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ANATOMIA PATOLOGICA

I PARTE
PROF. SERIO e PROF. RESTA
ANATOMIA PATOLOGICA

L’anatomia patologica è quella branca della medicina che studia le malattie umane tramite esame
macroscopico o microscopico dei tessuti e delle cellule.
Partendo da questo presupposto, possiamo dire che di ogni malattia bisogna tenere ben presente:

• DEFINIZIONE: es. ulcera peptidica: perdita di sostanza dovuta al succo gastrico e, soprattutto, alla
pepsina. Infatti, con ulcera si indica la perdita di sostanza che non tende alla guarigione spontanea
mentre con peptidica che si tratta di un processo dovuto all’azione dell’acido cloridro-peptico
• INQUADRAMENTO: bisogna sapere se la malattia è frequente oppure non frequente, se colpisce
prevalentemente gli uomini o le donne, etc...
• EZIOLOGIA: cioè le cause della malattia
• PATOGENESI: cioè tutti gli avvenimenti che portano dalle cause alla malattia.

P.S. Non sempre si conosce bene l’eziologia e/o la patogenesi di una malattia.
Vi sono malattie di cui conosciamo bene entrambi (es. epatite acute causata dai virus dell’epatite A, B, C,
etc... Si tratta di virus epatotropi che producono una modificazione genetica a cui segue una risposta
linfocitaria e, quindi, la malattia).
Ci sono malattie di cui si conosce una o l’altra (es. tifo addominale causato dalle Salmonelle ma esistono
6/7 teorie su come fanno le Salmonelle, che vengono ingerite per via orale, a passare nel circolo e arrivare
alle placche del Peyer).
Poi, ci sono malattie di cui si conosce la patogenesi ma non l’eziogenesi (es. malattia infiammatoria cronica
intestinale, malattia di Crohn o rettocolite ulcerosa).

• MORFOLOGIA: cioè gli aspetti macroscopici ed istologici che vengono modificati dalla malattia
• EVOLUZIONE DELLA MALATTIA: a tal proposito occorre precisare che esiste una storia naturale
della malattia (se non viene attuata una terapia) ma, grazie alle terapie, l’evoluzione della malattia
si modifica per cui bisogna conoscere anche come le cure possano influenzare l’evoluzione della
malattia

Oggi, però, Il patologo non fa solo diagnosi morfologica ma dà anche dei parametri che servono al chirurgo,
all’oncologo o a qualunque clinico per stabilire quale sia la terapia migliore da applicare.
Ad esempio, prima di trattare un carcinoma della mammella, bisogna definire:

• istotipo
• grado di differenziazione
• dimensioni
• distanza dei margini dal momento che non si fanno più le escissioni radicali ma oggi si partica la
chirurgia limitata. Il patologo deve stabilire, infatti, se la resezione è stata sufficiente o meno o,
comunque, garantire l’escissione del giusto indispensabile
• la presenza o l’assenza di recettori per gli ormoni
• indice proliferativo
• positività di alcuni marcatori biologici perché in relazione a questi si possono allestire diversi tipi di
terapia
• risvolto terapeutico
Tutto questo viene stabilito su di una biopsia.

P.S. La fase più importante della preparazione di un campione è la fissazione. Se la fissazione è fatta male,
infatti, bisogna rifare la biopsia.

Oltre ad essere centrale nel percorso di studi di un medico, potete ben capire come l'anatomia patologica
sia centrale anche negli ospedali.
L’anatomia patologica sorge tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’’800, dopo che Morgagni rivoluzionò la storia
della medicina con la teoria organicistica, pubblicando il famoso ''De sedibus et causis morborum per
anatomen indagatis'', cioè “La causa delle malattie comprovata dall'autopsia”.
Venne ideato già allora il METODO ANATOMO-PATOLOGICO che consta di quattro fasi:
1. STORIA CLINICA: i medici seguivano il decorso della malattia.
2. AUTOPSIA E DESCRIZIONE DEGLI ORGANI: morto il paziente, i medici facevano l'autopsia e
descrivevano gli organi.
3. DIAGNOSI: si identificano le diverse diagnosi legate a quel quadro anatomo-patologico (DIAGNOSI
DIFFERENZIALE) e, poi, si indicava la più probabile.
4. EPICRISI (fase introdotta dal ‘700; dal greco guardare dall'alto, giudicare): i patologi riscrivevano la
storia clinica alla luce di quello che avevano appurato durante l’autopsia.
La diagnosi va fatta sempre seguendo il metodo anatomo-patologico, altrimenti rimane una semplice
descrizione della malattia che può essere addirittura controproducente.

P.S. La prima fase del metodo anatomo-patologico è, oggi, nelle mani del clinico a cui spetta il compito di
raccogliere quante più informazioni inerenti possibili.

Come accennato prima, l'anatomo-patologo esegue anche analisi pre-operatorie per evitare che vengano
confusi quadri clinici simili ma fondamentalmente diversi (es. una donna subisce un colpo contundente
sulla mammella con conseguente liponecrosi e cicatrice retraente. Questa cicatrice è clinicamente
indistinguibile da un carcinoma.). Per evitare di incorrere in tali errori di valutazione si esegue la BIOPSIA
PREOPERATORIA.
La biopsia preoperatoria può essere di due tipi:

• INCISIONALE → si preleva una parte della lesione, poi il patologo giudica, diagnostica ed
eventualmente si re-interviene su quella lesione dato che la biopsia pre-operatoria incisionale non
è un atto chirurgico
• ESCISSIONALE → si toglie tutta la lesione. Dopodiché se la lesione è benigna non si fa più nulla
perché l’autopsia diventa atto operatorio definitivo, se è maligna si prosegue secondo i protocolli di
trattamento per una lesione maligna.

