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Galgano l’eremita e la spada nella roccia a Montesiepi

di Furio Cappelli

Nel cuore della Val di Merse, in territorio senese, c’è un luogo dove sogno e realtà sem-
brano appartenere a una stessa dimensione. In un paesaggio silente tipicamente toscano,
con vasti campi punteggiati da modeste alture, si porgono all’attenzione due sorprenden-
ti testimonianze di un Medioevo a tutto tondo, che offre così, in un colpo solo, una
summa di tutte le sue suggestioni.
Da un lato c’è Montesiepi, un poggio dal placido declivio, e lassù emerge la chiesa ro-
tonda consacrata al nobile eremita san Galgano. Essa è il luogo della sua sepoltura, e cu-
stodisce all’interno la spada che Galgano in persona avrebbe confitto nella roccia all’atto
della fondazione dell’eremo. Nella pianura sottostante, nel mezzo di una distesa di cam-
pi, si staglia invece la potente abbazia che i Cistercensi realizzarono proprio in onore di
Galgano.
Sembra che ci sia tutto l’occorrente per evocare appieno le atmosfere dell’epoca: un terri-
torio lontano dal brusio della città, che può ben rivestire il ruolo della landa selvaggia, ti-
pico scenario in cui si muovono i cavalieri dei racconti epici, laddove campi coltivati e
paludi sono punteggiati e circondati da fitti boschi; l’eremo abbarbicato su un colle con
la sua piccola chiesa; la grande abbazia che appare d’incanto sul fondovalle; non lontano
da qui c’è poi il castello di Chiusdino, tipico centro abitato e fortificato, arroccato su un
punto d’altura ben difendibile, e pomo di discordia tra le città di Siena e di Volterra, che
si contesero a lungo il dominio dell’area. Unisce in un solo tratto ogni elemento del qua-
dro la figura stessa di san Galgano, nobile cavaliere di Chiusdino, divenuto eremita a
Montesiepi, lì sepolto ed elevato agli onori dell’altare. A lui sarebbe stata poi intitolata la
grande abbazia cistercense, ben presto legata saldamente alla vigorosa realtà della illustre
Siena, apparentemente estranea a un angolo di mondo che ci piace immaginare esclusi-
vamente dominato da monaci e da cavalieri. E proprio il culto di Galgano sarà fatto pro-
prio dalla repubblica senese, tant’è che il santo farà parte del «pantheon» dei protettori
della città, e la sua testa è tuttora conservata a Siena, racchiusa in un fastoso reliquiario
istoriato, opera dell’orafo Pace di Valentino (1270-78).

Mentre la rotonda di Montesiepi era il fulcro di un eremo, in pianura si sviluppò dunque


un’istituzione di tutt’altro respiro, assai ben connessa con il vivo dell’economia e della
società cittadina, eppure la sua gotica chiesa, oggi scoperchiata e dal pavimento ricoperto
d’erba, finisce inevitabilmente per essere intrisa di un’aura romantica.
La piccola rotonda e la grande abbazia, unite dal culto di san Galgano, erano realtà diver-
se che rispondevano a diverse motivazioni, tant’è che, come vedremo, la nascita del nuo-
vo, vasto complesso dovette scontrarsi con le perplessità se non con le resistenze della
prima comunità religiosa che si era insediata a Montesiepi. Ma oggi questa contrapposi-
zione sembra d’incanto svanita. La chiesa monumentale in rovina, immersa nel silenzio
dei campi, fa da scenario e da ideale contrappunto alla rotonda che custodisce la spada, e
rende quest’angolo della Toscana un corrispettivo della «celtica» Glastonbury, nel cuore
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dell’Inghilterra, laddove i ruderi della grande chiesa abbaziale gotica, immersi anche lì in
una natura amena e solitaria, si ergono a custodire la memoria di re Artù di Bretagna. Lì
infatti doveva situarsi la mitica isola di Avalon in cui fu sepolto.
Difatti, la spada tuttora custodita a Montesiepi evoca ben facilmente in ognuno di noi un
accostamento con la mitica Excalibur, la spada estratta dalla roccia da Artù in persona.
Diversi sono i protagonisti, diverse sono le circostanze, ma il ruolo magico e simbolico
della spada corrisponde in modo davvero straordinario. Galgano conficca la spada nel
momento in cui abbandona il mondo, e la trasforma così in una croce che nessuno è ca-
pace di strappare via dal terreno. Artù, invece, seguendo una delle più antiche versioni
della sua storia, viene consacrato re dopo aver estratto per quattro volte una spada con-
ficcata in un’incudine, misurandosi così con una prova che nessun prode era stato capace
di compiere.
Ed è proprio la consistenza storica di Galgano a fare della sua Avalon (la rotonda di
Montesiepi) una realtà senza pari. Quale che sia il suo possibile corrispettivo nelle effet-
tive vicende dell’Inghilterra antica, Artù, infatti, resta in sostanza un personaggio leggen-
dario, come leggendario è il luogo della sua sepoltura, e leggendarie sono quelle reliquie,
sue e della consorte Ginevra, che i monaci di Glastonbury pretesero di aver riscoperto.
Al contrario, sul conto di Galgano tutto è verificabile e tangibile. Ci troviamo di fronte a
un personaggio con una sua concretezza storica. A voler essere scettici, anche se non
fosse sua la testa conservata nel reliquiario senese, non abbiamo dubbi su dove fosse la
tomba originaria di Galgano, e quella spada conficcata proprio sul luogo dell’antica se-
poltura, se non è proprio la spada che compare nel racconto della sua vita, ne «imperso-
na» splendidamente il ruolo. Quanto a Excalibur, la sua «gemella» dei racconti epici,
dobbiamo invece affidarci esclusivamente all’immaginazione. Possiamo anche divertirci a
credere che sia esistita davvero, ma di essa non c’è traccia alcuna. A Montesiepi, invece,
la spada c’è, e come!

