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QUATTROCENTO

Gentile da Fabriano
1423 Adorazione dei magi

Destinata all’altare di una cappella gentilizia. Il campo della tavola tricuspidata non è diviso
a trittico, ma il corteo dei Magi si dispiega su tutta la superficie, sfruttando la forma
tripartita della parte alta per diversi focolai di azione, distinti uno dall’altro e lontani dal
primo piano dell’adorazione
Due gruppi separati, ma collegati nello stesso tempo dalla figura del giovane re: gli astanti,
e la Sacra Famiglia con i Magi
Questa scansione facilita l’osservazione dei mille particolari che arricchiscono la
narrazione, senza subordinarli a un principio unitario
Gentile inserisce vocaboli e schemi compositivi assunti tanto nell’arte contemporanea
quanto da opere antiche, che risultavano riconoscibili immediatamente ad un occhio
allenato

Pisanello
1425 Monumento Brenzoni a San Fermo Maggiore a Verona – Pisanello (affreschi) e Nanni
di Bartolo (scultura) Il monumento funebre, vero e proprio, è composto da:
 sarcofago nel quale sono poste le spoglie del defunto;
In alto, due statue raffiguranti rispettivamente:
 Angelo che apre il sarcofago stesso;
 Gesù Cristo risorto che esce dalla tomba.
In basso, si trovano:
 quattro guardie addormentate su un suolo roccioso, secondo l'iconografia tradizione
della Resurrezione di Gesù;
 due figure femminili, in posizione leggermente rialzata, affiancano i quattro soldati
addormentati.
Ai lati, si notano:
 due angeli che scoprono il drappo formando una specie di tenda triangolare;
Sulla sommità si trova una scultura raffigurante Dio Padre, inserita in un'edicola dipinta.
Il monumento funebre è inquadrato da una cornice quadrangolare, fatta da una treccia in pastiglia,
che ricama anche il profilo dei tendaggi.
Entro la cornice, ai lati del tendaggio, si trova l’Annunciazione, ambientata all’esterno
dell’abitazione della Madonna e all’interno della camera di Maria Vergine, dove compaiono:
 a sinistra, san Gabriele arcangelo annunciante che presenta dei capelli molto vaporosi, colti
nel momento dell'atterraggio, e delle ali blu di lapislazzuli (quasi nulla di tutto ciò è visibile a
causa della caduta del colore e dell'ossidazione delle parti metalliche, che ora risultano
essere nere). L'Arcangelo è affiancato, in basso, da due colombi dal soffice piumaggio,
dipinti con la massima cura naturalistica.
Maria Vergine annunciata, raffigurata all’interno di un edificio con cupola dorata e con parti a
rilievo; essa è incoronata da un'aureola punzonata e doveva avere il mantello azzurro chiaro; è
colta dall'Arcangelo nel momento della preghiera, affiancata, in basso, da un cane con uno
splendido collare. L'interno della camera da letto della Madonna è reso profano da Pisanello con
un letto profilato d'oro con cuscini, un tappeto orientale, un arazzo con una scena di
corteggiamento, creando un ambiente tipicamente gotico.
Oltre la cornice si dispiega un pergolato formato da graticci vegetali, dove si vedono vari animali e
specie vegetali, culminanti in due cuspidi ai lati, dove sono collocati:
 a sinistra, san Raffaele arcangelo;
 a destra, san Michele arcangelo.
1433-38 San Giorgio e la principessa
L’affresco, che faceva parte di un ciclo più ampio, purtroppo perduto, è rimasto
lungamente esposto alle infiltrazioni d’acqua provenienti dal tetto della chiesa, e per
questo motivo si è in parte rovinato (soprattutto nella parte sinistra, quella con il
drago). In occasione di un restauro del secolo scorso è stato staccato dal muro,
riportato su tela e ricollocato nella sua posizione originaria. Purtroppo, durante
questa operazione sono cadute tutte le decorazioni metalliche e le dorature
Il soggetto dell’affresco rimanda a un’antica leggenda medievale, raccolta da Jacopo
da Varazze nella sua Leggenda Aurea del XIII secolo
Pisanello organizzò la scena intorno all’arco a tutto sesto che immette nella cappella.
Nella parte destra, scelse di rappresentare il momento in cui Giorgio si congeda dalla
principessa prima di combattere il drago (che, come il serpente, è simbolo di Satana)
A sinistra, nella parte oramai scialbata (cioè sbiadita) si trovava il mostro, circondato
da teschi e cadaveri, in attesa della sua regale vittima. Il santo, che come ogni vero
In un grande lago della Libia viveva un drago capace di uccidere eroe non tradisce la minima esitazione, è ritratto con un piede sulla staffa, con lo
con il fiato chiunque gli si avvicinasse; per placarne la furia, gli sguardo già rivolto al nemico da affrontare. La principessa, in piedi davanti a lui,
abitanti della vicina città di Trebisonda dovevano dargli assiste silenziosa alla scena. È vestita sontuosamente con un abito di foggia
periodicamente in pasto un ragazzo o una ragazza estratti a quattrocentesca, ornato di pelliccia. Porta i capelli in una elaborata acconciatura,
sorte. Giorgio, valoroso cavaliere, giunse da quelle parti proprio altissima e tenuta da larghe fasce, che, secondo la moda del XV secolo, prevedeva
mentre la principessa, destinata a essere immolata, attendeva che la depilazione della fronte.
si compisse il suo destino: affrontò il drago e lo uccise. Non era sola, al momento dell’incontro con l’eroico salvatore: era stata infatti
Ogni particolare di quest’opera sembra concepito per destare accompagnata da alcuni cavalieri e da un gruppo di curiosi, che affollano lo spazio
l’ammirazione del pubblico: l’eleganza del biondo cavaliere, la grazia e intorno. Insieme ai cavalli, Pisanello rappresentò, magistralmente, anche altri
il profilo inquieto della bella principessa dalle labbra sottili, la snella animali, un ariete accovacciato, un levriero e un cagnolino da compagnia.
figura del levriero, la solida e possente massa del cavallo visto di tergo,
i preziosi monumenti traforati della città di fiaba sullo sfondo, vere opere
d’oreficeria, persino i due impiccati che penzolano dalla forca con i colli
slogati, osservati da un corvo appollaiato sulla traversa. La caduta del
colore ha lasciato in vista il fondo preparatorio nero, lì dove in origine
c’era un cielo azzurro; questa perdita contribuisce a rendere la scena
ancora più irreale e ha quasi fatto sparire un arcobaleno che
preannunciava il lieto fine.
1438 Sant’Eustachio
Sant'Eustachio era un cavaliere romano che si convertì al Cristianesimo dopo aver assistito,
durante la caccia, alla visione del Cristo tra le corna di un cervo.
Il dipinto mostra un cavaliere sontuosamente vestito da parata, su un cavallo bianco dalla ricca
bardatura, accompagnato da più cani da caccia; egli si trova in una foresta ricchissima di
animali e davanti a lui si trova un cervo, nelle cui corna appare il Crocifisso di Cristo, alla cui
visione il santo si arresta ed alza una mano in un composto gesto di sorpresa.
Il tema sacro è un pretesto per rappresentare una foresta fiabesca brulicante di animali, colti
nei più vari atteggiamenti: cani che puntano, raspano o inseguono; la lepre che fugge; i cervi e
cerbiatti; l'orso in una grotta in alto a destra; le gru; i cigni nello stagno; gli uccellini nei cespugli.
Un sinuoso cartiglio, destinato forse a contenere un'iscrizione, si trova in basso a destra.
La ricchezza dei dettagli, più curati singolarmente che nell'insieme della composizione, le
incongruenze spaziali, i contrasti tra le ombre dello sfondo e la luce sui dettagli, sono tutti
elementi che concorrono a creare un ambiente irreale e di favola, secondo gli stilemi dell'arte di
Pisanello e del tardogotico in generale.
Gli animali qui non hanno valenze primariamente simboliche, come nella pittura gotica o
in quella rinascimentale, ma la loro presenza serve più che altro a comporre un campionario,
privo di volontà classificatoria o ordinatrice. Essi sono dipinti a partire dai dettagli, i più analitici
possibili, per poi venire accostati agli altri nella composizione dell'immagine: l'effetto che ne
scaturisce nell'osservatore è quello di una superficie vibrante, di difficile percezione
nell'insieme, che invita continuamente a indagare ogni singolo dettaglio.

1438 Medaglia di Giovanni Paleologo


Sul recto è raffigurato l'Imperatore bizantino rappresentato di profilo in forma di busto girato a destra;
evidente richiamo alle monete romane che ritraevano gli Imperatori in tale posizione. Nella medaglia
sono presenti delle inscrizioni sia in greco che latino, tese a sottolineare il ricongiungimento delle due
chiese e, conseguentemente, l'unione tra Oriente e Occidente. Da destra si legge
"+ΙΩΑΝΝΗC BACIΛEÚC KAI 'AUTO KPÁTΩP 'PΩMÁIΩN 'Ó ΠAΛΑIÓΛOΓΟC" ("Giovanni, re e
autocrate dei Romani, Paleologo"). Grazie all'opera di Pisanello è possibile conoscere oggi, e con
buona approssimazione, qual era l'aspetto di Giovanni. Egli è rappresentato con un grande cappello,
si possono notare la barba molto curata, i capelli abbastanza lunghi, il naso quasi aquilino, e il
cappotto indossato, in cui sono ben evidenti le pieghe e i bottoni.
Sul verso si vede l'imperatore a cavallo in abito da caccia, al passo verso destra, con le mani giunte
davanti a un crocifisso latino, mentre dietro di lui si vede un altro paggio, pure a cavallo, di tergo,
soggetto anche di un disegno di Pisanello; a sinistra è presente un gruppo di rocce. La scritta in alto
recita "OPVS PISANI PICTO/RIS" ("opera di Pisanello, pittore"), mentre sotto si legge in greco
"ÉPΓON TOV ΠICÁNOV ZΩΓPAΦOV" ("Opera di Pisano zògrafo"). L'appellativo che l'artista si dà
nell'iscrizione in greco vuol dire pittore, nell'accezione letterale di "delineatore di vita". Le scritte in
greco furono ricevute dalla Cancelleria del concilio, e trascritte fedelmente, con scrupolosa
attenzione riguardo ai titoli imperiali.
Pisanello rimase molto impressionato dalla corte bizantina, per le loro vesti, per il rapporto delle
ricchezze legato all'Imperatore e per l'esotismo della sua corte, restandone la sua arte
profondamente influenzata. Esistono diversi disegni nel codice Vallardi che testimoniano lo studio
dell'effigie dell'imperatore, delle sue vesti e di quelle della sua corte, con minuziose annotazioni sui
colori. Non è escluso che la corte ferrarese avesse in programma di commissionare all'artista una
serie di affreschi per celebrare lo storico evento, anche se poi lo spostamento dei lavori a Firenze
dovette far abbandonare l'impresa.
Lorenzo Ghiberti
1401 formelle porta Nord Battistero di Firenze

Sintesi critica della componente classica e internazionale


Fusione di morbidi linearismi gotici e bellezze ellenistiche
(nudo di Isacco)
Chiaroscuro lievissimo grazie ai trapassi di piani
Scena divisa e armonizzata
Narrazione pacata da sinistra a destra
Figure in pose eloquenti e posizionati all’antico
Cadenze gotiche
La vittoria di Ghiberti chiarisce come a Firenze fosse
superata la resistenza ai modi “internazionali”, non era
ancora maturato l’orientamento verso un classicismo
1403-24 porta Nord Battistero di Firenze innovativo, rinascimentale.

Commissionata in seguito al concorso del 1401 dove vinse contro Brunelleschi


Materiale in bronzo parzialmente dorato
Modificazione del programma dato che era improponibile il pensiero di sviluppare
temi dell’Antico Testamento sulla porta orientale di una chiesa cristiana
Non cambiarono gli ordini dei committenti tennero le idee di Andrea Pisano fornite
settant’anni prima
L’opera doveva essere completata in nove anni e mezzo, invece, ce ne vollero
venti
Rappresenta le storie del Nuovo Testamento, riprende fedelmente lo schema di
quella di Andrea Pisano con 28 formelle istoriate a cornice mistilinea (quadrilobo),
disposte in sette file di quattro, 14 per ogni anta
Formelle in basso 4 Evangelisti e i 4 Dottori della Chiesa
Il telaio contiene 47 testine di Profeti e Sibille, sei per fila tranne l’ultima in basso
che ne presenta solo cinque. Autoritratto di Ghiberti con turbante
Orsanmichele

L'edificio si sviluppa su tre piani, un pò come se fosse un palazzo di uffici


Rappresenta una fusione di semplici pareti in pietra serena, complicati archi e
finestre in stile gotico, nicchie esterne che proteggono varie sculture
La struttura fu distrutta intorno al 1239 e verso il 1290 Arnolfo di Cambio fu
incaricato di costruire una loggia per il mercato; quest'ultima, fatta di legno, fu
nuovamente e pesantemente danneggiata durante un incendio e costruita di nuovo
nel 1336 come luogo di conservazione delle granaglie per il mercato, su
commissione della Compagnia della Seta.

1410 San Giovanni Battista (Orsanmichele)

Interesse anticheggiante, recupero virtuosistico della


fusione a cera, persa per una statua di grandi dimensioni
Volto delineato con sottigliezza e genericamente mistico
Lieve anchement e ritmico riprendersi delle pieghe del
manto
Culmine e progressione di accenti internazionali
1419–23 San Matteo (Orsanmichele)

In piedi, con una mano avvicinata al petto e nell'altra un libro aperto, con un vestito
all'antica con un'ampia toga
L'opera è permeata di forte classicità, soprattutto nella testa barbuta e ricciuta
Testimonia l'abbandono da parte di Ghiberti delle suggestioni del gotico
internazionale, prendendo parte al mondo dell'umanesimo fiorentino, ispirato
da Donatello
L'apostolo è invigorito nelle membra e col panneggio dall'andamento sfrondato. La
ridotta capacità della nicchia diede una maggiore illuminazione, che l'artista sfruttò,
incorniciando l'opera con la nicchia composta da due eleganti pilastrini scanalati e
una valva a raggi che forma una specie di aureola al santo
L'arco acuto ricorda comunque come Ghiberti fu una figura di mediazione tra il
retaggio tradizionale e le novità rinascimentali

1425–52 Porta del Paradiso Battistero Firenze


Lo schema compositivo in questa decorazione viene stravolto, incarnando i più stretti dettami
rinascimentali.
Dieci grandi riquadri sostituiscono le 28 formelle tipici delle altre porte dell’edificio, mentre gli episodi
dell’Antico Testamento vengono sviluppati con una straordinaria tecnica che spazia dal rilievo
dall’alto al basso, fino allo schiacciato.
Le figure e gli oggetti diminuiscono progressivamente creando un effetto prospettico, senza
trascurare la raffinatezza dei dettagli, degni di un’opera di oreficeria.
Ognuno dei grandi pannelli quadrati raggruppa due o più storie, secondo una concezione di
rappresentazione simultanea, molto utilizzata nel Duecento e Trecento.
Grazie a questo espediente le scene rappresentate sono più di 50 e sono da leggersi partendo
dall’alto, da sinistra verso destra.
Dopo le prime tre formelle, incentrate sul tema del peccato, dalla quarta si inizia ad evidenziare in
maniera più esplicita il ruolo salvifico di Dio e la prefigurazione della venuta di Cristo. La storia di
Giuseppe venduto dai fratelli, e poi misericordioso verso di essi, sembra una discreta ma evidente
proiezione della storia di Cosimo de’ Medici, prima cacciato e poi riaccolto dalla città, sotto il cui
controllo si apriva un’epoca di rinnovata prosperità.
Le successive tre scene ribadiscono come la salvezza umana dipenda dall’intervento divino, mentre
la decima ha una doppia valenza, sia come matrimonio ideale tra Cristo e la sua Chiesa, sia
come celebrazione del successo politico dei Medici nel riunire la Chiesa d’Occidente e quella
Ritenuta la più bella e la miglior eseguita delle tre d’Oriente durante il Concilio di Firenze.
porte del Battistero, questa, venne posizionata nel
posto d’onore, il lato di fronte alla facciata della
Cattedrale di Santa Maria del Fiore:
il paradisium, appunto.
Secondo Vasari, fu Michelangelo a darle tale
appellativo, considerandola di una fattura così
straordinaria da dover stare alle porte del Paradiso.

Filippo Brunelleschi
1401 formelle porta Nord Battistero di Firenze

Recupero scatti espressivi di Giovanni Pisano


Immagine più arcaica
Gruppi di personaggi separati su piani distinti
Fondo privo di morbidezze atmosferiche, figure
emergono con violenza
Lettura in profondità fino al vertice geometrico e
drammatico
Incontro linee/forza di tre volontà: Abramo, Isacco e
l’Angelo
1410 Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella

Crocifisso Brunelleschi / Crocifisso Donatello


Traduzione di divinità e perfezione morale di Cristo in
perfezione di forme non intaccate dal dolore
Le sue braccia allargate di Cristo equivalgono all’altezza
della figura
Inventa una leggera torsione di tutto il corpo verso sinistra,
che induce lo spettatore a un percorso semicircolare, la
figura diviene generatrice di spazio

1413 Tavoletta prospettica Battistero di Firenze

Tavoletta di forma quadrata con lato di mezzo braccio (circa 30 cm)


Aveva dipinto il Battistero con i suoi intarsi marmorei in un modo accurato
Nella tavoletta fu praticato un foro svasato verso il retro del dipinto, in modo
che l’occhio dell’osservatore, posto in un punto preciso (circa 60 cm
all’interno della porta centrale del Duomo) potesse precepire l’immagine
reale della scena
Con l’aiuto di uno specchio sorretto dall’altra mano dell’osservatore e
regolato a distanza opportuna, egli poteva vedere l’immagine dipinta riflessa
nello specchio e ammirare la perfetta coincidenza dell’immagine dipinta con
quella reale
Verosimiglianza accentuata dall’effetto creato da una lamina d’argento che
nel dipinto cospargeva l’area del cielo, al fine di ottenere un’immagine
riflessa del cielo reale e una esaltazione dell’effetto illusionistico
1420 Spedale degli Innocenti (inizio)

Fronte: portico con archi a pieno centro su colonne,


nove campate di pianta quadrata, rapporto luce e
freccia dell’arco fissato in partenza. Le altezze
dipendono dall’altezza del piedritto, profondità
dall’interesse
Portico: struttura modulare ad archi su colonne, uso
della volta a vela come copertura. Essa poggia solo
sugli archi perimetrali, senza costoloni diagonali i quali
avrebbero turbato la nitida unità delle singole campate

1422–28 Sagrestia Vecchia di San Lorenzo


Costruzione considerata come edificio a sè stante. Uno dei primi edifici rinascimentali a schema
centrale e rappresenta un modello di questa tipologia per l'architerttura rinascimentale
Pianta rettangolare, ma spazio impostato sul quadrato. All'interno è presente un vano centrale di
forma cubica: l'altezza è uguale al lato della pianta
La struttura architettonica è sottolineata dalle membrature grige in pietra serena che mettono in
evidenza la chiarezza geometrica delle forme
La cupola è suddivisa in spicchi e terminante con un anello, si raccorda all'ambiente della sacrestia
con quattro pennacchi, i grandi triangoli sferici che permettono il passaggio dal cerchio della cupola
al quadrato del vano centrale. I pennacchi sono elementi architettonici presenti nell'architettura
romana e Brunelleschi deve aver desunto questa soluzione dai suoi studi sulle antiche rovine.
La parete è suddivisa verticalmente in tre parti, al centro si apre una cappella coperta con cupoletta
emisferica che ripete le stesse caratteristiche, in proporzioni più piccole, del vano centrale.
I cerchi, semicerchi e rettangoli sono gli elementi base del disegno di ogni parete. Sulle quattro pareti
si formano quattro grandi archi. Una cornice decorata con tondi corre per tutto il perimetro. Agli
angoli si trovano le lesene scanalate con capitelli corinzi e una trabeazione molto elaborata, simile
nello stile alle forme romane che Brunelleschi ha rielaborato per usarle nello Spedale degli Innocenti.
1436 Cupola Santa Maria del Fiore
Brunelleschi s'interessò al concorso del 1418, bandito dall'Opera del Duomo edall'Arte della Lana,
per la costruzione della cupola. Presentò dapprima un modello in legno, vincendo ex-equo con
Ghiberti (come già nel precedente concorso per le Porte del Battistero), poi riuscendo a risolvere i
problemi tecnici della costruzione, nel 1423 venne incaricato di sovrintendere a tutti i lavori.
A questa opera chiave dell'architettura del mondo occidentale Brunelleschi dedicò tutta la sua vita,
nel 1434 si concluse la struttura, nel '36 fu posta la lanterna e nel '38 si costruirono le quattro tribune.
Brunelleschi diede l'avvio all'intera architettura rinascimentale. Studiando i monumenti antichi inventò
una nuova tecnica, ma soprattutto una nuova ideologia: l'architetto non è più un semplice
capomastro, ma un progettista che risolve problemi tecnici ed estetici con un lavoro intellettuale.
Durante il medioevo il lavoro di progettazione non veniva pianificato a monte, ma i problemi venivano
studiati nel corso della costruzione, man mano che essi si presentavano.
Applicando la prospettiva, rese possibile sviluppare una progettazione totale, che fu utilizzata in tutta
la storia dell'architettura ed è tutt'ora fondamentale.
La Cupola con la sua forma ogivale e gli equilibrati rapporti dimensionali si armonizza perfettamente
con la precedente costruzione gotica della chiesa. L'effetto di combinazione unitaria e armonica dei
volumi e delle forme non riguarda solo l'edificio in sè, ma anche il suo inserimento urbanistico. La
cupola diventa un punto di riferimento simbolico per tutta la città, oltre a ricollegarsi con la sua linea
curva alle colline del paesaggio.

Cupola: studiò una forma ogivale, riducendo notevolmente le spinte laterali e controbilanciando esteticamente anche l'eccessivo sviluppo longitudinale della
chiesa gotica. Però, date le dimensioni, il tamburo non poteva reggere, e per lui era inaccettabile, oltre che ancora insufficiente, sostenerlo con archi rampanti
esterni.
Costoloni e ossatura: Cominciò a studiare una cupola a costoloni, ma con un'intelaiatura della massima leggerezza e solidità insieme. La cupola è formata
da otto costoloni maggiori che nascono dagli spigoli dell'ottagono del tamburo, e sedici costoloni minori, sistemati a coppie tra due maggiori. Lo spunto per tale
soluzione gli fu offerto certamente dal vicino Battistero. Ma pensando sempre al Pantheon e ad altri monumenti romani, completò l'armatura con archi
orizzontali che collegarono tutti i costoloni, realizzando una specie di "gabbia".
Doppia calotta: la cupola è a doppia calotta per "preservarla dall'umidità e conferirle maggiore magnificenza", ma anche per distribuire meglio i pesi all'interno e
all'esterno, col risultato di ridurlo della metà. All'esterno i pesi della cupola scendono attraverso gli otto costoloni maggiori esterni sugli otto contrafforti
angolari esterni.
All'interno i sedici costoloni minori (visibili solo all'interno della calotta) convogliano i pesi sui pilastri interni della chiesa. Questo sistema rende la
cupola autoportante. Tra le due calotte l'architetto ha inoltre lasciato uno spazio vuoto, dotato di scale e percorsi accessibili, utili anche per il mantenimento e
eventuali restauri dellaMasaccio
struttura. Il passaggio conduce fino alla base della lanterna. E' aperto al pubblico e di lassù si può ammirare uno splendido panorama.
Nuove macchine e impalcature: Brunelleschi con la sua fertile immaginazione inventò una serie di macchine, ponti sospesi, gru, argani e congegni meccanici
Masolino
per il trasporto dei materiali fino alleda Panicale
altezze vertiginose della cupola. Fu anche uno dei primi architetti che si occupò della sicurezza dei suoi operai, inventando
Donatello
nuovi tipi di impalcature e procedimenti nuovi e più sicuri di lavoro. Tra questi, praticò sulle pareti interne della cupola delle cavità per potervi ancorare i
suoi ponteggi sospesi, che potevano essere montati nel corso della costruzione.
LucaDai
Mattoni a spina di pesce: della
suoiRobbia
studi sugli edifici romani apprese la tecnica dei corsi di mattoni a spina di pesce. Sfruttando la forza di coesione offerta dai
mattoni collegati a spina, se ne servì per riempire gli spazi tra i costoloni, realizzando un equilibrio statico.
Beato Angelico
Lanterna: Completata la cupola, tutti i costoloni vennero a convergere in un anello di circa sei metri di diametro. Nonostante Brunelleschi avesse adottato tutti gli
accorgimenti possibili per renderla leggera, le spinte che agivano su quell'anello erano tali che cominciarono a verificarsi delle crepe: la cupola rischiava di
spalancarsi su se stessa. Risolse il problema costruendo una specie di "tappo" per chiudere l'anello. La lanterna, con il suo peso, bloccava tutte le spinte
convergenti sull'anello.
La lanterna in marmo conclude elegantemente la costruzione, ha la forma di tempietto circolare, funge da collegamento con costoloni, mediante le volute
classiche e gli otto archi rampanti, e fa e da perno a tutto l'edificio. Il modello è offerto dalla lanterna del Battistero.

1442 Cappella Pazzi (inizio lavori)


Considerata come uno dei capolavori di Filippo Brunelleschi, il modello è la Sagrestia vecchia di San Lorenzo.
Risulta difficile supporre che un qualsiasi architetto abbia osato costruire un’opera così direttamente legata alla
Sagrestia mentre Brunelleschi era ancora in vita. Ma il processo di assimilazione che la Cappella dei Pazzi
evidenzia è una possibilità concreta. Durante il Rinascimento i committenti richiedevano spesso copie di originali,
particolarmente apprezzati per l’iconografia, lo stile o per il nome di chi li aveva commissionati. La Sagrestia
Vecchia fu uno dei primi modelli oggetto di questa attitudine: nel corso del Quattrocento venne ripresa a Firenze, in
Toscana e nel nord Italia da dozzine di imitazioni semplici e complesse. Una simile operazione non era giustificata
dall’ambizione del singolo architetto ma dal desiderio del committente di acquisire dignità e autorità condividendo la
magnificenza dell’architettura fiorentina.
Interno: Sembra complesso, ma il modo in cui varia lo schema della Sagrestia Vecchia è piuttosto semplice.
L’impostazione planimetrica è molto essenziale e si basa sul modulo a 20 braccia fiorentine: questa misura,
riportata sulla larghezza dell’area centrale, sull’altezza dei muri interni e sul diametro della cupol a, crea idealmente
un cubo sormontato da una semisfera. A questa struttura vanno aggiunte le due braccia laterali coperte da volta a
botte, un quinto ciascuno rispetto al lato del cubo centrale, e la scarsella dell’altare con cupoletta, larga un altro
quinto.
La principale differenza con la pianta della sagrestia Vecchia è la base rettangolare, probabilmente giustificata
dall’assetto degli edifici preesistenti: la cappella è incastonata, infatti, tra le pareti esterne della Cappella Baroncelli e
della Cappella Castellani. Un piccolo ambiente, accessibile da una porta nella parete destra della scarsella, era il
luogo per la sepoltura dei membri della famiglia Pazzi e per il culto privato. Sul lato opposto si trovava una porta ora
chiusa e smantellata che permetteva l’accesso alla basilica di Santa Croce.
Masolino da Panicale e Masaccio
1424 Madonna con bambino e sant’Anna Metterza
La Vergine è seduta su un trono con il Bambino tra le braccia. Sant’Anna invece è dietro di lei e
poggia la mano destra sulla spalla della Vergine. Due angeli in basso agitano un turibolo mentre altri
due scostano le cortine di lato e uno le solleva in alto
L’opera si può considerare una Maestà in trono, come descritta in tanti dipinti religiosi del
Rinascimento
Realizzato in collaborazione tra Masolino e il suo allievo più giovane Masaccio rappresenta una
diversa e netta concezione della rappresentazione della realtà
Le parti dipinte da Masaccio nella Sant’Anna Metterza sono state determinanti per porlo a capo di
tutta la trasformazione della pittura del Rinascimento italiano. Masaccio infatti cambiò la concezione
dello spazio e la determinazione dei volumi attraverso un corretto chiaroscuro.
La mano dei due maestri è evidente poiché la concezione dello spazio e dei volumi è diversa.
Masaccio fu un innovatore e introdusse un netto chiaroscuro nelle tre figure, che dipinge rendendole
maggiormente solide e realistiche. Masolino invece fu un artista ancora legato alla concezione dello
spazio del gotico Fiorentino. Il modellato del corpo di Gesù Bambino sembra essere ispirato invece
alle statue della classicità
I colori sono tutti caldi e tendenti al rosso. Il trono spicca per la sua colorazione verde-grigio. Il manto
della Madonna è molto scuro e lumeggiato sul panneggio lasciando intravedere la solidità del corpo
sottostante. Le vesti degli angeli, soprattutto quella arancione in alto a sinistra hanno delle ombre
colorate che li rendono leggeri e impalpabili.
Le ombre e i colori dei volti invece sono tendenti al verde, colore complementare al rosso e al rosa,
che crea un chiaroscuro deciso ed efficace. La luminosità intensa proviene frontalmente da sinistra e
modella i volumi, soprattutto della Madonna con Bambino in modo molto deciso e marcato.
Lo spazio concepito da Masaccio è già di tipo brunelleschiano sebbene persistono ancora delle
attenzioni ai ritmi lineari. La profondità si percepisce attraverso il basamento del trono e le solide
strutture che lo chiudono lateralmente e nella sovrapposizione dei personaggi, a partire da Gesù
Bambino in primo piano, dal volto della Madonna e, dietro di lei, da Sant’Anna. Fa da sfondo alle tre
figure divine il manto e la cortina decorata finemente e sostenuta dagli angeli che si pongono dietro di
essa suggerendo quindi un quinto piano prima del fondo dorato. La Madonna è contenuta in un blocco
piramidale molto pesante visivamente. La composizione in alto termina con un arco a sesto acuto
come nella tradizione gotica. Si tratta, comunque, di una composizione fortemente centrale che si
riflette lungo l’asse che unisce il centro del basamento del trono che viene verso lo spettatore, il volto
della Madonna, il volto di Sant’Anna e l’angelo reggicortina in alto.

1424–28 Cappella Brancacci


Sulle pareti della Cappella Brancacci, Masaccio collaborò alla pari con Masolino. Il
ciclo rimase incompiuto e venne portato a termine una cinquantina di anni dopo da
Filippino Lippi, che ebbe anche il compito di risarcire alcuni volti che erano stati
cancellati per oscurare la memoria della committenza di Felice Brancacci. Per lungo
tempo, a causa delle condizioni della superficie pittorica, annerita dal fumo delle
candele, è stata difficile l’attribuzione delle scene a ciascuno dei due artisti. Con
l’importante restauro novecentesco, che ha reso la situazione più leggibile, è stato
possibile rendere più solide le attribuzioni. A sostenere la tesi che Masolino e
Masaccio abbiano lavorato contemporaneamente in questa cappella, vi è la
straordinaria unitarietà prospettica delle scene di questo ciclo: non solo ciascun
riquadro ha un proprio punto di fuga ed è verso di questo che convergono tutte le
linee di profondità, ma i singoli punti di fuga delle scene che si trovano sulle pareti
opposte combaciano perfettamente. In altre parole, l’impianto prospettico di due
scene che si osservano frontalmente, se invertito risulta sovrapponibile. Sulla parete
di fondo invece il punto di fuga è esterno alle scene e combacia con il centro
geometrico della parete.

L’effetto ottenuto è quello di rendere partecipe lo spettatore alle vicende rappresentate tramite lo spazio reale: immaginando di posizionarsi al centro della
cappella, ci troviamo immersi nel ciclo e veniamo coinvolti in prima persona nelle vicende raffigurate, partecipando così anche no i a quella storia salvifica.
La gestione dello spazio è resa straordinaria anche attraverso i dettagli all’interno delle singole scene.
Tributo: La storia più significativa per illustrare la dirompente novità della costruzione prospettica di Masaccio. L’episodio, raccontato nel Vangelo di
Matteo, viene qui illustrato attraverso tre momenti all’interno della stessa scena, che non vengono però raffigurati tutti in primo piano. Masaccio infatti
colloca il momento del miracolo vero e proprio in secondo piano, in prossimità del lago dove si trova il pesce in cui Pietro recupera la moneta d’oro. Per
leggere questo episodio bisogna seguire gesti e sguardi dei personaggi. È una scena in cui sono presenti sia la natura sia l’architettura, e Masaccio tramite
entrambe riesce a rendere lo spazio misurabile. Un altro elemento che ci mostra chiaramente come Masaccio sia riuscito a gestire in maniera inedita ed
eccellente la dimensione spaziale sono le aureole, non più piatte e astratte rispetto al contesto, ma pensate e realizzate come oggetti concreti che fendono
lo spazio circostante. La presenza della luce nel dipinto è pensata come proveniente dall’apertura realmente presente nella muratura della cappella e le
ombre vengono dipinte tenendo conto di questo aspetto. La luce è un elemento centrale nella pittura di Masaccio, in quanto capace di costruire solidi
volumi.
Tentazione: è più rovinata rispetto alla Cacciata e quindi il confronto forse non può essere completo e sincero fino in fondo, ma è sufficiente osservare
come vengono raffigurati Adamo ed Eva per comprendere l’orizzonte di ciascuno dei due artisti. I progenitori raffigurati da Masolino sono figure composte
ed eleganti, che si osservano negli occhi con uno sguardo fiero. La morbidezza della loro carne è resa tramite un leggero chiaroscuro. Tutto cambia
nella Cacciata: i corpi masacceschi trasmettono tutta la vergogna e il dolore provato, attraverso i loro gesti, rielaborati probabilmente da modelli scultorei,
e attraverso la loro dirompente presenza nello spazio. Esplicito è il dramma sul volto di Eva, mentre riusciamo ad intuire quello di Adamo anche se coperto
dalle mani. Già da questi due corpi si può comprendere come Masaccio conferisca ai suoi uomini e alle sue donne una grande umanità, portando in scena
le loro emozioni e i loro sentimenti. Osservando le altre scene ci si accorge che ogni figura ha una propria dignità, ha conquistato il proprio diritto a
partecipare agli eventi rappresentati, manifestato anche attraverso una presenza consapevole nello spazio. La composizione di Masaccio è essenziale, ma è
proprio grazie a quell’essenzialità della linea e dei volumi che questo pittore riesce a rappresentare l’uomo nella sua grandezza e a portarlo al centro della
sua idea di pittura. Masolino, invece, si sofferma ancora sulla rappresentazione dei dettagli, non soltanto dei personaggi ma anche delle architetture, come
elemento importante della sua concezione pittorica e risulta così ancora legato al gusto della pittura tardogotica, ancora dominante nell’ambiente
fiorentino.

1426 Polittico del Carmine/di Pisa (Maestà, Crocifissione, Adorazione dei Magi)

Inizialmente destinata alla Chiesa del Carmine, successivamente fu smembrata e


solo alcuni pannelli sono giunti a noi.
La tavola centrale raffigura la Madonna in trono con il Bambino e quattro angeli. La
Crocifissione, posta nella parte superiore della pala, raffigura Cristo morto e la
sofferenza dei personaggi ai piedi della croce
Nella parte inferiore è rappresentata l’Adorazione dei Magi
In evidenza il tema della definizione volumetrica dei personaggi e del loro
inserimento prospettico in uno spazio misurabile
Masaccio impiega lo sfondo oro, anche se rappresentava un gusto ancora gotico,
poiché gli fu commissionato

 Madonna in trono con il Bambino e quattro angeli:evidente fisicità della  Adorazione dei magi: l’opera più documentata dell’artista,
Madonna, messa in particolare e realistica evidenza da un panneggio pesante grazie alla meticolosità di un commissionario, che annotava
e fortemente chiaroscurato e, a differenza da quanto voluto dalla tradizione e conservava tutte le ricevute dei vari acconti e gli attestati di
non è rappresentata secondo i canoni di giovinezza, infatti il volto della madre solleciti fatti pervenire al Masaccio.
appare stanco e sdegnato. Il Bambino è colto nell’atto di mangiare un acino La predella a cui l’opera apparteneva, era composta da altri due
d’uva: simbolo del sangue di Cristo; la naturalezza di questo gesto è tipica di pannelli laterali che raffigurano i “Martiri di Pietro e Giovanni
Masaccio. La sua aureola, simbolo della luce divina, ubbidisce alle regole Battista”. Sulla destra della tavola, nella figura tra le due teste di
prospettiche del mondo circostante: essa appare di forma ellittica. Anche la cavallo – certamente uno staffiere – è stato identificato
prospettiva del trono è tracciata con grande rigore. Le rette di fuga coincidono l’autoritratto dell’artista. Secondo altri, invece, potrebbe trattarsi
con la superficie della seduta. Masaccio presuppone che il punto di vista dell’effige suo fratello minore. In altre figure gli studiosi vi
possa cadere all’altezza degli occhi dell’osservatore reale posto di fronte. identificarono il committente e suoi vicini parenti.
 Crocifissione: i quattro personaggi sono composti in modo geometricamente
rigoroso. Maria, a sinistra, piange di dolore, immobile e severa, avvolta nel
pesante mantello al quale il chiaroscuro conferisce una monumentalità
scultorea. San Giovanni, a destra, rivolto verso l’esterno del dipinto, ha
un’espressione sconfortata e attonita, mentre appoggia la testa sulle proprie
mani giunte ed intrecciate. Al centro, alto sulla croce del martirio, il Cristo è
rappresentato nella dolorosa immobilità della morte. La vista dal basso in alto
gli scorcia il collo insaccandoglielo nelle spalle. Le braccia tese, il corpo
pesante e le gambe tozze ci ricordano che il personaggio crocifisso è un
uomo, non Dio. In basso, di spalle, la Maddalena della quale non vediamo che
i capelli biondi e le mani protese verso Cristo. Di lei Masaccio riesce a farci
intuire il dolore straziante anche non mostrandoci il volto. E’ Giovanni, infatti,
l’unico a guardarla in viso, cosi che l’espressione dell’apostolo diventa anche
specchio psicologico dello sgomento della donna. Per quanto concerne la
prospettiva, le rette di fuga convergono nei piedi.

1426-28 Trinità
Raffigura una nicchia all’interno della quale si trova una scena con una crocifissione. Sotto di essa
inoltre è rappresentato un sarcofago con uno scheletro appoggiato al di sopra. Al centro viene
rappresentata la Santissima Trinità e a fianco sono dipinti i coniugi oranti. L’architettura che
incornicia la scena è composta da un arco classico sostenuto da due colonne con capitello.
Esternamente ai lati delle colonne inoltre sono raffigurate due paraste con capitello corinzio. Infine
all’interno del vano dove è rappresentata La Trinità è presente una volta a botte con lacunari.
Al suo interno Cristo è sulla croce. Dio Padre, al di sopra, sostiene il corpo. Tra di loro si libera lo
Spirito Santo sotto forma di colomba bianca. In basso, a sinistra Maria indica il Figlio crocifisso. A
destra invece San Giovanni guarda Gesù con un’espressione sofferente. In basso all’esterno del
vano, di fronte alle paraste sono raffigurati i due committenti. Sono inginocchiati ed in preghiera a
sinistra il marito e a destra la moglie interamente coperta da un velo blu. Alla base dell’affresco
sopra lo scheletro dipinto, deposto sul finto sarcofago, compare una scritta. L’iscrizione latina invita
l’osservatore a meditare sull’ineluttabilità della morte e si definisce un “memento mori” (ricordati
che devi morire). La scritta recita: IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON
VOI ANCO SARETE.

Il contenuto simbolico ed educativo de La Trinità di Masaccio spiega ai cristiani come arrivare alla vita eterna. La narrazione parte dal basso, dallo scheletro
appoggiato sul sarcofago. Questo scheletro che rappresenta la morte dalla quale ci si può salvare elevandosi verso Dio Padre. Infatti è attraverso la preghiera
simboleggiata dai committenti che si ottiene la fede necessaria per conquistare la vita eterna. Maria indica con la mano il Figlio cioè colui che ha tracciato la via
da seguire. Attraverso l’esempio di Cristo e lo Spirito Santo si giunge così a Dio padre che concede la salvezza.
La Trinità è un dogma cristiano ed era di estrema importanza per i domenicani ai quali apparteneva la Chiesa. Il modello iconografico seguito da Masaccio per
rappresentare il dogma è quello chiamato “Trono di grazia” diffuso alla fine del XIV a Firenze. Diversamente dalla tradizione Masaccio rappresentò Dio Padre in
piedi e non assiso su un trono. I due committenti sono inginocchiati ai lati del vano che ospita La Trinità. Gli storici segnalano che si tratta della prima volta nella
quale i committenti sono raffigurati in modo realistico nella scena. L’uomo e la donna hanno caratteristiche reali, umane infatti non possiedono l’aureola. Inoltre
sono stati dipinti con le stesse dimensioni dei personaggi sacri e ne condividono realisticamente lo spazio. Le caratteristiche fisionomiche poi sono fedeli ai due
personaggi. Inoltre essendo due persone anziane Masaccio ritrae i due coniugi riproducendo le rughe sul viso e i difetti del volto. Del committente in realtà non si
conosce l’identità. Alcuni storici ipotizzano che si possa trattare del priore domenicano Fra’ Benedetto di Domenico di Lenzo. Forse i due personaggi
rappresentati erano suoi parenti defunti, Berto di Bartolomeo e la moglie.
Donatello
1408 David marmoreo

Una scultura realizzata dall’artista in fase giovanile, intorno al 1408-1409


Alto 191 cm, la scritta sottolinea il suo significato politico come simbolo della natura
indomita e libertaria della Repubblica Fiorentina, una repubblica relativamente piccola
che combatte contro le grandi potenze
Raffigurato vittorioso, dopo aver sconfitto il gigante Golia, la cui testa è rappresentata ai
suoi piedi con la pietra che l'ha ucciso ancora bloccata in mezzo alla fronte
La posa e l'atteggiamento esprimono un orgoglio consapevole
Lui è giovane, forte e fiero, un guerriero conscio della sua forza che mostra il trofeo della
testa di Golia, pur mantenendo un atteggiamento superficiale, quasi scanzonato
elementi del repertorio classico, come nell'uso della prospettiva e il gusto per la scultura
romana ispirata ai valori dell'umanesimo, elementi gotici come il mantello che nasconde
il corpo

1410 Crocifisso ligneo Santa Croce

Polemizza contro le squisitezze ellenistiche e le armonie


matematiche di Ghiberti
Dramatizza l’elemento umano scardinando la
“convenienza” espressiva
Cristo colto in un momento dell’agonia (lineamenti contratti,
bocca dischiusa, occhi semiaperti, corpo greve e sgraziato
con un modellato vibrante
Donatello premesse molto la verità umana del personaggio

1412 San Giovanni Evangelista (Santa Maria del Fiore)

Donatello ricerca brani di autentica umanità e verità


Riallaccio alla nobile compostezza della statuaria antica
Il santo è seduto, con il tipico attributo del libro tenuto in piedi su una gamba dalla mano sinistra
Il panneggio crea forti effetti di chiaroscuro, ampie pieghe, soprattutto nella parte inferiore,
cresce il senso del volume delle membra sottostanti, senza nasconderle e senza lesinare su
giochi lineari tardogotici
Spalle curve, braccia abbandonate e inerti, busto semplificato geometricamente secondo una
calotta semicircolare
Di grande risalto le potenti mani, scolpite basandosi su un accurato studio dal vero
Testa barbuta e con una folta capigliatura ricciuta, scatta verso destra con uno sguardo fisso e
intenso, creando un senso di energia trattenuta
folte sopracciglia sono lievemente aggrottate e l'espressione contratta e concentrata è
sottolineata anche dalla profonda ruga orizzontale sulla fronte e dalla bocca serrata

1415- 1417 San Giorgio e predella (Orsanmichele)

Energia e vitalità trattenute ma visibili, ottenuto grazie ad una


straordinaria economia di mezzi
Figura impostata sull’aprirsi a compasso delle gambe, leggera
roteazione intorno all’asse centrale, con lo scudo crociato
Forma compatta, delineata da una serie di ovali: il volto, il profilo
del manto, l’andamento delle spalle, lo scudo
Lieve scatto laterale della testa in direzione opposta al corpo
acquista per contrasto la massima evidenza, sottolineato anche
dal concentrarsi del chiaroscuro negli occhi profondi, nelle
sopracciglia aggrottate, nei tendini del collo
Anche qui si ribadisce l’attenzione al dramma in termini inediti
Realizzato forse due anni dopo la statua, riprende la tecnica antica dello “stiacciato” (rilievo
bassissimo che si presta a rendere con mezzi quasi pittorici la dilatazione spaziale)
Donatello applica uno dei primi saggi di costruzione prospettica a punto di fuga unico, che
focalizza l’attenzione sul gruppo formato dal cavaliere e dal drago
Poche notazioni ambientali, variazioni chiaroscuriali e convergenza di linee che rendono
leggibile il nodo dinamico dello scontro
Regole prospettiche piegate all’opposta finalità di cogliere l’attualità del fatto, di generare lo
spazio attraverso l’azione

1420 Madonna Pazzi


Vergine rivolta verso destra, con in braccio Gesù Bambino che la abbraccia e con una
mano afferra il collo della sua veste
La Madonna indossa un abito dalle ampie maniche e un velo che lascia scoperta una
parte della capigliatura sulla fronte
Gesù Bambino veste un abitino leggero che lo copre interamente. I due personaggi sacri
infine sono incorniciati dallo strombo di una finestra
Non presentano la tradizionale aureola intorno al capo
I volti della Vergine e di Gesù Bambino si avvicinano uno all’altro. Questa scelta
rappresenta così la fusione ideale e affettiva di madre e figlio. Tale modello si ritrova
anche nell’iconografia della Madonna Eleusa di stile bizantino. La Vergine mostra
un’espressione piuttosto malinconica, forse un richiamo al destino tragico di Gesù.