L’indicazione ad eseguire una biopsia incisionale o escissionale dipende da tutta una serie di fattori e
considerazioni per cui la scelta di una o dell’altra opzione va analizzata caso per caso.

Esistono, poi, dei casi in cui non si riesce a fare una diagnosi preoperatoria (vedi ghiandola salivare o ovaio)
perché, ad esempio, non si può “aprire-chiudere e riaprire” l’addome di un paziente. Per queste situazioni
esiste la BIOPSIA INTRAOPERATORIA.
Grazie ai successi e ai progressi dell’anestesiologia (P.S. Prima il paziente si addormentava con il
cloroformio per cui il chirurgo aveva un certo lasso di tempo per operare), si può indurre la narcòsi tramite
infusione di alcuni farmaci, operare con calma e, quando si è conclusa l’operazione, terminare l’infusione in
modo da risvegliare il paziente. Questa tecnica di anestesiologia consente tra le tante cose di poter
praticare l’esame bioptico intraoperatorio: viene tolto un frammento e viene portato in Anatomia
Patologica dove non si utilizzano le normali tecniche di fissazione chimica come è consuetudine fare negli
altri casi ma si utilizza una procedura più rapida, cioè si congela il campione a -30 °C, facendo così, nel giro
di 20 minuti, la diagnosi che viene prontamente comunicata al chirurgo che, nel frattempo, attende l’esito.
Spesso questo esame è usato anche per capire se il chirurgo ha resecato abbastanza tessuto o deve
continuare a rimuoverne altro. È opportuno ricordare che questa tecnica presenta un’alta percentuale di
errore (15-20%) aldilà delle abilità dell’operatore per cui è opportuno utilizzarla solo quando indicato.

Oltre alle biopsie utili ai fini chirurgici, oggi vengono eseguite anche le BIOPSIE MEDICHE, cioè biopsie che
non servono al chirurgo come supporto alla scelta su quale operazione eseguire ma servono a dare un’idea
precisa di quale sia la malattia di quell’organo. Si tratta di biopsie epatiche, biopsie renali, biopsie
osteomidollari, etc… cioè biopsie che servono a definire la presenza, la natura e la gravità di una
determinata patologia (per esempio di un’epatite cronica) in modo anche da adattare la terapia. Queste
biopsie si possono anche ripetere nel tempo per valutare, dopo la diagnosi dell’anatomo-patologo e la
terapia del clinico, l’effetto della terapia.
Al concetto di biopsia medica si associa, poi, quello di BIOPSIA ENDOSCOPICA, cioè un prelievo bioptico
eseguito in endoscopia.

P.S. Ricordiamo che, oggi, oltre alla normale MO, esiste anche la microscopia elettronica (ME) la quale
permette di apprezzare l’ultrastruttura delle cellule.
Sappiamo, infatti, che la formula di Abbe afferma che il potere di risoluzione di un sistema ottico dipende
anche dalla lunghezza d’onda della luce incidente per cui, con un microscopio ottico, utilizzando lo spettro
del visibile, non possiamo andare oltre i 1000 ingrandimenti. Se, invece, della luce naturale utilizziamo,
però, gli elettroni che hanno lunghezza d’onda estremamente piccola, possiamo arrivare ad avere
ingrandimenti dell’ordine di 180 mila (microscopio utilizzato per la diagnostica) - 450 mila ingrandimenti
(microscopio utilizzato per la ricerca), visualizzando elementi più piccolo della grandezza delle cellule.

Oltre alla biopsia esiste, poi, l’ESAME CITOLOGICO (cito = cellula) che studia le modificazioni cellulari
prendendo le cellule isolate dal contesto.
Si è iniziato con la CITOLOGIA ESFOLIATIVA cioè l’analisi delle cellule che sono esfoliate, per poi giungere
alla CITOLOGIA ASPIRATIVA.

Un esempio di citologia esfoliativa, ci è dato dagli studi condotti da Papanicolaou riguardo alla citologia
cervico-vaginale, cioè le cellule che vengono esfoliate dal collo dell’utero e che analizzate ci permettono di
stabilire se la signora da cui provengono non ha nessuna malattia oppure se sono presenti delle cellule
maligne e, dunque, se si sta formando un tumore. Oltre alla citologia esfoliativa cervico-vaginale che ha
avuto un grande successo perché ha fatto diminuire l’incidenza del carcinoma invasivo nelle popolazioni
che fanno lo screening, esiste anche la citologia urinaria che è molto delicata perché l’urina è acida ed
ipertonica e, quindi, bisogna avere delle accortezze per evitare che le cellule vengano distrutte oppure
quella dell’espettorato o del lavaggio bronchiale.

Intorno agli anni ’60 Zaycev mise a punto, poi, la citologia aspirativa.
Infatti, la citologia esfoliativa può essere eseguita su organi comunicanti con l’esterno, mentre la citologia
aspirativa consente di aspirare e analizzare cellule da qualsiasi organo (pancreas, camera anteriore e
posteriore dell’occhio, mediastino, strutture endotoraciche, etc…) con l’utilizzo di aghi sottili.
P.S. Se si utilizzano aghi voluminosi il campione aspirato non è buono né per la citologia né per la biopsia.

Molto spesso sugli articoli scientifici si fa confusione tra:


• FNAB (FINE NEEDLE ASPIRATION BIOPSY)
• FNAC (FINE NEEDLE ASPIRATION CYTOLOGY)
La differenza risiede nel calibro e nel tipo di ago utilizzato.
Per fare un’AGO-BIOPSIA, ovvero una FNAB, di solito si utilizza un ago 16 G (con numero di Gauge 16), con
bordi taglienti a becco di flauto.

