1603-1644, UNA DINASTINA DI “SHOUGUN” PER IL GIAPPONE, I QING IN CINA
di Hitomi Sato
1.Il mondo dell’Asia orientale all’alba della «prima età moderna»
Chiamare l’oggetto di questo capitolo il «mondo asiatico-orientale» invita a riflettere su un’ottica maturata negli ultimi decenni del XX secolo tra gli storici. Piuttosto che descrivere la storia di ogni singolo paese come un mondo a sé stante, staccato dal resto della regione, la ricerca ha posto l’attenzione sulla comune dinamica di sviluppo storico tra diversi paesi, senza per questo sminuire l’importanza delle particolarità di ogni formazione statuale. Nei primi decenni del Seicento, al rapido incremento del commercio marittimo internazionale nel secolo precedente, seguirono diverse risposte politiche e sociali. Il divieto delle attività marittime, quale misura della Cina dei Ming e dei Qing, fu una linea comune nei diversi paesi dell’Asia orientale, tra cui il Giappone, che limitò gli scambi con i paesi esteri. Nella Cina Ming e nelle zone confinanti crebbero le potenze economico-politico-militari che seppero sfruttare tale situazione, concentrando nelle proprie mani risorse politiche ed economiche. Da tale dinamica uscì vincitore il popolo jusen, o jurchen, che fondò il vasto Impero multietnico dei Qing, scuotendo l’intero sistema diplomatico nonché gli scambi nel «mondo asiatico-orientale». In quella che gli storici europei chiamano la «prima età moderna», i cinesi con il periodo del tardo impero e gli storici giapponesi con il periodo Edo, ogni paese dovette scegliere la risposta da dare a tale situazione, modificando profondamente la geografia politica di una regione che era già connessa ai processi di mondializzazione.
2.I Manciù e i Qing. La fondazione dello Stato jurchen
Il popolo degli jusen o jurchen, appartenente al ceppo linguistico tunguso, era un gruppo di tribù stanziate nel Nord-Est della Cina e della Siberia orientale, sottomesso alla dominazione Ming. Si occupava della caccia e del commercio, in particolare delle pellicce di martora e del ginseng, che erano tra i prodotti più richiesti nel mercato internazionale dell’epoca. Gli jurchen ne controllavano sia la zona di produzione sia le vie d’acqua per il trasporto delle merci, cosa che aveva permesso loro di diventare protagonisti assoluti di attività economiche molto redditizie. Nei confronti dei gruppi jurchen, che i cinesi consideravano un popolo primitivo, dedito alla caccia e a un’agricoltura rudimentale, l’imperatore Yongle (1403-1424) e i suoi successori adottarono una politica di divide et impera, riconoscendo ai potenti vari privilegi, tra i quali l’autorizzazione ufficiale di portare il tributo all’imperatore – cosa che significava di fatto entrare in un rapporto commerciale vantaggioso con la Cina – e l’assegnazione del titolo di ufficiale dell’Impero Ming. Visto il vantaggio economico di tale sistema, il numero delle missioni degli jurchen per portare il tributo si incrementò notevolmente con il tempo, fino a spingere l’autorità dei Ming a imporre restrizioni, rilasciando le patenti a ogni persona avente diritto di partecipare alle missioni tributarie. Dal tempo di Yongle, la popolazione era incorporata nel sistema militare dei Ming chiamato wei suo (posto di guardia): ogni unità (wei) era composta da 5.600 uomini, e il ruolo di comando era riconosciuto ai vari capi jurchen. Pare, tuttavia, che intorno alla metà del Cinquecento il sistema wei suo fosse già quasi scomparso tra gli jurchen, e che al suo posto si affermassero nuove confederazioni formate da diversi gruppi all’interno dello stesso popolo. L’ascesa di Nurhaci avvenne quando la riorganizzazione dell’ordine politico del mondo jurchen era in corso, spinta da una conflittualità tra i capi tribù sempre più accesa, causata da un rapido incremento del commercio. Nurhaci era nato nella famiglia di un capo tribù e nel 1583, appena diventato un capo indipendente, riuscì a unificare la maggior parte dei gruppi del suo popolo. Il generale cinese Li Chengliang, governatore militare della provincia di Liaodong, diede a Nurhaci un tacito assenso a espandere il proprio dominio, pensando di tenere gli jurchen sotto controllo attraverso la sua collaborazione. Tuttavia, quando Li Chengliang venne rimosso dalla carica di governatore miltare, la politica dei Ming mutò in una direzione opposta e ostile a Nurhaci. Nel 1616 questi fu proclamato khan degli jurchen e rinominò il proprio Stato come Aisin gurun (in lingua jurchen), ossia Jin posteriore (in lingua cinese), appellandosi al ricordo storico della dinastia Jin (1115-1234), che aveva controllato secoli prima la Manciuria e gran parte della Cina settentrionale. Tutti e due i termini, Jin e khan, stavano a indicare la riunificazione dei popoli jurchen e mongoli sotto un nuovo imperatore.