La fortuna di re Artù al di qua delle Alpi


Prima ancora che le gesta di re Artù fossero diffuse dalla celebre Storia dei re di Britannia
di Goffredo di Monmouth (1137), le storie, i personaggi e gli elementi narrativi di spicco
del cosiddetto «ciclo bretone» erano diffusi anche nella Penisola italica, con tutta proba-
bilità grazie ai rapporti culturali che potevano stabilirsi sull’asse Roma-Canterbury, lungo
la direttrice della via francigena. Pellegrini e viaggiatori di ogni ceto, nobili, prelati, mercan-
ti, i crociati che si imbarcavano per la Terra Santa, o gli stessi poeti girovaghi, potevano
rendere noti i contenuti di quei racconti epici, evidentemente già predisposti a una rapi-
dissima popolarità, anche in assenza di uno o più testi di riferimento universale, come la
citata Storia di Goffredo o i poemi di Chrétien de Troyes (attivo negli anni 1160-90). La
precocità di questa diffusione si evidenzia in primo luogo nella decorazione di una chiesa
situata strategicamente proprio lungo i percorsi della francigena. È il caso notissimo della
Porta della Pescheria sul lato settentrionale del duomo di Modena (1110-20), sul cui ar-
chivolto Artus de Bretania e suo nipote Galvaginus (Galvano), insieme ad altri prodi, sono
impegnati a liberare una dama (Winlogee), prigioniera nelle mura di un castello o di una
città. D’altro canto un modenese attestato nel 1125 si chiamava proprio Artusius, ma un
Artù è presente a Lucca già nel 1114 e un Galvano è presente a Genova nel 1158.
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Grazie ai Normanni, poi, la notorietà di Artù era giunta sino in Sicilia. Il re, infatti, dopo
l’ultima battaglia, si era rifugiato proprio nel profondo dell’Etna, laddove aveva scovato
un’accogliente prateria, e lì si era stabilito, riponendo le stanche e ferite membra in una
bellissima casa. Questo risulta infatti dagli Otia imperialia redatti da Gervasio di Tilbury
nel 1210, una sorta di manuale a uso dei sovrani dedicato all’imperatore Ottone IV di
Brunswick. Lo scrittore si basava sui racconti che ebbe modo di udire in prima persona
durante un viaggio effettuato nell’isola, intorno al 1190.
Il retore Boncompagno da Signa, infine, nel suo Cedrus (1201), attesta l’esistenza in Italia,
e in modo particolare in Toscana, di varie compagnie di iuvenes (ossia di giovani esponen-
ti del ceto cavalleresco) esplicitamente intitolate in onore della tavola rotonda.