1422–27 Busto reliquiario di San Rossore


Realizzato su richiesta dei monaci della chiesa di Ognissanti a Firenze e probabilmente si tratta del
ritratto più antico tra quelli realizzati da Donatello
Donatello con il suo san Rossore si concentra sul recupero storico del personaggio dotandolo di un
realismo molto concreto. La reliquia che doveva essere conservata all'interno della sua scultura era
il cranio attribuito ad un soldato romano fatto decapitare sotto l'imperatore Diocleziano a causa
della sua conversione al Cristianesimo
Ispirandosi ai busti dell'antica Roma, l'artista ha modellato la testa del santo con tratti fisionomici
molto precisi e meditati, cercando di individuare i lineamenti adatti a quel tipo di personaggio.
Anche la capigliatura corta, un po' stempiata e arruffata, il viso scarno caratteristico dell'uomo
d'azione, riporta elementi che si riscontrano nei ritratti e nei rilievi romani riferiti a condottieri antichi
L'atteggiamento riflessivo, il senso di fermezza e tesione contenuta sono più di tipo cavalleresco
che attribuibili ad un santo. Tutto ciò denota l'aspetto sempre profondamente umano dei personaggi
di Donatello, nei quali l'introspezione psicologica è raffinatissima e sembra sempre tratta dalla vita
reale.
Diversi studiosi ritengono probabile che il volto del San Rossore sia un autoritratto di Donatello,
questa ipotesi è sostenuta dai confronti con i ritratti dello scultore che compaiono anche negli
affreschi di Masaccio
La testa è un po' inclinata in avanti e il santo sembra guardare verso il basso, considerando che il
busto doveva essere posto in una posizione elevata, Donatello voleva che il suo austero
personaggio desse l'impressione di guardare lo spettatore dall'alto.
Il mantello avvolto intorno alle spalle e rimboccato sulla spalla destra al centro si apre a "V",
sottolineando la forma triangolare della tesa barbuta del santo e crea una sorta di freccia verso il
basso seguendo la traiettoria dello sguardo. Questi accorgimenti, insieme al realismo
impressionante dell'opera ne aumentano la carica espressiva, coinvolgendo emotivamente lo
spettatore
1423 San Ludovico di Tolosa (Orsanmichele)
L'opera è stata fusa in bronzo e poi dorata, seguendo un procedimento che aveva un costo
elevatissimo, con una tecnica particolarmente complessa, avvalso dell'aiuto di Michelozzo, esperto
toreuta che era stato collaboratore di Ghiberti
La doratura consisteva in un trattamento a fuoco del bronzo già modellato per saldare la foglia d'oro alla
superificie mediante un'amalgama di mercurio. La mitria è inoltre decorata con smalti a fondo blu su cui
spicca il motivo del giglio di Firenze
Nella sua nicchia originale la figura appariva molto voluminosa e ingombrava tutto lo spazio disponibile
con gli ampi e movimentati panneggi che contrastano con la relativa staticità della posa. Anche il gesto
della mano benedicente suggerisce un movimento molto
misurato
Il corpo esile della figura giovanile del santo sembra perdersi nella massa plastica degli esuberanti
panneggi del mantello che dilatano la massa in una superficie espansa e fortemente sbalzata, con
decisi contrasti tra le parti emergenti e gli incavi profondi
L'utilizzo dei panneggi che sembrano animati da un'agitazione propria verrà ripetuto da Donatello anche
in altre opere ma qui non sono più dovute ad un'esigenza tecnica, quanto piuttosto a una scelta estetica
ed espressiva
Nella composizione Donatello ha abbandonato lo schema serpentinato e segue invece uno schema
ovale, tagliato dalla linea obliqua del pastorale che segna un vettore verso l'esterno
La posa del personaggio, con il busto disposto obliquamente entro la nicchia e il volto leggermente
girato a sinistra ricordano un momento di arresto in un incedere molto lento come se il santo, durante
un rito liturgico si fosse fermato un istante per benedire solennemente i fedeli, rivolgendosi a loro
Il volto, ha un'espressione dolce e decisa allo stesso tempo, con uno sguardo molto sicuro, sottolineato
anche dalla presa ferma del pastorale tenuto obliquamente con la mano destra in cui si notano le due
dita a forbice. La fermezza con cui Donatello ha voluto caratterizzare la figura di questo santo fa
riferimento alle vicende del personaggio storico.

1425–30 Ritratto di Niccolò da Uzzano


L'opera, in terracotta policroma, è uno dei più interessanti ritratti eseguiti da Donatello,
ammirato, per la sua incredibile concretezza espressiva, anche da Michelangelo
Niccolò da Uzzano, rappresentante di spicco dell'èlite degli intellettuali fiorentini fu anche
un importante uomo politico, leader del partito degli Ottimati, antagonista a quello dei
Medici. Non è ritratto in maniera statica, ma colto in un leggero movimento, mentre sta
volgendo la testa. Questo effetto è reso da una lieve torsione che parte dal basso e si
sviluppa a spirale, in modo molto graduato, come per darci appena un'impressione di vita.
Donatello lo ha ritratto senza idealizzazione, ma con grande sensibilità, cercando di
cogliere la dimensione umana in tutto il suo spessore. Attraverso i tratti del viso,
l'espressione intensa e lo sgurado assorto, ci restituisce una resa psicologica e un senso
di presenza così profonde da lasciarci la sensazione di aver conosciuto il suo
personaggio.
Il personaggio appare come un uomo di mezza età, segnato dalle rughe e con lineamenti
marcati; sembra dotato di una personalità forte. I nervi tesi del collo suggeriscono la
tensione interiore di un uomo logorato dagli affanni, ma per contrasto, un carattere mite è
rivelato dall'espressione dolce del viso.
La superficie plastica è sapientemente graduata e insieme al colore, particolarmente
realistico, riesce a suggerire ogni dettaglio pur senza definirlo: riesce persino a farci
percepire la ricrescita sottopelle, della barba non rasata.
1428–43 decorazione scultorea (tondi) sagrestia Vecchia di San Lorenzo

1 2
1. San Giovanni Evangelista. Stucco
policromo.
2. San Giovanni Evangelista a Patmos.
Stucco policromo.
3. Ascensione di San Giovanni Evangelista.
Stucco policromo.
4. Martirio di San Giovanni Evangelista.
Stucco policromo.
3 4
Le opere certamente di Donatello, nella Sagrestia, erano otto medaglioni monumentali in stucco policromo (diametro di 215 cm, all’epoca paragonabili solo alle
grandi vetrate delle basiliche), con le Storie di san Giovanni evangelista, patrono della cappella (Resurrezione di Drusiana, Martirio, Visione a Patmos e
Ascensione) e quattro tondi con Evangelisti (Giovanni, Marco, Matteo e Luca), due soprapporte sempre in stucco (Santi Stefano e Lorenzo, Santi Cosma e
Damiano) e due porte bronzee a formelle (Porta dei Martiri e Porta degli Apostoli).Brunelleschi non fu contento dei lavori di Donatello alla sua Sagrestia: essi
andavano a intaccare quell’essenzialità decorativa di cui si faceva promotore, inoltre non aveva gradito il non essere stato interpellat o nemmeno per un parere: fu
la fine dell’amicizia e della collaborazione tra i due geni del primo Rinascimento. L’opera di Donatell o venne criticata per l'”eccessiva” espressività anche da
Filarete, che in un passo del Trattato di Architettura (1461-1464) sconsiglia di fare figure di apostoli come quelle di Donatello nella porta della sagrestia di San
Lorenzo, “che paiono schermidori”.

1432 – 1438 Cantoria Santa Maria del fiore


Per entrambe le cantorie il tema della rappresentazione è quello della lode a Dio da
parte di angeli che cantano, suonano e danzano. Ognuna di esse misura in tutto cinque
metri di lunghezza.
Cantoria di Donatello: la composizione di Donatello è più unitaria. Egli concepì un
portico architravato, con colonne libere, dentro al quale pose la scena figurata come in
un fregio classico.
Scolpì il fregio su due lastre di due metri e mezzo l'una in cui ha rappresentato
una danza di putti con un effetto di movimento continuo. I putti di Donatello discendono
da quelli classici: sembrano più genietti pagani che angeli, e sono colti nei
velocissimi girotondi, in una confusione di gambe e braccia che riempie tutto lo spazio.
La visibilità della scena è ostacolata dalle colonnette a tutto tondo della struttura
architettonica. A sinistra i putti si tengono per mano o per gli avambracci, a destra si
legano con classiche ghirlande di alloro intrecciate.
Donatello propone l'immagine di un allegro e festoso gioco di fanciulli che si rincorrono e
danzano con straordinaria libertà e spigliatezza. Il movimento non si svolge in una sola
direzione, perchè le figure davanti si muovono verso destra e quella dietro corrono nella
direzione opposta, creando un effetto di moto continuo. I putti sono atteggiati
in smorfie a volte ai limiti della deformazione, che ricordano quelle dei coevi ritrovamenti
archeologici di sculture rodie, caratterizzate da espressioni molto caricate.
Si può notare la raffinatezza e precisione del letto di f oglie, giunchi, ghiande e bacche
su cui poggiano i piedi dei putti. L'attenzione al dettaglio botanico era frequente nella
pittura del Gotico Internazionale, ma è una componente essenziale anche nelle
terracotte invetriate di Luca della Robbia.
Il mosaico dorato dello sfondo coglie ogni bagliore luminoso, data la collocazione della
cantoria all'interno della crociera mal illuminata. Donatello realizza una superficie
punteggiata che rifrange sulle figure in penombra scimntille luminose, creando un effetto
di animazione cromatico-luminosa. L'architettura è riccamente ornata con numerosi
motivi che derivano da prototipi classici ed etruschi e da incrostazione musiva
multicolore. Si notano sostegni a mensole, cornici, specchi in marmo, corone, ghirlande,
testine, conchiglie e anfore, che costituiscono un repertorio molto vario e "anticlassico"
per la sua eterogenetità e fantasia.
1433 Annunciazione Cavalcanti
Una delle più celebri opere donatelliane , tuttora collocata nella sua ubicazione originaria: la navata
destra della Basilica di Santa Croce, a Firenze.
Il materiale scelto per la realizzazione dell’opera è la pietra serena, in questo caso dorata e, in parte,
policromata.
La tecnica di realizzazione è l’altorilievo per i due personaggi principali, mentre viene utilizzato il
bassorilievo per le decorazioni di sfondo.
La scena principale dell’opera è un’Annunciazione, questo momento sacro viene inserito dall’artista
all’interno di un’edicola di tipico stampo rinascimentale rifinita in ogni minimo particolare: si compone di
un basamento, sorretto da due mensole con lo stemma Cavalcanti e da una ghirlanda alata al centro.
Sopra il basamento poggiano due pilastri, decorati con molta originalità, dai quali emergono le abilità
scultoree dell’artista fiorentino. Ciascun pilastro si compone di tre parti: base, fusto e capitello. A
ciascuna componente corrisponde una specifica decorazione, volute a zampe leonine sulle basi,
foglioline disposte a squama sul fusto e capitelli con mascheroni sugli angoli.
Sui due pilastri poggia una trabeazione composta da più cornici e mondanature con diverse decorazioni
dorate, dentelli, foglioline, ovuli e rosette. Sulla trabeazione poggia una cimasa semicircolare avente due
rosette a lato a mo di volute, centralmente è collocato un rosone scanalato, mentre nei pennacchi vi sono
rilievi di ghirlande e rosette
Sopra la cimasa si trovano sei caratteristici putti alati che, realizzati in terracotta, presentano tracce di
policromia. Alle estremità destra e sinistra è collocata una coppia di putti abbracciati,raffigurati
frontalmente mentre la coppia di putti posta centralmente risulta presentare due angeli sdraiati, raffigurati
di profilo, mentre si guardano negli occhi.
L’edicola che, fungendo da cornice, dovrebbe avere una funzione secondaria nell’opera, viene realizzata
con una cura tale da permetterle di rivestire un ruolo attivo nella rappresentazione, racchiudendo
armoniosamente la scena principale, sulla quale dovrà concentrarsi lo sguardo dello spettatore.
L’episodio dell’Annunciazione vede come protagonisti l’angelo che inginocchiato è collocato sulla sinistra e la vergine posta sulla destra, stante. I protagonisti
primeggiano su uno sfondo minuziosamente decorato da cornici e girali che ricordano il gusto ellenico.
Lo sfondo donatelliano è, in questa rappresentazione, piatto così da evitare complesse architetture illusionistiche tipiche di questa rappresentazione, tuttavia
risulta essere molto elaborato per via delle complesse decorazioni sullo sfondo che non disturbano pero la semplicità e la purezza della scena principale.
Ricco di pathos è lo sguardo dei due protagonisti, che interloquiscono un tacito dialogo, particolareggiato dall’artista attr averso la cura della gestualità dei due
protagonisti.
L’angelo è inginocchiato e sembra cercare dolcemente lo sguardo della vergine, con una timida torsione del volto.
Le braccia sono incrociate e le ali ancora spiegate, attenta e rigorosa è la rappresentazione del panneggio della veste che c onferisce volumetria al personaggio.
Assente è tuttavia un attributo proprio dell’iconografia del personaggio, il giglio, simbolo di purezza o il ramoscello di ulivo che compare, per esempio,
nell’antecedente annunciazione di Simone Martini, del 1333 o anche nell’Annunciazione di Lorenzetti, del 1344 ed è prova evid ente del distaccamento da parte
di Donatello dagli ideali di bottega seguiti in quegli anni.
Stante davanti all’angelo è la figura della vergine,la quale stringendo nella mano un libro, allusione simbolica al compiment o delle sacre scritture, primeggia sullo
sfondo di uno schienale a forma di lira.
La reazione viene resa particolarmente realistica dall’artista , che esplicita la reazione di sorpresa della vergine attraverso la sua gestualità, ella infatti porta una
mano sul petto mentre è in procinto di ritrarsi, come suggerito dalla posizione del corpo e dal panneggio della veste che cade verso sinistra.
Nonostante questo istinto di ritrarsi da parte della vergine il suo sguardo è rivolto all’angelo, uno sguardo che raccoglie s orpresa, umiltà e gratitudine e sembra
immobilizzare la Vergine in questo eterno dialogo.

1443 David
Realizzato probabilmente per il nuovo palazzo civico voluto da Cosimo de’ Medici. Infatti il personaggio del
giovane re pastore divenne il simbolo delle virtù civiche della Repubblica di Firenze. Il
giovane David di Donatello dopo aver vinto il gigantesco guerriero Golia è in piedi vittorioso con una espressione
enigmatica. Il giovane poggia il piede sinistro sulla guancia dello sconfitto la cui testa giace a terra. David poggia
su di una corona d’alloro che orna anche il suo strano elmo. I capelli del ragazzo scendono fluenti sulle spalle.
Con la mano destra stringe saldamente la spada con la quale ha decapitato Golia mentre nella mano sinistra
stringe un sasso. Il giovane è completamente nudo tranne i calzari decorati che coprono anche parte dei piedi.
Sul capo mozzato di Golia è ancora calato il pesante elmo da battaglia.
Il giovane identificato come il futuro re giudeo David è infatti in possesso dei simboli che lo rappresentano. Si
tratta della pietra con la quale uccise Golia tramite una fionda. La mano destra stringe la spada che il giovane
utilizzò per decapitare il soldato. Infine in basso si trova la testa decapitata sulla quale il David si erge vittorioso.
La nudità del giovane eroe oltre a rimandare alla classicità rappresenta l’umiltà e il coraggio che sconfiggono la
forza bruta del superbo.
Secondo altre ipotesi il giovane indossa un copricapo molto simile al “pètaso” indossato dal dio Mercurio e i
calzari alati. La rappresentazione racconterebbe quindi l’uccisione di Argo Panoptes da parte del dio per liberare
la ninfa chiamata “Io” desiderata da Giove. La statua del David fu progettata da Donatello con particolare
attenzione alla resa naturale della muscolatura. Inoltre l’artista modellò il fisico del giovane con una postura
adatta a valorizzare esteticamente il corpo adolescente. Il modellato morbido permette infatti di apprezzare gli
effetti della luce che scivola sui rilievi appena accennati.
In alcune parti, come sui pettorali le fasce muscolari sono esili, sul ventre invece si notano già addominali
sviluppati. Questa indeterminatezza organica crea un mancato equilibrio che genera tensione formale e
narrativa. David esprime la forza in potenzialità di un corpo che sta crescendo.

1446–53 Monumento equestre a Erasmo da Narni (Gattamelata)


Fusione in bronzo; il Gattamelata siede fieramente in sella al suo cavallo. Il condottiero indossa
un’armatura di rappresentanza, decorata e finemente cesellata. Il capo è nudo e privo di elmo. La
fisionomia è quella di un uomo non più giovane. Con la mano sinistra stringe le redini larghe e decorate.
Con la mano destra invece tiene alto lo scettro simbolo di comando attribuito dalla Repubblica di Venezia
nel 1438. Una lunga spada con ampia impugnatura pende poi dal fianco sinistro. L’armatura è elegante
fornita di corazza per il busto, ginocchietti e lunghi speroni. Il cavallo è possente con gli arti aperti al passo.
La zampa anteriore sinistra è sollevata e lo zoccolo poggia su di una sfera. La figura del condottiero è
fermamente frontale mentre il cavallo volge leggermente il muso a sinistra.
I monumenti equestri contemporanei a Donatello o del secolo precedente erano monumenti funebri. Sì
trovavano al di sopra delle tombe ed erano realizzati in pietra. Simone Martini dipinse l’effige a cavallo di
Guidoriccio da Fogliano. Paolo Uccello realizzò il ritratto a cavallo di Giovanni Acuto. Non furono però
questi i modelli presi in considerazione da Donatello. Forse il cavallo sul quale siede il condottiero fu
ispirato dalla quadriga di San Marco. Si trattò così di un omaggio al governo della Serenissima. Oltre a
citare le opere del passato Donatello adattò la rappresentazione al suo presente. Ad esempio il condottiero
cavalca come un uomo del quattrocento. Per questo il monumento equestre del Gattamelata accorda
idealizzazione classica e realismo psicologico.
Le maggiori dimensioni del cavallo, forse, suggeriscono le capacità di controllo del condottiero. Anche
l’espressione dell’animale trasmette il suo carattere irrequieto, dominato con mano leggera e ferma dal
condottiero. Il Gattamelata, in vita non fu molto celebrato ma in questo monumento rappresenta un uomo
d’arme in grado di governare una potente cavalcatura. La monta rappresentata è quella in uso
all’epoca Donatello. Lo testimoniano la forma delle briglie, la sella e gli ornamenti che decorano il corpo
dell’animale.

Il Gattamelata è privo di elmo. La sua effige esprime così l’intelligenza del condottiero e non la potenza distruttrice di un guerriero spin to da una forza
superiore. Donatello scelse così di realizzare un ritratto del protagonista e non una sua idealizzazione. La fisionomia è infatti quella di un uomo avanti negli anni.
Lo scultore preferì esprimere la forza e la determinazione attraverso l’espressione del viso e la postura del corpo. Il Gattamelata in realtà si chiamava Erasmo da
Narni ed era un capitano di ventura. I suoi eredi commissionarono la statua equestre a Donatello per celebrare la figura del loro congiunto. Il monumento fu
eretto nel 1453. Donatello lasciò la città e fu pagato in gran parte dalla vedova del condottiero, Giacoma Bocarini Brunori e dal Senato veneziano con con la cifra
di 1650 ducati. Secondo Vasari, autore de Le Vite, il Gattamelata fu la prima opera di Donatello realizzata a Padova. Per questa commissione infatti partì nel
1443 da Firenze. Il Gattamelata morì nello stesso anno. Questa ipotesi, però, non è comunemente condivisa. Per altri la commissione fu del 1446 momento nel
quale Donatello cominciava a nutrire una discreta fama. I lavori iniziarono nel 1446. Nella primavera del 1447 lo scultore predispose infatti i modelli per la fusione
delle statue del cavaliere e del cavallo.
Il monumento al Gattamelata si trova in piazza del Santo a Padova, di fronte alla Basilica del Santo. Il modello al quale si ispirò Donatello per il monumento
al Gattamelata fu con molta probabilità la statua di Marco Aurelio che si trovava a Roma. Esisteva anche un altro esemplare al Regisole di P avia che però andò
perduto nel 1796. La fusione del bronzo non fu di semplice realizzazione. Furono necessari diversi an ni di preparazione e tentativi per arrivare alla statua
compiuta. Donatello visse a Padova per dieci anni, dal 1443 al 1453.
Il Gattamelata è svincolato da funzioni architettoniche e concepito come statua a se stante. Infatti la statua non fu pensata per essere posta all’interno di una
nicchia. Di conseguenza dialoga direttamente con lo spazio circostante. La statua del Gattamelata fu progettata come cenotafi o, cioè un monumento funerario
privo dei resti, sepolti altrove. La collocazione scelta per posizionare il monumento fu attentamente studiata. Fu scelta una zona antistante la basilica del Santo,
leggermente spostata rispetto al centro della facciata. Questa posizione, oltre a porre il cenotafio all’interno di un’import ante necropoli del tempo, favorisce
maggiore visibilità. Si trovava infatti allineato con una principale via di accesso.
Donatello riscoprì la classicità e soprattutto la statuaria antica. Insieme allo studio delle forme l’artista condusse quindi anche una riscoperta delle tecniche di
realizzazione. Infatti la fusione a cera persa era stata abbandonata durante il Medioevo. Il modello classico che Donatello util izzò per creare la statua equestre
del Gattamelata fu quella del Marco Aurelio. Sulla corazza del condottiero si trova la testa di Medusa. Altri elementi decorativi come putti musicanti si notano poi
sulla sulla cintura e piccole teste virili riconducono al mondo classico. Il monumento in bronzo del Gattamelata fu realizzato con la tecnica della cera
persa. Donatello ricoprì tale procedura classica già nel San Ludovico di Tolosa del 1421-1425. L’impresa dello scultore ottenne una menzione da Vasari che ne
segnalò già nel Cinquecento la grande importanza.Il modellato del cavallo descrive ampie zone sulle quali la luce scivola mor bidamente e rivela rotondità
muscolari. Si creano ombre profonde nella zona degli occhi, del muso e della criniera. In tal modo i particolari del cavallo emergono chiaramente. La figura
del Gattamelata è invece molto dettagliata. Le alternanze di luci e ombre rivelano le decorazioni dell’armatura e dei tratti del viso. La statua equestre
del Gattamelata si trova su di un basamento molto alto. Il punto di vista dell’osservatore è basso e determina quindi la sua monumentalità. T ale collocazione crea
così una distanza dal passante che si trova in posizione di inferiorità spaziale. Tradizionalmente il piedistallo fu utilizzato per isolare i l monumento e rimarcare
l’importanza del protagonista. Il Gattamelata non condivide lo spazio del popolo che si trova in basso. Lo spazio nel quale è posto è ideale e senza tempo. La
statua è come cristallizzata nella dimensione storica che rende il personaggio eterno. Il monumento è visibile nella sua inte rezza in posizione laterale
privilegiando il lato sinistro. La rappresentazione è quindi molto vicina a quella delle immagini celebrative stampate su medaglie o monete. Il cavallo poggia con lo
zoccolo anteriore su di una sfera scolpita. Tale scelta fu di tipo statico e consentì quindi di conferire maggiore equilibrio alla scultura. Lo scettro impugnato
dal Gattamelata e il fodero della spada sono obliqui. Il cavallo, invece contribuisce alla composizione determinando una solida orizzontale. Il busto eretto
del Gattamelata, invece, si erge in verticale. Il cavallo che sorregge il Gattamelata ha un aspetto molto potente e rivela proporzioni maggiori. La massa muscolare
dell’animale inoltre è mossa da un gesto controllato e sicuro che trasmette molta forza.

1447-50 Altare Basilica del Santo di Padova (madonna con bambino, miracolo della mula,
Deposizione)
Era un complesso formato da un'edicola architettonica, statue e rilievi realizzati in bronzo,
pietre, dorature e mosaici. Venne compiuto da Donatello intorno al 1450. L'impianto originale
doveva essere grandioso ma nel corso del tempo ha subito diverse modifiche e ricomposizioni
che hanno portato alla perdita dell'insieme originario. La ricomposizione che vediamo oggi è
una ricostruzione risalente al 1895 ed un'ultima soluzione che risponde solo in parte al
progetto donatelliano poichè tutta la parte architettonica è andata perduta.
Secondo una delle ipotesi più accreditate, sopra l'altare maggiore Donatello aveva creato un
grande baldacchino che formava una sorta di portico architravato con timpano arcuato,
colonne e pilastri entro il quale erano poste le sette statue di figure sacre a grandezza
naturale. Sull'alto basamento erano inoltre iseriti i bassorilievi. Alla struttura architettonica
dell'altare si era ispirato Andrea Mantegna per la sua Pala di San Zeno, conservata nella
chiesa di San Zeno a Verona.
L'impatto sul visitatore all'interno della Basilica è ancora di grande effetto: l'altare appare
come una sorta di quadro vivente con le grandi figure scure, in bronzo, che sembrano
guardarci dall'alto.
Attorno all'altare si inseriscono diversi rilievi in bronzo con scene dei miracoli di Sant'Antonio, i
simboli dei quattro Evangelisti, la Pietà e dodici pannelli verticali con angeli musicanti.
L'insieme è impressionante e spettacolare.

Madonna col bambino: Il gruppo centrale della Madonna col Bambino Santi: Rispetto ai pannelli della predella, le statue dei santi dell'Altare di Padova
forma l'asse della composizione e ad esso si riferisce la disposizione di non sono molto rifinite. Questo può essere dovuto in parte per la fretta con cui
tutte le altre statue dei santi. furono preparate e in parte perchè dalla posizione in cui doivevano trovarsi non
L'immagine della Madonna deriva dall'iconografia bizantina della in cui il potevano essere viste da molto vicino nè in piena luce. Ma come si può vedere dal
bambino veniva mostrato simbolicamente ancora nel grembo della confronto con altre opere mature di Donatello, probabilmente l'artista voleva
madre e offerto al sacrificio. Un esempio è offerto dal rilievo in avorio del sfruttare la potenza espressiva del non finito, che rende alcuni particolari più
VI secolo conservato al British Museum di Londra, in cui si può notare indistinti e lasci apiù spazio all'immaginazione dello spettatore.
che la posizione corrisponde esattamente a quella scelta da Donatello I volti dei personaggi colpiscono per il modellato audace e impressionistico: le
per la sua Madonna. Donatello, che anche in altre opere ha dimostrato fisionomie e le espressioni sono rese con immediatezza e con pochi essenziali
di conoscere molto bene l'arte bizantina, riprende questa antica dettagli, mentre le strutture e le forme d'insieme sono molto solide e ben salde. La
tradizione rappresentando la Madonna nell'atto di alzarsi dal trono sintesi con cui opera Donatello dà un grande senso di pathos e di grandezza
mentre tiene il bambino davanti a sè come se ucisse dal suo grembo. morale. L'insieme delle statue è impressionante: suggerisce un senso di presenza
L'espressione enigmatica, Lucasevera
dellaeRobbia
la visione perfettamente frontale fisica e spirituale di queste figure maestose che sembrano incombere dall'alto del
rendono questa immagine ieratica e un po' inquietante. Sul trono le due
Beato Angelico
sfingi sui bracciolo alludono alla Vergine come "Sedes Sapientiae" e
loro basamento.
La statua di San Francesco rivela la conoscenza degli affreschi di Assisi, la testa
rivelano l'ampia cultura visiva di Donatello. della figura è molto simile a quella del San Francesco dipinta da Cimabue nella
Sulla corona e sul petto si vedono alcuni cherubini. Il modellato dell basilica umbra. L'immagine di Sant'Antonio si riferisce ad un antico affresco
statua è cvuratissimo nei dettagli. Le superfici sono tormentate dalle fitte presente su uno dei pilastri nel presbiterio della Basilica in cui si trova.
pieghe della veste che seguono direzioni diverse, ora sinuose, ora
ondeggianti, ora raggiate: gli effetti di luce sono molto variati e la massa
del corpo risulta come svuotata di peso.

Miracolo della mula: Le quattro tavole sono concepite come scene di massa, estremamente ricche di dettagli e di vari microepisodi narrativi, con u na
molteplicità di figure difficile da eguagliare. Secondo le storie di sant'Antonio da Padova, quando si trovava nei pressi di Tolosa ebbe una discussione con
un eretico in merito all'eucaristia. Gli venne allora richiesta una prova pratica delle sue affermazioni: l'uomo aveva un'asina che ripromise di tenere digiuna per tre
giorni. Alla fine il santo le avrebbe offerto un'ostia consacrata e se essa l'avesse preferita alla biada avrebbe avuto ragione, cosa che puntualmente avvenne.
La scena, molto affollata, è ambientata in una chiesa, come dimostra l'altare rinascimentale al centro, davanti al quale sta il santo che, con un piede sul gradino,
si abbassa per offrire l'ostia alla mula, la quale sta davanti a lui e si è già inginocchiata. Dietro di loro si vedono i ser vitori che portano la biada. Gli astanti si
accalcano attorno alla scena e nei due vani sotto i due archi laterali, che sono in comunicazione con un passaggio diviso da una colonna. C'è chi si inginocchia
perché ha riconosciuto il miracolo, chi è sorpreso, chi si accalca per la curiosità, salendo anche sui plinti, chi chiama altre persone ad accorrere. La scena è così
ambientata nel quotidiano e la tensione emotiva nasce dal contrasto con l'evento miracoloso.
Lo sfondo presenta un'architettura sfarzosa, ripresa dall'arte romana anche se più che a un edificio reale si deve pensare a un mode llo di Leon Battista
Alberti nel De re aedificatoria. Tre solenni archi a tutto sesto perfettamente scorciati in prospettiva dominano lo sfondo (come nella Resurrezione di
Drusiana a Firenze), e sono scanditi in tutti gli elementi architettonici: le paraste scanalate, i rilievi sui pennacchi e sulla chiave di volta (molto simile agli archi
della basilica di Massenzio nel Foro Romano), il cornicione, la decorazione dell'estradosso e del sottarco. Essi però sono leggermente sottodimensionati rispetto
alle figure (gli uomini ad esempio rasentano con la testa le architravi), probabilmente per via delle difficile compenetrazione tra il triplice arco, che richiede
parecchio spazio, e la volontà di non creare figure troppo piccole. A un'osservazione attenta si nota come il fondo sia chiuso da grate che lasciano intravedere lo sviluppo
ulteriore in profondità dell'architettura, secondo una costruzione di estremo virtuosismo.
1455 Maddalena penitente
Scultura realizzata con legno di pioppo per rappresentare al meglio il dramma esistenziale della discepola
di Gesù. Maddalena penitente è in piedi su di una roccia. La donna è scalza e indossa una pelle allacciata
in vita che le ricopre il corpo fino alle ginocchia. Le braccia sono aderenti al corpo e le mani giunte. I
lunghi capelli sono scomposti. Ricadono sulle spalle e in avanti sul busto. Il volto è scheletrito e
l’espressione addolorata e contrita.
Donatello nel corso della sua lunga carriera utilizzò stili diversi nel realizzare le sue sculture. Fu un artista
classico che si ispirò alle opere dell’antica Roma. In Maddalena penitente, invece, realizzata nell’ultima
parte della sua vita, impiegò uno stile realistico e, quasi, espressionista. Infatti, la donna, discepola di
Gesù, ha il corpo emaciato e scolpito nel rigido legno di pioppo. Il volto, inoltre, è abbozzato e scavato. Il
legno conferisce al volto, alle parti del corpo e agli abiti di Maddalena penitente una rigidità e una
secchezza che ne sottolineano la sua condizione di sofferenza. Secondo gli storici Donatello scolpì un
capolavoro di naturalismo. Infatti con l’opera rappresenta il superamento del classicismo messo in crisi
nelle ultime opere del maestro.
Maddalena penitente è una scultura in legno di pioppo bianco. Il legno di questo albero è molto duro.
Difficilmente, infatti, è possibile ottenere volumi morbidi e sfumati. La scultura in legno fu molto
utilizzata nel Medioevo. Nel Rinascimento, invece, fu abbandonata a favore della scultura in
marmo. Donatello scelse di ricorrere a tale tecnica per rappresentare una Maddalena penitente,
mortificata nel fisico e nello spirito.

1457 Giuditta e Oloferne

I quattro fori ai lati del cuscino lasciano pensare che la scultura fosse stata concepita per una fontana di
Palazzo Medici. E’ firmata OPUS DONATELLI FLO[RENTINI] e fu fusa in 11 parti poi assemblate. In
seguito alla cacciata dei Medici nel 1494 fu posta in Piazza della Signoria come simbolo della vittoria del
popolo sulla tirannia. Al momento del loro rientro non fu rimossa per non offendere la sensibilità dei
cittadini; cambiò sistemazione solo per lasciare il posto al David di Michelangelo.
DA SAPERE: Il soggetto può essere interpretato anche come la vittoria dell’Umiltà sulla Superbia o della
Virtù sul Vizio. Il medaglione sulla schiena di Oloferne raffigura infatti un cavallo imbizzarrito, simbolo
delle pulsioni sfrenate e irrazionali dell’anima

Luca della Robbia


1400 - 1425 Madonna della Mela

La Madonna della Mela è un'opera in terracotta attribuita a Donatello o a Luca della


Robbia e conservata nel Museo Bardini a Firenze
Misura 90x64 cm ed è databile al primo quarto del Quattrocento
L'attribuzione è stata molto discussa e si sono fatti i nomi anche di Jacopo della
Quercia e di Lorenzo Ghiberti
La Vergine, raffigurata a mezzobusto, stringe teneramente il Bambino a sé, mentre il
piccolo, in un gesto di estrema naturalezza, cerca di coprirsi con il manto della madre
Maria avvicina al suo volto una mela, simbolo del peccato originario, di cui Cristo sarà il
redentore. In latino mela si traduce “malum”, un gioco di parole che richiama alla mente
l’albero della conoscenza, profanato dai progenitori
1432 – 1438 Cantoria Santa Maria del fiore
La composizione è scandita in lastre con scene distinte, divise da coppie di pilastrini. Tutta in
marmo bianco, composta di dieci rilievi, sei nel parapetto e quattro in basso. Il tema è il
ringraziamento al Signore, che i fanciulli lodano con il canto, la musica e la danza, come
dicono i versi in latino delle cornici
Ogni scena è ad altorilievo su fondo liscio ed è separata dalle altre in una chiara e nitida
distribuzione; lungo i bordi vi è una elegante decorazione classicheggiante; la cantoria è
sostenuta in basso da mensoloni riccamente decorati con motivi vegetali.
Osservate la varietà delle pose, la grazia dei fanciulli, la capacità di rendere i sentimenti
come la gioia o la contemplazione, la perfetta definizione delle stoffe che seguono l’anatomia
del corpo: domina su tutto un clima di serenità ed equilibrio tipico dello stile di Luca della
Robbia, di cui questa è la prima opera nota e documentata.
Le differenze fra le due Cantorie sono notevoli: opera composta ed elegante quella di Luca
della Robbia, esuberante e trasgressiva quella di Donatello.
Anche il modo di scolpire è diverso: perfetto Luca nel rifinire e levigare il marmo, più
sommario Donatello, che fa una sorta di non-finito, più di getto ma che era di grande efficacia
nell’ambiente in penombra della chiesa
Quindi classicismo e compostezza da una parte, spregiudicatezza e sperimentazione
dall’altra: due splendide interpretazioni all’interno dello stesso periodo, il Rinascimento.
Il grande leggio, detto badalone, non è messo a caso in mezzo alla sala: i cantori dall’alto
potevano leggere la musica sacra nei grandi e meravigliosi corali che potrete anche
ammirare nella saletta 28, la Cappella musicale, che ha un interessante allestimento
multimediale

Beato Angelico
1433 Tabernacolo dei Linaiuoli
Un tempietto marmoreo di Lorenzo Ghiberti con pitture di Beato Angelico
L'opera è di misure eccezionali, paragonabile, nel panorama della pittura fiorentina, solo alla Maestà di Santa
Trinita di Cimabue o alla Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna. Più che un tabernacolo assomiglia a un
portale monumentale. Forse le misure e la forma furono dovute a una tavola o un affresco duecentesco già
presente, che venne rimpiazzato, o più probabilmente si voleva eguagliare con la pittura la maestosità delle
statue nelle nicchie di Orsanmichele.
Il tabernacolo è composto da una struttura marmorea rettangolare con cuspide triangolare, ove si trova una
mandorla col Cristo benedicente e Angeli cherubini. Al centro, entro un 'apertura ad arco, di trova la tavola
dell'Angelico, con la Maestà incorniciata da una fascia con dodici angeli musicanti. Davanti si trovano due
sportelli mobili dipinti su entrambi i lati con santi a tutta figura: all'esterno, visibili quando il tabernacolo è chiuso,
si trovano San Marco Evangelista (sinistra) e San Pietro (destra); all'interno San Giovanni Battista (sinistra) e
San Giovanni Evangelista (destra). La pala è completa di predella, divisa in tre pannelli con: San Pietro detta il
Vangelo a san Marco, Adorazione dei Magi e Martirio di san Marco. La figura di Marco ricorre perché era il
protettore della corporazione.
Il pannello centrale, sebbene fortemente danneggiato, presenta uno stile coerente con le prime opere
dell'Angelico, con un gradino marmoreo sul quale si trova il seggio; oltre due drappi di tendaggi (richiamo
all'attività tessile della corporazione?) si vede un soffitto dipinto come un cielo stellato (richiamo
all'Annunciazione di Washington di Masolino) dove vola la colomba dello Spirito Santo.
Il pannello centrale, sebbene fortemente danneggiato, presenta uno stile coerente con le prime opere
dell'Angelico, con un gradino marmoreo sul quale si trova il seggio; oltre due drappi di tendaggi (richiamo
all'attività tessile della corporazione?) si vede un soffitto dipinto come un cielo stellato (richiamo
all'Annunciazione di Washington di Masolino) dove vola la colomba dello Spirito Santo.

Le figure del tabernacolo sono caratterizzate dall'assialità prospettica e dalla centralità. La Madonna è incorniciata da una profusione di broccati e tendaggi dorati,
che le donano un'aurea di preziosità e sospensione paragonabile alle icone. L'importanza data alle stoffe può essere legata a motivi contingenti per l'attività della
corporazione, ma la loro presenza amplificano anche la luce, i volumi e i colori della Vergine col Bambino.
I santi, nonostante la dimensione che li rendeva i più grandi di qualsiasi altro pannello fiorentino dell'epoca, vennero rappresentati con estrema perizia e forse nel
disegno venne in aiuto Lorenzo Ghiberti, come sembra suggerire un passo dei Commentari e alcune somiglianze con le sue statue per Orsanmichele (in
particolare il San Matteo e il Santo Stefano, dei quali i dipinti sulle ante sembrano le trasfigurazioni pittoriche). Le figure maestose del Tabernacolo vennero
probabilmente create per compartecipare a pieno titolo proprio con i tabernacoli di Orsanmichele, dove le altre Arti avevano le statue dei loro santi protettori.
I santi sono dipinti con una calcolata tridimensionali e sembrano bucare la superficie pittorica, come statue appunto: San Gi ovanni Battista tiene la croce in avanti
rispetto al corpo; San Giovanni Evangelista, ha la mano destra tesa in segno di benedizione e il libro voltato verso lo spettatore; San Marco, protettore dei Linaioli,
ha una posa organizzata sulle linee diagonali e un libro un prospettiva; San Pietro infine tiene con le due mani il volume delle Epistole ed ha la mano destra
lievemente più avanti del corpo e la sinistra spinta fuori da sotto il mantello.
Gli angeli musicanti della cornice sono disegnati con grande libertà, maggiore che in opere anteriori, e forse intervenne n el loro disegno Ghiberti, anche se lo stato
di conservazione non permette di giudicare se furono effettivamente dipinti dall'Angelico o da un collaboratore.

San Pietro che detta il Vangelo a san Marco (sinistra): Il primo pannello della predella mostra San Pietro che detta il Vangelo a san Marco. Vi si vede il primo
apostolo che da un pulpito ligneo a base esagonale predica alla folla mentre a sinistra san Marco seduto sta scrivendo, con l 'aiuto di un novizio inginocchiato che
gli regge il calamaio. Partecipano alla scena numerosi personaggi abbigliati secondo la moda dell'epoca, mentre lo sfondo è composto da una serie di edifici in
prospettiva, che ricordano, più o meno fedelmente, scorci dell'architettura fiorentina dipinti con notevole rifinizione (il c ampanile della Badia, palazzo Vecchio, ecc.).
La forma della figura di san Pietro e la composizione con i personaggi di profilo e di spalle ricordano alcuni affreschi dell a Cappella Brancacci, in particolare la
Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra di Masaccio. La profondità spaziale è maggiore che in scene dipinte precedentemente.
Adorazione dei Magi (centrale): Il pannello centrale presenta un'innovativa Adorazione dei Magi, dove al posto del tradizionale corteo disposto orizzontalmente
come un fregio (come nell'Annunciazione di Cortona) si trova una composizione di tipo circolare. La Vergine col Bambino è sem pre seduta sulla destra a ricevere
l'omaggio di due Magi, mentre il resto del corteo è disposto su una fila parallela in secondo piano, con il terzo magio occup ato a parlare con san Giuseppe. Nella
testa del giovane tra i due cavalli, dipinta con una tecnica pointillista, si è voluta riconoscere la mano del giovane Piero della Francesca.

Martirio di san Marco (destra): La terza scena mostra il Martirio di san Marco: il corpo del santo, trascinato per le via di Alessandria, viene colto da una
grandinata prodigiosa che mette in fuga gli aguizzini. La parte destra è occupata dalla rappresentazione della tempesta dalla quale fuggono concitatamente i
personaggi, con azioni eloquenti che nell'opera dell'artista si ritrovano solo nelle scene della Vita dei santi Cosma e Damiano della pala di San Marco. La
rappresentazione atmosferica della tempesta richiama il Miracolo della Neve del Sassetta a Siena, ma non trova riscontro nell a pittura fiorentina.