3.Le Otto Bandiere
Dal tempo di Nurhaci, il cardine istituzionale dello Stato jurchen era il sistema delle Otto Bandiere. Si trattava di un’organizzazione militare nonché amministrativo-sociale, elaborata da Nurhaci e originariamente volta a inquadrare gli jurchen, poi applicata ad altri popoli come i mongoli e i cinesi. La popolazione venne divisa in otto corpi d’armata chiamati gūsa («bandiera»), ognuno dei quali aveva una bandiera contraddistinta da uno di quattro colori (il giallo, il bianco, il rosso e il blu), assieme alla presenza o meno della decorazione dell’orlo. Il comando di ogni gūsa venne conferito a un membro della casa reale, che assunse il titolo di beile. L’unità di base del sistema delle otto bandiere era il niru («compagnia»), composto da qualche centinaio di uomini. Cinque niru costituivano un jalan («reggimento»), e cinque jalan formavano un gūsa. L’assegnazione della quota di forze militari e lavorative veniva effettuata in numero equo per ogni niru. I beile avevano il diritto di partecipare al consiglio del governo dell’intero stato jurchen, oltre che controllare i propri niru. Sulla natura del rapporto tra il khan, i beile e le bandiere, le opinioni degli storici non sono perfettamente concordi. La valutazione di esso varia da un sistema federativo in cui i beile assomiglierebbero a figure principesche autonome pari al khan, a quello fortemente centralizzato sotto il comando del khan, a quello nel quale le suddette due caratteristiche conviverebbero come parti integranti.
4.Verso un impero multietnico
Nurhaci nel 1619 aveva sconfitto gli eserciti Ming strappando all’Impero cinese molte città ai confini settentrionali. Un’identica politica di aggressione fu adottata dal figlio, Huang Taiji, che con una serie di campagne militari sottomise la Corea (1627) per poi tentare di invadere la Cina senza successo. Si rivolse quindi verso Ovest, alla Mongolia interna, offrendosi come capo dell’alleanza tra alcune tribù mongole e gli jurchen, contro Ligdan Khan, il capo tribù di Chahar e l’ultimo legittimo khan dei mongoli. Riuniti i capi delle tribù insediate a ridosso della Grande Muraglia, Huang Taiji fu in grado di sfidare gli eserciti Ming. Sotto il lungo regno dell’imperatore Wanli (1573-1620), il governo dell’Impero cinese aveva attraversato un periodo di profonda crisi: numerose rivolte anti-fiscali sia nelle campagne sia nelle città si erano succedute a siccità e carestie. Le difficoltà economiche, amplificate dai costi altissimi delle guerre contro i giapponesi in Corea, avevano reso più evidente l’inadeguatezza delle misure governative. Huang Taiji mosse le sue truppe simultaneamente contro l’impero e le tribù mongole di Ligdan Khan, che si sottomisero agli jurchen nel 1635, offrendo a Huang Taiji il sigillo imperiale della dinastia Yuan. Munito così dell’autorità dei grandi khan, e riconosciuto come tale anche dai mongoli e dai militari cinesi, Huang Taiji salì sul trono imperiale. Nel 1635 adottò ufficialmente per gli jurchen il nome manciù, una denominazione che servì a creare un’identità etnica separata dai vicini mongoli e cinesi. L’anno dopo, nel 1636, dichiarò l’inizio della dinastia Qing – e poi del suo Stato, Daicing gurun (Qing) –, sostituendo il vecchio titolo di Jin. Qing era un nome simbolico, che significava «chiaro», «puro», e come nel caso del termine manciù, aveva lo scopo di cancellare, agli occhi dei nuovi sudditi cinesi, il passato poco glorioso degli jurchen, ritenuti per tutto il periodo Ming poco più che un popolo incivile. I primi anni della dinastia Qing furono caratterizzati da una maggiore spinta verso la centralizzazione dello Stato. La struttura dell’amministrazione provinciale rispettò il modello precedente, ma vi fu sovrapposta una carica nuova, quella di governatore generale, affidata di solito a personale manciù. Su modello cinese, venne creato l’Ufficio Letterale (fondato nel 1629, poi riorganizzato e rinominato come Le Accademie dei Tre Palazzi nel 1635), con il compito di trasmettere le comunicazioni tra l’imperatore e