerusalemme in forme rinascimentali.
nello strato di calce e sabbia e diventa molto resistente contro gli agenti Invece, i due edifici ai lati si rifanno alle forme architettoniche dell’arco di Costantino. La scritta
atmosferici. La tecnica dell’affresco, infine, prevede la stesura di latina celebra papa Sisto IV per aver commissionato la costruzione della Cappella Sistina. Infatti,
progressive velature di colore trasparente per esaltare i toni delle figure. il pontefice viene paragonato a Salomone, costruttore del grande tempio di Gerusalemme.
Nell’affresco del Perugino i toni caldi sono distribuiti sulla maggior parte
della superficie dell’opera. I toni freddi, invece, come il blu del cielo e di
alcune vesti, risultano più saturi e brillanti. La scena della consegna delle
chiavi a San Pietro avviene in un grande spazio aperto di fronte a tre edifici
classici. Dove termina il selciato inizia l’orizzonte rappresentato da una
linea di montagne. L’artista progettò la piazza e gli edifici di fondo
aiutandosi con la prospettiva geometrica. Inoltre, la linea di orizzonte è
posta poco sopra il limite del lastricato mentre il punto di fuga si trova al
centro, poco verso l’alto, del portale centrale.
L’affresco attribuito al Perugino è di formato rettangolare. L’inquadratura
permette, così, di rappresentare il paesaggio in esteso. Inoltre, i personaggi
sono distribuiti su una linea frontale che occupa l’intera larghezza del
dipinto. Anche gli edifici di fondo sono distribuiti sull’intera larghezza.
L’immagine presenta inoltre una evidente simmetria rispetto alla verticale
centrale. Si riscontra nella disposizione speculare degli edifici e nelle ali di
personaggi ai lati di Cristo e Pietro.
1496 Crocifissione L'affresco, che è la più grande opera di Perugino a Firenze, venne eseguito quando il
convento era ancora sotto i frati cistercensi, per volere della famiglia Pucci. La sala
capitolare, coperta da volte a crociera sorrette da peducci addossati alle pareti, impose una
tripartizione della decorazione in tre parti al di sotto delle arcate, dove il Perugino stesso
impostò un'intelaiatura architettonica prospettica con un gradino, pilastri e semicolonne, la
cui veduta è perfezionata da un punto di vista centrale sul lato opposto della stanza.
La Crocifissione occupa la parete est, mentre il San Bernardo accoglie il Cristo che si stacca
dalla croce si trova separato, sulla parete nord.
Nonostante ciò gli affreschi sono unificati dal paesaggio continuo e rarefatto, che si dispiega
nelle scene come se si trattasse di un loggiato aperto. Tra dolci colline punteggiate da
esilissimi alberelli frondosi, sfumanti verso l'orizzonte tra laghetti e tonalità azzurrine
schiarite dalla foschia, si svolge la scena della crocifissione. Gesù si trova nel pannello
centrale e campeggia nella parte alta dell'affresco sullo sfondo del cielo dell'alba, velato da
nubi rosate e schiarito in prossimità dell'orizzonte. Ai piedi della croce sta inginocchiata la
Maddalena penitente, chiara allusione alle Pentite che venivano accolte nel convento. Negli
affreschi laterali si vedono san Bernardo di Chiaravalle, fondatore dei Cistercensi e la
Madonna (sinistra), san Giovanni evangelista e san Benedetto, fondatore dei Benedettini dei
quali i Cistercensi sono una congregazione (destra).
A sinistra, in un paesaggio analogo, si trova poi l'affresco di San Bernardo accoglie il Cristo
che si stacca dalla croce, che testimonia il vivo misticismo del fondatore cistercense, riferibili
a un assistente del Perugino. La scala dell'affresco è più piccola e contiene maggiori spunti
legati alla riflessione, come la presenza delle ossa del Calvario, richiamo al memento mori.
Vicino esposta si trova anche la sinopia.
L'opera nel complesso è una trasposizione di un trittico su scala monumentale. L'intonazione
aulica e contemplativa, con pochi, sobri personaggi e un'amplissima apertura paesistica,
dimostrano la versalità dell'artista, in quegli anni all'apogeo della popolarità fiorentina,
capace di creare opere molto diverse, dal vivido realismo del Ritratto di Francesco delle
Opere, alla concitata azione del Compianto sul Cristo morto, fino alla solenne monumentalità
delle pale d'altare come l'Apparizione della Vergine a san Bernardo, pure un tempo in Santa
Maria Maddalena dei Pazzi.
Originale è anche la scelta dei colori, più tenui e delicati, stesi con velature trasparenti
sovrapposte, che si differenziano dai vividi accenti plastici delle pitture su tavola di quegli
anni.
1496-1500 Collegio del Cambio affreschi Sala dell’udienza (Forza e Temperanza, Prudenza
e Giustizia)
La Fortezza e Temperanza sopra sei eroi antichi (291x400 cm) ha uno schema del tutto analogo al precedente. Spiccano i sei eroi per la ricchezza delle
decorazioni delle armature e delle vesti, con cimieri e cappelli fastosamente elaborati. Essi sono, da sinistra, Lucio Sicinio Dentato, Leonida, Orazio
Coclite, Publio Scipione, Pericle e Cincinnato. Le due lunette dei Saggi e degli eroi segnano un vertice nel classicismo del pittore, raggiunto tramite un
modellato morbido, una tavolozza brillante e ricca.
Impostata simmetricamente è anche la lunetta con Prudenza e Giustizia sopra sei savi antichi (293x418 cm). Le due Virtù stanno sedute sopra nuvole, con i
rispettivi attributi, affiancate ai lati da putti che reggono cartigli con iscrizioni. In basso si vedono, da sinistra, con i nomi iscritti in basso, Fabio
Massimo, Socrate, Numa Pompilio, Camillo, Pittaco e Traiano.
L'opera venne dipinta per la Cappella della famiglia Tezi nella chiesa di Sant'Agostino a Perugia. Dopo
le soppressioni napoleoniche finì in galleria.
La pala mostra la Madonna in cielo col bambino sulle ginocchia, affiancata sulle nubi dai santi Nicola
da Tolentino e Bernardino da Siena, mentre nel registro inferiore, sullo sfondo di un dolce paesaggio
boscoso, si vedono i santi Girolamo col leone e Sebastiano trafitto da frecce. Al centro in basso si
trova l'apertura per un piccolo tabernacolo, che doveva contenere il Santissimo Sacramento.
Nonostante la grande finezza pittorica, l'opera presenta vari elementi di repertorio, come la Madonna
col Bambino proveniente da un cartone da cui fu tratta anche, in quegli stessi anni, la Madonna della
Consolazione. Il modo di stendere i colori non è tipico del Perugino, con forti chiaroscuri e con le
ombre stese tramite toni bruni e terrosi che ricordano piuttosto lo stile di Luca Signorelli.
Probabilmente si tratta di un'opera di bottega, in cui il maestro intervenne solo per alcuni brani.
1501 Gonfalone della Giustizia - Perugino
Dipinto a tempera e olio su tela, conservato nella Galleria nazionale dell'Umbria a Perugia. Il gonfalone,
usato durante le processioni pubbliche, venne dipinto nel periodo di massima popolarità dell'artista,
dopo i successi del ciclo della Sala delle Udienze del Collegio del Cambio, quando teneva bottega
contemporaneamente sia a Firenze che a Perugia. L'opera mostra la Madonna in gloria tra angeli,
cherubini e serafini al di sopra dei santi Francesco d'Assisi e Bernardino da Siena, con sullo sfondo una
veduta di Perugia e dei suoi concittadini inginocchiati, tra cui si riconoscono una serie di confratelli
incappucciati facenti parte della confraternita della Giustizia a cui era originariamente destinato il
gonfalone. Sebbene si tratti di un'opera di grande finezza compositiva e cromatica, lo schema è un
accostamento di disegni di repertorio. La Madonna col Bambino ad esempio è una riproposizione di
quella della Pala di Fano, mentre i due angeli oranti simmetrici si ritrovano in numerose opere di quegli
anni, come la Resurrezione di San Francesco al Prato, la Madonna in gloria e santi di Bologna,
la Madonna della Consolazione, ecc.).
