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Nel 784 l’imperatore ordinò a Fujiwara no Tanetsugo la costruzione di una nuova capitale da Heijo
(Nara) a Nagaoka. La nuova capitale fu teatro di avvenimenti nefasti, fra cui la morte dello stesso
Tanetsugo a opera di rivali Fujiwara, fra i quali il principe Sawara. I Fujiwara, riacquisito il potere,
fecero piazza pulita dei propri nemici ed eliminarono lo stesso principe, ma attirarono karma
negativo sulla città portando l’imperatore alla decisione di trasferire nuovamente la capitale.
Nel 794 la capitale su spostata a Heian Kyo, la moderna Kyoto, dalla quale prende il nome l’epoca
Heian, e che rimase capitale per circa un millennio. Il periodo Heian durò circa 4 secoli, all’interno
del suo arco temporale è importante sottolineare l’anno 894, che segna il cessare delle missioni
ufficiali presso la Ci0 na. Il governo aveva infatti capito che la dinastia j era ormai al termine della
sua lunga parabola e che non vi era utilità nel far visita alla loro corte. SI inaugura una nuova fase
all’interno dell’era heian che si discosta dai primi cento anni di influenza cinese e che vede il
Giappone acquisire una sempre maggiore autonomia.
La cultura Heian raggiunse la piena fioritura circa un secolo dopo la rottura ufficiale con la Cina: il
suo apogeo avvenne durante il dominio di Fujiwara no Michinaga (X-XI secolo). La figlia e la nipote
di Michinaga furono mogli di imperatori regnanti ed ebbero fra le loro dame di corte le famose
scrittrici Sei Shonagon e Murasaki Shikibu.
L’epoca d’oro fu però seguita da un lungo periodo di declino, attribuito dagli studiosi tradizionalisti
alla condotta morale e alla pigrizia dell’aristocrazia di corte. Verso la fine del’XI° secolo si tentò di
puntellare il sistema con una nuova forma di direzione politica, cioè il Governo del Chiostro,
trasferendo il potere dalle mani dei Fujiwara a quelle di un ex imperatore in ritiro e cercando di
arrestare la diffusione dei grandi feudi provinciali. Tuttavia, il potere effettivo era già passato nelle
mani della classe dei militari nelle province.
Gli studiosi recenti attribuiscono il declino dell’epoca Heian proprio al diffondersi del sistema
feudale, alla crescente indipendenza delle province e all’eccessiva espansione territoriale.
Il VII e VIII secolo furono per il Giappone uno dei grandi periodi di importazione. La grande Riforma
del VII secolo fu il tentativo di trasformare il paese tribale in uno stato dove l’imperatore non fosse
solo il più potente dei capi dei vari clan, ma anche l’unico sovrano di tutta la popolazione e del
territorio. All’inizio dell’VIII° secolo fu fondata Nara, la prima capitale stabile, e il periodo storico
omonimo attinse avidamente ogni forma di cultura cinese. Intellettuali e religiosi accompagnarono
le missioni nel continente e tornarono in patria con nuove conoscenze tecniche. Vi fu inoltre una
corrente di immigrati e di rifugiati cinesi e coreani che andarono a riempire la nuova capitale,
portando con sé anche la cultura della chiesa buddhista. Nelle province l’influenza cinese fu molto
marginale.
La città di Nara era una copia in piccolo di Ch’ang-an, la corte aveva preso la forma di quella
cinese, l’amministrazione aveva adottato il grande sistema burocratico T’ang, la lingua delle
persone colte e dello stato era il cinese e le cronache nazionali ricalcavano il modello cinese. Il
buddhismo esercitava una profonda influenza sull’architettura, sulla scultura e sulla pittura.
Il processo di assimilazione continuò senza soste anche dopo il trasferimento a Heian Kyo. Durante
tutto il periodo Heian, la corte fu organizzata sul modello cinese, ne sono un esempio il protocollo,
il cerimoniale e le arti performative.
A partire dal IX secolo le strette relazioni con il continente si allentarono: dopo un periodo di
intensa importazione, il pendolo si sposta e segue un periodo di reazione in cui il Giappone ritorna
a se stesso e adatta le forme straniere secondo i propri schemi e respinge quelle non congeniali.
Alla frenesia del periodo Ashikaga per la moda occidentale (pantaloni, pipe etc) nel secolo XVI
seguirono periodi di isolamento e intensa nipponizzazione.
Nel IX° secolo il Giappone cominciò ad adattare i modelli cinesi alle sue condizioni e necessità
specifiche, avviando un processo di selezione dei contenuti.
Il mondo descritto nella letteratura giapponese agli inizi del secolo X mostra un’influenza diretta
cinese già molto attenuata rispetto alla generazione precedente. All’epoca però nessuno poteva
considerarsi colto se non aveva ricevuto un’educazione classica, se non aveva familiarità con la
letteratura cinese e non era capace di scrivere passabili imitazioni di prosa e poesia cinese.
Tuttavia la Cina a cui attingevano era ancora quella dei secoli precedenti, e non quella dei Sung. Il
Giappone aveva una sua propria cultura e un suo proprio modo di vivere: entrarono in uso termini
come yamato-e (pittura giapponese) e Yamato-damashii (spirito del Giappone), che riflettevano
una nuova coscienza nazionale. Nel X secolo un visitatore cinese non sarebbe rimasto
impressionato dal Giappone, ma avrebbe giudicato il paese come incivile proprio per la sua
incapacità di conformarsi pienamente al modello confuciano nella vita di corte. Sono esempi
negativi il comportamento troppo disinvolto davanti all’imperatore e l’eccessiva importanza
attribuita alle donne.
Il Giappone risulta quindi una copia scadente e superata della grande civiltà cinese, ma in realtà
esso è da più di un secolo che procede su linee autonome per lo sviluppo di una cultura originale
che, per certi versi, era addirittura superiore a quella da cui discendeva. Nuove istituzioni avevano
sostituito la burocrazia di tipo cinese con una economia basata sul latifondo feudale e un potere
politico-economico accentrato nelle mani di una sola famiglia. Nell’ambito culturale nuove forme
di buddhismo avevano sostituito le sette di tipo cinese del periodo nara: già al tempo di murasaki
stava emergendo un buddhismo popolare ed evangelico, mentre si stava elaborando un
sincretismo mirato a fondere buddhismo e shintoismo. Forme d’arte originale andavano ad
affermarsi, come i rotoli emaki in pittura e il kanabungaku come forma di scrittura fonetica. La
narrativa raggiunse a Heian Kyo nel X secolo un’eccellenza non più superata né in Cina né in
Giappone. Queste opere in grafia fonetica erano talvolta definite “letteratura femminile”, poiché
le donne era le principali utilizzatrici del Kanabun, mentre gli uomini preferivano attenersi, per
prestigio, al cinese con il risultato di produrre spesso aride imitazioni.
Per capire il mondo del principe splendente è necessario prendere in esami due aspetti
contrastanti del periodo Heian: il culto del colore e della magnificenza, espresso dalla parola eiga,
e la concezione del mondo come luogo di sofferenza universale. Il mondo dell’arte e delle
splendide cerimonie era accompagnato dall’inquietante consapevolezza che il mondo era ormai
prossimo a quella fase che il Buddha aveva profetizzato come “ultimi giorni della legge”.
