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Il Mondo del Principe

Splendente - Ivan Morris


Esame Storia dell'Asia
orientale
Storia dell'Asia
Università degli Studi di Roma La Sapienza
30 pag.

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Ivan Morris
Il mondo del principe splendente
Cap. 1 Il periodo Heian

Nel 784 l’imperatore ordinò a Fujiwara no Tanetsugo la costruzione di una nuova capitale da Heijo
(Nara) a Nagaoka. La nuova capitale fu teatro di avvenimenti nefasti, fra cui la morte dello stesso
Tanetsugo a opera di rivali Fujiwara, fra i quali il principe Sawara. I Fujiwara, riacquisito il potere,
fecero piazza pulita dei propri nemici ed eliminarono lo stesso principe, ma attirarono karma
negativo sulla città portando l’imperatore alla decisione di trasferire nuovamente la capitale.
Nel 794 la capitale su spostata a Heian Kyo, la moderna Kyoto, dalla quale prende il nome l’epoca
Heian, e che rimase capitale per circa un millennio. Il periodo Heian durò circa 4 secoli, all’interno
del suo arco temporale è importante sottolineare l’anno 894, che segna il cessare delle missioni
ufficiali presso la Ci0 na. Il governo aveva infatti capito che la dinastia j era ormai al termine della
sua lunga parabola e che non vi era utilità nel far visita alla loro corte. SI inaugura una nuova fase
all’interno dell’era heian che si discosta dai primi cento anni di influenza cinese e che vede il
Giappone acquisire una sempre maggiore autonomia.
La cultura Heian raggiunse la piena fioritura circa un secolo dopo la rottura ufficiale con la Cina: il
suo apogeo avvenne durante il dominio di Fujiwara no Michinaga (X-XI secolo). La figlia e la nipote
di Michinaga furono mogli di imperatori regnanti ed ebbero fra le loro dame di corte le famose
scrittrici Sei Shonagon e Murasaki Shikibu.
L’epoca d’oro fu però seguita da un lungo periodo di declino, attribuito dagli studiosi tradizionalisti
alla condotta morale e alla pigrizia dell’aristocrazia di corte. Verso la fine del’XI° secolo si tentò di
puntellare il sistema con una nuova forma di direzione politica, cioè il Governo del Chiostro,
trasferendo il potere dalle mani dei Fujiwara a quelle di un ex imperatore in ritiro e cercando di
arrestare la diffusione dei grandi feudi provinciali. Tuttavia, il potere effettivo era già passato nelle
mani della classe dei militari nelle province.
Gli studiosi recenti attribuiscono il declino dell’epoca Heian proprio al diffondersi del sistema
feudale, alla crescente indipendenza delle province e all’eccessiva espansione territoriale.

Il VII e VIII secolo furono per il Giappone uno dei grandi periodi di importazione. La grande Riforma
del VII secolo fu il tentativo di trasformare il paese tribale in uno stato dove l’imperatore non fosse
solo il più potente dei capi dei vari clan, ma anche l’unico sovrano di tutta la popolazione e del
territorio. All’inizio dell’VIII° secolo fu fondata Nara, la prima capitale stabile, e il periodo storico
omonimo attinse avidamente ogni forma di cultura cinese. Intellettuali e religiosi accompagnarono
le missioni nel continente e tornarono in patria con nuove conoscenze tecniche. Vi fu inoltre una
corrente di immigrati e di rifugiati cinesi e coreani che andarono a riempire la nuova capitale,
portando con sé anche la cultura della chiesa buddhista. Nelle province l’influenza cinese fu molto
marginale.
La città di Nara era una copia in piccolo di Ch’ang-an, la corte aveva preso la forma di quella
cinese, l’amministrazione aveva adottato il grande sistema burocratico T’ang, la lingua delle
persone colte e dello stato era il cinese e le cronache nazionali ricalcavano il modello cinese. Il
buddhismo esercitava una profonda influenza sull’architettura, sulla scultura e sulla pittura.
Il processo di assimilazione continuò senza soste anche dopo il trasferimento a Heian Kyo. Durante
tutto il periodo Heian, la corte fu organizzata sul modello cinese, ne sono un esempio il protocollo,
il cerimoniale e le arti performative.

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Il funzionamento dell’amministrazione statale nei periodi Nara e Heian era modellato su quello
della dinastia T’ang e tale restò anche dopo il tramonto della dinastia cinese. Tutti i documenti
ufficiali e ufficiosi erano scritti in cinesi o in un ibrido sino-nipponico. Naturalmente l’aristocrazia
faceva follie per tutto ciò che era, o credeva, cinese.

A partire dal IX secolo le strette relazioni con il continente si allentarono: dopo un periodo di
intensa importazione, il pendolo si sposta e segue un periodo di reazione in cui il Giappone ritorna
a se stesso e adatta le forme straniere secondo i propri schemi e respinge quelle non congeniali.
Alla frenesia del periodo Ashikaga per la moda occidentale (pantaloni, pipe etc) nel secolo XVI
seguirono periodi di isolamento e intensa nipponizzazione.
Nel IX° secolo il Giappone cominciò ad adattare i modelli cinesi alle sue condizioni e necessità
specifiche, avviando un processo di selezione dei contenuti.
Il mondo descritto nella letteratura giapponese agli inizi del secolo X mostra un’influenza diretta
cinese già molto attenuata rispetto alla generazione precedente. All’epoca però nessuno poteva
considerarsi colto se non aveva ricevuto un’educazione classica, se non aveva familiarità con la
letteratura cinese e non era capace di scrivere passabili imitazioni di prosa e poesia cinese.
Tuttavia la Cina a cui attingevano era ancora quella dei secoli precedenti, e non quella dei Sung. Il
Giappone aveva una sua propria cultura e un suo proprio modo di vivere: entrarono in uso termini
come yamato-e (pittura giapponese) e Yamato-damashii (spirito del Giappone), che riflettevano
una nuova coscienza nazionale. Nel X secolo un visitatore cinese non sarebbe rimasto
impressionato dal Giappone, ma avrebbe giudicato il paese come incivile proprio per la sua
incapacità di conformarsi pienamente al modello confuciano nella vita di corte. Sono esempi
negativi il comportamento troppo disinvolto davanti all’imperatore e l’eccessiva importanza
attribuita alle donne.
Il Giappone risulta quindi una copia scadente e superata della grande civiltà cinese, ma in realtà
esso è da più di un secolo che procede su linee autonome per lo sviluppo di una cultura originale
che, per certi versi, era addirittura superiore a quella da cui discendeva. Nuove istituzioni avevano
sostituito la burocrazia di tipo cinese con una economia basata sul latifondo feudale e un potere
politico-economico accentrato nelle mani di una sola famiglia. Nell’ambito culturale nuove forme
di buddhismo avevano sostituito le sette di tipo cinese del periodo nara: già al tempo di murasaki
stava emergendo un buddhismo popolare ed evangelico, mentre si stava elaborando un
sincretismo mirato a fondere buddhismo e shintoismo. Forme d’arte originale andavano ad
affermarsi, come i rotoli emaki in pittura e il kanabungaku come forma di scrittura fonetica. La
narrativa raggiunse a Heian Kyo nel X secolo un’eccellenza non più superata né in Cina né in
Giappone. Queste opere in grafia fonetica erano talvolta definite “letteratura femminile”, poiché
le donne era le principali utilizzatrici del Kanabun, mentre gli uomini preferivano attenersi, per
prestigio, al cinese con il risultato di produrre spesso aride imitazioni.

Per capire il mondo del principe splendente è necessario prendere in esami due aspetti
contrastanti del periodo Heian: il culto del colore e della magnificenza, espresso dalla parola eiga,
e la concezione del mondo come luogo di sofferenza universale. Il mondo dell’arte e delle
splendide cerimonie era accompagnato dall’inquietante consapevolezza che il mondo era ormai
prossimo a quella fase che il Buddha aveva profetizzato come “ultimi giorni della legge”.
La sensazione di oppressione e di precarietà dell’esistenza era in realtà sintomo che il potere della
corte imperiale diveniva sempre più debole. Sommosse, rapine, disordini, atti di pirateria nel mare
interno, le superstizioni legate a spiriti viventi, carestie, terremoti e incendi tanto frequenti nel
periodo Heian non fecero che alimentare il senso di angoscia e pessimismo.

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Cap. 2 L’ambiente.
Nella seconda metà del X secolo i rapporti ufficiali con la Cina erano già interrotti da circa 100 anni,
gli ambasciatori venivano respinti, ma mercanti, studiosi e religiosi continuavano a visitare il paese
in veste non ufficiale. Il Giappone stava attraversando una fase di orgoglio nazionalistico e
autonomia caratterizzata da un isolamento totale.
La mancanza di cosmopolitismo è lampante nell’opera di Murasaki, dove la presenza di stranieri è
costituita da viaggiatori coreani verso cui l’autrice non ha interesse.
Per i contemporanei del principe Genji il mondo si limitava a Giappone, Corea e Cina e ignoravano
ciò che si trovava più a occidente, fatta l’eccezione per rare citazioni dell’India, luogo mistico e
patria del buddhismo.
Furono proprio l’isolamento e la segregazione e favorire la nascita di una cultura tanto uniforme,
profonda e originale.

Il Giappone del X secolo era costituito pressappoco dallo stesso arcipelago di oggi, con l’eccezione
della presenza di aborigeni Ezo, progenitori degli Ainu, nella grande isola dell’Hokkaido, dove
erano stati relegati nel corso degli anni. La cacciata degli aborigeni aveva permesso di mettere a
cultura grandi territori nelle regioni orientali e settentrionali dell’isola principale, mentre a causa
delle scarse vie di comunicazione i territori nord-orientali sembravano più lontani di Cina e Corea.
Il Giappone era diviso all’epoca in 62 province, dove le terre più importanti erano costituite dalle
Province Interne.
Agli occhi dei colti cittadini della capitale le province lontane avevano un’unica attrattiva: la
bellezza varia e drammatica del paesaggio, in contrasto con quella più delicata delle province
interne.
La stessa Heian Kyo si trovava in un ambiente naturale molto piacevole, circondata su tre lati da
colline e monti boscosi.
L’influenza del paesaggio ha sempre avuto una grande importanza sulla letteratura giapponese, in
un paese dove il mutare delle stagioni è molto netto e son presenti tremende calamità naturali.
Tuttavia, mentre nella tradizione occidentale la natura è antagonista ed è qualcosa che l’uomo
deve dominare, nell’estremo oriente non vi è dualismo-uomo natura, l’uomo è parte integrale del
mondo fisico ed è suo dovere non opporsi alla natura, ma essere in sintonia con essa e
sopportarne i disagi.
Fondersi con la natura, e quindi penetrare la capacità emotiva delle cose, per i contemporanei di
Murasaki vuol dire capire anche sé stessi. La poesia giapponese era soprattutto un’evocazione
lirica della natura nei suoi vari aspetti.
Vi è un vivo interesse per il mutare del clima e l’autunno è la stagione per eccellenza ne La storia di
Genji, poiché le immagini autunnali evocano acutamente il pathos dell’esistenza umana.
Nell’opera di Murasaki l’ambiente naturale di Heian Kyo è una forza vitale che influisce
pesantemente sui personaggi.

L’attenzione principale della letteratura dell’epoca è rivolta alla vita nella capitale, poiché solo chi
è urbano è civile. Heian Kyo ebbe come modello la capitale cinese Ch’ang-an e nei primi anni
costituì un simbolo di novità e di dinamismo, qualità esaltate dal termine più quotato dell’epoca:
Imamekashi (“attuale”, “moderno”).
Heian Kyo era formata da un rettangolo di circa 6 km da nord a sud e di 4 km da est a ovest, era
cinta da un muro di pietra alto circa un metro e ottanta e dotata di 2 fossato da ambedue i lati. Le
18 porte di accesso, come la famosa porta Rasho Mon, costituivano un luogo di ritrovo di ladri,
mendicanti e vagabondi.

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La pianta della città era perfettamente regolare nella divisione di strade e corsi. I quartieri, distinti
per numerazione progressiva, detti jo spesso davano il nome ai membri dell’aristocrazia che vi
risiedevano, come la dama Rokujo della Storia di Genji, che viveva nel sesto quartiere.
Le strade erano molto larghe e la più imponente era il Suzaku Oji, lunga 4 km e larga 90 metri, che
conduceva dal palazzo imperiale alla porta Rasho Mon.
Molte delle vie principali erano alberate e solo le famiglie più nobili potevano abitare sui grandi
corsi. Le case, escluse quelle della nobiltà, erano addossate le une alle altre.
Heian Kyo era dunque una scacchiera, l’unità amministrativa era di circa 6 ettari e gli abitanti di
ciascuna unità dovevano tenere pulite le loro strade e i controlli erano frequenti. Tutte le zone
avevano una numerazione progressiva per individuare ogni edificio.
Nella zona settentrionale vi era una zona chiusa detta dei “Nove recinti” in cui si trovava il
complesso del Grande Palazzo imperiale, una città nella città che conteneva il palazzo vero e
proprio e gli uffici governativi. Alcuni edifici erano imponenti e ricopiati dai modelli cinesi, facendo
contrasto altri edifici in puro stile giapponese, come il Seiryo Den, la residenza dell’imperatore.
I giardini all’interno del palazzo erano pochi e semplici, costituiti da ghiaia bianca rastrellata e
alberelli in vaso da cui, talvolta prendevano nomi coloro che abitavano all’interno del complesso.
Di fronte al palazzo delle cerimonie erano collocati i due più famosi alberi della città: il ciliegio di
sinistra e l’arancio di destra. Il principale giardino imperiale era lo Shinsen En (Giardino della divina
primavera)., dove l’imperator ee la corte si recavano per banchetti, intrattenimenti poetici ma
anche cerimonie ufficiali.
All’esterno del Grande Palazzo imperiale c’erano molti altri palazzi distaccati, dove alloggiavano le
mogli imperiali durante la gravidanza (evento “impuro”) e qualche volta anche gli imperatori. Le
famiglie più aristocratiche risiedevano vicino al recinto imperiale. Nel settimo quartiere si trovava
invece la zona commerciale, caratterizzata dai 2 mercati, l’orientale e l’occidentale, ciascuno dei
quali dotato di un grande ciliegio presso il quale venivano puniti i malfattori. Vicino al recinto
imperiale erano collocate anche le 2 prigioni di Destra e di Sinistra.
L’elegante simmetria di Heian Kyo non durò a lungo a causa degli eventi disastrosi e
dell’espansione urbanistica che portò ad un maggiore accumulo di popolazione nella parte nord-
orientale e la presenza di zone selvagge, quasi come campagna, nelle parti più periferiche della
città.
La città, costruita secondo la tradizione cinese, era circondata da colline a nord, a ovest e a est,
dalla grande catena del monte Hiei a nord-est costellata di templi a protezione dagli influssi
negativi, dai due fiumi Kamo e Katsura che, grazie alla naturale pendenza della città, permettevano
un afflusso costante di acqua da poter deviare lungo le strade e sfruttare a piacimento anche per
l’uso nei giardini privati.
La vita dell’aristocrazia giapponese era ben più spartana rispetto a quella nell’antica Roma, ma
rispondeva ai canoni di austerità della loro cultura e alle necessità economiche.