Bernardino Pinturicchio L’appartamento Borgia venne ideato dallo stesso Alessandro VI (Xàtiva, 1431 – Roma,
1503) come residenza con la propria famiglia. L’imponente decorazione interna,
1492-94 Appartamento Borgia costituita da un grandioso ciclo di affreschi, è di Pinturicchio e suoi assistenti, collocabile
nel periodo 1492-1494. Alla morte del papa le stanze del pregiato appartamento furono
di fatto abbandonate e poi, soltanto nel corso dell’Ottocento, riaperte al pubblico. Nel
cuore dei Palazzi Vaticani si trova la parte quattrocentesca fatta edificare sotto il
pontificato di Niccolò V (Sarzana, 1397 – Roma, 1455). È qui che papa Alessandro VI fece
ristrutturare e decorare sei grandi sale, che poi presero il nome di “Appartamento
Borgia“. In tale occasione fu aggiunta anche una torre, che più tardi venne
ridimensionata in altezza e trasformata.
La decorazione delle pareti venne affidata a Pinturicchio, che la portò a compimento in
tempi rapidissimi, grazie ad un articolata ed efficiente equipe di aiuti. I lavori iniziarono
intorno agli ultimi mesi del 1492 e furono portati a compimento nel 1494. Si trattò
dell’incarico più impegnativo di tutta carriera artistica del pittore, un progetto
monumentale che poteva essere sminuito soltanto di fronte al ciclo della Cappella
Sistina. Pinturicchio dovette integrare – come gli si chiedeva, forse dettato dagli stessi
intellettuali presso la corte papale] – la strutturazione iconografica della dottrina
cristiana con spunti di gusto archeologico in voga a quei tempi nella capitale.
I temi scelti sono ritenuti più o meno tradizionali: vi appaiono Apostoli, Profeti e Sibille,
Arti Liberali, narrazioni relative alla vita di Maria con Gesù e Santi, motivi mitologici
paganeggianti inseriti appositamente come allegorie atte celebrare il committente.
Le stesure autografe del Pinturicchio sono tutte concentrate nelle ultime stanze, indicate come “camere segrete” poiché adibite ad esclusivo accesso al papa
ed a pochi suoi intimi: la “Sala dei Santi” e la “Sala dei Misteri” La bellissima decorazione, citata anche nelle Vite, non suscitò grandi interessi nell’arte
romana del primo Cinquecento, probabilmente per la scarsa diffusione dovuta alla difficile accessibilità di quegli ambienti.
Domenico Ghirlandaio
1480-81 Registro intermedio cappella sistina -----> Vocazione primi apostoli
La scena della Vocazione si divide tra primo piano e sfondo. Al centro di un lago in un'ampia
vallata montuosa, i pescatori Simon Pietro e Andrea (sulla sinistra) sono chiamati da Gesù, sulla
riva. Poco dopo i due sono dietro al Cristo che dalla riva opposta (sulla destra) sta chiamando a
sé Giacomo e Giovanni, intenti a rammendare le reti sulla barca del padre Zebedeo al centro della
scena.
In primo piano Pietro e Andrea, già rivestiti dei mantelli coi colori che sono loro attributo tipico
(giallo o arancione per Pietro, verde per Andrea), stanno inginocchiati davanti al Cristo che,
solenne, li benedice. L'elemento più originale dell'opera è la moltitudine di spettatori,
contemporanei di Ghirlandaio come dimostrano gli abiti, che assistono alla scena, come in una
sorta di grande platea ai lati della scena sacra. Numerosi e penetranti sono i ritratti, impostati a
fasce isocefale, cioè con le teste in sequenza alla medesima altezza. Vi è raffigurata tutta la
Gruppo di sinistra: A sinistra si trova il gruppo delle donne, dove è
comunità fiorentina presente a Roma, che ruotava attorno alla zona della basilica di Santa Maria
evidente il gusto piacevole e ciarliero dell'artista, tra le quali spicca la
sopra Minerva.
dama di spalle col mantello blu, che il Ghirlandaio riutilizzò in altre
composizioni di opere successive.
Seguono su questo lato un uomo con un mazzocchio annodato in testa, Gruppo di destra: Il gruppo di destra è quello meglio riuscito, nonché quello in cui si sono
dalle mani particolarmente espressive, un anziano calvo con una sciarpa riconosciuti il maggior numero di personaggi. Si tratta di una straordinaria foto di gruppo della
a righe sulla spalla e un uomo con la lunga barba bianca, probabilmente comunità fiorentina a Roma che accolse probabilmente gli artisti e che trovarono in Ghirlandaio la
un erudito costantinopolitano che fece da modello anche nell'affresco disponibilità a farsi ritrarre negli abiti ricchi del loro prestigio sociale, derivato dalle attività
del San Girolamo nello studio nella chiesa di Ognissanti a Firenze (1480). finanziarie e mercantili che essi svolgevano nella città papale attraverso le numerose filiali delle
Dietro di essi scendono alcuni giovani che sembrano presi nelle loro imprese della madrepatria. Alcuni di essi furono di nuovo committenti dell'artista in opere
conversazioni piuttosto che attirati dall'evento sacro, tra cui un bel successive a Firenze, come quelli della famiglia Tornabuoni.
ritratto di fanciullo con una ghirlanda di fiori in testa. Un terzo gruppo di Tra gli uomini spicca la figura in primo piano, con l'elegante abito rosso, una sciarpa rigata allora in
personaggi si trova in secondo piano, dietro Gesù, tra i quali si nota voga calata sulla schiena, e la berretta dello stesso colore, che dovrebbe essere Gianfrancesco
l'occhieggiare curioso di alcuni che essendo più lontani sembrano Tornabuoni, presente anche negli affreschi della Cappella Tornabuoni. Dietro di lui si trova un bel
sforzarsi di vedere e di farsi vedere. giovane di profilo e, a sinistra, un uomo in nero che dovrebbe essere, sempre dal confronto con gli
Proprio dietro Gesù, al centro della scena, si trova il ritratto di Diotisalvi affreschi successivi in Santa Maria Novella, Giovanni Tornabuoni, responsabile del Banco Medici a
Neroni, amico di Cosimo de' Medici, ma poi cospiratore contro suo Roma e delle sue lucrose attività con l'erario papale, così esperto nelle attività finanziarie da
figlio Piero; scappato da Firenze per l'insuccesso delle sue trame, si diventare tesoriere di Sisto IV; la sua età matura è testimoniata dai capelli grigi e dalle prime
rifugiò a Roma dove visse piuttosto isolato, come dimostrerebbe anche la rughe dell'età. Egli era fratello di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo il Magnifico, che proprio
sua posizione defilata dal gruppo degli altri fiorentini sulla destra. in quella comunità romana soggiornò, ospitata dal fratello, per trovare una sposa adatta al figlio,
quella Clarice Orsini che portò i primi legami di nobiltà in casa Medici. Alcuni indicano Giovanni
Paesaggio: Tra i brani meglio riusciti vi è l'ampio paesaggio lacustre sullo invece nell'uomo dallo sguardo triste, terzo in prima fila, con una mantella rossa e un cappello
sfondo, che si perde in lontananza sfumando per effetto della foschia e bombato, ma forse si tratta più probabilmente di suo fratello Francesco.
della luce dell'alba, con un uso della luce più realistico e vibrante, che Il successivo giovane dal profilo affilato, illuminato da una luce chiarissima, dovrebbe essere
arriva a superare anche quello delle opere del maestro di questa Giovanni Antonio Vespucci.
tecnica, Pietro Perugino. Montagne aguzze, che rievocano i monti di Nella fila successiva, quella più vicina agli apostoli, si vede un uomo in primo piano dalla postura
Masaccio nel Tributo, arrivano con le pendici fino all'acqua, che specchia fiera, avvolto in un manto violaceo e con il viso di profilo incorniciato da un caschetto grigio: non è
la luce chiarissima, mentre ai lati, più vicine allo spettatore, si trovano chiaro chi sia, se il fiorentino Francesco Soderini o il romano Raimondo Orsini. Accanto a lui si
due quinte di rocce e colline tra le quali si vedono chiese, torri castelli e trova un anziano con una corta barba bianca, le borse agli occhi e un curioso cappello rigido, quasi
le fortificazioni di due città. Quella di destra è Firenze, con il Battistero di prelatizio: si tratta di Giovanni Argiropulo, esule costantinopolitano dopo la presa del 1453, che
San Giovanni e palazzo Vecchio, quella di sinistra ha suggestioni tenne la cattedra di greco allo Studio fiorentino per quindici anni, protetto dai Medici. Il fanciullo
nordiche, derivate dall'arte fiamminga a cui spesso Ghirlandaio attinse davanti a lui, che guarda verso lo spettatore, potrebbe essere Lorenzo Tornabuoni, sfortunato
modelli e motivi. figlio di Giovanni che vide, dopo la morte del padre, il tracollo finanziario della famiglia e la morte
Nel cielo volano numerosi uccelli, tra cui anatre, pavoncelle, un falco e della giovane moglie. Un po' più avanti, di profilo, si trova poi un altro Tornabuoni, Cecco, morto a
un martin pescatore: si tratta di notazioni naturalistiche, spesso Roma nel 1482 e sepolto in un'elegante tomba di Mino da Fiesole in Santa Maria sopra Minerva.
adombranti significati simbolici (come gli uccelli che si accoppiano in
volo, simbolo dei cicli della natura che si rinnovano) derivate dalla
tradizione tardogotica filtrata da artisti fiorentini come Benozzo Gozzoli.