P.S. Il numero di Gauge (G) è inversamente proporzionale al calibro dell’ago: tanto più alto è il numero di
Gauge tanto più sottile è l’ago. Il gauge è un’unità di misura di diametro che non fa parte del sistema
internazionale (S.I.) ma che è tutt’ora utilizzata in ambito medico.

L’ago-biopsia si esegue nel seguente modo: l’ago viene inserito nell’organo da analizzare, ad esempio
fegato, e si tira su un frustolo lungo almeno 3 cm. È importante affondare bene l’ago nell’agobiopsia
seguendo quelle che sono le linee guida.
Purtroppo, nella realtà, spesso arrivano in reparto di anatomia patologica dei frustoli di massimo 1 cm
perché la capsula glissoniana del fegato è aderente al fegato e manda delle travate connettivali che legano
la capsula all’organo, dunque, può capitare che venga presa la parte superficiale del fegato che per sua
natura è nodulare, essendo questa organizzata intorno agli affondamenti della capsula glissoniana e,
quindi, dei frammenti inutilizzabili.
Con una agobiopsia eseguita bene il frustolo che si ottiene è lungo 25-30 mm ed è sottile 1 mm - 1,5 mm (al
massimo). Queste dimensioni sono sufficienti per preparare sezioni istologiche dello spessore di 5 micron (5
millesimi di mm) adatte alla diagnosi.

Per fare un AGOASPIRATO di cellule isolate, ovvero una FNAC, si utilizzano, invece, aghi sottili superiori a
19 G. Non bisogna mai fare il prelievo con un ago inferiore a 22 G. Gli aghi che si usano di più sono il 25 G e
il 27 G, perché questi aghi oltre ad essere sottili sono atraumatici, cioè non bucano i vasi. Infatti, se si
bucassero i vasi, il sangue si mescolerebbe con le cellule e diventerebbe difficilissimo poter lavorare sulle
cellule stesse.

P.S. Non è vero che fare il prelievo con un ago grosso significa aspirare più cellule perché la forza di strappo
induce la formazione di un tappo. Con l’ago sottile, invece, le cellule del tessuto penetrano
spontaneamente per capillarità.

Le cellule vengono, infine, lavorate e preparate in modo da elaborare un giudizio diagnostico. Se la citologia
viene fatta bene e ciò vuol dire che anche il prelievo è ottimale, si tratta di una diagnosi a tutti gli effetti.
Sulla citologia, infatti, si possono eseguire anche le indagini dei marcatori tumorali che sono indispensabili
per la programmazione di una terapia. Oggi più del 50% dei pazienti con carcinoma polmonare non hanno
mai una diagnosi istologica nella loro vita perché la diagnosi citologica è più che sufficiente per
intraprendere un percorso terapeutico.

La ricerca dei marcatori tumorali si esegue tramite INDAGINI DI IMMUNOISTOCHIMICA e DI BIOLOGIA


MOLECOLARE.
Nelle TECNICHE DI IMMUNOISTOCHIMICA si utilizza un anticorpo diretto contro una sostanza che vogliamo
evidenziare in un tessuto e, poi, un anticorpo diretto contro il primo con un “flag” cioè un segnale.
Il “flag” può essere un fluorocromo e, quindi, si parla di immunofluorescenza, oppure un enzima e, quindi, si
parla di immunoenzimatica, oppure una minuta particella di metallo (vedi oro) e, quindi, parliamo di
immunomicroscopia elettronica.
Con l’immunoistochimica possiamo evidenziare una marea di Ag (antigeni) che sono indispensabili
soprattutto per fare la diagnosi.
Se vedo un tumore scarsamente differenziato e non so se si tratta di un carcinoma, un sarcoma etc…, ma so
che le cellule epiteliali producono citocheratina, si possono ricercare le citocheratine con un anticorpo anti-
citocheratina. Se l’esame risulta positivo, si può affermare che si tratti di un carcinoma scarsamente
differenziato.

La BIOLOGIA MOLECOLARE è ancora più avanzata dell’immunoistochimica perché, mentre per


l’immunoistochimica, bisogna avere un certo numero di molecole per poterle evidenziare (non riesco ad
andare oltre le 100 molecole), la biologia molecolare che agisce sul nucleo o sugli acidi nucleici e, quindi,
anche sull’ RNA, produce tramite PCR una moltiplicazione di queste basi riuscendo a mettere in evidenza
anche piccole mutazioni tramite le quali si può capire se un tumore è di un determinato tipo o di un altro.
Oggi la biologia molecolare è diventata indispensabile perché l’utilizzo dei vari farmaci dipende molto
spesso dalla sovraespressione o inibizione di molti geni (es K-RAS) tanto da far parlare di target therapy (o
terapia personalizzata).

Spiegato così sembra che il lavoro dell’anatomo-patologo sia un lavoro da algoritmo ma, in realtà, non è
così.
LESIONI ELEMENTARI
Innanzitutto bisogna ricordare che una cellula in omeostasi, prima che si verifichi un danno (sia esso
reversibile o irreversibile), presenta una situazione di adattamento. Infatti, per danno cellulare si intende
l’insieme delle modificazioni cellulari che si verificano quando vengono superate le capacità adattative
cellulari.
Definiamo LESIONI ELEMENTARI:
• PROCESSI REGRESSIVI
• DISTURBI DI CIRCOLO
• INFIAMMAZIONI
• NEOPLASIE
cioè tutte quelle lesioni che ritroveremo nelle varie patologie che affronteremo nell’anatomia patologica
sistematica.