La tipica abitazione degli aristocratici come Genji era lo shinden, inizialmente ispirato alle
costruzioni cinesi e poi allontanatosi da esse nel corso del IX° secolo. Lo shinden era caratterizzato
da un tetto spiovente di tavole di legno o graticci, robuste colonne di legno grezzo, cornicioni
molto aggettanti, palafitte a vista per alzare l’edificio e renderlo meno umido, generalmente
costituito da un solo piano.
L’area media di una residenza patrizia era circa di due ettari e lo schema tipico consisteva in un
gruppo di edifici rettangolari collegati da lunghi passaggi coperti, l’intero complesso era cintato da
un muro bianco di pietra con due accessi per i carri e uno principale. Le porte variavano in altezza
e decorazione a seconda del rango del proprietario. Era quasi sempre presente un elegante
giardino con un lago artificiale decorato con file di massi, un’isoletta di pini e una o due collinette.
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Il terreno era ricoperto di fine sabbia bianca per riflettere il pallore lunare e due ruscelli
scorrevano in mezzo al complesso, trasformando i passaggi coperti in ponticelli all’occorrenza. Il
giardino e il suo lago erano spesso teatro di banchetti e feste, costituendo il punto focale della
casa. Il fabbricato principale in cui si trovava l’appartamento del padrone dava direttamente sul
giardino e ad esso si affiancavano i padiglioni riservati a parenti, amici, dipendenti di grado
elevato, mogli secondarie e bambini. Di solito ogni padiglione costituiva un unico locale che poteva
esser suddiviso in sale e camerette, in occasione dei banchetti i divisori dell’edificio principale
venivano rimossi per creare un unico vasto salone. L’edificio a nord era assegnato alla moglie
principale, detta “persona settentrionale”, e dietro la sua residenza si trovavano i locali per la
servitù, la dispensa e la cucina. I bagni e le lavanderie erano ai lati dei passaggi coperti.
La nota dominante di queste costruzioni erano la modestia e la tranquillità, pertanto non si
usavano colori troppo vivaci, lacche e pomposi ornamenti.
Il mobilio dell’epoca heian era estremamente elementare. Il pavimento era di legno nudo, ancora
privo di tatami, le sedie usate solo nei tempi e riservati alla famiglia imperiale. Gli spazi vuoti erano
raramente mitigati da mobili: cassoni, bracieri, paraventi, tavole da go.
Al centro degli appartamenti più grandi c’era un chodai (piattaforma con tende) che serviva da
camera da letto e da salottino, larga circa tre metri per lato e alta circa 50 cm, chiusa da tendaggi e
coperta di stuoie e cuscini. Di regola, lo spazio per dormire era al centro del chodai, si dormiva
completamente vestiti sopra la stuoia e coperti con lenzuoli di seta o di cotone.
Un mobile fondamentale era il kicho, un telaio spostabile alto quasi due metri con spesi tendaggi
che potevano essere dipinti e sostituiti. La parte inferiore del kicho non aveva bordo ed era
possibile passarvi oggetti da sotto. La loro funzione principale era proteggere le donne di casa da
occhi indiscreti, ma di fatto utilizzati anche ai fini del corteggiamento.
Nello shinden l’ambiente interno era fuso con quello esterno. Le stanze erano separate dalle
verande da pareti scorrevoli che potevano esser rimosse nella stagione calda.
La poca consistenza degli shinden e i grandi sbalzi climatici rendevano i cittadini della capitale
molto sensibili alla natura e al suo mutare. Le case erano tutt’altro che confortevoli e male
attrezzate per fronteggiare i rigori dell’inverno. Le donne erano costrette a proteggersi con pesanti
strati di indumenti e nella stagione invernale l’assenza di finestre e i cornicioni sporgenti
rendevano le stanze molto buie, portando al pericolo di incendi per l’utilizzo delle candele e dei
bracieri. Senza contare le ripercussioni che il vivere in un ambiente in penombra aveva sulla salute
mentale degli abitanti.
L’oscurità delle case heian è la causa di molte situazioni aggrovigliate: per esempio, nella Storia di
Genji il principe seduce la promessa sposa dell’imperatore senza sapere chi sia, provando che le
relazioni romantiche nascono e finiscono nella penombra.
L’intimità non era però favorita: pareti sottili e mobili permettono di spiare, dando origine al
termine narrativo kaimamiru, letteralmente “spiare da dietro l’angolo”.

Altra importante caratteristica dell’epoca Heian è la difficoltà dei trasporti, sia per terra a causa
delle strade disastrate che per mare.
Il mezzo di trasporto più rapido era il cavallo, ma erano riservati alle guardie, a messaggeri e a
nobili per affari urgenti. I nobili si spostavano tramite carri trainati da buoi. Il carro rappresentava
un segno di distinzione e i nobili facevano a gara per investire sulla loro decorazione. Il tipo di
carro più suntuoso, detto carro cinese, era riservato alla famiglia imperiale. A seconda del proprio
rango, era concesso l’utilizzo di un tipo di carro.
Il mezzo di trasporto supremo era però il palanchino, riservato esclusivamente al sovrano e alla
sua consorte principale. Per l’incoronazione l’imperatore era portato sul suo horen, un palanchino
riccamente decorato e sormontato da una grande fenice dorata.
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La lentezza e la scomodità dei viaggi faceva sì che la gente evitasse di uscire dalla capitale, se non
per stretta necessità. La difficoltà dei trasporti influisce anche sulle dimensioni del paese, che
appare immenso ai contemporanei di Murasaki. Sempre a causa delle difficili comunicazioni
interne, la grande cultura classica della capitale non era in grado di propagarsi alle province, per
contro la modesta cultura dei villaggi non aveva alcuna attrattiva per Genji e i suoi amici.
L’arretratezza del sistema di comunicazioni contribuì alla rovina del mondo di Murasaki. Della
Heian Kyo del X secolo non rimane nulla, dato il susseguirsi di eventi catastrofici e guerre. Il più
grande edificio rimasto in piedi è la grande sala della Fenice del tempio Byodo, mentre gli altri
edifici sono tutti ricostruzioni postume, di cui non è accertabile l’accuratezza a causa dell’assenza
di disegni dell’epoca. Resta però la bellezza dell’ambiente naturale, immutato nei secoli.

Cap. 3 Politica e Società.


Il fondamento dell’autorità della famiglia reale giapponese risiede nell’origine mitologica che la
collega alla dea Amaterasu.
Da principio la famiglia imperiale non era che una prima inter pares fra i vari clan. In seguito si
sviluppo un movimento centralizzatore culminato con la Grande Riforma del VII° secolo, che
mirava alla fine delle rivalità fra i clan e alla creazione di uno stato ad amministrazione
centralizzata di tipo cinese. L’imperatore doveva avere potere supremo su tutto il territorio e
tutta la popolazione, ma una monarchia centralizzata non si crea con un semplice decreto. Il
potere e il prestigio imperiale raggiunsero il culmine durante il regno dell’imperatore Kammu,
sotto il quale la capitale venne spostata a Heian Kyo. Nella nuova capitale si insediarono il sovrano
e il massiccio apparato burocratico di stampo cinese. Eppure già durante il regno di Kammu era
evidente che l’autorità del sovrano non era suprema e con i suoi successori l’allontanamento dal
modello cinese fu sempre più evidente. La riforma era intrinsecamente debole poiché si spostava
male con la realtà giapponese per via della sua aristocrazia. La riforma doveva indebolire
l’aristocrazia, ma di fatto la rafforzò: le grandi famiglie conservarono i loro privilegi e si servirono
del nuovo prestigio dell’imperatore e della sua corte per acquisire un potere ancora maggiore.
Ai tempi di Murasaki la Riforma era la legge fondamentale dello stato, l’imperatore la sua figura
centrale, ma il potere politico pratico risiedeva in altri mani.
Da circa metà del X secolo al sovrano rimasero solo due funzioni: sacerdotale e culturale. In
quanto discendente della dea Amaterasu, l’imperatore dedicava la gran parte del suo tempo a riti
e adempimenti religiosi, considerati funzione di governo. La partecipazione degli imperatori agli
affari di governo consisteva nel dare sanzione formale e religiosa alle leggi e ai decreti promulgati
in loro nome. Di fatto, delegavano i loro poteri pratici a persone loro subordinate, nello stesso
modo in cui loro avevano ricevuto la delega da Amaterasu.
La seconda funzione, quella culturale, della corte era di servire da centro della cultura
aristocratica. Quasi tutti gli imperatori successori di Kammu furono versati in una o più arti.
Durante l’epoca Heian fiorirono non solo le arti tradizionali, cioè la musica e la danza provenienti
dalla Cina, ma anche nuove forme, come la narrativa e la pittura.
Nonostante questo ruolo non insignificante nella crescita culturale del paese, gli imperatori
possono apparirci come figure apatiche e scialbe in confronto ai re occidentali.
Ponendo come esempio l’imperatore Ichijo, di cui troviamo menzione del diario di Murasaki e nel
Libro del Guanciale, egli ci appare come un uomo salito al trono ancora bambino, sposo di due
donne Fujiwara, diviso fra la sua residenza, costantemente data alle fiamme, e la casa del suocero
Michinaga. Egli assolve i suoi compiti cerimoniali e all’età di 39 anni abdica, ritirandosi a vita
monastica per poi morire poco dopo. Dalle cronache ufficiali non troviamo traccia della sua
personalità, ma dal Libro del Guanciale apprendiamo che era un giovane fine e sensibile, molto
interessato alla poesia, gentile e sentimentale.
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L’isolamento a cui erano sottoposti gli imperatori Heian di certo non favorì lo sviluppo di forti
personalità, nonostante non pregiudicasse lo sviluppo di una certa indipendenza intellettuale.
Ai tempi di Michinaga gli imperatori provavano a buon titolo risentimento verso i Fujiwara, dei
quali risultavano marionette in quanto ad applicazione del potere politico.
La famiglia Fujiwara e il suo capo erano i veri sovrani del paese, i creatori di imperatori.

L’ascesa dei Fujiwara al potere fu lenta e difficile. Il loro capostipite era uno de protagonisti della
Grande Riforma, fu l’autore del massacro della famiglia Soga e il suo cognome deriva proprio dal
rovesciamento della famiglia avversaria pianificato con il principe ereditario presso una pianta di
glicine.
I suoi discendenti conservarono e consolidarono la loro posizione a corte e per tre secoli furono in
continua lotta con i clan rivali, nonché fra loro stessi per decidere quale ramo della famiglia
sarebbe stato quello più importante: alla fine del IX secolo fu il ramo settentrionale a trionfare.
Dopo la metà del X° secolo la famiglia raggiunse l’egemonia assoluta: nel 967 Fujiwara no
Saneyori divenne cancelliere e questo anno segnò il passaggio dei pieni poteri ai Fujiwara. Due
anni dopo eliminarono il loro ultimo avversario, Minamoto no Takaakira.
L’oligarchia Fujiwara si consolidò per un secolo e non trovò ostacoli, tuttavia essi non aspirarono
mai a divenire sovrani. Non persero mai la loro influenza a corte e riuscirono a impadronirsi del
potere tramite la “politica dei matrimoni”, senza l’utilizzo della violenza.
I capi Fujiwara facevano in modo che le mogli imperiali fossero scelte esclusivamente fra le donne
della loro famiglia, cosicché il capofamiglia era immancabilmente suocero e/o nonno dei sovrani.
Dal X secolo i Fujiwara avevano invischiato gli imperatori a tal punto da averli sempre sotto
controllo: l’imperatore saliva al trono che era ancora un ragazzino e subito veniva fatto sposare
con una Fujiwara; il figlio della coppia veniva nominato principe ereditario e non appena il padre,
giunto alla trentina, era costretto ad abdicare, il ciclo ricominciava.
Al tempo di Murasaki, Fujiwara no Michinaga era suocero di 4 imperatori e nonno di altri 3.
Per poter perpetrare una politica del genere, era indispensabile disporre di molte figlie nubili,
feconde e graziose. Fu così fino al XI secolo, quando parecchie figlie Fujiwara morirono in gioventù,
si rivelarono sterili o madri di sole femmine. Salì al trono un imperatore non Fujiwara e vennero
attuate le prime misure per arginare il ruolo di questa famiglia.
Oltre che con il matrimonio, i Fujiwara tenevano sotto controllo gli imperatori obbligandoli ad
abdicare prima che dimostrassero spirito d’indipendenza. Traevano beneficio dai continui incendi
a palazzo che portavano a trasferire imperatore e seguito presso la loro dimora. La sposa Fujiwara
inoltre risiedeva presso la casa del padre durante la gravidanza e il principe veniva cresciuto dal
nonno materno.
Poligamia e abdicazione precoce producevano la presenza di più corti imperiali: quelle del sovrano
regnante, degli ex imperatori, dell’imperatrice madre e delle varie imperatrici.
I Fujiwara sfruttarono anche la malleabilità di imperatori posti sul trono ancora bambini tramite la
carica di “Reggente”.
Nel 858 il primo imperatore bambino fu Seiwa e fu nominato come reggente proprio un Fujiwara,
il quale però mantenne i suoi poteri anche quando Seiwa raggiunse la maturità. A 26 anni Seiwa fu
costretto ad abdicare, salì al trono suo figlio e fu nominato un nuovo reggente Fujiwara. Anche il
figlio abdicò appena maggiorenne. Il sovrano successivo fu un incompetente cinquantacinquenne
di nome Koko, perciò i Fujiwara stabilirono che i poteri imperiali dovevano essere delegati al loro
capofamiglia anche in presenza di un imperatore adulto, dando vita alla carica di Cancelliere.
Nei due secoli successivi il paese fu quasi sempre governato dal suocero o dal nonno
dell’imperatore.

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Reggenti e cancellieri non avevano, in origine, una posizione ufficiale nella gerarchia dello stato,
ma presto esautorarono tutti gli altri organi di governo. Di fatto era il consiglio amministrativo dei
Fujiwara, il mandokoro, a governare il paese con le sue camere, ed erano gli ordini di questo
consiglio a sostituirsi ai decreti imperiali. Eppure mai i Fujiwara ebbero la tentazione di rovesciare
l’imperatore, perché capivano che ai loro fini era più proficuo servirsi del prestigio della divina
famiglia imperiale che sostituirsi ad essa. Secondo gli storici, fu questa famiglia a salvare il trono e
a rendere la dinastia giapponese la più longeva al mondo, stabilendo un precedente che anche il
generale Tojo dovette rispettare.