La sensazione di oppressione e di precarietà dell’esistenza era in realtà sintomo che il potere della
corte imperiale diveniva sempre più debole. Sommosse, rapine, disordini, atti di pirateria nel mare
interno, le superstizioni legate a spiriti viventi, carestie, terremoti e incendi tanto frequenti nel
periodo Heian non fecero che alimentare il senso di angoscia e pessimismo.
Il Giappone del X secolo era costituito pressappoco dallo stesso arcipelago di oggi, con l’eccezione
della presenza di aborigeni Ezo, progenitori degli Ainu, nella grande isola dell’Hokkaido, dove
erano stati relegati nel corso degli anni. La cacciata degli aborigeni aveva permesso di mettere a
cultura grandi territori nelle regioni orientali e settentrionali dell’isola principale, mentre a causa
delle scarse vie di comunicazione i territori nord-orientali sembravano più lontani di Cina e Corea.
Il Giappone era diviso all’epoca in 62 province, dove le terre più importanti erano costituite dalle
Province Interne.
Agli occhi dei colti cittadini della capitale le province lontane avevano un’unica attrattiva: la
bellezza varia e drammatica del paesaggio, in contrasto con quella più delicata delle province
interne.
La stessa Heian Kyo si trovava in un ambiente naturale molto piacevole, circondata su tre lati da
colline e monti boscosi.
L’influenza del paesaggio ha sempre avuto una grande importanza sulla letteratura giapponese, in
un paese dove il mutare delle stagioni è molto netto e son presenti tremende calamità naturali.
Tuttavia, mentre nella tradizione occidentale la natura è antagonista ed è qualcosa che l’uomo
deve dominare, nell’estremo oriente non vi è dualismo-uomo natura, l’uomo è parte integrale del
mondo fisico ed è suo dovere non opporsi alla natura, ma essere in sintonia con essa e
sopportarne i disagi.
Fondersi con la natura, e quindi penetrare la capacità emotiva delle cose, per i contemporanei di
Murasaki vuol dire capire anche sé stessi. La poesia giapponese era soprattutto un’evocazione
lirica della natura nei suoi vari aspetti.
Vi è un vivo interesse per il mutare del clima e l’autunno è la stagione per eccellenza ne La storia di
Genji, poiché le immagini autunnali evocano acutamente il pathos dell’esistenza umana.
Nell’opera di Murasaki l’ambiente naturale di Heian Kyo è una forza vitale che influisce
pesantemente sui personaggi.
L’attenzione principale della letteratura dell’epoca è rivolta alla vita nella capitale, poiché solo chi
è urbano è civile. Heian Kyo ebbe come modello la capitale cinese Ch’ang-an e nei primi anni
costituì un simbolo di novità e di dinamismo, qualità esaltate dal termine più quotato dell’epoca:
Imamekashi (“attuale”, “moderno”).
Heian Kyo era formata da un rettangolo di circa 6 km da nord a sud e di 4 km da est a ovest, era
cinta da un muro di pietra alto circa un metro e ottanta e dotata di 2 fossato da ambedue i lati. Le
18 porte di accesso, come la famosa porta Rasho Mon, costituivano un luogo di ritrovo di ladri,
mendicanti e vagabondi.
La tipica abitazione degli aristocratici come Genji era lo shinden, inizialmente ispirato alle
costruzioni cinesi e poi allontanatosi da esse nel corso del IX° secolo. Lo shinden era caratterizzato
da un tetto spiovente di tavole di legno o graticci, robuste colonne di legno grezzo, cornicioni
molto aggettanti, palafitte a vista per alzare l’edificio e renderlo meno umido, generalmente
costituito da un solo piano.
L’area media di una residenza patrizia era circa di due ettari e lo schema tipico consisteva in un
gruppo di edifici rettangolari collegati da lunghi passaggi coperti, l’intero complesso era cintato da
un muro bianco di pietra con due accessi per i carri e uno principale. Le porte variavano in altezza
e decorazione a seconda del rango del proprietario. Era quasi sempre presente un elegante
giardino con un lago artificiale decorato con file di massi, un’isoletta di pini e una o due collinette.
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Altra importante caratteristica dell’epoca Heian è la difficoltà dei trasporti, sia per terra a causa
delle strade disastrate che per mare.
Il mezzo di trasporto più rapido era il cavallo, ma erano riservati alle guardie, a messaggeri e a
nobili per affari urgenti. I nobili si spostavano tramite carri trainati da buoi. Il carro rappresentava
un segno di distinzione e i nobili facevano a gara per investire sulla loro decorazione. Il tipo di
carro più suntuoso, detto carro cinese, era riservato alla famiglia imperiale. A seconda del proprio
rango, era concesso l’utilizzo di un tipo di carro.
Il mezzo di trasporto supremo era però il palanchino, riservato esclusivamente al sovrano e alla
sua consorte principale. Per l’incoronazione l’imperatore era portato sul suo horen, un palanchino
riccamente decorato e sormontato da una grande fenice dorata.
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L’ascesa dei Fujiwara al potere fu lenta e difficile. Il loro capostipite era uno de protagonisti della
Grande Riforma, fu l’autore del massacro della famiglia Soga e il suo cognome deriva proprio dal
rovesciamento della famiglia avversaria pianificato con il principe ereditario presso una pianta di
glicine.
I suoi discendenti conservarono e consolidarono la loro posizione a corte e per tre secoli furono in
continua lotta con i clan rivali, nonché fra loro stessi per decidere quale ramo della famiglia
sarebbe stato quello più importante: alla fine del IX secolo fu il ramo settentrionale a trionfare.
Dopo la metà del X° secolo la famiglia raggiunse l’egemonia assoluta: nel 967 Fujiwara no
Saneyori divenne cancelliere e questo anno segnò il passaggio dei pieni poteri ai Fujiwara. Due
anni dopo eliminarono il loro ultimo avversario, Minamoto no Takaakira.
L’oligarchia Fujiwara si consolidò per un secolo e non trovò ostacoli, tuttavia essi non aspirarono
mai a divenire sovrani. Non persero mai la loro influenza a corte e riuscirono a impadronirsi del
potere tramite la “politica dei matrimoni”, senza l’utilizzo della violenza.
I capi Fujiwara facevano in modo che le mogli imperiali fossero scelte esclusivamente fra le donne
della loro famiglia, cosicché il capofamiglia era immancabilmente suocero e/o nonno dei sovrani.
Dal X secolo i Fujiwara avevano invischiato gli imperatori a tal punto da averli sempre sotto
controllo: l’imperatore saliva al trono che era ancora un ragazzino e subito veniva fatto sposare
con una Fujiwara; il figlio della coppia veniva nominato principe ereditario e non appena il padre,
giunto alla trentina, era costretto ad abdicare, il ciclo ricominciava.
Al tempo di Murasaki, Fujiwara no Michinaga era suocero di 4 imperatori e nonno di altri 3.