le nazioni esterne, di stendere i documenti e di tenere i memoriali di ogni evento. Poi, sempre sul modello degli uffici centrali cinesi, nel 1631 vennero istituiti i Sei Ministeri, nonché il consolato e l’Ufficio degli Affari Mongoli (1636). Due anni dopo, quest’ultimo fu rinominato Lifan Yuan (o Corte per gli affari coloniali), un ufficio addetto ai rapporti con le regioni periferiche della Mongolia, Turkestan e Tibet. Le nomine degli ufficiali vennero ridistribuite prestando attenzione all’equilibrio tra le etnie manciù, mongole e han, l’etnia cinese maggioritaria. Alle riforme fiscali già varate dai predecessori, il regime Qing aggiunse la raccolta e lo stoccaggio di scorte cerealicole in appositi granai imperiali, una misura finalizzata a controllare i prezzi dei generi di prima necessità e a evitare le ondate di insurrezioni contadine che portarono diversi danni ai Ming. La centralizzazione che investì gli uffici soggetti al controllo diretto del khan rappresentò, almeno in una certa misura, una diminuzione dell’autorità politica delle bandiere e dei loro capi. Quando Huang Taiji fu eletto khan, ampie zone della Cina erano ancora controllate da funzionari e militari fedeli ai Ming. Ma nel 1642 la rivolta di Li Zicheng, alla guida di una delle numerose rivolte contadine susseguitesi durante l’ultimo periodo della dinastia, causò la crisi finale dei Ming. Due anni più tardi, le truppe guidate da Li Zicheng entrarono a Pechino costringendo la corte a una fuga disordinata e l’ultimo imperatore al suicidio; il generale Wu Sangui, stanziato nella regione del passo di Shanhai, si sottomise ai Qing, aprendo il passo alle truppe guidate da Dorgon, reggente del nuovo imperatore Fulin dopo la morte di Huang Taiji nel 1643. Entrato a Pechino e cacciati gli uomini di Li Zicheng, Dorgon dichiarò di trasferirvi la capitale dei Qing per accogliervi l’imperatore. Nei trent’anni successivi le armate Qing ridussero al silenzio le ampie sacche di resistenza feudale nella Cina meridionale (venne occupata anche l’isola di Taiwan) e sospinsero all’esterno dei vecchi confini imperiali le tribù mongole del Nord. Nel 1689, con il trattato di Nerchinsk, l’abile imperatore Kangxi (1661-1722) fissava la linea di confine tra la Cina e l’Impero zarista assicurandosi il controllo della regione dell’Amur. Il graduale inglobamento della Cina (l’espansione sarebbe continuata fino al tardo Settecento) diede all’Impero mancese una fisionomia ambigua. Se da un lato l’organizzazione politico-militare tipica dei manciù restava l’ossatura fondamentale del dominio Qing, dall’altro essa doveva integrarsi con la più raffinata cultura politica Ming. Si trattava di trasformare un esercito composto in gran parte di nomadi razziatori in uno strumento disciplinato al servizio dell’imperatore. La conquista della Cina spinse a riorganizzare il sistema delle otto bandiere in direzione di un maggior controllo centrale: tre bandiere, le due bandiere gialle e quella bianca semplice senza decorazione dell’orlo, furono classificate in una categoria superiore alle altre e poste alle dirette dipendenze dell’imperatore (da qui il nome di Tre Bandiere Superiori, distinte dalle altre Cinque Bandiere Inferiori). Tra le cariche amministrative civili, al contrario, l’élite burocratica han conservò una posizione di vertice. Il tradizionale sistema amministrativo cinese, che vietava (o riduceva al minimo) la concessione di terre pubbliche come ricompensa di servizi, frenò la possibilità di una deriva feudale dell’impero alimentata dalle ambizioni dei comandanti delle bandiere. Le differenze di rango e di linguaggio – nel primo periodo Qing i decreti imperiali si emanavano in cinese e in manciù, e spesso in mongolo e in tibetano – vennero organizzate in modo da permettere i passaggi da un’identità etnica all’altra: manciù e han sedevano assieme nel Gran Consiglio dell’imperatore, mentre persino il rigido sistema delle bandiere accolse con il tempo giovani cinesi desiderosi di entrare nella carriera militare. Anche la fisionomia dell’imperatore