1438-43 Pala San Marco


Serie di dipinti, tecniche a tempera su tavola, smembrata nelle sue parti, si trova in diversi
Musei. Il grande complesso pittorico fu realizzato per la chiesa conventuale di San Marco a
Firenze e destinato alla decorazione dell’altar maggiore dedicato a San Cosma e San Damiano.
La predella venne divisa in più parti, ed al Museo di san Marco rimangono soltanto due delle
nove raffigurazioni sparse per i vari musei nel mondo.
Davanti alla Vergine si trovano infine inginocchiati i santi Cosma e Damiano, una posizione
innovativa che venne poi spesso copiata. San Cosma in particolare, patrono di "Cosimo" il
vecchio, è girato verso lo spettatore e se un pittore di qualche decennio dopo vi avrebbe inserito
magari il ritratto del committente nelle sue fattezze, l'Angelico dovette simboleggiare con la sua
posa che sembra fare da tramite tra la divinità e lo spettatore, l'atteggiamento di Cosimo de'
Medici e del suo mecenatismo. Le varie figure sono scalate con consapevolezza in profondità.
Al centro in basso si trova un quadro nel quadro, una piccola rappresentazione
della Crocifissione che sormontava, originariamente, il pannello centrale della predella con
la Pietà. Questa rappresentazione, senza precedenti noti, chiude il significato religioso dell'intera
pala offrendo un ulteriore spunto di riflessione religiosa e accorda le implicazioni sentimentali dei
protagonisti del pannello centrale.
Innovativa è la rappresentazione del tappeto anatolico in primo piano, che evidenzia la
complessa impostazione prospettica ed è simbolo di prestigio e ricchezza. Prima dell'Angelico
un elemento del genere era stato usato solo dai maestri fiamminghi. Anche lo sfondo è
altamente originale e venne in seguito copiato molto spesso, con la cortina oltre la quale
spuntano cipressi, cedri e altri alberi, tra cui una simbolica palma, che allude al sacrificio di
Cristo. Questo tipo di fondale viene da alcuni attribuito a un'idea di Masaccio presente in un
affresco della Cappella Brancacci, ma altri lo escludono, assegnando tale elemento all'intervento
riparatore della fine del Quattrocento di Filippino Lippi. Gli artifici prospettici sono ben tarati, ma
meno ostentati che nelle opere coeve di Filippo Lippi (Incoronazione della Vergine e Pala
Barbadori). Della luce che addolciva e unificava gli elementi oggi non resta altro che qualche
scarso indizio.
Infine l'ultimo elemento di grande novità dell'opera è rappresentato dalla forte emotività dei
protagonisti, spesso dotati di un pathos fino ad allora assente nelle pale d'altare rinascimentali.

1438–46 Convento di san Marco affreschi (Cristo Deriso, annunciazione)


Maria è seduta su di un semplice sgabello a tre gambe con le mani incrociate sul
grembo. La Vergine è rivolta a sinistra verso l’Arcangelo Gabriele che le porta il
messaggio divino del suo concepimento. Indossa un abito chiaro e un mantello blu.
Dietro al suo capo è dipinta una aureola circolare e dorata. L’Arcangelo Gabriele invece
è inginocchiato a sinistra ed è rivolto verso la Vergine. Indossa una lunga tunica. I suoi
capelli biondi ricadono a ricci sul collo e le ali multicolore sono disposte dietro la
schiena verso l’alto. Anche Gabriele porta una aureola circolare.
I due personaggi sacri si trovano al riparo di un loggiato coperto da archi a tutto sesto
sorretto da colonne in stile corinzio. La parete di fondo è interrotta da una apertura che
conduce in una stanza che pare vuota. Al suo interno si nota una piccola finestra con
inferriate a croce che dà sulla vegetazione esterna. A sinistra si sviluppa un hortus
conclusus protetto da uno steccato che lo divide dal bosco di cipressi e altri alberi.
Il realismo con il quale Beato Angelico dipinse le figure Nell’affresco Annunciazione, Beato Angelico dispone secondo la tradizione l’arcangelo
nell’affresco Annunciazione nel convento di San Marco a Firenze è Gabriele a sinistra e Maria a destra come farà anche Leonardo nel suo dipinto.
diverso da quello di Masaccio e di Donatello. Il chiaroscuro, è L’arcangelo come nelle rappresentazioni medievali e fiamminghe possiede ali molto
presente seppur moderato. Le fisionomie, i gesti e le espressioni colorate che ricordano quelle di una farfalla seppur la forma sia quella di ali d’uccello. A
sono però idealizzati per raccontare la realtà soprannaturale e sinistra del loggiato è rappresentato un hortus conclusus (orto protetto) che simboleggia
divina. Il maestro volle così ambientare le storie religiose la verginità di Maria. L’Arcangelo Gabriele dispone le sue braccia nella stessa posizione
raffigurando personaggi e ambienti che esprimessero bellezza e della Vergine.
perfezione. L’affresco offre l’esperienza di una vera visione,
sicuramente più potente ai tempi della sua esecuzione, che La superficie dell’affresco Annunciazione di Beato Angelico è scandita ordinatamente
compare improvvisamente nel corridoio del convento. dalle tre colonne dipinte sul fronte pittorico. Si determinano quindi due ambienti che
Nell’affresco Annunciazione di Beato Angelico l’illuminazione ospitano rispettivamente a sinistra l’arcangelo Gabriele e a destra Maria. In realtà la
proviene da sinistra e coincide con la finestra che illumina la stanza composizione si può suddividere strutturalmente in tre settori. A destra lo spazio
nella quale fu dipinta. In questo modo lo spazio virtuale dell’opera e frontale che ospita Maria, al centro la loggia in prospettiva e fortemente scorciata con
lo spazio fisico vengono collegati e l’osservatore sperimenta un l’Arcangelo. A sinistra invece l’orto (hortus conclusus) esterno alla loggia protetto da
maggior coinvolgimento. Lo stesso espediente fu utilizzato da uno steccato.
Leonardo dipingendo il Cenacolo. Nel dipinto furono utilizzati La colonna centrale determina una simmetria nell’opera perché dipinta in prossimità
pigmenti preziosi quali azzurrite e oro. della verticale. Si crea una progressione di ambienti, dal più statico e frontale della
Vergine, al più libero ed espanso del bosco. Questa progressione crea una curva
compositiva che porta lo sguardo dal primo piano allo sfondo con un movimento
accelerato. Questo movimento è creato dalla progressiva riduzione di grandezza degli
spazi dipinti. Una novità compositiva è rappresentata dalla disposizione diagonale delle
figure dell’Arcangelo Gabriele e di Maria. Questo espediente offre una maggiore
profondità dello spazio in primo piano.
1440 affreschi convento San Marco

Serie di dipinti autografi di Beato Angelico, realizzati con tecnica ad affresco su muro e sono custoditi
nel Museo Nazionale di San Marco a Firenze.Gli affreschi furono affidati a Beato Angelico – indicato da
autorevoli fonti – che iniziò quasi subito e pressoché parallelamente ai lavori di Michelozzo, decorando
le stanze che via via venivano strutturalmente trasformate.
L’Angelico vi lavorò con costanza fino al 1446-47, periodo in cui partì per Roma. Secondo alcuni
studiosi, tra i quali la Ciaranfi e Pope-Hennessy, l’artista si riattivò alla decorazione del convento anche
più tardi, al ritorno dal soggiorno romano. Questo farebbe presupporre, quindi, un periodo di
partecipazione ancora più ampio (1438 – 1446/50).
Per quanto riguarda la cronologia dei dipinti, tutti gli studiosi di storia dell’arte convergono sul fatto che
sia difficile stabilirne una precisa successione nella realizzazione delle singole composizioni, dal
momento che queste riportano episodi tra essi non collegabili.
Le celle, le cui raffigurazioni sono a tratte dal Vangelo, si trovano al primo piano, nei tre lati del chiostro
di Sant’Antonino.
Per quanto riguarda l’autografia dell’Angelico, questa è stata oggetto di accesi dibattiti nel corso dei
secoli, e molti studiosi misero in dubbio addirittura la poderosa entità degli interventi di collaborazione
dell’artista, e non soltanto la completa attribuzione.
In queste pagine analizzeremo soltanto sei affreschi che riportano all’Angelico, di cui, tre autografi (San
Domenico adorante, la Trasfigurazione, Cristo deriso), due prevalentemente attribuiti (Noli me tangere e
l’Annunciazione) ed uno realizzato con collaboratori (Natività).

1447 Cappella Nicolina nel Palazzo Apostolico Vaticano (Santo Stefano Condotto Al
Martirio e Lapidazione) Pianta rettangolare, tre pareti, decorate ciascuna nel registro superiore da un grande
lunettone con un affresco unico composto da due Storie di santo Stefano; il registro mediano
è invece composto da due scene separate per parete con Storie di san Lorenzo, tranne la
parete sinistra, con le finestre, che contiene una sola storia; il registro inferiore, dove si
aprono alcune porte, è infine decorato da una finta tappezzeria verde, oggi in larga parte
ridipinta successivamente con una predominanza di colori rosso e oro.
Le pareti sono di dimensioni uguali, ma l'arcone di entrata e quello che incornicia la parete
centrale hanno uno spessore voltato a botte che dà origine alla forma rettangolare del
pavimento; qui si trovano affrescati a grandezza naturale otto Padri della Chiesa sotto
nicchioni architettonici dipinti (Tommaso d'Aquino, Ambrogio, Agostino e
Bonaventura/Girolamo), mentre nel sott'arco sotto l'altare si trovano i santi Atanasio, Leone
Magno, Gregorio Magno e Giovanni Crisostomo. Negli sguanci delle finestre sono inseriti
rosoni e medaglioni con santi, di mano di aiuti. Nella volta infine si trovano i quattro
Gli affreschi della Cappella Niccolina sono caratterizzati da Evangelisti, seduti su nubi su sfondo azzurro stellato. Il Vasari descrive anche come
figure solide, gesti pacati e solenni, e un tono generale più sull'altare si trovasse una pala con la Deposizione, ma non si hanno tracce di quest'opera
aulico dell'abituale sinteticità meditativa dell'artista. Essi sono oltre la sua menzione.
profondamente diversi da quelli del convento di San Marco a
Firenze (1440-1445 circa), per via della ricchezza di dettagli, di La prima scena della Consacrazione di santo Stefano si svolge in una basilica scoperchiata,
citazioni colte e di motivi più vari ispirati a principi di ricchezza, dalla nitida architettura che lega elementi paleocristiani (le colonne con architrave della
complessità compositiva e varietà. navata centrale) con elementi gotici (il transetto con le volte a crociera), sapientemente
Come è stato acutamente fatto notare da studiosi come Pope- illuminata da sinistra verso destra: evidente è il carattere romano dell'architettura, che
Hennessy, le differenze non sono però da imputare a uno dimostra l'avvenuta assimilazione delle caratteristiche locali da parte del pittore fiorentino. Il
sviluppo nello stile dell'autore, quanto piuttosto alla diversa disegno delle lastre del paivimento indica gli assi della scena. Al centro della scena santo
destinazione della decorazione: in San Marco gli affreschi Stefano è inginocchiato mentre san Pietro, in piedi davanti all'altare con ciborio (un altro
dovevano accompagnare ed aiutare la meditazione dei elemento tipico delle basiliche romane), gli sta consegnando la pisside e la patena durante la
monaci, mentre in Vaticano essi dovevano celebrare la consacrazione come diacono. La figura curva di san Pietro e quella di santo Stefano sono
potenza e la vastità degli orizzonti intellettuali del papato, isolate in primo piano, mentre dietro di loro otto apostoli assistono alla scena, con pose
nell'impresa di rinnovare i fasti dell'antica Roma dopo il elganti e sciolte che ricordano altre opere dell'Angelico come la Pala di Annalena.
disastroso abbandono della città durante la cattività Il lato destro mostra invece la Distribuzione delle elemosine, ambientata sul sagrato della
avignonese. stessa chiesa, che vede santo Stefano mentre dà, attingendo a una bisaccia, alcune monete
Lo stile della cappella Niccolina sembra dopotutto agli astanti, tra cui una donna e un bambino con la mano tesa. Tra i personaggi si vedono un
preannunciarsi nelle vivaci narrazioni della predella della Pala frate che controlla la lista delle elemosine, un uomo che prega, un povero pellegrino che
di San Marco (1440-1443 circa) o in altre opere anteriori, accorre (tipico è il bastone - detto bordone - e il cappello a falde larghe) ed altri personaggi
magari predelle o opere minori, dove l'artista aveva potuto (un artigiano, una donna con un paniere) che se ne vanno dopo aver ricevuto l'aiuto. Sullo
dare un più libero sfogo al proprio estro creativo. sfondo si vede una via scorciata verso l'ipotetico punto di fuga centrale della lunetta, dove si
affaccia un giardino murato e varie abitazioni, mentre in alto si levano suggestive torri e
campanili. La scena in una via esterna ricorda l'importazione di alcune opere dell'Angelico
immediatamente precedenti al viaggio a Roma, come la Sepoltura dei santi Cosma e
Damiano, dalla predella della Pala di San Marco.

L'affresco Santo Stefano riceve il diaconato e distribuisce le elemosine occupa la lunetta della parete di sinistra e da qui iniziano le Storie di santo Stefano. Beato
Angelico lavorò alla Cappella Niccolina durante il suo soggiorno romano tra il 1445 e il 1450. I primi documenti che attestano gli affreschi sono datati tra il 9
maggio e il 1 giugno 1447, durante il pontificato di Niccolò V, ma è possibile che fossero già stati avviati nei due anni precedenti, sotto Eugenio IV. Gli affreschi di
quella che era la cappella privata del papa dovevano essere terminati, dopo una pausa nell'estate 1447 quando il pittore si r ecò a Orvieto, entro la fine del 1448. Il
1 gennaio 1449 l'Angelico riceveva infatti la commissione per un nuovo lavoro.
La lunette del registro superiore sono divise in due episodi tramite l'espediente di un muro di separazione verticale al centro, ma l'ambientazione generale è la
medesima. In questa doppia scena ad esempio sia la piattaforma rialzata delle chiesa (a sinistra) e del suo sagrato (a destra), sia il cielo sono in comune. La
lunetta ha una precisa corrispondenza con le scene delle Storie di san Lorenzo del registro inferiore, in particolare la Cons acrazione di san Lorenzo come
diacono, sotto questa lunetta, e San Lorenzo distribuisce le elemosine nella parete successiva.
Michelozzo di Bartolomeo Commissionato da Cosimo il Vecchio all’architetto Michelozzo (Michelozzo di
Bartolomeo Michelozzi) negli anni Quaranta del Quattrocento, per dare una degna
1444 - 1460 Palazzo Medici residenza alla Casata dei Medici, ai tempi potente famiglia di Firenze.
L’edificio concepito da Michelozzo, considerato uno dei capolavori dell’architettura
rinascimentale, è una costruzione imponente ed austera, di forma pressoché cubica, il
cui stile avrebbe profondamente influenzato quello di molti edifici successivi, tra cui
Palazzo Strozzi, realizzato circa quarant’anni più tardi.
Va detto che l’attuale Palazzo Medici Riccardi è molto più grande dell’edificio
progettato da Michelozzo, dato che esso venne notevolmente ampliato nel Seicento,
pur mantenendo lo stile originario.
Le facciate meridionale e occidentale del palazzo sono caratterizzate da un
rivestimento a bugnato -molto marcato nella prima fascia, poi via via più leggero – e da
due ordini di bifore, una combinazione che diventerà in seguito una sorta di “marchio di
fabbrica” di molti palazzi della Firenze rinascimentale.
L’aspetto esterno austero contrasta con le forme più delicate del cortile, circondato su
tutti i lati da un portico con colonne di ordine composito; sotto il porticato è collocata la
scultura cinquecentesca Orfeo di Baccio Bandinelli. Un piccolo giardino si trova poi sul
retro del palazzo.
Alla metà del Seicento, l’edificio fu venduto alla famiglia Riccardi, una dinastia di
abbienti banchieri che ristrutturarono ed ampliarono il palazzo raddoppiandone la
Leon Battista Alberti facciata ed aggiungendo nuovi interni in stile Barocco, riccamente decorati.

1453 Palazzo Rucellai Leon Battista Alberti progettò Palazzo Rucellai a Firenze, e ne affidò la realizzazione a Bernardo
Rossellino. Venne ispirato da una recente attività di Brunelleschi che gli diede l’idea
di sperimentare l’architettura dell’antica Roma nell’edilizia fiorentina di quel tempo. Adattò gli schemi
monumentali classici agli edifici già presenti in quell’epoca e ci riuscì grazie all’incarico datogli
da Giovanni di Paolo Rucellai, un ricco mercante fiorentino. Lo incaricò di costruire una nuova
residenza in uno dei quartieri più antichi di Firenze. L’artista così dovette adattare il suo progetto
originario in uni spazio assai più ristretto ed irregolare, delimitato da caseggiati in stile medievale.
Questo ostacolo però rafforzò la sua fantasia compositiva, elaborò
infatti soluzioni architettoniche brillanti ed efficaci, che lasciarono un segno profondo nell’architettura e
nell’urbanistica dell’epoca, sfruttando ogni centimetro della superficie assegnatagli.
Elementi tipici dello stile classico romano come archi, bassorilievi e pilastri furono replicati in dimensioni
minori nella facciata dell’edificio, dando una solida impressione di forza ma allo stesso tempo, l’ossatura
interna dell’edificio veniva delicatamente avvolta intorno ad un cortile circondato da logge e porticati,
offrendo uno spettacolo di quiete silenziosa ai suoi abitanti. Il complesso raccoglieva maestosità ed
esclusività in una sola immagine. L’architettura classica diventava così parte integrante dell’edilizia
privata.
La facciata di Palazzo Rucellai è suddivisa da un reticolo geometrico regolare, e nel suo interno si
inseriscono le bifore che hanno in rilievo lo stemma della famiglia Rucellai, fregi e blasoni.
Questo reticolo è definito orizzontalmente dalle cornici marcapiano, cioè da cornici che evidenziano i piani
del palazzo, e verticalmente da lesene. Quest’ultime si concludono con capitelli raffiguranti i tre ordini
classici, ovvero dorico, ionico e corinzio.

1470 facciata di Santa Maria Novella


Fra il 1439 e il 1442 la famiglia fiorentina dei Rucellai gli commissionò il completamento
della facciata di Santa Maria Novella, che tuttavia fu iniziato solo nel 1458.La facciata della
vecchia chiesa gotica era rimasta incompiuta nel XIV secolo; Alberti quindi dovette conciliare il
suo progetto con la preesistenza della parte inferiore, già occupata da nicchie-sepolcro e in parte
rivestita a tarsie marmoree bianche e verdi, secondo la tradizione romanico-gotica fiorentina.
Anche i tre portali e l’ampio rosone circolare erano già stati aperti e dimensionati; l’aspetto della
facciata era infine condizionato dai livelli delle navate retrostanti.
La facciata di Santa Maria Novella, secondo il progetto albertiano, presenta una soluzione
innovativa. Ordini architettonici classici sono posti su un doppio livello e il prospetto si conclude
con un frontone triangolare, alla maniera di un tempio greco.
Due grandi volute laterali nascondono le pendenze delle navate minori. L’uso delle tarsie
marmoree, l’impostazione rigorosamente bidimensionale, la risoluzione di tutti i problemi
attraverso il disegno sono componenti già tipiche del linguaggio architettonico medievale
fiorentino; la facciata di Santa Maria Novella, erede legittima della Basilica di San Miniato e
del Battistero, si poneva dunque come un tipico esempio di modernità rispettosa della tradizione.
Le colonne e le lesene da lui disegnate per la facciata appaiono, per esempio, piuttosto “snelle”,
perché allungate rispetto al diametro di base; l’alto attico, posto a separare la parte inferiore
gotica da quella superiore classicistica, è certamente un elemento inedito, ovvio e geniale
insieme, necessario per bilanciare l’eccessivo verticalismo della decorazione gotica e per ordinare
più correttamente quel prospetto da tempietto tetrastilo (con quattro colonne in facciata)
impostato in alto. Il portale centrale è la forma classicisticamente più corretta dell’intera
architettura e si attiene a un modello desunto dal Pantheon.
Paolo Uccello
1436 Monumento a Giovanni Acuto
Giovanni Acuto è seduto in sella al suo cavallo che procede verso destra. Il condottiero tiene in mano
un bastone che simboleggia il comando. Giovanni Acuto indossa un’armatura riservata alle uscite
ufficiali. L’animale inoltre è bardato con finimenti da parata, briglie e sella di epoca rinascimentale.
Il Sarcofago che fa da base al monumento equestre presenta una scritta sulla parte superiore:
«IOANNES ACVTVS EQVES BRITANNICVS DVX AETATIS SVAE CAVTISSIMUS ET REI MILITARIS
PERITISSIMVS HABITVS EST». Sotto invece si legge la firma dell’artista: «PAVLI VGIELLI OPVS».
La figura di Giovanni Acuto è ispirata alla statua di epoca romana che ritrae l’imperatore Marco Aurelio
a Roma. Questo monumento fu infatti la principale fonte iconografica delle statue equestri del
Rinascimento. In seguito Donatello con il Monumento al Gattamelata e Andrea del Verrocchio grazie
all’utilizzo di tecniche appropriate stabilirono nuovi canoni rappresentativi.
Il cavallo dipinto da Paolo Uccello avanza con un passo che in ambito sportivo si indica ambio. Questo
tipo di andatura prevede il sollevamento degli arti dello stesso lato del corpo. Diversamente, nel trotto
l’animale solleva gli zoccolo diagonalmente, quindi alternando gli arti dei due lati del corpo.
La superficie pittorica, dipinta a tempera su tavola, risulta levigata e i colori sono fusi a formare un
continuo morbido e sfumato. La tecnica usata da Paolo Uccello è quella della tempera a tuorlo d’uovo
integrata con parti oleose per creare maggiori dettagli. Le figure sono disegnate in modo sicuro e
sintetiche nella loro semplificazione formale. Sul dipinto agisce una rigorosa costruzione prospettica
dello spazio. Inoltre tutte le figure sono disposte attentamente per ottenere un massimo effetto
prospettico. Infine la semplificazione delle forme e il rigoroso controllo prospettico rendono, al nostro
sguardo, le figure rigide e l’ambiente irreale e fantastico. In generale compaiono alcuni elementi tipici
del Gotico Internazionale.
I colori utilizzati da Paolo Uccello per il pannello Niccolò da Tolentino alla testa della cavalleria
fiorentina sono particolarmente brillanti. Oltre a pigmenti tradizionali l’artista utilizzò infatti delle
lacche. Tali colori sono trasparenti e si stendono per velatura sopra alla pittura e rendono quasi vetrose
le tinte. Inoltre applicò delle lamine d’argento per simulare il metallo delle armature.
I cavalli, come già nel pannello dal titolo, sono trattati come una superficie solida e semitrasparente. Gli
animali assumono quindi toni di rosa, giallo e azzurro e diventano quasi fiabeschi. Il loro corpo sembra
costruito con materiali artificiali e pare emettere direttamente una luce interna. L’illuminazione è
diffusa e cristallina. Non si individua chiaramente la fonte solare e la scena pare illuminata
artificialmente come un plastico in ambiente chiuso.

Nel dipinto di Paolo Uccello intitolato Niccolò da Tolentino alla testa della cavalleria fiorentina la prospettiva geometrica è usata per organizzare il dipinto.
L’artista infatti creò una scena sulla quale la prospettiva agisce nei confronti di cavalli e cavalieri. Anche le armi, in mano ai soldati oppure a terra, sono
sottoposte ad un rigoroso controllo prospettico. Pare inoltre che la scena rappresentata sia solo un pretesto per realizzare un teatro prospettico ideale. Se si
osservano attentamente le lance spezzate a terra si nota che i pezzi creano una griglia prospettica.
Questa disposizione regolare dei frammenti ordina e misura lo spazio come avviene per un pavimento piastrellato. Inoltre il loro orientamento disposto in
corrispondenza delle linee di fuga permette di percepire una progressione di profondità. L’effetto di questa esercitazione prospettica non tiene conto di
eventuali aggiustamenti. Infatti il soldato disteso a terra, a sinistra, pur essendo in primo piano, pare molto più piccolo di quelli a cavallo. Anche gli altri tre
pannelli che illustrano La Battaglia di San Romano furono concepiti con la stessa intenzione.
Il formato dell’opera Niccolò da Tolentino alla testa della cavalleria fiorentina è panoramico. La scena si svolge quindi nella dimensione orizzontale che
permette di rappresentare diversi personaggi. I due eserciti si affrontano al centro e sono schierati a destra, quello fiorentino e a sinistra quello senese.
Nonostante l’articolazione schematica dello spazio Paolo Uccello utilizzò diversi punti di vista che rendono l’immagine irreale.
Il dipinto si può suddividere in due metà orizzontali sovrapposte. In basso il condottiero fiorentino che affronta l’esercito senese. In alto sono rappresentate
alcune scene di caccia che si svolgono nelle campagne. L’orizzonte non è visibile e la scena pare osservata da una posizione alta che permette una
rappresentazione simile ad una mappa. Questo effetto si realizza nel secondo piano che risulta descritto con un punto di vista diverso rispetto al primo
piano. Le lance dei soldati di Firenze, a sinistra, creano una scansione regolare dello spazio. Sono infatti allineate su oblique parallele.
1438–40 Battaglie di San Romano
Niccolò da Tolentino, che indossa un elaborato cappello, guida l’assalto dei soldati
fiorentini contro le truppe di Siena. Il condottiero avanza e ordina l’attacco su di un
cavallo bianco bardato con finimenti preziosi. Dietro di lui i trombettieri trasmettono
l’ordine suonando i loro lunghi strumenti. Un araldo avanza sventolando un grande
stendardo. L’esercito di Firenze giunge intanto da sinistra per cogliere di sorpresa i
senesi. Sul terreno sono caduti pezzi di lance, armi e armature. Un soldato è a terra
disteso sotto gli zoccoli dei soldati di Firenze. Le armature che vengono raffigurate erano
utilizzate nei tornei cavallereschi. Una siepe con fiori divide la scena dal paesaggio della
campagna toscana dove giovani nobili cacciano armati di balestra e giavellotto. Si notano
anche, verso l’alto, i due cavalieri che corsero ad avvisare il capitano Michele Attendolo
che determinerà la vittoria. I cavalieri in rosso e argento sono fiorentini mentre quelli
senesi portano i colori nero e argento.
La tavola intitolata Niccolò da Tolentino alla testa della cavalleria fiorentina fa parte di
un trittico che narra le fasi della Battaglia di San Romano del 1432. Durante il
combattimento i fiorentini guidati da Niccolò da Tolentino sconfissero i senesi. Il dipinto
è uno dei primi esempi di opera che documenta un avvenimento storico. La tavola è
quella delle tre più danneggiata, soprattutto nella parte bassa nella quale emerge la
preparazione del fondo. Venne inoltre tagliata nella parte arcuata per adattarla alla
nuova sede dopo l’acquisto da parte di Lorenzo il Magnifico.
1447–48 Diluvio Universale e recessione acque, ciclo nel Chiostro Verde di Santa Maria
Novella

L’opera è parte della serie di affreschi con Storie della Genesi che decorano il lato nord del
Chiostro Verde, tutti realizzati a monocromo con un pigmento a base di terra verdastra, da
cui deriva il nome del luogo. La particolarità del dipinto, diviso in due scene, è costituita dal
doppio punto di fuga prospettico che conferisce un tono irreale alla composizione. I
personaggi che tentano di salire sull’arca sono vertiginosamente scorciati verso il fondo,
come i cadaveri allineati di fronte a Noè in primo piano.
Gli affreschi furono pesantemente danneggiati dall’alluvione del 1966. Furono restaurati
attraverso il distacco dell’intonaco superficiale che venne trasferito su tela, per poi essere
ricollocato nella posizione d’origine

1460 San Giorgio e la principessa


L'opera ritrae il cavaliere san Giorgio mentre dall'alto del suo cavallo sta trafiggendo lo
spaventoso drago. Secondo il racconto della Legenda Aurea, san Giorgio, dopo averlo
ferito, invita la principessa a legarlo senza timore con la sua cintura perché la segua in
città "come una mansuetissima cagna", dove verrà poi ucciso dal santo per convertirne la
popolazione al cristianesimo. San Giorgio è l'emblema della ragione che trionfa sulla
bestialità e della fede che vince il male.
Lo sfondo è composto dalla grotta dove il drago ha il suo antro e di un sereno paesaggio
con un turbine di nuvole sopra San Giorgio, a simboleggiare il suo vigore guerriero. Il
ciclone dietro san Giorgio è composto da un vortice di nubi, che sembra anticipare gli
studi dal vero di Leonardo da Vinci. Il suolo è composto da siepi quadrangolari disegnate
secondo le regole della prospettiva lineare centrica, della quale Paolo Uccello fu uno dei
primi maestri.
Nonostante la rigorosità della costruzione, la disposizione dei protagonisti non dà un'idea
convincente di profondità, essendo semplicemente giustapposti allo sfondo, tanto che
non proiettano nemmeno le ombre in terra. La principessa poi, così longilinea, composta
e aristocratica, sembra presa dalla cultura tardogotica, facendo di questa tela un'opera di
transizione tra il Rinascimento e la cultura gotica, dove sono presenti alcuni elementi
innovativi ma ne mancano altri. Non mancano infatti accenni fiabeschi o paradossali,
come lo stravagante drago o la sottilissima lancia, che nella realtà sarebbe estremamente
fragile.
Di Paolo Uccello esiste anche un'altra tavola con San Giorgio e il drago di dimensioni
simili (52×90 cm), conservata nel Museo Jacquemart-André di Parigi. Datata a un periodo
leggermente successivo, presenta alcuni accorgimenti come un accenno di ombra al
suolo, mentre la resa delle figure è più schematica. Una terza tavola, anteriore alle altre
due, si trova alla National Gallery of Victoria di Melbourne.
Filippo Lippi
1436 Ritratto di donna con uomo al davanzale

Primo esempio in Italia di ritratto femminile, assieme al Ritratto di principessa estense di Pisanello,
databile al 1435-1449 circa, mentre è il più antico doppio ritratto conosciuto in assoluto. Inoltre si
tratta del primo dipinto in Europa dove il ritratto è inserito in uno sfondo architettonico e con un
paesaggio, ispirato agli esempi dei Primitivi fiamminghi, che spesso Lippi usò come fonte d'ispirazione.
Il motivo della finestra che si apre su un paesaggio visto a volo d'uccello è infatti tipicamente nordico, e
in questo caso Lippi creò una banchina affacciata su un canale, decorata da fioriere e su cui si
affacciano alcune abitazioni.
La protagonista è ritratta di profilo, riccamente abbigliata alla maniera francese e ingioiellata, con un
alto copricapo caratterizzato da un doppio lembo di tessuto scarlatto ricadente sulle spalle ("infulae").
Essa guarda avanti verso un'apertura, da dove si affaccia un giovane che le sta davanti. I loro sguardi
sono alteri e composti e sembrano non incontrarsi. Dietro la donna si trova una finestra aperta da cui si
intravede un paesaggio campestre.
Domenico Veneziano
1440 Ritratto di Matteo Oliveri

1445–47 Pala di Santa Lucia de Magnoli (predella: Battista nel Deserto, miracolo di san
Zanobi)
Maria in Maestà è seduta al centro della tavola con in braccio Gesù Bambino. Ai lati, in piedi, vi sono
invece quattro Santi, due a sinistra e due a destra. La Vergine indossa un abito pieghettato di colore rosa
stretto in vita e porta un ampio mantello blu. Con la mano destra poi sostiene il Bambino in piedi sulla sua
gamba.
A partire da sinistra San Francesco indossa un saio. Osserva in basso e tiene un libretto rosso in mano. San
Giovanni Battista alla sua destra invece indica la Vergine al centro. Con la mano sinistra inoltre regge la
croce astile che lo contraddistingue. A destra di Maria San Zanobi ha la mano destra alzata in segno di
benedizione. Infine Santa Lucia, dipinta di profilo, sorregge un piattino e una penna. L’ambiente nel quale
si svolge la scena è una architettura gotica in marmo policromo. Frontalmente tre archetti a sesto acuto
incorniciano i personaggi della scena. Sul gradino inferiore infine è presente la scritta: OPVS DOMINICI DE
VENETIIS HO[C] MATER DEI MISERERE MEI DATVM EST.
Si tratta di una Sacra Conversazione con la Maestà della Madonna. I Santi sono, a partire da Sinistra, San
Francesco, San Giovanni Battista, San Zanobi e Santa Lucia alla quale è dedicata la chiesa dove si trovava la
Pala.

Domenico Veneziano non si limitò ad applicare le regole prospettiche per ottenere una rappresentazione convincente, secondo le tecniche a lui contemporanee. Ne dà infatti
una propria interpretazione cogliendo influssi da altri artisti. Così la monumentalità dei personaggi, solidi nel volume e dalle posizioni composte, deriva dalle ricerche del
Masaccio. Il San Giovanni Battista poi ricorda lo stile di Andrea del Castagno. Infine le vesti sono modellate morbidamente e senza chiaroscuri profondi, sugger endo uno spazio
mentale più che solido.
La Pala di Santa Lucia de’ Magnoli è una tempera su tavola. Tale tecnica fu utilizzata ancora per tutto il Quattrocento dalla maggior parte degli artisti. A par tire dagli ultimi
decenni del secolo invece Antonello da Messina e pochi pittori introdussero l’olio come legante per superfici più elastiche e resistenti. Inoltre attraverso sottili velatur e
trasparenti fu possibile creare immagini più dettagliate e brillanti. I colori, chiari e ben armonizzati tra loro sembrano quelli dei dipinti di Beato Angelico. Colori caldi e colori
freddi poi sono distribuiti in modo molto equilibrato e formano un insieme armonico nel quale non prevale un’unica atmosfera cromatica. Inoltre, la luce è naturale e proviene
dall’alto, filtrando dallo spazio aperto sopra le architetture. È una luce serena che illumina in modo diffuso personaggi e particolari architettonici senza creare forti chiaroscuri.
Lo spazio è chiaramente leggibile e geometrico, costruito sapientemente utilizzando la prospettiva. Il punto di vista dell’os servatore si trova all’altezza del piano sul quale poggia
il trono della Vergine. Sono però tre i punti di fuga verso i quali corrono le linee di fuga. Tre aranci si affacciano oltre la loggia contro il cielo blu. La composizione della Pala di
Santa Lucia de’ Magnoli si articola intorno ad un asse centrale che separa le due parti, sinistra e destra che si riflettono in modo simmetrico. Le architetture poi rispettano questa
simmetria come anche la disposizione dei personaggi, due per lato.
Gli archetti che chiudono, in alto gli spazi, sono a sesto acuto e in numero di tre, uno centrale che scandisce lo spazio riservato alla Madonna e al Bambino, due laterali che
incorniciano i Santi. La Pala presenta un ambiente strutturato su tre volumi. Questo artificio permette quindi di percepire un ambiente unico ma tradizionalmente suddiviso in
scomparti. Si tratta così di un espediente per suggerire un nuovo modello. L’opera, infatti, rappresenta un primo esempio di Pala d’altare privo di s comparti e di fondo in oro.
Tali caratteristiche appartenevano infatti alla tradizione iconografica medievale.

Predella: La tavoletta mostra un'iconografia unica delle storie di san Giovanni Battista, cioè il momento
in cui abbandona le proprie eleganti vesti civili per indossare quelle da eremita, fatte di pelli e peli di
cammello, per incamminarsi lungo la via dell'ascetismo. Forse Domenico si ispirò a una scena dei
perduti affreschi di Pisanello e Gentile da Fabriano nella basilica del Laterano. L'opera è soprattutto
straordinaria per l'ambientazione montana, realizzata in maniera del tutto innovativa, con le rocce
appuntite composte come "prismi di luce" dai colori tenui e accesi. Si tratta di un'evoluzione del
paesaggio rispetto alle tradizionali rocce scheggiate della tradizione bizantina e poi gotica (delle quali
conserva comunque l'evidenza delle asperità), aggiornata alle nuove iconografie paesistiche
di Masaccio nella Cappella Brancacci (Pagamento del tributo, Predica di san Pietro).
Amorevole è la cura dei dettagli, dagli arbusti ai sassolini del sentiero, rivelatori di un gusto di
transizione tra tardo gotico e rinascimento, come dimostra anche una certa assenza di precisa
collocazione spaziale della figura del santo, che non proietta ombre. Più originale è invece il nudo del
protagonista, chiaramente ispirato alla statuaria antica e legato a una reinterpretazione cristiana del
mito di Ercole al bivio, allora molto in voga. Il cielo inoltre non è più l'astratto fondo oro dei pittori
precedenti, ma è un naturale colore azzurro venato di nubi e che si schiarisce verso l'orizzonte.
Straordinaria è infine, per gli anni quaranta del Quattrocento, la presenza di montagne sfumate in
lontananza dalla foschia, tra primi esempi a Firenze di prospettiva aerea.
Piero della Francesca La più famosa e celebrata tra le sue opere giovanili. Realizzata per l’Abbazia camaldolese di Sansepolcro, città
1440 Battesimo di Cristo natale dell’artista, costituiva la parte centrale di un polittico, destinato probabilmente all’altar maggiore,
completato, per le restanti parti, dal pittore Matteo di Giovanni. L’episodio del battesimo di Gesù, cui l’artista
fa riferimento, è narrato nei Vangeli di Marco (1,9-11), Matteo (3,13-17) e Luca (3,21-22). Il Vangelo di
Giovanni riporta la testimonianza da parte di Giovanni Battista della discesa dello Spirito Santo su Gesù ma
senza parlare del battesimo di Cristo. Giovanni Battista giunse nei pressi del Mar Morto, dove confluisce il
fiume Giordano, e lì iniziò a predicare l’avvento del Regno di Dio e ad amministrare il battesimo per il
perdono dei peccati. Si presentò a lui il giovane Gesù, e gli chiese di essere battezzato. Ma Giovanni,
avendolo riconosciuto, cercò di sottrarsi. Allora Giovanni lo battezzò. Secondo i Vangeli, in quel momento lo
Spirito Santo, in forma di colomba, scese su di lui.
Al centro, la figura di Gesù, sovrastato dalla colomba, simbolo dello Spirito Santo. Cristo è affiancato, a
sinistra, da un albero, simbolo della vita che si rigenera con l’avvento del Salvatore, e a destra da
san Giovanni Battista, vestito di una pelle a brandelli. Il Redentore è mostrato frontalmente, immobile, con le
mani giunte e gli occhi umilmente abbassati. La perfezione del suo corpo e la sua posa rigida e austera lo
rendono simile ad un’antica statua greca e d’altro canto il colore pallidissimo della sua pelle, richiamato da
quello dell’albero, contribuisce a conferirgli tale aspetto scultoreo.
All’estrema sinistra, tre angeli assistono all’evento. Quello con un drappo rosa sulla spalla, seminascosto
dall’albero, guarda dritto verso l’osservatore. Il suo compito è quello di agganciare lo sguardo del fedele e di
richiamare la sua attenzione. Egli svolge, insomma, la stessa funzione del “festaiuolo”, colui che, nel teatro
rinascimentale commentava e presentava gli spettacoli. Sul fondo si scorgono dei farisei. Uno di loro, il più
vecchio, indica il cielo con il braccio destro, puntando alla colomba sospesa sul Cristo. Questo suo gesto è
enfatizzato dalla posizione parallela della gamba sinistra del Battista. All’estrema destra, un neofita si spoglia
per essere a sua volta battezzato: un lampo di realismo, in una scena così intellettualmente concepita, che
richiama i bellissimi, e naturalissimi, neofiti dipinti da Masaccio nella Cappella Brancacci. Un possibile
modello iconografico per quest’uomo che si sveste potrebbe essere il perduto affresco di Pisanello nella
Basilica di San Giovanni in Laterano, di cui resta uno studio al Louvre.

1445–62 Polittico della Misericordia (madonna della misericordia, crocifissione)


Olio e tempera su tavola, si trova nel Museo Civico di Sansepolcro. Il grandioso polittico, con al centro la
“Madonna della Misericordia”, rappresenta una delle poche opere documentate di Piero e anche una delle
prime commissioni da lui avute a Sansepolcro.
Al centro si trova la Madonna della Misericordia, una rappresentazione della Vergine Maria che apre il
mantello per dare riparo e protezione alle persone che la venerano, derivata dalla consuetudine medievale
della protezione del mantello, che le nobildonne altolocate potevano concedere a perseguitati e bisognosi
d'aiuto.

La Madonna della Misericordia: Fulcro dell'altare ed immagine di attrazione immediata, quasi magnetica
per il riguardante, è la tavola centinata al centro. Su un luminosissimo fondo oro, prescritto dalla com
mittenza, domina imperturbabile e distante, carica di una sacralità al di sopra di ogni limite geografico e
temporale tra mondo antico ed era cristiana, emblema di sovranità al di fuori della sfera terrena, la Regina
Crocifissione: Molto spesso, nell’arco dei secoli, gli studiosi Celeste, la Vergine Incoronata in veste di Mater Misericordiae. Il volto bellissimo, perfetto nell' assoluta
hanno avanzato ipotesi di similitudini cromatiche e di geometria dei lineamenti, si imposta pienamente frontale sul collo slanciato ed eretto sottolineato dalla
espressività con il pannello cuspidale del “Polittico del linea netta e precisa dell'ovale dello scollo. Nell'assoluta impassibilità di questo volto cosi giovane, eppure
Carmine” di Pisa – ad uguale tematica – realizzato grave di sublime sapienza, lo sguardo intenso rivolto in basso all'umanità in preghiera, dagli occhi
dal Masaccio.l’enfatizzazione dei moti di drammaticità, leggermente a mandorla, dal fascino vagamente esotico, promette di comprendere, assistere, proteggere
attraverso i quali si manifesta l’intenso dolore della Madonna, chi la invochi con fiducia inf ondendo conforto, consolazione e speranza. L'utilizzo di un fondo dorato, che
come pure quello di San Giovanni, appare cosa alquanto potrebbe essere inteso come volontà di riallacciarsi ai pre-rinascimentali, risponde in realtà, come
eccezionale nell’arte di Piero della Francesca. abbiamo visto, a una richiesta dei committenti. Inoltre, come nella pittura gotica, si nota un'assenza di
In effetti, ciò potrebbe trarci in inganno, e, in considerazione a proporzioni tra i personaggi e la Vergine. L'insieme è tuttavia perfettamente rinascimentale, poiché la
questo, potremmo leggere nelle braccia aperte della Madonna doratura non è un semplice strato di fondo. Inoltre, i personaggi si stagliano nettamente e con grande
e di San Giovanni, messaggi più solenni e liturgici, spogli di ogni semplicità nel manto della Vergine. Piero applica le regole della prospettiva, ma trae altresì ispirazione
doloroso rigonfiamento, in linea con un Cristo abbastanza dalla bella Madonna della Misericordia di Parri di Spinello del santuario della Madonna delle Grazie ad
composto e privo di violente contorsioni del corpo. Arezzo.
1452–66 Storie della Vera Croce nella basilica di San Francesco di Arezzo
Nel 1452 Bicci di Lorenzo, artista designato dalla ricca famiglia di mercanti di Arezzo, i Bacci, per
dipingere il ciclo di affreschi dentro la chiesa di San Francesco, muore lasciando incompiuto il lavoro.
Subentra così Piero della Francesca, che si dedica all’opera con lentezza: l’ultimo pagamento
documentato è del 1466. Nel mezzo, persino un soggiorno a Roma, chiamato da papa Niccolò V per
dipingere le stanze vaticane.
Quando si appresta a decorare la cappella Bacci, sa che dovrà riuscire a inquadrare la sua arte
rivoluzionaria, geometrica e prospettica in un vano gotico; concepire qualcosa di dirompente su una
strada già troppe volte battuta da altri.
La storia della Vera Croce, desunta da un’opera medievale celebre, la “Legenda Aurea” di Jacopo da
Varagine. Protagonista “Il” legno: quello dell’albero più antico, quello fra le cui venature era scorso il
sangue di Cristo, quello in grado di accompagnare attraverso la morte e ridare la vita. La storia di
questa leggenda è lunga e complessa: un groviglio di tradizioni, varianti e interpretazioni che abbraccia
pellegrini, racconti di viaggiatori e testi sacri fra mito e storia.

1 Morte di Adamo (Adamo morente e Seth incontra l’arcangelo Michele e Adamo morto e albero della vita ): Intorno ad Adamo morente, la moglie Eva, oramai vecchissima, il
figlio Seth anch’esso incanutito e giovani nipoti stanno ad ascoltare le ultime volontà del patriarca. Adamo sta per morire, ed è infatti accasciato sulla destra , con l'anziana Eva
alle sue spalle. Suo figlio Seth riceve dall'arcangelo Michele (sullo sfondo) il germoglio dell'Albero della Conoscenza, che poi mette (scena centrale) in boc ca al padre morto.
Dall'Albero, che visse fino ai tempi di Salomone, nascerà il legno per la Croce di Cristo. Nel gruppo sulla destra, Adamo, arrivato a novecentotrent'anni di età sta per morire ed ha
ancora tre giorni di tempo per evitare la sua fine. Privo di forze, trovandosi seduto a terra sofferente con il capo sorretto da Eva, si raccomanda al figlio Seth (I'uomo con i capelli
bianchi fra la donna di fronte vestita in nero e il giovane che si tiene appoggiato al bastone) che corra dall'angelo "a le p orte del Paradiso terrestre", per chiedergli "l'olio de la
misericordia". A sinistra del gruppo, sullo sfondo (ben visibile nel particolare), si vede l'arcangelo Michele che nega l'olio a Seth e che, in alternativa, gli consegna qualche seme
colto dall'albero del Peccato, da portare alla bocca del vecchio patriarca. Questi, con l'assunzione dei "granelli" avrebbe a vuto la garanzia che quando il seme avesse fatto
"frutto", sarebbe completamente "guarito" e "sano". Sulla sinistra, il seppellimento del patriarca nella cui bocca, sotto la lingua, Seth mise i semi ("granelli'), o meglio, come fu
scritto, "piantò quel ramoscello ....... piantato che fue, crebbe uno grande albore" (quello che domina al centro della composizione). Ancora più a sinistra compaiono fig ure
cariche di drammatica espressività – quali non appariranno più in tutti gli altri episodi – soprattutto in quella femminile a braccia levate (ben visibile nel particolare).
Adamo morto è circondato dal figlio Seth ricurvo sulla salma del padre, da una giovane donna a braccia aperte che urla il suo dolore, da gruppo di figure nude con, al centro, un
giovane paludato in vesti di colore azzurro e rosso. Sullo sfondo due giovani adamiti assistono alla scena guardandosi negli occhi. La pianta rappresentata da Piero è la nuova
sorgente di vita che darà i frutti promessi nel segno della profezia richiamata dai colori rosso (regalità) e az zurro (divinità).