Per poter perpetrare una politica del genere, era indispensabile disporre di molte figlie nubili,
feconde e graziose. Fu così fino al XI secolo, quando parecchie figlie Fujiwara morirono in gioventù,
si rivelarono sterili o madri di sole femmine. Salì al trono un imperatore non Fujiwara e vennero
attuate le prime misure per arginare il ruolo di questa famiglia.
Oltre che con il matrimonio, i Fujiwara tenevano sotto controllo gli imperatori obbligandoli ad
abdicare prima che dimostrassero spirito d’indipendenza. Traevano beneficio dai continui incendi
a palazzo che portavano a trasferire imperatore e seguito presso la loro dimora. La sposa Fujiwara
inoltre risiedeva presso la casa del padre durante la gravidanza e il principe veniva cresciuto dal
nonno materno.
Poligamia e abdicazione precoce producevano la presenza di più corti imperiali: quelle del sovrano
regnante, degli ex imperatori, dell’imperatrice madre e delle varie imperatrici.
I Fujiwara sfruttarono anche la malleabilità di imperatori posti sul trono ancora bambini tramite la
carica di “Reggente”.
Nel 858 il primo imperatore bambino fu Seiwa e fu nominato come reggente proprio un Fujiwara,
il quale però mantenne i suoi poteri anche quando Seiwa raggiunse la maturità. A 26 anni Seiwa fu
costretto ad abdicare, salì al trono suo figlio e fu nominato un nuovo reggente Fujiwara. Anche il
figlio abdicò appena maggiorenne. Il sovrano successivo fu un incompetente cinquantacinquenne
di nome Koko, perciò i Fujiwara stabilirono che i poteri imperiali dovevano essere delegati al loro
capofamiglia anche in presenza di un imperatore adulto, dando vita alla carica di Cancelliere.
Nei due secoli successivi il paese fu quasi sempre governato dal suocero o dal nonno
dell’imperatore.
Pur non avendo a disposizione un corpo militare, i Fujiwara a lungo riuscirono a scoprire e
neutralizzare ogni potenziale minaccia. Il primo pericolo era la possibilità di un imperatore
energico e indipendente, pericolo che veniva arginato attraverso la politica dei matrimoni. Altro
pericolo poteva scaturire dalle altre famiglie aristocratiche, di cui sistematicamente si
sbarazzarono. Il rivale più tenace della loro famiglia fu Sugawara no Michizane, da loro esiliato e la
sua famiglia spaccata. Michizane eventualmente venne reintegrato post mortem nella sua
posizione e i Fujiwara non mostrarono la minima intenzione di screditarlo agli occhi dei postumi.
La minaccia più grave proveniva dai clan militari nelle province, per i quali si servirono della
famiglia Minamoto come braccio armato.
La fonte principale di pericolo proveniva dalle spaccature interne della famiglia: a partire dal IX
secolo sarà il ramo settentrionale del clan a prevalere sugli altri.
La lotta interna consisteva nel tessere trame per portare la propria figlia a corte come Signora
Imperiale, accedendo così alla carica di reggente o cancelliere. Per portare la figlia sull’altare,
bisogna allearsi con una potente fazione a corte che facesse capo, se possibile, alla imperatrice
madre o pari grado. Le lotte interne avevano carattere personale e non riguardavano affatto
motivi politici: l’obiettivo era solo il potere per il gusto del potere.
Al tempo di Murasaki, Michinaga governava con autorità assoluta e i trent’anni del suo
predominio degnarono il culmine della potenza Fujiwara. Michinaga fu molto avvantaggiato dalla
sua progenie femminile e il potere che aveva era tale da non rendere necessario il ricoprire la
carica di reggente o cancelliere. Michinaga fu l’uomo più eminente del periodo Heian, tuttavia non
abbiamo nessun ritratto di lui e poche annotazione ci danno l’idea del suo carattere. Sappiamo
certamente che non era modesto, amava il lusso e l’ostentazione (eiga), era dedito alla vita
politica anche quando ritirato presso un monastero, vanesio e incline all’esser ubriaco e lascivo,
come Murasaki riporta.
Nel complesso la sua figura non ispira simpatia, così come quella degli altri capi Fujiwara.
Nondimeno questa famiglia riuscì ad assicurare al paese un lungo periodo di pace.
La società Heian era fondata su un preciso sistema gerarchico e l’amministrazione dello stato era
affidata all’aristocrazia.
I codici della Riforma prevedevano dieci ranghi di corte, i primi tre (i cui membri erano detti
kugyo) erano beneficiari di cospicui privilegi. I gradi quarto e quinto erano di nomina imperiale,
mentre i restanti erano nominati dal gran consiglio e non godevano di privilegi. Il rango a corte
determinava sia il grado nell’amministrazione statale che la ricchezza personale (l’opposto che in
Cina). I Nobili dell’alta corte (rango 1-3) erano reclutati nei rami collaterali della famiglia imperiale
e nei grandi clan familiari (kabane) preesistenti alla Riforma. I membri di quarto e quinto dai clan
meno potenti della regione Yamato, mentre i restanti dai clan minori nelle province.
I membri dei primi 5 ranghi ricavavano le loro rendite dall’assegnazione di terre coltivate a riso.
Essi potevano mandare figli e nipoti all’università imperiale che poi, raggiunta la maturità,
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La stretta correlazione fra ranghi e cariche di governo ebbe conseguenze deleterie sul livello
qualitativo dell’amministrazione dello Stato. Non adottando un metodo meritocratico, già all’inizio
dell’era heian parecchi organi di governo avevano ormai perduto effettiva funzione, il personale
risultava in soprannumero e si accavallavano le competenze dei vari uffici. La carica poi durava in
eterno e chi la copriva passava le giornate nella noia.
La macchina burocratica si trovò sempre più impegnata in cerimonie e formalità, i ritardi e le
inefficienze erano incredibili anche per provvedimenti molto semplici come lo stabilire un tipo di
acconciatura.
Le riunioni di lavoro fra imperatore e funzionari superiori man mano divennero delle complicate
cerimonie consistenti in un banchetto, gli orari d’ufficio passarono da diurni (4 am-12pm) a
notturni, non era raro trovare funzionari espletare formalità noiose in tarda serata accompagnati
dall’alcol.
Le nomine alle alte cariche si facevano quasi sempre per nascita, senza tener conto delle capacità
personali, la corruzione cresceva e assai diffuso era il commercio di cariche e raccomandazioni.
Frequentissima era la vendita di cariche nella Guardia imperiale e nella polizia, generando un file
di soldati incompetenti che puntualmente le prendevano dai monaci del monte Hiei.
L’ascesa e il predominio politico e sociale dei Fujiwara erano fondati sulla grande potenza
economica della famiglia. In tutta la storia giapponese le posizioni politico sociali sono sempre
state in diretto rapporto con il controllo delle terre a riso e dei proventi. La nobiltà di corte perse
effettivamente potere quando non ebbe più il controllo della terra.
Al tempo di Murasaki i traffici e il commercio avevano ben poca importanza, la moneta circolante
era scarsissima e quasi tutti i pagamenti erano fatti in natura tramite materie prime, prodotti
artigianali, ma soprattutto riso.