Pur non avendo a disposizione un corpo militare, i Fujiwara a lungo riuscirono a scoprire e
neutralizzare ogni potenziale minaccia. Il primo pericolo era la possibilità di un imperatore
energico e indipendente, pericolo che veniva arginato attraverso la politica dei matrimoni. Altro
pericolo poteva scaturire dalle altre famiglie aristocratiche, di cui sistematicamente si
sbarazzarono. Il rivale più tenace della loro famiglia fu Sugawara no Michizane, da loro esiliato e la
sua famiglia spaccata. Michizane eventualmente venne reintegrato post mortem nella sua
posizione e i Fujiwara non mostrarono la minima intenzione di screditarlo agli occhi dei postumi.
La minaccia più grave proveniva dai clan militari nelle province, per i quali si servirono della
famiglia Minamoto come braccio armato.
La fonte principale di pericolo proveniva dalle spaccature interne della famiglia: a partire dal IX
secolo sarà il ramo settentrionale del clan a prevalere sugli altri.
La lotta interna consisteva nel tessere trame per portare la propria figlia a corte come Signora
Imperiale, accedendo così alla carica di reggente o cancelliere. Per portare la figlia sull’altare,
bisogna allearsi con una potente fazione a corte che facesse capo, se possibile, alla imperatrice
madre o pari grado. Le lotte interne avevano carattere personale e non riguardavano affatto
motivi politici: l’obiettivo era solo il potere per il gusto del potere.

Al tempo di Murasaki, Michinaga governava con autorità assoluta e i trent’anni del suo
predominio degnarono il culmine della potenza Fujiwara. Michinaga fu molto avvantaggiato dalla
sua progenie femminile e il potere che aveva era tale da non rendere necessario il ricoprire la
carica di reggente o cancelliere. Michinaga fu l’uomo più eminente del periodo Heian, tuttavia non
abbiamo nessun ritratto di lui e poche annotazione ci danno l’idea del suo carattere. Sappiamo
certamente che non era modesto, amava il lusso e l’ostentazione (eiga), era dedito alla vita
politica anche quando ritirato presso un monastero, vanesio e incline all’esser ubriaco e lascivo,
come Murasaki riporta.
Nel complesso la sua figura non ispira simpatia, così come quella degli altri capi Fujiwara.
Nondimeno questa famiglia riuscì ad assicurare al paese un lungo periodo di pace.

La società Heian era fondata su un preciso sistema gerarchico e l’amministrazione dello stato era
affidata all’aristocrazia.
I codici della Riforma prevedevano dieci ranghi di corte, i primi tre (i cui membri erano detti
kugyo) erano beneficiari di cospicui privilegi. I gradi quarto e quinto erano di nomina imperiale,
mentre i restanti erano nominati dal gran consiglio e non godevano di privilegi. Il rango a corte
determinava sia il grado nell’amministrazione statale che la ricchezza personale (l’opposto che in
Cina). I Nobili dell’alta corte (rango 1-3) erano reclutati nei rami collaterali della famiglia imperiale
e nei grandi clan familiari (kabane) preesistenti alla Riforma. I membri di quarto e quinto dai clan
meno potenti della regione Yamato, mentre i restanti dai clan minori nelle province.
I membri dei primi 5 ranghi ricavavano le loro rendite dall’assegnazione di terre coltivate a riso.
Essi potevano mandare figli e nipoti all’università imperiale che poi, raggiunta la maturità,
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accedevano in automatico al loro stesso rango; potevano indossare vestiti cerimoniali, avevano
accesso alla camera delle udienze imperiali, ricevevano speciali assegnazioni di tessuti di seta e
cotone, disponevano di aitanti guardie e messaggeri. In più i kugyo godevano del privilegio
dell’assegnazione di famiglie di sostentamento, cioè famiglie contadine dalle quali il nobile
percepiva tutti i tributi e le tasse che di norma sarebbero stati di pertinenza dello stato. Avevano
anche il diritto di assumere a spesa dello Stato personale per la propria casa. Alla loro morte
avevano diritto ad un tumolo.
Tutti gli appartenenti ad un rango godevano di privilegi nei processi legali, niente lavoro forzato,
niente tributi in natura o coscrizione.
Il rango regolava la vita dell’aristocrazia, vi erano norme rigorose che regolavano il tipo di abiti da
poter indossare, il loro colore, le acconciature, l’altezza del cancello di casa e persino il tipo di
ventaglio.
L’appartenenza ad un rango era essenziale per essere definiti yoki hito, cioè persona di qualità.
Talvolta il rango si assegnava post mortem.
La promozione ad un rango superiore era una vera ossessione ed essa dipendeva spesso dalle
relazioni tra famiglie, specialmente se la famiglia da prendere in considerazione è quella dei
Fujiwara nel IX secolo.
I meriti personali non contavano nulla in Giappone e l’immobilismo interno del potere centrale
produsse una fossilizzazione analoga a quella della Roma degli Antonini.
La società Heian presenta le stesse caratteristiche di tutti i gruppi aristocratici ristretti e nel
romanzo di Murasaki questo è palese: i suoi personaggi sono tutti imparentati fra loro e molto
puntigliosi nel valutare chi è dentro o fuori dal loro mondo.
La definizione della posizione sociale non era affatto uno scherzo. Il criterio per valutare una
persona era solo uno: la nascita. Un uomo del terzo rango è superiore ad un uomo del quinto ed
un uomo che non possiede ranghi è inferiore a chiunque ne abbia. Il rango sancisce anche il tipo di
rapporto personale che si creava fra persone, ne è un esempio lo stesso Genji che riserva maggiori
attenzioni a dama Murasaki rispetto a dama Akashi perché la prima proviene da un rango più
elevato. Quando Akashi dà una figlia a Genji, egli gliela toglie e la fa adottare a Murasaki e tutto ciò
rientra nella normalità. Il rango sancisce anche la gerarchia delle mogli per l’imperatore, con tutte
le complicazioni sentimentali che comportava.

La stretta correlazione fra ranghi e cariche di governo ebbe conseguenze deleterie sul livello
qualitativo dell’amministrazione dello Stato. Non adottando un metodo meritocratico, già all’inizio
dell’era heian parecchi organi di governo avevano ormai perduto effettiva funzione, il personale
risultava in soprannumero e si accavallavano le competenze dei vari uffici. La carica poi durava in
eterno e chi la copriva passava le giornate nella noia.
La macchina burocratica si trovò sempre più impegnata in cerimonie e formalità, i ritardi e le
inefficienze erano incredibili anche per provvedimenti molto semplici come lo stabilire un tipo di
acconciatura.
Le riunioni di lavoro fra imperatore e funzionari superiori man mano divennero delle complicate
cerimonie consistenti in un banchetto, gli orari d’ufficio passarono da diurni (4 am-12pm) a
notturni, non era raro trovare funzionari espletare formalità noiose in tarda serata accompagnati
dall’alcol.
Le nomine alle alte cariche si facevano quasi sempre per nascita, senza tener conto delle capacità
personali, la corruzione cresceva e assai diffuso era il commercio di cariche e raccomandazioni.
Frequentissima era la vendita di cariche nella Guardia imperiale e nella polizia, generando un file
di soldati incompetenti che puntualmente le prendevano dai monaci del monte Hiei.

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I capi Fujiwara presero in mano una situazione disastrosa reggendo il paese per mezzo dei loro
uffici privati, in cui risiedeva il vero potere decisionale ed esecutivo, così che anche il primo grande
Shogun prese a modello questi organismi familiari. I Fujiwara anteposero sempre il proprio
interesse personale a quello del paese, tuttavia furono capaci di dare al Giappone quella forma di
governo semplice ed efficiente che gli organismi amministrativi di tipo cinese, ma privi di esami
per la meritocrazia, non erano stati in grado di dare.

L’ascesa e il predominio politico e sociale dei Fujiwara erano fondati sulla grande potenza
economica della famiglia. In tutta la storia giapponese le posizioni politico sociali sono sempre
state in diretto rapporto con il controllo delle terre a riso e dei proventi. La nobiltà di corte perse
effettivamente potere quando non ebbe più il controllo della terra.
Al tempo di Murasaki i traffici e il commercio avevano ben poca importanza, la moneta circolante
era scarsissima e quasi tutti i pagamenti erano fatti in natura tramite materie prime, prodotti
artigianali, ma soprattutto riso.
Tra gli obiettivi principali della Grande Riforma vi era la ridistribuzione del potere economico:
tutte le terre dovevano essere di proprietà dello Stato e si adottò il sistema dei campi di
sostentamento, per il quale ogni cittadino era assegnatario di un appezzamento di terra a riso che,
alla sua morte, tornava al demanio. Ai maschi spettavano due ettari e mezzo, alle femmine uno e
mezzo. Il sistema era ottimo ma non riuscì mai a tradursi in pratica. Fin dal principio vennero
escluse importanti zone risicole, si fecero assegnazioni speciali in rapporto al rango che
prevedevano l’esenzione dalle tasse. Esenti erano anche le terre bonificate dai privati con
permesso governativo, che divennero persino ereditarie. Le assegnazioni permisero di accumulare
ingenti ricchezze. I Fujiwara disponevano di rendite tali da essere la più ricca famiglia del paese.

AI tempi di Murasaki la base di ricchezza dei Fujiwara e degli altri potenti non era più solo il campo
di sostentamento, ma il feudo. Michinaga ne controllava il maggior numero. Il feudo ebbe un ruolo
fondamentale in Giappone ed ebbe origine dall’assegnazione di terre, esenti da tasse, a enti
religiosi. Durante il periodo Nara le terre esentasse in proprietà privata aumentarono e dal VIII°
secolo molti piccoli assegnatari cominciarono con l’affidare le loro terre alle grandi famiglie per
sottrarle alle pretese del fisco. Le terre di proprietà privata erano dette sho e dal X secolo
costituirono la maggior fonte di reddito per la classe dominante. Tuttavia fra il feudo inteso come
sho e la concezione occidentale dello stesso termine vi è differenza, poiché essi hanno in comune
sono l’esenzione fiscale. Lo sho non implicava mai un rapporto di dipendenza feudale, il
proprietario era solo un nobile che riscuoteva una quota dei raccolti. All’epoca di Genji vi fu un
rapido estendersi dell’immunità fiscali, i proprietari dei feudi ricevevano dal governo centrale
patenti ufficiali che riconoscevano le loro terre come sho, ne fissavano i confini e soprattutto le
esentavano dalle tasse. Verso la fine dell’era heian circa 80% delle terre erano sho.
Una caratteristica peculiare del feudo giapponese era un sistema di diritti detti shiki legati alle
cariche statali ereditarie; consistevano nel diritto di sfruttare la terra e di imporre tributi in natura
o in lavoro, generalmente però si trattava di quote fisse del raccolto. Questi diritti potevano esser
trasmessi ad altri: con il trasferimento verso il basso il titolare di un feudo concedeva un
beneficium a chi materialmente coltivava e gestiva i terreni, beneficium che poteva aumentare o
revocare; l’affidamento era il trasferimento verso l’alto in cui un beneficiario cedeva
nominalmente i suoi diritti ad un ente più potente di lui in cambio di esenzioni fiscali o qualche
altra forma di protezione. In teoria cedeva la sua quota, ma nella pratica ne manteneva il possesso
impegnandosi a versare una certa quota dei raccolti. Il sistema si complicò quando prese piede la
pratica dei trasferimenti verso l’alto fino a raggiungere la cima della piramide sociale: questi
consegnatari finali proteggevano il feudo da qualsiasi ingerenza persino del governo centrale.
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La quota più alta dei raccolti andava di solito al Ryochu (simile al signore feudale d’occidente) e
all’Honke (tutore legale) che si trovava alla sommità della scala degli affidamenti. Queste cariche
molto redditizie finivano col concentrarsi nelle mani dei personaggi più eminenti, insomma i
Fujiwara, i quali reinvestivano i loro redditi per lo sviluppo di nuovi feudi.
Il sistema dei feudi era ovviamente un rinnegare la Grande Riforma e per frenare la loro diffusione
fu effettuato tentativo, ma senza successo.
Genji e i suoi amici dovevano la loro ricchezza ai diritti che avevano acquisito come signori o tutori
di moltissimi feudi esenti da tasse. Genji stesso affida i suoi vasti possedimenti e le sue ricchezze a
due donne. La posizione relativamente privilegiata delle donne altolocate era conseguenza della
loro capacità giuridica di ereditare e di essere titolari di diritti feudali.
Né uomini né donne si preoccupavano delle condizioni in cui si viveva nel loro feudo, come
azionisti moderni si preoccupavano solo di farli fruttare.
Senza dubbio il sottrarre terre al fisco da parte dell’aristocrazia indebolì il governo centrale al
punto che esso trovò insopportabile la pressione militare delle province. La debolezza delle
finanze statali provocava una crescente corruzione che abbassava il livello qualitativo delle
amministrazioni provinciali, indebolendo il controllo del governo centrale. Il consolidarsi di feudi
semi indipendenti favorì il separatismo.
Per contro, l’accumulo di ricchezze permise il mecenatismo e lo sviluppo delle arti nelle città.

Il Giappone di Murasaki contava circa 5 milioni di abitanti, di cui solo 50 000 abitavano nelle città e
meno di 5000 erano parte della gerarchia. Le famose scrittrici dell’epoca parlano quasi
esclusivamente della gente di alto lignaggio di Heian Kyo e tendono a vedere il resto della
popolazione con gli occhi di essa. Tuttavia quasi tutte queste dame provenivano dalla classe
provinciale, cioè la classe media, nonostante le loro famiglie potessero vantare anche origini
nobili: ricevere un incarico provinciale rovinava la reputazione ed era difficile reintegrarsi a corte.
I funzionari provinciali concluso il loro impiego spesso preferivano rimanere nelle province e
incrementavano le loro proprietà appoggiandosi a gruppi armati, divenendo i primi esempi di
capi della classe militare nascente. Fu proprio una famiglia provinciale a organizzare l’unica
importante rivolta dell’epoca Murasaki. Taira no Tadatsune apparteneva a un ramo cadetto della
famiglia imperiale stabilitosi a Chiba, instaurandovi un dominio ereditario. Cominciò ad estendere i
propri domini arrivando nel 1028 a scontrarsi con la polizia imperiale, che si rivelò inefficace. Il
governo chiese aiuto ai Minamoto, il clan da sempre braccio armato dei Fujiwara per ristabilire
l’ordine. Tadatsune non combatté contro i famigerati Minamoto per scelta e morì durante il
viaggio verso la capitale.
Le province erano la fonte della forza economica del paese e presto anche quella militare, tuttavia
per chi abitava nella capitale esse erano solo luoghi deprimenti, selvaggi ed arretrati. Vivere in una
provincia significava non accedere alle delizie materiali e intellettuali di una società raffinata.
Accadeva quindi che chi era nominato governatore in provincia inviasse là un sostituto, mentre lui
restava nella capitale, provocando un grave deterioramento del livello qualitativo delle
amministrazioni provinciali. I pochi provinciali che compaiono nella storia di Genji sono descritti
come zotici, sprovvisti di buon gusto e che provano a imitare le persone di qualità senza successo.
Le persone di qualità avevano in sommo disprezzo i militari, poiché legati alle province e perché
dediti al mestiere della violenza. Non stupisce che le forze armate statali fossero tanto incapaci da
richiedere l’intervento dei Minamoto. Solo in rari casi appaiono nella letteratura Heian uomini
d’arme, tanto ammirati invece nella letteratura successiva.
Scendendo nella scala sociale arriviamo ai contadini, ai pescatori, ai boscaioli, agli operai, cioè alla
stragrande maggioranza della popolazione e l’unica forza produttiva. La letteratura heian non
parla quasi mai delle masse lavoratrici. All’inizio del X secolo la distinzione fra liberi e schiavi aveva
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perso gran parte del suo significato, dato che gli strati più bassi dei liberi avevano assorbito gli
schiavi in una massa più o meno uguale, formata principalmente da contadini che lavoravano nelle
risaie dei proprietari terrier e dei feudatari. Date le tasse, il loro tenore di vita era simile allo stato
di natura narrato da Hobbes. Il contadino era analfabeta, succube di terrori e di superstizioni,
ignaro di tutto ciò che era al di là della sua esperienza, lavorava tutto il giorno in una routine resa
meno monotona solo dalle feste shintoiste, dai matrimoni, dalle nascite e dai funerali. Contadino
e famiglia vivevano in tuguri spogli, con un vitto elementare e inclini alla fuga presso terre
esentasse. Per arginare queste fughe, i controlli erano severi. L’atteggiamento delle persone di
qualità nei confronti dei plebei è conseguenza logica del monolitismo gerarchico, per cui
contadini ed operai non solo erano fuori dalla società, ma fuori dall’esistenza umana. Murasaki
stessa li considerava strani e incomprensibili, li descrive come bizzarri e rozzi, rumorosi e parlanti
una lingua inintelligibile. Questo modo di considerare le classi inferiori è comune a quasi tutti gli
scrittori dell’epoca.