1
2 Adorazione della Croce e incontro tra Salomone e la Regina di Saba (Adorazione del Legno e Incontro tra la regina di Saba e re Salomone): La Regina di Saba, attraversando
un ponte, riconosce in una trave il legno dell'albero della Conoscenza e si inginocchia ad adorarlo. Nella parte destra, in un interno, la Regina si incontra con re Salomone, davanti
al quale si inchina in segno di sottomissione. L'albero spuntato posto sopra la tomba di Adamo si conservò fino all'epoca di Salomone (970 -930 a.C. circa), quando questi lo fece
abbattere. La tavola che ne ricavarono non poteva essere impiegata in nessuna maniera perché talvolta risultava troppo grande , talvolta troppo piccola, facendo infuriare coloro
i quali avevano il compito di modificarla ed assemblarla, tanto che "gli artefici, adirati, si riprovarono e gittaronla in un luogo perché fosse ponticello a' vi andanti" (sul Siloe, un
piccolo lago che si trovava nelle vicinanze).
La regina di Saba, che arrivò all''incontro per ascoltare "la sapienza di Salomone e volendo passare il detto laghetto, dove il legno era posto, vidde per ispirito che il Salvatore del
mondo dovea essere appiccato (riferito al crocifisso da appendere) in quello legno; e però non volse valicare sopra quello le gno", si genuflesse per meglio venerarlo (vedi parte
sinistra della composizione), circondata dalle proprie dame. Sulla sinistra, in secondo piano, gli staffieri stanno dialogando tra loro in attesa che si compia il rito. Sullo sfondo, una
meravigliosa paesaggistica collinosa nella quale dominano due grandi alberi. Nella raffigurazione di destra, dove l' "ordine di colonne corinzie divinamente misurate" (Le Vite del
Vasari) si oppone alla naturale paesaggistica coronante la scena dell'Adorazione, viene raffigurato l'incontro di Salomone con la regina di Saba, rispettivamente attorniati da
dignitari e dame. È bene osservare che in tutto l'ambito della "Legenda aurea", tale incontro non riveste nessun interesse; a llora perché tanto rilievo da parte dell'artista? Tale
scena potrebbe mettere in evidenza l'interessamento di Piero per il mondo aulico, non certamente per sfarzosità ma per la controllata intonazione del cerimoniale.La regina di
Saba con cinque ancelle, palafrenieri e cavalli al seguito, giunta in prossimità di quel Legno, usato come ponte sul lago, s’inginocchia assorta in preghiera in un paesaggio etereo
di colline e magnifici alberi come quello della Valtiberina. In Piero la premonizione della regina di Saba diviene atto sommesso di preghiera e di riflessione che si
coglie nell’attesa serena dei paggi intorno ai cavalli e nella pacata compostezza delle ancelle.
Il ricevimento nella reggia contrappone ed unisce allo stesso tempo la regina di Saba al re Salomone. La regina, inchinatasi per ossequiare il re di Gerusalemme, occupa con le
cinque ancelle del suo seguito la parte destra della scena, mentre il re, posto al centro della scena, è accompagnato alla si nistra da quattro chierici ed alti dignitari di corte.
Salomone è coperto da un mantello tessuto a fiori di melograno: segno di abbondanza e ricchezza. Abiti regali e sacerdotali insieme, con il cappello in uso ai cardinali resi denti a
Roma intorno alla metà del XV sec., potendo raffigurarsi in esso il cardinale Bessarione, protettore dell’Ordine dei Frati Minori e artefice della riconciliazione tra le chiese
d’oriente e d’occidente (come avvenne nel Concilio di Firenze intorno al 1439/ 1440). Tra chierici orientali e nobili dignita ri possono essere individuati i committenti di Piero della
famiglia Bacci e, forse, l’artista autoritratto sullo sfondo. Saba, di fronte al re, lascia anch’essa intravedere, oltre il trasparente velo bianco che la adorna, il motivo a fiori di
melograno della bianca veste.
2
1468–70 Flagellazione
Considerata come una delle opere più controverse del Rinascimento. Il dipinto fu quasi
certamente eseguito a Urbino, dove il pittore si era trasferito dalla fine degli anni
Cinquanta e dove visse, a più riprese, per un lungo periodo. Committente del quadro
potrebbe essere stato Federico da Montefeltro, duca di Urbino e suo grande ammiratore.
Federico era un guerriero; tuttavia, aveva acquisito nel tempo la cultura degna di un
sovrano europeo e aveva alimentato nella sua corte un clima di sontuoso e raffinato
mecenatismo.
La Flagellazione riunisce due scene distinte eppure connesse fra di loro: a destra, in primo
piano, tre uomini sembrano colloquiare insieme, in una strada affiancata da edifici antichi e
rinascimentali. A sinistra, Cristo legato alla colonna è flagellato al cospetto di Pilato, che
Quest’opera ha costituito e continua a costituire uno degli osserva la scena seduto sul trono. Questa pagina del Vangelo è ambientata sotto una loggia
enigmi più avvincenti della storia dell’arte. Nel corso del classica, sostenuta da colonne composite scanalate, coperta da un soffitto a cassettoni, e
tempo sono state formulate almeno dieci ipotesi ispirata apertamente alla contemporanea architettura di Leon Battista Alberti, grande
interpretative differenti, delle quali ricordiamo solo la più architetto del Rinascimento che di Piero era amico. La pavimentazione in cotto della piazza
recente e attendibile. Il dipinto sarebbe un’allegoria della è percorsa da lunghe strisce di marmo bianco; il pavimento della loggia, invece, è
Chiesa tribolata dai Turchi, con un chiaro riferimento riccamente decorato con grandi tarsie marmoree bianche e nere. La scena è resa con
alla presa di Costantinopoli, avvenuta otto anni prima della grande perizia tecnica attraverso la definizione attenta di ogni particolare.
realizzazione del dipinto, nel 1453. È stato osservato, a Nella Flagellazione, i due gruppi di figure, benché apparentemente estranei fra di loro, sono
sostegno di questa ipotesi, che la colonna alla quale è legato idealmente unificati da una costruzione prospettica assai complessa, che è poi la vera
Cristo è sormontata dalla statua classica di un uomo che protagonista della tavola. Tale prospettiva sembra voler indicare che il quadro non va letto
sorregge un globo; si sa che un monumento simile era stato da sinistra a destra, come vorrebbe la logica, ma da destra a sinistra, lasciando intuire che il
eretto in onore di Costantino nell’appena rifondata titolo dell’opera è fuorviante: la flagellazione di Cristo, così relegata in secondo piano,
Costantinopoli. sembra avere in sé stessa un valore simbolico e appare evocativa di qualcos’altro, forse un
Ponzio Pilato, che assiste impotente alla tortura, sarebbe in fatto storico contemporaneo alla vita dell’artista.
realtà l’imperatore di Bisanzio Giovanni VIII. I flagellatori Le due scene sono inscrivibili, insieme, in un rettangolo i cui lati si relazionano fra loro
sarebbero gli infedeli, e in effetti sia gli atteggiamenti sia le secondo la formula proporzionale della sezione aurea, pari al numero 1,618, amato e
fisionomie rimandano alle figure dei pirati turchi e mongoli. applicato in architettura sin dai tempi dell’antica Grecia. D’altro canto, a un esame attento
Il personaggio di spalle sarebbe invece il sultano Maometto dell’opera si scoprono ovunque rapporti numerici, figure geometriche, corrispondenze,
II che intendeva insediarsi sul trono di Bisanzio: egli è infatti parallelismi che rivelano quanto studio abbia dedicato Piero della Francesca alla sua
a piedi scalzi, mentre è Giovanni VIII a indossare i purpurei composizione e che hanno spinto la critica a definire la Flagellazione come un “sogno
calzari imperiali, che solo gli imperatori bizantini potevano matematico”.
portare. I tre uomini in primo piano sarebbero invece, da
sinistra: il cardinale Bessarione, ossia il delegato bizantino
che molto si adoperò durante il Concilio di Ferrara e Firenze
del 1438-39, nella speranza di ottenere l’aiuto occidentale
contro gli Ottomani e di scongiurare la caduta di
Costantinopoli; Tommaso Paleologo, pretendente senza
speranza al trono di Bisanzio (e difatti anch’egli è scalzo);
infine, Niccolò III d’Este, il quale ospitò parte del Concilio a
Ferrara.

1472 Doppio ritratto dei duchi di Urbino


I ritratti dei signori di Montefeltro, il duca Federico II e la moglie Battista Sforza, sono
dipinti sulla faccia anteriore del dittico. Sul retro Federico II e Battista Sforza sono
rappresentati invece su dei carri trionfali. Federico II è accompagnato da alcune figure
allegoriche che rappresentano le virtù cardinali. Battista Sforza è infine sul secondo
carro, trainato da due liocorni che sono il simbolo della castità.
Piero della Francesca realizzò i due ritratti di profilo, forse, per nascondere la ferita di
guerra sul viso di Federico da Montefeltro che causò al condottiero la perdita
dell’occhio destro. Un’altra ipotesi fa derivare questa scelta nel riferimento alle monete
e alle medaglie classiche nelle quali i sovrani venivano raffigurati di profilo. I liocorni,
leoni con corpo di cavallo e un corno centrale sulla testa, sono simbolo di fedeltà, per
I colori sono chiari, luminosi e rendono i corpi e le figure quasi questo trainano il carro sul quale è assisa Battista Sforza.
delle statue di avorio. Il chiaroscuro inoltre è presente ma è La concezione con la quale Piero della Francesca progettò il paesaggio, basso nel caso
molto delicato e rende i volumi solidi ma non pesanti. dei ritratti e molto importante nel caso dei cari trionfale, è, anche rispetto alla cura del
La natura circostante è colorata con un verde tendente al bruno. dettaglio, di influsso fiammingo. Si colgono infatti cespugli e alberi dipinti in modo
Si percepisce già, soprattutto nei due ritratti e nel carro di attento e ritagliato. Anche le imbarcazioni sono dipinte con grande attenzione. Lo stile
Battista Sforza, una prospettiva aerea. Infatti il paesaggio fiammingo è da ravvisare inoltre nella collana di Battista Sforza e nelle decorazioni che
diventa di colore più spento, tendente al grigio e azzurrino in sembrano derivare dalla tecnica di Jan Van Eyck.
lontananza. Questa tecnica sarà perfezionata da Leonardo e I volti dei personaggi, come tutti quelli di Piero della Francesca sono fortemente
chiamata prospettiva aerea. La luce di tutti e quattro i dipinti è geometrizzati e somigliano a degli ovali. Le influenze fiamminghe che si riscontrano
molto chiara, tipica caratteristica dei dipinti di Piero della nella natura dipinta, dietro ai personaggi, e la cura dei dettagli, provengono,
Francesca. La tridimensionalità dello spazio è descritta dal probabilmente, dal suo incontro con l’artista Rogier van der Weyden, a Ferrara, nel
paesaggio che degrada in profondità utilizzando prospettive di 1449, con il quale lavorò per un po’ di tempo.
grandezza, di sovrapposizione e prospettiva aerea.
I ritratti presentano uno sviluppo verticale che incornicia in modo molto stretto i busti di Battista Sforza e Federico II. Le scene trionfali invece, sono
orizzontali e racchiudono i carri dei due coniugi rendendoli quasi monumentali. La composizione dei ritratti è quasi perfettamente divisa in due dall’orizzonte
che separa il cielo e il paesaggio naturale. Inoltre l’orizzonte separa anche otticamente il corpo di Battista e Federico dal volto che, raffigurato di profilo, è
incorniciato dall’azzurro del cielo. Nei carri trionfali, l’orizzonte è altissimo e concede al cielo solo una piccolissima fetta della porzione superiore del dipinto.
Infine, la strada che accoglie il carro si trova in basso e incornicia le ruote lasciando carro e personaggi alla parte superiore, circondati dal paesaggio naturale.

1472–74 Pala di Brera


La Pala di Brera raffigura in tutto tredici figure: la Madonna, Gesù Bambino, sei santi, quattro angeli e il
committente. La Madonna, tanto dolce quanto enigmatica, è seduta su un trono basso, ma posto su una
pedana, e tiene le mani giunte, mentre il Bambino giace addormentato sulle sue ginocchia. L’inclinazione
del piccolo è la stessa delle braccia di Federico e della sua spada: un artificio per collegare le due figure e
alludere alla nascita dell’erede. Gesù è nudo e ornato solo da una collanina di corallo (usato come amuleto
sin dai tempi antichi). Il sonno del piccolo Gesù prefigura, simbolicamente, la sua futura morte: il
ramoscello pendente di corallo, infatti, gli disegna sul corpicino la ferita sanguinante del costato. Gli angeli
sono ornati da perle e rubini (simboli della purezza e dell’amore).
Federico da Montefeltro è inginocchiato in primo piano, come sempre mostrando il lato sinistro, e indossa
l’armatura, a indicare il suo impegno a difendere la Chiesa. Pare che Piero abbia dipinto il duca con la
collaborazione di un fiammingo, forse Giusto di Gand (1430-1480), cui sono state attribuite le robuste mani
inanellate e le bellissime stringhe di cuoio rosso, tipico vezzo dei ricchi di allora. I personaggi si trovano,
apparentemente, al centro di una crociera, davanti a un coro ornato da marmi policromi, coperto da una
volta a lacunari e concluso da un’abside con una nicchia a conchiglia, simbolo della natura generatrice della
Vergine, dalla quale pende un uovo di struzzo. Quest’ultimo simboleggia ancora una volta la Vergine e la
sua miracolosa gravidanza (giacché un tempo si credeva che gli struzzi fossero capaci di fecondarsi da soli),
oltre che rimandare all’emblema dei Montefeltro, nel quale lo struzzo è presente con un pezzo di lancia nel
Noi sentiamo il gioco delle luci profondamente unitario e becco.
coerente, cosa che non è: l’uovo, che si trova alle spalle della L’architettura che accoglie i personaggi è di stampo albertiano. Lo straordinario effetto prospettico con cui
Vergine e sul fondo di un ambiente senza finestre, è illuminato è resa viene esaltato dalla luce che irrompe da sinistra. Questo effetto di tridimensionalità, una volta, era
come la testa di Maria, e dunque sembra pendere a più evidente: la pala infatti fu tagliata ai lati e privata dell’originale porzione di navata, della quale oggi
perpendicolo su di lei. Quest’uso intellettuale e non naturalistico s’intravedono soltanto gli angoli. Dobbiamo tuttavia osservare che Piero, da grande maestro prospettico,
della luce serve a fondere intimamente i personaggi con volle giocare con gli effetti illusionistici. La zoccolatura che s’intravede sotto il gomito del Battista chiarisce,
l’architettura, e a fare della figura della Madonna un’allegoria per esempio, che lo spigolo è alle sue spalle e non davanti a lui, e che dunque le figure si trovano nella
della Chiesa stessa. Non sono le uniche ambiguità. Si noti come navata e non nella crociera, come invece appare a un primo sguardo. Una finzione nella finzione, insomma;
l’artista abbia usato lo stesso cartone per i volti di due santi e non a caso manca la scacchiera del pavimento, tradizionale strumento di misurazione ottica usato nel
diversi, e per giunta vicini: San Bernardino e San Girolamo (il Quattrocento.
secondo e il terzo da sinistra), come a dire che la santità ha
sempre lo stesso volto. I rapporti proporzionali, poi, sono
volutamente scorretti: si provi ad immaginare quale altezza
raggiungerebbe la Vergine se solo si alzasse in piedi.Un’ultima
annotazione riguarda l’immagine del duca, che veniva sempre
rappresentato dal medesimo lato per ragioni di decoro in
quanto, nel 1450, aveva perduto l’occhio destro durante un
torneo, come ci mostra una recente e
suggestiva ricostruzione del reale aspetto di Federico. Il suo
particolarissimo profilo, reso celebre dal ritratto, oggi agli Uffizi,
che Piero realizzò per lui, era poi il risultato di un intervento di
chirurgia, dai risultati estetici discutibili ma, per altri versi, assai
funzionale: il duca si era fatto asportare un pezzo di naso, per
poter sbirciare con l’unico occhio anche dall’altra parte.

Andrea del Castagno


1447 Ultima cena a Sant’Apollonia
Nella parte superiore della parete affrescata dipinse a destra la Deposizione, al centro la
Crocifissione e a sinistra la Resurrezione (scene molto rovinate poiché scialbate, ma ancora
leggibili); nella parte inferiore l'Ultima Cena: la scena della rivelazione del tradimento si
svolge in un ambiente ricco, caratterizzato dalla decorazione a tarsie marmoree e con
richiami all'antico, come le due sfingi ai lati della tavolata. In questa scena, scorciata con
violenza, le figure, in pose pacate e solenni, si allineano seguendo il ritmo orizzontale e
convergono nel gruppo centrale formato dal Cristo, Giovanni e Giuda (seduto, diversamente
dalle altre figure, nella parte opposta della tavolata). Sempre per Sant'Apollonia dipinse su
una sopraporta l'affresco con Cristo in Pietà sorretto da due angeli (di cui rimane anche la
sinopia).
Discussa è la datazione degli affreschi (ora staccati e conservati nel Museo di Castagno),
che si presume eseguì tra il 1445 il 1450, comprendenti le scene della Passione, nelle quali
Sant'Apollonia, sala degli affreschi si distinguono nella parte superiore: a sinistra la Deposizone, al centro la Crocifissione e a
Il Ciclo degli Uomini e donne illustri è un'opera ad affresco di sinistra la Resurrezione (scene molto rovinate, ma ancora leggibili); nella parte inf eriore
Andrea del Castagno dipinta per villa Carducci di Legnaia per l'Ultima Cena.
il gonfaloniere di Giustizia Filippo Carducci tra il 1448 e il Nel Cenacolo, gli sfondi architettonici, che comprendono colonne, scale, finestre, rivelano
1451, ed è oggi divisa tra la Galleria degli Uffizi (affreschi tutta l'abilità dell'artista nell'applicazione della neonata scienza della prospettiva. La scena
staccati dei pannelli degli uomini e donne illustri) e la villa della rivelazione del tradimento si svolge in un ambiente interno, ricco, caratterizzato dalla
stessa. decorazione a tarsie marmoree policrome e con richiami all'antico, vedi le due sfingi ai lati
Il ciclo venne coperto da intonaco bianco in epoca imprecisata della tavolata, nella scena, scorciata con violenza, le figure, in pose pacate e solenni, si
e fu riscoperto nel 1847, quando il Granduca acquistò gli allineano seguendo il ritmo orizzontale della tavolata, e in ordine simmetrico, convergendo
affreschi e li fece staccare. Dopo essere stati esposti nel nel gruppo centrale formato dal Cristo, con alla sinistra Giovanni e da Giuda, che si trova
Museo del Bargello dal 1865, i pannelli staccati furono seduto, diversamente dalle altre figure nella parte opposta della tavolata. In S. Apollonia si
trasferiti nel museo di Andrea del Castagno nel Cenacolo di trova anche un'altra solenne Crocifissione, in cui la monumentalità masaccesca viene
Sant'Apollonia, dove in seguito all'alluvione di Firenze del accentuata e le asprezze luministiche si attenuano in una luce diffusa, collegabile a
1966 vennero di nuovo rimossi, per approdare agli Uffizi nel Domenico Veneziano e all'Angelico.
1969, dove vennero collocati nella ex-chiesa di San Pier Negli stessi anni eseguì anche un affresco nella lunetta del chiostro rappresentante Cristo
Scheraggio. La sala della ex-chiesa è per adesso visitabile nel sepolcro tra due angeli (di cui rimane anche la sinopia).
solo su appuntamento.
Per la realizzazione di un affresco, il pittore cominciava L'Ultima Cena
stendendo, sulla parete, uno strato d'intonaco ottenuto Dipinta come se si stesse svolgendo in un piccolo edificio, un triclinium imperiale nello stile
mescolando con l'acqua calce spenta e sabbia di fiume a rievocato negli scritti di Leon Battista Alberti, con la parete anteriore assente, in modo da
grana grossa. Questo primo strato, steso nello spessore di permettere allo spettatore la visione dell'interno. L'ambientazione è curata nei minimi dettaglio: dai
circa un centimetro, si chiama 'arriccio'. La superficie tegoli del tetto, al soffitto a quadrati bianchi e neri, dal pavimento alle pareti laterali, fino ai due muri
doveva risultare piuttosto ruvida, perché il secondo in laterizio che chiudono la scena a destra e a sinistra. Tutto è inquadrato in una pros pettiva
intonaco potesse avere su di esso una buona adesione. rigorosa, con un forte scorcio laterale, dove tutti gli elementi hanno una precisa collocazione
L'artista eseguiva direttamente su questo primo strato il geometrica.
disegno preparatorio. Con un carboncino – facilmente La cena di Gesù con gli apostoli si svolge in una stanza all'antica, decorata con lussuosa e
eliminabile – creava lo schema della rappresentazione e, raffinata eleganza: attorno a un lungo tavolo con una tovaglia bianca, che evidenzia lo sviluppo
una volta soddisfatto di ciò che aveva eseguito, tracciava orizzontale della scena, stanno seduti su scranni coperti da un drappo con motivi floreali, gli
con terra d'ocra, accanto al disegno in carbone, un'altra Apostoli e Gesù, tranne Giuda che si trova sul lato opposto, su uno sgabello. La collocazione di
linea. Poi con un mazzo di penne spazzava via il Giuda separato dal resto degli Apostoli è tipica dell'iconografia (anche se di solito si trova a destra,
carboncino e ripassava con una terra rossa la figurazione piuttosto che a sinistra di Gesù) e la sua barbuta e di profilo assomiglia a quella di un satiro della
giallo tenue che rimaneva, così come con lo stesso mitologia romana, dalla quale i cristiani avevano mutuato molte delle caratteristiche fisiche del
pigmento erano completati i dettagli della diavolo.Anche il san Giovanni dormiente accanto a Cristo è un elemento tradizionale, presente ad
rappresentazione (pieghe dei panneggi, volti, chiaroscuri, esempio, assieme al Giuda di spalle, anche nel Cenacolo di Santa Croce di Taddeo Gaddi, per
ecc.). Nacquero in questo modo, nel Trecento e fino a rimanere in ambito fiorentino.
gran parte del Quattrocento, i grandi disegni preparatori, Oltre il tetto della scatola prospettica dell'Ultima Cena sono raffigurate, da sinistra verso destra,
che oggi, dal colore del pigmento rossastro (originario la Resurrezione, la Crocefissione e la Deposizione nel sepolcro in un unico grande spazio pittorico,
della città di Sinope) con cui furono eseguiti, si usano intervallato solo da due stipi-finestra, ma con lo stesso punto di fuga. Gli affreschi superiori sono
chiamare sinopie. caratterizzati da tonalità più tenui per via dell'ambientazione esterna, con una luce cristallina che
Eseguita la sinopia, aveva inizio la pittura vera e propria. evidenzia i corpi e i paesaggi. Questa luce può anche essere letta come un riferimento alla luce
Veniva steso sopra l'arriccio un nuovo strato d'intonaco divina nell'avverarsi della redenzione, quindi più legate a un messaggio positivo di
destinato a ricevere il colore, chiamato 'intonachino', la cui salvezza.L'ambientazione è stata riconosciuta come un paesaggio di tipo appenninico, simile a
superficie doveva in questo caso risultare perfettamente quello nei pressi del Monte Falterona di dove era originario Andrea. Grande drammaticità si ritrova
liscia. L'intonachino è un velo trasparente, composto da in più episodi, che contraddice l'immagine coniata dal Vasari e spesso ripetuta acriticamente che
una parte di calce spenta e due parti di sabbia di fiume vede Andrea del Castagno come un artista incapace di dipingere sentimenti di tenerezza: bastano
macinata fine. Dovendo restare ben umido durante tutto il episodi come l'abbraccio muto di Giovanni o lo svenimento della Vergine tra le pie donne per
lavoro di coloritura veniva applicato sull'arriccio solo per contraddire tale ipotesi. Gli angeli che si disperano volando nella parte più alta fanno da elemento
quella quantità di superficie che l'artista poteva colorare in di raccordo tra le tre scene. Le loro espressioni sono tratte dalla tradizione, ma innovativo è il
una giornata di lavoro. Poi il pittore ripassava a mano trattamento vaporoso delle loro vesti, anche se congelate dal tratto energico e sostanzioso
libera, con un pennello, il disegno della sinopia che dell'artista.
intravedeva attraverso l'intonachino. In ultimo iniziava a
dipingere questa porzione con i colori macinati e mescolati
con l'acqua.

1450 – 1455 David (dipinto su scudo)


Dipinto olio a tempera su pelle sulla tavola, conservato oggi nella National Gallery of Art di Washington.
Il dipinto, che rappresenta l'unico esempio di scudo dipinto da un grande maestro che ci sia pervenuto,
venne acquistato in Italia dall'inglese William Drury-Lowe nel 1852 e, dopo essere passato ai suoi
discendenti, fu ceduto all'americano Peter A.B. Widener nel 1913, i cui eredi lo regalarono al Museo
nazionale di Washington nel 1942.
L'usanza di dipingere scudi da battaglia è ben testimoniata, ma molto rara è la presenza di una scena
narrativa, invece dei tradizionali emblemi e stemmi araldici. Si tratta molto probabilemnte di uno scudo
cerimoniale, destinato più che alla battaglia a sfilate ufficiali.
Nel XV secolo a Firenze la figura di Re David era ammantata di particolari significati simbolici, come
testimoniano anche le celebri sculture del David di Donatello e quello di Verrocchio, a cui farà da
apoteosi il David di Michelangelo all'inizio del XVI secolo. La figura del giovane David simboleggiava
infatti la Repubblica fiorentina, minacciata di volta in volta da spaventosi Golia, che però soccombevano
alla sua difesa (il papa, il duca di Milano, il re di Napoli o il doge di Venezia).
Nello scudo di Andrea del Castagno l'eroe è ritratto nell'atto di prepararsi a scagliare la sua pietra contro
il mostro, sebbene la sua testa mozzata con la pietra conficcata in testa sia già ai suoi piedi, come
prefigurazione della vittoria. Il giovane è raffigurato come un atleta, con una posa che è memore di
esempi della statuaria antica. Come al solito nella sua produzione è notevole la resa anatomica del
soggetto e l'incisività con cui sono modellati i corpi da luci ed ombre, con una notevole attenzione al
dettaglio (come le articolazioni dei muscoli o le vene). Il gioco delle linee di forza, degli arti e dello sfondo
che si apre a "V" dietro l'eroe, esalta la dinamicità della scena e il senso di movimento, come
suggeriscono anche le vesti svolazzanti del protagonista.
Una cura attenta è profusa anche nella descrizione del suolo, punteggiato da piante e rocce e
costeggiato da un fiumiciattolo sinuoso, mentre le rocce appuntite ai lati ricordano esempi più arcaici,
1460 Ritratto di ignoto come si riscontrano in Giotto. Il cielo chiaro è punteggiato da nuvolette, che hanno una forma sfilacciata
come in altre opere di Andrea del Castagno.
Dipinto tempera su tavola, l’opera faceva probabilmente parte delle collezioni della famiglia Del Nero
a Firenze, che nel XVIII secolo si fuse con i Torrigiani. Il nobiluomo, del quale non si conosce l'identità,
è ritratto di tre quarti, una posa molto rara per la ritrattistica italiana dell'epoca, del quale è
l'esempio più antico conosciuto. Se nelle Fiandre infatti tale rappresentazione era consueta fin dagli
anni trenta del XV secolo, nelle corti e nelle città italiane si preferivano i ritratti di profilo, che
rievocavano le effigi degli imperatori romani su medaglie e monete classiche.
Il personaggio è raffigurato con una notevole individuazione fisiognomica, ritraendolo nel pieno della
maturità, riccamente abbigliato, con una postura eretta e uno sguardo fiero che guarda direttamente
lo spettatore. Lo sfondo è un cielo che schiarisce verso l'orizzonte. La luce definisce con incisività le
forme del soggetto e si sofferma a descrivere con minuzia le varie superfici incontrate, dalla morbida
stoffa al lucido incarnato, fino alla massa scura dei capelli. Il rigore plastico è però attenuato da
un'attenzione al disegno ed alla linea di contorno ben marcata, che si percepisce soprattutto nei
tratti del volto, rivelando la matrice tipicamente fiorentina dell'opera.
Francesco Squarcione

Andrea Mantegna
1453-47 Cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova (affreschi)
La cappella era dedicata ai santi Giacomo e Cristoforo, con le due pareti laterali dedicate alle storie di ciascuno dei due s anti,
composte da sei episodi disposti su tre registri sovrapposti: registro inferiore, mediano e superiore, quest'ultimo composto
da una lunetta a tutto tondo. Nonostante la molteplicità delle maestranze attive nel cantiere, non sempre chiaramente
distinguibili, lo schema compositivo dell'intero ciclo viene riferito a Mantegna, che ideò probabilmente il sistema unitario di
cornici architettoniche. Le storie raffigurate dipendevano dalla Leggenda aurea.
La parete nord (lato sinistro guardando l'altare) era interamente dipinta da Mantegna, dedicata alle storie di san Giacomo e
comprendeva:
 Vocazione dei santi Giacomo e Giovanni
 Predica di san Giacomo
 San Giacomo battezza Ermogene
 Giudizio di san Giacomo
 Miracolo di san Giacomo
 Martirio di san Giacomo
La parete sud (lato destro guardando l'altare) comprende le Storie di san Cristoforo e Mantegna ne ha dipinte solo due:
 Martirio di san Cristoforo
 Trasporto del corpo decapitato di san Cristoforo
Sulla parete centrale, dove si apre la finestrella, si trova una stretta e alta rappresentazione dell'Assunzione della Vergine di
Mantegna. Esistono inoltre alcuni frammenti, come un Serafino, proveniente forse dai pilastri.

All'epoca degli affreschi agli Eremitani Mantegna dipingeva già con una precisa applicazione della prospettiva unita ad una rigorosa ricerca antiquaria, ben più profonda di quella
del suo maestro Squarcione. La decorazione ad affresco, che si protrasse per quasi un decennio, mette in luce, nel caso di Ma ntegna, il progressivo affinamento del suo
linguaggio.
San Giacomo
Nelle prime Storie di san Giacomo, in particolare nella lunetta, la prospettiva mostrava ancora qualche incertezza, mentre nelle due scene sottostanti essa appare invece ormai
ben dominata. Il punto di vista, centrale nel registro superiore, è abbassato nelle scene sottostanti e unifica lo spazio dei due episodi, con il punto di fuga di entrambe le scene
impostato sul pilastrino centrale dipinto. Aumentano nelle scene successive gli elementi tratti dall'antico, come il maestoso arco trionfale che occupa due terzi del Giudizio, a cui
vanno aggiunti medaglioni, pilastri, rilievi figurati e iscrizioni in lettere capitali[6], derivati probabilmente dall'esempio degli album di disegni di Jacopo Bellini, il padre
di Gentile e Giovanni. Le armature, i costumi e le architetture classiche, a differenza dei pittori "squarcioneschi", non erano semplici decorazioni di sapore erudito, ma
concorrevano a fornire una vera e propria ricostruzione storica degli eventi. Tra le innovazioni di questi primi affreschi ci sono anche l'uso di scorci vertiginosi, la ricchezza di
figure, come nel brulicante fondale del Martirio, dominato da una città medievale ideale. La tecnica si evolve gradualmente da un tratto duro e, in alcuni passaggi, delicato, a un
tratteggio più denso e chiaroscurato, che dà alle figure la consistenza dei marmi e le pietre dure. Ciò, assieme all'impostazione monumentale "all'antica", contribuisce a dare alle
figure umane una certa rigidità, che le faceva apparire come statue.
Nell'Andata di san Giacomo al martirio la linea dell'orizzonte è al di sotto e all'esterno del quadro, generando una visione in scorcio dal basso verso l'alto (di s otto in su'); in tal
modo le figure acquistano in monumentalità e sicurezza volumetrica. Dietro ai personaggi, in evidenza si trova una volta a botte con cassettoni, un lato della quale si trova sopra
il punto di fuga, dando alla scena una certa artificiosità; lo squarcio tra la folla, usato per dare profondità, è una citazione di Donatello, il pezzo antico come in tutte le altre scene
viene usato nella composizione per fornire una ricostruzione storica degli eventi recuperando la monumentalità del mondo roma no che muta le figure in statue.
San Cristoforo
Più sciolto appare l'episodio del Martirio di san Cristoforo, dipinto nella seconda fase degli affreschi (1454-1457), dove le architetture hanno acquistato un tratto illusionistico
che fu una delle caratteristiche base di tutta la produzione di Mantegna. Nella parete sembra infatti aprirsi una loggia, dove è ambientata la scena di martirio, con
un'impostazione più ariosa ed edifici tratti non solo dal mondo classico. Le figure, tratte anche dall'osservazione quotidiana, sono più sciolte e psicologicamente individuate, con
forme più morbide, che suggeriscono l'influenza della pittura veneziana, in particolare di Giovanni Bellini, del quale dopotutto Mantegna aveva sposato la sorella nel 1454.

1455 Orazione nell’orto Non si conoscono le circostanze della creazione del piccolo dipinto, che viene in genere posto a ridosso
dell'Orazione nell'orto della predella della Pala di San Zeno (1457-1459, oggi a Tours) e dell'Orazione
nell'orto di Giovanni Bellini (1459), con la quale ha più di un'analogia compositiva. Non c'è concordia tra gli
storici dell'arte su quale sia l'esatta cronologia delle tre opere: se quella di Bellini viene in genere
considerata come l'ultima, alcuni pongono come modello iniziale la tavola di Tours, altri quella di Londra. La
datazione riportata dalla National Gallery di Londra è 1455-6 circa per il dipinto di Mantegna, 1458-60 circa
per quello di Bellini. In ogni caso il modello originario pare essere un disegno di Jacopo Bellini, contenuto
nell'album di Londra.
Gesù sta pregando nel Getsemani, rappresentato come un arido paesaggio roccioso dove il Salvatore è in
ginocchio su uno sperone rialzato, che assomiglia a un altare. Davanti a lui sono apparsi alcuni angeli che gli
preannunciano il destino mostrandogli gli strumenti della Passione.
In basso stanno tre apostoli addormentati (Pietro, Giacomo il Maggiore e Giovanni), mentre sullo sfondo
stanno arrivando i soldati ad arrestare Cristo, guidati da Giuda, che indica loro la via esplicitamente
distendendo il braccio. In lontananza si vede la città ideale di Gerusalemme (con monumenti della Roma
antica, di Venezia e di Verona), all'ombra di due aspri picchi rocciosi. La firma dell'artista si trova sulla roccia
vicino alla testa di Giovanni.
La scena si svolge in un'atmosfera cupa e crepuscolare, che accentua con i contrasti cromatici la
drammaticità dell'evento. Cristo ad esempio è vestito di scuro, isolandolo rispetto agli apostoli vestiti di
colori sgargianti, quasi a prefigurarne l'ineluttabile dramma. Anche l'albero secco e l'avvoltoio sono presagi
di una imminente morte, mentre i germogli e il pellicano (che si credeva nutrisse i propri figli strappandosi
le proprie carni, sacrificandosi insomma come il Cristo) sono simboli della vita e della resurrezione.
L'immagine del coniglio allude all'anima che tende a Dio. L'albero divelto allude al peccato. Gli aironi sono
un simbolo di Gesù. Le mura, chiaramente restaurate, sono, invece, un riferimento ai passi biblici che
narrano delle loro numerose distruzioni e riparazioni.
1456 San Sebastiano di Vienna
L'opera è stata datata dai vari studiosi entro un arco molto ampio, che va dagli anni cinquanta a quelli settanta e oltre del XV
secolo. Le ipotesi più accreditate legano però l'opera al periodo padovano (conclusosi nel 1460 con la partenza dell'artista
per Mantova), come dimostrerebbe la complicata firma in greco, che venne verosimilmente concepita nel clima umanistico
erudito di Padova. La stessa città era stata investita da un'epidemia di peste nel 1456-1457 e la figura di san Sebastiano è il più
diffuso protettore dalle epidemie. L'opera potrebbe quindi essere stata un segno di devozione e un ringraziamento per la fine
del contagio.
San Sebastiano è rappresentato legato a una colonna di un monumento romano in rovina, poggiante su una piattaforma con
pavimento a scacchiera, oltre la quale si apre un lontano paesaggio di sfondo. Il santo è ritratto nudo con il solo perizoma,
secondo la consuetudine del secondo Quattrocento che offriva agli artisti l'occasione di dare una talentuoso saggio di
conoscenza anatomica. Il santo è trafitto dalle frecce del martirio, che stanno conficcate nel corpo in profondità. Il fisico del
giovane è asciutto e somigliante ad una statua greca. Un tipico confronto è con l'analogo San Sebastiano di Parigi, più grande e
probabilmente successivo (di alcuni anni o anche, se legato al matrimonio di Chiara Gonzaga come si crede, databile al 1481),
con un'impostazione generale simile, ma alcune differenze nell'atteggiamento del santo (più contorto nella tavola viennese) e
nell'uso del colore (più morbido e sfumato nella tavola parigina).
Sul pilastro a destra del santo corre una scritta in greco (TO.EPΓON.TOY.ANΔPEΟY, "Opera di Andrea") che attribuisce la
paternità dell'opera al Mantegna. Nella città sullo sfondo è forse riconoscibile Verona, città alla quale rimanda anche la curiosa
presenza di una nube a forma di cavaliere in alto a sinistra, legata alla leggenda di re Teodorico, descritta sui rilievi
della basilica di San Zeno a Verona. L'estraneità di Teodorico con la storia di san Sebastiano ha fatto pensare che si potesse
anche trattare di un accenno a un cavaliere dell'Apocalisse, come simbolo della peste contro cui san Sebastiano veniva
implorato.
La scena è corredata da vari frammenti di sculture e architetture in rovina, ben compatibili con la cultura epigrafica padova na,
con una somiglianza tra alcuni dettagli architettonici con quelli della Circoncisione del Trittico degli Uffizi, in particolare il
pilastro e la sua decorazione a candelabre.

1460 Pala di San Zeno L’opera suscitò subito immediata ammirazione e si configurò come un esempio per tutti gli artisti, giovani e meno
giovani, che operavano in città: era un dipinto rivoluzionario, che portava a Verona quella cultura
rinascimentale che si era sviluppata a Padova e si stava diffondendo, lentamente, in tutto il Veneto. Una cultura
fatta di interesse per l’antico, di preciso senso dello spazio, di ricerche prospettiche, di statuaria monumentalità.
Tutte queste caratteristiche, già sviluppate da un ancor giovane Mantegna (all’epoca della realizzazione della Pala
di San Zeno, l’artista aveva infatti ventott’anni), fecero la loro comparsa a Verona con l’arrivo della pala.La portata
rivoluzionaria di un’opera che arrivava in una città ancora legata alla propria arte tardogotica che, in ritardo
rispetto ad altre località, iniziava ad aprirsi alle novità rinascimentali, fu sconvolgente: perché queste novità
arrivarono tutte insieme in un unico momento. E basta dare un’occhiata anche rapida al dipinto per rendersi conto
della distanza che poneva rispetto alla produzione artistica veronese contemporanea.L’arte che fino ad allora si
produceva a Verona venne spazzata via in un colpo solo. Perché, con la Pala di San Zeno, Mantegna reali zzò quello
che è considerato da più parti come il primo polittico pienamente rinascimentale dell’intera Italia settentrionale, e
di conseguenza, con la sua opera, l’artista portò il Rinascimento, con tutte le sue novità, a Verona.
Se fino a prima, a Verona e dintorni, i polittici erano rigidamente divisi e ogni scomparto faceva storia a sé, adesso
permane la divisione, per non creare un distacco troppo netto col passato, ma ciò che vediamo al di là delle
colonne che dividono gli scomparti è una scena intera, uno spazio unico. Una concezione che derivava dallo studio
delle opere di Donatello per la Basilica di Sant’Antonio a Padova: in particolare, Mantegna riprese la struttura che
Donatello aveva ideato per l’Altare del Santo (oggi perduta), e la applicò alla sua Pala di San Zeno. E c’è inoltre da
notare come Mantegna abbia adottato l’espediente di progettare una cornice con gli scomparti suddivisi
da colonne classiche, che sembrano quasi far parte esse stesse della scena. L’impressione è quella di trovarsi al di
qua di una loggia, scalata in profondità e di cui la cornice è parte integrante, dove trovano posto i personaggi: al
centro, la Madonna col Bambino assieme ad angioletti festanti, sul lato sinistro i santi Pietro, Paolo, Giovanni
Evangelista e Zeno, mentre sul lato destro i santi Benedetto, Lorenzo, Gregorio Magno e Giovanni Battista.
L’illusionismo prospettico con cui Andrea Mantegna rende credibile lo spazio descritto dal dipinto è un altro degli
aspetti nuovi della pala, che verrà poi ulteriormente approfondito con le ricerche successive dell’artista.