Tra gli obiettivi principali della Grande Riforma vi era la ridistribuzione del potere economico:
tutte le terre dovevano essere di proprietà dello Stato e si adottò il sistema dei campi di
sostentamento, per il quale ogni cittadino era assegnatario di un appezzamento di terra a riso che,
alla sua morte, tornava al demanio. Ai maschi spettavano due ettari e mezzo, alle femmine uno e
mezzo. Il sistema era ottimo ma non riuscì mai a tradursi in pratica. Fin dal principio vennero
escluse importanti zone risicole, si fecero assegnazioni speciali in rapporto al rango che
prevedevano l’esenzione dalle tasse. Esenti erano anche le terre bonificate dai privati con
permesso governativo, che divennero persino ereditarie. Le assegnazioni permisero di accumulare
ingenti ricchezze. I Fujiwara disponevano di rendite tali da essere la più ricca famiglia del paese.
AI tempi di Murasaki la base di ricchezza dei Fujiwara e degli altri potenti non era più solo il campo
di sostentamento, ma il feudo. Michinaga ne controllava il maggior numero. Il feudo ebbe un ruolo
fondamentale in Giappone ed ebbe origine dall’assegnazione di terre, esenti da tasse, a enti
religiosi. Durante il periodo Nara le terre esentasse in proprietà privata aumentarono e dal VIII°
secolo molti piccoli assegnatari cominciarono con l’affidare le loro terre alle grandi famiglie per
sottrarle alle pretese del fisco. Le terre di proprietà privata erano dette sho e dal X secolo
costituirono la maggior fonte di reddito per la classe dominante. Tuttavia fra il feudo inteso come
sho e la concezione occidentale dello stesso termine vi è differenza, poiché essi hanno in comune
sono l’esenzione fiscale. Lo sho non implicava mai un rapporto di dipendenza feudale, il
proprietario era solo un nobile che riscuoteva una quota dei raccolti. All’epoca di Genji vi fu un
rapido estendersi dell’immunità fiscali, i proprietari dei feudi ricevevano dal governo centrale
patenti ufficiali che riconoscevano le loro terre come sho, ne fissavano i confini e soprattutto le
esentavano dalle tasse. Verso la fine dell’era heian circa 80% delle terre erano sho.
Una caratteristica peculiare del feudo giapponese era un sistema di diritti detti shiki legati alle
cariche statali ereditarie; consistevano nel diritto di sfruttare la terra e di imporre tributi in natura
o in lavoro, generalmente però si trattava di quote fisse del raccolto. Questi diritti potevano esser
trasmessi ad altri: con il trasferimento verso il basso il titolare di un feudo concedeva un
beneficium a chi materialmente coltivava e gestiva i terreni, beneficium che poteva aumentare o
revocare; l’affidamento era il trasferimento verso l’alto in cui un beneficiario cedeva
nominalmente i suoi diritti ad un ente più potente di lui in cambio di esenzioni fiscali o qualche
altra forma di protezione. In teoria cedeva la sua quota, ma nella pratica ne manteneva il possesso
impegnandosi a versare una certa quota dei raccolti. Il sistema si complicò quando prese piede la
pratica dei trasferimenti verso l’alto fino a raggiungere la cima della piramide sociale: questi
consegnatari finali proteggevano il feudo da qualsiasi ingerenza persino del governo centrale.
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Il Giappone di Murasaki contava circa 5 milioni di abitanti, di cui solo 50 000 abitavano nelle città e
meno di 5000 erano parte della gerarchia. Le famose scrittrici dell’epoca parlano quasi
esclusivamente della gente di alto lignaggio di Heian Kyo e tendono a vedere il resto della
popolazione con gli occhi di essa. Tuttavia quasi tutte queste dame provenivano dalla classe
provinciale, cioè la classe media, nonostante le loro famiglie potessero vantare anche origini
nobili: ricevere un incarico provinciale rovinava la reputazione ed era difficile reintegrarsi a corte.
I funzionari provinciali concluso il loro impiego spesso preferivano rimanere nelle province e
incrementavano le loro proprietà appoggiandosi a gruppi armati, divenendo i primi esempi di
capi della classe militare nascente. Fu proprio una famiglia provinciale a organizzare l’unica
importante rivolta dell’epoca Murasaki. Taira no Tadatsune apparteneva a un ramo cadetto della
famiglia imperiale stabilitosi a Chiba, instaurandovi un dominio ereditario. Cominciò ad estendere i
propri domini arrivando nel 1028 a scontrarsi con la polizia imperiale, che si rivelò inefficace. Il
governo chiese aiuto ai Minamoto, il clan da sempre braccio armato dei Fujiwara per ristabilire
l’ordine. Tadatsune non combatté contro i famigerati Minamoto per scelta e morì durante il
viaggio verso la capitale.
Le province erano la fonte della forza economica del paese e presto anche quella militare, tuttavia
per chi abitava nella capitale esse erano solo luoghi deprimenti, selvaggi ed arretrati. Vivere in una
provincia significava non accedere alle delizie materiali e intellettuali di una società raffinata.
Accadeva quindi che chi era nominato governatore in provincia inviasse là un sostituto, mentre lui
restava nella capitale, provocando un grave deterioramento del livello qualitativo delle
amministrazioni provinciali. I pochi provinciali che compaiono nella storia di Genji sono descritti
come zotici, sprovvisti di buon gusto e che provano a imitare le persone di qualità senza successo.
Le persone di qualità avevano in sommo disprezzo i militari, poiché legati alle province e perché
dediti al mestiere della violenza. Non stupisce che le forze armate statali fossero tanto incapaci da
richiedere l’intervento dei Minamoto. Solo in rari casi appaiono nella letteratura Heian uomini
d’arme, tanto ammirati invece nella letteratura successiva.
Scendendo nella scala sociale arriviamo ai contadini, ai pescatori, ai boscaioli, agli operai, cioè alla
stragrande maggioranza della popolazione e l’unica forza produttiva. La letteratura heian non
parla quasi mai delle masse lavoratrici. All’inizio del X secolo la distinzione fra liberi e schiavi aveva
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Si ricava dalla letteratura l’impressione che il mondo di Genji fosse particolarmente statico,
tuttavia qualcosa lentamente si muoveva. Molti fattori avevano minato la struttura aristocratica:
la debolezza economica e militare del governo centrale, la fossilizzazione della gerarchia, la
corruzione delle amministrazioni provinciali, l’incapacità del governo di mantenere l’ordine
pubblico.
La polizia imperiale non era in grado neanche di sventare rapine in pieno giorno, ancor meno le
scorrerie dei monaci delle montagne, che seminavano il terrore per far ascoltare le proprie
richieste al governo. Il governo era così costretto a rivolgersi a famiglie provinciali come i
Minamoto, dando legna al fuoco delle caste militari delle province. Per le persone di qualità i
militari non erano che esseri spregevoli, buoni per sedare qualche sommossa, ma furono proprio
questi zotici a mandare in pezzi il mondo di Murasaki.
Cap. 4 Le Religioni.