La Vocazione è un'opera di eccellente fattura, dove l'artista usò una
solennità che in seguito non si ritrova nella sua opera. L'impostazione, le
vesti e i colori di alcuni personaggi e alcuni atteggiamenti ricordano la
scena del Pagamento del tributo di Masaccio nella Cappella Brancacci,
opera cardine del primo Rinascimento fiorentino che anche Ghirlandaio
ebbe modo di studiare, stando alla testimonianza di Vasari.
I colori sono vivi e brillanti, particolarmente efficaci nel descrivere la
delicatezza delle epidermidi o nell'intonare i colori degli abiti all'ultima
moda dei contemporanei. L'abilità ritrattistica del Ghirlandaio raggiunse
qui, per la prima volta, vertici di penetrante realismo, dopo le prime
prove negli affreschi della Cappella di Santa Fina (1475), divenendo una
delle sue caratteristiche più note e apprezzate.
1483-1486 Cappella Sassetti (conferma regola francescana)
Appartenente al ciclo degli “Affreschi della Cappella Sassetti” in Santa Trinita a Firenze,
realizzato intorno al 1482-1485. La presente composizione e quella della “Resurrezione del
ragazzo”, che decorano la parete frontale insieme alla vistosa pala dell’Adorazione dei
pastori, sono considerate dagli studiosi di storia dell’arte come le più rappresentative
dell’intero ciclo pittorico. Entrambe le scene sono ambientate in un particolare scorcio
fiorentino. L’episodio della Conferma della regola è raffigurato sulla zona alta della parete
con San Francesco al cospetto di Papa Onorio III.
La scena, inquadrata con maestria ed originalità, si svolge in un articolato porticato che si
fonde con l’arco reale della cappella. L’ambiente in cui il papa riceve il santo non è quello
di Roma ma di Firenze, con una chiara vista sullo sfondo di piazza della Signoria, il
Campidoglio della città, con al centro la Loggia della Signoria (allora priva di statue) e al
lato Palazzo Vecchio, sul cui Arengario spicca il Marzocco di Donatello. Sul dietro – dove
attualmente sono gli Uffizi – si intravede la chiesa di San Pier Scheraggio, prima che fosse
demolita.
Bene distribuite, tanto da conferire alla veduta l’aspetto di un vivo squarcio realistico,
sono le figurette sparse sullo sfondo, riprese isolate ed in gruppi nella loro vita quotidiana.
La scelta fatta dalla committenza di ambientare l’episodio a Firenze testimonia
l’importanza che aveva allora la città, considerata nei circoli umanisti come la nuova
Gerusalemme o la nuova Roma.
1485 Adorazione dei pastori
La cornice riporta la scritta "Ipsum quem genuit adoravit Maria" ("Maria adorava colui che aveva
generato"). Maria, in primo piano su un prato fiorito, adora il Bambino poggiato sul suo mantello
all'ombra di un sarcofago romano antico che fa da mangiatoia per il bue e l'asinello (che secondo
la patristica rappresentano rispettivamente gli ebrei e i pagani), poco dietro si trova san Giuseppe, che
scruta verso il corteo in arrivo, e a destra un gruppo di tre pastori ritratti con vivo realismo, derivati dal
modello del Trittico Portinari di Hugo van der Goes. Nel primo pastore, quello che indica il Bambino,
Ghirlandaio incluse il proprio autoritratto.
La sella e il barroccio a sinistra alludono al viaggio di Maria e Giuseppe. I tre sassi in primissimo piano,
roccia naturale, pietra lavorata e mattone, sono un riferimento alla famiglia "Sassetti" e all'attività
dell'uomo. Sopra di essi sta un cardellino, simbolo della passione e resurrezione di Cristo.
Dall'arco di trionfo sullo sfondo passa il corteo dei re Magi, con un significato anche simbolico, inteso
come il lasciarsi alle spalle l'era pagana. A sinistra i primi due magi sono già vicini e guardano una luce
che si intravede sul tetto della capanna, la cometa, che brilla sul tetto di paglia sorretto da monumentali
pilasti romani, uno dei quali reca sul capitello la data MCCCCLXXXV (1485). Sullo sfondo si vedono i
pastori con le greggi ai quali l'angelo sta annunciando la nascita del Signore.
Il sarcofago-mangiatoia, l'arco di trionfo sotto cui passa il corte dei Magi e i pilastri che reggono la
capanna sono precisi riferimenti alla nascita del Cristianesimo in ambito pagano, tema anticipato anche
dagli affreschi esterni alla cappella (Augusto e la Sibilla Tiburtina che annunciano la nascita del Signore) e
dalla volta con le Sibille. Ad esempio l'iscrizione sul sarcofago "ENSE CADENS SOLYMO POMPEI FVLV/IVS/
AVGVR NVMEN AIT QUAE ME CONTEG/IT/ VRNA DABIT" si rifà alla leggenda dell'augure Fulvio, che sul
punto di morire durante l'assedio di Gerusalemme di Pompeo predisse che il suo sepolcro sarebbe stato
usato da un Dio. La traduzione è la seguente: "Mentre cadeva a Gerusalemme per la spada di Pompeo,
l'indovino Fulvio disse: l'urna che mi contenne genererà un dio". Rimanda a Gerusalemme e Pompeo
anche l'iscrizione sull'arco "GN. POMPIO MAGNO HIRCANVS PONT. P.", cioè "eretto in onore di Gneo
Pompeo Magno per volerte di Ircano, sacerdote del Tempio. Queste colte citazioni classiche,
probabilmente suggerite dal Fonzio, rappresentando, con altri elementi simbolici, il passaggio dalle
religioni giudaica (di Ircano) e pagana (di Pompeo) al cristianesimo, sorto sulle rovine delle altre
confessioni, come ricordano i due pilastri scanalati. Anche il paesaggio lontano, con le vedute cittadine,
simboleggia questa allegoria: la città più lontana a destra è infatti un riferimento a Gerusalemme con
l'edificio a cupola (la moschea della Roccia), davanti alla quale sorge un albero secco con un ramo
spezzato, simbolo della conquista della medesima; la città di sinistra invece è un'elaborazione di Roma,
nella quale si riconoscono i sepolcri di due imperatori profetici, Augusto, con il mausoleo e Adriano, che
si pensava sepolto sotto la Torre delle Milizie, ma si intravede anche quella che sembra la Cattedrale di
Santa Maria del Fiore, a ribadire il ruolo di Firenze come nuova Roma.
L'opera deriva da modelli di Filippo Lippi (come l'Adorazione del Bambino di Camaldoli) ma mostra anche
i chiari i segni dell'influenza della pittura fiamminga su quella fiorentina, dopo lo studio e la graduale
assimilazione del Trittico Portinari, la grande tavola fiamminga dell'Adorazione del Bambino, opera
di Hugo van der Goes portata a Firenze nel 1483 dalla famiglia Portinari per la chiesa di Sant'Egidio, che
arrivò come una meteora fulgida nella scena artistica fiorentina, influenzando profondamente i pittori
rinascimentali che cercarono di comprenderne le diversità e carpirne i segreti soprattutto nella resa della
luce e nel naturalismo lenticolare.