La loggia marmorea è scolpita con medaglioni entro cui Mantegna ha ambientato scene mitologiche, mentre sul fregio appaiono putti classicheggianti. E proprio nella ricerca di
legami con l’antichità classica sta un altro dei motivi della portata rivoluzionaria del polittico. Non deve sorprendere il fatto che, nella stessa scena, compaiano assieme motivi
desunti da repertori pagani, ed elementi propri della religione cristiana: per gli uomini del Rinascimento, esisteva una continuità tra il cristianesimo e il paganesimo, e si
pensava che gli scritti di molti autori pagani (pensiamo a Virgilio, per rimanere nell’area in cui lavorò Mantegna) annunciassero in qualche modo l’avvento del cristianesimo. E
dobbiamo poi considerare che Mantegna nutriva una forte passione per l’arte classica, che ebbe modo di sviluppare durante il suo apprendistato nella bottega di Francesco
Squarcione, pittore noto per i suoi elevatissimi interessi antiquari (e, per inciso, tipicamente squarcioneschi sono i festoni appesi alle architetture). Così, molti dei motivi che
appaiono nella pala di San Zeno, sono desunti dalla conoscenza di monumenti romani, attraverso calchi e riproduzioni in possesso di Francesco Squarcione: Mantegna avrebbe
poi approfondito le antichità classiche, più avanti nel tempo, con un soggiorno diretto a Roma.I simboli che rimandano alla classicità come all’era che ha preceduto l’avvento
del cristianesimo non sono gli unici presenti nel dipinto, che ha una notevole rilevanza anche dal punto di vista simbolico. Il simbolo forse più evidente di tutta la composizione
è l’uovo di struzzo da cui pende la lucerna al centro della scena, proprio sopra il capo della Vergine: è un rimando all’Immacolata Concezione, p erché anticamente vigeva la
credenza secondo la quale le uova di struzzo si schiudessero grazie all’azione dei raggi del sole. E il sole ha sempre rappresentato Dio: Dio quindi feconda l’uovo attraverso lo
Spirito Santo e fa nascere la Madonna. I festoni che decorano la loggia sono carichi d’uva, simbolo dell’Eucarestia, e di pomi, simbolo del peccato originale redento da Cristo
attraverso il suo sacrificio. La decorazione presente sulla sommità del trono della Vergine, a forma di ruota, rimanda invece al rosone della Basilica di San Zeno.Come ribadito
sopra, la Pala di San Zeno segnò l’inizio di una nuova epoca per l’arte veronese: tutti gli artisti del tempo iniziarono a rivedere il proprio stile per aggiornarlo sulle novità
introdotte da Andrea Mantegna, e sulla scorta della lezione mantegnesca si originò una generazione di validissimi pittori che diedero il via al Rinascimento veronese. A
cominciare da tre giovaniCosmè Turadi Mantegna: Francesco Benaglio (1432 circa - dopo il 1492), Domenico Morone (1442 circa - 1518) e Liberale da Verona (1445 circa -
contemporanei
1530), che possiamo un po’ considerare i capiscuola del Rinascimento a Verona. Il primo a recepire le novità fu Francesco Benaglio, che era coetaneo di Mantegna: appena tre
anni dopo la realizzazione della Pala di San Zeno, realizzò il Trittico di San Bernardino, opera tuttora conservata nella chiesa di San Bernardino a Verona, opera derivata
direttamente dall’esempio del polittico mantegnesco, e opera che possiamo considerare la prima pala rinascimentale realizzata da un artista di scuola veronese. La generazione
successiva a quella di Morone e Benaglio, egregiamente rappresentata da artisti come Francesco Morone, figlio di Domenico, Giovan Francesco Caroto, Niccolò
Giolfino, Girolamo dai Libri e altri, sviluppò le idee dei loro insegnanti aggiornandole a seconda del proprio percorso formativo: c’era chi, come Caroto, rimase affascinato dalla
delicatezza e dalla sensibilità correggesca, chi invece, come Francesco Morone e Girolamo dai Libri, guardò al colorismo e alla naturalezza dei pittori di area veneziana
come Giovanni Bellini e Antonello da Messina, e non mancò chi, come Niccolò Giolfino, guardò alla pittura del centro Italia ispirandosi principalmente a Raffaello. Insomma:
Mantegna, con la sua pala, aveva innescato un importante processo di rinnovamento, che fece nascere una delle più interessanti scuole della nostra storia dell’arte.
Cosmè Tura
1460 musa (Calliope) per lo studio di Belfiore a Ferrara
L'opera viene in genere indicata come una delle prime rappresentative dello stile dell'artista e della scuola ferrarese in
generale. Sotto la superficie pittorica, a olio, è stata scoperta una precedente pittura a tempera che mostrava la musa
in un trono di canne d'organo, riferimento evidente alla musica, tanto che alcuni ipotizzano che il soggetto originale
potesse essere stato Euterpe.
La musa, analogamente ad altre tavole della serie, come la Thalia di Michele Pannonio, è raffigurata seduta su un
fastoso trono, con in mano un rametto di albero da frutta, in questo caso un ciliegio. Il punto di vista è ribassato, con
un aspetto solido delle figure, che contrasta con la frivolezza esuberante delle decorazioni del trono. Esso è
rappresentato secondo le regole della prospettiva in marmi policromi, a cui sono applicate decorazioni dorate a forma
di grossi delfini, secondo al stilizzazione tipica dell'epoca, con denti aguzzi e pinne attorcigliate a formare complessi
giochi lineari, sottolineati dalla luce incidente che fa sembrare tutto metallico o brillante come gemme. Altri elementi
che richiamano il mondo marino sono la conchiglia dietro la testa della Musa, i coralli e le perle.
Il prototipo di questo tipo di decorazione sfarzosa e colta (numerose sono le citazioni dell'antico) è la bottega
di Francesco Squarcione a Padova, dove Tura ebbe una prima formazione. Ma la sua fantasia si fa ancora più sfrenata
degli squarcioneschi, combinando gli elementi decorativi con grande libertà fino a raggiungere una tensione quasi
surreale. Il panneggio appare rigido e scultoreo, come se fosse sbalzato nella pietra. A ciò si aggiungono echi del
mondo cortese, molto vivo alla corte estense di Ferrara, come l'attenzione al dettaglio ricercato quale le damascature
delle maniche della veste. Un altro input del ferrarese è la luce chiara di Piero della Francesca, dal quale imparò
probabilmente anche le regole per la costruzione prospettica e l'uso dei colori a olio, a cui va aggiunta anche l'influenza
dei fiamminghi nella cura lenticolare dei dettagli, evidente soprattutto negli accenti brillanti delle gemme e delle perle.

1474 Madonna con bambino e angeli musicanti (Madonna Roverella)


La Madonna col Bambino è posta alla sommità di un ripido trono, secondo uno schema piramidale che in quegli anni si
andava affermando anche a Venezia. Sui gradoni che conducono al trono sono disposti quattro angeli musicanti, mentre altri
due, inginocchiati, sono alla base, davanti a un organo dove si trova un'iscrizione latina con cui Niccolò Roverella,
inginocchiato nello scomparto destro, chiede al Bambino di "aprire la porta" ammettendolo alla loro presenza nello
scomparto centrale. Altre iscrizioni in caratteri ebraici si trovano ai lati del trono, su lapidi nella tipica forma giudaica:
dopotutto a Ferrara esisteva una nutrita comunità ebraica.
In lato il trono è coronato da un arco con lacunari in prospettiva, scorciato secondo un punto di vista fortemente ribassato.
Estremamente fastoso è il ricorso a elementi decorativi, soprattutto nel coronamento del trono con elementi simbolici
(come il tetramorfo) e ripresi dall'antichità (come i genietti). Due grappoli d'uva rimandano al tema della fertilità, così come
le cornucopie. Sopra la testa di Maria si trovano elaborate conchiglie che coprono e sormontano la calotta della nicchia del
trono, dove pende anche un filo di perle e coralli, simboli rispettivamente di purezza e di prefigurazione della Passione di
Cristo (per il colore rosso come il sangue).
In generale spicca la ricchezza cromatica dell'insieme e l'estrema fantasia compositiva nel disporre gli elementi. Le figure
sono fortemente chiaroscurate, come tipico dell'artista, ma hanno una monumentalità accentuata dai colori limpidi che
richiama lo stile di Piero della Francesca. I panneggi hanno quel tono pesante e "bagnato" che si ritrova in altre opere
dell'artista, con una preferenza per i contorni spigolosi, generanti complessi effetti lineari.

Francesco del Cossa


1470 affresco dei Mesi (Marzo) a Palazzo Schifanoia a Ferrara
Le pareti sono contraddistinte dalla presenza di dodici sezioni che corrispondevano ai dodici mesi
dell’anno: di questo ne sopravvivono solo sette. I mesi sono intervallati da aree nelle quali erano dipinte
scene di vita urbana o cortigiana. Il senso di lettura generale è orizzontale, da destra verso sinistra,
mentre per quanto attiene ciascun mese si procede in verticale: in alto il Trionfo della divinità
protettrice del mese raffigurato, nella fascia mediana il segno zodiacale e i rispettivi decani, infine,
l’ultima è dedicata ai fasti del committente, effigiato per ben tre volte in ogni scena mentre ostenta le
virtù ducali che contraddistinsero il suo regno.
Il Salone era pensato come una sorta di scatola scenica illusoria: ventidue paraste dipinte simulano la
funzione di reggere il soffitto ligneo partendo da un alta balaustra decorata da fregi con putti. Questi
elementi erano chiamati a simulare la presenza di uno spazio illusorio, una sorta di loggia all’antica che
si apriva sulla Ferrara all’epoca di Borso d’Este.

La decorazione, realizzata con tecnica a fresco, comprende, insieme alle rappresentazioni andate perdute (quelle con le lettere), le quattro pareti del salone
principale (largo 11, lungo 24 ed alto 7,50 m.) dell’omonimo palazzo a Ferrara. Le superfici affrescate sono suddivise in sezioni uguali tra loro e
simmetricamente opposte, intervallate le une dalle altre da lesene simulate.
Ogni sezione, simboleggiante un mese, è a sua volta divisa in tre registri. In quello in alto è rappresentato il trionfo del dio al quale il mese è riferito; nella
zona mediana, il relativo segno astrologico integrato da simboli minori, quali i “decani”, ovvero, periodi astrologici della durata di dieci giorni; nel registro in
basso – di tutte le sezioni – è rappresentato il duca Borso d’Este che come sovrano adempie ai suoi incarichi.
1473-78 Polittico Griffoni
Pala d’altare dedicata a San Vincenzo Ferrer commissionata intorno al 1470-1472 da Floriano
Griffoni. per la sua cappella nella Basilica di San Petronio a Bologna. Il Polittico segnò l’inizio della
sua collaborazione con il più giovane Ercole de’ Roberti, dando così vita a uno dei più formidabili
sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme ai due artisti lavorò
l’intagliatore Agostino de Marchi da Crema, che realizzò la cornice, oggi purtroppo andata
perduta. L’opera venne smembrata nel 1725 per volontà del nuovo proprietario della
cappella, Monsignore Pompeo Aldrovandi, che ridusse i pannelli dipinti a dei quadri da stanza. Le
tavole approdarono poi sul mercato antiquario, giungendo infine nei nove Musei internazionali che
oggi ne sono i proprietari.
Ercole de’ Roberti
1481 Madonna in trono con santi
Il dipinto fu commissionato dai Canonici Portuensi per l'altare maggiore di Santa Maria in Porto
Fuori a Ravenna per celebrare la memoria del fondatore dell'ordine, il Beato Pietro degli Onesti,
per volontà del quale la chiesa era stata eretta, in seguito a un voto fatto alla Vergine nel 1096,
quando la nave su cui viaggiava di ritorno dalla Terra Santa era scampata miracolosamente alla
tempesta che l'aveva sorpresa al largo del porto di casa. La scena sacra si svolge sotto
un'architettura porticata, una vasta campata aperta sui quattro lati, dietro la quale, visibile
attraverso i due grandi tendaggi rossi tirati, si apre un vasto paesaggio, forse raffigurante proprio
Ravenna. La composizione architettonica pare alludere al mistero dell'Incarnazione: lo spazio
diventa il luogo della manifestazione del divino, nel quale ha sede il trono-tabernacolo sul quale
sono mostrati e si offrono la Vergine col Bambino: la Madonna, inoltre, pare sovrastare il porto di
Ravenna, divenendone la protettrice. Molti elementi decorativi sembrano alludere alla
Resurrezione come fondamento della Salvezza dell'uomo: le rosette sugli intradossi degli archi, le
testine dei cherubini sugli estradossi, i ciuffetti di erbe che spuntano dalle crepe del marmo, i due
nudi di Sansone e David nei pennacchi frontali (le cui vittorie prefigurano il trionfo di Cristo). Il
sedile del trono su cui siede la Vergine è decorato da una serie di formelle poste su registri
sovrapposti (per gli episodi raffigurati si veda M. Molteni 1999); la base ottagonale rimanda alla
Resurrezione. Ai lati della Vergine, in ginocchio, vi sono a sinistra Sant'Anna in atto di porgere il
cardellino (simbolo della Passione) al Bambino mentre Santa Elisabetta è assorta in preghiera:
bisogna ricordare che alle due sante è dedicato il ciclo di affreschi che decorava il presbiterio della
chiesa. In primo piano compaiono Sant'Agostino e il Beato Pietro degli Onesti. La pala portuense è
l'unica opera di De Roberti provvista di un definitivo appiglio documentario nonché di un preciso
riferimento cronologico, da quando Ricci (1904) pubblicò un documento relativo ai pagamenti
effettuati dai canonici portuensi nei confronti dell'artista nel corso del 1481. Il tappeto che si
intravede sui gradini del trono: esso appartiene ad una tipologia di cui non si conserva più alcuna
traccia (la stessa che si nota nel dipinto di Holbein 'Gli Ambasciatori' della National Gallery di
Londra). Testimonianza di tappeti simili si trovano in altri dipinti come quello di Andrea da Faenza
(Norcia, Palazzo Comunale) del primo quarto del XVI secolo, di Francesco Morone (Soave, Chiesa
Parrocchiale 1526- 1529) e di Sperindio Cagnoli (Cerano, 1510 ca.) che tuttavia non hanno i
cantonali presenti nel dipinto di Ercole de' Roberti. Anche nella Pala Bentivoglio di Lorenzo Costa
(Bologna, chiesa di san Giacomo Maggiore, 1488) ai piedi della Madonna c'è un tappeto con
bordura e frangia molto realistica.
Jan Van Eyck
1432 Ritratto del Cardinale Niccolò Albergati
Importante protagonista della politica pontificia sotto Martino V. Durante un congresso di pace
ad Arras incontrò van Eyck, che lo ritrasse su un disegno dove erano appuntati anche note per la
colorazione in previsione di effettuarne il ritratto, che venne concluso negli anni immediatamente
successivi. Il prelato è ritratto di tre quarti, come consueto nella pittura fiamminga fin dagli anni
trenta del XV secolo, su uno sfondo scuro che esalta al massimo l'effigie, posta invece in piena luce. Il
contrasto luminoso è attenuato da una luce diffusa, che rischiara l'anziano cardinale i cui tratti
sembrano suggerire un certo affaticamento psicologico. Nonostante i segni dell'età però l'anziano
sembra emanare una calma bonaria, che sembra saper affrontare con solenne tranquillità gli affanni
della sua esistenza. Il confronto tra schizzo e quadro suggerisce che il pittore abbia sottilmente
modificato l'immagine del prelato sottoponendo l'immagine ritratta nello schizzo, più fresca e
verosimigliante, ad un'opera di revisione morale, impartendo al viso del prelato, sereno e non
particolarmente imponente nello schizzo, un'aria di pensosa autorità. Un'analisi delle dimensioni
relative delle diverse parti del viso del prelato dimostra che Jan van Eyck ha modificato le proporzioni
della figura: le spalle del cardinale siano più ampie rispetto alla testa e che l'apertura delle maniche è
più distante dalla linea delle spalle, dando l'impressione di una persona più alta che nel disegno
preparatorio.

Per quanto il quadro sembri nel complesso più allungato del disegno originale, la semplice ipotesi di una deformazione derivante dall'uso di lenti per
ingrandire l'immagine, non spiega adeguatamente le dimensioni dell'orecchio: esso infatti è stato significativamente aumentato in dimensione per suscitare
la sensazione di vetustà (infatti le orecchie ed il naso delle persone continuano a crescere per tutta la vita e le persone anziane hanno naso e orecchie più
grandi), vetustà che manca nello schizzo preparatorio, caratterizzato da un orecchio piccolo, quasi infantile appunto ove pur non manca la vecchiezza della
pelle. Il naso è stato alleggerito nella tonalità e nella curva inferiore, impartendogli nobiltà ed autorità al posto di una certa mondanità. La bocca è stata
atteggiata con labbra serrate, che comunicano pensosità, cancellando la pacifica espressione raccolta dallo schizzo, e l'occhio di sinistra è stato corretto per
rafforzare l'estressione pensosa. Il taglio di capelli è stato alleggerito e reso più austero. Nel complesso, l'autore soffonde nella figura del Cardinale Albergati
una autorità e profondità di pensiero che non si colgono nello schizzo preparatorio. Interessante è anche notare come la cappa cardinalizia si presenti come
sfocata e priva di dettaglio, quasi riducendola a mero simbolo di stato sociale, rispetto alla perfetta definizione del viso del prelato, facendone così il vero ed
unico centro d'attenzione.
1433 Madonna di Lucca
Presenta un'iconografia inconsueta, fondendo una Madonna del Latte con la Maestà (cioè la Madonna in trono). Il
trono è decorato da intagli leonini, resi con magistrali effetti di luce, che richiamano ai trono di Salomone (Primo
Libro dei Re 10:18-20 e Cronache 9:17-19). La stanza è piccola, soprattutto in rapporto al trono, e si tratta di un
effetto voluto che accresce l'atmosfera di intimità familiare della rappresentazione.
Vari oggetti arricchiscono la composizione e hanno vari significati: dalla descrizione di un interno ricco (il tappeto
turco, il parato del trono) alla specificazioni di simboli. In questo senso l'acqua e il vetro sono simbolo della purezza
"senza macchia" di Maria, mentre le due arance sul davanzale sono un richiamo al frutto proibito del Peccato
originale, spesso indicate al posto della mela nei paesi nordici.
Vero protagonista della composizione è l'ampio mantello rosso di Maria, che riempie tutta la parte inferiore del
dipinto, disegnando delle pesanti increspature che nascondono il corpo della Vergine. Il virtuoso panneggio
abbondante e frastagliato, senza schematismi, è una delle caratteristiche tipiche di molte opere di van Eyck, e la sua
sovrabbondanza dà quasi la sensazione di avanzare verso lo spettatore, avvicinando così l'icona sacra.
La Madonna col Bambino in un interno, della quale esistono altre versioni di van Eyck e di seguaci, dava
l'opportunità di sperimentare acuti effetti di luce, che varia a seconda delle superfici che incontra: viene assorbita
dai paramenti, è opaca sul legno, translucida sull'acqua e sul vetro, forte sugli incarnati dei protagonisti, che
emergono con forza dalla penombra. Alcuni effetti sembrano anticipare la sofisticata pittura d'interni di Vermeer,
come i frutti sul davanzale.
Il morbido tappeto ai piedi della Vergine dà a van Eyck la possibilità di dimostrare le sue capacità in termini di
definizione spaziale tramite l'applicazione della prospettiva. Lo spazio dei fiamminghi non è però organizzato come
negli italiani, poiché la linea dell'orizzonte è più alta e la definizione delle pareti è di solito incompleta, non mostra
cioè tutti gli elementi: l'effetto che ne deriva è quello di uno spazio più avvolgente, che include lo spettatore nella
raffigurazione.

1433 Ritratto d’uomo con turbante rosso


Lo sguardo dell’uomo con turbante rosso di van Eyck è intenso e penetrante. Si tratta di un uomo
non giovanissimo, dato che i suoi occhi sono contornati da piccole rughe. Tuttavia non è neppure un
uomo anziano e la sua espressione è seria e sicura di sé. L’uomo ritratto è avvolto da una veste scura
con un collo di pelliccia e la testa è coperta da un turbante rosso e annodato in modo elaborato.
Jan van Eyck non si è risparmiato nella descrizione minuziosa del tessuto, delle ombre e dei dettagli
del volto, comprese le rughe e la barba non perfettamente rasata che si nota solo osservando nel
dettaglio la pelle del viso.
Nel Ritratto di uomo con turbante rosso di van Eyck è lo sguardo il vero protagonista su cui si posa
tutta la nostra attenzione. Proprio il fatto che l’uomo ci sta osservando induce a pensare che si tratti
di un’autoritratto dell’artista, che si è rappresentato mentre osservava il suo volto allo specchio. Pare
che van Eyck indossasse spesso un turbante rosso. Infatti, l’artista ha inserito anche in altre opere il
suo autoritratto in cui indossa lo stesso turbante, come ad esempio nel riflesso dello
specchio del ritratto dei coniugi Arnolfini e nel riflesso dello scudo della Madonna del canonico Van
der Paele.

1434 Coniugi Arnolfini Probabilmente l’opera più celebre del pittore fiammingo, doppio ritratto di Giovanni Arnolfini, ricco mercante di
Lucca trasferitosi nelle Fiandre per curare gli affari di famiglia, e di sua moglie, la cui identità non è stata ancora
chiarita. I due sposi facevano parte della comunità di mercanti e banchieri italiani residenti a Bruges. Il dipinto
appartenne per un certo periodo agli Arnolfini, poi entrò a far parte della collezione reale spagnola e intorno alla
metà del XIX secolo fu acquistato dalla National Gallery di Londra, che ancora oggi lo espone.
L’uomo e la donna, riccamente abbigliati, sono mostrati nella loro camera da letto, descritta in ogni minuto dettaglio,
mentre si rivolgono allo spettatore tenendosi per mano. Giovanni Arnolfini, dall’aspetto assai severo, sta compiendo
un gesto cerimonioso con la sua mano destra, che può essere interpretato sia come saluto sia come giuramento. È
assai probabile che i due stiano pronunciando la loro promessa di fedeltà matrimoniale alla presenza di testimoni.
Gli Arnolfini, infatti, non sono soli nella stanza. Un grande specchio convesso alle loro spalle riflette l’ambiente nella
sua totalità e ci rivela che sono presenti altre due figure, una delle quali sarebbe lo stesso Van Eyck (che difatti si
firmò asserendo di “essere stato lì”). Tale espediente geniale coinvolge l’osservatore nell’evento che si sta svolgendo,
attraverso una finzione illusoria ma del tutto verosimile.
Gli Arnolfini, infatti, non sono soli nella stanza. Un grande specchio convesso alle loro spalle riflette l’ambiente nella
sua totalità e ci rivela che sono presenti altre due figure, una delle quali sarebbe lo stesso Van Eyck (che difatti si
firmò asserendo di “essere stato lì”). Tale espediente geniale coinvolge l’osservatore nell’evento che si sta svolgendo,
attraverso una finzione illusoria ma del tutto verosimile.

L’opera, magistrale per la sua eleganza e la minuzia di ogni particolare, ci propone una delle più belle rappresentazioni di ambiente domestico del Nord Europa. Osserviamo il
muro screpolato, le tavole del bel pavimento ligneo, piuttosto larghe e poste con una connessione geometrica che serve a dare l’indicazione di una prospettiva centrale. Anche il
solaio è in legno, con travi dallo stretto intervallo, disposte in senso longitudinale. Lo splendido lampadario che domina al centro ha un corpo centrale tornito e i bracci
riccamente sagomati.
Il letto è a baldacchino; la tappezzeria, di un bel rosso acceso, è la stessa che fodera i cuscini sulla panchetta. L’ambient e è come ovattato, pervaso da una certa calda atmosfera
familiare. A sinistra, sotto la finestra, s’intravede un mobile basso sul quale è stata posata la frutta. La luce filtra dalla grande finestra a croce, tipica del Rinascimento del Nord, i
cui vetri sono a fondo di bottiglia, connessi a piombo; i portelli inferiori lasciano intravedere il paesaggio esterno. Si osservi che, per motivi di economia, solo la parte superiore
della finestra è munita di vetri; le imposte, però, si possono chiudere anche solo parzialmente, per riparare dal freddo nei giorni invernali senza lasciare la camera nella completa
oscurità.
L’immagine, nonostante sia permeata da un profondo senso di quotidianità, è ricca di simboli che rimandano al vero tema affrontato dall’artista, quello del matrimonio. La
donna, che ha un atteggiamento di sottomissione nei confronti del marito, raccoglie sul ventre un lembo del suo ampio vestito: gesto di buon auspicio che allude al le sue future
gravidanze. Anche il colore verde dell’abito simboleggia la fertilità.
Il cane raffigurato ai suoi piedi, ben più espressivo dei due padroni, è simbolo di fedeltà coniugale. Persino la frutta simboleggia il frutto del matrimonio, dunque i fig li che
verranno. Perfino i semplici zoccoli di legno del marito, dalle stringhette di cuoio invecchiato, e le pantofole rosse della moglie ricordano che quel luogo è reso sacro dalla
promessa coniugale: per questo gli sposi stanno umilmente a piedi nudi.
Hugo van der Goes
1473-78 Trittico Portinari

Il pannello centrale del trittico rappresenta una Adorazione dei pastori. La scena si basa sulle visioni di Santa Brigida di Svezia. A sinistra, è dipinto San Giuseppe, lievemente in
disparte rispetto alla Vergine e al bambino. La scena centrale continua nei pannelli laterali. Su quello di sinistra vi sono i componenti maschi della famiglia Portinari, mentre su
quello di destra, le donne. I pannelli posteriori sono visibili quando il trittico è chiuso. Su di essi è dipinta una Annunciazione con stile monocr omo. I fiori rappresentati, gigli e iris,
simboleggiano la purezza della Vergine. Nel bicchiere si osserva poi una colombina, pianta funeraria che rappresenta la passione di Cristo. Nel Trittico Portinari, Hugo van der
Goes inserì molte fisionomie umane. I tre pastori a destra ad esempio hanno visi molto particolari.
IlTrittico Portinari di Hugo van der Goes giunse a Firenze nel 1483, dove divenne il dipinto fiammingo più imitato dagli artisti del tardo Quattrocento. Soprattutto furono Piero di
Cosimo e Leonardo a prendere esempio dall’opera. La tavola fu commissionata da Tommaso Portinari, agente della famiglia de’ Medici a Bruges. Il dipinto venne poi portato a
Pisa su di una nave. Attraverso l’Arno giunse a Firenze il 28 maggio 1483 e condotto alla chiesa di Sant’Egidio nell’Ospedale di Santa Maria Novella.
Il Trittico Portinari è il capolavoro di Hugo van der Goes perché è stato realizzato con un taglio molto realistico. Inoltre le grandi dimensioni e la costruzione dello spazio con la
sola luce affascinarono i fiorentini contemporanei come il Ghirlandaio. La perfezione dei particolari è altissima, soprattutto, nel vaso in primo piano con i gigli e le iris.
La pittura ad olio rende la tavola molto brillante e le figure sembrano, quindi, lucide e definite. Lo spazio di questa scena si ispira a quello delle Sacre rappresentazioni e
raggiunge un effetto teatrale. I personaggi sono inseriti in uno scenario molto elaborato e ultraterreno. Infatti, figure celesti sono presenti e affiancate a personaggi terrene. La
profondità, come in tutte le opere fiamminghe, è sottolineata dalla luce. L’orizzonte poi è molto alto e pare un palcoscenico sul quale si svolge l’evento dipinto. L’intera scena
infine presenta una notevole profondità ottica e sono visibili chiaramente, paesaggi molto lontani.

1475 Ritratto d’uomo alla finestra

Hans Memling
Antonello da Messina
1474 San Girolamo nello studio
È molto probabile che Antonello lo realizzò durante il suo soggiorno a Venezia negli anni 70 del Quattrocento.
Antonello riuscì ad assorbire tutte le novità che incontrò sul suo percorso lasciando però sempre il segno del suo
stile. In particolare le opere di questo artista furono influenzate dalla pittura dei Paesi Bassi e qui lo vediamo bene
nella cura dettagliata che usò per rappresentare gli oggetti come l’asciugamano appeso al mobile o nel modo in cui
realizzò il paesaggio attraverso la finestra. Molto probabilmente a Napoli, dove l’artista si formò, vide nelle
collezioni reali di pittura fiamminga un’opera di Jan van Eyck molto simile a questa e a cui si ispirò. Il tema del
dipinto era molto diffuso nel XV secolo.
Protagonista è San Girolamo, uno dei quattro Padri della Chiesa, famoso per la cosiddetta Vulgata e cioè la
traduzione che fece della Bibbia dal greco al latino. Lo studiolo del santo, ricavato all’interno di un vasto ambiente
goticheggiante, è uno scrigno organizzato alla perfezione, con lo scrittoio, i sedili, ampi scaffali e persino due vasi
per erbe aromatiche. Sono molti anche gli animali presenti. In primo piano un pavone, simbolo della chiesa e una
coturnice che allude alla verità di Cristo. Vediamo inoltre un leone che si aggira nell’ambiente che fa da sfondo. Il
felino, secondo la leggenda, divenne fedele al santo perché questi lo aiutò estraendogli una spina dalla zampa.
Il pavimento è uno straordinario esempio di virtuosismo prospettico con le sue piastrelle geometriche che
suggeriscono la profondità dello spazio. E così questa piccola tavola di 45×36 centimetri ci appare come una
composizione vastissima inquadrata all’interno di una grande finestra ad arco. Un espediente spesso utilizzato per
collegare illusionisticamente il nostro spazio reale con quello costruito nel dipinto. A completare il capolavoro il
sorprendente utilizzo della luce che penetra nell’opera da varie fonti rendendo estremamente reale il tutto.

1475 Ritratto d’uomo a Venezia


L'opera ritrae un uomo sconosciuto, di ceto sociale medio-alto a giudicare dall'abbigliamento. La giubba
in pelle lascia intravedere la camicia bianca, mentre in testa l'uomo ha una berretta rossa di panno.
La posa è di tre quarti contrariamente alla tradizione dell'epoca (come nel caso di Piero della
Francesca nel suo Dittico dei Duchi d'Urbino degli Uffizi, uno degli esempi più noti), lo sfondo scuro e la
rappresentazione essenziale derivano dai modelli fiamminghi, in particolare di Petrus Christus che forse
Antonello conobbe direttamente in Italia.
La luce è radente ed illumina il volto come se si affacciasse da una nicchia, facendo emergere
gradualmente i lineamenti e le sensazioni del personaggio. Lo sguardo acuto e penetrante, rivolto verso
l'osservatore, mostra una personalità viva. L'uso dei colori a olio permette un'acuta definizione della
luce, con morbidissimi passaggi tonali, che riescono a restituire la diversa consistenza dei materiali.
A differenza delle opere fiamminghe però Antonello definì anche una salda impostazione volumetrica
della figura, con semplificazioni dello stile "epidermico" dei fiamminghi che permette di concentrarsi su
altri aspetti, quali il dato fisiognomico individuale e la componente psicologica.
Un'analisi a raggi X ha rivelato che gli occhi erano in origine orientati diversamente. Forse
originariamente esisteva un parapetto dipinto da cui il personaggio si affacciava, poi tagliato via in epoca
imprecisata. Alcuni hanno anche ipotizzato che l'opera possa essere un autoritratto.

1476 Pala di San Cassiano

Il nome della pala deriva dalla chiesa veneziana di San Cassiano a cui era originariamente destinata. Venne commissionata da Pietro Bon ed ebbe un
dirompente successo tra i colleghi veneti, sia per l'uso, fino ad allora piuttosto inconsueto, dei colori a olio, sia per l'innovativa composizione.Della grande
pala d'altare, una Sacra conversazione, restano oggi solo la Vergine sul trono rialzato e quattro santi a mezzo busto: san Nicola di Bari, santa Maria
Maddalena, sant'Orsola e san Domenico. In origine ve ne erano quattro per parte, tra cui san Giorgio e san Sebastiano.
Derivata pare da un'altra pala d'altare di Giovanni Bellini nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (perduta, ma nota da un'incisione di Francesco Zanotto),
l'opera era caratterizzata da un maggior respiro compositivo, calibrato con grande cura, con i santi meno serrati e disposti a semicerchio attorno all'alto
seggio della Vergine, inserito a sua volta in una sobria ambientazione architettonica. Si creava così un andamento di tipo piramidale in cui le figure appaiono
perfettamente a loro agio con grande naturalezza. La novità più stupefacente era data però dagli effetti atmosferici creati dalla luce, che unificano l'opera
con toni caldi e rendono più naturale la rappresentazione: il lume dorato inonda le figure, restituendo con scioltezza i vari dettagli e i rapporti spaziali tra le
figure. Accanto a una sintesi geometrica di alcuni brani, come il corpo della Vergine, si incontrano virtuosismi prospettici, come il volto della Vergine e il libro
con tre palle d'oro retto da san Nicola (allusione all'episodio in cui le regalò a tre fanciulle povere perché avessero la dote per sposarsi), e si sposano inoltre
con sottigliezze ottiche della pittura fiamminga.
1476 San Sebastiano
Il San Sebastiano era lo scomparto centrale del trittico smembrato (Trittico di San Giuliano), già nella chiesa veneziana
di San Giuliano. Sebastiano proteggeva dalla peste. Il santo campeggia seminudo legato ad un albero al centro di una via
su cui si affacciano alcuni edifici probabilmente attribuibili a Venezia che, scorciati in prospettiva, incorniciano la sua
figura e ne esaltano la monumentalità, grazie anche al punto di vista ribassato. Al centro si trova un passaggio sospeso su
una doppia arcata, oltre la quale campeggia un sereno cielo azzurrino.
Sebastiano, che come avveniva dal XV secolo offriva la possibilità di ritrarre un dettagliato saggio di anatomia umana, è
ritratto in piedi, leggermente curvo verso destra, con indosso un perizoma e con cinque frecce conficcate in cinque parti
del suo corpo: una poco più sopra al suo ginocchio destro, una nella sua coscia sinistra, una nel suo ventre, una nel suo
addome ed una conficcata in pieno petto. La sua espressione è priva di dolore ma manifesta una pacata mestizia nella
sopportazione del martirio.
Lo sfondo è animato da una serie di figurette che creano anche alcune scenette "di genere": due donne affacciate dalla
balaustra su un tappeto, un soldato ubriaco di scorcio, una donna col figlio in braccio, una coppia di armati e una di esotici
mercanti in conversazione.
Vi si colgono molteplici influenze: dalla simmetrica disposizione matematica degli elementi dello sfondo alla Piero della
Francesca (evidente anche nel complesso disegno del pavimento), alle sperimentazioni illusionistiche di Andrea
Mantegna (l'uomo sdraiato in scorcio è una citazione del Trasporto del corpo di san Cristoforo nella Cappella Ovetari, così
come lo scorcio di edifici sullo sfondo), fino alla dolcezza fatta di toni soffusi alla Giovanni Bellini nella rappresentazione
naturalistica del corpo del santo. Tipico di Antonello è poi il senso della luce, derivato dalla diretta conoscenza
della pittura fiamminga, che tanta importanza ebbe negli sviluppi dell'arte veneziana dopo il suo soggiorno.
1476 Pietà
Antonello da Messina torna nel 1476, quando ha circa 47 anni, definitivamente a Messina, dopo
aver rifiutato l'offerta di diventare ritrattista ufficiale per i signori di Milano, gli Sforza. Col suo
ritorno nella sua città natale di Messina il pittore accentuerà molto il realismo e l'intensità
espressiva in opere davvero stupefacenti come l'Annunciata di Palermo e la Pietà appunto, dipinta
tra il 1476 e il 1478, su committenza di un privato.
La scena che Antonello da Messina immagina e rappresenta non è narrata da nessun Vangelo. Cristo
è già stato deposto dalla croce e sta per essere messo nel sepolcro. Prima di compiere la sepoltura,
un angelo piangente ci mostra Cristo morto in tutta la sua drammaticità: il volto con la bocca ancora
aperta, le mani cadenti, il fianco squarciato da cui esce sangue in abbondanza. L'immagine del Cristo
e dell'angelo è inserita in un paesaggio con teschi e tronchi secchi che simboleggiano la morte,
mentre in secondo piano la città e il verde della natura simboleggiano la Resurrezione. Nello sfondo
è possibile notare la città di Messina nel 400, in cui è possibile osservare la rappresentazione il
duomo cittadino con il suo campanile circondato dalle imponenti mura perimetrali della città.
Si tratta senza dubbio di un'opera per un committente privato, dipinta per indurre chi la guardava a
meditare sulla passione di Cristo. Il realismo con cui è resa la morte, il contrasto fra l'incarnato
roseo dell'angelo e quello più cadaverico di Cristo, il dolore estremo dell'angelo, il contrasto fra
figure in primo piano e paesaggio, avevano lo scopo di coinvolgere emotivamente lo spettatore e
ricordargli a quale prezzo era stata guadagnata da Cristo la sua salvezza.
Il volto del Cristo è stato probabilmente ripreso dalla piccola tavoletta del Cristo alla colonna (1476
circa) di Antonello, che oggi è visibile al Museo del Louvre. L'iconografia invece in cui il Cristo morto
è sorretto dall'angelo è di origine nordica, ma era già presente nelle opere di Carlo Crivelli. Il corpo
del Cristo è reso naturalisticamente, sia nel costato sanguinante che nel volto sofferente a cui fa da
contrappunto la bellezza idealizzata del volto dell'angelo.

Giovanni Bellini
1455 Trasfigurazione
L'opera fa parte del nucleo di opere cosiddette "mantegnesche" della fase giovanile del Bellini, dove
cioè sono evidenti le influenze del cognato Andrea Mantegna. Per questo la datazione si colloca vicino
al periodo 1455-1460, quando Mantegna fece probabilmente anche un soggiorno a Venezia, facilitando
il contatto tra i due pittori. La firma del Mantegna, nel cartiglio in basso, è ritenuta apocrifa e fu
all'origine dei primi errori attributivi. La provenienza del dipinto è ignota; perché al momento del
lascito alla città di Venezia, nel 1830, il donatore Teodoro Correr aveva distrutto ogni documentazione
riguardante la sua storia precedente.
L'opera era originariamente cuspidata e in un secondo momento venne "attualizzata" dandole la forma
rettangolare attuale.
Elia e Mosè si manifestano accanto a Gesù sul monte Tabor, mentre poco più in basso sono rimasti
folgorati gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, secondo un'iconografia che ha le sue origini
dai vangeli sinottici.
Tutta la composizione è concepita secondo un moto ascendente, diviso dagli strati rocciosi, che
culmina nella figura biancovestita di Cristo. Le figure sono inarcate sulle proprie spalle, con le teste
forzate in scorci arditi, dettati probabilmente da un desiderio di emulare le stupefacenti illusioni
prospettiche di Mantegna. La scansione dei piani infatti è enfatizzata prospetticamente da una visione
"da sotto in su" del gruppo superiore di Cristo tra i profeti.
Spiccano le linee spezzate e il segno asciutto e incisivo, nelle rocce come nei panneggi, con
un'espressività cruda che andrà progressivamente attenuandosi nelle opere successive di Giovanni. Ne
è un esempio il paesaggio che, soprattutto a sinistra, è già impostato a una maggiore dolcezza e a un
realismo fresco che qui si incontra forse per la prima volta in un'opera dell'artista. Grazie infatti alla
nuova enfasi posta sulla luce e il colore, la veduta è intenerita e riesce a immergere la scena miracolosa
in una dolce atmosfera vespertina, derivata dall'esempio fiammingo.
1460 Pietà
Bellini è un disegnatore straordinario: è la perfetta definizione dei personaggi e di ogni
minuto particolare a dettare i connotati dell’opera. Del resto, a Venezia i fiamminghi
erano ben noti (e collezionati) e Giovanni Bellini guarda anche a loro. Le tre figure – a
grandezza naturale – hanno di fronte a loro una balaustra, che è poi il bordo della
tomba Gesù, come in funzione di altare e di separazione tra chi osservi e le tre figure
sacre.
Nel contempo però, la mano sinistra di Gesù, ancora contratta per il vulnus inferto dai
chiodi, poggia sul medesimo parapetto creando un collegamento con lo spettatore.
In realtà, il rapporto tra spettatore ed opera è in questo caso particolarmente
complesso. Dobbiamo, infatti, partire da lontano. Dall’arte bizantina (a Venezia
Bisanzio era ben nota) dove al dipinto era attribuito il potere di far coincidere illusione
e realtà: cioè Maria, Gesù e Giovanni sarebbero realmente di fronte allo spettatore.
Dunque, l’immagine dovrebbe produrre l’effetto di far vivere agli astanti le stesse
emozioni che avrebbero provato se fossero stati realmente presenti nel tragico
momento. Non a caso, Bellini sceglie di scrivere nel cartiglio (che è anche la sua firma)
la frase: “Se questi occhi turgidi evocano gemiti, l’opera di Giovanni Bellini potrebbe
piangere”. E’ impossibile staccare lo sguardo dal viso della Madre che sfiora quello del
Figlio divenendo rappresentazione universale dello strazio di una madre che pianga suo
figlio.
E’ come se la Vergine cercasse un ultimo sguardo dagli occhi chiusi del Cristo. Come se
cercasse di percepire l’ultimo sospiro dalle labbra semichiuse.
Tutto il resto è perfezione e ricerca spasmodica della resa assoluta del particolare. Le
mani, bianchissime quelle del Cristo, rosee quelle della Madonna. Le barbe ed i capelli.
La sottilissima striscia di sangue sul sudario di Gesù colata dalla ferita del costato.
Il disegno, come detto, la fa da padrone. Ad iniziare dai visi dei personaggi. La scelta di
avere come sfondo – dalle spalle in su – solo un cielo grigio leva ogni distrazione allo
spettatore e porta ancor più verso le figure dei personaggi.

1464-68 Polittico di San Vincenzo Ferrer


Il polittico, dalla sfarzosa cornice dorata di gusto lombardesco inserita a sua volta in una severa struttura
marmorea, è articolato su tre ordini per un totale di nove scomparti. La struttura originale comprendeva anche
un, al posto della conchiglia rococò, un'ampia lunetta raffigurante il Padre Eterno tolta nel 1777 e ora dispersa.
Al centro si trovano tre santi a grandezza naturale, da sinistra san Cristoforo, san Vincenzo Ferrer e san
Sebastiano. Il registro superiore mostra al centro un riquadro con il Cristo Passo (Cristo morto sorretto da due
angeli) e ai lati l'Arcangelo Gabriele (con un giglio, simbolo di purezza) e la Vergine annunciata; quest'ultima è
in preghiera ed ha lo sguardo rivolto verso l'alto, dove anticamente esisteva la lunetta dipinta con il Padre
Eterno. La predella invece mostra i miracoli di Vincenzo Ferrer: i due scomparti laterali sono divisi in due scene
ognuno per mezzo di una colonna dipinta, mentre quella centrale è una scena unica. Da sinistra si leggono: San
Vincenzo salva un'annegata, resuscita i morti sotto le macerie, redime con le parole un uomo e una donna
colpevoli di un delitto salvando le loro anime, resuscita un bambino e libera i prigionieri.
I santi del registro centrale sono caratterizzati da un forte scatto plastico, sottolineato dalla monumentalità
delle figure, le linee enfatiche delle anatomie e dei panneggi, l'uso geniale della luce radente dal basso per
alcuni dettagli (come il volto di san Cristoforo). Lo spazio è dominato da lontani paesaggi sullo sfondo e la
profondità prospettica è suggerita da pochi elementi basilari, come le frecce in scorcio di san Sebastiano o il
lungo bastone di san Cristoforo o la velatura dell'acqua sui suoi piedi. A parte alcuni accorgimenti, come l'uso
di una medesima linea dell'orizzonte, i pannelli centrali non sono legati da particolari rapporti compositivi, con
ambientazioni in paesaggi differenti (ma nel centrale san Vincenzo completamente sostituito da un cielo
popolato da angioletti). Si tratta di un retaggio tradizionale, come la spessa cornice di divisione tra un pannello
e l'altro, che vennero presto superati dal maestro veneziano.
Il Cristo Passo, ancora una volta nella produzione belliniana, segue uno schema compositivo bizantino,
naturalmente aggiornato al naturalismo allora in voga in Italia. L'Angelo e Maria sono caratterizzati da una
pittura limpida e smaltata: soprattutto nella veste dell'angelo le campiture sono intrise di luci ed ombre quasi
scultoree, mentre nel riquadro della Vergine, dal delicato profilo, la tenda rossa provoca una fiammata
cromatica improvvisa. Anche in questi riquadri sono pochi gli elementi che suggeriscono la profondità: le
pieghe della tenda, lo scranno di Maria, il pilastro marmoreo davanti all'angelo.
Se da una parte è evidente l'influsso del cognato Andrea Mantegna lo è anche il superamento da parte di
Bellini lungo un suo percorso stilistico autonomo. Non mancano echi di Marco Zoppo, altro protagonista della
pittura in Venezia a quei tempi. Mentre appare evidente lo scostamento dalla bottega, e propriamente del
fratello Gentile, se si confrontano due opere coeve di questi nella Cappella di San Teodoro a San Marco, basti
notare la resa dell'incarnato e delle vene del San Girolamo penitente con la poderosa riuscita del muscoloso
Cristoforo che pure ripete (riflessa) la testa del gentiliano San Francesco riceve le stimmate[8]. La maturazione
personale di Giovanni è avvertibile anche nel trattamento quasi ritrattistico del volto di Vincenzo Ferrer
rispetto a quello, di poco precedente, del san Domenico nella lunetta del Trittico della Natività[9]. Non
mancano i tratti di delicatezza tipici dI Giovanni come per esempio nella rappresentazione dell'elegante angelo
annunciante e ancor di più nel delicato Bambino reclinato sul capo di Cristoforo.
1470-73 Pala Pesaro (incoronazione Vergine)
La pala è composta da un grande pannello centrale con la scena dell'Incoronazione della Vergine tra i
santi Paolo, Pietro, Girolamo e Francesco. Facendo una scelta iconografica del tutto inconsueta,
l'episodio è ambientato, anziché in cielo, sulla terra, entro un trono marmoreo nella cui spalliera si
apre una finestra che lascia intravedere una realistica immagine di paesaggio, con un rocca. Si tratta
di un vero e proprio quadro nel quadro, enfatizzato dal fatto che la spalliera ha la stessa forma di
quella intagliata e dorata del dipinto, che è originale.
Nel cielo terso, che schiarisce avvicinandosi all'orizzonte come all'alba, si trovano gruppi
di cherubini e serafini, mentre al centro vola la colomba dello Spirito Santo. Il paesaggio appare
straordinariamente vivo: non un semplice fondale, ma una presenza in cui sembra circolare
liberamente l'aria e la luce. A ciò concorre l'uso della pittura a olio, che permette di fondere il vicino
e il lontano grazie ai particolari effetti luminosi.
La composizione appare bilanciatissima e calibrata sia dal punto di vista emotivo che da quello più
strettamente teologico, inteso come rapporti tra le figure. La straordinaria luminosità accende i
colori e fa risaltare, tramite gli intarsi marmorei, la precisa intelaiatura prospettica della scena, sia
nel pavimento quanto nel trono sfaccettato. Nella pala la lezione di Mantegna appare ormai
arricchita della luce chiara e dall'armonica sintesi tra architetture, personaggi e paesaggio di Piero
della Francesca (forse visto da Giovanni nel corso di un possibile viaggio nelle Marche, terra d'origine
di sua madre) e dalla tecnica oleosa di Antonello da Messina (forse incontrato in uno di tali viaggi).