PROCESSI REGRESSIVI
I processi regressivi sono condizioni patologiche che si verificano prevalentemente a livello cellulare per
l’azione di vari fattori che chiamiamo NOXAE PATOGENE.
Le noxae patogene (eziologia) più importanti possono essere:
• ALTERATO STATO DI OSSIGENAZIONE
• STIMOLO MECCANICO (es. martellata sul dito)
• STIMOLO CHIMICO (es. veleni che possono interferire con il metabolismo della cellula)
• MALATTIE GENETICAMENTE DETERMINATE che interferiscono con la cellula
Essi sono:
• ATROFIA
• RIGONFIAMENTO TORBIDO
• DEGENERAZIONE VACUOLARE
• IALINOSI
• STEATOSI
• GLICOGENOSI
• AMILOIDOSI

La patogenesi dei processi regressivi è l’interferenza con il normale metabolismo. La cellula ha bisogno di
lavorare per mantenere il suo equilibrio.
L’interno della cellula ha una pressione osmotica che è superiore a quella dell’esterno per la quantità di
molecole in essa contenute ed ha una concentrazione di elettroliti che è diversa dall’esterno. All’interno
della cellula troviamo prevalentemente ioni potassio, mentre all’esterno ioni sodio e tutto ciò dipende dalla
cosiddetta pompa sodio/potassio. La “benzina” di questa pompa è l’ossigeno e il “motore” sono i
mitocondri. Quando la cellula comincia a soffrire si osservano delle alterazioni prima biochimiche, poi
ultrastrutturali (rigonfiamento dei mitocondri) e, poi, alterazioni apprezzabili al microscopio ottico.
Soprattutto nelle alterazioni regressive è presente una “zona grigia” in cui si confonde ciò che è fisiologico,
da ciò che è l’adattamento cellulare, da ciò che è patologico.

ATROFIA
Tra le alterazioni regressive ricordiamo l’ATROFIA, cioè la riduzione del volume delle cellule e dell’organo
che tra l’altro appare più duro per l’aumento del connettivo.
L’atrofia può essere addirittura fisiologica, ad esempio un organismo che invecchia per cui si osserva una
riduzione di volume delle sue cellule e, quindi, dei suoi organi oppure una struttura embrionale che
regredisce (vedi uraco, allantoide, etc…). Altro esempio di atrofia fisiologica è l’atrofia correlativa che
dipende dagli ormoni (es. durante la gravidanza l’utero aumenta notevolmente di volume per aumento sia
delle cellule che del volume delle cellule. Alla fine della gravidanza si ristabilisce la condizione precedente
non essendo presente lo stimolo ormonale. In più con la menopausa si ha la vera e propria atrofia).

L’atrofia può diventare patologica quando dipende da:


• inattività (vedi un arto ingessato per lungo tempo)
• riduzione dell’apporto nutrizionale
• riduzione dell’apporto di ossigeno per disturbi vascolari che provocano ipo/anossia
• compressione (ad esempio, un polmone diventa atrofico in presenza di una massa comprimente o
di una deviazione della colonna vertebrale)
• disturbi endocrini (tutti gli organi controllati da un ormone possono andare incontro ad atrofia se
l’ormone non viene più secreto)
• deterioramento progressivo delle cellule come succede nell’Alzheimer in cui c’è un accumulo di
proteine anomale che sono tossiche per la cellula

L’atrofia appare con:


• RIDUZIONE DI VOLUME DELL’ORGANO che delle volte è collegato alla riduzione del numero delle
cellule (come per l’utero)
• RIDUZIONE DEL VOLUME DELLE CELLULE (prevalentemente nel muscolo scheletrico e nel muscolo
cardiaco)
• RIDUZIONE DEL NUMERO DELLE CELLULE
Generalmente l’organo appare aumentato o diminuito di consistenza dal momento che all’atrofia delle
cellule parenchimali corrisponde un aumento dell’interstizio per aumento del connettivo o del tessuto
adiposo che consumano meno nutrienti e ossigeno (fenomeno ex-vacuo).

La PATOGENESI dell’atrofia è da correlare alla riduzione dell’assunzione di amminoacidi ed ossigeno,


riduzione della sintesi proteica e aumento del catabolismo proteico.

Gli organi atrofici presentano, di solito, un colorito più scuro perché all’interno delle cellule accumulano un
pigmento detto LIPOFUSCINA (definito anche pigmento da usura). Quando la cellula si riduce di volume
sopprime un certo numero di organuli, cioè fa un’opera di auto-pulizia con produzione di scorie. Alcune
scorie vengono elaborate ma altre non si riesce a smaltirle (vedi membrane che sono costituite da lipidi e
proteine) per cui si accumulano in depositi, coniugate con sostanze proteiche particolari, facendo assumere
all’organo un colorito marroncino (non è scuro come la melanina né brillante come l’emosiderina).
La lipofuscina non è tipica, però, solo dell’atrofia ma la si ritrova in tutte le situazioni di distruzione
cellulare. Osservando, infatti, un’epatite acuta in cui c’è la morte di un certo numero di epatociti, le cellule
di Kupffer appaiono iperplastiche, cioè aumentate di volume, ipertrofiche, cioè aumentate di dimensioni e
con un colorito marroncino chiaro dovuto alla lipofuscina formatasi dalla distruzione cellulare.

Ci sono delle condizioni particolari di atrofia che sono importanti e interessanti da valutare nel polmone e
nell’encefalo.
L’ATROFIA DEL POLMONE si accompagna ad una certa distruzione dei setti, quindi gli alveoli diventano più
ampi anche se il polmone risulta di piccole dimensioni. Questo aspetto si definisce ENFISEMA SENILE DEL
POLMONE. In realtà, non si tratta di un vero e proprio enfisema perché l’enfisema si presenta con:
• polmone sovra disteso, con una cavità ampia e con una pressione molto grossa all’interno dei grossi
alveoli sfiancati
• diaframma basso
• torace a botte perché molto espanso.
Nell’enfisema senile, invece:
• il torace è rachitico
• il polmone non è iperespanso ma di piccole dimensioni, privo di una pressione interna elevata
• il polmone è anelastico perché presenta meno fibre elastiche e più fibre connettivali

L’ATROFIA SENILE DELL’ENCEFALO è caratterizzata da:


• riduzione di volume dell’encefalo
• aumento del liquor (→IDROCEFALO EX VACUO) senza
aumento della pressione del liquor e, quindi, senza
ipertensione endocranica.