si adattò alla multietnicità del suo dominio, grazie a un abile processo di amalgama: la raffigurazione confuciana dell’imperatore padre dei suoi popoli venne infatti accostata dai discendenti di Huang Taiji a quella del khan mongolo come signore universale chiamato a governare una «famiglia» di popolazioni etnicamente diverse. Il consolidamento amministrativo seicentesco (contemporaneo a quello sperimentato da Pietro il Grande in Russia) e la sua rappresentazione simbolica furono uno strumento di coesione per la «famiglia multiculturale» dell’Impero Qing, che nel XVIII secolo, con la sconfitta degli zungari, incorporarono il Tibet a una congerie di popoli diversissimi – han, manciù, mongoli, coreani e altri ancora. Raggiunto l’apogeo sotto Qianlong (1735-1796), quel sistema di dominio cominciò a declinare con l’arrivo degli inglesi e vide il collasso nel 1911. 5.Il Giappone. Avvento e sviluppo dello shogunato dei Tokugawa Sorto tra il VI e l’VIII secolo dell’era cristiana, con la tradizione shintoista e la penetrazione del buddismo, l’Impero giapponese dopo l’anno Mille conobbe una grande fioritura culturale e una frammentazione politica dovuta alla costituzione di shoen, tenute appartenenti a signori, santuari shintoisti e monasteri buddisti che formavano entità autonome in cui i contadini si ponevano sotto la protezione di un ryoshu (chi deteneva lo shoen) e dei suoi corpi armati formati dai bushi o samurai, che lentamente elaborarono un loro codice d’onore. Dal XII secolo alla figura dell’imperatore, sempre più simbolica, si affiancò quella di uno shogun, ovvero di un detentore dell’effettivo dominio militare e politico (bakufu, o «governo della tenda») trasmesso all’interno di un solo clan signorile che spesso scelse di costituire la propria corte in una città distinta dalla sede imperiale (Kyoto). Con la fine dell’era Muromachi (1338-1573) e la crisi del clan Ashikaga, mentre l’arcipelago entrava nella rete asiatica dei commerci esportando raffinati manufatti, per il Giappone si aprì un periodo di aspre lotte interne e grande fioritura culturale e cerimoniale. Dalle precedenti élite di guerrieri, monaci e funzionari, infatti, erano emersi i daimyō, circa 200 capi militari che godevano di una rendita superiore a 10.000 koku di riso (un koku equivaleva a circa 150 chili di cereale) e costruivano insediamenti fortificati, controllando i villaggi, dotandosi di un corpo di guerrieri e gareggiando per il prestigio. La produzione agricola, gestita da contadini che promettendo fedeltà al signore potevano introdurre migliorie nei campi, aumentò e con essa la popolazione giapponese, che nel Cinquecento raggiunse i 17 milioni di abitanti. Con la maggiore circolazione monetaria, l’avvento delle armi da fuoco e l’arrivo dei portoghesi (1543), pochi daimyō ebbero le risorse per erigere forti in pietra e per acquistare archibugi, e ciò esacerbò lo scontro politico. Da tali conflitti emerse tuttavia un signore della guerra, Oda Nobunaga, che sottomise gli avversari, entrò a Kyoto (1573) ma senza assumere il titolo di shogun. Oda rivolse la sua furia contro i monasteri buddisti che gli avevano resistito, favorendo in cambio la penetrazione del cristianesimo e, sebbene non riuscisse a sottomettere circa metà delle province, cominciò a confiscare le armi ai clan guerrieri e avviò un censimento per riformare il sistema fiscale. Ma il suo assassinio del 1582 gettò l’arcipelago in un nuovo ciclo di lotte che fece emergere un suo affiliato, Toyotomi Hideyoshi, che dall’imponente castello di Osaka conquistò il potere nel 1587, disarmando il paese con la cosiddetta «caccia alle spade». Hideyoshi diede un assetto ai rapporti tra centro e signori della guerra, permettendo ai daimyō di mantenere un raggio di potere nei loro castelli, in cambio di un atto di sottomissione che comportava il recarsi periodicamente e il risiedere presso la sua corte. Nel 1598, durante la seconda spedizione organizzata per dare sfogo alle pulsioni militari e conquistare la Corea, vassalla dei Ming, Hideyoshi morì. Della