Galgano Guidotti nacque intorno al 1150 nel castello di Chiusdino, all’epoca annoverato
tra le giurisdizioni del vescovo di Volterra. Poco sappiamo sulle esperienze che precedet-
tero la sua vocazione. Era di sicuro un cavaliere (miles). Apparteneva a quella piccola no-
biltà terriera fedele al presule di Volterra, chiamata all’occorrenza a difendere con le armi
i privilegi che egli vantava su questa zona, a lungo contesa con i feudatari più potenti e
poi con la città stessa di Siena. I preziosi giacimenti d’argento situati nella vicina zona di
Montieri (Grosseto) costituivano in particolare una realtà che tutti erano bramosi di con-
trollare.
Galgano ambiva al ruolo di cavaliere, e cavaliere era stato il suo defunto padre Guidotto.
In età matura, mentre ancora viveva nella sua casa d’origine, a fianco della madre Dioni-
gia, comparve in sogno a Galgano l’arcangelo Michele, il patrono dei guerrieri già tenuto
in pianta di mano dagli stessi Longobardi. L’Arcangelo si rivolse a Dionigia affinché il fi-
glio lasciasse il mondo e si mettesse al suo servizio, scegliendo la via della militia Christi.
Galgano, insomma, doveva essere investito cavaliere dal Signore in persona. Dionigia,
nel sogno, dette ben volentieri il proprio assenso.
Non appena destatosi, Galgano corse dalla madre e le raccontò l’apparizione. Dionigia
fu ben lieta, poiché il defunto padre di Galgano era assai devoto nei riguardi di san Mi-
chele, e, secondo la propria interpretazione, il sogno stava a indicare che sia lei che il fi-
glio avevano ereditato la protezione e la benevolenza dell’Arcangelo guerriero.
Tutto, insomma, sembrò finire lì, ma molto tempo dopo l’Arcangelo tornò in scena, e
fece capire a Galgano che si trovava in un momento cruciale della sua esistenza. Era sta-
to investito cavaliere, ma non bastava. Doveva compiere la sua scelta risolutiva, senza al-
cun tentennamento. Il richiamo alla militia Christi non ammetteva più alcuna deroga. Se
san Michele in persona si era disturbato ad apparire in sogno e a parlamentare con sua
madre, anni prima, non era stato per accordare semplicemente la propria protezione.
Questa volta, infatti, Galgano non è lo spettatore di un breve sogno, ma è protagonista
di un’articolata visione che lo proietta d’incanto nell’aldilà, per poi farlo tornare nel
mondo dei vivi. Piombato in una sorta di trance estatica, viene condotto dall’Arcangelo
fino a un ponte malsicuro che scavalca un fiume assai insidioso, corredato da un mulino
che sta a raffigurare il flusso continuo e indistinto delle cose terrene. Attraversato questo
difficile passaggio, Galgano si ritrova in un incantevole, smisurato prato fiorito. Dopodi-
ché si ritrova in tutt’altra situazione, sprofondato in una sorta di pozzo senza fine, ma
ben presto riemerge sul suolo terreno, proprio in cima al colle di Montesiepi.
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Sono lì ad attenderlo tutti e dodici gli Apostoli, disposti in cerchio all’interno di una casa
rotonda. Lo invitano ad accomodarsi in mezzo a loro. Provano a guidarlo sottoponendo
alla sua attenzione un testo sacro, ma Galgano rinuncia alla lettura, come se non fosse in
grado di penetrare fino in fondo il senso della sua esperienza. Lo soccorre allora
un’immagine, che lo illumina e lo avvince. Proprio sopra di lui compare una scultura che
raffigura il Cristo in maestà, seduto sul trono. Galgano percepisce che la sua vita deve
andare in quella direzione. A tal fine, gli Apostoli dettano precise istruzioni. Proprio lad-
dove il cavaliere è stato accolto, egli dovrà costruire una casa rotonda da intitolare alla
Madonna, agli stessi Apostoli e a san Michele Arcangelo. Galgano dovrà poi vivere per
parecchi anni in quel luogo.
Ridestatosi dopo questa ennesima, sconvolgente esperienza, Galgano è subito preso
dall’irrequietudine. Deve a ogni costo mettere in pratica ciò che gli Apostoli gli hanno
ingiunto. Chiede lumi a taluni religiosi per meglio comprendere i contenuti della sua vi-
sione. Cerca di coinvolgere alcuni amici affinché gli diano un sostegno economico per la
realizzazione della casa, ma questi, in tutta risposta, pensano che lui li voglia gabbare: «Se
vuoi mettere assieme un gruzzolo con l’inganno, vattene in Terra Santa» (gli dicono in-
fatti di andare ultra mare, dall’altra parte del Mediterraneo: con tutta probabilità, una triste
allusione alla crociata come occasione di facile bottino per un cavaliere avido e senza
scrupoli). Anche la madre Dionigia non presta attenzione a Galgano. Quando il cavaliere
tenta di coinvolgerla nell’impresa, invitandola ad accompagnarlo a Montesiepi con un
gruppo di muratori al seguito, Dionigia mette in fila tutta una serie di impedimenti: «Fa
troppo freddo, la fame è tanta, il luogo è quasi inaccessibile: in che modo andremo là?».
Il destino, finalmente, si compie tempo dopo. Galgano si sta recando al castello di Civi-
tella (laddove, secondo una fonte agiografica cinquecentesca, viveva Polissena, la sua
promessa sposa; la fanciulla compare già in una tavola quattrocentesca di Andrea di Bar-
tolo, nella scena in cui è inutilmente condotta a Montesiepi dai parenti di Galgano, per
indurre l’eremita a recedere dalle sue scelte). Durante il cammino, il cavallo si impunta e
non sente ragioni, rifiutandosi di procedere oltre un certo punto. Galgano decide così di
tornare indietro e di pernottare presso una pieve, per riprendere il cammino l’indomani.
Ma la mattina seguente il cavallo si impunta nuovamente, allo stesso punto. Non poten-
do fare altro, Galgano si affida all’animale, lasciandolo andare a briglia sciolta, e il cava-
liere viene così condotto proprio a Montesiepi.
Una volta che è smontato da cavallo, il sogno finalmente si realizza. Galgano si insedia in
cima al colle e fonda il suo eremo. Il momento è siglato proprio dalla spada confitta nel
terreno (solo nelle biografie più tarde si specifica che l’arma fu piantata nella roccia, così
come si presenta tuttora la spada della rotonda di Montesiepi). In mancanza di
un’adeguata croce di legno, che Galgano non era riuscito a realizzare, l’incrocio tra il
pomo e l’elsa dell’arma fungeva infatti da perfetto emblema del Signore. Il gesto, poi,
rappresentava in modo efficacissimo il trapasso dalla militia terrena alla militia di Cristo: la
spada non veniva abbandonata o rinnegata, ma veniva offerta in onore di colui che aveva
guidato Galgano fin lì, apparendo in maestà davanti ai suoi occhi, durante la visione della
casa degli Apostoli.