Si ricava dalla letteratura l’impressione che il mondo di Genji fosse particolarmente statico,
tuttavia qualcosa lentamente si muoveva. Molti fattori avevano minato la struttura aristocratica:
la debolezza economica e militare del governo centrale, la fossilizzazione della gerarchia, la
corruzione delle amministrazioni provinciali, l’incapacità del governo di mantenere l’ordine
pubblico.
La polizia imperiale non era in grado neanche di sventare rapine in pieno giorno, ancor meno le
scorrerie dei monaci delle montagne, che seminavano il terrore per far ascoltare le proprie
richieste al governo. Il governo era così costretto a rivolgersi a famiglie provinciali come i
Minamoto, dando legna al fuoco delle caste militari delle province. Per le persone di qualità i
militari non erano che esseri spregevoli, buoni per sedare qualche sommossa, ma furono proprio
questi zotici a mandare in pezzi il mondo di Murasaki.

Cap. 4 Le Religioni.
Nel romanzo di Murasaki i personaggi manifestano un misto di superstizione e religione, in cui
shintoismo a buddhismo convivono. Ne è un esempio il passaggio in cui Ukifune non può visitare il
tempio (buddhista) poiché è impura (shintoismo) e ha avuto un brutto sogno (superstizione). La
mescolanza di credenze religiose è tipica dell’eclettismo giapponese. L’assenza di un odio
teologico fra shintoismo e il buddhismo non è dovuto a un’intrinseca armonia delle due fedi. Anzi,
il buddhismo, ponendo l’accento sul dolore della vita terrena, rifiutando i piaceri effimeri,
offrendo salvezza tramite l’abbandono del mondo, appare in netto contrasto con lo shintoismo, i
cui temi fondamentali sono l’accettazione gioiosa della natura, la gratitudine per i suoi doni e
l’orrore per la malattia e la morte, fonte di contaminazione. Le due religioni ebbero un rapporto
pacifico per via della tendenza al sincretismo del buddhismo Mahayana, che non cerco mai di
annientare la religione locale, e della semplicità dello shintoismo, privo di liturgie complicate,
santi, martiri o gerarchia ecclesiastica. Lo shintoismo era una religione molto vaga e amorfa che
ebbe un nome (shin-to, via degli dèi) solo nel momento di doverla distinguere dalla nuova fede,
cioè il buddhismo (butsu-do, la via del buddha).
La religione locale poté sopravvivere a ogni provocazione esterna proprio perché mancava di
qualsiasi carattere positivo. Specialmente per i contadini, lo shintoismo era tutta la religione,
mentre il buddhismo influenzò maggiormente l’aristocrazia, che tuttavia non abbandonò mai le
credenze shintoiste in materia di contaminazione, astinenza, negromanzia e magia. Credenze e
pratiche condizionavano la vita quotidiana dell’aristocrazia. L’impurità rituale contagiava in egual
misura tutti i membri della famiglia e della servitù: la casa non poteva ricevere visitatori, chi si

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trovava a dover viaggiare essendo tabù doveva segnalarlo applicando una placchetta alla
pettinatura per tener lontani gli estranei.

Altra grande dottrina importata dal continente era il confucianesimo. Giunto in Giappone un
secolo prima rispetto ai sutra, i suoi scritti erano già materia di studio per i giovani aristocratici. La
concezione confuciana della morte differiva da quella shintoista, eppure proprio come il
buddhismo la popolazione fece convivere i nuovi aspetti confuciani con quelli delle loro credenze.
Al tempo di Murasaki il confucianesimo aveva una grande influenza nella vita dell’aristocrazia,
soprattutto per quanto atteneva ai rapporti familiari. Le dottrine confuciane rafforzarono i
sentimenti di solidarietà e orgoglio di famiglia dei clan, introducendo la venerazione degli avi, la
pietà filiale, la continuità familiare. Nel periodo heian tutti i rapporti sociali avevano come base la
famiglia o la casa (ke), alla cui testa stava il patriarca (kacho), e la politica era una politica di
famiglia e di clan. L’importanza data alla continuità della famiglia e la diffusa consuetudine
dell’adozione traggono origine dal principio confuciano che la mancanza di progenie è il peggiore
dei delitti.
Per il confucianesimo le azioni degli uomini possono avere gravi conseguenze sull’ordine naturale,
per cui la condotta di un imperatore poteva scatenare tifoni o terremoti.
I principali concetti di Confucio erano tenuti a mente, ma non osservati con troppo rigore.
Parricidio e matricidio erano considerati i delitti peggiori, benché in Giappone fossero puniti meno
crudelmente che in Cina. La dottrina confuciana ebbe un’influenza preponderante nel campo
dell’educazione, di cui formava la materia base all’università imperiale. Al tempo di Murasaki tali
studi si erano però inariditi e l’aristocrazia Heian attribuiva maggiore importanza ad un complicato
sistema di credenze basato sulle teorie dello yin e dello yang.

Nella storia di Genji e nel suo mondo il buddhismo era la religione dominante, pienamente
consolidata e con un ruolo principe nella vita religiosa, culturale, artistica e politica del paese
paragonabile a quella del cattolicesimo nell’Europa medievale.
La setta più importante era la Tendai. Proveniente dalla Cina, il suo credo era la dottrina classica
della salvezza universale: la natura del Buddha è in ognuno di noi, scopo della vita deve essere la
ricerca di questa a natura fino a quando il ciclo delle reincarnazioni si arresta avendo raggiunto la
perfezione. Il libro fondamentale è il Sutra del Loto. La tendai era votata al sincretismo e
incorporava non solo gli altri tipi di buddhismi, ma anche le tante divinità shintoiste come avatar di
Buddha. Le tensioni con altre sette derivavano principalmente per questioni patrimoniali o
organizzative.
Altrettanto sincretista era la setta Shingon, di origine indiana, la quale si adattava anche a
shintoismo e taoismo. La sua essenza però era completamente diversa: poneva l’accento sulla
complessa liturgia, sulle pitture magiche (mandala), formule, rituali magici, simboli sacri, divinità di
cui solo gli iniziati avevano un quadro completo. L’ermetismo della setta Shingon fa pensare alla
corrente zen, con la grande importanza data alla necessità di comunicazione diretta fra maestro e
allievo, tuttavia nello zen il maestro deve limitarsi a guidare e spronare l’allievo verso la
comprensione della verità, dato che il risveglio deve manifestarsi solo dentro l’individuo. Lo
shingon dispone insegnamenti precisi che il maestro può comunicare a voce a pochi eletti,
mettendoli così in grado di raggiungere l’illuminazione.
Lo Shingon poi aveva un particolare gusto per le liturgie fastose, il che gli fece guadagnare il favore
dell’aristocrazia Heian. Favoriva inoltre l’arte e la cultura, poiché nell’arte si rivela lo stato di
perfezione.

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La Tendai godeva certamente di una posizione privilegiata nel paese, ma non esclusiva. Lo Shingon
aveva forti appoggi ufficiali e nella sua gerarchia facevano parte molti membri della famiglia
imperiale e di quella Fujiwara.
Fra le varie correnti del buddhismo dell’epoca di Murasaki due influirono più delle altre sulle sette,
ma si consolidarono solo nel periodo Kamakura: l’amidismo e lo zen.
L’amidismo era una forma di buddhismo popolare il cui testo di riferimento era L’essenza della
salvazione, dotato di descrizione delle torture dell’inferno e delle delizie del paradiso. Il libro
rispondeva ai timori e alle speranze delle masse. Fondamento dell’amidismo era la convizione che
gli uomini non erano più in grandi di raggiungere lo stato di Nirvana conducendo una vita virtuosa,
ma Buddha Amida, nella sua misericordia, li avrebbe aiutati qualora avessero invocato il suo nome
al momento della morte. In questo modo il fedele sarebbe rinato in automatico nel Paradiso
occidentale.
L’amidismo si rivolgeva anche alle persone di qualità, contava fra le sue fila i sacerdoti della setta
tendai, Michinaga e l’imperatore Ichijo, così come Murasaki.
Quanto allo Zen, pare sia giunto in Giappone dalla cina poco prima della Grande Riforma e diviene
una setta a sé stante solo secoli dopo l’era Heian. Ha avuto scarso seguito nella corte di Murasaki e
la parola Zen (dhyana) non compare mai nel suo romanzo, persino il tè, tanto importante nel
cerimoniale, sarebbe comparso solo 300 anni dopo nel paese. Lo zen influenzò comunque le
credenze religiose tramite il fondatore della setta Tendai, che aveva accettato molti dei suoi
insegnamenti, come la calma contemplazione e il misticismo.

Si può dire che la chiesa buddhista ebbe due caratteristiche molto significative: la prima fu il suo
successo secolare, poiché le sue istituzioni sono paragonabile a quelle della Chiesa d’Inghiltera del
XVIII° secolo. La famiglia imperiale rimaneva legata allo shintoismo, ma la chiesa buddhista trovava
il suo sostegno nel governo centrale e protezione presso i Fujiwara. Gli affari buddhisti erano
competenza del ministero degli affari civili e le nomine nella gerarchia ecclesiastica e la loro
salvaguardia spettavano all’imperatore. I gradi della gerarchia ecclesiastica corrispondevano a
quelli di corte e i capi dei grandi complessi monastici erano quasi sempre principi imperiali.
Verso la fine del X secolo parecchie istituzioni buddhiste erano tanto potenti da opporsi alle
nomine governative non gradite e sfruttavano la loro influenza per scopi materiali. I grandi templi
buddhisti avevano estese proprietà terriere e ad essi i piccoli proprietari affidavano le loro terre in
cambio di esenzioni fiscali e di protezione. Se per i loro scopi la pressione politica non era
sufficiente, ricorrevano a bande di preti soldati.
La potenza e la prosperità dei grandi templi continuarono a crescere nei secoli successivi.
Il buddhismo heian favorì la scultura, l’architettura e le arti decorative grazie al mecenatismo dei
ricchi templi.

Per Genji e i suoi amici la chiesa buddhista serviva a molti scopi, innanzitutto per gite e
pellegrinaggi che distraevano dalla quotidianità. Fornivano anche da pretesto per avventure
amorose. D'altronde per molti nobili heian la religione era ormai ridotta a pura formalità.
Per altri però si trattava di una religione nel vero senso della parola e per un nobile ben educato
era indispensabile conoscere il titolo e il contenuto generale dei sutra. Studiare e recitare i sutra
era uno dei modi preferiti per acquistare meriti spirituali. Ciò valeva anche per le dame.
Tutti conoscevano lo spirito fondamentale del buddhismo: lo spirito della transitorietà delle cose
terrene (mujokan).
La scuola giapponese dà al tema della sofferenza un ruolo minore, ma insiste sulla transitorietà
che conduce direttamente ai concetti che tutto è vano e l’attaccamento alle cose terrene produce
sofferenza. Il solo fatto di esistere produce sofferenza. Il dolore non va sopportato come un
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dovere, insegna che le cose materiali non hanno importanza e la necessità di fuggire dal mondo
tramite la meditazione o il ritiro monastico. In quanto al concetto di caducità viene posto
l’accento sulla disintegrazione totale del nostro essere finisco e favorendo la cremazione metteva
in risalto la natura finale della morte.
L’insistenza buddhista sulla transitorietà ha esercitato un’influenza profonda sulla letteratura del
periodo Heian, nelle poesie ritroviamo il memento mori nella forma di fiori appassiti, a monito che
tutto ciò che è bello presto finisce. Il giapponese ha un atteggiamento più rassegnato verso
l’esistenza, il contrario del carpe diem occidentale. La stessa malinconia di Murasaki è
l’espressione della sua piena comprensione della transitorietà dell’esistenza, dovuta anche alla
morte immatura del marito. I suoi personaggi sono stanchi della caducità del mondo, fin dalla loro
infanzia sono stati posti davanti alla morte dei cari e sono consci della propria mortalità.
Il buddhismo mahayana insisteva anche sul carattere illusorio di ogni fenomeno naturale, una
sorta di evanescenza e irrealtà della vita. Il mondo fisico è un’illusione, la vita non ha più sostanza
della rugiada e questo senso viene comunicato tramite fantasie e sogni. I personaggi della storia di
Genji sognano in continuazione e i loro sogni sono strettamente connessi alla loro vita.
La vita è come un ponte di sogni attraverso il quale noi passiamo da un’esistenza all’altra.
Il continuo riferirsi all’evanescenza però non deve esser sempre preso alla lettera, poiché le
persone che si consideravano sensibili ritenevano doveroso fare dichiarazioni di malinconia. Il
mujokan, la stanchezza di vivere, diveniva puramente convenzionale.
Pur con tutti i suoi aspetti mondani, il buddhismo era una forza religioso vitale e la sua visione
influenzava il modo di considerare il mondo fisico. Il buddhismo giapponese insisteva inoltre
nell’affermare che vivere nell’epoca attuale era una disgrazia, poiché essa era l’era degli ultimi
giorni della legge. Secondo gli studiosi questi ultimi giorni della legge, segnati dalla decadenza,
sarebbero cominciati nel XI° secolo, e durante essi nessuno si sarebbe più attenuto ai
comandamenti. Il senso escatologico di questa consapevolezza è simile alla percezione dell’Anno
Mille in Europa.
Il concetto che buddhista per il quale il destino di ogni individuo è determinato dalle sue azioni
influenzò particolarmente il pensiero dei contemporanei di Murasaki. Il fato viene inteso come una
catena di causa ed effetto, karma, ed esso viene forgiato tenendo conto di tutte le nostre vite. Un
destino avverso è imputato alle cattive azioni svolte in questa vita o in quella precedente, al
contrario attributi positivi come la bellezza di una donna richiamano una condotta positiva
nell’esistenza precedente. Questa forma di determinismo permetteva sempre di dare una
spiegazione anche ai fatti più comuni e banali e Murasaki vi fa molto affidamento. L’individuo è
impotente nei confronti del proprio attuale destino perché non può cambiare ciò che ha fatto
nella sua vita precedente, può solo avere voce in capitolo per il futuro e anche esso rimane
comunque macchiato da ciò che è stato fatto in precedenza.
Il buddhismo offriva un rimedio al dolore e alla rassegnazione: eliminare il desiderio, soprattutto
quello della sopravvivenza personale. Ritirandosi in una vita monastica e dedicandosi alla
preghiera, alla meditazione e alle pratiche mistiche, un individuo poteva gradualmente spogliarsi
del desiderio. Le donne di Murasaki potevano trovare conforto dalle sofferenze ritirandosi in un
monastero o in un convento e migliorando così anche le loro possibilità nella fase successiva
dell’esistenza. Non dimentichiamo che la massima aspirazione era reincarnarsi in un uomo.
Nel periodo Heian queste aspirazioni non esercitavano alcun richiamo sulle masse ignoranti,
poiché per esse le sofferenze del mondo erano fin troppo reali.
Per gli aristocratici invece il pensiero che primo o poi un uomo si sarebbe dovuto ritirare a vita
monastica era sempre presente. Faceva parte delle convenzioni aristocratiche esprimere invidia
per chi riusciva davvero a entrare in un monastero, ma la vita al loro interno era dura e squallida
tanto da esser paragonabile a una morte civile. Il ritiro talvolta offriva però anche vantaggi e
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procurava poche restrizioni, come nel caso di chi sfruttava la vita monastica per dar spazio a
intrighi amorosi. In altri casi invece il ritiro era sincero e votato alla propria spiritualità. La rinuncia
buddhista richiedeva sacrifici ben più duri del semplice abbandono dei piaceri sensuali: esigeva il
distacco completo dalle persone amate, che dovevano esser allontanate anche dai propri
pensieri. Bisogna estirpare gli affetti umani poiché essi sono il legame più tenace allo sfuggente
mondo delle illusioni. Prendere i voti quando siamo ancora legati ad essi conduce alla catastrofe.
L’allontanamento mirava all’autoannientamento totale e ciò portava benefici sia all’individuo che
agli altri.
Uno degli aspetti del buddhismo che ebbe grande influenza sul pensiero e sui comportamenti del
periodo Heian fu la sua posizione nei confronti delle donne, che sono inferiori agli uomini e
portatrici di male. I comportamenti furono influenzati anche dalla proibizione buddhista della
violenza e della soppressione della vita, come si evince dalle punizioni miti e il ricordo all’esilio più
che alla pena di morte. Ciò giustificava anche il disprezzo per la guerra e chi la praticava. Si provava
anche pietà per gli animali. Tuttavia le persone di qualità erano del tutto indifferenti alle
sofferenze delle classi inferiori e frequente era la violenza, persino quella praticata dai monaci
guerrieri.