P.S. Tranne quello ex vacuo, tutti gli idrocefali sono ipertensivi.

• maggiore ampiezza dei solchi delle varie circonvoluzioni che, invece, sono ristrette.
Sezionando l’encefalo l’atrofia si può apprezzare, dunque, sia sulla superficie esterna che su quella interna
dato che i ventricoli sono dilatati data la riduzione del parenchima cerebrale.

P.S. L’osteopenia senile è un altro esempio di atrofia che si presenta soprattutto nelle donne dove la
mancata stimolazione ormonale protettiva facilita il processo. Le trabecole ossee diventano sempre più
sottili per cui le ossa sono sempre più fragili.

RIGONFIAMENTO TORBIDO e DEGENERAZIONE VACUOLARE


Sempre tra le alterazioni regressive ricordiamo il RIGONFIAMENTO TORBIDO e la DEGENERAZIONE
VACUOLARE. Si tratta di situazioni dovute soprattutto all’anossia ma si possono verificare anche per altre
condizioni, ad esempio, di tipo tossico.
L’anossia può essere:
• ipossica
• anemica
• da stasi
• citotossica
In queste situazioni il contenuto di acqua nella cellula è maggiore per il mancato funzionamento della
pompa del sodio che determina richiamo di acqua dall’esterno verso l’interno della cellula.

Nel RIGONFIAMENTO TORBIDO:


• la quantità di acqua che entra è limitata
• aumenta la sintesi proteica come tentativo di difesa della cellula.
Il rigonfiamento torbido, in realtà, non è una situazione di sofferenza cellulare ma è un adattamento ad una
iniziale condizione di sofferenza. La cellula reagisce producendo più proteine. Il rigonfiamento torbido sta
ad indicare un’iniziale sofferenza, un tentativo di risposta alla noxa patogena ed è perfettamente
reversibile. L’organo appare pallido e torbido (a carne lessa) perché le cellule rigonfiate comprimono i
capillari.
Nel caso di un tubulo renale spesso si osserva un aspetto irregolare di superficie perché ci sono cellule più
espanse e cellule meno espanse. Si parla, infatti, di bordo del lume “a dente di sega” o “stellato”, dovuto al
fatto che vi è una dismetria tra le cellule più espanse e le cellule meno espanse.

Nel RIGONFIAMENTO IDROPICO, invece:


• le cellule appaiono molto voluminose raggiungendo il limite massimo di espansione. Oltre quel
volume la cellula esploderebbe
• vi è un’enorme dilatazione delle cisterne perché l’acqua che entra dilata tutto
Nella degenerazione idropica la sofferenza è maggiore e la quantità di acqua è al massimo della capienza.
Anche la degenerazione vacuolare può essere reversibile fino ad un certo punto. Se le condizioni sono
molto gravi, come in caso di stimolo nocivo intenso o stimolo che perdura molto nel tempo, la situazione
diventa irreversibile.
Se, in questo caso, osserviamo il tubulo renale, si può apprezzare un falso lume regolare perché non c’è più
una dismetria tra una cellula e l’altra, dato che tutte sono al massimo della loro espansione, ma il lume è
estremamente ridotto. I nuclei sono molto piccoli perché sono in sofferenza e, in qualche cellula, spesso non
si vede il nucleo perché la sezione capita su un punto dove non c’è il nucleo, essendo la cellula molto espansa.

Se si prende un rigonfiamento torbido e una degenerazione valvolare, le cellule della degenerazione


vacuolare sono il doppio del rigonfiamento torbido.

Il rigonfiamento idropico può essere di vario tipo. Prendiamo, ad esempio, il fegato possiamo avere una
DEGENERAZIONE:
• BALLONIFORME, cioè macrovacuolare con vacuoli molto grandi (due - tre vacuoli per fagocita). La
cellula diventa molto voluminosa tanto da definire la degenerazione balloniforme
• MACROVACUOLARE in cui la cellula non diventa eccessivamente voluminosa
• MICROVACUOLARE cioè con piccoli vacuoli ma molto numerosi
• SUPERMICROVACUOLARE: in questo caso si parla di “epatociti ground glass” (epatociti a vetro
smerigliato)
• PIUMOSA in cui i vacuoli sono estremamente piccoli
Tutto ciò è importante perché si possono fare associazioni tra tipologia di degenerazione e patologia:
• DEGENERAZIONE BALLONIFORME → epatite acuta
• DEGENERAZIONE MACROVACUOLARE → avvelenamento probabilmente da acetilene
• DEGENERAZIONE MICROVACUOLARE → avvelenamento generico
• DEGENERAZIONE SUPERMICROVACUOLARE → portatore di virus B anche senza malattia
• DEGENERAZIONE SUPERMICROVACUOLARE PIUMOSA → stasi biliare (P.S. La bile è fortemente
tossica).

IALINOSI
Un altro processo regressivo è la IALINOSI. In greco, “ialòs” significa omogeneo. Quindi, per ialinosi
intendiamo una degenerazione che è caratterizzata dall’essere omogenea e ipereosinofila.

P.S. Le cellule normali non hanno un citoplasma omogeneo perché la presenza di mitocondri e altri organuli
conferisce un aspetto granulare.