Il ponte verso l’aldilà


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La visione di Galgano è un viaggio nell’aldilà intessuto di elementi di immediata presa


simbolica. Si tratta di un’esperienza condivisa in modi analoghi da tanti visionari guidati
dalla potenza divina, come nel caso notissimo della leggenda del Pozzo o Purgatorio di san
Patrizio (1190 circa), che ha per protagonista un missionario britanno vissuto tra il IV e il
V secolo, ma un viaggio analogo era già stato effettuato negli Inferi dall’Enea di Virgilio,
prescelto dagli dèi, e in quanto tale in grado di conoscere, da vivo, il mondo dei morti,
per poter poi fare ritorno alla sua esistenza terrena riattraversando lo Stige.
È un’esperienza che può anche essere letta come una prova iniziatica, tant’è che, in pri-
ma battuta, Galgano deve attraversare un ponte tutt’altro che confortevole, gettato su un
corso d’acqua che non concede alcuna speranza di sopravvivenza al malcapitato che cada
dagli spalti. Lo stesso Lancillotto, nel celebre poema omonimo di Chrètien de Troyes,
deve attraversare un ponte sottilissimo, a fil di spada, per poter giungere al luogo in cui è
imprigionata Ginevra.
Il motivo del ponte di difficile attraversamento, comune all’epica cavalleresca e all’aldilà
cristiano (lo si ritrova, tra l’altro, nel già citato Purgatorio di san Patrizio), vantava già in
precedenza un’ampia fortuna nella Siria ebraico-cristiana, nella Persia mazdea e
nell’Islam. Si tratta dunque di un tema archetipico ampiamente condiviso, e come tale fa-
cilmente diffuso e adattato nelle più svariate circostanze, ma è nell’Avesta, un testo reli-
gioso dell’antica Persia, che lo troviamo attentamente descritto come prova cruciale
dell’anima al momento di accedere nel mondo dei più. Il passaggio è comodissimo per le
anime elette, che possono così giungere agevolmente in cielo, ma se si presenta un mal-
vagio si restringe a fil di spada o a capello, al punto tale che chi si accinge a passare cade
inevitabilmente negli abissi.

Il racconto che abbiamo seguito fin qui è condotto su un prezioso documento tramanda-
toci da una fonte cinquecentesca, ma che fu steso probabilmente nel 1185, pochi anni
dopo la morte dell’eremita, avvenuta il 30 novembre 1181. Si tratta della indagine (inquisi-
tio) svolta su Galgano con l’apporto della viva voce di alcuni testimoni, a partire dalla sua
stessa madre Dionigia. Il dossier, redatto da una commissione appositamente stabilita, era
finalizzato a dimostrare la santità del cavaliere eremita. Ci troviamo quindi di fronte a un
vero e proprio processo di canonizzazione, il primo in assoluto di cui sia rimasta testi-
monianza. Fino a quest’epoca, infatti, i culti locali venivano promossi motu proprio dai ve-
scovi senza interessare le autorità centrali, e senza produrre atti di valore giuridico. Per
dare autorità alla memoria di un santo bastava in genere fornire un racconto della sua vi-
ta, secondo le norme di quella letteratura agiografica che ebbe un enorme sviluppo in
tutto il corso del Medioevo.
Soprattutto se il santo era vissuto secoli prima, nel presentarne la figura era inevitabile un
ricorso a immagini e situazioni ricorrenti e a sviluppi narrativi di pura fantasia. La parti-
colarità del caso di Galgano è data dal fatto che i primi atti che lo riguardano sono stati
redatti «in tempo reale» e con l’apporto diretto di chi ebbe effettivamente modo di cono-
scerlo.