Cap.5 Le superstizioni.
Nella vita quotidiana, la gente faceva affidamento più alla superstizione, categoria che
raccoglieva esorcismo, divinazione e pratiche simili, che alla religione.
Ai tempi di Murasaki vi era una vasta congerie di credenze popolari sviluppatesi e intrecciatesi nel
corso dei secoli. Alcune come la stregoneria e la negromanzia risentivano dell’influenza dello
shintoismo e rappresentano la tendenza sciamanica della religione locale. Altre riguardanti
demoni e fantasmi provenivano dalla tradizione popolare, mentre un grande gruppo era costituito
da quelle di provenienza cinese.
Insieme al confucianesimo, il Giappone aveva importato dalla Cina un complesso sistema di
tradizioni divinatorie basato sul dualismo ying-yang e sui 5 elementi.
Al tempo di Murasaki ci si interessava assai più all’idea di un ordine magico che sovraintendeva
agli eventi umani, con l’alternanza degli elementi universali yin (femminile, oscuro) e yang
(maschile, luminoso). Uno dei reparti più importanti del ministero degli affari centrali era l’Ufficio
dei Presagi (detto anche Ufficio YingYang), ad esso competevano i calcoli astrologici, cronologici e
probabilistici, lo studio degli auspici favorevoli e non. I maestri ying yang mettevano le loro
conoscenze al servizio della pratica politica.
Una grande importanza avevano i tabù direzionali, i quali univano l’idea shintoista di astinenza si
unisce alla concezione ying-yang delle direzioni non propizie. Ve ne erano tre tipi: la direzione
infausta permanente nord-est, la direzione sempre infausta in determinati periodi della vita, la
direzione temporaneamente infausta dovuta alla presenza di divinità vaganti.
Col variare delle divinità e delle direzioni interdette certe attività e certi movimenti risultavano
proibiti, come per esempio la riparazione di un cancello mentre vi presidiava un demone.
I tabù direzionali potevano essere arginati cambiando per esempio il percorso per giungere a una
destinazione. Gli aristocratici furono i primi a cambiare la propria via in virtù dei tabù direzionali,
per cui alcune costruzioni o alcuni eventi, compresi attacchi strategici, dovevano attendere la fine
del tabù. Le masse li adottarono solo a partire dal XV secolo.
I tabù potevano derivare anche dal ciclo sessantennale su cui si basava la divinazione nel sistema
ying-yang. Uno dei compiti fondamentali dei maestri era di fare previsioni sul corso dell’anno e il
governo le considerava con grande attenzione sia per glie venti pubblici che per regolare la vita
privata, Norme particolarmente rigide regolavano i movimenti dell’imperatore in virtù dei tabù. Si
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ricorreva al ciclo sessantennale anche per decisioni insignificanti, come il giorno in cui tagliare i
capelli senza correre pericoli.
Gli affari di stato più urgenti potevano subire ritardi a causa delle superstizioni cronologiche.
Vi erano poi numerose credenze popolari, come quella che i crisantemi allungassero la vita, che lo
starnuto di una terza persona durante una conversazione fra altre due indicasse una bugia, il
lancio di maledizioni tramite la sepoltura di un’immagine di carta attraverso riti etc…
Per liberarsi di una maledizione ovviamente bisognava rivolgersi ad un maestro dello yin-yang.

Il mondo Heian era ricco di folletti, demoni, spiriti e altri esseri soprannaturali, come tengu e volpi.
Gli spiriti invisibili potevano provocare ogni sorta di sciagura e vi erano una miriade di scongiuri,
formule magiche e blandizie per tenerli fuori dalla casa.
Gli spiriti dei morti non placati si aggiravano nel mondo dei vivi ed erano causa prima di malattie,
morti e altre disgrazie. La vendetta poteva essere opera di spiriti di persone morte, ma anche di
persone ancora in vita che a loro insaputa potevano generare uno spirito vendicativo. Né è un
esempio lo spirito della dama Rokujo nel La storia di Genji.

Spiriti e demoni avevano il loro ruolo nella concezione della medicina. La teoria e la pratica
medica seguivano due correnti molto diverse all’epoca di Murasaki,
Il primo gruppo di credenze proveniva dalla Cina e si basava sul sistema dualistico yin-yang, il suo
studio era cominciato all’inizio del VII secolo presso la facoltà medica dell’università imperiale, alle
cui cure potevano accedere solo i membri dei primi 5 ranghi. La salute fisica era intesa come un
equilibrio fra yin e yang all’interno del corpo e le malattie erano causate dal loro squilibrio.
Attraverso uno schema era possibile individuare l’organo che probabilmente causava il problema
rapportandolo ai 5 elementi e attraverso la tabella sessantennale il medico avrebbe individuato il
giorno propizio per iniziare la terapia, che consisteva in agopuntura o bruciatura sistematica di
foglie di Artemisia moxa. L’uso di erbe medicinali derivava direttamente dalla tradizione taoista.
La seconda corrente medica si basava sulla credenza negli spiriti maligni e nella loro capacità di
possedere gli esseri umani. Quando una persona stava male, era perché aveva preso un influsso
maligno (detto mono no ke, come fosse un virus).
C’era però della verità in questa credenza: i fattori spirituali e psichici possono avere effetti
determinanti sulla salute fisica. Le preoccupazioni potevano preoccupare le malattie perché
aprivano un varco per i mono no ke. Nella pratica i metodi di cura si basavano su una superstizione
sciamanica, per cui l’esorcista tramite la recitazione di formule e scongiuri avrebbe trasferito lo
spirito malvagio dal corpo della persona malata in un medium, generalmente una donna. Se
l’operazione fosse riuscita lo spirito di regola si sarebbe dichiarato e alla fine l’esorcista avrebbe
potuto cacciarlo anche dalla medium. L’essere posseduti dagli spiriti e le relative pratiche
esorcistiche erano avvenimenti molto emozionanti, tanto da ispirare pagine memorabili della
storia di Genji.
Nella letteratura non è raro trovare monaci buddhisti nella veste di esorcisti, nonostante ci si
aspetti più degli shintoisti in queste vesti. Il sincretismo fra le due religioni permetteva di sorvolare
su questi dettagli. Gli imperatori potevano prendere i voti buddhisti e i monaci buddhisti potevano
credere nelle divinità della natura senza problemi.

Cap. 6 Le “persone di qualità “e la loro vita.


La narrativa del periodo Heian ci dà un quadro preciso della vita quotidiana dell’aristocrazia fra X e
XI secolo, tuttavia è un quadro che riguarda principalmente aspetti intellettuali e mondani di
personaggi eminenti dell’epoca. Spesso viene a mancare l’aspetto professionale di queste figure
politiche, ciò è dovuto sia al disinteresse delle autrici per la “vita pubblica” dei loro personaggi
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maschili che ad un effettivo scarso interessa da parte degli stessi funzionari per le loro
responsabilità, specie se rivolte verso le province. Gli aristocratici erano in uno spazio separato
rispetto al resto della popolazione e l’assenza di produttività da parte loro aveva generato anche
un atteggiamento meno vigoroso e fiducioso verso la vita. Anche i funzionari più energici prima o
poi soccombevano alla frustrazione dei loro incarichi e alla noia. Il lavoro non è che ridurre il
tempo da poter dedicare alla poesia, alla bellezza, allo svago.

Il tipico aristocratico Heian appare piuttosto effemminato. L’ideale della bellezza maschile era un
viso bianco e paffuto, bocca piccola, occhi ridotti a sottili fessure, un ciuffetto di barba sul mento.
Poiché l’ideale di bellezza femminile era pressappoco lo stesso, Murasaki spesso definisce un
uomo “bello come una donna”. Abbiamo anche una descrizione di come un uomo Heian non
doveva essere, cioè scuro di pelle e villoso, mascolino.
Il gentiluomo heian si incipriava la faccia e si profumava abbondantemente i capelli e gli abiti. La
fabbricazione del proprio profumo era ritenuta una vera arte e un segno per distinguersi.
L’impressione che l’uomo heian fosse effemminato proveniva anche dal suo comportamento.
Genji e i suoi amici vivono in un’epoca in cui l’imperturbabilità maschile non era ancora
apprezzata, per cui le lacrime erano segno della sensibilità dell’uomo alla bellezza e al pathos della
vita. Anche nel successivo periodo militare compaiono uomini lacrimoni, ma le motivazioni del loro
piangere sono diverse.
I personaggi sono idealizzati secondo il gusto dell’autrice, non corrispondevano in toto agli uomini
che lei incontrava nella vita di tutti i giorni e che eccedevano nel bere, parlavano ad alta voce e
bussavano alla sua porta di notte.
A qualche donna certamente piaceva di più il maschio forte, vigoroso e impassibile, ma
evidentemente Murasaki prediligeva un uomo più sensibile e sentimentale, dimostrando di
condividere i gusti del suo tempo e che ritroviamo nei diari di donne e in romanzi scritti da uomini.
Il principe Genji incarnava il gusto dell’epoca con la sua sensibilità, la sua gentilezza e le sue molte
capacità artistiche.

In materia di alimentazione nella narrativa troviamo molto poco, perché considerato un


argomento volgare. L’alimento fondamentale era il riso, i contorni erano spesso costituiti da alghe
marine e tuberi, si mangiava molta frutta e noci. Si immagazzinava il ghiaccio in apposite celle e i
ricchi potevano godersi vere e proprie granite in estate; il pesce si mangiava lesso o alla griglia,
quasi mai crudo, ed erano molto graditi i molluschi; non si mangiava carne, ma la cacciagione era
un’eccezione; fra le verdure più comuni troviamo melanzane, carote, cipolle e agli; il latte era
evitato.
La cucina Heian era poco influenzata da quella cinese e la presentazione estetica del piatto era
molto importante, per il resto l’alimentazione era molto povera e l’unica alternativa all’acqua era
bevande alcoliche come il vino di riso. Il tè fu introdotto nel IX secolo dal fondatore della setta
Tendai, ma venne apprezzato solo secoli dopo.
I pasti erano principalmente due e spezzati da piccole merende, non vi erano orari fissi né per i
pasti né per coricarsi e spesso non si teneva conto delle ore che passavano, per cui si finiva a far
baldoria fino alle luci dell’alba senza problemi.

La classe abbiente disponeva di una ricca varietà di giochi e di gare che consentivano di fare
sfoggio di abilità, gusto ed erudizione. Gli aristocratici Heian giocavano d’azzardo, ponevano
indovinelli e si divertivano nel gioco dei paragoni, in cui si prendevano due oggetti e si decideva,
dopo aver presentato le qualità dell’uno e dell’altro, quale fosse il migliore.

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Al tempo di Murasaki i paragoni si erano allargati ai prodotti delle arti e dei mestieri, come
ventagli, incenso, dipinti e poesie. Le gare poetiche ebbero inizio nel IX secolo e conobbero grande
successo nel X, esse consistevano in veri scontri combattuti in cui si poteva guadagnare la fama o
venir declassati come ignoranti. Per gli uomini heian il più comune passatempo all’aperto era una
specie di gioco del calcio detto kemari.
La letteratura parla spesso di gare con l’arco, sulle quale si poteva anche scommettere. Gli ufficiali
delle guardie si dilettavano anche con corse a cavallo e con una specie di polo detto dakyu. La
caccia era vietata dalla chiesa buddhista, ma spesso si faceva uno strappo alla regola permettendo
all’imperatore di cacciare con il suo falco. L’unico sport cruento era il combattimento fra galli.

Le donne uscivano raramente fuori e i loro divertimenti all’aperto consistevano nell’assistere alla
grandiosa regata detta funakurabe o fare a palle di neve durante l’inverno.

Nell’anno heian moltissime erano le feste di origine religiosa o popolare entrate nella
consuetudine civile della capitale, esse erano però limitate all’aristocrazia e piuttosto modeste se
comparate a quelle in uso in altri paesi.
Il ruolo di queste feste era quello di rendere più sopportabile la vita quotidiana rompendo la
monotonia. Queste feste erano colorate, grandiose e soddisfacevano il gusto per lo spettacolo
attraverso anche l’utilizzo di danze di corte.
Fra le molte cerimonie occasionali c’erano quelle per l’ingresso di una nuova concubina imperiale,
per le nascite, per i riti del cinquantesimo giorno dalla nascita, per l’entrata nella maggiore età e
per i funerali.
I normali adempimenti annuali avevano varie origini. Alcuni provenivano direttamente dalla corte
cinesi, altri derivavano dalle feste popolari e dai riti locali per poi entrare nel calendario di corte.
alcune festività della corte finivano poi per esser celebrate anche presso i privati o perfino nelle
case delle persone comuni.
Una festa importante era quella per il conferimento dei ranghi, vi era una cerimonia in cui si
declamavano poesie e canzoni in onore del nuovo anno mentre 40 dame di corte danzavano, vi
era anche una festa per segnare il cambio di abiti dalla stagione invernale a quella estiva.