Stesso discorso vale per l’interstizio: normalmente l’interstizio è eosinofilo perchè ci sono le proteine
dell’interstizio, le scleroproteine del collagene, però, queste proteine non sono mai abbondanti. Quindi,
l’interstizio è meno acidofilo del corpo cellulare.
Se, invece, l’interstizio diventa ipereosinofilo e omogeneo, parliamo di ialinosi.

Quindi, cominciamo con il sottolineare che la ialinosi è un tipo di degenerazione che è


contemporaneamente intracellulare ed extracellulare.
Il rigonfiamento torbido e la degenerazione vacuolare sono sempre degenerazioni cellulari mentre la
ialinosi può, invece, essere cellulare o interstiziale.

Al microscopio ottico la ialinosi appare:

• OMOGENEA
• AMORFA
• VITREA
• ACIDOFILA (cioè si colora fortemente con l’eosina nella colorazione ematossilina/eosina)
• PAS positiva
Il PAS è una colorazione che mette in evidenza gli zuccheri, sia gli zuccheri semplici che gli zuccheri
complessi. Gli zuccheri sono catene idrossiliche con un gruppo 1-2 glicolico, cioè il legame tra il
primo e il secondo atomo di carbonio è il glicolico. Il PAS è una reazione (e non una colorazione)
perché si utilizza l’ACIDO PERIODICO (IO4) che è un composto instabilissimo con un sacco di
ossigeno per cui è un forte ossidante. Questo acido periodico (PA, periodic acid), trasforma il
gruppo 1-2 glicolico in 1-2 aldeidico, cioè lo ossida sottraendoli atomi di idrogeno. Questo gruppo
1-2 aldeidico è in grado di fissare il REATTIVO DI SCHIFF, cioè la fucsina decolorata, la quale
agganciandosi al gruppo chimico diventa rossa. Tutti gli zuccheri sono PAS positivi.
In questo caso, la PAS positività è dovuta alle glicoproteine. Quindi, in caso di ialinosi, non solo il
citoplasma ma anche l’interstizio diventa ialino nel momento in cui si ha essudazione di
glicoproteine. Quindi, l’interstizio diventa omogeneo, vitreo ed ipereosinofilo perché le
glicoproteine del plasma escono fuori dai vasi, vanno nell’interstizio e sommergono le bande
collagene interstiziali.

Diversi fattori possono determinare un quadro di ialinosi (patogenesi multifattoriale): fattori dismetabolici,
alterazioni immunitarie, autoimmunità, invecchiamento, etc…

Esempi di ialinosi (eccesso di proteine) intracellulare sono:

• plasmacellule invecchiate le quali non riescono a secernere in abbondanza immunoglobuline che si


accumulano nel citoplasma che diventa ipereosinofilo ed omogeneo. Addirittura queste cellule
possono perdere il nucleo. I grossi globuli ipereosinofili PAS positivi presenti nel citoplasma sono
detti corpi di Russell.
• inclusioni nucleari in corso d’infezioni da rabbia o da virus (non HPV che non crea inclusioni ialine)
• epatociti in cui sono presenti i corpi di Mallory, cioè precipitati intranucleari di citocheratina.
Generalmente si osservano in caso di intossicazione alcolica.

• tubuli prossimali del rene dopo un avvelenamento da piombo o arsenico. In questo caso
precipitano le proteine all’interno del citoplasma delle cellule glomerulari. Queste cellule si
distaccano dal bordo del tubulo come ammassi ialini e si ritrovano nelle urine. Infatti, quando nel
sedimento urinario si ritrovano cilindri ialini, la conclusione clinica è che il paziente ha avuto necrosi
tubulare.
• fibre muscolari striate in corso di degenerazione Zenker. Le fibre muscolari hanno filamenti di
actina e miosina che sono intrecciati in modo da delineare, al microscopio elettronico, le bande
isotrope e anisotrope mentre, al MO, si osserva la striatura caratteristica delle cellule striate.
Quando le cellule muscolari striate si alterano, actina e miosina più altre proteine diverse
precipitano creando ammassi proteici ipereosinofili. Si parla di degenerazione Zenker. Questo si
osserva in molte malattie infiammatorie e in seguito alla presenza di esotossine che sono in grado
di procurare necrosi delle fibre muscolari come nel caso dell’ileotifo o della laringite difterica.

Esempi di ialinosi extracellulare, cioè accumulo di proteine che provengono dal plasma, sono, invece,
quelle:

• delle vecchie cicatrici: le cicatrici sono bande collagene definitive che se si sporcano con le
glicoproteine diventano bande collagene di tipo ialino
• delle piccole arterie: la parete delle arteriole ha solo tessuto muscolare non elastico. In un soggetto
iperteso, la muscolatura è molto attiva, perché se la pressione è alta, dal momento che al distretto
deve arrivare sangue sempre alla stessa pressione, le arteriole si costringono. Questa contrazione
spastica, dopo decenni, provoca una sostituzione delle fibre muscolari in fibre collagene. Dal
plasma possono uscire fuori delle glicoproteine che si stratificano sul collagene neoformato
determinando la formazione di arteriole ialinosiche. Non a caso, in un anziano con una storia di
ipertensione di molti anni, la pressione presenta una grande differenza tra la pressione massima e
minima (180 – 20) mancando la compliance delle arteriole la quale permette normalmente alle
arteriole di accompagnare la diastole. La perdita della compliace è dovuta alla ialinosi che
impedisce alle arteriole di contrarsi o dilatarsi. Il problema è che la ialinosi delle arterie le
predispone ad una rottura e, quindi, si ha un’alta incidenza di emorragie cerebrali.
• nei glomeruli renali: spesso nei glomeruli renali, in corso di diabete o di glomerulopatie, si possono
accumulare immunoglobuline creando depositi PAS positivi ialini.
• nei tubuli renali: si forma la proteina di Bence Jones
• nei tumori benigni di origine connettivale: lo stroma dei tumori benigni di origine connettivale può
diventare ialino (vedi carcinoma alla mammella).