Tipicamente fiamminga è infatti l'attenzione al dettaglio, dove ogni oggetto ha un preciso ruolo
simbolico, e l'uso della prospettiva aerea, con il paesaggio che sfuma in lontananza nella foschia verso
una minuta rappresentazione di colline e città. La pala è affiancata dagli affreschi dei due committenti
inginocchiati, che si uniscono così alla sacra adorazione, formando così una specie di trittico a tecnica
mista.
1485-90 Cappella Tornabuoni (Natività Vergine e Battista)
Nascita della Vergine: Secondo affresco sulla fascia bassa della parete di sinistra. Il presente riquadro corrisponde alla seconda scena del ciclo, quella della Natività della Vergine,
un vero e proprio capolavoro del cromatismo e del chiaroscuro di Ghirlandaio. A proposito del secondo, qui, come negli altri riquadri della parete sinistra, risulta di grande
effetto che conferisce una naturalistica luminosità, provenente dall’alto (e da destra).
La scena della nascita di Maria si svolge in un lussuoso ambiente interno con pilastri istoriati, in una spaziosa sala con una scala in una prospettiva lineare non proprio perfetta.
Le linee di fuga, infatti, non si incontrano all’orizzonte e danno l’impressione che ogni scalino in ascesa sia più grande di quello sottostante. Spicca un armadio intarsiato e dorato
(secondo alcuni studiosi di storia dell’arte, su cuoio), sormontato da una bassorilievo classicheggiante con putti, che riman da alle cantorie di Donatello e di Luca della Robbia
presenti nel Duomo di Firenze. Sulla destra si trova il letto di sant’Anna. Mentre una balia versa con estrema precisione, nonostante l’altezza, l’acqua in una bacinella,
un’altra nutrice tiene Maria in braccio.
A sinistra, appare un gruppo di donne, splendidamente abbigliate, che avanza verso la neonata per farle visita. In cima alla scala si svolge l’episodio dell’abbra ccio tra Anna e
Gioacchino, la tipica narrazione, qui assai semplificata, dell’incontro alla Porta d’Oro della città di Gerusalemme . Nella cornice degli armadi appare la scritta “NATIVITAS TUA DEI
GENITRIX VIRGO GAUDIUM ANNUNTIAVIT UNIVERSO MUNDO” che tradotta significa “La tua nascita, o Vergine madre di Dio, annunziò l a gioia a tutto l’universo”.L’affresco, che
è considerato dagli studiosi come uno tra i più belli della cappella, è firmato negli intarsi a grottesche degli armadi con BIGHORDI (cognome dell ’artista) e GRILLANDAI
(soprannome storpiato dai fiorentini).
Nascita di Battista: Primo affresco a partire da destra sulla fascia media della parete di destra. Il presente episodio richiama quello della “Nascita della Vergine” nel riquadro
della parete frontale (il secondo sulla fascia bassa della parete di sinistra), della quale riprende la composizione con il letto, assai più grande e collocato in simmetria.Il registro
del Ghirlandaio è “sommesso”, configurato in tono domestico e raccolto. La stanza, pur essendo meno sfarzosa rispetto a quella dell’altra composizione, evidenzia la sontuosità
di ambienti interni verosimilmente esistiti presso le abitazioni dei ricchi mercanti fiorentini.
Elisabetta sta tranquillamente seduta e con le gambe stese sul grosso lettone, in una solenne serenità, con un libro chiuso p osto sulla coperta, su cui poggia la mano sinistra.
La nutrice raffigurata in primo piano (quella verso il centro), insieme alla giovane donna alla quale essa rivolge lo sguardo, è il fulcro delle di linee di fuga: la prima allatta il
neonato, mentre l’altra, in piedi, elegantemente vestita (probabilmente una familiare dei Tornab uoni) tiene elegantemente un fazzoletto tra le mani. Il vero centro delle linee di
forza che richiamano lo sguardo del fruitore è invece spostato un po’ più sulla sinistra con la scena che interessa anche l’a ltra balia che, volendo fare il bagnetto al pargolo,
allunga le braccia impaziente nell’attesa che termini l’allattamento. Nel gruppo di donne in piedi che sta recando visita ad Elisabetta, del quale la prima è già stata considerata,
quella più anziana potrebbe essere riconosciuta come Lucrezia Tornabuoni, sorella del committente già deceduta nel periodo dell’esecuzione del ciclo. Infine, l’ultima figura
rappresenta una leggiadra ancella che reca un vassoio traboccante di frutta sulla testa ed una brocca d’acqua, le cui vesti s volazzanti spiccano ingiustificatamente su tutto il
contesto.
Anche in questa composizione come in altre del ciclo, il chiaroscuro e le variazioni cromatiche, assai efficaci, conferiscono a tutto l’insieme una naturalistica luminosità,
provenente dall’alto (e da sinistra). Fa eccezione la servitrice, ripresa nella penombra. Giorgio Vasari riferendosi al presente affresco scrisse: “Mentre S. Elisabetta è in letto, e
che certe vicine la vengono a vedere e la balia stando a sedere allatta il bambino, una femmina con allegrezza gnene chiede, per mostrare a quelle donne la novità che in sua
vecchiezza aveva fatto la padrona di casa; e finalmente vi è una femmina che porta a l’usanza fiorentina frutte e fiaschi da la villa, la quale è molto bella.”
1473-75 David
David vittorioso ha un aspetto adolescente. Il giovane eroe è in piedi ed esibisce una posa che esprime il suo orgoglio per
la vittoria. David è fiero di essere diventato un eroe sconfiggendo il gigante nemico. Infatti, la testa di Golia si trova a
terra tra i suoi piedi. Il corpo è sorretto dalla gamba destra mentre quella sinistra è leggermente flessa e posta più
indietro. Il braccio destro è steso lungo il fianco e la mano impugna la spada usata per decapitare il nemico. Il braccio
sinistro, invece è sollevato e la mano appoggiata al fianco.
Il volto poi è ruotato verso la destra dell’osservatore. Inoltre, il suo sguardo fiero presenta un accenno di spavalderia
giovanile. Infatti, con le labbra accenna ad un sorriso di sfida e soddisfazione. Gli occhi sono segnati, in alto, dalla
corrugazione del muscolo sopraciliare che determina l’espressione di aggressività e disapprovazione. I capelli sono ricci e
scendono sul collo. David indossa infine una corta tunica aperta sul petto e retta da due spalline. I bordi del corpetto, le
spalline e il bordo del gonnellino sono decorati da una spessa fascia. Ai piedi porta dei calzari che coprono metà della
gamba e lasciano scoperta la parte anteriore del piede.
La statua di Verrocchio è un ritratto dell’eroe protagonista della vicenda biblica. Il giovane David era un pastore e la
vicenda si svolse circa nel 1000 a.C. Golia invece era un guerriero possente e molto alto. David si offri con
determinazione per affrontare il nemico. Però rifiutò l’armatura offerta dal re Saul e si armò solamente di alcune pietre
ben levigate. Forte della fede in Dio riuscì quindi ad abbattere il gigante. Una volta colpito a morte lo decapitò con la sua
spada e portò la testa in processione a Gerusalemme. David divenne così il futuro re di Israele.Verrocchio fu un
protagonista del Rinascimento fiorentino. Nella sua bottega si formarono importanti artisti tra i quali Leonardo da Vinci.
Secondo Vasari l’opera risale agli anni successivi al soggiorno romano di Verrocchio, nei primi anni Settanta del secolo. La
scultura di Verrocchio è, oggi, datata intorno agli anni 1472-1475. L’artista, nato nel 1435, era ormai alla soglia dei
quarant’anni e raccoglieva importanti commissioni. La figura di David si distacca dal nudo classico di Donatello per
avvicinarsi al gusto goticheggiante vicino alle opere di Lorenzo Ghiberti. Il modellato della figura è morbido. Le forme
anatomiche sono corrette e non segnate eccessivamente. Gli storici ritengono che tale gusto estetico sia stato di
ispirazione al giovane Leonardo da Vinci, allievo di Verrocchio. Il giovane David esibisce una espressione di orgoglio
adolescenziale. Questo approfondimento psicologico rivela l’intenzione di Verrocchio di sottolineare l’aspetto umano
dell’eroe biblico. Verrocchio si ispirò al David di Donatello del 1440 circa. L’artista, però, non rimase aderente al modello.
Infatti, David adolescente indossa un abito del quattrocento, da giovane paggio.