Il tono dominante della vita familiare era estremamente formalistico. Il gruppo familiare aveva una
grande importanza, ma il piacere delle riunioni conviviali era quasi sconosciuto. I familiari della
casa del principe Genji vivono in quasi totale isolamento l’uno dall’altro. Essi di solito comunicano
fra loro unicamente attraverso biglietti, poesie o messaggi che Genji stesso recapita durante i suoi
giri negli appartamenti. L’origliare e lo spiare comuni nel periodo Heian derivavano proprio
dall’assenza di comunicazione fra membri della stessa famiglia per via del formalismo. È infatti
stridente come il formalismo spesso impediva ad un fratello di vedere la sorella o ad un padre di
conoscere la figliastra se paragonato alla disinvoltura con cui invece è permesso avere un rapporto
sessuale la prima volta che di viene in contatto con una persona.
Un altro aspetto della vita dell’aristocrazia heian è il suo ambito limitato e soffocante per cui la
vita si svolge sempre in interni. Ciò è particolarmente vero per le donne, ma anche gli uomini
sono inclini a passare la maggior parte del tempo nei palazzi. Altrettanto limitati e circoscritti sono
i loro interessi. A Genji e i suoi amici non importa nulla di come è il mondo fuori del Giappone,
vivono in un isolamento anche sociale perché non si interessano neanche di conoscere la gente
delle altre classi. Non si pongono problemi astratti né si dedicano a serie discussioni, si dedicano
solo al proprio presente, ai piaceri mondani e culturali e ad assicurarsi rango e cariche che
consentano di godere di tali piaceri

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Le conversazioni vertono su temi assai limitati e ognuno si occupa degli affari degli altri, per cui si
spettegola e ci si fa gioco degli altri come passatempo. Si fanno scherzi e si fa uso di malignità.
L’assenza di una vera intimità e l’enorme quantità di tempo a disposizione incoraggiavano il
pettegolezzo, specialmente fra le dame di compagnia delle donne aristocratiche.

Cap. 7 Il culto della bellezza.


L’attingere con oculatezza da altri paesi e saper adattare con spirito creativo ciò che era stato
importato aveva permesso a Heian Kyo di raggiungere un livello culturale altissimo.
Tutta l’aristocrazia accettava e praticava una cultura estremamente raffinata. Genji e i suoi amici
sono attenti osservatori del mondo in cui vivono e quando si trovano insieme uno dei loro più
grandi diletti per esprimere giudizi che riguardano principalmente libri, pitture, le esercitazioni
musicali, e in piccola parte anche le donne.
La gente dell’epoca era molto esigente riguardo all’ambiente in cui viveva, vi era particolare
attenzione per l’arredamento e la decorazione, il legno veniva impreziosito con incisioni e lacche, i
paraventi dipinti, carri e imbarcazioni erano sontuosamente decorati e la tintura dei tessuti aveva
raggiunto una qualità eccezionale.
Per quanto concerne l’educazione, per essa si indicava lo studio dei classici cinesi specialmente
presso l’università. Tuttavia nel x secolo vi era un visibile declino del prestigio dell’istruzione
ufficiale di conseguenza del calo della qualità degli studi, questo era dovuto alla consapevolezza
che era inutile acquisire titoli di studio se le cariche ufficiali erano comunque affidate a
raccomandati; in questo periodo si assistette anche a una specializzazione negli studi di alcuni
settori da parte di certe famiglie, le quali istituirono accademia private per i propri rampolli che nel
tempo andarono a sostituirsi alle istituzioni ufficiali. Altro fattore che incise fu il cessare degli
stimoli da parte del continente data l’interruzione dei rapporti diplomatici con la Cina: i giovani
non avevano interesse in una cultura straniera e in una lingua che non avevano mai sentito e che
mai avrebbero parlato.
Il principe Genji si schiera contro questa tendenza, facendosi portavoce di un pensiero che era
della stessa Murasaki, reputando gli studi classici necessari per ricoprire la carica di funzionario e
spingendo perché suo figlio Yugiri frequenti l’università. L’opinione che l’aristocrazia aveva degli
accademici non era delle più lusinghiere, i maestri erano visti come gente saccente, stizzosa, dal
linguaggio antiquato e sono costantemente non “alla moda”.
Ai tempi di Murasaki per educazione si intendeva soprattutto lo studio dei classici cinesi.
L’istruzione era limitata a una minuscola frazione della popolazione e l’ammissione agli istituti e
alle accademie avveniva quasi sempre per nascita e non per talento. Le donne erano escluse.
L’educazione era concepita come un abito da portare con disinvoltura e noncuranza, ma non da
approfondire nel senso astratto.
Nell’ambiente di corte quasi tutti avevano ben poco interesse per l’istruzione e virtualmente
nessuno per la speculazione astratta, tutti però si dedicavano con fervore ad attività culturali non
accademiche. La loro civiltà si basava sul fattore estetico e più o meno tutti erano versati,
seppur dilettanti, in una o più arti.
L’arte della poesia era al centro della vita quotidiana del mondo Heian. I versi poetici non erano
solo un ornamento per i romanzi delle autrici heian, ma un canone fondamentale dello stile
letterario. Le poesie heian avevano spesso carattere molto mondano e spesso è impossibile
comprenderne il significato quando estrapolate dal contesto in cui vennero scritte. Erano molte le
occasioni in cui poter - e dover- scrivere versi. Se una persona avesse scritto una poesia per
un’altra, questa sarebbe stata obbligata a una pronta risposta di qualità paragonabile o superiore
a quella ricevuta. Di solito i gentiluomini e le dame erano perfettamente all’altezza della
situazione, ma non mancarono episodi in cui i versificatori si trovarono in imbarazzo.
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Tutta la vita di un nobile era scandita dalla poesia, nessun avvenimento importante era reputato
tale se non era stato scritto un poema al riguardo. La poesia affiorava anche nelle più imprevedibili
situazioni, per esempio si preferiva comporre dei versi piuttosto che mandare una lettera di
biasimo ad un funzionario del ministero, sperando che esso capisse i propri errori.
L’abilità nel comporre poesie era indispensabile per conquistare non solo i favori dell’amato/a, ma
anche per ottenere promozioni. In una società del genere, un gentiluomo che non aveva vocazione
per la poesia si trovava in tremendo svantaggio.
Gran parte della produzione poetica a carattere mondano risultava banale, con un vocabolario
limitato e troppi dilettanti per pretendere costante originalità. I versi degli eleganti poetastri erano
convenzionali e insinceri, pieni di luoghi comuni, immagini stantie e cliché, eppure ebbero un
effetto positivo sul livello culturale dell’aristocrazia, rendendo la poesia il nodo centrale della vita
sociale.
Era importantissimo non solo fare poesia, ma fare citazioni e riconoscerne di quelle cinesi o
giapponesi. Era in voga l’uso di allusioni e di riferimenti, il timore più grande era quello di esser
troppo espliciti ed era alto il prestigio di chi sapeva fare le allusioni più sottili e di chi riusciva a far
capire di aver capito quelle fatte da un altro.

La calligrafia, al pari della poesia, ricopriva un ruolo fondamentale. L’abilità calligrafica era il
massimo segno di distinzione di una persona di qualità, da esso era deducibile l’educazione, la
sensibilità, il carattere di una persona. Avere una cattiva mano era una vera disgrazia. Poiché la
scrittura era considerata lo specchio dell’anima, la prima lettera di un possibile amante era attesa
con grande trepidazione proprio per poterne esaminare i tratti.
Poiché in oriente la calligrafia è la base del disegno, quasi tutti gli aristocratici erano artisti
dilettanti e si cimentavano in piccole illustrazioni e decorazioni dei propri paraventi.
I disegni di figure femminili e maschili erano i più frequenti e a volte avevano anche carica erotica.
Fra i disegni non professionali c’erano le illustrazioni per i libri, le quali raggiunsero una qualità
tanto raffinata da culminare nei grandi rotoli dipinti del XII che accompagnavano la lettura dei
romanzi.

Si evince da queste premesse che scrivere lettere era una vera arte da cui dipendeva la
reputazione del mittente. Nella scrittura delle lettere non si prendeva in considerazione solo il
contenuto, il cui corpo principale doveva essere una poesia dal tema della natura, ma il tipo di
carta da utilizzare per comunicare il giusto stato d’animo, la grammatura, il modo di piegarla, il
ramoscello di fiori o la foglia più adatta ad accompagnarla, persino il messaggero adatto a
recapitarla. Nei diari e nei romanzi del tempo il flusso epistolare è costante e dato che le lettere
erano considerate pezzi d’arte la loro riservatezza era minima.

Anche la musica aveva una grande parte nella vita dell’aristocrazia. I nobili non solo amavano
ascoltarla, ma spesso ne facevano essendo versati nell’uso di uno o più strumenti.
I dilettanti amavano esibirsi nelle abitazioni private e all’aperto, spesso inscenando veri e propri
piccoli concerti assieme ai loro amici. Alla musica si accompagnava la danza. Vi era una grande
varietà di danze, molte di origine straniera, altre provinciali o popolari, altre connesse a riti
shintoisti. Uno degli avvenimenti più attesi delle feste di corte erano le danze gosechi, eseguite da
fanciulle di buona famiglia appositamente scelte.
Un vero gentiluomo doveva saper danzare e a tale scopo esistevano dei maestri di danza per
impartir loro lezioni. Le danze erano incluse in quasi tutte le cerimonie ufficiali e talvolta anche nei
normali intrattenimenti privati.

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Una menzione speciale è la forma d’arte dedicata alla fabbricazione dei profumi, la quale non ha
precedenti. La miscelazione dell’incenso era una delle grandi arti aristocratiche e per un nobile il
profumo era importante quanto l’abito, la ricetta per preparare il proprio incenso era spesso un
geloso segreto. I nobili si cimentavano anche in gare di creazioni aromatiche.

L’epoca di Murasaki fece ben poco per il progresso intellettuale dell’umanità e ancor meno per
quello delle tecniche di governo e di organizzazione sociale, ma sarà sempre ricordata per aver
perseguito il culto della bellezza che ha reso unico il Giappone. Nella capitale la Legge del buon
gusto si applicava a tutto lo stile di vita delle classi superiori, una dedizione religiosa. Lo sfrenato
estetismo si estendeva anche alle attività della burocrazia, per cui il capo della polizia poteva esser
scelto per la sua bellezza e non per le sue capacità militari.
L’enorme disponibilità di tempo libero consentiva ai membri delle classi superiori di dedicarsi a
una puntigliosa e continua ricerca del bello: il gusto dei colori era molto sviluppata, l’arte di
accostare i colori negli abiti era tenuta in gran conto e la sensibilità artistica era più apprezzata
delle qualità morali.
Il bell’aspetto contava più della virtù.
La sensibilità aveva il sopravvento anche sulla profondità di pensiero, visto che l’esperienza
estetica era sempre più apprezzata della speculazione astratta. Le persone di qualità esprimevano
le proprie emozioni solo in termini estetici, non si degenerava in disperazione o passione. Il
termine per indicare questa sensibilità è aware , un’interiezione o un aggettivo che si riferiva alla
qualità emotiva insita negli oggetti, nella gente, nella natura o nell’arte e quindi anche alla
reazione interiore di una persona agli aspetti emotivi del mondo esterno. Aware nella storia di
Genji è usato per indicare il pathos insito nella bellezza del mondo esterno, ineluttabile e destinata
a svanire con chi la osserva. Essa è godimento e sofferenza, è il percepire la bellezza e la tristezza
del mondo. Tuttavia questa sensibilità è sempre tenuta nei limiti di un preciso codice estetico: non
è un’emozione tormentosa o romantica che può degenerare.
La capacità di provare aware era appannaggio delle persone di qualità e non era un diritto
automatico di chiunque fosse nobile: vi è chi non riesce a provarla oppure finge di provarla, il che
lo rende una cattiva persona. Chi finge di provarla spesso la traduce come una sorta di mondana
“stanchezza di vivere”, che sarà emulata anche nei secoli successivi.
Il culto della bellezza contribuì a creare una società affascinante e squisita che occuperà sempre
un posto importante nella storia della cultura universale. Di questo culto, Genji ne è l’esponente
per eccellenza. Gli uomini dell’epoca di Murasaki però potevano essere anche volgari e proni a
piaceri grossolani, tuttavia i valori di raffinatezza e sensibilità di quest’epoca non possono esser
messi in discussione neanche da chi non era capace di raggiungerli.

Cap. 8 Le donne Heian e i loro rapporti con gli uomini.


Nell’arco di circa cent’anni che comprende il mondo della Storia di Genji quasi tutti gli autori
importanti in lingua giapponese erano donne. La causa principale di questo fenomeno era
imputata al ruolo della lingua e della letteratura cinese. Il cinese era infatti la lingua degli studiosi,
del clero e dei pubblici funzionari, era l’unico strumento a disposizione degli uomini per scrivere in
una forma dignitosa. Le donne erano libere invece di fare uso della grafia fonetica kana e quindi
potevano scrivere in giapponese, il che permetteva loro una maggiore flessibilità. Il successo delle
autrici femminili derivava però anche da altri fattori, come l’indipendenza materiale e le gioie
culturali di cui potevano godere le donne dell’aristocrazia, ma non il resto della massa.