Già a ridosso della morte di Galgano, il pio vescovo Ugo di Volterra (1171-1184) intra-
prese una raccolta di testimonianze per favorirne la canonizzazione, e sempre su suo im-
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pulso venne realizzata la chiesa rotonda in muratura che possiamo oggi ammirare a
Montesiepi.
Il successore Ildebrando Pannocchieschi (1185-1211) era esponente di una potente fa-
miglia aristocratica di fedele orientamento filoimperiale, tant’è che il vescovo Galgano,
membro della stessa casata, era stato ucciso nel 1168-69 a furor di popolo per la sua osti-
lità nei confronti del legittimo papa Alessandro III (1159-1181).
Uomo risoluto e accorto, Ildebrando avviò una politica di rafforzamento del potere giu-
risdizionale dell’episcopato di Volterra, minato sul fronte cittadino dall’emergere della
borghesia, e, nel contesto territoriale, dalle spinte propulsive della potente città di Siena.
Al fine di rafforzare la sua autorità e il suo carisma, pensò bene di proseguire l’impegno
profuso dal predecessore Ugo nel promuovere il culto di Galgano.
L’eremita, da poco spirato, godeva infatti di una enorme popolarità. La festa a lui dedica-
ta, culminava nell’ostensione della sua testa dai capelli rilucenti, miracolosamente ben
conservata, senza evidenti segni di putrefazione, ed era un avvenimento di richiamo non
solo per la gente del circondario. L’afflusso delle persone era favorito dalla collocazione
di Montesiepi sulla direttrice della via Maremmana, un asse assai frequentato che si ri-
connetteva peraltro alla trama della via francigena o romea.
Moltissimi pellegrini erano attratti proprio dalla sacra spada. Tutti sapevano che il Signo-
re in persona aveva fornito l’arma di magici poteri, impedendo a chiunque di poterla
estrarre dal terreno. Si raccontava che, quando era ancora in vita Galgano, alcuni ignobili
malfattori, mossi dall’invidia, approfittarono di una sua temporanea assenza, e, non riu-
scendo a estrarre l’arma, la ridussero in pezzi. Ma, grazie all’intervento del Signore, Gal-
gano potè nuovamente conficcare la spada, miracolosamente rinsaldata, e gli «invidiosi»
che l’avevano ridotta in pezzi andarono incontro a una morte terribile.
Non pochi giovani ardimentosi si cimentavano a Montesiepi nel tentativo di tirar fuori la
spada. Erano motivati dall’aura miracolosa dell’arma, ma forse proprio la suggestione
dell’epica di re Artù li guidava fin lì. Ogni volta, però, li attendeva un clamoroso insuc-
cesso, di sicuro poco gradito ai prodi sfortunati, ma assai apprezzato dalla gente che assi-
steva sempre più numerosa a questi «numeri», vere occasioni di divertimento per via del-
le goffe manifestazioni di forza dei malcapitati attori, ma anche puntuali e spettacolari ri-
conferme dei poteri racchiusi nella portentosa reliquia del santo eremita.
Già quando era ancora in vita, d’altronde, Galgano dispensava preziose capacità tauma-
turgiche, e il suo ruolo di guaritore proseguiva anche nel luogo in cui riposavano le sue
spoglie. Egli era infatti in grado di guarire bambini che versavano in condizioni disperate
(una «specialità» piuttosto rara tra i santi protettori) ed era anche in grado di praticare
guarigioni a distanza. A Galgano, poi, si rivolgevano i cavalieri della sua stessa categoria
sociale, quando, una volta sconfitti, finivano nelle grinfie di crudeli e venali feudatari, che
li costringevano a lunghe e umilianti prigionie in attesa di lauti riscatti. In due casi, Gal-
gano era riuscito a liberarli nonostante si fossero trovati legati mani e piedi, e per giunta
richiusi in una cassa di legno. La lista dei miracolati affidatisi a lui con successo si esten-
deva sempre di più, e gli ex voto lasciati nel santuario da ciascuno di loro, per ringrazia-
mento nei riguardi di Galgano, erano i più vari: il lebbroso guarito lasciava l’immagine in
cera che ne ritraeva il volto reso terribilmente deforme dalle piaghe, il cavaliere evaso
dalla prigione lasciava invece i legacci da cui si era liberato.
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Tra le virtù di Galgano c’era anche il raro carisma della precognizione. Egli era in grado
di prevedere fatti che si verificavano poi puntualmente. Facendo leva su questi poteri,
l’inquisitio del 1185 attesta che il santo avrebbe previsto una visita dell’imperatore in quel
di Montesiepi e, guardacaso, nello stesso mese dell’inchiesta, svoltasi tra il 4 e l’8 agosto,
Federico Barbarossa in persona, di passaggio a Siena, aveva reso omaggio alla sepoltura
del santo e aveva posto l’eremo sotto la propria protezione.
Approfittando di un momento di fruttuose e pacifiche relazioni tra la Chiesa di Roma e
l’impero, il vescovo Ildebrando Pannocchieschi aveva avviato con particolare cura gli atti
del processo di canonizzazione, e ne trasse giovamento per manifestare al meglio la sua
fedeltà ai reggitori del mondo. Nel gruppo dei tre prelati che conducono l’inchiesta appa-
re infatti l’arcivescovo di Magonza Corrado di Wittelsbach, successore di Cristiano, che
aveva assunto la carica di cancelliere imperiale. Corrado aveva accompagnato il Barba-