La scultura del David vittorioso dialoga in modo complesso e articolato con lo spazio circostante. Infatti, offre la
possibilità di essere osservato da più punti di vista. La posa assunta da David è equilibrata e disinvolta. L’anca destra è
sollevata, il braccio sinistro è poggiato contro la vita e la testa ruotata verso sinistra. La mano destra impugna la spada
con la quale ha decapitato Golia.
1475 Dama col mazzolino
La scultura raffigura il busto di una giovane donna con le mani strette sul petto. Tra le sue dita si notano inoltre dei
fiori che la ragazza stringe a se. La dama ha fattezze regolari e i capelli sono raccolti sulla nuca da una acconciatura
sobria. Piccole ciocche arricciate incorniciano poi il volto lateralmente. La donna infine indossa una veste sottile che
aderisce al suo corpo e crea un sottile panneggio. La scultura di Andrea Verrocchio detta Dama dal mazzolino è
anche intitolata Gentildonna dalle belle mani. Gli storici però non sono in grado di indicare l’identità della donna.
Quindi esistono solo ipotesi circa il suo nome. Secondo alcuni poteva essere Lucrezia Donati, amore platonico di
Lorenzo de’ Medici. Secondo altri, invece si tratta di Lucrezia Tornabuoni, la madre di Lorenzo. Il nome di Lucrezia si
trova, infatti, all’interno di un inventario compilato nel 1492 alla morte di Lorenzo de’ Medici. Altri, ancora, indicano
l’amante di Giuliano de’ Medici, Fioretta Gorini. Attualmente, in seguito ad approfondite indagini storiche, gli storici
escludono infine che sia una componente della famiglia de’ Medici.
Non esistono documenti che chiariscano le circostanze della commissione dell’opera. Per molto tempo la Dama dal
mazzolino è stata considerata una proprietà della famiglia de’ Medici. Ora, in seguito a nuovi e approfonditi studi si
mette in dubbio tale provenienza. Sicuramente, fino al 1822 l’opera fu proprietà di un nobile fiorentino, Francesco
Ceccherini. Nel 1825, gli eredi decisero poi di vendere la scultura alle collezioni granducali. Su alcuni documenti,
inoltre, si specifica che la scultura apparteneva, in precedenza, ad una famiglia sconosciuta di Firenze. Leopoldo II
acquistò, così, la Dama dal mazzolino per la Galleria degli Uffizi nel 1825.
La prima documentazione certa sulla Dama dal mazzolino è presente nel testamento di Francesco Ceccherini del
1822. Per il nobile fiorentino l’opera era di Donatello. Wilhelm Bode, nel 1882, per primo attribuì la scultura
a Verrocchio. Giunse a questa ipotesi confrontandola con le Virtù del Cenotafio Forteguerri a Pistoia. Da allora gli
storici concordano con tale attribuzione. Secondo altre opinioni, invece, l’opera potrebbe essere stata realizzata
insieme a Leonardo da Vinci. Lo rivela il confronto con il Ritratto di Ginevra de’ Benci del 1474 circa. Le due
protagoniste, infatti, si somigliano e portano la stessa acconciatura. Infine, è stato messo in relazione uno studio di
Leonardo con due mani disegnate nella stessa posizione. Secondo altri, non è possibile però considerare l’intervento
di Leonardo per via dell’unità stilistica che la scultura presenta.
La Dama dal mazzolino è un busto-ritratto. Tale formato scultoreo si diffuse a Firenze nel corso della seconda metà
del XV secolo. Si tratta di una evoluzione dei busti in cera devozionali prodotti nel medioevo. Andrea del
Verrocchio scolpì l’opera intorno al 1475. Il taglio della figura all’altezza dell’ombelico, la posa naturale e disinvolta
delle mani erano presenti nei dipinti fiamminghi dell’epoca. Tali opere, infatti, erano molto diffuse e apprezzate a
Firenze. Inoltre, l’abito e l’acconciatura sono minuziosamente dettagliati come nella tradizione della pittura nordica.
Secondo gli storici l’opera introduce una novità compositiva nella scultura del secondo Quattrocento. La figura,
infatti, è tagliata all’altezza dell’ombelico e indica una scelta non tradizionale. Inoltre, le mani che stringono il
mazzolino di fiori sono posizionate in modo molto naturale.La Dama dal mazzolino è una scultura in marmo di circa
60 cm di altezza.La superficie del’opera è molto chiara quindi la luce si riflette creando leggeri chiaroscuri. Le ombre
più profonde si trovano ai lati del volto dove la massa di capelli incornicia l’ovale che viene così segnato da una
sottile linea di ombra. Altre ombreggiature più profonde creano poi lo stacco tra le braccia e il torace e mettono in
risalto le mani in primo piano. Infine le pieghe dell’abito, sottile e quasi trasparente sono rilevate da ombre poco
profonde e delicate.La scultura di Andrea del Verrocchio è un tuttotondo. La prospettiva migliore per osservarla
nella sua completezza è però quella frontale nella quale il viso della protagonista si esprime al meglio. In particolare
sono le mani ad attirare l’attenzione dell’osservatore per via della loro posizione e dei fiori.
La dama è rappresentata frontalmente ma un poco rivolta a destra. Inoltre, anche il viso è inclinato nella direzione
opposta e risulta leggermente obliquo. Questa scelta compositiva insieme alla posizione asi mmetrica delle mani
permette di creare una posa più naturale e non rigidamente frontale. Infine il busto crea una base piramidale che
mette in evidenza il volto nella parte alta.
Prove di Cristo: La scena delle Prove di Cristo raffigura le tre Tentazioni di Gesù e ha evidenti parallelismi con la scena sulla parete opposta in posizione
simmetrica, sempre di Botticelli, le Prove di Mosè. L'iscrizione sul fregio chiarisce il significato del dipinto: "TEMPTATIO IESU CHRISTI LATORIS EVANGELICAE
LEGIS". In alto a sinistra Cristo incontra il demonio, sotto le sembianze di un eremita, che lo invita a tramutare in pane le pietre; al centro Cristo e il demonio
sono sulla sommità del frontone di un tempio, ispirato all'Ospedale di Santo Spirito in Saxia, e il demonio sfida Gesù a gettarsi nel vuoto e ad essere salvato
dai suoi angeli; infine, a destra, Cristo fa precipitare il demonio nudo da una rupe dopo il suo rifiuto di dominare il mondo. In primo piano si svolge un rito
sacrificale, interpretato come quello offerto dal lebbroso dopo essere stato risanato da Cristo e in cui il sommo sacerdote simboleggia Mosè, che passa la
Legge, e il giovane si identifica con Cristo, che sarà lui stesso sacrificato per redimere l'umanità intera.
I pittori della Sistina si attennero a comuni convenzioni rappresentative in modo da far risultare il lavoro omogeneo come l'uso di una stessa scala
dimensionale, struttura ritmica e rappresentazione paesaggistica; inoltre utilizzarono accanto ad un'unica gamma cromatica le rifiniture in oro in modo da
far risplendere le pitture con i bagliori delle torce e delle candele.
Rispetto ai capolavori creati per i Medici, negli affreschi della Sistina Botticelli risulta più debole e dispersivo, con difficoltà nel coordinare le forme e la
narrazione. La relegazione in secondo piano degli episodi principali non giova alla leggibilità della scena, che forma un insieme frammentario, forse a caus a
dello spaesamento del pittore nell'operare su dimensioni e tematiche non congeniali e in un ambiente a lui estraneo.
Il tratto migliore resta però la vigoria dei ritratti e la ricchezza di invenzioni iconografiche. Notevole è inoltre l'organizzazione formale che amplifica il
carattere simbolico degli avvenimenti.