Nel romanzo di Murasaki i personaggi manifestano un misto di superstizione e religione, in cui
shintoismo a buddhismo convivono. Ne è un esempio il passaggio in cui Ukifune non può visitare il
tempio (buddhista) poiché è impura (shintoismo) e ha avuto un brutto sogno (superstizione). La
mescolanza di credenze religiose è tipica dell’eclettismo giapponese. L’assenza di un odio
teologico fra shintoismo e il buddhismo non è dovuto a un’intrinseca armonia delle due fedi. Anzi,
il buddhismo, ponendo l’accento sul dolore della vita terrena, rifiutando i piaceri effimeri,
offrendo salvezza tramite l’abbandono del mondo, appare in netto contrasto con lo shintoismo, i
cui temi fondamentali sono l’accettazione gioiosa della natura, la gratitudine per i suoi doni e
l’orrore per la malattia e la morte, fonte di contaminazione. Le due religioni ebbero un rapporto
pacifico per via della tendenza al sincretismo del buddhismo Mahayana, che non cerco mai di
annientare la religione locale, e della semplicità dello shintoismo, privo di liturgie complicate,
santi, martiri o gerarchia ecclesiastica. Lo shintoismo era una religione molto vaga e amorfa che
ebbe un nome (shin-to, via degli dèi) solo nel momento di doverla distinguere dalla nuova fede,
cioè il buddhismo (butsu-do, la via del buddha).
La religione locale poté sopravvivere a ogni provocazione esterna proprio perché mancava di
qualsiasi carattere positivo. Specialmente per i contadini, lo shintoismo era tutta la religione,
mentre il buddhismo influenzò maggiormente l’aristocrazia, che tuttavia non abbandonò mai le
credenze shintoiste in materia di contaminazione, astinenza, negromanzia e magia. Credenze e
pratiche condizionavano la vita quotidiana dell’aristocrazia. L’impurità rituale contagiava in egual
misura tutti i membri della famiglia e della servitù: la casa non poteva ricevere visitatori, chi si
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Altra grande dottrina importata dal continente era il confucianesimo. Giunto in Giappone un
secolo prima rispetto ai sutra, i suoi scritti erano già materia di studio per i giovani aristocratici. La
concezione confuciana della morte differiva da quella shintoista, eppure proprio come il
buddhismo la popolazione fece convivere i nuovi aspetti confuciani con quelli delle loro credenze.
Al tempo di Murasaki il confucianesimo aveva una grande influenza nella vita dell’aristocrazia,
soprattutto per quanto atteneva ai rapporti familiari. Le dottrine confuciane rafforzarono i
sentimenti di solidarietà e orgoglio di famiglia dei clan, introducendo la venerazione degli avi, la
pietà filiale, la continuità familiare. Nel periodo heian tutti i rapporti sociali avevano come base la
famiglia o la casa (ke), alla cui testa stava il patriarca (kacho), e la politica era una politica di
famiglia e di clan. L’importanza data alla continuità della famiglia e la diffusa consuetudine
dell’adozione traggono origine dal principio confuciano che la mancanza di progenie è il peggiore
dei delitti.
Per il confucianesimo le azioni degli uomini possono avere gravi conseguenze sull’ordine naturale,
per cui la condotta di un imperatore poteva scatenare tifoni o terremoti.
I principali concetti di Confucio erano tenuti a mente, ma non osservati con troppo rigore.
Parricidio e matricidio erano considerati i delitti peggiori, benché in Giappone fossero puniti meno
crudelmente che in Cina. La dottrina confuciana ebbe un’influenza preponderante nel campo
dell’educazione, di cui formava la materia base all’università imperiale. Al tempo di Murasaki tali
studi si erano però inariditi e l’aristocrazia Heian attribuiva maggiore importanza ad un complicato
sistema di credenze basato sulle teorie dello yin e dello yang.
Nella storia di Genji e nel suo mondo il buddhismo era la religione dominante, pienamente
consolidata e con un ruolo principe nella vita religiosa, culturale, artistica e politica del paese
paragonabile a quella del cattolicesimo nell’Europa medievale.
La setta più importante era la Tendai. Proveniente dalla Cina, il suo credo era la dottrina classica
della salvezza universale: la natura del Buddha è in ognuno di noi, scopo della vita deve essere la
ricerca di questa a natura fino a quando il ciclo delle reincarnazioni si arresta avendo raggiunto la
perfezione. Il libro fondamentale è il Sutra del Loto. La tendai era votata al sincretismo e
incorporava non solo gli altri tipi di buddhismi, ma anche le tante divinità shintoiste come avatar di
Buddha. Le tensioni con altre sette derivavano principalmente per questioni patrimoniali o
organizzative.
Altrettanto sincretista era la setta Shingon, di origine indiana, la quale si adattava anche a
shintoismo e taoismo. La sua essenza però era completamente diversa: poneva l’accento sulla
complessa liturgia, sulle pitture magiche (mandala), formule, rituali magici, simboli sacri, divinità di
cui solo gli iniziati avevano un quadro completo. L’ermetismo della setta Shingon fa pensare alla
corrente zen, con la grande importanza data alla necessità di comunicazione diretta fra maestro e
allievo, tuttavia nello zen il maestro deve limitarsi a guidare e spronare l’allievo verso la
comprensione della verità, dato che il risveglio deve manifestarsi solo dentro l’individuo. Lo
shingon dispone insegnamenti precisi che il maestro può comunicare a voce a pochi eletti,
mettendoli così in grado di raggiungere l’illuminazione.
Lo Shingon poi aveva un particolare gusto per le liturgie fastose, il che gli fece guadagnare il favore
dell’aristocrazia Heian. Favoriva inoltre l’arte e la cultura, poiché nell’arte si rivela lo stato di
perfezione.
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Si può dire che la chiesa buddhista ebbe due caratteristiche molto significative: la prima fu il suo
successo secolare, poiché le sue istituzioni sono paragonabile a quelle della Chiesa d’Inghiltera del
XVIII° secolo. La famiglia imperiale rimaneva legata allo shintoismo, ma la chiesa buddhista trovava
il suo sostegno nel governo centrale e protezione presso i Fujiwara. Gli affari buddhisti erano
competenza del ministero degli affari civili e le nomine nella gerarchia ecclesiastica e la loro
salvaguardia spettavano all’imperatore. I gradi della gerarchia ecclesiastica corrispondevano a
quelli di corte e i capi dei grandi complessi monastici erano quasi sempre principi imperiali.
Verso la fine del X secolo parecchie istituzioni buddhiste erano tanto potenti da opporsi alle
nomine governative non gradite e sfruttavano la loro influenza per scopi materiali. I grandi templi
buddhisti avevano estese proprietà terriere e ad essi i piccoli proprietari affidavano le loro terre in
cambio di esenzioni fiscali e di protezione. Se per i loro scopi la pressione politica non era
sufficiente, ricorrevano a bande di preti soldati.
La potenza e la prosperità dei grandi templi continuarono a crescere nei secoli successivi.
Il buddhismo heian favorì la scultura, l’architettura e le arti decorative grazie al mecenatismo dei
ricchi templi.
Per Genji e i suoi amici la chiesa buddhista serviva a molti scopi, innanzitutto per gite e
pellegrinaggi che distraevano dalla quotidianità. Fornivano anche da pretesto per avventure
amorose. D'altronde per molti nobili heian la religione era ormai ridotta a pura formalità.