1487 Pala di San Giobbe


La pala, considerata un caposaldo del periodo maturo dell'artista, venne dipinta per il secondo altare a
destra della chiesa di San Giobbe a Venezia. L'opera fu una sorta di risposta alla pala di San
Cassiano di Antonello da Messina (1475-1476), della quale assimilò le novità e propose ulteriori stimoli.
L'opera divenne subito una delle più rinomate del Bellini, venendo citata già nel De Urbe Sito di Sabellico.
L'opera è una Sacra conversazione: attorno all'alto trono marmoreo di Maria col Bambino, ai cui piedi si
trovano tre angeli musicanti, sono disposti simmetricamente sei santi, tre per parte: a sinistra san
Francesco, Giovanni Battista e Giobbe, a destra i santi Domenico, Sebastiano e Ludovico di Tolosa. I santi
vennero ripresi e imitati per decenni: san Francesco ad esempio ricompare quasi identico nella Pala di
Castelfranco di Giorgione.
La parte più straordinaria è rappresentata dalla volta a cassettoni che introduce prospetticamente alla
composizione sacra, con pilastri ai lati, che sono uguali a quelli reali dell'altare originale. La nicchia
profonda e ombrosa dello sfondo dilata lo spazio attorno al gruppo sacro, all'ombra di una calotta coperta
da mosaici dorati nel più tipico stile veneziano. Si tratta quindi di un prolungamento virtuale dello spazio
reale della navata, con figure al contempo monumentali e caldamente umane, grazie al ricco impasto
cromatico. La luce si riverbera sui dettagli, venendo catturata dai mosaici o dagli strumenti musicali degli
angeli.
Maria è raffigurata isolata e assorta nella sua maestà, con un Bambino molto simile nella fisionomia del
viso a quello della Madonna Contarini, sempre all'Accademia, e il retaggio bizantino è ancora percepibile
nell'iconico distacco della divinità, che la rende misteriosa e irraggiungibile.

1488 Trittico dei Frari


L'opera è un trittico, composta cioè da tre scomparti: al centro la Madonna in trono col
Bambino e due angeli musicanti, a sinistra i Santi Niccolò e Pietro e a destra Marco e
Benedetto.
Nonostante la divisione in scomparti piuttosto arcaica, derivata forse da un'esplicita richiesta
dei committenti, Bellini risolse l'opera creando una straordinaria continuità spaziale tra i
dipinti, messa in risalto, anziché interrotta, dalla cornice disegnata forse dallo stesso autore,
che ricrea gli elementi architettonici della pala stessa. L'opera sembra così ambientata in una
loggetta aperta, retta da pilastri alla corinzia, con al centro una volta a botte e una nicchia con
cupoletta semicircolare ricoperta da mosaici dorati, dove si legge un'invocazione alla Vergine
in latino: IANUA CERTA POLI DUC MENTEM DIRIGE VITAM: QUAE PERAGAM COMMISSA TUAE
SINT OMNIA CURAE ("Porta sicura del cielo, guida la mente, dirigi la vita: sia tutto ciò che
faccio affidato alla tua cura").
L'effetto è uno sviluppo delle ricerche illusionistiche avviate con la Pala di San Giobbe, con la
quale ha molte caratteristiche in comune: la Vergine sull'alto trono marmoreo, la luce dorata
interrotta solo dal profondo blu del manto della Vergine (che la isola iconicamente), la
presenza dell'abside mosaicata nel più tipico stile bizantino-veneziano. Ai lati, sottili strisce di
paesaggio suggeriscono una vasta profondità prospettica.
1505 Pala di San Zaccaria
In una nicchia che sembra sfondare la parete sopra l'altare nella navata della chiesa, Bellini
ambientò una sacra conversazione secondo uno schema ormai consolidato, con la Madonna col
Bambino su un trono, un angelo musicante sul gradino e quattro santi disposti simmetricamente ai
due lati: Pietro apostolo, Caterina d'Alessandria, Sant’Orsola e Girolamo. Le figure sono
intensamente concentrate, ma con pacata naturalezza.
Se l'impostazione generale non differisce molto da opere precedenti come la Pala di San
Giobbe (come il catino absidale mosaicato), vi si leggono anche profonde novità, come le aperture
laterali sul paesaggio, derivate da un'idea di Alvise Vivarini (nella perduta Pala dei Battuti già
a Belluno), che infondono una maggiore luminosità alla scena, in grado di ammorbidire le forme,
riscaldare l'atmosfera e generare una nuova armonia fatta di piani ampi, macchie cromatiche (nelle
vesti) e toni pacatamente contemplativi. Si tratta dell'adesione di Bellini al tonalismo di Giorgione,
resa palese, oltre che dai dati stilistici, anche da citazioni testuali, come le barbe sfumate dei due
santi e le loro teste reclinate, che somigliano al san Giuseppe nella Sacra Famiglia Benson di
Giorgione, o nella santa Caterina che è identica alla Madonna nella stessa opera giorgionesca.
Ma l'assimilazione di Bellini delle novità non è passiva, ma adattata con estrema coerenza al proprio
stile, senza rinunciare ad esempio al gusto prettamente quattrocentesco dello studio preparatorio,
della chiarezza prospettica e della nitidezza.
L'uovo che pende sulla testa di Maria rimanda alla creazione, citando forse la Pala di Brera di Piero
della Francesca, mentre la lucerna appesa poco sotto richiama invece la Pala di San Zeno,
di Mantegna.
Vittore Carpaccio
1502 San Gerolamo nello studio La più celebre della serie, nonché uno dei capolavori a cui è legata la fama dell'artista. All'episodio è
legato san Girolamo, che apparve ad Agostino per avvertirlo della propria morte imminente e ascesa
in cielo. L'artista ha rappresentato il santo africano nel proprio studio, mentre viene distratto dalla
lettura dalla voce di Girolamo, che gli appare in forma luminosa dalla finestra accanto allo scrittoio. Il
miracoloso annuncio viene ambientato nella stanza di un colto e raffinato umanista del tempo,
rappresentata con la cura meticolosa dei dettagli che caratterizza le opere dell'artista.
In una stanza più o meno rettangolare, con soffitto dipinto, Agostino sta seduto su una panca
poggiata su una pedana rialzata, coperta di tessuto verde e profilata da borchie, dove si trova il
banco da studio, retto da una candelabra. Numerosi libri dimostrano i suoi interessi eruditi o
musicali, dato che alcuni sono aperti e mostrano righe di pentagramma; da molti di essi pendono le
corde segnalibro. Uno stipo si trova incassato nel muro sotto la finestra, con cassetti estraibili e
mensole dove si intravedono un fascicolo e una clessidra. La scrivania e la stessa panca sono
Ai lati dell'altare si trovano due portali gemelli, finemente decorati in ingombre di libri dalle preziose rilegature, cofanetti, strumenti per la scrittura e oggetti curiosi, come
stile rinascimentale. Quello di sinistra è aperto e mostra una stanzetta una campanella e una conchiglia. Davanti alla finestra pende una sfera armillare, mentre anche le
con una propria finestrella, secondo il gusto per le molteplici fonti di modanature decorative della parete sono usate come mensole e vi si trovano vasi, bottiglie e altro.
illuminazione derivate dall'arte fiamminga e ben popolari a Venezia Al centro della stanza si apre una nicchia con altare, nel quale, come mostra la tenda scostata,
dopo l'esempio dato da Antonello da Messina (in particolare nel San Agostino tiene gli oggetti liturgici. Sull'altare campeggia la statua di un cristo solenne e ieratico che si
Girolamo nello studio, che probabilmente Carpaccio vide e studiò). erge col vessillo crociato, simbolo del trionfo, entro il catino della semicupoletta decorato da mosaici
Qui, su un tavolo retto da tre coppie di gambe incrociate e coperto da dorati in stile veneziano-bizantino. Qui si trovano anche le vesti da vescovo di Agostino: la mitria e
una tovaglia rossa, si trovano numerosi altri strumenti dello studioso: il bastone pastorale, oltre a un incensiere appeso e due candelabri.
ancora numerosi libri, alcuni appoggiati su un leggio monastico, e,
sulla mensola che corre lungo il perimetro della stanza, vari strumenti
astronomici e scientifici, tra cui un quadrante e il
famoso astrolabio di Regiomontano posseduto a quel tempo solo
da Giovanni Bessarione, a cui Carpaccio probabilmente si ispirò come
incarnazione vivente del santo studioso.
Lungo la parete sinistra si trovano altre due lunghe mensole: una
inclinata, dove sono appoggiati in sequenza un numero straordinario
di libri, dalle copertine in sgargianti colori; una piana dove si trova una
collezione di anticaglie, con vasi, bronzetti, e altri oggetti. In alto si
trova un reggicandela a forma di zampa leonina (un secondo è in
posizione simmetrica dall'altro lato), mentre in basso, oltre ad alcuni
volumi di notevole mole, si vede su una pedana un sedile e
un inginocchiatoio per la meditazione. Al centro della stanza si trova
un cagnolino Volpino Italiano e, poco più in là, il cartiglio con la firma
dell'artista e la data. L'interno è riprodotto con una spazialità razionale
in cui trova posto un'amorosa cura del dettaglio. Luce dorata e colore
denso garantiscono l'unificazione di tutti gli elementi, creando quella
particolare sensazione atmosferica che fa percepire l'"aria" nel
dipinto. Gli effetti luminosi hanno anche un preciso ruolo narrativo,
quale emanazione miracolosa, e generano ombre scure sul pavimento.
Luca Signorelli

Pietro Perugino
1480-81 Registro intermedio cappella sistina ----> Consegna delle chiavi a San Pietro
Opera nella quale il paesaggio architettonico è disegnato nel rispetto di rigorose regole
prospettiche.Fu realizzato con il contributo di aiuti, probabilmente gli artisti Pinturicchio,
Signorelli e Bartolomeo della Gatta. I personaggi della scena sono posti al centro del dipinto.
Gesù è in piedi a sinistra, riconoscibile grazie alla aureola che porta sul capo. Indossa un abito
porpora e un mantello blu. I suoi capelli sono lunghi e biondi, ondulati e ricadono dietro la
schiena e sulle spalle. Con la mano destra porge le chiavi a San Pietro. L’apostolo, invece, è
inginocchiato di fronte a Cristo, a destra. Indossa un abito blu e un mantello giallo che copre il
corpo in basso, avvolto intorno al braccio destro. San Pietro ha un aspetto anziano, con capelli e
barba bianchi. Infine, una grossa chiave pende al centro tra i due personaggi. A destra e a
sinistra vi sono gli apostoli e otto altri personaggi contemporanei all’artista.
Giuda si trova a sinistra, di spalle, con l’aureola sul capo. L’apostolo, inoltre, porta una veste
L’affresco del Perugino è un dipinto sacro che decora le pareti della gialla e un mantello blu. La grande piazza nella quale si svolge la scena è coperta da un lastricato
Cappella Sistina. È considerato un’importante testimonianza della pittura geometrico. In secondo piano, a sinistra e a destra sono dipinti due gruppi di persone. Sullo
del Quattrocento italiano. I personaggi sono realizzati con l’utilizzo del sfondo, al centro, si trova un edificio dalle forme rinascimentali. Ai lati vi sono altri due edifici
chiaroscuro. Perugino progettò l’ambiente architettonico utilizzando la che ricordano il modello dell’arco di trionfo romano. Sull’edificio centrale compare la scritta
prospettiva geometrica. Inoltre, nel paesaggio di fondo è presente un latina “IMENSV[M] SALOMO[N] / TEMPLVM TV / HOC QVARTE / SACRASTI // SIXTE / OPIBVS /
accenno di prospettiva aerea nel colore delle montagne. In primo piano i DISPAR RELIGIONE / PRIOR”.
personaggi assumono posture statiche mentre nelle scene di secondo I personaggi contemporanei all’artista sono stati identificati come Alfonso di Calabria, Perugino,
piano è presente un maggiore movimento. l’architetto Dolci, il Pontelli, il Bregno, il Pinturicchio, Bartolomeo della Gatta e Alfonso
Il dipinto intitolato Consegna delle chiavi a Pietro di Pietro Perugino è un d’Aragona. Nel gruppo di sinistra, in secondo piano, è rappresentato l’episodio della moneta del
affresco. Tale tecnica consiste nel dipingere direttamente sull’intonaco censo. L’interpretazione della scena rappresentata a destra, invece, è più controversa. Potrebbe
appena applicato. L’intervento dell’artista poi deve essere limitato al essere la tentata lapidazione di Cristo oppure la cattura del Redentore e frastornazione fra i
tempo in cui l’intonaco è ancora umido. In tal modo il pigmento penetra suoi seguaci. L’edificio centrale rappresenta il tempio di Gerusalemme in forme rinascimentali.
nello strato di calce e sabbia e diventa molto resistente contro gli agenti Invece, i due edifici ai lati si rifanno alle forme architettoniche dell’arco di Costantino. La scritta
atmosferici. La tecnica dell’affresco, infine, prevede la stesura di latina celebra papa Sisto IV per aver commissionato la costruzione della Cappella Sistina. Infatti,
progressive velature di colore trasparente per esaltare i toni delle figure. il pontefice viene paragonato a Salomone, costruttore del grande tempio di Gerusalemme.
Nell’affresco del Perugino i toni caldi sono distribuiti sulla maggior parte
della superficie dell’opera. I toni freddi, invece, come il blu del cielo e di
alcune vesti, risultano più saturi e brillanti. La scena della consegna delle
chiavi a San Pietro avviene in un grande spazio aperto di fronte a tre edifici
classici. Dove termina il selciato inizia l’orizzonte rappresentato da una
linea di montagne. L’artista progettò la piazza e gli edifici di fondo
aiutandosi con la prospettiva geometrica. Inoltre, la linea di orizzonte è
posta poco sopra il limite del lastricato mentre il punto di fuga si trova al
centro, poco verso l’alto, del portale centrale.
L’affresco attribuito al Perugino è di formato rettangolare. L’inquadratura
permette, così, di rappresentare il paesaggio in esteso. Inoltre, i personaggi
sono distribuiti su una linea frontale che occupa l’intera larghezza del
dipinto. Anche gli edifici di fondo sono distribuiti sull’intera larghezza.
L’immagine presenta inoltre una evidente simmetria rispetto alla verticale
centrale. Si riscontra nella disposizione speculare degli edifici e nelle ali di
personaggi ai lati di Cristo e Pietro.

1481-82 affreschi Cappella Sistina Antico e Nuovo Testamento

1488-89 Apparizione della Vergine a San Bernardo


In una serena e calibrata architettura rinascimentale san Bernardo di Chiaravalle, dedito allo studio di un libro
posto su un leggio raffinatamente intagliato, riceve l'apparizione della Vergine, che si rivolge a lui indicando il
libro. Ai lati si trovano due gruppi simmetrici, con una coppia di angeli a sinistra e un angelo e un santo a destra,
forse un evangelista. Le strutture architettoniche sono semplici e robuste, con un padiglione di archi a tutto sesto
retti da pilastri squadrati con capitelli molto aggettanti, centrati perfettamente in prospettiva. Si tratta dello
sfondo a portico tipico delle opere dell'artista degli ultimi due decenni del XV secolo, riscontrabile ad esempio
nell'Annunciazione e nella Pala di Fano, nel Polittico Albani-Torlonia, nell'Ultima Cena e nella Madonna col
Bambino in trono tra i santi Giovanni Battista e Sebastiano. L'architettura è solenne ma semplice e dirige lo
sguardo dello spettatore in profondità, con l'ariosa apertura paesaggistica dello sfondo in cui colline prive di
asperità sono punteggiate da esili alberelli e sfumano in lontananza verso l'orizzonte.
Dietro l'arco centrale si apre un dolcissimo paesaggio collinare tipico del pittore umbro, privo di asperità,
punteggiato di esili alberelli e con qualche segno di presenza umana, come la chiesetta. Il cielo sfuma verso
l'orizzonte come all'alba e in lontananza le colline più lontane sono schiarite per effetto della foschia (l'effetto
detto prospettiva aerea).
I personaggi sono impostati a una statica e isolata monumentalità, con un colore denso e molto sfumato, che
procura una forte tridimensionalità. I gesti e le espressioni sono intonate a una serena dolcezza e le fisionomie
sono spesso tipiche dell'artista, come la Madonna dalla boccuccia stretta derivata dalle fattezze dalla modella del
pittore, sua moglie, che ispirò anche gran parte della produzione giovanile di Raffaello.
Il dipinto viene spesso confrontato con quello di analogo soggetto e di pochi anni anteriore di Filippino Lippi; le
due tavole hanno in comune le grandi linee della composizione, con l'approccio di Filippino che è invece nervoso,
animato di movimento, con colori accesi e innaturali, con un'attenzione al dettaglio derivata dall'arte fiamminga,
con giochi lineari e con molteplici spunti simbolici. Fu però la pittura di Perugino, semplice ed essenziale ma non
per questo priva di monumentalità e di piacevolezza, a prevalere negli sviluppi futuri dell'arte, aprendo al
classicismo cinquecentesco.
1494 Ritratto di Francesco delle Opere
La figura di Francesco delle Opere, benestante artigiano fiorentino della fine del XV secolo, è ritratta di tre
quarti voltato a sinistra, con una berretta nera che raccoglie una fitta capigliatura riccioluta, una mantella
dello stesso colore, una veste rossa aperta sul davanti e tenuta da lacci e una camicia bianca come
sottoveste. In mano tiene un rotolo di carta da cui sporge il cartiglio "Timete Devm", inizio di una celebre
predica di Savonarola che illumina sul contesto religioso e storico in cui l'opera venne prodotta. Le mani
sono appoggiate su un ipotetico parapetto che coincide col bordo inferiore del dipinto, riprendendo
l'esempio di pittori fiamminghi dell'epoca, come l'Uomo con la lettera di Hans Memling.
Il personaggio è caratterizzato da una sottile vena psicologica, malinconica e assorta, in cui sono
evidenziate le caratteristiche di rigore morale e di fermezza del carattere, anche per via della posa appena
impettita. Nei ritratti Perugino era solito abbandonare la vena dolce e idealizzata delle opere religiose,
indagando a fondo la fisionomia; anche in questo caso molti dettagli sono resi con grande cura
millimetrica, dimostrando ancora una volta l'influenza fiamminga. Il gioco di luci e ombre è reso con un
tratteggio sottilissimo a punta di pennello. Anche lo sfondo ha alcuni elementi in comune con quello
dell'opera di Memling, come la città fortificata con alte torri coronate a punta, sulla sinistra. Le dolci
colline, prive di asperità, sono punteggiate da alberelli esili e frondosi tipici della scuola umbra, e sfuma in
lontananza secondo le regole della prospettiva aerea, che dilata a dismisura la profondità della veduta.
Come tipico di quegli anni lo sfondo è reso più interessante dalla presenza di un lago, le cui acque
azzurrine si intonano alla perfezione col verde delle colline e il celeste del cielo e delle montagne lontane,
velate dalla foschia.

1495-1500 Madonna del Sacco


Il dipinto viene in genere considerato una replica autografa della Madonna della Pala della Certosa
di Pavia (Cavalcaselle e la critica recente). La Madonna campeggia al centro di una vasto paesaggio
di dolci colline digradanti in lontananza, lumeggiate d'oro. Il suo manto copre un grosso sacco bianco
da viaggio, sul quale sta seduto il Bambino, retto da un angelo. Dietro la Vergine, leggermente
discosto, bilancia simmetricamente la scena san Giovannino, a sua volta inginocchiato in preghiera.
La scena è impostata secondo uno schema pacato e piacevole, ordinato dalle regole della simmetria
e delle rispondenze ritmiche, come si nota nelle inclinazioni alternate delle teste. La Madonna è
tipica della produzione matura del pittore, che lasciò il posto all'elegante e raffinata giovinetta in
favore di una donna più matura, semplice e severa, in linea con il clima spirituale savonaroliano. La
ricchezza cromatica, la salda plasticità e la monumentalità delle forme sembrano ormai
preannunciare l'attività di Raffaello, il più grande degli allievi del pittore.

1496 Crocifissione L'affresco, che è la più grande opera di Perugino a Firenze, venne eseguito quando il
convento era ancora sotto i frati cistercensi, per volere della famiglia Pucci. La sala
capitolare, coperta da volte a crociera sorrette da peducci addossati alle pareti, impose una
tripartizione della decorazione in tre parti al di sotto delle arcate, dove il Perugino stesso
impostò un'intelaiatura architettonica prospettica con un gradino, pilastri e semicolonne, la
cui veduta è perfezionata da un punto di vista centrale sul lato opposto della stanza.
La Crocifissione occupa la parete est, mentre il San Bernardo accoglie il Cristo che si stacca
dalla croce si trova separato, sulla parete nord.
Nonostante ciò gli affreschi sono unificati dal paesaggio continuo e rarefatto, che si dispiega
nelle scene come se si trattasse di un loggiato aperto. Tra dolci colline punteggiate da
esilissimi alberelli frondosi, sfumanti verso l'orizzonte tra laghetti e tonalità azzurrine
schiarite dalla foschia, si svolge la scena della crocifissione. Gesù si trova nel pannello
centrale e campeggia nella parte alta dell'affresco sullo sfondo del cielo dell'alba, velato da
nubi rosate e schiarito in prossimità dell'orizzonte. Ai piedi della croce sta inginocchiata la
Maddalena penitente, chiara allusione alle Pentite che venivano accolte nel convento. Negli
affreschi laterali si vedono san Bernardo di Chiaravalle, fondatore dei Cistercensi e la
Madonna (sinistra), san Giovanni evangelista e san Benedetto, fondatore dei Benedettini dei
quali i Cistercensi sono una congregazione (destra).
A sinistra, in un paesaggio analogo, si trova poi l'affresco di San Bernardo accoglie il Cristo
che si stacca dalla croce, che testimonia il vivo misticismo del fondatore cistercense, riferibili
a un assistente del Perugino. La scala dell'affresco è più piccola e contiene maggiori spunti
legati alla riflessione, come la presenza delle ossa del Calvario, richiamo al memento mori.
Vicino esposta si trova anche la sinopia.
L'opera nel complesso è una trasposizione di un trittico su scala monumentale. L'intonazione
aulica e contemplativa, con pochi, sobri personaggi e un'amplissima apertura paesistica,
dimostrano la versalità dell'artista, in quegli anni all'apogeo della popolarità fiorentina,
capace di creare opere molto diverse, dal vivido realismo del Ritratto di Francesco delle
Opere, alla concitata azione del Compianto sul Cristo morto, fino alla solenne monumentalità
delle pale d'altare come l'Apparizione della Vergine a san Bernardo, pure un tempo in Santa
Maria Maddalena dei Pazzi.
Originale è anche la scelta dei colori, più tenui e delicati, stesi con velature trasparenti
sovrapposte, che si differenziano dai vividi accenti plastici delle pitture su tavola di quegli
anni.
1496-1500 Collegio del Cambio affreschi Sala dell’udienza (Forza e Temperanza, Prudenza
e Giustizia)

La Fortezza e Temperanza sopra sei eroi antichi (291x400 cm) ha uno schema del tutto analogo al precedente. Spiccano i sei eroi per la ricchezza delle
decorazioni delle armature e delle vesti, con cimieri e cappelli fastosamente elaborati. Essi sono, da sinistra, Lucio Sicinio Dentato, Leonida, Orazio
Coclite, Publio Scipione, Pericle e Cincinnato. Le due lunette dei Saggi e degli eroi segnano un vertice nel classicismo del pittore, raggiunto tramite un
modellato morbido, una tavolozza brillante e ricca.
Impostata simmetricamente è anche la lunetta con Prudenza e Giustizia sopra sei savi antichi (293x418 cm). Le due Virtù stanno sedute sopra nuvole, con i
rispettivi attributi, affiancate ai lati da putti che reggono cartigli con iscrizioni. In basso si vedono, da sinistra, con i nomi iscritti in basso, Fabio
Massimo, Socrate, Numa Pompilio, Camillo, Pittaco e Traiano.

1500 Maria Maddalena


Perugino abbia dipinto Maria Maddalena avendo come modella la moglie Chiara Fancelli, modella di
tante Madonne non solo per Perugino ma anche per il suo allievo Raffaello.
Dipinto molto delicato, estremamente raffinato, tra i migliori di questo tipo realizzati da Pietro
Vannucci. La figura di Maria Maddalena emerge da un fondo scuro: è abbigliata con una veste che ha il
suo nome sullo scollo, bordato d'oro, e sopra alla veste indossa una pelliccia con risvolti, che non le
coprono il collo, dandoci così modo di osservare il suo vivo incarnato. Lo sguardo è sfuggente ma quasi
languido allo stesso tempo, i suoi occhi ammaliano l'osservatore in modo intrigante. Il volto è ovale e
dipinto con un finissimo chiaroscuro: tutte caratteristiche tipiche delle donne peruginesche. Riusciamo
a vedere anche le mani, che si sfiorano leggermente una sopra l'altra.
La profonda bellezza di questa Maddalena è anche meno idealizzata rispetto a quella di altre sante del
Perugino, per il fatto che il pittore, per questo dipinto, probabilmente si servì di una modella vera, vale
a dire la moglie Chiara Fancelli, figlia del grande scultore e architetto Luca. Il dipinto, così, si configura
anche come un interessante ritratto.

1500 Pala Tezi

L'opera venne dipinta per la Cappella della famiglia Tezi nella chiesa di Sant'Agostino a Perugia. Dopo
le soppressioni napoleoniche finì in galleria.
La pala mostra la Madonna in cielo col bambino sulle ginocchia, affiancata sulle nubi dai santi Nicola
da Tolentino e Bernardino da Siena, mentre nel registro inferiore, sullo sfondo di un dolce paesaggio
boscoso, si vedono i santi Girolamo col leone e Sebastiano trafitto da frecce. Al centro in basso si
trova l'apertura per un piccolo tabernacolo, che doveva contenere il Santissimo Sacramento.
Nonostante la grande finezza pittorica, l'opera presenta vari elementi di repertorio, come la Madonna
col Bambino proveniente da un cartone da cui fu tratta anche, in quegli stessi anni, la Madonna della
Consolazione. Il modo di stendere i colori non è tipico del Perugino, con forti chiaroscuri e con le
ombre stese tramite toni bruni e terrosi che ricordano piuttosto lo stile di Luca Signorelli.
Probabilmente si tratta di un'opera di bottega, in cui il maestro intervenne solo per alcuni brani.
1501 Gonfalone della Giustizia - Perugino
Dipinto a tempera e olio su tela, conservato nella Galleria nazionale dell'Umbria a Perugia. Il gonfalone,
usato durante le processioni pubbliche, venne dipinto nel periodo di massima popolarità dell'artista,
dopo i successi del ciclo della Sala delle Udienze del Collegio del Cambio, quando teneva bottega
contemporaneamente sia a Firenze che a Perugia. L'opera mostra la Madonna in gloria tra angeli,
cherubini e serafini al di sopra dei santi Francesco d'Assisi e Bernardino da Siena, con sullo sfondo una
veduta di Perugia e dei suoi concittadini inginocchiati, tra cui si riconoscono una serie di confratelli
incappucciati facenti parte della confraternita della Giustizia a cui era originariamente destinato il
gonfalone. Sebbene si tratti di un'opera di grande finezza compositiva e cromatica, lo schema è un
accostamento di disegni di repertorio. La Madonna col Bambino ad esempio è una riproposizione di
quella della Pala di Fano, mentre i due angeli oranti simmetrici si ritrovano in numerose opere di quegli
anni, come la Resurrezione di San Francesco al Prato, la Madonna in gloria e santi di Bologna,
la Madonna della Consolazione, ecc.).

1501-04 Sposalizio della Vergine – Perugino


Olio su tavola. L'opera venne originarimanete dipinta per la Cappella del Santo Anello nel Duomo di Perugia,
dove era conservata la reliquia dell'anello nuziale della Vergine. La cappella, completata nel 1489, venne
ridecorata dopo che la reliquia venne recuperata nel 1488, dopo essere stata rubata da una chiesa di Chiusi.
La grande pala d'altare, dopo essere stata inizialmente commissionata al Pinturicchio, venne poi affidata al
Perugino, che vi lavorò dal 1501 al 1504.
La composizione del dipinto richiama la Consegna delle chiavi che Perugino aveva affrescato circa vent'anni
prima nella Cappella Sistina: ricorre infatti nello sfondo il grande edificio ottagonale a pianta centrale (simbolo
del Tempio di Gerusalemme), alla fine di un pavimento a riquadri prospettici, che amplifica la scena in primo
piano secondo un ideale di razionalità geometrica che è diventato tra gli emblemi del Rinascimento italiano,
soprattutto dopo che venne ripreso anche da Raffaello in un celeberrimo Sposalizio nella Pinacoteca di Brera.
L'edificio si trova alla sommità di una gradinata, ed ha quattro protiri rinascimentali con archi a tutto sesto e
cupolette in corrispondenza dei quattro lati principali, dove si aprono verosimilmente quattro portali con
timpano triangolare identici. Il motivo dell'arcata, cieca, si trova anche nei lati minori. Oltre la cornice
marcapiano, il secondo piano presenta un'intelaiatura decorativa con lesene, marcadavanzale e cornicione, in cui
si aprono finestre rettangolare con timpano ad arco. Il coronamento, con camminamento balaustrato, è una
cupola con tegoli di laterizio, tagliata dal bordo superiore del dipinto che la fa apparire ancora più imponente di
quello che in realtà possa essere. Si tratta di un edificio che richiama l'ideale classico del Rinascimento, come lo
immaginavano gli intellettuali dell'epoca basandosi sui trattati di Leon Battista Alberti: in realtà l'architettura
dell'antica Roma non ha mai prodotto edifici con tali elementi.
Come nella maggior parte delle opere peruginesche, la composizione è impostata a criteri di simmetria,
movimentati dal variare ritmico delle pose. Attorno al perno centrale del sacerdote, che sta perfettamente
sull'asse dell'edificio centrale e, soprattutto della sua maestosa porta aperta sullo sfondo, sono disposti san
Giuseppe, a sinistra vestito di giallo, con dietro il corteo maschile, e la Vergine Maria, a destra, seguita dalle
donne. Secondo le storie di Maria infatti ella, appena uscita dal periodo monacale nel Tempio di Gerusalemme,
in cui aveva trascorso tutta l'adolescente, venne destinata alle nozze ma solo con colui che portando una mazza
fosse stato prescelto da un segno divino. La mazza di Giuseppe fiorì, mentre quelle degli altri giovani no, infatti
nell'iconografia dell'episodio si vede sempre almeno uno di loro che spezza la propria mazza con una gamba o il
ginocchio. L'evidente senilità di Giuseppe era anche un elemento che sottolineava l'impossibilità di
consumazione del matrimonio, sottintendendo il dogma della verginità di Maria. I panneggi ricadono pesanti e
luminosi come macchie di colore, con quell'effetto "bagnato" che Perugino aveva appreso durante la sua
formazione fiorentina nella bottega del Verrocchio. Il paesaggio sullo sfondo mostra dolci colline, punteggiate da
esili alberelli, che sfumano in lontananza verso l'orizzonte, dando l'impressione di uno spazio infinitamente vasto
e profondo.

Bernardino Pinturicchio L’appartamento Borgia venne ideato dallo stesso Alessandro VI (Xàtiva, 1431 – Roma,
1503) come residenza con la propria famiglia. L’imponente decorazione interna,
1492-94 Appartamento Borgia costituita da un grandioso ciclo di affreschi, è di Pinturicchio e suoi assistenti, collocabile
nel periodo 1492-1494. Alla morte del papa le stanze del pregiato appartamento furono
di fatto abbandonate e poi, soltanto nel corso dell’Ottocento, riaperte al pubblico. Nel
cuore dei Palazzi Vaticani si trova la parte quattrocentesca fatta edificare sotto il
pontificato di Niccolò V (Sarzana, 1397 – Roma, 1455). È qui che papa Alessandro VI fece
ristrutturare e decorare sei grandi sale, che poi presero il nome di “Appartamento
Borgia“. In tale occasione fu aggiunta anche una torre, che più tardi venne
ridimensionata in altezza e trasformata.
La decorazione delle pareti venne affidata a Pinturicchio, che la portò a compimento in
tempi rapidissimi, grazie ad un articolata ed efficiente equipe di aiuti. I lavori iniziarono
intorno agli ultimi mesi del 1492 e furono portati a compimento nel 1494. Si trattò
dell’incarico più impegnativo di tutta carriera artistica del pittore, un progetto
monumentale che poteva essere sminuito soltanto di fronte al ciclo della Cappella
Sistina. Pinturicchio dovette integrare – come gli si chiedeva, forse dettato dagli stessi
intellettuali presso la corte papale] – la strutturazione iconografica della dottrina
cristiana con spunti di gusto archeologico in voga a quei tempi nella capitale.
I temi scelti sono ritenuti più o meno tradizionali: vi appaiono Apostoli, Profeti e Sibille,
Arti Liberali, narrazioni relative alla vita di Maria con Gesù e Santi, motivi mitologici
paganeggianti inseriti appositamente come allegorie atte celebrare il committente.
Le stesure autografe del Pinturicchio sono tutte concentrate nelle ultime stanze, indicate come “camere segrete” poiché adibite ad esclusivo accesso al papa
ed a pochi suoi intimi: la “Sala dei Santi” e la “Sala dei Misteri” La bellissima decorazione, citata anche nelle Vite, non suscitò grandi interessi nell’arte
romana del primo Cinquecento, probabilmente per la scarsa diffusione dovuta alla difficile accessibilità di quegli ambienti.

Domenico Ghirlandaio
1480-81 Registro intermedio cappella sistina -----> Vocazione primi apostoli
La scena della Vocazione si divide tra primo piano e sfondo. Al centro di un lago in un'ampia
vallata montuosa, i pescatori Simon Pietro e Andrea (sulla sinistra) sono chiamati da Gesù, sulla
riva. Poco dopo i due sono dietro al Cristo che dalla riva opposta (sulla destra) sta chiamando a
sé Giacomo e Giovanni, intenti a rammendare le reti sulla barca del padre Zebedeo al centro della
scena.
In primo piano Pietro e Andrea, già rivestiti dei mantelli coi colori che sono loro attributo tipico
(giallo o arancione per Pietro, verde per Andrea), stanno inginocchiati davanti al Cristo che,
solenne, li benedice. L'elemento più originale dell'opera è la moltitudine di spettatori,
contemporanei di Ghirlandaio come dimostrano gli abiti, che assistono alla scena, come in una
sorta di grande platea ai lati della scena sacra. Numerosi e penetranti sono i ritratti, impostati a
fasce isocefale, cioè con le teste in sequenza alla medesima altezza. Vi è raffigurata tutta la
Gruppo di sinistra: A sinistra si trova il gruppo delle donne, dove è
comunità fiorentina presente a Roma, che ruotava attorno alla zona della basilica di Santa Maria
evidente il gusto piacevole e ciarliero dell'artista, tra le quali spicca la
sopra Minerva.
dama di spalle col mantello blu, che il Ghirlandaio riutilizzò in altre
composizioni di opere successive.
Seguono su questo lato un uomo con un mazzocchio annodato in testa, Gruppo di destra: Il gruppo di destra è quello meglio riuscito, nonché quello in cui si sono
dalle mani particolarmente espressive, un anziano calvo con una sciarpa riconosciuti il maggior numero di personaggi. Si tratta di una straordinaria foto di gruppo della
a righe sulla spalla e un uomo con la lunga barba bianca, probabilmente comunità fiorentina a Roma che accolse probabilmente gli artisti e che trovarono in Ghirlandaio la
un erudito costantinopolitano che fece da modello anche nell'affresco disponibilità a farsi ritrarre negli abiti ricchi del loro prestigio sociale, derivato dalle attività
del San Girolamo nello studio nella chiesa di Ognissanti a Firenze (1480). finanziarie e mercantili che essi svolgevano nella città papale attraverso le numerose filiali delle
Dietro di essi scendono alcuni giovani che sembrano presi nelle loro imprese della madrepatria. Alcuni di essi furono di nuovo committenti dell'artista in opere
conversazioni piuttosto che attirati dall'evento sacro, tra cui un bel successive a Firenze, come quelli della famiglia Tornabuoni.
ritratto di fanciullo con una ghirlanda di fiori in testa. Un terzo gruppo di Tra gli uomini spicca la figura in primo piano, con l'elegante abito rosso, una sciarpa rigata allora in
personaggi si trova in secondo piano, dietro Gesù, tra i quali si nota voga calata sulla schiena, e la berretta dello stesso colore, che dovrebbe essere Gianfrancesco
l'occhieggiare curioso di alcuni che essendo più lontani sembrano Tornabuoni, presente anche negli affreschi della Cappella Tornabuoni. Dietro di lui si trova un bel
sforzarsi di vedere e di farsi vedere. giovane di profilo e, a sinistra, un uomo in nero che dovrebbe essere, sempre dal confronto con gli
Proprio dietro Gesù, al centro della scena, si trova il ritratto di Diotisalvi affreschi successivi in Santa Maria Novella, Giovanni Tornabuoni, responsabile del Banco Medici a
Neroni, amico di Cosimo de' Medici, ma poi cospiratore contro suo Roma e delle sue lucrose attività con l'erario papale, così esperto nelle attività finanziarie da
figlio Piero; scappato da Firenze per l'insuccesso delle sue trame, si diventare tesoriere di Sisto IV; la sua età matura è testimoniata dai capelli grigi e dalle prime
rifugiò a Roma dove visse piuttosto isolato, come dimostrerebbe anche la rughe dell'età. Egli era fratello di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo il Magnifico, che proprio
sua posizione defilata dal gruppo degli altri fiorentini sulla destra. in quella comunità romana soggiornò, ospitata dal fratello, per trovare una sposa adatta al figlio,
quella Clarice Orsini che portò i primi legami di nobiltà in casa Medici. Alcuni indicano Giovanni
Paesaggio: Tra i brani meglio riusciti vi è l'ampio paesaggio lacustre sullo invece nell'uomo dallo sguardo triste, terzo in prima fila, con una mantella rossa e un cappello
sfondo, che si perde in lontananza sfumando per effetto della foschia e bombato, ma forse si tratta più probabilmente di suo fratello Francesco.
della luce dell'alba, con un uso della luce più realistico e vibrante, che Il successivo giovane dal profilo affilato, illuminato da una luce chiarissima, dovrebbe essere
arriva a superare anche quello delle opere del maestro di questa Giovanni Antonio Vespucci.
tecnica, Pietro Perugino. Montagne aguzze, che rievocano i monti di Nella fila successiva, quella più vicina agli apostoli, si vede un uomo in primo piano dalla postura
Masaccio nel Tributo, arrivano con le pendici fino all'acqua, che specchia fiera, avvolto in un manto violaceo e con il viso di profilo incorniciato da un caschetto grigio: non è
la luce chiarissima, mentre ai lati, più vicine allo spettatore, si trovano chiaro chi sia, se il fiorentino Francesco Soderini o il romano Raimondo Orsini. Accanto a lui si
due quinte di rocce e colline tra le quali si vedono chiese, torri castelli e trova un anziano con una corta barba bianca, le borse agli occhi e un curioso cappello rigido, quasi
le fortificazioni di due città. Quella di destra è Firenze, con il Battistero di prelatizio: si tratta di Giovanni Argiropulo, esule costantinopolitano dopo la presa del 1453, che
San Giovanni e palazzo Vecchio, quella di sinistra ha suggestioni tenne la cattedra di greco allo Studio fiorentino per quindici anni, protetto dai Medici. Il fanciullo
nordiche, derivate dall'arte fiamminga a cui spesso Ghirlandaio attinse davanti a lui, che guarda verso lo spettatore, potrebbe essere Lorenzo Tornabuoni, sfortunato
modelli e motivi. figlio di Giovanni che vide, dopo la morte del padre, il tracollo finanziario della famiglia e la morte
Nel cielo volano numerosi uccelli, tra cui anatre, pavoncelle, un falco e della giovane moglie. Un po' più avanti, di profilo, si trova poi un altro Tornabuoni, Cecco, morto a
un martin pescatore: si tratta di notazioni naturalistiche, spesso Roma nel 1482 e sepolto in un'elegante tomba di Mino da Fiesole in Santa Maria sopra Minerva.
adombranti significati simbolici (come gli uccelli che si accoppiano in
volo, simbolo dei cicli della natura che si rinnovano) derivate dalla
tradizione tardogotica filtrata da artisti fiorentini come Benozzo Gozzoli.
La Vocazione è un'opera di eccellente fattura, dove l'artista usò una
solennità che in seguito non si ritrova nella sua opera. L'impostazione, le
vesti e i colori di alcuni personaggi e alcuni atteggiamenti ricordano la
scena del Pagamento del tributo di Masaccio nella Cappella Brancacci,
opera cardine del primo Rinascimento fiorentino che anche Ghirlandaio
ebbe modo di studiare, stando alla testimonianza di Vasari.
I colori sono vivi e brillanti, particolarmente efficaci nel descrivere la
delicatezza delle epidermidi o nell'intonare i colori degli abiti all'ultima
moda dei contemporanei. L'abilità ritrattistica del Ghirlandaio raggiunse
qui, per la prima volta, vertici di penetrante realismo, dopo le prime
prove negli affreschi della Cappella di Santa Fina (1475), divenendo una
delle sue caratteristiche più note e apprezzate.
1483-1486 Cappella Sassetti (conferma regola francescana)
Appartenente al ciclo degli “Affreschi della Cappella Sassetti” in Santa Trinita a Firenze,
realizzato intorno al 1482-1485. La presente composizione e quella della “Resurrezione del
ragazzo”, che decorano la parete frontale insieme alla vistosa pala dell’Adorazione dei
pastori, sono considerate dagli studiosi di storia dell’arte come le più rappresentative
dell’intero ciclo pittorico. Entrambe le scene sono ambientate in un particolare scorcio
fiorentino. L’episodio della Conferma della regola è raffigurato sulla zona alta della parete
con San Francesco al cospetto di Papa Onorio III.
La scena, inquadrata con maestria ed originalità, si svolge in un articolato porticato che si
fonde con l’arco reale della cappella. L’ambiente in cui il papa riceve il santo non è quello
di Roma ma di Firenze, con una chiara vista sullo sfondo di piazza della Signoria, il
Campidoglio della città, con al centro la Loggia della Signoria (allora priva di statue) e al
lato Palazzo Vecchio, sul cui Arengario spicca il Marzocco di Donatello. Sul dietro – dove
attualmente sono gli Uffizi – si intravede la chiesa di San Pier Scheraggio, prima che fosse
demolita.
Bene distribuite, tanto da conferire alla veduta l’aspetto di un vivo squarcio realistico,
sono le figurette sparse sullo sfondo, riprese isolate ed in gruppi nella loro vita quotidiana.
La scelta fatta dalla committenza di ambientare l’episodio a Firenze testimonia
l’importanza che aveva allora la città, considerata nei circoli umanisti come la nuova
Gerusalemme o la nuova Roma.
1485 Adorazione dei pastori
La cornice riporta la scritta "Ipsum quem genuit adoravit Maria" ("Maria adorava colui che aveva
generato"). Maria, in primo piano su un prato fiorito, adora il Bambino poggiato sul suo mantello
all'ombra di un sarcofago romano antico che fa da mangiatoia per il bue e l'asinello (che secondo
la patristica rappresentano rispettivamente gli ebrei e i pagani), poco dietro si trova san Giuseppe, che
scruta verso il corteo in arrivo, e a destra un gruppo di tre pastori ritratti con vivo realismo, derivati dal
modello del Trittico Portinari di Hugo van der Goes. Nel primo pastore, quello che indica il Bambino,
Ghirlandaio incluse il proprio autoritratto.
La sella e il barroccio a sinistra alludono al viaggio di Maria e Giuseppe. I tre sassi in primissimo piano,
roccia naturale, pietra lavorata e mattone, sono un riferimento alla famiglia "Sassetti" e all'attività
dell'uomo. Sopra di essi sta un cardellino, simbolo della passione e resurrezione di Cristo.
Dall'arco di trionfo sullo sfondo passa il corteo dei re Magi, con un significato anche simbolico, inteso
come il lasciarsi alle spalle l'era pagana. A sinistra i primi due magi sono già vicini e guardano una luce
che si intravede sul tetto della capanna, la cometa, che brilla sul tetto di paglia sorretto da monumentali
pilasti romani, uno dei quali reca sul capitello la data MCCCCLXXXV (1485). Sullo sfondo si vedono i
pastori con le greggi ai quali l'angelo sta annunciando la nascita del Signore.
Il sarcofago-mangiatoia, l'arco di trionfo sotto cui passa il corte dei Magi e i pilastri che reggono la
capanna sono precisi riferimenti alla nascita del Cristianesimo in ambito pagano, tema anticipato anche
dagli affreschi esterni alla cappella (Augusto e la Sibilla Tiburtina che annunciano la nascita del Signore) e
dalla volta con le Sibille. Ad esempio l'iscrizione sul sarcofago "ENSE CADENS SOLYMO POMPEI FVLV/IVS/
AVGVR NVMEN AIT QUAE ME CONTEG/IT/ VRNA DABIT" si rifà alla leggenda dell'augure Fulvio, che sul
punto di morire durante l'assedio di Gerusalemme di Pompeo predisse che il suo sepolcro sarebbe stato
usato da un Dio. La traduzione è la seguente: "Mentre cadeva a Gerusalemme per la spada di Pompeo,
l'indovino Fulvio disse: l'urna che mi contenne genererà un dio". Rimanda a Gerusalemme e Pompeo
anche l'iscrizione sull'arco "GN. POMPIO MAGNO HIRCANVS PONT. P.", cioè "eretto in onore di Gneo
Pompeo Magno per volerte di Ircano, sacerdote del Tempio. Queste colte citazioni classiche,
probabilmente suggerite dal Fonzio, rappresentando, con altri elementi simbolici, il passaggio dalle
religioni giudaica (di Ircano) e pagana (di Pompeo) al cristianesimo, sorto sulle rovine delle altre
confessioni, come ricordano i due pilastri scanalati. Anche il paesaggio lontano, con le vedute cittadine,
simboleggia questa allegoria: la città più lontana a destra è infatti un riferimento a Gerusalemme con
l'edificio a cupola (la moschea della Roccia), davanti alla quale sorge un albero secco con un ramo
spezzato, simbolo della conquista della medesima; la città di sinistra invece è un'elaborazione di Roma,
nella quale si riconoscono i sepolcri di due imperatori profetici, Augusto, con il mausoleo e Adriano, che
si pensava sepolto sotto la Torre delle Milizie, ma si intravede anche quella che sembra la Cattedrale di
Santa Maria del Fiore, a ribadire il ruolo di Firenze come nuova Roma.
L'opera deriva da modelli di Filippo Lippi (come l'Adorazione del Bambino di Camaldoli) ma mostra anche
i chiari i segni dell'influenza della pittura fiamminga su quella fiorentina, dopo lo studio e la graduale
assimilazione del Trittico Portinari, la grande tavola fiamminga dell'Adorazione del Bambino, opera
di Hugo van der Goes portata a Firenze nel 1483 dalla famiglia Portinari per la chiesa di Sant'Egidio, che
arrivò come una meteora fulgida nella scena artistica fiorentina, influenzando profondamente i pittori
rinascimentali che cercarono di comprenderne le diversità e carpirne i segreti soprattutto nella resa della
luce e nel naturalismo lenticolare.
Tipicamente fiamminga è infatti l'attenzione al dettaglio, dove ogni oggetto ha un preciso ruolo
simbolico, e l'uso della prospettiva aerea, con il paesaggio che sfuma in lontananza nella foschia verso
una minuta rappresentazione di colline e città. La pala è affiancata dagli affreschi dei due committenti
inginocchiati, che si uniscono così alla sacra adorazione, formando così una specie di trittico a tecnica
mista.
1485-90 Cappella Tornabuoni (Natività Vergine e Battista)