Prove di Mosè: La scena delle Prove di Mosè raffigura vari episodi della giovinezza di Mosè tratti dal Libro dell'Esodo ed ha evidenti parallelismi con la scena
sulla parete opposta in posizione simmetrica, sempre di Botticelli, le Prove di Gesù. L'iscrizione sul fregio chiarisce il significato del dipinto: "TEMPTATIO
MOISI LEGIS SCRIPTAE LATORIS". Da destra si vede Mosè che uccide l'egiziano che aveva maltrattato un israelita e fugge nel deserto (per cui può essere
visto come prefigurazione di Cristo che sconfigge il demonio); nell'episodio successivo combatte con i pastori che volevano impedire alle figlie di Ietro, tra
cui è la sua futura moglie Sefora, di abbeverare il gregge al pozzo e attinge per loro l'acqua; nel terzo in alto a destra Mosè si toglie i calzari, poi si avvicina al
roveto ardente e riceve da Dio la missione di tornare in Egitto e liberare il suo popolo; infine in basso a sinistra, egli guida il suo popolo verso la Terra
Promessa. I pittori della Sistina si attennero a comuni convenzioni rappresentative in modo da far risultare il lavoro omogeneo, come l'uso di una stessa
scala dimensionale, struttura ritmica e rappresentazione paesaggistica; inoltre utilizzarono accanto ad un'unica gamma cromatica le rifiniture in oro in modo
da far risplendere le pitture con i bagliori delle torce e delle candele.
Dei tre episodi affrescati da Botticelli questo è il più coordinato nello svolgimento dei numerosi episodi che compongono la scena narrata. Mosè è sempre
riconoscibile per la veste dorata e il mantello verde. Il tratto migliore resta però la vigoria dei ritratti e la ricchezza di invenzioni iconografiche, che però in
alcuni casi formano un insieme frammentario, forse a causa dello spaesamento del pittore nell'operare su dimensioni e tematiche non congeniali e in un
ambiente a lui estraneo.
1482 Pallade doma il centauro
Pallade, a destra è in piedi e afferra con la mano destra i capelli del Centauro. La dea sorregge un’alabarda con il
braccio sinistro mentre guarda in modo deciso il centauro in volto. Pallade è abbigliata con un abito velato di stoffe
trasparenti e decorato con serti di ulivo. Sul tessuto sono presenti ricami che raffigurano emblemi composti
dall’unione di tre o quattro anelli con diamante incrociati. Compare anche il motto “Deo amante” che si traduce in
italiano come “A Dio devoto”. Motto ed emblema furono assunti da Cosimo il Vecchio e in seguito dagli eredi tra i
quali il nipote Lorenzo il Magnifico.
Un lungo e svolazzante mantello pesante è legato alla spalla destra e passa intorno ai fianchi. Intorno al capo indossa
una corona di foglie. Il Centauro è dipinto a sinistra della dea ed è orientato verso la stessa direzione. Con la mano
destra stringe un arco mentre dietro la schiena porta una faretra con frecce. Il corpo dalla vita in giù è quello di un
cavallo dal pelo scuro mentre verso l’alto è quello di un uomo dalla corporatura vigorosa. Ol tre ai lunghi capelli il
Centauro ha il viso coperto da una folta e lunga barba scura.Il paesaggio è rappresentato in modo dettagliato già a
partire dal primo piano. Sulla sinistra è dipinta in dettaglio una rupe frastagliata che parte dal basso e prosegue oltre
il bordo del dipinto. Sul fondo si apre un paesaggio lacustre. Sul lago infine si intravede una imbarcazione e sulle
sponde a destra della vegetazione.
Il dipinto di Sandro Botticelli intitolato Pallade e il Centauro presenta alcuni significati nascosti. Una comune
interpretazione è che l’opera sia legata a significati derivati dalla filosofia Neoplatonica. Infatti presso la corte di
Lorenzo il Magnifico erano molto diffuse le teorie filosofiche di Marsilio Ficino che ispirarono anche altre opere
di Sandro Botticelli. Alcuni propongono che l’opera possa essere una allegoria della ragione (Gombrich). La dea
Pallade, cioè Minerva, domina la primitiva forza del Centauro. I tre anelli intrecciati nella veste di Pallade
rappresentano l’emblema di Lorenzo il Magnifico.
Intorno al capo e al corpo di Pallade si notano alcune fronde di lauro. Questa pianta allude nuovamente al Mecenate
nel suo appellativo di Magnifico. Altra interpretazione politica richiama le brillanti capacità diplomatiche del signore
di Firenze (Steinmann). L’opera Infatti sembra raccontare la capacità di Lorenzo il Magnifico nel trattare con
diplomazia le intenzioni bellicose del re di Napoli evitando la guerra tra le due città. L’Intenzione di Lorenzo era
quella di convincere il sovrano napoletano a non aderire alla lega anti fiorentina di Papa Sisto IV.
Secondo gli storici il dipinto è parte di una serie di opere a carattere mitologico che Botticelli dipinse al ritorno da Roma. Gli altri dipinti sono Primavera, Nascita di Venere,
Venere e Marte. Sandro Botticelli utilizzò una sottile linea di contorno per rafforzare le forme delle figure dei due personaggi. Il contorno inoltre crea un elegante linearismo
tipico dei personaggi del maestro. Il modellato è delicato e la muscolatura del Centauro rappresentata con rilevanze poco contrastate ma che esprimono molta plastic ità e forza.
I gesti furono attentamente studiati per suggerire il carattere dei personaggi ed esprimere una certa eleganza formale. In Pallade e il Centauro si ritrovano alcune influenze di
Pietro Perugino nel paesaggio come anche ricordi di Luca Signorelli. Con i due artisti Sandro Botticelli lavorò infatti all’interno della cappella Sistina a Roma. Il centauro fu forse
ispirato da sarcofaci romani presenti nella città. Botticelli ebbe una formazione artistica come orafo e rimase legato ad una descrizione elegante e lineare della realtà. Accanto
alle delicatezza delle figure dei suoi dipinti di carattere mitologico occorre ricordare che fu autore di opere inquietanti c ome Nastagio degli Onesti. Inoltre per Lorenzo de’ Medici
creo la monumentale opera di raffigurazione dell’Inferno di Dante.
Il colore del dipinto intitolato Pallade e il Centauro è brillante e terso come in molte opere di Sandro Botticelli. Dal contrasto tra i toni scuri del primo piano e i toni freddi e
cristallini del paesaggio emerge infatti un’atmosfera sospesa e antica. In primo piano il terreno, il cor po animale del Centauro e il manto di Pallade creano ampie zone scure che
mettono in forte evidenza l’abito chiaro della dea e gli incarnati dei personaggi. In secondo piano, a sinistra, la struttura rocciosa crea una quinta neutra che predispone alla
lettura del paesaggio a destra. Il lago e il terreno sono poi frutto di delicati toni verdi. Il cielo, invece è azzurro, molto intenso e crea un efficace contrasto di luminosità con il
primo piano. I due personaggi occupano interamente il primo piano e ne determinano la lettura spaziale frontale con l’imponenza dei loro fisici. La costruzione rocciosa a destra
invece con un leggero suggerimento prospettico crea un primo spessore del primo piano e invita lo sguardo a percorrere lo spa zio verso il paesaggio di fondo. In realtà lo spazio
tridimensionale è rappresentato debolmente nella struttura dell’immagine di Sandro Botticelli. Il paesaggio infatti subisce u n appiattimento decorativo che si ritrova anche
in Nascita di Venere dove il mare con le piccole onde diventa quasi uno sfondo decorato. L’impianto compositivo dell’opera è articolato tra le monumentali figure di Pallade e
del Centauro che trovano equilibrio nella grande massa rocciosa di sinistra.
1485 Nascita di Venere Al centro del dipinto si trova Venere che sorge dalle acque, raffigurata in piedi, su di
una conchiglia mentre il resto ruota intorno a lei. Zefiro si trova alla sinistra della dea e,
a destra, invece, Ora porge a Venere una veste ricamata. La veste è un capolavoro di
sapiente decorazione, realizzata con fiori dipinti in modo minuzioso. Intorno, il
paesaggio è appena accennato come il mare che sembra una carta da parati. Infatti le
onde sono rappresentate attraverso semplici segni lineari.Il soggetto di questo famoso
dipinto è ispirato alle metamorfosi di Ovidio.
Il dipinto di Botticelli, come La Primavera, nasce all’interno della cultura neoplatonica
diffusa a Firenze. Infatti, presso la Corte di Lorenzo il Magnifico, vi erano molti
intellettuali seguaci del platonismo. Il tema sotteso dal dipinto è, piuttosto, la
celebrazione della nascita di una nuova umanità, rappresentato dalla figura di Venere.
La dea viene rappresentata nuda ma la sua nudità ha un intento estetico e astratto.
Questa figura idealizzata rappresenta il modello della bellezza secondo Sandro
Botticelli.