Per altri però si trattava di una religione nel vero senso della parola e per un nobile ben educato
era indispensabile conoscere il titolo e il contenuto generale dei sutra. Studiare e recitare i sutra
era uno dei modi preferiti per acquistare meriti spirituali. Ciò valeva anche per le dame.
Tutti conoscevano lo spirito fondamentale del buddhismo: lo spirito della transitorietà delle cose
terrene (mujokan).
La scuola giapponese dà al tema della sofferenza un ruolo minore, ma insiste sulla transitorietà
che conduce direttamente ai concetti che tutto è vano e l’attaccamento alle cose terrene produce
sofferenza. Il solo fatto di esistere produce sofferenza. Il dolore non va sopportato come un
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Cap.5 Le superstizioni.
Nella vita quotidiana, la gente faceva affidamento più alla superstizione, categoria che
raccoglieva esorcismo, divinazione e pratiche simili, che alla religione.
Ai tempi di Murasaki vi era una vasta congerie di credenze popolari sviluppatesi e intrecciatesi nel
corso dei secoli. Alcune come la stregoneria e la negromanzia risentivano dell’influenza dello
shintoismo e rappresentano la tendenza sciamanica della religione locale. Altre riguardanti
demoni e fantasmi provenivano dalla tradizione popolare, mentre un grande gruppo era costituito
da quelle di provenienza cinese.
Insieme al confucianesimo, il Giappone aveva importato dalla Cina un complesso sistema di
tradizioni divinatorie basato sul dualismo ying-yang e sui 5 elementi.
Al tempo di Murasaki ci si interessava assai più all’idea di un ordine magico che sovraintendeva
agli eventi umani, con l’alternanza degli elementi universali yin (femminile, oscuro) e yang
(maschile, luminoso). Uno dei reparti più importanti del ministero degli affari centrali era l’Ufficio
dei Presagi (detto anche Ufficio YingYang), ad esso competevano i calcoli astrologici, cronologici e
probabilistici, lo studio degli auspici favorevoli e non. I maestri ying yang mettevano le loro
conoscenze al servizio della pratica politica.
Una grande importanza avevano i tabù direzionali, i quali univano l’idea shintoista di astinenza si
unisce alla concezione ying-yang delle direzioni non propizie. Ve ne erano tre tipi: la direzione
infausta permanente nord-est, la direzione sempre infausta in determinati periodi della vita, la
direzione temporaneamente infausta dovuta alla presenza di divinità vaganti.
Col variare delle divinità e delle direzioni interdette certe attività e certi movimenti risultavano
proibiti, come per esempio la riparazione di un cancello mentre vi presidiava un demone.
I tabù direzionali potevano essere arginati cambiando per esempio il percorso per giungere a una
destinazione. Gli aristocratici furono i primi a cambiare la propria via in virtù dei tabù direzionali,
per cui alcune costruzioni o alcuni eventi, compresi attacchi strategici, dovevano attendere la fine
del tabù. Le masse li adottarono solo a partire dal XV secolo.
I tabù potevano derivare anche dal ciclo sessantennale su cui si basava la divinazione nel sistema
ying-yang. Uno dei compiti fondamentali dei maestri era di fare previsioni sul corso dell’anno e il
governo le considerava con grande attenzione sia per glie venti pubblici che per regolare la vita
privata, Norme particolarmente rigide regolavano i movimenti dell’imperatore in virtù dei tabù. Si
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Il mondo Heian era ricco di folletti, demoni, spiriti e altri esseri soprannaturali, come tengu e volpi.
Gli spiriti invisibili potevano provocare ogni sorta di sciagura e vi erano una miriade di scongiuri,
formule magiche e blandizie per tenerli fuori dalla casa.
Gli spiriti dei morti non placati si aggiravano nel mondo dei vivi ed erano causa prima di malattie,
morti e altre disgrazie. La vendetta poteva essere opera di spiriti di persone morte, ma anche di
persone ancora in vita che a loro insaputa potevano generare uno spirito vendicativo. Né è un
esempio lo spirito della dama Rokujo nel La storia di Genji.
Spiriti e demoni avevano il loro ruolo nella concezione della medicina. La teoria e la pratica
medica seguivano due correnti molto diverse all’epoca di Murasaki,
Il primo gruppo di credenze proveniva dalla Cina e si basava sul sistema dualistico yin-yang, il suo
studio era cominciato all’inizio del VII secolo presso la facoltà medica dell’università imperiale, alle
cui cure potevano accedere solo i membri dei primi 5 ranghi. La salute fisica era intesa come un
equilibrio fra yin e yang all’interno del corpo e le malattie erano causate dal loro squilibrio.
Attraverso uno schema era possibile individuare l’organo che probabilmente causava il problema
rapportandolo ai 5 elementi e attraverso la tabella sessantennale il medico avrebbe individuato il
giorno propizio per iniziare la terapia, che consisteva in agopuntura o bruciatura sistematica di
foglie di Artemisia moxa. L’uso di erbe medicinali derivava direttamente dalla tradizione taoista.
La seconda corrente medica si basava sulla credenza negli spiriti maligni e nella loro capacità di
possedere gli esseri umani. Quando una persona stava male, era perché aveva preso un influsso
maligno (detto mono no ke, come fosse un virus).
C’era però della verità in questa credenza: i fattori spirituali e psichici possono avere effetti
determinanti sulla salute fisica. Le preoccupazioni potevano preoccupare le malattie perché
aprivano un varco per i mono no ke. Nella pratica i metodi di cura si basavano su una superstizione
sciamanica, per cui l’esorcista tramite la recitazione di formule e scongiuri avrebbe trasferito lo
spirito malvagio dal corpo della persona malata in un medium, generalmente una donna. Se
l’operazione fosse riuscita lo spirito di regola si sarebbe dichiarato e alla fine l’esorcista avrebbe
potuto cacciarlo anche dalla medium. L’essere posseduti dagli spiriti e le relative pratiche
esorcistiche erano avvenimenti molto emozionanti, tanto da ispirare pagine memorabili della
storia di Genji.
Nella letteratura non è raro trovare monaci buddhisti nella veste di esorcisti, nonostante ci si
aspetti più degli shintoisti in queste vesti. Il sincretismo fra le due religioni permetteva di sorvolare
su questi dettagli. Gli imperatori potevano prendere i voti buddhisti e i monaci buddhisti potevano
credere nelle divinità della natura senza problemi.
Il tipico aristocratico Heian appare piuttosto effemminato. L’ideale della bellezza maschile era un
viso bianco e paffuto, bocca piccola, occhi ridotti a sottili fessure, un ciuffetto di barba sul mento.
Poiché l’ideale di bellezza femminile era pressappoco lo stesso, Murasaki spesso definisce un
uomo “bello come una donna”. Abbiamo anche una descrizione di come un uomo Heian non
doveva essere, cioè scuro di pelle e villoso, mascolino.
Il gentiluomo heian si incipriava la faccia e si profumava abbondantemente i capelli e gli abiti. La
fabbricazione del proprio profumo era ritenuta una vera arte e un segno per distinguersi.
L’impressione che l’uomo heian fosse effemminato proveniva anche dal suo comportamento.