I canoni di bellezza della donna Heian di cui abbiamo ben poche notizie volevano figure dai volti
bianchi e grassocci, piccoli nasi e bocche ridotte a cerchietti. Esser dovevano essere infagottate in
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abiti pesanti e non vi era interesse per il loro corpo nudo, per il quale si nutriva persino una sorta
di avversione. Si poneva molta più attenzione, anche a livello letterario, alla capacità poetica di
una signora piuttosto che al suo aspetto fisico. L’unica eccezione erano i capelli: nella letteratura
spesso ci si sofferma sulla descrizione della capigliatura. I capelli di una bella donna erano lisci,
lucidi e incredibilmente lunghi, l’ideale era che arrivassero fino a terra e coprissero le sue spalle
che una tenda. L’attenzione per i capelli era tale che la tonsura era considerato un passo tragico.
Anche la pelle bianca era segno di bellezza e di nobile nascita, e quando madre natura non era di
aiuto si ricorreva alla cipria. Le sopracciglia venivano depilate e si dipingevano a puntini poco più in
alto, i denti venivano anneriti con una sostanza. Negli anni successivi l’abitudine di annerire i denti
venne utilizzata per indicare lo stato di donna sposata, ma nel periodo heian era appannaggio solo
delle donne delle classi superiori.
L’abbigliamento aveva un’importanza fondamentale e per le donne era estremamente
complicato, consisteva da una pesante veste esterna e da una seria di sottovesti sfoderate che era
possibile intravedere attraverso le maniche, dando così la possibilità di giudicare e apprezzare
l’abbinamento dei colori e dei tessuti. Era usanza far sporgere le maniche dal paravento di gala
(oshidashi), tenere l’orlo inferiore di ogni veste leggermente più lungo di quello della veste più
esterna (idashiuchigi), far pendere tutta la serie di maniche dal finestrino del carro (isashigurama).
La dama heian era un essere minuto, dalla capigliatura folta e i movimenti lenti, rinchiusa nella sua
casa dietro un paravento.
In base alle dottrine confuciane e buddhiste, la condizione femminile era tutt’altro che felice. Per
molti aspetti la donna Heian era emancipata, ma la supremazia maschile nella gerarchia familiare
era indiscussa. Le donne godevano di una condizione invidiabile dal punto di vista giuridico: la
legge le assicurava il diritto di ereditare e di possedere beni, il che permetteva loro l’indipendenza
economica. La letteratura del tempo ci fornisce parecchi casi di corteggiatori attratti dalla
prospettiva di eredità di una ragazza- Era usanza dei ceti aristocratici che nei primi anni di
matrimonio la moglie continuasse a vivere nella casa paterna, così non era costretta a sopportare
la tirannia del marito o della suocera. La donna era protetta contro la violenza fisica, la legge
proibiva al marito di percuotere la moglie e di ucciderla, a meno che non fosse stata colta in
flagrante adulterio.
La posizione abbastanza favorevole della donna era conseguenza anche della politica dei
matrimoni. Le persone di qualità s’innalzavano nella scala gerarchica per mezzo dei vantaggiosi
matrimoni delle figlie e quello del Giappone Heian è un caso più unico che raro, dato che si
reputava più conveniente aver figlie femmine che maschi.
Le donne avevano maggior possibilità di migliorare la propria condizione gerarchica. Ogni padre
cercava con ogni mezzo di far accettare suo figlio come genero in una famiglia altolocata e la
concorrenza per la mano di una qualsiasi fanciulla altolocata era spietata, tanto da dar vita a un
tema ricorrente nella letteratura heian che è la “tsuma-arasoi, cioè la battaglia per le mogli.
Le donne di regola erano escluse da tutti gli affari di stato, ma ciò non vietò ad alcune donne di
ricoprire una parte rilevante in questi campi. Ne sono esempio alcune imperatrici madri e
imperatrici vere e proprie. Alcune importanti dame si dotavano di propri consigli amministrativi
per sovrintendere le loro proprietà, il personale di seguito e gli affari privati
Non risulta che le signore Heian fossero succubi di un terrore reverenziale per i loro mariti, ma la
poligamia rendeva insicura la loro posizione.
Un importante fattore di prestigio per le donne era che fosse tutte molto colte e perfettamente a
loro agio nelle arti, alla pari con gli uomini. Calligrafia, musica e poesia erano le basi della buona
educazione di una signora., che rimaneva comunque molto limitata e nel 99% non preveda nozioni
di storia, diritto o filosofia.

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Le donne ponevano un particolare interesse nei romanzi, chiamati monogatari, i quali
permettevano loro di occupare le lunghe d’ozio e di intravedere la vita all’esterno della casa.
Le donne altolocate conducevano generalmente un’esistenza immobile e segregata a meno che
non fossero impegnate attivamente a corte. Sottratta alla vista degli estranei, viveva anche in casa
sua nella penombra quasi sempre nascosta dietro il paravento, le era consentito mostrarsi solo ai
suoi genitori e a suo marito.
Lo stato di segregazione era mitigato dalle gioie della conversazione solo in rari casi,
principalmente la nobildonna comunicava per mezzo di intermediari o di lettere e aveva regolari
contatti diretti solo con il marito, i genitori, le altre donne della casa e le sue ancelle.
La sua esistenza era terribilmente monotona e noiosa, ma dalla letteratura ciò non traspare poiché
le autrici erano dame di corte, con una vita molto attiva e relativamente libera.
Le nobildonne erano dispensate da ogni incombenza domestica, compresa la cura dei figli,
conducevano una vita sedentaria in attesa di lettere o di visite. Le uniche consolazioni offerte dalla
vita sociale erano i giochi, le lunghe serie di festività e le cerimonie, le visite ai templi, le
manifestazioni culturali e artistiche come lo scambio di poesie e la lettura dei monogatari. Molte
dame si occupavano anche di cucito e di tinture, anche se spesso si limitavano solo a sorvegliare
tali lavori.
Per le giovani aristocratiche l’interesse di gran lunga più eccitante stava nei rapporti con gli
uomini. I rapporti fra uomini e donne dell’aristocrazia formano una materia complessa e per molti
versi oscura, tanto che le questioni amorose sono il tema centrale di tutti i monogatari heian.
Una donna altolocata poteva, in teoria, non vedere mai in tutta la vita un uomo, salvo suo padre.
Nella realtà era raro trovare ragazze zitelle o vergini nelle famiglie dabbene. Primo, le ragazze
dell’aristocrazia erano molto ricercate, secondo si credeva fermamente che se una ragazza
rimaneva vergine troppo a lungo doveva esser posseduta da qualche spirito maligno.
I rapporti fra i sessi erano regolati da norme precise che avevano a fondamento il sistema delle
classi. Sebbene il corteggiamento e il matrimonio assumessero caratteristiche differenti a seconda
del tipo di rapporto che si intendeva attuare, è possibile individuare un sistema adottato a
riguardo.

La procedura tipica per le unioni più stabili prevedeva un paraninfo che forniva le informazioni su
una certa fanciulla al suo signore e si occupa di compiere i primi passi in caso di interesse. Se il
giovanotto è interessato scriverà alla fanciulla una poesia, a cui lei dovrò rispondere prontamente.
La risposta verrà esaminata dal punto di vista del contenuto e della calligrafia per ricavarne il
carattere della fanciulla. In caso il giovanotto potrà interrompere il corteggiamento, se invece il
suo interesse rimane immutato allora cercherà di farle segretamente visita la prima notte
possibile. La segretezza è pura formalità e l’anticipato rapporto intimo è comune, poiché
permette di conoscere la persona anche nei suoi aspetti più intimi prima di sugellare l’unione. Il
giovane deve tener sveglia la giovane tutta la notte e al canto del gallo deve trovare acconce
forme di sgomento, deve sentirsi offeso dall’arrivo dell’alba perché essa lo costringe a separarsi
dall’amata. Appena giunto a casa si accinge a scrivere la “Lettera del mattino dopo”, l’arrivo di
questa lettera segna che tutto è andato bene e il messaggero che la porta riceve dalla famiglia dei
doni, oltre la risposta della ragazza. La notte successiva l’uomo fa nuovamente visita e ripete la sua
fuga all’alba. La terza notte è fondamentale. Per l’occasione la famiglia prepara dei piccoli dolci di
riso e li mette nella camera della ragazza secondo la tradizione shintoista. Se la coppia li accetta il
rito formale delle nozze è compiuto, poiché il connubio fra uomo e donna ha ricevuto sanzione
religiosa. Uno degli aspetti fondamentali del matrimonio è la pubblicità, infatti la terza notte è
detta “rivelazione dell’evento”. Come ulteriore segno di consenso il padre o tutore della ragazza
invierà alla coppia una lettera di conferma in cui esprime la sua esplicita approvazione del
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matrimonio. La mattina seguente l’uomo può rimanere apertamente con la fanciulla dietro il suo
paravento di gala.
Una caratteristica universale del matrimonio è il pranzo di nozze, occasione di pubblicità e
mondanità- In genere aveva luogo la sera successiva quella dei dolci e costituiva l’occasione per
l’uomo di conoscere la famiglia della moglie. All’inizio della festa era usanza tenere una piccola
funzione religiosa e lo scambio di coppe di vino per tre volte fra gli sposi. A questo punto la coppia
era definitivamente sposata. L’eventuale trasferimento della sposa a casa dello sposo dipendeva
dal tipo di matrimonio.
Esistevano 3 tipi principali di rapporto matrimoniale.
Il primo era il matrimonio con la moglie principale. La moglie principale è quella che ha una
posizione sociale generalmente più elevata delle altre mogli e a lei è dovuto il rispetto del marito e
delle concubine. Era generalmente scelta dalla famiglia dello sposo e si stipulava il matrimonio
quando gli interessati erano ancora in giovane età. Capita spesso che la moglie abbia più anni del
marito-fanciullo, assumendo così la figura di una tutrice del giovane marito più che di una vera
sposa. Queste unioni combinate per motivi politici finivano col diventare pura apparenza. Nei
matrimoni di questo tipo si osservavano rigide norme di classe e solo in casi eccezionalissimi gli
sposi appartenevano a ranghi molto diversi. A causa di questa rigorosa endogamia il numero dei
soggetti matrimoniabili provvisti dei necessari requisiti era sempre molto limitato, ne derivava una
grande corrività in fatto di gradi di consanguineità permessi nel matrimonio. Ci sono stati anche
casi eccezionali in cui l’uomo ha scelto da solo la moglie ufficiale, anche contro la volontà della
famiglia.
Dopo il matrimonio la moglie principale continuava a vivere con i genitori e finché i rapporti fra i
due erano soddisfacenti il marito andava da lei la notte, o addirittura si trasferiva in casa dei
suoceri. Quando il padre dell’uomo moriva allora era usanza che la moglie principale lasciasse la
casa del padre e si trasferisse nell’ala settentrionale della residenza del marito, dove assumeva la
piena dignità di materfamilias. Le funzioni e i doveri della moglie principale erano chiaramente
indicati nei testi confuciani: doveva essere obbediente e fedele, rispettare marito e famiglia,
generare un figlio maschio per assicurargli discendenza e perpetuare il culto degli antenati.
Doveva generare il maggior numero di figli possibili e spettava a lei il compito di allevare le figlie, le
quali dovevano aspirare a divenire mogli principali di qualche aristocratico o anche seconde mogli
di un imperatore, portando all’ascesa della propria famiglia. Altro grande punto d’impegno della
moglie principale era di non farsi soppiantare da una rivale, cioè una moglie secondaria.

Il secondo tipo di rapporto era il matrimonio con mogli secondarie o concubine.


La stragrande maggioranza dei giapponesi praticava la monogamia, solo le classi superiori
potevano permettersi una moglie principale parecchie mogli secondarie. Parlare di queste mogli
come di amanti è errato, poiché si trattava di relazioni ufficiali precedute da forme di
corteggiamento e matrimonio uguali a quelle della moglie principale. L’uomo poteva incontrare la
seconda moglie per molto più tempo, la il rito della terza notte rimaneva invariato.
Dopo tale formalità l’uomo era accettato come amante o come marito e la donna diventava la sua
concubina ufficiale (ma non era obbligatoria la fedeltà da parte dell’uomo).
Nei matrimoni secondari il rapporto assumeva caratteristiche diverse e a seconda che l’uomo
intendesse renderlo più o meno pubblico. Si poteva andare dal matrimonio ufficiale alla relazione
clandestina. La relazione con una concubina cominciava quasi sempre come un’avventura di poca
importanza, ma appena aveva luogo la rivelazione dell’evento essa diventava ufficiale, ma non
irrevocabile come quella con la moglie principale. L’uomo poteva scegliere fra diversi
comportamenti a seconda delle sue intenzioni con la donna. Se aveva una casa propria poteva

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portarla con sé, ma ciò comportava il rischio di esporla all’ostilità della moglie principale o delle
altre mogli. Queste rivalità erano particolarmente accanite nel caso del palazzo imperiale.
Invece di portare la concubina a casa, il marito poteva installarla, con il suo personale di servizio, in
un’altra casa, o pubblicamente o segretamente. Come alternativa la concubina poteva rimanere a
casa sua ricevendo le visite del marito a intervalli più o meno regolari.
Vari erano i criteri per la scelta di una concubina ufficiale. Qualche volta si tratta di una ragazza
con cui l’uomo ha avviato una relazione occasionale, in altri casi può trattarsi di una donna di
livello sociale pari a quello dell’uomo o addirittura superiore di cui egli si è innamorato quando già
sposato. Per la scelta della concubina c’era la più grande libertà e non vi era un limite sociale,
tuttavia era inconcepibile prendere in sposa una contadina. Non esisteva neppure un limite
preciso sul numero di mogli, ma i gentiluomini raramente facevano collezioni di donne.
Le leggi consentivano agli uomini ampio spazio di manovra per i loro affari coniugali, ma vi eraun
divieto invalicabile: non permettere mai a una moglie secondaria di prendere il posto della moglie
principale. Era imperdonabile che un uomo permettesse alla concubina di soppiantare la moglie
principale e la famiglia di lei sarebbe insorta, così come l’opinione pubblica. Se la moglie principale
non fosse stata in grado di dar un figlio maschio al marito, si sarebbe risolto facendole adottare la
prole maschile di una delle concubine.

Il terzo e più frequente tipo di rapporto era quello occasionale.


In questi casi la donna appartiene a una classe molto inferiore oppure è una dama di compagnia.
Può capitare che un gentiluomo abbia una relazione segreta con la moglie di un altro o con la sua
concubina; inoltre l’oscurità delle case heian permetteva incontri anche molto casuali nei quali
nessuno dei due interessati sa chi è l’altro.
Che un uomo fosse sposato o meno, più relazioni amorose aveva, più ne guadagnava di prestigio.
Dal libro del guanciale apprendiamo che le relazioni occasionali erano divenute frequentissime nei
circoli di corte. Le relazioni di questo tipo non implicavano alcun obbligo reciproco, nulla impediva
ai due di rompere in qualsiasi momento e non si pretendeva la fedeltà. Le donne che non avevano
legami permanenti erano estremamente libere, molte di loro disponevano di una casa propria ed
essendo economicamente indipendenti potevano permettersi di avere tutte le relazioni che
volevano e di interromperle a loro piacimento. Potevano avere anche più amanti
contemporaneamente, ma a differenze degli uomini la fama di avere parecchie relazioni non
contribuiva al loro prestigio. Una dama di corte non era particolarmente criticata per la sua
leggerezza, quasi sempre aveva un amante principale che, almeno in teoria, aveva un diritto
prioritario alle sue attenzioni, ma poteva avere anche un amante secondario e parecchi amanti
occasionali. Molte donne avevano infine un legame platonico con un uomo, da loro chiamato
“fratello maggiore”.
Questa libertà favoriva insinuazioni e scherzi allusivi all’interno delle conversazioni a corte e il
costante dubbio riguardo la paternità, tanto da mettere in discussione la stessa linea dinastica
dell’imperatore.