Nascita della Vergine: Secondo affresco sulla fascia bassa della parete di sinistra. Il presente riquadro corrisponde alla seconda scena del ciclo, quella della Natività della Vergine,
un vero e proprio capolavoro del cromatismo e del chiaroscuro di Ghirlandaio. A proposito del secondo, qui, come negli altri riquadri della parete sinistra, risulta di grande
effetto che conferisce una naturalistica luminosità, provenente dall’alto (e da destra).
La scena della nascita di Maria si svolge in un lussuoso ambiente interno con pilastri istoriati, in una spaziosa sala con una scala in una prospettiva lineare non proprio perfetta.
Le linee di fuga, infatti, non si incontrano all’orizzonte e danno l’impressione che ogni scalino in ascesa sia più grande di quello sottostante. Spicca un armadio intarsiato e dorato
(secondo alcuni studiosi di storia dell’arte, su cuoio), sormontato da una bassorilievo classicheggiante con putti, che riman da alle cantorie di Donatello e di Luca della Robbia
presenti nel Duomo di Firenze. Sulla destra si trova il letto di sant’Anna. Mentre una balia versa con estrema precisione, nonostante l’altezza, l’acqua in una bacinella,
un’altra nutrice tiene Maria in braccio.
A sinistra, appare un gruppo di donne, splendidamente abbigliate, che avanza verso la neonata per farle visita. In cima alla scala si svolge l’episodio dell’abbra ccio tra Anna e
Gioacchino, la tipica narrazione, qui assai semplificata, dell’incontro alla Porta d’Oro della città di Gerusalemme . Nella cornice degli armadi appare la scritta “NATIVITAS TUA DEI
GENITRIX VIRGO GAUDIUM ANNUNTIAVIT UNIVERSO MUNDO” che tradotta significa “La tua nascita, o Vergine madre di Dio, annunziò l a gioia a tutto l’universo”.L’affresco, che
è considerato dagli studiosi come uno tra i più belli della cappella, è firmato negli intarsi a grottesche degli armadi con BIGHORDI (cognome dell ’artista) e GRILLANDAI
(soprannome storpiato dai fiorentini).
Nascita di Battista: Primo affresco a partire da destra sulla fascia media della parete di destra. Il presente episodio richiama quello della “Nascita della Vergine” nel riquadro
della parete frontale (il secondo sulla fascia bassa della parete di sinistra), della quale riprende la composizione con il letto, assai più grande e collocato in simmetria.Il registro
del Ghirlandaio è “sommesso”, configurato in tono domestico e raccolto. La stanza, pur essendo meno sfarzosa rispetto a quella dell’altra composizione, evidenzia la sontuosità
di ambienti interni verosimilmente esistiti presso le abitazioni dei ricchi mercanti fiorentini.
Elisabetta sta tranquillamente seduta e con le gambe stese sul grosso lettone, in una solenne serenità, con un libro chiuso p osto sulla coperta, su cui poggia la mano sinistra.
La nutrice raffigurata in primo piano (quella verso il centro), insieme alla giovane donna alla quale essa rivolge lo sguardo, è il fulcro delle di linee di fuga: la prima allatta il
neonato, mentre l’altra, in piedi, elegantemente vestita (probabilmente una familiare dei Tornab uoni) tiene elegantemente un fazzoletto tra le mani. Il vero centro delle linee di
forza che richiamano lo sguardo del fruitore è invece spostato un po’ più sulla sinistra con la scena che interessa anche l’a ltra balia che, volendo fare il bagnetto al pargolo,
allunga le braccia impaziente nell’attesa che termini l’allattamento. Nel gruppo di donne in piedi che sta recando visita ad Elisabetta, del quale la prima è già stata considerata,
quella più anziana potrebbe essere riconosciuta come Lucrezia Tornabuoni, sorella del committente già deceduta nel periodo dell’esecuzione del ciclo. Infine, l’ultima figura
rappresenta una leggiadra ancella che reca un vassoio traboccante di frutta sulla testa ed una brocca d’acqua, le cui vesti s volazzanti spiccano ingiustificatamente su tutto il
contesto.
Anche in questa composizione come in altre del ciclo, il chiaroscuro e le variazioni cromatiche, assai efficaci, conferiscono a tutto l’insieme una naturalistica luminosità,
provenente dall’alto (e da sinistra). Fa eccezione la servitrice, ripresa nella penombra. Giorgio Vasari riferendosi al presente affresco scrisse: “Mentre S. Elisabetta è in letto, e
che certe vicine la vengono a vedere e la balia stando a sedere allatta il bambino, una femmina con allegrezza gnene chiede, per mostrare a quelle donne la novità che in sua
vecchiezza aveva fatto la padrona di casa; e finalmente vi è una femmina che porta a l’usanza fiorentina frutte e fiaschi da la villa, la quale è molto bella.”

1488 Ritratto di Giovanna Tornabuoni


L'opera è datata 1488, anno della morte di Giovanna degli Albizi, maritata a Lorenzo Tornabuoni, di parto.
Probabilmente venne eseguita dopo la morte a memoria della fanciulla, magari anche negli anni
immediatamente successivi. Ciò spiegherebbe il carattere fortemente idealizzato dell'opera e il suo senso
di malinconia. Sullo sfondo di una parete scura, dove si apre uno stipo con alcuni oggetti, si staglia netto il
ritratto della nobildonna fiorentina vista di profilo, in una posa eretta e di grande dignità, seppure
addolcita dalle curve della schiena e del petto, dall'abito fastoso e dai colori lucidi e quasi smaltati.
L'identificazione con Giovanna Tornabuoni è possibile grazie ai ritratti di lei presenti negli affreschi
della Cappella Tornabuoni (Visitazione e Nascita della Vergine), nei quali ha la stessa acconciatura con la
crocchia che lascia liberi dei riccioli dorati a incorniciare il volto, nonché lo stesso vestito, con preziosi
ricami dorati. La veste, una gamurra, differisce nelle maniche, che erano estraibili e intercambiabili; in
questo caso sotto la veste Giovanna indossa un ricco corpetto con ricami floreali e una camicia bianca, che
sbuffa con pieghette chiuse da lacci lungo la manica e la spalla. Essa stringe in mano un fazzoletto e
indossa pochi gioielli, ma di valore, tra cui il grosso pendente con perle di calibro e un rubino, legato da un
nastro scuro sul collo, mentre una spilla simile si trova nello stipo dietro di essa.
Qui si vedono anche un libro di preghiere semichiuso, simbolo di religiosità, una collana di grani rossi di
corallo appesa (forse un rosario) e un'iscrizione latina, che allude alle virtù della ragazza, tratto da
un epigramma del I secolo d.C. del poeta latino Marziale: ARS VTINAM MORES ANIMVMQUE EFFINGERE
POSSES PVLCHRIOR IN TERRIS NVLLA TABELLA FORET MCCCCLXXXVIII ("Arte, volesse il cielo che tu potessi
rappresentare il comportamento e l'animo, non ci sarebbe in terra tavola più bella. 1488").
L'opera, ritenuta uno dei più bei ritratti femminili del Quattrocento fiorentino, è di fattura estremamente
curata e fine.
Andrea del Verrocchio
1469 Piero e Giovanni de Medici
Il monumento venne commissionato da Lorenzo de' Medici per la sepoltura del padre Piero, morto
nel 1469, e dello zio Giovanni, morto nel 1463. L'opera venne completata nel 1472.
Il monumento funebre riprese la tipologia dell'arcosolio rinascimentale usato da Bernardo
Rossellino nel Monumento a Leonardo Bruni (1450) e da Desiderio da Settignano nel monumento
funebre a Carlo Marsuppini (1453-1455), segnando un punto di arrivo di questa tipologia.
Il sepolcro, invece di essere addossato a una parete, si trova al di sotto di un arco che apre
un'intercapedine tra i due vani, i quali erano entrambi sotto il patronato dei Medici. Il sarcofago è
in porfido e poggia su uno zoccolo. È decorato da zampe leonine e girali bronzei, che riprendono il
modello di Desiderio da Settignano, mentre il motivo del medaglione centrale, in serpentino verde,
venne ispirato dal tabernacolo di Santa Maria a Peretola e dalla tomba di Benozzo Federighi di Luca
della Robbia. Lo zoccolo poggia su tartarughe vere, ispirate all'Ercole e Anteo di Antonio del Pollaiolo,
mentre la grata bronzea, fingente una corda intrecciata, che scherma l'apertura tra i due vani, venne
probabilmente ripresa dalla tomba di Neri Capponi in Santo Spirito, del Rossellino.
La decorazione non presenta figure umane scolpite, ma è basata sulla rarità preziosa dei materiali e
sull'impeccabile esecuzione. La novità del monumento sta soprattutto nell'originale collocazione in un
ambiente di passaggio, con la grata che scherma il trapasso tra pieni e vuoti, facendo vibrare la luce
sulle sue maglie.

1470 Madonna con bambino (dipinto piccolo)

1473-75 David
David vittorioso ha un aspetto adolescente. Il giovane eroe è in piedi ed esibisce una posa che esprime il suo orgoglio per
la vittoria. David è fiero di essere diventato un eroe sconfiggendo il gigante nemico. Infatti, la testa di Golia si trova a
terra tra i suoi piedi. Il corpo è sorretto dalla gamba destra mentre quella sinistra è leggermente flessa e posta più
indietro. Il braccio destro è steso lungo il fianco e la mano impugna la spada usata per decapitare il nemico. Il braccio
sinistro, invece è sollevato e la mano appoggiata al fianco.
Il volto poi è ruotato verso la destra dell’osservatore. Inoltre, il suo sguardo fiero presenta un accenno di spavalderia
giovanile. Infatti, con le labbra accenna ad un sorriso di sfida e soddisfazione. Gli occhi sono segnati, in alto, dalla
corrugazione del muscolo sopraciliare che determina l’espressione di aggressività e disapprovazione. I capelli sono ricci e
scendono sul collo. David indossa infine una corta tunica aperta sul petto e retta da due spalline. I bordi del corpetto, le
spalline e il bordo del gonnellino sono decorati da una spessa fascia. Ai piedi porta dei calzari che coprono metà della
gamba e lasciano scoperta la parte anteriore del piede.
La statua di Verrocchio è un ritratto dell’eroe protagonista della vicenda biblica. Il giovane David era un pastore e la
vicenda si svolse circa nel 1000 a.C. Golia invece era un guerriero possente e molto alto. David si offri con
determinazione per affrontare il nemico. Però rifiutò l’armatura offerta dal re Saul e si armò solamente di alcune pietre
ben levigate. Forte della fede in Dio riuscì quindi ad abbattere il gigante. Una volta colpito a morte lo decapitò con la sua
spada e portò la testa in processione a Gerusalemme. David divenne così il futuro re di Israele.Verrocchio fu un
protagonista del Rinascimento fiorentino. Nella sua bottega si formarono importanti artisti tra i quali Leonardo da Vinci.
Secondo Vasari l’opera risale agli anni successivi al soggiorno romano di Verrocchio, nei primi anni Settanta del secolo. La
scultura di Verrocchio è, oggi, datata intorno agli anni 1472-1475. L’artista, nato nel 1435, era ormai alla soglia dei
quarant’anni e raccoglieva importanti commissioni. La figura di David si distacca dal nudo classico di Donatello per
avvicinarsi al gusto goticheggiante vicino alle opere di Lorenzo Ghiberti. Il modellato della figura è morbido. Le forme
anatomiche sono corrette e non segnate eccessivamente. Gli storici ritengono che tale gusto estetico sia stato di
ispirazione al giovane Leonardo da Vinci, allievo di Verrocchio. Il giovane David esibisce una espressione di orgoglio
adolescenziale. Questo approfondimento psicologico rivela l’intenzione di Verrocchio di sottolineare l’aspetto umano
dell’eroe biblico. Verrocchio si ispirò al David di Donatello del 1440 circa. L’artista, però, non rimase aderente al modello.
Infatti, David adolescente indossa un abito del quattrocento, da giovane paggio.
La scultura del David vittorioso dialoga in modo complesso e articolato con lo spazio circostante. Infatti, offre la
possibilità di essere osservato da più punti di vista. La posa assunta da David è equilibrata e disinvolta. L’anca destra è
sollevata, il braccio sinistro è poggiato contro la vita e la testa ruotata verso sinistra. La mano destra impugna la spada
con la quale ha decapitato Golia.
1475 Dama col mazzolino
La scultura raffigura il busto di una giovane donna con le mani strette sul petto. Tra le sue dita si notano inoltre dei
fiori che la ragazza stringe a se. La dama ha fattezze regolari e i capelli sono raccolti sulla nuca da una acconciatura
sobria. Piccole ciocche arricciate incorniciano poi il volto lateralmente. La donna infine indossa una veste sottile che
aderisce al suo corpo e crea un sottile panneggio. La scultura di Andrea Verrocchio detta Dama dal mazzolino è
anche intitolata Gentildonna dalle belle mani. Gli storici però non sono in grado di indicare l’identità della donna.
Quindi esistono solo ipotesi circa il suo nome. Secondo alcuni poteva essere Lucrezia Donati, amore platonico di
Lorenzo de’ Medici. Secondo altri, invece si tratta di Lucrezia Tornabuoni, la madre di Lorenzo. Il nome di Lucrezia si
trova, infatti, all’interno di un inventario compilato nel 1492 alla morte di Lorenzo de’ Medici. Altri, ancora, indicano
l’amante di Giuliano de’ Medici, Fioretta Gorini. Attualmente, in seguito ad approfondite indagini storiche, gli storici
escludono infine che sia una componente della famiglia de’ Medici.
Non esistono documenti che chiariscano le circostanze della commissione dell’opera. Per molto tempo la Dama dal
mazzolino è stata considerata una proprietà della famiglia de’ Medici. Ora, in seguito a nuovi e approfonditi studi si
mette in dubbio tale provenienza. Sicuramente, fino al 1822 l’opera fu proprietà di un nobile fiorentino, Francesco
Ceccherini. Nel 1825, gli eredi decisero poi di vendere la scultura alle collezioni granducali. Su alcuni documenti,
inoltre, si specifica che la scultura apparteneva, in precedenza, ad una famiglia sconosciuta di Firenze. Leopoldo II
acquistò, così, la Dama dal mazzolino per la Galleria degli Uffizi nel 1825.
La prima documentazione certa sulla Dama dal mazzolino è presente nel testamento di Francesco Ceccherini del
1822. Per il nobile fiorentino l’opera era di Donatello. Wilhelm Bode, nel 1882, per primo attribuì la scultura
a Verrocchio. Giunse a questa ipotesi confrontandola con le Virtù del Cenotafio Forteguerri a Pistoia. Da allora gli
storici concordano con tale attribuzione. Secondo altre opinioni, invece, l’opera potrebbe essere stata realizzata
insieme a Leonardo da Vinci. Lo rivela il confronto con il Ritratto di Ginevra de’ Benci del 1474 circa. Le due
protagoniste, infatti, si somigliano e portano la stessa acconciatura. Infine, è stato messo in relazione uno studio di
Leonardo con due mani disegnate nella stessa posizione. Secondo altri, non è possibile però considerare l’intervento
di Leonardo per via dell’unità stilistica che la scultura presenta.
La Dama dal mazzolino è un busto-ritratto. Tale formato scultoreo si diffuse a Firenze nel corso della seconda metà
del XV secolo. Si tratta di una evoluzione dei busti in cera devozionali prodotti nel medioevo. Andrea del
Verrocchio scolpì l’opera intorno al 1475. Il taglio della figura all’altezza dell’ombelico, la posa naturale e disinvolta
delle mani erano presenti nei dipinti fiamminghi dell’epoca. Tali opere, infatti, erano molto diffuse e apprezzate a
Firenze. Inoltre, l’abito e l’acconciatura sono minuziosamente dettagliati come nella tradizione della pittura nordica.
Secondo gli storici l’opera introduce una novità compositiva nella scultura del secondo Quattrocento. La figura,
infatti, è tagliata all’altezza dell’ombelico e indica una scelta non tradizionale. Inoltre, le mani che stringono il
mazzolino di fiori sono posizionate in modo molto naturale.La Dama dal mazzolino è una scultura in marmo di circa
60 cm di altezza.La superficie del’opera è molto chiara quindi la luce si riflette creando leggeri chiaroscuri. Le ombre
più profonde si trovano ai lati del volto dove la massa di capelli incornicia l’ovale che viene così segnato da una
sottile linea di ombra. Altre ombreggiature più profonde creano poi lo stacco tra le braccia e il torace e mettono in
risalto le mani in primo piano. Infine le pieghe dell’abito, sottile e quasi trasparente sono rilevate da ombre poco
profonde e delicate.La scultura di Andrea del Verrocchio è un tuttotondo. La prospettiva migliore per osservarla
nella sua completezza è però quella frontale nella quale il viso della protagonista si esprime al meglio. In particolare
sono le mani ad attirare l’attenzione dell’osservatore per via della loro posizione e dei fiori.
La dama è rappresentata frontalmente ma un poco rivolta a destra. Inoltre, anche il viso è inclinato nella direzione
opposta e risulta leggermente obliquo. Questa scelta compositiva insieme alla posizione asi mmetrica delle mani
permette di creare una posa più naturale e non rigidamente frontale. Infine il busto crea una base piramidale che
mette in evidenza il volto nella parte alta.

1475 Battesimo di Cristo


L'opera è impostata su una composizione triangolare, con al vertice la ciotola (conchiglia) nella mano di san
Giovanni Battista e come base la linea che collega il piede sinistro del Battista a quello dell'angelo
inginocchiato; in essa è inscritta e funge da centro visivo la figura del Cristo stante, che dà alla scena anche un
movimento rotatorio, accentuato dalla posizione di tre quarti dell'angelo sulla sinistra che volge le spalle
all'osservatore. Lo sguardo dell'angelo inoltre guida lo spettatore verso il Cristo. La testa dell'angelo
leonardesco è leggermente più bassa nella superficie: se ne deduce che il pittore dovette raschiare via una
vecchia preparazione prima di ridipingerla.
L'intervento di Leonardo sul corpo di Cristo si riconosce bene in alcuni dettagli minuziosamente naturalistici,
come i morbidi peli del pube, molto diversi ad esempio dal lucido e spigoloso perizoma rosso rigato. La mano
di Leonardo intervenne anche nelle acque del fiume in primo piano (che con il tempo hanno assunto una
colorazione più rossiccia), estese fino a immergere i piedi di Gesù e del Battista.
In alto le mani di Dio Padre, di scarsa fattura, inviano la Colomba dello Spirito Santo circondata da raggi divini.
Il paesaggio sullo sfondo è aperto su di un'ampia valle percorsa da un fiume ed è reso con valori atmosferici
che ammorbidiscono e sfumano le forme, differenziandosi dalle rocce rozzamente squadrate. Vi sono due
uccelli rappresentati: una colomba bianca e un uccello rapace nero che sono in netto contrasto, uno è
simbolo della pace, l'altro rappresenta il male. Alcune figure a monocromo, pure attribuite a Leonardo, si
trovano sul retro del dipinto. Sul lato posteriore si vede come la tavola sia stata composta da sei assi,
escludendo l'ipotesi di uno scorcio sul lato dell'angelo Leonardiano. Inoltre vi si leggono alcune cifre in una
grafia quattrocentesca.
1481–88 Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni
Per la realizzazione del gruppo Andrea si rifece alla statua equestre del Gattamelata di Donatello, alle
statue antiche di Marco Aurelio, dei cavalli di San Marco e del Regisole (opera tardoantica a Pavia,
perduta nel XVIII secolo), ma tenne anche presente l'affresco con Giovanni Acuto di Paolo
Uccello e quello di Andrea del Castagno in Santa Maria del Fiore a Firenze.
Il più grande problema di questo tipo di rappresentazioni era la statica: se infatti si voleva rappresentare il
cavallo al passo, con una zampa sollevata per dare un segno di maestoso incedere, ciò comportava
notevoli preoccupazioni per le opere, poiché il pesantissimo bronzo veniva a essere legato a tre appoggi
relativamente esili rappresentati dalle zampe del cavallo. Donatello a Padova risolse il problema con
prudenza, tramite lo stratagemma di far posare lo zoccolo alzato su una sfera. Verrocchio fu il primo a
riuscire con successo nell'impresa di appoggiare il monumento su tre sole zampe. Successivamente riuscì
a fare di meglio solo Pietro Tacca nel 1636-1640, con il Monumento equestre a Filippo IV (Plaza de
Oriente, Madrid), virtuosisticamente poggiata su due sole zampe.
L'opera di Verrocchio si discosta dall'illustre precedente di Donatello anche per i valori stilistici dell'opera.
Al concentrato e sereno incedere del Gattamelata, Verrocchio contrappose un condottiero impostato
secondo un inedito rigore dinamico, con il busto impettito ed energicamente ruotato, la testa saldamente
puntata verso il nemico, le gambe rigidamente divaricate a compasso, la gestualità grintosa e vitale. Le
linee di forza ortogonali (orizzontale nel profilo superiore del dorso e del collo del cavallo, verticale della
figura del condottiero) amplificano l'effetto dinamico. Altre differenze si riscontrano nell'armatura (più
leggera e "all'antica" quella di Donatello, moderna e completa con l'elmo quella di Verrocchio) e nella
sellatura. Il cimiero del Colleoni crea una zona d'ombra sul volto che lo incornicia rendendo più espressiva
la mimica facciale corrucciata.

1483 Incredulità di San Tommaso (Orsanmichele)


La struttura dell'edicola è tra quelle pienamente rinascimentali di Orsanmichele. Mancano gli archetti gotici e si
trova invece una calotta ad arco a tutto sesto, decorata come la valva di una conchiglia e sorretta da due
colonnine tortili con capitelli ionici; due paraste corinzie reggono un fregio di cherubini e festoni e
un timpano dove, entro un medaglione di ghirlanda, è raffigurato a bassorilievo la Trinità. I pennacchi attorno
all'arco sono decorati da rilievi di putti, che si ritrovano anche sulla base mentre, in volo, reggono un clipeo a
ghirlanda; agli angoli della base si trovano due mascheroni, che imitano quelli che si possono vedere sui
coperchi di alcuni sarcofagi romani.
Il gruppo di Cristo e San Tommaso mostra l'episodio evangelico (Giovanni 20, 24-29) in cui l'apostolo dubita del
Cristo risorto e per questo viene invitato dal Redentore a toccare con mano la sua ferita nel costato. Innovativa
è l'idea di rappresentare le figure sacre come in dialogo fra loro in una simulazione teatrale, con Cristo che è
rappresentato mentre alza il braccio e discosta la veste per mostrare la ferita al discepolo, che guarda incredulo
e fa per toccare.
Il gruppo venne ben presto ammirato per la felice scelta compositiva, per le espressioni dei protagonisti e per la
perizia con il quale si era risolto il problema dell'angusto spazio della nicchia: San Tommaso è infatti posto un
gradino sotto al Cristo, la sua gamba copre la base di una delle colonnine e il suo piede destro esce dalla nicchia,
"bucando" lo spazio della rappresentazione. Il panneggio è pesante e cade come se fosse bagnato, secondo un
tratto stilistico che venne ripreso anche dagli allievi Botticelli e Leonardo.
Durante il restauro si è appurata l'eccellente esecuzione, con la padronanza della tecnica a cera persa che ha
permesso un'unica gittata per ciascuna delle figure. Per evitare i difetti in fase di fusione, venne realizzato un
alto spessore del metallo, che venne poi rifinito, cesellato e lucidato con una straordinaria cura.
Sandro Botticelli
1470 Madonna con bambino (dipinto piccolo)
Le due opere sono tra le prime scene narrative conosciute di Botticelli e mostrano una notevole abilità nel
1470 Storie di Giuditta descrivere gli avvenimenti con il ricorso sicuro ad elementi essenziali. Giuditta, eroina biblica, per proteggere la
propria città di Betulia minacciata dal generale assiro Oloferne, finse di voler collaborare con il nemico riuscendo a
parlare al comandante, che si innamorò di lei. La sera lo fece ubriacare e giunta nella sua te nda lo decapitò mentre
dormiva intorpidito dall'alcol. La prima scena è ambientata nella tenda di Oloferne e mostra i suoi dignitari che
scoprono con orrore il corpo decapitato nel suo letto; la seconda mostra Giuditta che incede con passo sicuro verso
la sua città, seguita dall'ancella che tiene in un cesto coperto da un lenzuolo la testa mozzata del nemico.
Pur nelle piccole dimensioni le Storie di Giuditta sono un vero capolavoro per la complessità della composizione,
l'attenzione alla resa dei dettagli minuti e l'azzeccata scelta della diversa ambientazione per ciascuna scena.
Nella tavoletta di Oloferne il tronco del condottiero giace nudo sul letto, con un'anatomia perfetta costruita con una
linea di contorno tesa ed elastica derivata dalla lezione del Pollaiolo, avvolto da lenzuola e da cuscini gonfi che
creano un segno robusto tipico dell'espressività "virile" di Botticelli. Pesante è anche il panneggio della tenda, che
scopre al centro un piccolo paesaggio campestre, e che accentua il senso di cupa drammaticità senza però impedire
alla luce di entrare all'interno, lasciandola rifrangere sulle corazze e sulle ricche bardature.
La modellazione delle figure è incisiva, e marcato è l'espressionismo della scena, con le figure che esprimono vari
sentimenti, dallo sgomento al raccapriccio, dalla sorpresa allo smarrimento. Le linee di forza dirigono lo sguardo
dello spettatore sia verso il corpo privo di testa, sia verso la figura del soldato vestito di armatura che si piega per
sollevare il lenzuolo di Oloferne scoprendone il tronco. A destra stanno arrivando due sereni personaggi a cavallo,
che ancora non sono toccati dalla macabra scoperta, dimostrando l'accortezza del pittore di rappresentare diversi
stati d'animo che movimentano la narrazione della storia.

1475 Ritratto d’uomo con medaglia di Cosimo il Vecchio


Il personaggio ritratto è ignoto e nel tempo sono state fatte numerose ipotesi: da Pico della Mirandola (inventario del
1704) a Piero il Gottoso (inventario del 1825), Piero il Fatuo (Müntz), Giovanni di Cosimo de' Medici (Horne) o il suo
presunto figlio illegittimo Bertoldo di Giovanni. Col tempo si è fatta strada che si tratti del ritratto dell'autore della
medaglia (Burkhardt, Friedlaender, J. de Foville, Mandel), facendo venire fuori i nomi di Niccolò Fiorentino, Cristoforo di
Geremia o Antonio Filipepi, fratello del pittore, che forse è l'ipotesi più plausibile.
Un giovane dalla folta chioma è ritratto di tre quarti voltato verso sinistra, con le spalle, il busto e le mani, che reggono
saldamente una grossa medaglia di Cosimo de' Medici detto "il Vecchio". Il vestito è tipico della borghesia fiorentina
dell'epoca, con la preziosa tinta nera, una delle più costose, e una berretta rossa in testa. Gli occhi si voltano a f issare lo
spettatore, con uno sguardo leggermente malinconico. Lo sfondo è un paesaggio fluviale tratteggiato a grandi linee, con
un cielo che si schiarisce verso l'orizzonte. L'iscrizione sulla medaglia, che fu realmente coniata tra il 1465 e il 1469 (ne
esiste un esemplare al Bargello) recita MAGNUS COSMVS MEDICES PPP (cioè Primus Pater Patriae.
Lightbown notò la somiglianza del personaggio con un Ritratto d'uomo con una medaglia romana di Hans
Memling nel Koninklijk Museum voor Schone Kunsten di Anversa. Eseguito intorno al 1470, presenta notevoli
somiglianze, ma come era già successo in altri casi però, il richiamo ai modelli fiamminghi costituì forse il semplice
punto di partenza per l'artista che tese in seguito ad astrarre sempre più le figure dal loro contesto. Notevole è inoltre la
somiglianza con l'autoritratto di Sandro nell'Adorazione dei Magi, che farebbe propendere per l'ipotesi che l'effigiato sia
suo fratello, orafo e medaglista dei Medici, citato per l'appunto in alcuni documenti dell'archivio mediceo per
la doratura di alcune medaglie.
La medaglia, rappresentata con una notevole sensibilità materica nel restituire la consistenza dello stucco consumato,
usato come modello per la medaglia vera e propria, è quella coniata in occasione della nomina di Cosimo come "Pater
Patriae" nel 1465, un anno dopo la sua morte. Si tratta di un'opera che dovette avere ampia diffusione, Rappresentata
ad esempio ancora copiata in un manoscritto aristotelico redatto da Francesco di Antonio del Chierico per Piero di
Lorenzo de' Medici.
Lo stile del ritratto è tipico della tradizione fiorentina dell'epoca, con un giusto equilibrio tra sinteticità e gratificazi one
celebrativa del protagonista, a cui si aggiunge una sottile tensione psicologica data dal contatto visivo diretto con lo
spettatore. Lo sguardo intenso, i lineamenti, fortemente personalizzati, addolciti dalla ricerca di una bellezza formale
assoluta, che si lega con le teorie dell'Accademia neoplatonica che proprio in quegli anni cominciavano a diffondersi. Le
mani sono agili e nervose e tengono con fermezza la medaglia, quasi a sottolineare un fiero attaccamento. Il ritratto è
dominato dal linearismo formale del contorno, che non esita a mettere in secondo piano la terza dimensione, come si
vede nel blocco scuro del busto, in cui le spalle appaiono incertamente proporzionate.
1478 Primavera
In un ombroso boschetto, che forma una sorta di semi-cupola di aranci colmi di frutti e arbusti sullo sfondo
di un cielo azzurrino, sono disposti nove personaggi, in una composizione bilanciata ritmicamente e
fondamentalmente simmetrica attorno al perno centrale della donna col drappo rosso e verde sulla veste
setosa. Il suolo è composto da un verde prato, disseminato da un'infinita varietà di specie vegetali e un
ricchissimo campionario di
fiori: nontiscordardimé, iris, fiordaliso, ranuncolo, papavero, margherita, viola, gelsomino, ecc..I personaggi e
l'iconografia generale vennero identificati nel 1888 da Adolf Gaspary, basandosi sulle indicazioni di Vasari, e,
fondamentalmente, non sono più stati messi in discussione. Cinque anni dopo Aby Warburg articolò infatti la
descrizione che venne sostanzialmente accettata da tutta la critica, sebbene sfugga tuttora il senso
complessivo della scena. L'opera è, secondo una teoria ampiamente condivisa, ambientata in un boschetto
di aranci (il giardino delle Esperidi) e va letta da destra verso sinistra, forse perché la collocazione dell'opera
imponeva una visione preferenziale da destra. Zefiro, vento di nord ovest e di primavera che piega gli alberi,
attira col suo soffio, rapisce per amore la ninfa Clori (in greco Clorìs) e la mette incinta; da questo atto ella
rinasce trasformata in Flora, la personificazione della stessa primavera rappresentata come una donna dallo
splendido abito fiorito che sparge a terra le infiorescenze che tiene in grembo. A questa trasformazione
allude anche il filo di fiori che già inizia a uscire dalla bocca di Clori durante il suo rapimento. Al centro
campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia e dirige gli eventi, quale
simbolo neoplatonico dell'amore più elevato. Sopra di lei vola il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovano le
sue tre tradizionali compagne vestite di veli leggerissimi, le Grazie, occupate in un'armoniosa danza in cui
muovono ritmicamente le braccia e intrecciano le dita. Chiude il gruppo a sinistra un
disinteressato Mercurio, coi tipici calzari alati, che col caduceo scaccia le nubi per preservare un'eterna
primavera.
1480-81 Registro intermedio cappella sistina -----> Punizione dei ribelli
Questo lavoro fa parte della decorazione del registro mediano all’interno dalla Cappella Sistina. Nel
1481, lavorava all’interno della celebre cappella il Perugino, e successivamente, Lorenzo il
Magnifico, incaricò Sandro Botticelli di dirigersi a Roma per dar vita ad un progetto di riconciliazione
con Papa Sisto IV. Botticelli giunse a Roma e lavorò a diverse scene all’interno della Cappella, dove il
tema del lavoro riguardava la continuità tra Vecchio Testamento e Nuovo Testamento, e la scelta di
san Pietro come successore di Cristo. Purtroppo, Botticelli non poté lavorare quanto sperato
all’interno della Cappella Sistina, perché nel 1482, suo padre morì, costringendolo a tornare a
Firenze, e successivamente non fece più ritorno a Roma.
L’episodio narrato all’interno della Punizione dei ribelli riguarda la negazione da parte dei sacerdoti
ebrei di concedere autorità sul loro popolo a Mosè, e la successiva punizione mortale inflitta a
quest’ultimi da parte di Dio. La successione corretta degli eventi si deve leggere da destra verso
sinistra: sull’estrema destra si vede Giosué che salva Mosè dalla lapidazione da parte dei ribelli; al
centro si trova l’Arco di Costantino e Mosé che alza in alto il bastone con cui invoca il fuoco divino
che uccide i sacerdoti ribelli, mentre sulla sinistra si apre una voragine che uccide i Leviti.
Spostando lo sguardo in secondo piano, è possibile notare la presenza di alcune navi e delle rovine
di un’antica basilica, che ricorda quelle del Foro Romano.
Simbolicamente, questo episodio, letto in corrispondenza con la Consegna delle Chiavi, che si trova
sulla parete simmetrica opposta, allude alle devastanti conseguenze di coloro che vogliono opporsi
al potere del Papa, diretto rappresentante di Dio sulla terra. Mosè rappresenta i poteri civili, ed
Aronne quelli sacerdotali, che successivamente verranno riuniti in Cristo, che a sua volta trasmetterà
a san Pietro. L’aspetto migliore di questo affresco è rappresentato dai movimenti animati dei
sacerdoti colpiti dalle fiamme, che risultano essere molto realistici, mentre il resto della
composizione appare troppo frammentaria e dispersiva, rendendo l’opera di difficile comprensione.

1481-82 affreschi Cappella Sistina Antico e Nuovo Testamento

Prove di Cristo: La scena delle Prove di Cristo raffigura le tre Tentazioni di Gesù e ha evidenti parallelismi con la scena sulla parete opposta in posizione
simmetrica, sempre di Botticelli, le Prove di Mosè. L'iscrizione sul fregio chiarisce il significato del dipinto: "TEMPTATIO IESU CHRISTI LATORIS EVANGELICAE
LEGIS". In alto a sinistra Cristo incontra il demonio, sotto le sembianze di un eremita, che lo invita a tramutare in pane le pietre; al centro Cristo e il demonio
sono sulla sommità del frontone di un tempio, ispirato all'Ospedale di Santo Spirito in Saxia, e il demonio sfida Gesù a gettarsi nel vuoto e ad essere salvato
dai suoi angeli; infine, a destra, Cristo fa precipitare il demonio nudo da una rupe dopo il suo rifiuto di dominare il mondo. In primo piano si svolge un rito
sacrificale, interpretato come quello offerto dal lebbroso dopo essere stato risanato da Cristo e in cui il sommo sacerdote simboleggia Mosè, che passa la
Legge, e il giovane si identifica con Cristo, che sarà lui stesso sacrificato per redimere l'umanità intera.
I pittori della Sistina si attennero a comuni convenzioni rappresentative in modo da far risultare il lavoro omogeneo come l'uso di una stessa scala
dimensionale, struttura ritmica e rappresentazione paesaggistica; inoltre utilizzarono accanto ad un'unica gamma cromatica le rifiniture in oro in modo da
far risplendere le pitture con i bagliori delle torce e delle candele.
Rispetto ai capolavori creati per i Medici, negli affreschi della Sistina Botticelli risulta più debole e dispersivo, con difficoltà nel coordinare le forme e la
narrazione. La relegazione in secondo piano degli episodi principali non giova alla leggibilità della scena, che forma un insieme frammentario, forse a caus a
dello spaesamento del pittore nell'operare su dimensioni e tematiche non congeniali e in un ambiente a lui estraneo.
Il tratto migliore resta però la vigoria dei ritratti e la ricchezza di invenzioni iconografiche. Notevole è inoltre l'organizzazione formale che amplifica il
carattere simbolico degli avvenimenti.

Prove di Mosè: La scena delle Prove di Mosè raffigura vari episodi della giovinezza di Mosè tratti dal Libro dell'Esodo ed ha evidenti parallelismi con la scena
sulla parete opposta in posizione simmetrica, sempre di Botticelli, le Prove di Gesù. L'iscrizione sul fregio chiarisce il significato del dipinto: "TEMPTATIO
MOISI LEGIS SCRIPTAE LATORIS". Da destra si vede Mosè che uccide l'egiziano che aveva maltrattato un israelita e fugge nel deserto (per cui può essere
visto come prefigurazione di Cristo che sconfigge il demonio); nell'episodio successivo combatte con i pastori che volevano impedire alle figlie di Ietro, tra
cui è la sua futura moglie Sefora, di abbeverare il gregge al pozzo e attinge per loro l'acqua; nel terzo in alto a destra Mosè si toglie i calzari, poi si avvicina al
roveto ardente e riceve da Dio la missione di tornare in Egitto e liberare il suo popolo; infine in basso a sinistra, egli guida il suo popolo verso la Terra
Promessa. I pittori della Sistina si attennero a comuni convenzioni rappresentative in modo da far risultare il lavoro omogeneo, come l'uso di una stessa
scala dimensionale, struttura ritmica e rappresentazione paesaggistica; inoltre utilizzarono accanto ad un'unica gamma cromatica le rifiniture in oro in modo
da far risplendere le pitture con i bagliori delle torce e delle candele.
Dei tre episodi affrescati da Botticelli questo è il più coordinato nello svolgimento dei numerosi episodi che compongono la scena narrata. Mosè è sempre
riconoscibile per la veste dorata e il mantello verde. Il tratto migliore resta però la vigoria dei ritratti e la ricchezza di invenzioni iconografiche, che però in
alcuni casi formano un insieme frammentario, forse a causa dello spaesamento del pittore nell'operare su dimensioni e tematiche non congeniali e in un
ambiente a lui estraneo.
1482 Pallade doma il centauro
Pallade, a destra è in piedi e afferra con la mano destra i capelli del Centauro. La dea sorregge un’alabarda con il
braccio sinistro mentre guarda in modo deciso il centauro in volto. Pallade è abbigliata con un abito velato di stoffe
trasparenti e decorato con serti di ulivo. Sul tessuto sono presenti ricami che raffigurano emblemi composti
dall’unione di tre o quattro anelli con diamante incrociati. Compare anche il motto “Deo amante” che si traduce in
italiano come “A Dio devoto”. Motto ed emblema furono assunti da Cosimo il Vecchio e in seguito dagli eredi tra i
quali il nipote Lorenzo il Magnifico.
Un lungo e svolazzante mantello pesante è legato alla spalla destra e passa intorno ai fianchi. Intorno al capo indossa
una corona di foglie. Il Centauro è dipinto a sinistra della dea ed è orientato verso la stessa direzione. Con la mano
destra stringe un arco mentre dietro la schiena porta una faretra con frecce. Il corpo dalla vita in giù è quello di un
cavallo dal pelo scuro mentre verso l’alto è quello di un uomo dalla corporatura vigorosa. Ol tre ai lunghi capelli il
Centauro ha il viso coperto da una folta e lunga barba scura.Il paesaggio è rappresentato in modo dettagliato già a
partire dal primo piano. Sulla sinistra è dipinta in dettaglio una rupe frastagliata che parte dal basso e prosegue oltre
il bordo del dipinto. Sul fondo si apre un paesaggio lacustre. Sul lago infine si intravede una imbarcazione e sulle
sponde a destra della vegetazione.
Il dipinto di Sandro Botticelli intitolato Pallade e il Centauro presenta alcuni significati nascosti. Una comune
interpretazione è che l’opera sia legata a significati derivati dalla filosofia Neoplatonica. Infatti presso la corte di
Lorenzo il Magnifico erano molto diffuse le teorie filosofiche di Marsilio Ficino che ispirarono anche altre opere
di Sandro Botticelli. Alcuni propongono che l’opera possa essere una allegoria della ragione (Gombrich). La dea
Pallade, cioè Minerva, domina la primitiva forza del Centauro. I tre anelli intrecciati nella veste di Pallade
rappresentano l’emblema di Lorenzo il Magnifico.
Intorno al capo e al corpo di Pallade si notano alcune fronde di lauro. Questa pianta allude nuovamente al Mecenate
nel suo appellativo di Magnifico. Altra interpretazione politica richiama le brillanti capacità diplomatiche del signore
di Firenze (Steinmann). L’opera Infatti sembra raccontare la capacità di Lorenzo il Magnifico nel trattare con
diplomazia le intenzioni bellicose del re di Napoli evitando la guerra tra le due città. L’Intenzione di Lorenzo era
quella di convincere il sovrano napoletano a non aderire alla lega anti fiorentina di Papa Sisto IV.