Genji e i suoi amici vivono in un’epoca in cui l’imperturbabilità maschile non era ancora
apprezzata, per cui le lacrime erano segno della sensibilità dell’uomo alla bellezza e al pathos della
vita. Anche nel successivo periodo militare compaiono uomini lacrimoni, ma le motivazioni del loro
piangere sono diverse.
I personaggi sono idealizzati secondo il gusto dell’autrice, non corrispondevano in toto agli uomini
che lei incontrava nella vita di tutti i giorni e che eccedevano nel bere, parlavano ad alta voce e
bussavano alla sua porta di notte.
A qualche donna certamente piaceva di più il maschio forte, vigoroso e impassibile, ma
evidentemente Murasaki prediligeva un uomo più sensibile e sentimentale, dimostrando di
condividere i gusti del suo tempo e che ritroviamo nei diari di donne e in romanzi scritti da uomini.
Il principe Genji incarnava il gusto dell’epoca con la sua sensibilità, la sua gentilezza e le sue molte
capacità artistiche.
La classe abbiente disponeva di una ricca varietà di giochi e di gare che consentivano di fare
sfoggio di abilità, gusto ed erudizione. Gli aristocratici Heian giocavano d’azzardo, ponevano
indovinelli e si divertivano nel gioco dei paragoni, in cui si prendevano due oggetti e si decideva,
dopo aver presentato le qualità dell’uno e dell’altro, quale fosse il migliore.
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Le donne uscivano raramente fuori e i loro divertimenti all’aperto consistevano nell’assistere alla
grandiosa regata detta funakurabe o fare a palle di neve durante l’inverno.
Nell’anno heian moltissime erano le feste di origine religiosa o popolare entrate nella
consuetudine civile della capitale, esse erano però limitate all’aristocrazia e piuttosto modeste se
comparate a quelle in uso in altri paesi.
Il ruolo di queste feste era quello di rendere più sopportabile la vita quotidiana rompendo la
monotonia. Queste feste erano colorate, grandiose e soddisfacevano il gusto per lo spettacolo
attraverso anche l’utilizzo di danze di corte.
Fra le molte cerimonie occasionali c’erano quelle per l’ingresso di una nuova concubina imperiale,
per le nascite, per i riti del cinquantesimo giorno dalla nascita, per l’entrata nella maggiore età e
per i funerali.
I normali adempimenti annuali avevano varie origini. Alcuni provenivano direttamente dalla corte
cinesi, altri derivavano dalle feste popolari e dai riti locali per poi entrare nel calendario di corte.
alcune festività della corte finivano poi per esser celebrate anche presso i privati o perfino nelle
case delle persone comuni.
Una festa importante era quella per il conferimento dei ranghi, vi era una cerimonia in cui si
declamavano poesie e canzoni in onore del nuovo anno mentre 40 dame di corte danzavano, vi
era anche una festa per segnare il cambio di abiti dalla stagione invernale a quella estiva.
Il tono dominante della vita familiare era estremamente formalistico. Il gruppo familiare aveva una
grande importanza, ma il piacere delle riunioni conviviali era quasi sconosciuto. I familiari della
casa del principe Genji vivono in quasi totale isolamento l’uno dall’altro. Essi di solito comunicano
fra loro unicamente attraverso biglietti, poesie o messaggi che Genji stesso recapita durante i suoi
giri negli appartamenti. L’origliare e lo spiare comuni nel periodo Heian derivavano proprio
dall’assenza di comunicazione fra membri della stessa famiglia per via del formalismo. È infatti
stridente come il formalismo spesso impediva ad un fratello di vedere la sorella o ad un padre di
conoscere la figliastra se paragonato alla disinvoltura con cui invece è permesso avere un rapporto
sessuale la prima volta che di viene in contatto con una persona.
Un altro aspetto della vita dell’aristocrazia heian è il suo ambito limitato e soffocante per cui la
vita si svolge sempre in interni. Ciò è particolarmente vero per le donne, ma anche gli uomini
sono inclini a passare la maggior parte del tempo nei palazzi. Altrettanto limitati e circoscritti sono
i loro interessi. A Genji e i suoi amici non importa nulla di come è il mondo fuori del Giappone,
vivono in un isolamento anche sociale perché non si interessano neanche di conoscere la gente
delle altre classi. Non si pongono problemi astratti né si dedicano a serie discussioni, si dedicano
solo al proprio presente, ai piaceri mondani e culturali e ad assicurarsi rango e cariche che
consentano di godere di tali piaceri
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La calligrafia, al pari della poesia, ricopriva un ruolo fondamentale. L’abilità calligrafica era il
massimo segno di distinzione di una persona di qualità, da esso era deducibile l’educazione, la
sensibilità, il carattere di una persona. Avere una cattiva mano era una vera disgrazia. Poiché la
scrittura era considerata lo specchio dell’anima, la prima lettera di un possibile amante era attesa
con grande trepidazione proprio per poterne esaminare i tratti.
Poiché in oriente la calligrafia è la base del disegno, quasi tutti gli aristocratici erano artisti
dilettanti e si cimentavano in piccole illustrazioni e decorazioni dei propri paraventi.
I disegni di figure femminili e maschili erano i più frequenti e a volte avevano anche carica erotica.
Fra i disegni non professionali c’erano le illustrazioni per i libri, le quali raggiunsero una qualità
tanto raffinata da culminare nei grandi rotoli dipinti del XII che accompagnavano la lettura dei
romanzi.
Si evince da queste premesse che scrivere lettere era una vera arte da cui dipendeva la
reputazione del mittente. Nella scrittura delle lettere non si prendeva in considerazione solo il
contenuto, il cui corpo principale doveva essere una poesia dal tema della natura, ma il tipo di
carta da utilizzare per comunicare il giusto stato d’animo, la grammatura, il modo di piegarla, il
ramoscello di fiori o la foglia più adatta ad accompagnarla, persino il messaggero adatto a
recapitarla. Nei diari e nei romanzi del tempo il flusso epistolare è costante e dato che le lettere
erano considerate pezzi d’arte la loro riservatezza era minima.
Anche la musica aveva una grande parte nella vita dell’aristocrazia. I nobili non solo amavano
ascoltarla, ma spesso ne facevano essendo versati nell’uso di uno o più strumenti.
I dilettanti amavano esibirsi nelle abitazioni private e all’aperto, spesso inscenando veri e propri
piccoli concerti assieme ai loro amici. Alla musica si accompagnava la danza. Vi era una grande
varietà di danze, molte di origine straniera, altre provinciali o popolari, altre connesse a riti
shintoisti. Uno degli avvenimenti più attesi delle feste di corte erano le danze gosechi, eseguite da
fanciulle di buona famiglia appositamente scelte.
Un vero gentiluomo doveva saper danzare e a tale scopo esistevano dei maestri di danza per
impartir loro lezioni. Le danze erano incluse in quasi tutte le cerimonie ufficiali e talvolta anche nei
normali intrattenimenti privati.
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L’epoca di Murasaki fece ben poco per il progresso intellettuale dell’umanità e ancor meno per
quello delle tecniche di governo e di organizzazione sociale, ma sarà sempre ricordata per aver
perseguito il culto della bellezza che ha reso unico il Giappone. Nella capitale la Legge del buon
gusto si applicava a tutto lo stile di vita delle classi superiori, una dedizione religiosa. Lo sfrenato
estetismo si estendeva anche alle attività della burocrazia, per cui il capo della polizia poteva esser
scelto per la sua bellezza e non per le sue capacità militari.