rossa in Italia, ed era inoltre in stretti rapporti con Roma, poiché era cardinale della Sabi-
na. Lui e i suoi colleghi, come la stessa inquisitio attesta, furono in ogni caso incaricati
espressamente da papa Lucio III (1181-1185), che dette così seguito alle richieste del
presule di Volterra.
Seguendo le approfondite analisi di Eugenio Susi, anche su un piano di politica pretta-
mente locale il culto di san Galgano rivestiva per il vescovo Ildebrando un’importanza
strategica. Egli infatti dava lustro alla Chiesa di Volterra, e si ergeva a illustre esponente
di un mondo feudale che si contrapponeva sempre più ai nuovi equilibri della società,
imperniati sugli ordinamenti comunali e sul ruolo propulsivo della borghesia. In questa
ottica, Galgano, ossia l’eremita cortese, secondo la definizione dello stesso Susi, è cam-
pione di una santità «ghibellina», esponente di un vecchio ceto di cavalieri fedeli al pro-
prio signore (nel caso, il vescovo di Volterra), al proprio sovrano (l’imperatore) e al Re
dei Cieli. Le indubbie tangenze tra le leggende arturiane e la vicenda di Galgano traggono
risalto, in questa ottica, da un preciso riscontro di premesse storico-culturali. Lo stesso
ciclo bretone nasce infatti dal cuore di un mondo feudale in crisi, che vuole tutelarsi di
fronte al nascere di un nuovo assetto della società.
Ma, a questo punto, viene spontanea più di una domanda. In che misura incide
sull’immagine di Galgano l’operato del vescovo Ildebrando e della commissione inqui-
rente da lui desiderata? In altri termini, quanto c’è di «vero» e quanto c’è di «costruito»
nella storia e nell’identità del santo eremita di Montesiepi? E poi, la spada nella roccia è,
in qualche misura, «autentica»?
In merito all’ultima questione, si può solo rilevare che l’arma è spezzata in tre tronconi
rinsaldati (e tale risultava già nel 1694), in linea con la storia dei «vandali» invidiosi, ed è
tipologicamente databile al secolo XII, il che, naturalmente, non esclude la sua apposi-
zione «ad arte». Riguardo poi al peso della rielaborazione agiografica, se si prendono per
buone le deposizioni riportate nell’inchiesta, a partire da quanto attestato dalla madre
Dionigia, il nucleo della storia e del personaggio di Galgano appartiene alla memoria de-
gli abitanti del luogo, ed è, a suo modo, veritiero. D’altro canto, l’immaginario epico-
cavalleresco e la dimensione onirico-visionaria del sacro, ossia le due componenti «forti»
della memoria di Galgano, non erano appannaggio esclusivo di una élite di chierici, ma
rientravano all’interno di atteggiamenti mentali condivisi e di fenomeni culturali di ampia
e ramificata diffusione. È ormai accertato, ad esempio, che i temi epici arturiani e caro-
lingi vantavano un’enorme fortuna su lunghissime distanze ben prima delle elaborazioni
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letterarie più rinomate. Le visioni di santi e di mondi ultraterreni, poi, per quanto potes-
sero essere arricchite dalla commissione di inchiesta in sede letteraria, potevano scaturire
in prima battuta da un tessuto culturale ben nutrito al riguardo da immagini di vario ge-
nere, bibliche ed epiche, desunte da racconti o da sermoni uditi dal vivo, oppure dalle
moltitudini di pitture e sculture a soggetto religioso ma anche cavalleresco disponibili
nelle chiese, e non solo in esse.
Basterebbe poi il facile parallelismo con il caso di san Francesco da Assisi, nato nel 1181-
82, e dunque in perfetta successione cronologica rispetto a Galgano, morto nel 1181, per
riscontrare un modello di vita eremitica scaturito in un contesto cavalleresco, con una
conversione in tutto simile della militia terrena in militia Christi, e con un peso non indif-
ferente degli ideali e delle immagini della letteratura cortese. D’altra parte, se Francesco
doveva il suo nome a quella Francia dalle rinomate manifatture importate dal padre, ma
anche terra dei poeti di corte, dei trovatori e dei trovieri, proprio il nome di Galgano, pe-
raltro ben diffuso in Toscana alla sua epoca (è già attestato nel 1127), sembra di chiara
matrice arturiana. Potrebbe infatti trattarsi di una variante di Galvano, nome di quel pro-
de che era nipote di Artù in persona.
Franco Cardini rileva poi l’importanza dell’immagine di san Michele Arcangelo nella vi-
cenda del santo eremita. Si tratta di una presenza ben radicata nella storia religiosa del
territorio sin dall’epoca longobarda. La sua figura unisce già in sé il concetto della militia
a servizio di Cristo, in quanto santo guerriero. Per giunta, il suo tradizionale ruolo di psi-
cagogo, ossia di colui che guida l’anima nei percorsi dell’aldilà, è riproposto nella testi-
monianza di Dionigia secondo schemi di lunghissima fortuna, ed è del tutto credibile che
una devota di quei tempi lo chiamasse «in scena» in modi così vividi e spontanei, come
una figura familiare che poteva facilmente prendere corpo nelle visioni del figlio.
Le attestazioni dei miracoli attribuiti a Galgano prima e dopo la sua morte, sono tali e
tante, poi, da non lasciare dubbi su una sua solida popolarità, conseguita ben prima che
venissero redatti gli atti della canonizzazione.