gestione del periodo post- bellico si occupò un consiglio dei Cinque Anziani (gotairō), che doveva governare in nome del figlio Hideyori. Ma l’avanzata di Tokugawa Ieyasu ruppe l’equilibrio nello schieramento dei sostenitori della casa Toyotomi, causando la battaglia di Sekigahara (1600). Nel 1603 Ieyasu, il vincitore, fondò un nuovo shogunato a Edo (Tokyo). Eliminato Hideyori con due assedi al castello di Osaka, nel 1615 emanò la legge Buke-shohatto («Codici per le case militari») con lo scopo di definire i principi del nuovo bakufu, nel quale si dovevano integrare due aspetti istituzionali apparentemente contraddittori: una forte concentrazione di poteri politici e militari da un lato, e il riconoscimento di un’ampia autonomia ai daimyō dall’altro. Per le case aristocratiche e la famiglia imperiale, invece, fu emanata la legge Kinchū narabini kuge shohatto («Codici per la corte imperiale e per le case aristocratiche»). Le loro funzioni principali dovevano essere le attività culturali e simboliche, con l’esclusione di ogni sostanziale pretesa di potere politico. L’elaborazione del nuovo bakufu fu portata a compimento dal terzo shogun Iemitsu. Egli emanò un decreto per definire gli obblighi militari dei daimyō e hatamoto (i vassalli diretti dello shogun), stabilendo il livello di ogni feudo in base alla rendita in koku. Inoltre egli rilasciò i documenti di riconoscimento dei dominî a tutti i daimyō insieme, per dimostrare che il rapporto di dipendenza che avevano nei suoi confronti non era un titolo individuale, ma derivava dall’appartenenza cetuale al gruppo dei daimyō, sottomesso in quanto tale allo shogun e inserito nella gerarchia politica del regime. Tra i provvedimenti di Iemitsu quello di maggiore portata fu, nel 1635, la modifica del Buke-shohatto, che diede un chiaro profilo istituzionale a una pratica che, come si è visto, era stata già introdotta: la residenza alternata dei daimyō (sankin-kōtai). I daimyō del cosiddetto periodo di Edo furono classificati in tre categorie: 1) gli shinpan facevano parte della parentela shogunale come discendenti di Ieyasu (tra questi, le tre casate chiamate gosanke, ovvero i Tokugawa di Owari, Kishū e Mito, erano le più importanti); 2) i fudai erano alleati dei Tokugawa di lunga tradizione; 3) i tozama erano i clan alleatisi intorno alla battaglia di Sekigahara o sottomessi dopo di essa. Vi erano inclusi quindi i maggiori daimyō pari o superiori ai Tokugawa, da trattare con più cautela. Il sankin-kōtai era un segno di obbedienza all’autorità shogunale: ogni daimyō doveva recarsi a Edo portando con sé doni e un nutrito seguito. Tale obbligo significava un continuo onere fiscale e un aggravio di spese per gli equipaggiamenti, i vestiti, gli alloggi e i viveri di tutti i partecipanti alla processione tra il dominio locale e la residenza shogunale in Edo. Il sistema divenne pertanto il mezzo più efficace per controllare i daimyō, in particolare quelli tozama. Per quanto riguarda gli organi di governo, già dal tempo di Ieyasu, all’apice del bakufu, sotto lo shogun, esisteva un numero imprecisato di persone influenti che coprivano la carica di toshiyori (anziani), investiti delle competenze più importanti negli affari del governo, senza alcuna forma di regolamento ufficiale. La riforma di tale sistema fu intrapresa da Iemitsu. Egli creò gli ufficiali detti «i Sei», assegnando loro una parte dei compiti dei toshiyori; poi istituì un regolamento d’ufficio per i toshiyori, che da quel momento cominciarono a essere chiamati anche rōjū, per delimitare le loro competenze per iscritto in quanto funzionari del governo. I rōjū e i Sei dipendevano direttamente dallo shogun, mentre gli altri ufficiali di rango più basso, quali i bugyō (commissari, sovrintendenti), vennero posti sotto la direzione dei rōjū. 6.Il divieto del cristianesimo e le relazioni con il mondo Nei confronti del cristianesimo, Ieyasu distinse le missioni e i rapporti commerciali, proibendo le prime e mantenendo i secondi con la Spagna e il Portogallo. La rotta cambiò con il secondo