STEATOSI
Un altro esempio di processi regressivi è la STEATOSI (o DEGENERAZIONE GRASSA), cioè l’aumento del
contenuto adiposo delle cellule.
Nelle cellule si distinguono due tipologie di grasso:

− il GRASSO DI DEPOSITO (o DI RISERVA), che è fatto prevalentemente da trigliceridi e che è


localizzato nel tessuto adiposo. La riserva energetica del nostro organismo è costituita da grassi e
non, ad esempio, da carboidrati perché da 1 grammo di zuccheri si ricavano 4 kcal, mentre da 1
grammo di grassi si ricavano 9 Kcal.
− il GRASSO UTILIZZATO COME SUBSTRATO per la sintesi di altre molecole, basti pensare al grasso
presente nella corteccia surrenalica, nel corpo luteo, nelle guaine mieliniche, etc...

I grassi in questione possono essere evidenziati con particolari colorazioni per i grassi dal momento che il
campione deve essere opportunamente preparato dato che i grassi spariscono durante la disidratazione.
Normalmente il pezzo, una volta fissato in formalina, viene disidratato con gli alcoli e chiarificato con lo
xilolo. “Chiarificato” significa che viene tolto tutto il grasso che c’è all’interno, in maniera tale che la
paraffina possa penetrare in modo da prendere il posto dei grassi liberi. Questo serve a creare un blocco
unico di una durezza tale da permettere un taglio di 3-5 micron.

− i LIPIDI STRUTTURALI utili per la formazione delle membrane cellulari. Questi lipidi non solo non
vanno via con il processo d’inclusione, ma non si possono evidenziare con i coloranti per i grassi
perché tali coloranti reagiscono solo con i grassi liberi. Si utilizzano, quindi, colorazioni speciali (vedi
colorazione per la mielina).

P.S. Quando una persona si mette a dieta prima si eliminano gli zuccheri, poi si eliminano le proteine e, alla
fine, si eliminano i grassi. È importante, comunque, garantire un apporto minimo di 65 grammi di grassi al
giorno di lipidi perché tutte le vitamine liposolubili si assumono con i grassi e perché i grassi sono essenziali
per la costituzione delle membrane.

I lipidi si distinguono in:

o ACIDI GRASSI
o TRIGLICERIDI
o COLESTEROLO che può essere libero o esterificato
o LIPIDI COMPLESSI, molto differenziati e organizzati, come fosfolipidi, glicoproteine, etc…

Nella cellula epatica arrivano i grassi provenienti dalla dieta o dal tessuto adiposo. Qui avviene
l’esterificazione a trigliceride e la trasformazione in colesterolo. Tenendo presente il ciclo dei grassi, è facile
stabilire le cause della steatosi.

In passato si faceva distinzione tra steatosi e degenerazione grassa, intendendo per degenerazione grassa
uno stato di sofferenza della cellula (la cellula va in sofferenza e digerisce i lipidi complessi in lipidi semplici
che si accumulano → lipofanerosi), mentre per steatosi si intendeva una tesaurismosi, cioè un accumulo
anomalo di varie sostanze nelle cellule. Esistono, infatti, tesaurismosi lipidiche, glucidiche,
mucopolisaccaridiche, etc... Quindi, la steatosi era intesa come accumulo di grassi, cioè una tesaurismosi di
grassi.
Quindi, nella degenerazione grassa si ha prima danno cellulare e, poi, accumulo di grassi mentre nella
steatosi si ha prima l’accumulo di grasso e, poi, la sofferenza cellulare. Questa distinzione, però, oggi non
viene fatta più perché priva di utilità e, quindi, si utilizzano in maniera indistinta i due termini.

La steatosi può essere il risultato di:

• dieta incongrua con un’eccessiva introduzione di lipidi


• accumulo di acetato proveniente dal tessuto adiposo periferico
o dall’ossidazione dell’alcol etilico (che diventa prima aldeide
etilica e poi acido acetico, formando acetato).
• esaltata sintesi di acidi grassi
• diete povere in grassi e, soprattutto, in proteine che
determinano rispettivamente movimento di grassi periferici che arrivano al fegato e mancata
mobilizzazione
• ipossia cioè riduzione della tensione di ossigeno nelle cellule epatiche che impedisce la
mobilizzazione dei grassi
• infezioni
• eventi tossici
• formati gli acidi grassi, questi devono essere coniugati con il glicerofosfato. Esistono delle malattie
congenite in cui manca questa capacità di legame con il glicerofosfato.
• i trigliceridi devono essere legati con le apoproteine per formare le lipoproteine, perché il fegato
mette in circolo solo lipoproteine e non trigliceridi. Se è presente una carenza di proteine, per
esempio un paziente con sindrome nefrosica che perde proteine con le urine, si ha steatosi del
fegato perché manca la possibilità di coniugazione delle lipoproteine. Steatosi si può avere anche
per alterazione del circolo entero-epatico.