Nel giro di pochi anni, l’ambiente che aveva nutrito le prime manifestazioni del culto di
Galgano mutò su molti fronti. Dopo l’assedio di Chiusdino (1215), Siena era ormai dive-
nuta padrona incontrastata del territorio. Di pari passo si affermava la nuova abbazia,
avviata nel 1218.
La comunità eremitica di Montesiepi, che vantava ancora dei confratelli dello stesso Gal-
gano, testimoni dell’inchiesta, sembrò troppo sguarnita agli occhi dell’imperatore Enrico
VI. Il sovrano, nel 1191, pensò allora di coinvolgere un gruppo di monaci provenienti da
Clairvaux (Chiaravalle), l’abbazia fondata nel 1115 da san Bernardo nella regione france-
se della Champagne-Ardenne, e ben presto divenuta il cuore stesso del movimento ci-
stercense. I religiosi d’oltralpe dovevano impiantarsi a Montesiepi per porre le premesse
di un insediamento più cospicuo e assai meglio organizzato, che poteva adeguatamente
svilupparsi nei terreni di fondovalle. Sulla carta il progetto sembrava funzionare senza in-
toppi, anche perché san Bernardo teneva in grande riguardo la cavalleria, e, nel De laude
novae militiae (1128), ad esempio, sosteneva con forza un connubio tra la croce e la spada,
tra ideali religiosi e disciplina militare. I suoi seguaci sembravano quindi assai ben indicati
come custodi della memoria del santo eremita di Montesiepi. Ma il movimento cister-
cense richiedeva un’organizzazione ferrea e razionale, incardinata su impianti di conside-
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revole sviluppo, in cui schiere di monaci erano affiancate da conversi (laici), per dare
corpo a grandi opere di bonifica e di lavoro dei campi, come in una gigantesca azienda
agraria. La disciplina della preghiera e delle mansioni manuali mal si conciliava con
l’organizzazione libera e spontanea di un piccolo eremo, isolato ma al tempo stesso a
contatto con pletore di pellegrini, in nome delle miracolose virtù di Galgano. Proprio
l’aspetto «spettacolare» del culto religioso era respinto con forza dai Cistercensi. Essi
aborrivano le folle dei fedeli incantate dai prodigi, non dalle verità profonde della fede. I
pellegrini erano attratti solo dalle sante reliquie, a formare delle calche rumorose che tur-
bavano terribilmente l’isolamento monastico.
Si ebbe così un periodo intermedio, in cui la comunità, ancora impiantata a Montesiepi,
si adattò all’introduzione dei nuovi usi, ma al costo di una diaspora di quei confratelli che
volevano mantenere l’assetto originario della fondazione. Molti eremiti, infatti, portando
con sé reliquie del santo, lasciarono Montesiepi e fondarono nuovi eremi in onore di
Galgano in varie parti della Toscana. Frattanto, dopo il probabile fallimento della prima
missione dei monaci di Clairvaux, l’abbazia iniziava a prendere corpo con l’appoggio del-
la fondazione laziale di Casamari. E quando la grande chiesa era ormai completata, i Ci-
stercensi avevano rimodellato la memoria stessa di Galgano. I nuovi agiografi lasciarono
cadere ogni insistenza sui suoi poteri taumaturgici, e anche gli aspetti visionari della sua
vocazione persero smalto. Come ideale fondatore dell’abbazia, Galgano fu piuttosto
evocato per le sue virtù di umile e rigoroso cavaliere-asceta, capace di condurre una vita
in piena comunione con Cristo cibandosi esclusivamente di bacche e radici.
E mentre l’abbazia di San Galgano collaborava con Siena fornendo personale qualificato
per il cantiere del duomo o per l’amministrazione degli affari del comune, il santo eremi-
ta fu annoverato tra i protettori della potente città, fintantoché resisteva il prestigio della
fondazione cistercense. Avviatasi questa a un inarrestabile declino, sin dal XV secolo,
l’importanza di Galgano come santo cittadino si attenuò rapidamente. Nel giro di qual-
che secolo la grande chiesa abbaziale si ridusse in rovina, ma la piccola chiesa romanica
di Montesiepi resisteva in tutta la sua integrità, custode incancellabile della magica spada
del santo eremita.