Le vicende amorose del tempo, specialmente a corte, spesso non rispecchiavano affetti veri e si
riducevano spesso a semplici esercitazioni libertine. A salvare la società dal cadere nel sordido e
volgare era la supremazia della legge del buon gusto: le relazioni amorose seguivano un elegante
rituale dominato dal senso da cui neanche i più rozzi uomini non potevano sottrarsi. Un amane
che si rispetti deve comportarsi con tatto dalla sera all’alba.
La poligamia aveva effetti psicologici sulle persone e la letteratura ne offre uno spaccato. Per un
gentiluomo heian avere parecchie mogli e parecchie amanti era del tutto normale, era un
importante funzione sociale aver partner fertili per proseguire la propria linea di sangue. Il sesso è
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indicato dai testi Yin-Yang come portatore di benefici per la salute ed era quindi incoraggiato.
Abbiamo prove indiscutibili di come Murasaki Shikibu e le donne del suo ambiente accettassero di
buon grado questo sistema, pur con la discriminazione a loro sfavore che esso comportava.
La moglie principale non desidera che il suo uomo non abbia concubine, ma che non si infatui
troppo di una di loro e che non dia la precedenza alla prole di altre donne. La moglie era pronta a
dividere il marito con quante donne egli desiderasse e coloro che si rifiutano appaiono come
isteriche, vengono legittimate solo le mogli principali che si rifiutano di accettare l’esagerata
considerazione che il proprio marito mostra nei confronti di una moglie secondaria.
Se la donna è una concubina, tutto ciò a cui può aspirare è di occupare il primo posto nel cuore
dell’uomo. L’eroina del romanzo di Murasaki non aspira mai a diventare la moglie principale di
Genji, il suo unico desiderio è essere la sua moglie favorita, colei di cui lui non si annoierà mai.
È sorprendente constatare invece quanto le donne che pur accettavano la poligamia per ragioni
sociali e intellettuali soffrissero per certe conseguenze. La storia di Genji e i diari del tempo ci
danno abbondanti prove che l’infedeltà istituzionalizzata provocava nelle donne lo stesso rancore
che ritroviamo nelle società monogamiche. Uno degli aspetti salienti della psicologia femminile del
periodo Heian è l’inquietudine per il futuro, quasi tutti i personaggi femminili hanno in comune un
senso di insicurezza che traspare dalla paura delle chiacchiere e dei pettegolezzi, paura di esser
abbandonate dall’amante, paura per i figli, di affidarsi come concubine ad un uomo che potrà poi
ripudiarle e paura di incorrere nell’ostilità della moglie principale.
L’insicurezza era generata dall’assenza di valori tipici della tradizione cavalleresca di imperitura
fedeltà e di dedizione eterna dovute al dovere di onorare e proteggere la donna proprio perché
donna. A heian kyo le donne erano rispettate e corteggiate soprattutto perché potenziali favorite
di imperatori o madri di principi imperiali. Ma se queste possibilità non si realizzavano o se i
potenti appoggi venivano a mancare dovevano cavarsela da sole. La posizione di una moglie
principale era relativamente sicura, ma per una concubina o un amante l’avvenire poteva essere
tutt’altro che roseo.

Le donne heian avevano la capacità giuridica di ereditare e di possedere beni immobili, ma sembra
che avessero bisogno della loro famiglia o di qualche personaggio influente per gestire e
amministrare le loro proprietà. La donna di alto rango difficilmente avrebbe avuto i mezzi per
gestire efficientemente le sue proprietà feudali, ottenere dagli uffici importanti diritti di esenzione
fiscale, tenere a loro posto dipendenti e impiegati indisciplinati, necessitava quindi di un tutore o
di un protettore. La speranza primaria di una donna era quindi quella di conquistarsi l’affetto di un
uomo che la proteggesse dai pericoli insiti di una società poligamica. In questo caso, il principe
Genji rappresenta l’uomo ideale perché non ritira mai l’appoggio dato a una donna, anche se per
essa non ha più alcuna attrattiva fisica.
Tra i tanti travagli della poligamia il più drammatico era la gelosia, che rimaneva presente
nonostante l’accettazione della poligamia. Le tradizioni radicate hanno impedito alle donne
giapponesi di esprimere la loro gelosia, ma non c’è ragione di credere che esse la provassero meno
delle loro simili in altri paesi: spesso era proprio il non poterla sfogare che la rendeva più acuta. Le
insicurezze e la gelosia portavano la donna a una tensione psichica che talvolta sfociava
nell’isterismo o addirittura nella follia. Nella Storia di Genji la gelosia è ritenuta la peggior tortura.
Anche se il sistema poligamico del tempo offriva quasi sempre alla moglie principale una maggiore
sicurezza rispetto alle altre donne, la sua posizione era tutt’altro che incrollabile e anche lei
soffriva le pene della gelosia.
Neanche le coppie monogamiche si sottraggono alla gelosia, come mostra l’esempio nella Storia di
Genji di Yugiri e Kumoi. Kumoi, dopo 10 anni di fedeltà indiscussa di Yugiri, è presa dalla gelosia
quando scopre il suo interesse per un’altra donna ed è ferita proprio dal suo conformarsi alla
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società dopo un decennio di monogamia. Yugiri sottolinea come sia indicibile che un uomo con
una posizione sociale come la sua non guardi mai un’altra donna e stia sempre appiccicato alla
moglie. Talvolta la gelosia diveniva morbosa ed era un motivo valido per richiedere il divorzio dalla
propria moglie.

Cap. 9 Murasaki Shikibu.


Murasaki si descrive come una persona introversa, scontrosa, appassionata di vecchie storie,
presuntuosa e incompresa dalla gente del suo tempo. L’autrice non aveva gusto per gli occasionali
rapporti mondani, per i pettegolezzi, per le frivolezze che tanto occupavano le altre dame di corte,
aveva a buon ragione la fama di essere virtuosa e prude. Murasaki si pone in completa antitesi con
la sua contemporanea Sei Shonagon, che prestava servizio presso l’imperatrice rivale e aveva la
nomina di aver una personalità molto pungente, una mente fine e una certa sfrontatezza.
Murasaki era nata negli anni ’70 del X secolo da un ramo cadetto ma molto colto della famiglia
Fujiwara. Visse sempre in un’atmosfera intellettuale, fra persone il cui passatempo principale era
la composizione di poesie cinese. Suo padre Tametoki era un pubblico funzionario ambizioso e
abbastanza fortunato che aveva cominciato la carriera come studente di letteratura. Si era poi
fatto strada grazie all’appoggio di Michinaga nella gerarchia statale. Il padre di Tametoki era stato
un poeta di una certa notorietà. Tametoki aveva grandi ambizioni per il figlio maggiore e gli
assicurò tutti i benefici di un’educazione classica, la quale comprendeva gli scritti cinesi. Murasaki
non poteva accedere a tali studi in quanto donna, tuttavia approfittò degli studi del fratello di
assorbire quanto poteva e il padre chiudeva un occhio al riguardo. Ben presto suo fratello entrò
nella carriera statale. Ben poco sappiamo della giovinezza di Murasaki, probabilmente dedicava
gran parte del suo tempo alla lettura e allo studio, portandola ad un’erudizione tale da
spaventare possibili corteggiatori. Si fidanzò solo dopo i vent’anni e con un uomo più anziano di
lei tramite un matrimonio combinato, tuttavia egli morì molto presto creando un trauma nella
giovane donna e alimentando il senso di caducità nel suo animo. Da lui ebbe una figlia che divenne
a sua volta una nota scrittrice, ma evita di parlare della sua famiglia all’interno del diario e quindi
di lei sappiamo ben poco. Il padre ben presto ottenne una promozione come governatore di una
provincia e Murasaki entrò a corte come dama d’onore della figlia di Michinaga, la consorte
dell’imperatore Ichijo. Dopo il suo ingresso a corte Murasaki iniziò la scrittura del suo diario. A
seguito della morte di Ichijo, la sua consorte si trasferì con tutto il suo seguito in uno dei palazzi
distaccati e Murasaki si unì a lei. Il fratello di Murasaki morì dopo la nomina a governatore
provinciale del padre, il quale prese i voti e fu presto seguito dal suo protettore, Michinaga.
L’imperatrice madre continuò a vivere fino al 1074 e di Murasaki non abbiamo notizie in questo
lungo periodo, la tradizione vuole che si sia fatta monaca nel 1015 e che sia morta circa 15 anni
dopo, ma qualche indizio ci suggerisce che sia rimasta a servizio dell’imperatrice.
Il diario e la Storia di Genji pur non fornendoci dati diretti sulla sua vitaci suggeriscono quanto
intensa questa fosse stata, poiché la loro autrice conosceva in modo profondo gli usi e i costumi
dell’aristocrazia, nonché aveva analizzato a fondo molte personalità diverse. Aveva poi un acuto
interesse per le vicende amorose. In fatto di erudizione non raggiunse mai la scintillante fama
della sua rivale, ma non dipendeva da una questione di conoscenze, bensì di carattere.
L’interesse di Murasaki per la letteratura cinese non era stato solo una infatuazione giovanile, suo
marito era uno specialista nella materia e le fornì gli strumenti per approfondire questa sua
conoscenza, di cui però doveva far segreto. Era inoltre versata nella letteratura del suo paese e
conosceva bene le principali opere giapponesi, soprattutto le opere poetiche.
Il diario di Murasaki ci illumina sulla sua conoscenza del buddhismo e sul suo atteggiamento verso
la religione: era ben ferrata sulla liturgia, sui sutra e sulla gerarchia della setta Tendai. Era
imbevuta dell’essenza dello spirito buddhista, cioè la caducità universale.
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In molti si sono domandati se, perché e quando Murasaki scrisse La Storia di Genji.
Certamente l’opera è di suo pugno e negli ultimi capitoli è possibile percepire la maturità che
aveva raggiunto nella scrittura. Per quanto riguardo i motivi della sua scrittura, venne avanzata
l’ipotesi pedagogica e religiosa, ma la stessa Murasaki in un passaggio dell’opera ci confida la
volontà di trasmettere la sua visione e percezione delle emozioni e della vita agli altri.
Secondo la leggenda la motivazione della scrittura probabilmente provenne dall’invito da parte di
una delle vestali dell’imperatrice di scrivere un nuovo monogatari per poter intrattenere Sua
Altezza. Il libro circolava a corte già dal 1008 e alcuni fatti sembrano chiaramente ispirati ad alcuni
avvenimenti della corte, pertanto è da respingere l’ipotesi che l’opera fosse stata completata
prima dell’ingresso a corte di Murasaki. Sembra plausibile che l’autrice cominciò a scriverlo poco
dopo la morte del marito, quando ancora viveva a casa sua. Già all’epoca della sua stesura, il
monogatari riscosse molto successo ed era difficile procurarsene una copia.

Cap. 10 Aspetti della “Storia di Genji”.


La Storia di Genji è il primo romanzo psicologico della letteratura mondiale ed è anche uno dei
più lunghi, composto da 54 libri/capitoli i quali circolavano in volumi separati. La storia si sviluppa
nell’arco di tre quarti di secolo e 4 generazioni, i personaggi sono circa 430 e molti imparentati fra
loro. Murasaki apparteneva ad una società rigidamente stratificata e mai commette errori nei
collegamenti fra i personaggi, la cronologia è impeccabile e ordinata. La storia è costruita intorno a
un gruppo di idee e temi centrali – il tema storico del potere dei Fujiwara e il tema della caducità-
che danno unità artistica agli eventi. Un metodo che Murasaki utilizza con particolare efficacia è
quello dell’anticipazione o costruzione progressiva, che porta a parlare di un personaggio prima
ancora che entri nella storia o a porre le basi di eventi futuri. Altro aspetto peculiare è la
ripetizione voluta di situazioni, di luoghi e di rapporti fra i personaggi che serve a render compatta
la struttura narrativa, nonché a mostrare le differenti reazioni dei personaggi quando posti in
situazioni simili. Molte volte l’autrice collega il mutare degli eventi al fluttuare dei sogni, mettendo
così in evidenza l’inconsistenza e l’irrealtà del mondo che ci circonda, l’idea che la nostra vita
terrena non è che un ponte di sogni attraverso il quale noi passiamo da uno stato di esistenza ad
un altro. Il tema della morte è sempre costante sullo sfondo.
La storia di Genji è un’opera di gran mole, ma non è che una collinetta se confrontata alle
montagne di libri che sono stati scritti per studiarla e commentarla. Questa alluvione esegetica
iniziò una generazione dopo la morte di Murasaki, quando i lettori cominciarono a trovare qualche
difficoltà a capire il romanzo. Man mano che il mondo di Genji si allontanava nel tempo, il
linguaggio del romanzo cominciò a presentare crescenti difficoltà. Non bisogna mai dimenticare
che Murasaki era un’artista, non una cronista, e che la storia di Genji va più che altro gustata
come opera letteraria e non come fonte di notizie. Le difficoltà che abbiamo nell’intendere il suo
mondo ci proviene dalla distanza che intercorre fra il nostro mondo e quello di Murasaki non solo
in termini temporali, ma anche di linguaggio. Il manoscritto più antico che possediamo a riguardo
è incompleto e postumo di ben cento anni, mentre il primo testo completo risale al XIV secolo. Il
vero ostacolo è la lingua in cui il testo è scritto, difficile non solo per gli stranieri ma per gli stretti
giapponesi. Il giapponese dell’epoca heian è una lingua remota, non influenzata dal cinese quanto
quello moderno e ben poco chiara dato il vocabolario limitato. Spesso un termine poteva avere più
significati ed esser ripetuto più volte all’interno dello stesso passaggio, generando confusione.
Inoltre chi apparteneva all’ambiente di Murasaki preferiva sempre l’allusione all’asserzione,
l’accenno alla spiegazione, per loro capire il testo dell’autrice era semplice perché erano al
corrente delle usanze del mondo che lei descrive. La prosa heian pone il traduttore di fronte a
problemi seri, poiché egli deve attenersi al testo originale e quindi a quel senso di vago e allo
stesso tempo ricostruire il pensiero dell’autore per permettere la fruibilità del romanzo al lettore.
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Molte generazioni di studiosi della storia di Genji hanno cercato di accertare fino a che punto
Murasaki abbia attinto la materia del romanzo dalla vita reale. Certamente la figura di Genji era
ispirata ad alcuni uomini dell’epoca, primo fra tutti Korechika, nipote di Michinaga. L’eroina
omonima Murasaki invece doveva incarnare un ideale di donna. Gli specialisti hanno inoltre
rilevato che certi fatti del Genji monogatari sono desunti da quelli realmente accaduti a corte.
La questione veramente importante è se la Storia di Genji offre un quadro complessivo
sufficientemente fedele della società Heian. Non va mai dimenticato che la gente del romanzo
non è che una minuscola percentuale della popolazione del Giappone del X secolo, la cui vita era
molto diversa da quella delle masse. Neppure il mondo aristocratico era però descritto nella sua
interessa, il romanzo non fornisce informazioni sull’economia, sui problemi politici o sulla
produzione. Murasaki concentra il suo interesse sugli aspetti privati, sentimentali ed estetici della
vita di un gruppo ristretto di aristocratici, descrivendo ciò che conoscenza per esperienza diretta.
Pur ammettendo che nella Storia di Genji c’è una certa dose di idealizzazione, dobbiamo ritenere
che le descrizioni sono abbastanza realistiche. Non c’è discrepanza fra quello che ci dice il
romanzo e ciò che sappiamo delle condizioni del tempo in base alle cronache, ai diari e ad altre
fonti. Il romanzo non tenta di darci un quadro completo di un periodo storico, ma ci offre
un’immagine autentica di un mondo splendido ed affascinante.

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