Nel complesso il gruppo dipinto sembra una scena teatrale che si dispiega di fronte allo
spettatore. I personaggi mitologici sono esili e allungati, con la pelle tendente ad un
tono chiaro e eburneo. Come il paesaggio anche i corpi sono quasi bidimensionali e
privi di un deciso chiaroscuro. Le forme sono definite attraverso un delicato contorno
lineare che il maestro Botticelli utilizza in modo virtuoso. Curve ritmiche e fluenti
rendono i panneggi leggeri ed eleganti soprattutto nella veste mossa dal vento che Ora
porge a Venere. Allo stesso modo fluiscono, verso il basso anche i capelli della dea
mossi dal vento. Infine, il decorativismo stilistico si ritrova anche nei dettagli naturali
come fiori ed erbe.
La luce illumina in modo diffuso la scena ma la fonte luminosa non è identificabile. Lo
spazio risulta contratto sul primo piano. Il senso di profondità viene infatti annullato
dal linearismo delle figure e dal debole chiaroscuro che è assente anche nel paesaggio.
La composizione è centrale e coincide con la Venere, soggetto ideale del dipinto.
1500 La natività mistica
La Natività mistica è forse l’opera più devozionale di Botticelli, in quanto la scena è pervasa da un senso
d’inquietudine e sembra preludere all’avvento dell’Apocalisse. Al centro della scena, Maria e Giuseppe sono in
adorazione del Bambino, protetti da una tettoia di paglia, retta da tronchi, che fronteggia una grotta aperta sul
bosco retrostante. Il Bambino è disteso al centro su un giaciglio coperto da un telo bianco. Il bue e l’asinello si
trovano alle spalle della Sacra Famiglia.
Accanto alla grotta, a sinistra, un angelo vestito di rosa mostra ai re Magi la grotta; a destra un secondo angelo
vestito di bianco indica il Bambino a due pastori. Entrambi reggono in mano un ramo d’ulivo, simbolo di pace. In
basso, altri angeli abbracciano gli uomini virtuosi, dal capo coronato di alloro, per celebrare la pace universale, che
si diffonderà sulla terra dopo la venuta del Salvatore: in realtà, essi sembrano più confortarli che esprimere la gioia
della nascita divina.Alcuni demoni, alla vista del Redentore, fuggono negli Inferi, cacciandosi terrorizzati nelle crepe
del suolo.
Sopra la tettoia della grotta, tre angeli intonano un canto. Le loro vesti che ricordano i colori delle tre Virtù teologali
sono: bianco per la Fede, rosso per la Carità e verde per la Speranza. In alto, dodici angeli volano a girotondo,
tenendosi per mano. Questo cerchio angelico rappresenta la danza della vita, simbolo della rigenerazione spirituale.
La composizione profetica in greco, leggibile sopra di loro, esprime la speranza per l’avvento di tempi migliori.
La tavoletta rappresenta una impresa di Ercole, desunta dal mito. L’eroe è riconoscibile per gli
attributi della pelle del leone di Nemea (da lui stesso sconfitto) e dalla clava nodosa.
Ercole sta stritolando il gigante Anteo, sollevandolo da terra. L’eroe, stringendo le mascelle nello
sforzo stringe contro il proprio ventre il nemico, che si divincola urlando. Le figure risaltano
imponenti contro un paesaggio inquadrato ‘a volo d’uccello’. Per l’episodio di Ercole e Anteo, cfr. la
Descrizione in scheda sul bronzetto di medesimo soggetto dello stesso Pollaiolo.
Leonardo da Vinci
1473 Paesaggio con fiume (disegno)
La scena mostra un paesaggio, probabilmente quello di Montevettolini.Tra due
promontori scoscesi, punteggiati da castelli e da altri segni della presenza umana, si apre
la veduta di un fiume, con alberi, cespugli e in lontananza campi coltivati. Il disegno
poteva essere uno schizzo preparatorio per un paesaggio in un'opera più complessa, o un
esercizio del giovane artista a quel tempo allievo di Andrea del Verrocchio; è anche
possibile però che fosse eseguito solo per piacere personale, stando anche alla passione
di Leonardo citata dal Vasari verso "il disegnare et il fare di rilievo, come cose che
gl'andavano a fantasia più d'alcun'altra".
L'autografia leonardesca appare anche confermata dallo stile dell'opera, somigliante ad
altri suoi paesaggi, e alla notevole capacità di rendere l'effetto del connettivo
atmosferico, che lega il vicino e il lontano come se potesse circolarvi realmente "l'aria".
L'artista usò un tratto leggero per evocare il vento tra gli alberi e uno più spesso per le
rocce e le cadute d'acqua, mentre per il castello a strapiombo usò contorni netti.
L'opera venne probabilmente tratta dal vero e comunque contiene vari spunti reali che a
Leonardo dovevano essere ben presenti per la sua infanzia trascorsa in campagna, nella
casa del nonno a Vinci.
1473 Annunciazione
Davanti ad un palazzo rinascimentale, in un rigoglioso giardino recintato che evoca l’hortus
conclusus allusivo alla purezza di Maria, l’Arcangelo Gabriele si inginocchia davanti alla
Vergine rivolgendole il saluto ed offrendole un giglio. La Vergine risponde, seduta con grande
dignità davanti a un leggio sul quale è poggiato un libro. Il tradizionale tema sacro è collocato
da Leonardo in un’ambientazione naturalistica e terrena: l’angelo ha una corporeità concreta,
suggerita dall’ombra proiettata sul prato e dalla resa dei panneggi che presuppongono studi
dal vero. Anche le sue ali prendono ispirazione da quelle di qualche poderoso rapace. E’
straordinaria la resa della luce crepuscolare che plasma le forme, unifica la scena e fa risaltare
le sagome scure degli alberi sul lontano paesaggio dello sfondo, dominato dai toni sfumati
cari all’artista. Gli elementi architettonici sono disegnati secondo le regole della prospettiva
con punto di fuga centrale, ma alcune anomalie riscontrabili nella figura della Vergine, il cui
braccio destro appare eccessivamente lungo, potrebbero rispecchiare precoci ricerche di
ottica da parte di Leonardo, che avrebbe tenuto conto del punto di vista laterale (da destra) e
ribassato determinato dalla collocazione originale della tavola dipinta, cioè sopra un altare
laterale di una chiesa.
Pervenuto agli Uffizi nel 1867 dalla sagrestia della chiesa di San Bartolomeo a Monteoliveto
fuori porta San Frediano a Firenze, del dipinto non si conoscono né la collocazione originaria,
né la committenza. L’Annunciazione è largamente ritenuta un’opera giovanile di Leonardo da
Vinci, eseguita quando il maestro era ancora nella bottega di Andrea del Verrocchio. Imita
un’invenzione del Verrocchio la foggia del leggio, ispirata al sarcofago di Piero il Gottoso nella
chiesa di San Lorenzo a Firenze.
1478-80 Ritratto di Ginevra Benci
La donna è raffigurata a mezzo busto di tre quarti, girata verso destra. È risaputo che il dipinto venne decurtato,
in epoca imprecisata, di almeno un terzo nella parte inferiore, tagliando via le mani che probabilmente erano
danneggiate. Originariamente le proporzioni del ritratto non dovevano essere molto dissimili da quelle
della Gioconda.
Le mani dovevano essere in una posizione emblematica, come nei più famosi ritratti di Leonardo e, secondo
alcune testimonianze dell'epoca, dovevano assomigliare nella posa a quelle della Dama del
mazzolino di Verrocchio. Ne esiste uno studio nella Royal Library del Castello di Windsor. Ginevra indossa una
veste con scollatura chiusa da lacci e un camicia bianca e sottilissima; dal collo pende una sciarpa nera che
incornicia il petto e le spalle. L'acconciatura è tipica dell'ultimo quarto del Quattrocento a Firenze, con i capelli
raccolti sulla nuca lasciando liberi alcuni ricci a incorniciare la fronte. Si tratta della stessa acconciatura usata ad
esempio da Giovanna Tornabuoni, tanto che il Vasari scambiò le due fanciulle negli affreschi
del Ghirlandaio nella cappella maggiore di Santa Maria Novella. Inconsueta è la mancanza di accessori e gioielli
che testimoniassero la ricchezza della famiglia: fu forse la stessa donna a richiedere di essere ritratta così,
rompendo con la tradizione dei ritratti dell'alta borghesia.