Cronologia

1181, 30 Morte di san Galgano.


novembre
1184 Morte del vescovo Ugo di Volterra, in odore di santità, immediato pro-
motore del culto di san Galgano e committente della rotonda. Gli succede
Ildebrando Pannocchieschi.
1185 L’imperatore Federico Barbarossa visita l’eremo di Montesiepi e lo pone
sotto la propria protezione. Tra il 4 e l’8 agosto si tiene l’inchiesta formale
(inquisitio) per il processo di canonizzazione di Galgano.
1191 Enrico VI, figlio del Barbarossa, assegna beni a un gruppo di monaci di
Clairvaux (Chiaravalle) per un primo tentativo di insediamento cistercense
a S. Galgano.
1193 Viene nominato il primo podestà di Volterra. Accordo di pace dopo uno
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scontro tra Senesi e milizie del vescovo di Volterra.


1196 Bono, già priore dell’eremo di Montesiepi, è probabilmente a capo di una
comunità «mista» di eremiti e monaci cistercensi.
1201 Il vescovo Ildebrando concede un privilegio al priore Bono laddove risul-
ta che monaci e conversi di S. Galgano seguono la regola di san Benedet-
to e si adeguano alle norme dei cistercensi.
1201-03 Abbandono dell’eremo da parte di un gruppo di religiosi fondatori che
non si allineano alla nuova gestione.
1205, di- Dopo la morte di Bono, la guida del monastero risulta affidata al pisano
cembre Galgano Visconti.
1206, 3 lu- Papa Innocenzo III emette una bolla di protezione indirizzata all’abbazia
glio di S. Galgano. Galgano Visconti, già priore, è il primo abate di S. Galga-
no.
1215 I Senesi conquistano Montieri e mettono sotto assedio Chiusdino.
1218 Iniziano i lavori di costruzione dell’abbazia cistercense.
1223, feb- L’imperatore Federico II concede un privilegio all’abate Giovanni in cui si
braio conferma quanto già stabilito a favore dell’abbazia da suo padre Enrico
VI.
1257-59 Vernaccio è il primo monaco di S. Galgano che risulta eletto Operaio del
duomo di Siena.
1257-62 Ugo di Azzolino è il primo monaco di S. Galgano a essere nominato Ca-
merlengo della Biccherna (amministratore dell’erario) presso il comune di
Siena.
1270 Nella prima redazione superstite degli Statuti del comune senese, una ru-
brica è dedicata alla tutela dell’abbazia di S. Galgano e dei suoi possedi-
menti
1290, 16 Su delibera solenne del Consiglio Generale, il comune di Siena prende
giugno sotto la propria protezione l’abbazia di S. Galgano.
1576, 7 lu- Il vescovo Castelli di Rimini, presente a S. Galgano in qualità di visitatore
glio apostolico straordinario, registra il grave stato di fatiscenza e di abbando-
no del complesso.
1786, 22 Crollo del campanile dell’abbazia durante l’officiatura di una messa: non
gennaio si registrano vittime, ma la chiesa, già in cattive condizioni, non è più pra-
ticabile.
1786, 10 Il granduca di Toscana Pietro Leopoldo autorizza il marchese Fabio Fe-
giugno roni, detentore dell’abbazia, a non occuparsi più del mantenimento delle
strutture.
1789, 10 Atto ufficiale di sconsacrazione della chiesa abbaziale.
agosto

Da leggere
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Antonio Canestrelli, L’Abbazia di S. Galgano. Monografia storico-artistica, Alinari, Firenze


1896; Tellini, Pistoia 1993 (ristampa).
Eugenio Susi, L’eremita cortese. San Galgano fra mito e storia nell’agiografia toscana del XII secolo,
Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1993.
Franco Cardini, San Galgano e la spada nella roccia, Cantagalli, Siena 2000.
Anna Benvenuti (a cura di), La spada nella roccia. San Galgano e l’epopea eremitica di Montesiepi,
Mandragora, Firenze 2004.
Andrea Conti (a cura di), Speciosa Imago. L’iconografia di san Galgano dal XIII al XVIII secolo,
Nuova Immagine, Siena 2014.

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