Secondo gli storici il dipinto è parte di una serie di opere a carattere mitologico che Botticelli dipinse al ritorno da Roma. Gli altri dipinti sono Primavera, Nascita di Venere,
Venere e Marte. Sandro Botticelli utilizzò una sottile linea di contorno per rafforzare le forme delle figure dei due personaggi. Il contorno inoltre crea un elegante linearismo
tipico dei personaggi del maestro. Il modellato è delicato e la muscolatura del Centauro rappresentata con rilevanze poco contrastate ma che esprimono molta plastic ità e forza.
I gesti furono attentamente studiati per suggerire il carattere dei personaggi ed esprimere una certa eleganza formale. In Pallade e il Centauro si ritrovano alcune influenze di
Pietro Perugino nel paesaggio come anche ricordi di Luca Signorelli. Con i due artisti Sandro Botticelli lavorò infatti all’interno della cappella Sistina a Roma. Il centauro fu forse
ispirato da sarcofaci romani presenti nella città. Botticelli ebbe una formazione artistica come orafo e rimase legato ad una descrizione elegante e lineare della realtà. Accanto
alle delicatezza delle figure dei suoi dipinti di carattere mitologico occorre ricordare che fu autore di opere inquietanti c ome Nastagio degli Onesti. Inoltre per Lorenzo de’ Medici
creo la monumentale opera di raffigurazione dell’Inferno di Dante.
Il colore del dipinto intitolato Pallade e il Centauro è brillante e terso come in molte opere di Sandro Botticelli. Dal contrasto tra i toni scuri del primo piano e i toni freddi e
cristallini del paesaggio emerge infatti un’atmosfera sospesa e antica. In primo piano il terreno, il cor po animale del Centauro e il manto di Pallade creano ampie zone scure che
mettono in forte evidenza l’abito chiaro della dea e gli incarnati dei personaggi. In secondo piano, a sinistra, la struttura rocciosa crea una quinta neutra che predispone alla
lettura del paesaggio a destra. Il lago e il terreno sono poi frutto di delicati toni verdi. Il cielo, invece è azzurro, molto intenso e crea un efficace contrasto di luminosità con il
primo piano. I due personaggi occupano interamente il primo piano e ne determinano la lettura spaziale frontale con l’imponenza dei loro fisici. La costruzione rocciosa a destra
invece con un leggero suggerimento prospettico crea un primo spessore del primo piano e invita lo sguardo a percorrere lo spa zio verso il paesaggio di fondo. In realtà lo spazio
tridimensionale è rappresentato debolmente nella struttura dell’immagine di Sandro Botticelli. Il paesaggio infatti subisce u n appiattimento decorativo che si ritrova anche
in Nascita di Venere dove il mare con le piccole onde diventa quasi uno sfondo decorato. L’impianto compositivo dell’opera è articolato tra le monumentali figure di Pallade e
del Centauro che trovano equilibrio nella grande massa rocciosa di sinistra.

1485 Nascita di Venere Al centro del dipinto si trova Venere che sorge dalle acque, raffigurata in piedi, su di
una conchiglia mentre il resto ruota intorno a lei. Zefiro si trova alla sinistra della dea e,
a destra, invece, Ora porge a Venere una veste ricamata. La veste è un capolavoro di
sapiente decorazione, realizzata con fiori dipinti in modo minuzioso. Intorno, il
paesaggio è appena accennato come il mare che sembra una carta da parati. Infatti le
onde sono rappresentate attraverso semplici segni lineari.Il soggetto di questo famoso
dipinto è ispirato alle metamorfosi di Ovidio.
Il dipinto di Botticelli, come La Primavera, nasce all’interno della cultura neoplatonica
diffusa a Firenze. Infatti, presso la Corte di Lorenzo il Magnifico, vi erano molti
intellettuali seguaci del platonismo. Il tema sotteso dal dipinto è, piuttosto, la
celebrazione della nascita di una nuova umanità, rappresentato dalla figura di Venere.
La dea viene rappresentata nuda ma la sua nudità ha un intento estetico e astratto.
Questa figura idealizzata rappresenta il modello della bellezza secondo Sandro
Botticelli.
Nel complesso il gruppo dipinto sembra una scena teatrale che si dispiega di fronte allo
spettatore. I personaggi mitologici sono esili e allungati, con la pelle tendente ad un
tono chiaro e eburneo. Come il paesaggio anche i corpi sono quasi bidimensionali e
privi di un deciso chiaroscuro. Le forme sono definite attraverso un delicato contorno
lineare che il maestro Botticelli utilizza in modo virtuoso. Curve ritmiche e fluenti
rendono i panneggi leggeri ed eleganti soprattutto nella veste mossa dal vento che Ora
porge a Venere. Allo stesso modo fluiscono, verso il basso anche i capelli della dea
mossi dal vento. Infine, il decorativismo stilistico si ritrova anche nei dettagli naturali
come fiori ed erbe.
La luce illumina in modo diffuso la scena ma la fonte luminosa non è identificabile. Lo
spazio risulta contratto sul primo piano. Il senso di profondità viene infatti annullato
dal linearismo delle figure e dal debole chiaroscuro che è assente anche nel paesaggio.
La composizione è centrale e coincide con la Venere, soggetto ideale del dipinto.
1500 La natività mistica
La Natività mistica è forse l’opera più devozionale di Botticelli, in quanto la scena è pervasa da un senso
d’inquietudine e sembra preludere all’avvento dell’Apocalisse. Al centro della scena, Maria e Giuseppe sono in
adorazione del Bambino, protetti da una tettoia di paglia, retta da tronchi, che fronteggia una grotta aperta sul
bosco retrostante. Il Bambino è disteso al centro su un giaciglio coperto da un telo bianco. Il bue e l’asinello si
trovano alle spalle della Sacra Famiglia.
Accanto alla grotta, a sinistra, un angelo vestito di rosa mostra ai re Magi la grotta; a destra un secondo angelo
vestito di bianco indica il Bambino a due pastori. Entrambi reggono in mano un ramo d’ulivo, simbolo di pace. In
basso, altri angeli abbracciano gli uomini virtuosi, dal capo coronato di alloro, per celebrare la pace universale, che
si diffonderà sulla terra dopo la venuta del Salvatore: in realtà, essi sembrano più confortarli che esprimere la gioia
della nascita divina.Alcuni demoni, alla vista del Redentore, fuggono negli Inferi, cacciandosi terrorizzati nelle crepe
del suolo.
Sopra la tettoia della grotta, tre angeli intonano un canto. Le loro vesti che ricordano i colori delle tre Virtù teologali
sono: bianco per la Fede, rosso per la Carità e verde per la Speranza. In alto, dodici angeli volano a girotondo,
tenendosi per mano. Questo cerchio angelico rappresenta la danza della vita, simbolo della rigenerazione spirituale.
La composizione profetica in greco, leggibile sopra di loro, esprime la speranza per l’avvento di tempi migliori.

Antonio del Pollaiuolo


1433 Ercole e Anteo (pittura)

La tavoletta rappresenta una impresa di Ercole, desunta dal mito. L’eroe è riconoscibile per gli
attributi della pelle del leone di Nemea (da lui stesso sconfitto) e dalla clava nodosa.
Ercole sta stritolando il gigante Anteo, sollevandolo da terra. L’eroe, stringendo le mascelle nello
sforzo stringe contro il proprio ventre il nemico, che si divincola urlando. Le figure risaltano
imponenti contro un paesaggio inquadrato ‘a volo d’uccello’. Per l’episodio di Ercole e Anteo, cfr. la
Descrizione in scheda sul bronzetto di medesimo soggetto dello stesso Pollaiolo.

1465 Battaglia di dieci uomini nudi


L'opera è firmata "OPUS / ANTONII POLLA / IOLI FLOREN / TINI" su una tabula ansata appesa a un albero
a sinistra. Se ne conoscono circa cinquanta esemplari, ma solo quello di Cleveland viene considerato di
un'impressione di primo stato.
Il soggetto, una delle migliori battaglie create da un artista del Rinascimento, non è chiaramente
decifrato. Non si sa infatti se si tratti di una rappresentazione di una battaglia reale o mitologica o di una
citazione di un modello antico (come un rilievo di un sarcofago) o di una semplice prova estetica, nata
col fine di presentare un repertorio di figure nel corso di un'azione di guerra in un insieme ben
bilanciato. Sull'interpretazione si dedicò a lungo, tra gli altri, Panofsky, che non riuscì però ad arrivare a
una soluzione definitiva.
Dieci uomini nudi, armati di spade, archi, asce e pugnali, si danno una furente battaglia, creando una
sorta di catena tra un soggetto e l'altro data dai ritmi delle linee di contorno, che fanno spiccare le
masse tese e nervose dei muscoli, vibranti ed elastici. Le anatomie sono in parte tratte dal vero e in
parte dall'attenta osservazione dei bassorilievi antichi: l'effetto è quello di un'inconsueta commistione
tra aspro realismo e idealizzazione intellettuale.
I due guerrieri al centro sono la stessa figura vista di fronte e di spalle, secondo un procedimento legato
al concetto di varietas, che si trova anche in opere di Piero del Pollaiolo, fratello di Antonio.
Particolarmente riuscite sono poi le due figure in primo piano sulla sinistra, con il gesto, particolarmente
azzeccato, dell'uomo disteso che tenta di difendersi scacciando l'avversario con la gamba contro l'altrui
anca. Il gruppo in primo piano a destra invece, dove un uomo colpisce da dietro un avversario giacente
(morto o svenuto), ricorda composizioni simili di altri artisti, animate forse da un'ispirazione comune,
come il Sansone e Dalila di Andrea Mantegna.
Il suolo è cosparso di scudi e armi cadute, mentre lo sfondo è composto da alte specie vegetali che non
hanno niente di prospettico, tra cui si riconoscono alberi, arbusti, canne e fiori. Alcuni nastri sventolanti
accentuano i giochi lineari.
L'incisione ebbe un notevole successo e assicurò all'artista una straordinaria fama anche oltre i confini
della Toscana fin nell'Europa del Nord, come testimoniano il fiorire di repliche, varianti e citazioni. Una
copia della stampa è ricordata nel 1468 in possesso di Francesco Squarcione a Padova.
1475 Martirio di San Sebastiano
Il Martirio è considerato il capolavoro artistico di Piero. San Sebastiano campeggia, con
un'espressione mesta ma tranquillamente riflessiva, legato ad un albero secco le cui basi di rami
tagliati fanno da appoggio, mentre tutt'intorno sei arcieri disposti a cerchio attorno a lui lo
colpiscono con frecce o ricaricano le balestre. Sullo sfondo il paesaggio "a volo d'uccello" si perde
lontanissimo, popolato da figurine, da rovine antiche e altri segni della presenza umana. La figura di
Sebastiano si trova per metà sullo sfondo celeste e per metà su quello terreno: si tratta di un
richiamo evidente alla filosofia dell'Accademia neoplatonica, animata da Marsilio Ficino e Agnolo
Poliziano. Secondo gli scritti dell'Accademia la realtà era vista come la combinazione di due grandi
princìpi, il divino da una parte e la materia inerte dall'altra; l'uomo così occupava nel mondo un
posto privilegiato perché attraverso la ragione poteva giungere alla contemplazione del divino, ma
anche recedere ai livelli più bassi della sua condizione se guidato solo dalla materialità dei propri
istinti. La figura sospesa a mezz'aria del santo rappresenta quindi la condizione umana in bilico tra
mondanità e trascendenza. Emerge inoltre la malinconia per l'offesa che il mondo estraneo a questi
ideali, rappresentato dagli arcieri, attua nei confronti di san Sebastiano.
Rispetto alle sue opere precedenti, la composizione è sottoposta ad un più rigido controllo
geometrico, pur senza rinunciare alla consueta naturalezza delle pose e dei movimenti; bellissime le
figure dei quattro arcieri in primo piano, raffigurati in base a pose speculari, di cui i due alle
estremità intenti a scoccare la freccia e i due al centro nell'atto di ricaricare la balestra, in perfetto
equilibrio rispetto all'asse centrale costituito dal palo a cui è legato il santo.
Confrontando l'opera con il quasi contemporaneo San Sebastiano di Sandro Botticelli balza
immediatamente agli occhi la differenza stilistica tra i due: l'opera botticelliana pone in assoluta
evidenza la figura del santo, immergendola piuttosto in un paesaggio di ispirazione fiamminga;
l'opera di Pollaiolo è invece più dinamica ed espressiva, animata da profonde linee di forza dei gesti
e dei corpi. Le fasce a fitte righe colorate che alcuni arcieri tengono in vita erano un ornamento
tipico dell'epoca: sono presenti ad esempio nel Battesimo di Cristo di Verrocchio e Leonardo da
Vinci e nella Flagellazione di Luca Signorelli.

1484-93 Monumento funebre a Sisto IV


Custodito nel Museo del Tesoro di San Pietro. Un'opera imponente per dimensioni e impatto figurativo
tanto da meritare il soprannome di «Cappella Sistina in bronzo», e che, come la volta di Michelangelo,
offre ardite rappresentazioni di corpi umani, arti e virtù teologali nude o semisvestite che non
mancarono in passato di suscitare scandalo.
Così il Pollaiolo, anticipando di 40 anni Michelangelo, ha voluto rappresentare teologia e geometria,
aritmetica e filosofia, rendendo omaggio al papa dal quale la Sistina prende in nome, tra i pochi ad avere
l'onore di un monumento nella Basilica di San Pietro, umanista e mecenate di artisti come il Botticelli, il
Ghirlandaio, il Perugino o il Pinturicchio. Le fanciulle dalle muscolature asciutte e nervose, semi svestite,
sono disposte al basamento del monumento funerario dedicato a Sisto IV. Al fianco del pontefice -
disteso su di un materasso coperto da un lenzuolo ricamato - le sette Virtù teologali e cardinali,
rappresentate da figure femminili che indossano vesti dal tessuto sottile e dai panneggi vibranti. Il
catafalco funebre venne realizzato dal Pollaiolo tra il 1484 e il 1493, su commissione del nipote del
pontefice scomparso, il cardinale Giuliano della Rovere.
1497 Monumento funebre a Innocenzo VIII
Tipologia di monumento funebre a muro, ebbe notevole influenza sull’ambiente artistico
romano. Si distingue dai precedenti esempi poiché il defunto non compare solo sdraiato su
un feretro, ma anche in piena vita nella parte superiore e in atto di benedire. Pollaiolo, pochi
anni prima, aveva già realizzato il Monumento Sisto IV (1484-93), oggi esposto nel Tesoro di
San Pietro.
1498 Ercole e Anteo (bronzetto)
Secondo la mitologia greca, Ercole si trovò a dover lottare nel deserto libico contro il gigante Anteo, figlio
di Poseidone, dio del mare, e di Gea, dea della terra. Anteo era solito sfidare tutti i passanti per ucciderli e
collezionarne i teschi, aiutato dall'invincibile forza che gli dava la madre terra al semplice contatto. P er batterlo
Ercole fu quindi costretto a sollevarlo, privandolo della sua fonte di forza e riducendolo a un semplice uomo, che fu
poi facile schiantare in aria. Il bronzetto mostra il momento il cui Ercole, riconoscibile per il mantello della leonté, ha
sollevato Anteo, cingendolo con forza alla vita, e questi cerca di divincolarsi disperatamente irrompendo in un grido
che preannuncia la sua imminente sconfitta.
L'impresa dell'eroe era letta dai neoplatonici come simbolo della lotta tra un principio superiore e uno inferiore,
secondo l'idea di una continua tensione dell'animo umano, sospeso tra virtù e vizi; l'uomo in pratica era
tendenzialmente rivolto verso il bene, ma incapace di conseguire la perfezione e spesso insediato dal pericolo di
ricadere verso l'irrazionalità dettata dall'istinto; da questa consapevolezza dei propri limiti deriva perciò il dramma
esistenziale dell'uomo neoplatonico, consapevole di dover rincorrere per tutta la vita una condizione
apparentemente irraggiungibile.
Pollaiolo, che in quegli stessi anni trattò il medesimo soggetto anche in una celebre tavoletta dipinta ora agli Uffizi,
sviluppò il tema ricorrendo due corpi inarcati in direzioni opposte, con gli arti e la direzione degli sguardi che
generano linee di forza spezzate ad angolo acuto e una forte gestualità, trasmettendo il senso di movimento
drammatico. La straordinaria resa anatomica dei dettagli come i muscoli e i tendini in tensione per lo sforzo usa linee
nette che quasi "scarnificano" il modello e genera un senso di energia esplosiva, di un vigore nuovo nel panorama
della scultura rinascimentale. La libera proiezione dei due corpi nello spazio si percepisce in particolar modo
ruotando attorno all'opera e cambiando l'angolo di veduta, secondo le avanzate teorie sulla scultura derivate dal De
statua di Leon Battista Alberti (1462).
La base, a forma di prisma triangolare, poggia su tartarughe, un motivo che ebbe fortuna e venne ripreso anche nel
secolo successivo.

Leonardo da Vinci
1473 Paesaggio con fiume (disegno)
La scena mostra un paesaggio, probabilmente quello di Montevettolini.Tra due
promontori scoscesi, punteggiati da castelli e da altri segni della presenza umana, si apre
la veduta di un fiume, con alberi, cespugli e in lontananza campi coltivati. Il disegno
poteva essere uno schizzo preparatorio per un paesaggio in un'opera più complessa, o un
esercizio del giovane artista a quel tempo allievo di Andrea del Verrocchio; è anche
possibile però che fosse eseguito solo per piacere personale, stando anche alla passione
di Leonardo citata dal Vasari verso "il disegnare et il fare di rilievo, come cose che
gl'andavano a fantasia più d'alcun'altra".
L'autografia leonardesca appare anche confermata dallo stile dell'opera, somigliante ad
altri suoi paesaggi, e alla notevole capacità di rendere l'effetto del connettivo
atmosferico, che lega il vicino e il lontano come se potesse circolarvi realmente "l'aria".
L'artista usò un tratto leggero per evocare il vento tra gli alberi e uno più spesso per le
rocce e le cadute d'acqua, mentre per il castello a strapiombo usò contorni netti.
L'opera venne probabilmente tratta dal vero e comunque contiene vari spunti reali che a
Leonardo dovevano essere ben presenti per la sua infanzia trascorsa in campagna, nella
casa del nonno a Vinci.
1473 Annunciazione
Davanti ad un palazzo rinascimentale, in un rigoglioso giardino recintato che evoca l’hortus
conclusus allusivo alla purezza di Maria, l’Arcangelo Gabriele si inginocchia davanti alla
Vergine rivolgendole il saluto ed offrendole un giglio. La Vergine risponde, seduta con grande
dignità davanti a un leggio sul quale è poggiato un libro. Il tradizionale tema sacro è collocato
da Leonardo in un’ambientazione naturalistica e terrena: l’angelo ha una corporeità concreta,
suggerita dall’ombra proiettata sul prato e dalla resa dei panneggi che presuppongono studi
dal vero. Anche le sue ali prendono ispirazione da quelle di qualche poderoso rapace. E’
straordinaria la resa della luce crepuscolare che plasma le forme, unifica la scena e fa risaltare
le sagome scure degli alberi sul lontano paesaggio dello sfondo, dominato dai toni sfumati
cari all’artista. Gli elementi architettonici sono disegnati secondo le regole della prospettiva
con punto di fuga centrale, ma alcune anomalie riscontrabili nella figura della Vergine, il cui
braccio destro appare eccessivamente lungo, potrebbero rispecchiare precoci ricerche di
ottica da parte di Leonardo, che avrebbe tenuto conto del punto di vista laterale (da destra) e
ribassato determinato dalla collocazione originale della tavola dipinta, cioè sopra un altare
laterale di una chiesa.
Pervenuto agli Uffizi nel 1867 dalla sagrestia della chiesa di San Bartolomeo a Monteoliveto
fuori porta San Frediano a Firenze, del dipinto non si conoscono né la collocazione originaria,
né la committenza. L’Annunciazione è largamente ritenuta un’opera giovanile di Leonardo da
Vinci, eseguita quando il maestro era ancora nella bottega di Andrea del Verrocchio. Imita
un’invenzione del Verrocchio la foggia del leggio, ispirata al sarcofago di Piero il Gottoso nella
chiesa di San Lorenzo a Firenze.
1478-80 Ritratto di Ginevra Benci
La donna è raffigurata a mezzo busto di tre quarti, girata verso destra. È risaputo che il dipinto venne decurtato,
in epoca imprecisata, di almeno un terzo nella parte inferiore, tagliando via le mani che probabilmente erano
danneggiate. Originariamente le proporzioni del ritratto non dovevano essere molto dissimili da quelle
della Gioconda.
Le mani dovevano essere in una posizione emblematica, come nei più famosi ritratti di Leonardo e, secondo
alcune testimonianze dell'epoca, dovevano assomigliare nella posa a quelle della Dama del
mazzolino di Verrocchio. Ne esiste uno studio nella Royal Library del Castello di Windsor. Ginevra indossa una
veste con scollatura chiusa da lacci e un camicia bianca e sottilissima; dal collo pende una sciarpa nera che
incornicia il petto e le spalle. L'acconciatura è tipica dell'ultimo quarto del Quattrocento a Firenze, con i capelli
raccolti sulla nuca lasciando liberi alcuni ricci a incorniciare la fronte. Si tratta della stessa acconciatura usata ad
esempio da Giovanna Tornabuoni, tanto che il Vasari scambiò le due fanciulle negli affreschi
del Ghirlandaio nella cappella maggiore di Santa Maria Novella. Inconsueta è la mancanza di accessori e gioielli
che testimoniassero la ricchezza della famiglia: fu forse la stessa donna a richiedere di essere ritratta così,
rompendo con la tradizione dei ritratti dell'alta borghesia.
Evidente è il confronto dell'artista con la pittura fiamminga, che tentò di emulare nelle delicate luminescenze
dei capelli e nel colorismo analitico. L'ombra del ginepro esalta infatti il chiarore espressivo del volto della
donna, le cui delicate sfumature vennero ottenute anche col caratteristico tocco diretto dei polpastrelli. Il colore
dell'acconciatura si evolve in quello della veste e dello sfondo paesaggistico, secondo un continuum cromatico
che testimonia la capacità vinciana nell'uso del timbro bruno-castano in varie tonalità.
In lontananza si apre un paesaggio con tutti gli elementi cari al pittore: specchi d'acqua, campanili e torri
appuntite, montagne. Il tutto è trattato con toni azzurrini secondo le regole della prospettiva aerea.
L'ambientazione all'aperto è molto insolita, soprattutto per un ritratto femminile.

1481 Adorazione dei Magi L’Adorazione dei Magi è un dipinto incompiuto commissionato a Leonardo dai monaci Agostiniani per l’altare
maggiore della chiesa di San Donato a Scopeto, allora poco al di fuori delle mura di Firenze. Secondo il contratto
avrebbe dovuto essere completata in 30 mesi, invece fu interrotta dalla partenza del maestro per Milano, dove
nuove sfide artistiche e scientifiche lo attendevano alla corte di Ludovico il Moro.
L’Adorazione era allora un soggetto molto comune a Firenze, dove ogni anno per l’Epifania un solenne corteo
rievocava l’episodio evangelico nelle strade cittadine. Ma Leonardo non mancò di apportare importanti
innovazioni sia nell’iconografia che nell’impianto compositivo. Per esempio, incentrò la tavola, dipinta a olio su
tempera grassa, su un momento ben preciso della storia: quello in cui con il gesto della benedizione il Bambino
rivela la sua natura divina agli astanti, provocando reazioni di sorpresa e turbamento.
Una scena decisamente dinamica, specie se messa a confronto con le rappresentazioni precedenti dello stesso
soggetto.
Caratteristici sono anche gli scontri di cavalli e cavalieri e il tempio in costruzione sullo sfondo. Quest’ultimo
rappresenta la pace, contrapposta alla battaglia che infuria sul lato opposto.
Il dipinto presenta figure rifinite e altre appena delineate, sotto un cielo di lapislazzuli e bianco di piombo.
Proprio perché rimasto allo stato di abbozzo, ci fornisce importanti informazioni sul metodo di lavoro del
maestro.
Un recente restauro ha inoltre rintracciato nella tavola elementi che appariranno nelle opere successive di
Leonardo: la zuffa dei cavalieri ricorda la Battaglia d’Anghiari, la testa di un vecchio fa pensare al San Girolamo,
mentre i riflessi d’acqua ai piedi di Maria evocano l’effetto che comparirà con più forza nella Vergine delle
Rocce.

1482-99 Monumento equestre a Federico Sforza (progetto)


Nel 1482 Ludovico il Moro Duca di Milano, propose a Leonardo di costruire la più grande statua
equestre del mondo: un monumento a suo padre Francesco, duca dal 1452 al 1466 (anno della sua
morte), che era anche il fondatore della casata Sforza. La commissione è testimoniata da un
pagamento a titolo di anticipo per le spese per un modello, pagate per conto del Duca dal
sovrintendente all'erario di corte, Marchesino Stanga. Si sa inoltre che la bottega di Leonardo, in Corte
Vecchia (sul sito dell'attuale Palazzo Reale), era stata rifornita degli strumenti e dei materiali necessari
per la fusione di bozzetti.
L'impresa era colossale, non solo per le dimensioni previste della statua, ma anche per l'intento di
scolpire un cavallo: nell'atto di impennarsi ed abbattersi sul nemico.
Leonardo sapeva perfettamente che la qualità del cavallo era molto importante per sottolineare
l'importanza del personaggio e quindi studiò a fondo, nelle scuderie ducali, tutti i dettagli anatomici
dell'animale, realizzando disegni preparatori usando come modelli alcuni cavalli già famosi per la loro
bellezza. I disegni ritraevano le parti più belle di ciascun cavallo, con l'intenzione di farne una specie di
"montaggio" per ottenere il cavallo ideale e attribuire quindi il meglio ai personaggi che, in vario
modo, voleva onorare; tra le sue note si trovano appunti del tipo: «Morel Fiorentino è grosso e ha un
bel collo e assai bella testa», oppure «Ronzone, bianco, ha belle cosce, e si trova a Porta Comasina».
S'interessò molto anche riguardo al rilassamento ed alla tensione dei muscoli durante l'azione, per
dare espressività alla statua.
1483 Vergine delle rocce (di Parigi)
Il dipinto fu commissionato a Leonardo dalla confraternita laica dell’Immacolata Concezione che risiedeva a Milano
presso la chiesa di San Francesco. Esiste un documento datato 21 aprile 1483 che attesta la stipulazione del
contratto tra la Confraternita e Leonardo. Insieme al nome di Leonardo da Vinci comparivano anche i nomi dei
fratelli de Predis (Ambrogio ed Evangelista).
Nel contratto si richiedeva un trittico con un dipinto centrale dove, in un ambiente dominato da di rocce con
sfondo montagnoso, spiccasse in primo piano la Vergine con abito broccato d’oro in tonalità azzurra, con il figlio,
Dio Padre, un gruppo di angeli e due profeti. Da come si presenta il dipinto, la tematica varia sensibilmente rispetto
a quella richiesta dai suoi committenti. Probabilmente fu proprio Leonardo a decidere una nuova combinazione che
non prevedeva il Dio Padre in alto e gli angeli, ma l’aggiunta di San Giovannino insieme al suo angelo protettore.
Nelle ali laterali del trittico furono dipinti due angeli musicali da Ambrogio de Predis (National Gallery di Londra). Il
dipinto non fu accettato con favore dalla confraternita perché considerato incompiuto e, soprattutto, eretico.
Esistono documentazioni relative alle varie controversie tra la confraternita e gli artisti i quali pretendevano una
cifra più ragguardevole rispetto a quella pattuita che non aveva previsto il costi per l’intagliatura e la doratura
dell’ancona. In una scrittura del Marani, a proposito di quanto detto, si legge: « ……i pittori stanno tentando di
ricattare i confratelli, chiedendo una maggiorazione del compenso, salvo appunto trattenere presso lo studio il
dipinto». Una sentenza del 1506 chiuse definitivamente la diatriba tra la confraternita e Leonardo, dichiarando
“incompiuto” il dipinto: questo doveva essere portato a termine dall’artista, mentre la Confraternita avrebbe
dovuto saldare la cifra del conguaglio pari a 200 lire (50 ducati). A questo punto dobbiamo inserire un pizzico di
confusione perché, quando nel 1785 venne soppressa la confraternita e vendute le opere della struttura tra le quali
anche “Vergine delle Rocce” (commissionata?), questa seguì un itinerario che la portò al National Gallery di Londra
anzichè al Louvre. L’opera commissionata dalla Confraternita non era quella di cui abbiamo parlato in questa
pagina, cioè quella del Louvre, o forse …. sì!. Moltissime sono le ipotesi fatte dagli studiosi, tra le quali le più
avvalorate riferiscono che la prima versione fosse stata venduta durante il conflitto legale per una considerevole
cifra, e Leonardo ne avrebbe realizzata una nuova versione, quella che appunto è esposta a Londra. Altri studiosi
ipotizzano che la seconda versione sia stata eseguita per altri committenti.
1490 Uomo vitruviano
Importante modello di riferimento per i teorici rinascimentali,Vitruvio (80 a.C. ca – 20 a.C. ca), antico architetto
romano, nel suo trattato De Architectura aveva affermato, genericamente, che l’uomo perfetto si può inscrivere, in
piedi e con le braccia aperte, entro un cerchio ed entro un quadrato. Secondo Vitruvio, l’ombelico è il naturale
centro del corpo umano, mentre è uguale la distanza tra piedi e sommità della testa e quella tra le punte delle dita
delle due braccia. Sempre secondo Vitruvio, la testa misura un ottavo del corpo umano, il piede un sesto,
l’avambraccio un quarto e così anche il petto.
Alle stesse conclusioni giunse Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), che nella sua Naturalis historia scrive che «la distanza che
in un uomo va dai piedi fino alla testa è la stessa che c’è tra le dita delle mani a braccia distese». Purtroppo, questi
trattati antichi sono giunti a noi privi di illustrazioni, sicché gli autori rinascimentali furono obbligati a trovarsi da soli,
sulla scorta di quelle poche informazioni, le soluzioni grafiche corrette.
Leonardo conobbe e frequentò Francesco di Giorgio Martini, che certamente lo mise al corrente delle sue idee
sull’Uomo vitruviano: un tema, questo, che senza dubbio costituì l’ennesima sfida per il grande artista, deciso a
trovare una soluzione definitiva. È con tali premesse che, intorno al 1490, produsse il celeberrimo disegno con cui
tutti, ancora oggi, identifichiamo l’Uomo vitruviano, e lo integrò con alcune annotazioni esplicative, ispirate dalla
lettura di Vitruvio. Discostandosi dalla proposta dell’amico, che sicuramente in parte lo ispirò, Leonardo fece
nuovamente coincidere il centro del cerchio con l’ombelico dell’uomo, così come suggeriva Vitruvio,
rappresentandolo con braccia aperte e gambe divaricate. Ma decise di non far coincidere più il centro del cerchio
con quello del quadrato, all’interno del quale l’uomo è stavolta raffigurato in piedi e con le braccia distese, in modo
che l’altezza e la larghezza delle braccia possano corrispondere alle misure della figura geometrica. «Tanto apre
l’omo nele braccia, quanto ella sua altezza», scrive Leonardo. Insomma, l’uomo ideale può essere inscritto in un
cerchio e in un quadrato ma solo assumendo due posizioni diverse. In fondo, Vitruvio non lo aveva specificato e
quindi Leonardo non lo stava contraddicendo.
Le proporzioni della figura, invece, non sono esattamente quelle riportate da Vitruvio. Leonardo preferì introdurre
alcune aggiunte e modifiche, necessarie per conciliare la rigida e talvolta astratta teoria classica con la verifica
sperimentale. Insomma, Leonardo cercò di ottenere un risultato estetico ideale attraverso lo studio delle vere
proporzioni umane, partendo da individui reali. Si noti che nella figura stante, racchiusa nel quadrato (homo ad
quadratum), il centro del corpo coincide con la prominenza del pube e non con l’ombelico, come invece accade con
l’homo ad circulum racchiuso dal cerchio.In questo caso, la distanza dai piedi al pube è infatti identica a quella che
intercorre fra la sommità del capo e il pube medesimo. Lo scrive, Leonardo: «il membro virile nasscie nel mez(z)o
dell’omo». Nell’homo ad circulum, le gambe sono divaricate di 60°, in modo da formare un ideale triangolo
equilatero, mentre le braccia risultano tangenti al lato superiore del quadrato che inscrive l’homo ad quadratum.
Anche questo trova conferma negli appunti scritti di Leonardo: «Settu apri tanto le gambe chettu chali da chapo
1/14 di tua altez(z)a e apri e alza tanto le bracia che cholle lunge dita tu tochi la linia della somita del chapo, sappi
che ‘l cientro delle stremita delle aperte membra fia il bellicho. Ello spatio chessi truova infralle gambe fia triangolo
equilatero».
1490 Dama con l’ermellino
In quest'opera lo schema del ritratto quattrocentesco, a mezzo busto e di tre quarti, venne superato da Leonardo,
che concepì una duplice rotazione, con il busto rivolto a sinistra e la testa a destra. Vi è corrispondenza tra il punto di
vista di Cecilia e dell'ermellino; l'animale infatti sembra identificarsi con la fanciulla, per una sottile comunanza di
tratti, per gli sguardi dei due, che sono intensi e allo stesso tempo candidi. La figura slanciata di Cecilia trova
riscontro armonico nell'animale.
La dama sembra volgersi come se stesse osservando qualcuno sopraggiungente nella stanza, e al tempo stesso ha
l'imperturbabilità solenne di un'antica statua. Un impercettibile sorriso aleggia sulle sue labbra: per esprimere un
sentimento Leonardo preferiva accennare alle emozioni piuttosto che renderle esplicite. Grande risalto è dato alla
mano, investita dalla luce, con le dita lunghe e affusolate che accarezzano l'animale, testimoniando la sua delicatezza
e la sua grazia.
L'abbigliamento della donna è curatissimo, ma non eccessivamente sfarzoso, per l'assenza di gioielli, a parte la lunga
collana di granati, che sono simbolo di amore fedele (la collana era probabilmente un dono di Ludovico il Moro) e nel
contempo fanno un bel contrasto con la bella carnagione chiara della giovane. Come tipico nei vestiti dell'epoca, le
maniche sono le parti più elaborate, in questo caso di due colori diversi, adornate da nastri che, all'occorrenza,
potevano essere sciolti per sostituirle. Un laccio nero sulla fronte tiene fermo un velo dello stesso colore dei capelli,
raccolti in un coazzone.
Lo sfondo è scuro (ma lo era molto meno prima di un restauro operato nel XIX secolo); inoltre, dall'analisi ai raggi
X emerge che dietro la spalla sinistra della dama era originariamente dipinta una finestra. L'ermellino è dipinto con
precisione e vivacità. A un'analisi della morfologia dell'animale, esso appare però più simile a un furetto. Può darsi
che Leonardo, sempre indagatore del dato naturale, si ispirasse a un animale catturato, allontanandosi dalla Da ma,
tutto sommato più realistica, tradizione iconografica (ad esempio si può vedere un ermellino nel Ritratto di
cavaliere di Vittore Carpaccio del 1510 circa). Del resto, l'ermellino è un animale selvatico mordace e difficilmente
ammaestrabile, di conseguenza sarebbe stato molto difficile poterlo utilizzare come modello, al contrario del furetto
che è un animale domestico, come il gatto, oltre che relativamente semplice da trovare nelle campagne lombarde
dell'epoca. Si consideri inoltre che l'ermellino ha dimensioni molto più ridotte, superando raramente e comunque di
poco i 30 cm, mentre il furetto, come nel dipinto, a occhio misura tra i 40 e i 60 cm.
1495-98 Ultima Cena
Per dipingere la sua Ultima Cena, Leonardo non adoperò la tecnica dell’affresco:
il Cenacolo infatti fu dipinto a tempera direttamente sul muro preparato con un supporto a base
di gesso. L’artista volle evitare l’affresco per non dover essere costretto alle stringenti regole
obbligatoriamente imposte da questa tecnica, che prevede una rapida esecuzione “a giornate”
(ovvero su porzioni predeterminate di pittura da terminare in una sessione di lavoro) in quanto i
colori devono essere stesi sull’intonaco ancora fresco. La tempera a secco avrebbe consentito al
pittore non solo di lavorare con più calma e maggior precisione, ma anche di prestarsi a ricevere
dettagli a olio per ottenere effetti coloristici più sorprendenti, una più spiccata luminosità: in
breve, la tempera a secco permise a Leonardo di poter eseguire uno straordinario quadro su
muro capace di coinvolgere ancor più il riguardante. Tuttavia, la tecnica scelta dall’artista
toscano ha avuto però lo svantaggio di rendere molto fragile il dipinto, il che spiega lo stato di
forte degrado in cui lo vedevano già i suoi contemporanei.
L’opera, dunque, all’epoca dovette sortire un effetto molto diverso rispetto a quello che suscita
oggi. Leonardo ha ambientato la sua Ultima Cena all’interno di una grande aula scorciata
prospetticamente in modo illusionistico, con tre finestroni sul fondo che si aprono sul paesaggio
(nonostante i diversi tentativi di provare a identificarlo con un luogo reale, non sappiamo a cosa
corrisponda) e quattro grandi arazzi appesi su ciascuna parete later ale (oggi fortemente
compromessi): in alto, un grande soffitto a cassettoni. Tutti gli elementi dell’architettura
concorrono a creare una composizione geometrica che ha l’obiettivo di sfondare
illusionisticamente la parete per aumentare artificialmente lo spazio, come se il Cenacolo fosse
un prolungamento del refettorio. La lunghezza dell’aula è interamente occupata dalla tavola
coperta da una tovaglia bianca, attorno alla quale si dispongono, tutti su un unico lato, Gesù con
gli apostoli. Leonardo coglie il momento in cui Gesù rivela il tradimento di uno dei dodici: i
discepoli cominciano dunque a manifestare la loro incredulità, il loro stupore, il loro sgomento.
Sono disposti a gruppi di tre attorno a Gesù, che rimane calmo al centro: da sinistra vediamo
Bartolomeo, Giacomo minore e Andrea, seguiti da Giuda, Pietro (che tiene al fianco una mano
con un pugnale, chiaro rimando all’episodio della cattura di Cristo che segue cronologicamente
quello della cena: in quei momenti concitati, Pietrò taglierà un orecchio a Malco, il servo del
sommo sacerdote Caifa giunto assieme ad altri sgherri per arrestare Gesù), mentre alla sinistra
di Gesù notiamo Tommaso, Giacomo maggiore e Filippo, e nell’ultimo gruppo ecco apparire
Matteo, Giuda Taddeo e Simone il Cananeo.
1501 cartone Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e San Giovannino
Risalgono a questo periodo fiorentino gli studi sul tema della Vergine con sant’Anna. Secondo Vasari, già
nel 1501 Leonardo aveva esposto un cartone con la Vergine e sant’Anna, che fu ammirato per due giorni
consecutivi da «i giovani et i vecchi, come si va alle feste solenni». Non possiamo dire con certezza se
questo cartone tanto celebrato è proprio quello oggi conservato nella National Gallery di Londra (ma
probabilmente non lo è), che appunto riproduce La Vergine e il Bambino con Sant’Anna e San
Giovannino.
Maria è seduta in braccio alla madre Anna, che tuttavia non la sovrasta in altezza, mentre Gesù Bambino
dialoga con il piccolo Giovanni Battista. Sant’Anna punta l’indice verso l’alto, un gesto che ritroviamo
altre volte nei dipinti di Leonardo, a richiamare l’attenzione sul mistero di un potere superiore. Inoltre,
indicando il cielo con un dito e volgendo lo sguardo alla figlia, sembra invitarla a rimettersi alla volontà di
Dio. Ella rappresenterebbe dunque la Chiesa, che non può e non vuole impedire il sacrificio di Cristo,
salvifico per l’umanità. Maria, per suo conto, trattiene il Figlio, che a sua volta si rivolge verso san
Giovannino.

1503-05 Battaglia di Anghiari Pittura murale di Leonardo da Vinci, commissionata per il Salone dei Cinquecento (allora detto "Sala del
Gran Consiglio") di Palazzo Vecchio a Firenze. A causa dell'inadeguatezza della tecnica, il dipinto subì
danni e non è certo che i suoi resti fossero stati lasciati in loco, incompiuti e mutili; circa sessant'anni
dopo, la decorazione del salone venne rifatta da Giorgio Vasari; non si conosce se all'epoca fossero
ancora presenti i frammenti leonardiani o se l'architetto aretino li abbia distrutti. Alcuni sostengono che li
abbia nascosti sotto un nuovo intonaco o una nuova parete: ricerche e 'saggi' finora condotti non hanno
sciolto il mistero.
A differenza delle precedenti rappresentazioni di battaglie, Leonardo compose i personaggi come un
turbine vorticoso, che ricordava le rappresentazioni delle nubi in tempesta.
L'affresco rappresentava cavalieri e cavalli animati in una zuffa serrata, contorti in torsioni ed eccitati da
espressioni forti e drammatiche, tese a rappresentare lo sconvolgimento della "pazzia bestialissima" della
guerra, come la chiamava l'artista. I personaggi della scena, infatti, lottano instancabilmente per ottenere
il gonfalone, simbolo della città di Firenze.
Quattro cavalieri si stanno contendendo la massiccia asta: quello in primo piano la prende di schiena
torcendosi animatamente, quelli centrali si scontrano direttamente sguainando le spade, mentre i loro
cavalli sbattono il muso l'uno con l'altro; un ultimo si scorge appena in secondo piano, col cavallo che
spalanca il morso come a strappare l'estremità dell'asta.
Tre fanti si trovano in terra, atterrati e colpiti dagli zoccoli dei cavalli: due al centro, uno sopra all'altro, e
uno in primo piano, che cerca di coprirsi con uno scudo. La scena riflette il pensiero dell'artista fondato su
una visione pessimistica dell'uomo, che deve lottare per vincere le proprie paure. Leonardo ha utilizzato
la tecnica dell’encausto.
La tecnica dell'encausto richiede una fonte di calore molto forte per fissare i colori sulla parete ma su
un'opera di quelle dimensioni era molto difficile da utilizzare perché era praticamente necessario
accendere degli enormi bracieri a poca distanza dal dipinto in modo da asciugare molto rapidamente la
parete dipinta. Leonardo ci provò, ma i suoi assistenti li accesero solo in corrispondenza della parte
inferiore, con il risultato che i colori posti più in alto si sciolsero immediatamente.

1503-06 Gioconda
La donna ritratta nel dipinto di Leonardo siede rivolta a sinistra del dipinto. Il viso però è quasi frontale e lo sguardo
diretto verso l’osservatore. Monna Lisa veste con abiti dell’epoca. Indossa una veste decorata che lascia scoperto il
décolleté e sulle spalle porta un tessuto scuro. Le maniche sono attillate e fittamente pieghettate. Le mani sono in
primo piano e in basso. Il braccio sinistro è appoggiato sul bracciolo della sedia parallelo al bordo inferiore. La mano
destra invece poggia su quella sinistra con le dita aperte e atteggiate in modo elegante. I capelli sono scriminati al
centro e ricadono ai lati in morbide e scure ciocche leggermente ondulate. Inoltre un velo leggero e trasparente copre
l’acconciatura. Lo sfondo oltre il parapetto, descrive un paesaggio lacustre disseminato di colline, rupi e montagne
elevate. A sinistra una strada serpeggia tra le alture rocciose. A destra invece un ponte ad arcate travers a un fiume che
nasce dal lago che si trova più in alto e al centro.
Secondo la tradizione, il dipinto intitolato Monna Lisa rappresenta Lisa Gherardini. La nobile era la moglie di Francesco
del Giocondo e per questo ebbe come soprannome Gioconda. Altri storici basandosi su documenti dell’epoca
identificarono la figura come Caterina Sforza, Caterina Buti del vacca, la madre di Leonardo, Isabella d’Aragona
Duchessa di Milano. Altri invece indicarono come protagoniste del dipinto Bianca Giovanna Sforza la primogenita di
Ludovico il Moro oppure Pacifica Brandani amante del Duca Giuliano de’ Medici.
1510 Sant’Anna, la Madonna, il bambino e un agnello
L’opera, raffigurante le tre generazioni della famiglia di Cristo, vede protagoniste Sant’Anna, sua figlia
Maria e il Bambino Gesù.
La Madonna, seduta in bracio alla Santa, è ritratta mentre si protende, con estrema dolcezza nei
movimenti, verso il Bambino intento a giocare con un piccolo agnello. Nel volto della donna il
maestro racchiude tutta la forza dell’amore materno.
Sant’Anna, il vero perno attorno al quale ruota l’azione, sovrasta con la sua testa l’intero gruppo al
punto da generare una struttura piramidale. Ed è sempre Sant’Anna ad assicurare l’equilibrio,
compromesso dallo spostamento in avanti di Maria.
Mentre la Vergine sorregge il Figlio che ha abbracciato l’agnello, prefigurazione della futura Passione
e del sacrificio volontario di Gesù, la madre sorride con malinconica dolcezza.
Lo sfondo è caratterizzato da una veduta montana che sfuma in toni chiarissimi per effetto della
prospettiva aerea. La cromia spenta e brumosa amplifica la plasticità del gruppo centrale, dove
spiccano gesti e sguardi che si sviluppano anche in profondità, in un difficile equilibrio tra diagonali e
linee contrapposte.

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