shogun Hidetsugu, che vietò parzialmente il commercio con le navi portoghesi e inglesi e di trasportare persone e armi giapponesi all’estero. Poi, nel 1624, egli ruppe definitivamente le relazioni diplomatiche ufficiali con la Spagna. Iemitsu restrinse ancora di più le possibilità di contatto tra i giapponesi e i paesi cristiani. Dopo l’aggressione a una nave di commercio munita di documento shogunale da parte della flotta spagnola nelle Filippine, Iemitsu vietò i viaggi all’estero delle navi che non fossero munite di una lettera firmata dai rōjū e indirizzata al bugyō di Nagasaki. Quattro anni dopo, inoltre, promulgò il divieto completo di viaggi all’estero dei giapponesi, proibendo contemporaneamente il ritorno dei giapponesi già residenti all’estero. La rottura diplomatica e commerciale con il Portogallo divenne definitiva con l’ordine di espulsione dei portoghesi emanato nel 1639, dopo la sollevazione dei fedeli battezzati di Shimabara scoppiata in Kyūshū nel 1637, che terminò nell’anno seguente con il massacro totale degli ultimi resistenti. Dopo la rottura con il Portogallo, i paesi che mantennero rapporti commerciali con il Giappone furono quindi l’Olanda e la Cina. Per cautelarsi, tuttavia, agli olandesi fu ordinato il trasferimento del loro ufficio di commercio da Hirado all’isola artificiale di Dejima, sita nel mare di Nagasaki, sotto il dominio diretto del bakufu. I porti aperti all’estero rimasero quattro: Matzumae (in Ezo, oggi Hokkaido), Tsushiima, Satsuma (nel Kyūshū meridionale) e Nagasaki. In seguito, tale restrizione è stata descritta come la chiusura del paese da ogni contatto con il mondo esterno (sakoku). Ma la parola risale solo al 1801 e compare nella traduzione giapponese di un libro di Engelbert Kämpfer. Il termine in realtà serviva a indicare il sistema diplomatico selettivo del Giappone di allora, e non significa affatto la chiusura totale per principio. Accanto a tale scelta di direzione nelle relazioni internazionali, in Giappone andò elaborandosi un nuovo concetto dell’ordine del mondo asiatico. La tradizionale distinzione cinese tra Hua(la civiltà cinese) e Yi (i popoli «barbarici») fu rimodellata, adeguandola alle esigenze giapponesi per legittimare le relazioni con gli altri paesi. Il Giappone fu posto al centro di tale universo ideologico, di cui facevano parte la Corea, il Ryūkyū, l’Olanda, la Cina sotto il dominio «barbarico» dei Qing, e la popolazione Ainu in Ezo, allora considerata come una terra straniera. Un fatto è certo: il Giappone Tokugawa (1603-1868) conobbe una grande vitalità economica che comportò l’ascesa del nuovo ceto dei chonin (i mercanti), arricchitosi con i dispendiosi consumi urbani dell’élite.
7.Fra centro e autonomie territoriali
Per indicare il sistema di governo sotto gli shogun Tokugawa è largamente in uso tra gli storici il termine bakuhan. La parola deriva dalla contrazione delle parole bakufu e han (i dominî dei daimyō). Ad ogni han lo shogunato riconobbe infatti un ampio spettro di autonomie politico-economiche. Dalla seconda metà degli anni sessanta del XX secolo, gli storici dibattono tuttavia intorno al concetto chiave di questo sistema, identificato con la parola kōgi, che significa l’autorità pubblica spettante non alla persona dello shogun, bensì al bakufu in qualità di governo del corpo politico dell’intero paese, posto sopra ogni relazione personale di dipendenza e ogni singolo dominio signorile. Gli hansi sottomettono al kōgi shogunale e ne condividono una parte nei confronti della popolazione del loro territorio, come un piccolo kōgi. A ogni han dal centro sono inviati ispettori per controllare, sorvegliare, e persino incoraggiare a sviluppare il buon governo e a migliorare la situazione economico-sociale in ciascun contesto locale. Tale simbiosi tra un potere centralizzato e una larga autonomia dei corpi politici territoriali rappresenta una delle caratteristiche più significative del caso giapponese, che necessita di ulteriori confronti con i sistemi adottati in altre parti del mondo in età moderna.