Evidente è il confronto dell'artista con la pittura fiamminga, che tentò di emulare nelle delicate luminescenze
dei capelli e nel colorismo analitico. L'ombra del ginepro esalta infatti il chiarore espressivo del volto della
donna, le cui delicate sfumature vennero ottenute anche col caratteristico tocco diretto dei polpastrelli. Il colore
dell'acconciatura si evolve in quello della veste e dello sfondo paesaggistico, secondo un continuum cromatico
che testimonia la capacità vinciana nell'uso del timbro bruno-castano in varie tonalità.
In lontananza si apre un paesaggio con tutti gli elementi cari al pittore: specchi d'acqua, campanili e torri
appuntite, montagne. Il tutto è trattato con toni azzurrini secondo le regole della prospettiva aerea.
L'ambientazione all'aperto è molto insolita, soprattutto per un ritratto femminile.
1481 Adorazione dei Magi L’Adorazione dei Magi è un dipinto incompiuto commissionato a Leonardo dai monaci Agostiniani per l’altare
maggiore della chiesa di San Donato a Scopeto, allora poco al di fuori delle mura di Firenze. Secondo il contratto
avrebbe dovuto essere completata in 30 mesi, invece fu interrotta dalla partenza del maestro per Milano, dove
nuove sfide artistiche e scientifiche lo attendevano alla corte di Ludovico il Moro.
L’Adorazione era allora un soggetto molto comune a Firenze, dove ogni anno per l’Epifania un solenne corteo
rievocava l’episodio evangelico nelle strade cittadine. Ma Leonardo non mancò di apportare importanti
innovazioni sia nell’iconografia che nell’impianto compositivo. Per esempio, incentrò la tavola, dipinta a olio su
tempera grassa, su un momento ben preciso della storia: quello in cui con il gesto della benedizione il Bambino
rivela la sua natura divina agli astanti, provocando reazioni di sorpresa e turbamento.
Una scena decisamente dinamica, specie se messa a confronto con le rappresentazioni precedenti dello stesso
soggetto.
Caratteristici sono anche gli scontri di cavalli e cavalieri e il tempio in costruzione sullo sfondo. Quest’ultimo
rappresenta la pace, contrapposta alla battaglia che infuria sul lato opposto.
Il dipinto presenta figure rifinite e altre appena delineate, sotto un cielo di lapislazzuli e bianco di piombo.
Proprio perché rimasto allo stato di abbozzo, ci fornisce importanti informazioni sul metodo di lavoro del
maestro.
Un recente restauro ha inoltre rintracciato nella tavola elementi che appariranno nelle opere successive di
Leonardo: la zuffa dei cavalieri ricorda la Battaglia d’Anghiari, la testa di un vecchio fa pensare al San Girolamo,
mentre i riflessi d’acqua ai piedi di Maria evocano l’effetto che comparirà con più forza nella Vergine delle
Rocce.
1503-05 Battaglia di Anghiari Pittura murale di Leonardo da Vinci, commissionata per il Salone dei Cinquecento (allora detto "Sala del
Gran Consiglio") di Palazzo Vecchio a Firenze. A causa dell'inadeguatezza della tecnica, il dipinto subì
danni e non è certo che i suoi resti fossero stati lasciati in loco, incompiuti e mutili; circa sessant'anni
dopo, la decorazione del salone venne rifatta da Giorgio Vasari; non si conosce se all'epoca fossero
ancora presenti i frammenti leonardiani o se l'architetto aretino li abbia distrutti. Alcuni sostengono che li
abbia nascosti sotto un nuovo intonaco o una nuova parete: ricerche e 'saggi' finora condotti non hanno
sciolto il mistero.
A differenza delle precedenti rappresentazioni di battaglie, Leonardo compose i personaggi come un
turbine vorticoso, che ricordava le rappresentazioni delle nubi in tempesta.
L'affresco rappresentava cavalieri e cavalli animati in una zuffa serrata, contorti in torsioni ed eccitati da
espressioni forti e drammatiche, tese a rappresentare lo sconvolgimento della "pazzia bestialissima" della
guerra, come la chiamava l'artista. I personaggi della scena, infatti, lottano instancabilmente per ottenere
il gonfalone, simbolo della città di Firenze.
Quattro cavalieri si stanno contendendo la massiccia asta: quello in primo piano la prende di schiena
torcendosi animatamente, quelli centrali si scontrano direttamente sguainando le spade, mentre i loro
cavalli sbattono il muso l'uno con l'altro; un ultimo si scorge appena in secondo piano, col cavallo che
spalanca il morso come a strappare l'estremità dell'asta.
Tre fanti si trovano in terra, atterrati e colpiti dagli zoccoli dei cavalli: due al centro, uno sopra all'altro, e
uno in primo piano, che cerca di coprirsi con uno scudo. La scena riflette il pensiero dell'artista fondato su
una visione pessimistica dell'uomo, che deve lottare per vincere le proprie paure. Leonardo ha utilizzato
la tecnica dell’encausto.
La tecnica dell'encausto richiede una fonte di calore molto forte per fissare i colori sulla parete ma su
un'opera di quelle dimensioni era molto difficile da utilizzare perché era praticamente necessario
accendere degli enormi bracieri a poca distanza dal dipinto in modo da asciugare molto rapidamente la
parete dipinta. Leonardo ci provò, ma i suoi assistenti li accesero solo in corrispondenza della parte
inferiore, con il risultato che i colori posti più in alto si sciolsero immediatamente.
1503-06 Gioconda
La donna ritratta nel dipinto di Leonardo siede rivolta a sinistra del dipinto. Il viso però è quasi frontale e lo sguardo
diretto verso l’osservatore. Monna Lisa veste con abiti dell’epoca. Indossa una veste decorata che lascia scoperto il
décolleté e sulle spalle porta un tessuto scuro. Le maniche sono attillate e fittamente pieghettate. Le mani sono in
primo piano e in basso. Il braccio sinistro è appoggiato sul bracciolo della sedia parallelo al bordo inferiore. La mano
destra invece poggia su quella sinistra con le dita aperte e atteggiate in modo elegante. I capelli sono scriminati al
centro e ricadono ai lati in morbide e scure ciocche leggermente ondulate. Inoltre un velo leggero e trasparente copre
l’acconciatura. Lo sfondo oltre il parapetto, descrive un paesaggio lacustre disseminato di colline, rupi e montagne
elevate. A sinistra una strada serpeggia tra le alture rocciose. A destra invece un ponte ad arcate travers a un fiume che
nasce dal lago che si trova più in alto e al centro.
Secondo la tradizione, il dipinto intitolato Monna Lisa rappresenta Lisa Gherardini. La nobile era la moglie di Francesco
del Giocondo e per questo ebbe come soprannome Gioconda. Altri storici basandosi su documenti dell’epoca
identificarono la figura come Caterina Sforza, Caterina Buti del vacca, la madre di Leonardo, Isabella d’Aragona
Duchessa di Milano. Altri invece indicarono come protagoniste del dipinto Bianca Giovanna Sforza la primogenita di
Ludovico il Moro oppure Pacifica Brandani amante del Duca Giuliano de’ Medici.
1510 Sant’Anna, la Madonna, il bambino e un agnello
L’opera, raffigurante le tre generazioni della famiglia di Cristo, vede protagoniste Sant’Anna, sua figlia
Maria e il Bambino Gesù.
La Madonna, seduta in bracio alla Santa, è ritratta mentre si protende, con estrema dolcezza nei
movimenti, verso il Bambino intento a giocare con un piccolo agnello. Nel volto della donna il
maestro racchiude tutta la forza dell’amore materno.
Sant’Anna, il vero perno attorno al quale ruota l’azione, sovrasta con la sua testa l’intero gruppo al
punto da generare una struttura piramidale. Ed è sempre Sant’Anna ad assicurare l’equilibrio,
compromesso dallo spostamento in avanti di Maria.
Mentre la Vergine sorregge il Figlio che ha abbracciato l’agnello, prefigurazione della futura Passione
e del sacrificio volontario di Gesù, la madre sorride con malinconica dolcezza.
Lo sfondo è caratterizzato da una veduta montana che sfuma in toni chiarissimi per effetto della
prospettiva aerea. La cromia spenta e brumosa amplifica la plasticità del gruppo centrale, dove
spiccano gesti e sguardi che si sviluppano anche in profondità, in un difficile equilibrio tra diagonali e
linee contrapposte.