L’enorme disponibilità di tempo libero consentiva ai membri delle classi superiori di dedicarsi a
una puntigliosa e continua ricerca del bello: il gusto dei colori era molto sviluppata, l’arte di
accostare i colori negli abiti era tenuta in gran conto e la sensibilità artistica era più apprezzata
delle qualità morali.
Il bell’aspetto contava più della virtù.
La sensibilità aveva il sopravvento anche sulla profondità di pensiero, visto che l’esperienza
estetica era sempre più apprezzata della speculazione astratta. Le persone di qualità esprimevano
le proprie emozioni solo in termini estetici, non si degenerava in disperazione o passione. Il
termine per indicare questa sensibilità è aware , un’interiezione o un aggettivo che si riferiva alla
qualità emotiva insita negli oggetti, nella gente, nella natura o nell’arte e quindi anche alla
reazione interiore di una persona agli aspetti emotivi del mondo esterno. Aware nella storia di
Genji è usato per indicare il pathos insito nella bellezza del mondo esterno, ineluttabile e destinata
a svanire con chi la osserva. Essa è godimento e sofferenza, è il percepire la bellezza e la tristezza
del mondo. Tuttavia questa sensibilità è sempre tenuta nei limiti di un preciso codice estetico: non
è un’emozione tormentosa o romantica che può degenerare.
La capacità di provare aware era appannaggio delle persone di qualità e non era un diritto
automatico di chiunque fosse nobile: vi è chi non riesce a provarla oppure finge di provarla, il che
lo rende una cattiva persona. Chi finge di provarla spesso la traduce come una sorta di mondana
“stanchezza di vivere”, che sarà emulata anche nei secoli successivi.
Il culto della bellezza contribuì a creare una società affascinante e squisita che occuperà sempre
un posto importante nella storia della cultura universale. Di questo culto, Genji ne è l’esponente
per eccellenza. Gli uomini dell’epoca di Murasaki però potevano essere anche volgari e proni a
piaceri grossolani, tuttavia i valori di raffinatezza e sensibilità di quest’epoca non possono esser
messi in discussione neanche da chi non era capace di raggiungerli.
I canoni di bellezza della donna Heian di cui abbiamo ben poche notizie volevano figure dai volti
bianchi e grassocci, piccoli nasi e bocche ridotte a cerchietti. Esser dovevano essere infagottate in
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La procedura tipica per le unioni più stabili prevedeva un paraninfo che forniva le informazioni su
una certa fanciulla al suo signore e si occupa di compiere i primi passi in caso di interesse. Se il
giovanotto è interessato scriverà alla fanciulla una poesia, a cui lei dovrò rispondere prontamente.
La risposta verrà esaminata dal punto di vista del contenuto e della calligrafia per ricavarne il
carattere della fanciulla. In caso il giovanotto potrà interrompere il corteggiamento, se invece il
suo interesse rimane immutato allora cercherà di farle segretamente visita la prima notte
possibile. La segretezza è pura formalità e l’anticipato rapporto intimo è comune, poiché
permette di conoscere la persona anche nei suoi aspetti più intimi prima di sugellare l’unione. Il
giovane deve tener sveglia la giovane tutta la notte e al canto del gallo deve trovare acconce
forme di sgomento, deve sentirsi offeso dall’arrivo dell’alba perché essa lo costringe a separarsi
dall’amata. Appena giunto a casa si accinge a scrivere la “Lettera del mattino dopo”, l’arrivo di
questa lettera segna che tutto è andato bene e il messaggero che la porta riceve dalla famiglia dei
doni, oltre la risposta della ragazza. La notte successiva l’uomo fa nuovamente visita e ripete la sua
fuga all’alba. La terza notte è fondamentale. Per l’occasione la famiglia prepara dei piccoli dolci di
riso e li mette nella camera della ragazza secondo la tradizione shintoista. Se la coppia li accetta il
rito formale delle nozze è compiuto, poiché il connubio fra uomo e donna ha ricevuto sanzione
religiosa. Uno degli aspetti fondamentali del matrimonio è la pubblicità, infatti la terza notte è
detta “rivelazione dell’evento”. Come ulteriore segno di consenso il padre o tutore della ragazza
invierà alla coppia una lettera di conferma in cui esprime la sua esplicita approvazione del
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Le vicende amorose del tempo, specialmente a corte, spesso non rispecchiavano affetti veri e si
riducevano spesso a semplici esercitazioni libertine. A salvare la società dal cadere nel sordido e
volgare era la supremazia della legge del buon gusto: le relazioni amorose seguivano un elegante
rituale dominato dal senso da cui neanche i più rozzi uomini non potevano sottrarsi. Un amane
che si rispetti deve comportarsi con tatto dalla sera all’alba.
La poligamia aveva effetti psicologici sulle persone e la letteratura ne offre uno spaccato. Per un
gentiluomo heian avere parecchie mogli e parecchie amanti era del tutto normale, era un
importante funzione sociale aver partner fertili per proseguire la propria linea di sangue. Il sesso è
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Le donne heian avevano la capacità giuridica di ereditare e di possedere beni immobili, ma sembra
che avessero bisogno della loro famiglia o di qualche personaggio influente per gestire e
amministrare le loro proprietà. La donna di alto rango difficilmente avrebbe avuto i mezzi per
gestire efficientemente le sue proprietà feudali, ottenere dagli uffici importanti diritti di esenzione
fiscale, tenere a loro posto dipendenti e impiegati indisciplinati, necessitava quindi di un tutore o
di un protettore. La speranza primaria di una donna era quindi quella di conquistarsi l’affetto di un
uomo che la proteggesse dai pericoli insiti di una società poligamica. In questo caso, il principe
Genji rappresenta l’uomo ideale perché non ritira mai l’appoggio dato a una donna, anche se per
essa non ha più alcuna attrattiva fisica.
Tra i tanti travagli della poligamia il più drammatico era la gelosia, che rimaneva presente
nonostante l’accettazione della poligamia. Le tradizioni radicate hanno impedito alle donne
giapponesi di esprimere la loro gelosia, ma non c’è ragione di credere che esse la provassero meno
delle loro simili in altri paesi: spesso era proprio il non poterla sfogare che la rendeva più acuta. Le
insicurezze e la gelosia portavano la donna a una tensione psichica che talvolta sfociava
nell’isterismo o addirittura nella follia. Nella Storia di Genji la gelosia è ritenuta la peggior tortura.
Anche se il sistema poligamico del tempo offriva quasi sempre alla moglie principale una maggiore
sicurezza rispetto alle altre donne, la sua posizione era tutt’altro che incrollabile e anche lei
soffriva le pene della gelosia.
Neanche le coppie monogamiche si sottraggono alla gelosia, come mostra l’esempio nella Storia di
Genji di Yugiri e Kumoi. Kumoi, dopo 10 anni di fedeltà indiscussa di Yugiri, è presa dalla gelosia
quando scopre il suo interesse per un’altra donna ed è ferita proprio dal suo conformarsi alla
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