La steatosi interessa:

• fegato che è l’organo più colpito essendo il principale organo implicato nel metabolismo dei lipidi
• reni (vedi steatosi dei tubuli renali in corso di sindrome nefrosica)
• muscoli scheletrici soprattutto in seguito a fenomeni ipossici
• cuore: famoso è il “cor tigratum”, una steatosi cardiaca in cui si alternano zone più conservate e
zone meno conservate

Dobbiamo, però, fare prima di tutto una differenziazione tra steatosi e lipomatosi.
La steatosi è una condizione di sofferenza della cellula parenchimale in cui è la cellula parenchimale, la
“cellula nobile”, che va incontro ad accumulo di lipidi. La lipomatosi è, invece, l’aumento del tessuto
adiposo interstiziale. Quindi, l’organo diventa giallastro non perché le cellule accumulano i trigliceridi ma
perché aumentano le cellule adipose interstiziali. La lipomatosi può essere diffusa nell’obesità, allora tutti
gli organi hanno un’adiposità, però, può essere anche distrettuale.
È opportuno ricordare che il grasso si comporta da meccanismo di compenso ex vacuo cioè, se la cellula
parenchimale sparisce, il posto della cellula viene occupato da tessuto adiposo.
Quindi, invecchiando possiamo avere adiposità senza essere grassi perché, ad esempio, l’atrofia delle
cellule del miocardio, del pancreas, delle ghiandole salivari viene compensata dall’aumento del tessuto
adiposo interstiziale.
Spesso in alcune malattie congenite del muscolo si parla di pseudo-ipertrofia perché il muscolo di per sé
sembra più voluminoso ma solo perché il posto prima occupato dalle fibre muscolari viene occupato dal
tessuto adiposo interstiziale.

Le steatosi possono essere:

• REVERSIBILI
• IRREVERSIBILI

Macroscopicamente l’organo colpito (cuore, rene, fegato, muscolo scheletrico) appare aumentato di
volume oltre che di peso. Per esempio nel fegato, che è l’organo più interessato, il margine anteriore, che
poi è quello palpabile, diventa arrotondato.
Palpando il fegato se il margine è ottuso, grande, largo, vuol dire che è aumentato il parenchima (vedi
steatosi). Se, invece, è acuto, duro, tagliente, è aumentato il connettivo.
Il colorito dell’organo è giallastro e la consistenza pastosa. Nelle gravi steatosi tagliando l’organo con il
viscerotomo, il tagliente si sporca di grasso (organo “a pane di burro”, per il contenuto enorme di grasso).

Istologicamente, dato che i trigliceridi spariscono durante la fase di disidratazione e chiarificazione, le


cellule appaiono otticamente vuote, “non colorate”. Il nucleo appare spostato a ridosso della membrana
basale per la presenza del grosso vacuolo di grasso. La cellula parenchimale pian piano assume, infatti, un
aspetto che è simile a quello delle cellule adipose: una grossa goccia centrale di grasso e il nucleo spostato
alla periferia. All’interno di questa goccia sono presenti trigliceridi, colesterolo e qualche volta lipidi
complessi.

Per poter osservare i lipidi bisogna utilizzare una tecnica di inclusione differente per poter, poi, tagliare il
frammento. Il taglio viene eseguito con il criostato. Il criostato è un microtomo che si usa negli esami intra-
operatori: si congela il pezzo e si taglia al criostato. Il criostato è un microtomo che sta in una vaschetta a –
22°C (per alcuni tessuti si arriva fino a -40°C). Fatte le fette, le si stendono sul vetrino e, senza usare nessun
altro fissativo, le si immergono nei coloranti per i lipidi come SUDAN 3, SUDAN 4 (che è rosso), l’OIL RED
(che è rosso). Si tratta di sostanze che si sciolgono nei lipidi conferendo colore al preparato senza necessità
che si formino dei legami. Quindi, nella colorazione normale si usano coloranti come l’ematossilina/eosina,
che sono coloranti idrosolubili, invece, per i lipidi coloranti liposolubili. Inoltre, poiché i lipidi sono inerti, si
inseriscono dei vettori che favoriscono la penetrazione del colorante all’interno dei lipidi.

P.S. Il fegato è organizzato in lobuli di forma poligonale con al centro la vena centro lobulare e ai vertici lo
spazio portale (arteria epatica, vena porta e dotto biliare) da cui si dipartono i sinusoidi che confluiscono
nella vena centro-lobulare. Gli epatociti posti vicino allo spazio portale ricevono più sostanze nutritizie e
una tensione di ossigeno più elevata, rispetto a quelli centro-lobulari. Prima si diceva che, se la steatosi si
trovava vicino alla vena centro lobulare, la causa era l’ipossia mentre, se la steatosi era vicino allo spazio
portale il soggetto era stato avvelenato dato che il veleno arriva al fegato principalmente negli epatociti
periferici che ricevono per primi il sangue. Però, quest’idea non ha ragione di sussistere perché il fegato è
un organo in grado di rigenerarsi dalla periferia (maggiore tensione di ossigeno) verso il centro: quando
muore un epatocita vicino alla vena centro-lobulare viene sostituito da quello accanto grazie alle mitosi
dello spazio portale. In sunto, l’epatocita nasce vicino allo spazio portale e muore vicino alla vena centro-
lobulare.
Osservando gli enzimi si può osservare una loro distribuzione programmata: vicino allo spazio portale ci
sono epatociti che hanno enzimi che lavorano a una tensione di ossigeno ottimale mentre, vicino allo
spazio centro-lobulare, ci sono epatociti con enzimi capaci di lavorare a bassa tensione di ossigeno. Questo
vuol dire che, durante la loro vita, gli epatociti si spostano cambiando progressivamente l’espressione degli
enzimi per adattarsi alla tipologia di lavoro da fare.
Quindi, se l’agente tossico interferisce con gli enzimi ad alta tensione di ossigeno, si ha la steatosi periferica,
mentre se interferisce con gli enzimi a bassa tensione di ossigeno si ha la steatosi centrale.

La steatosi epatica può essere:

• A GROSSE GOCCE
• A PICCOLE GOCCE
Nella steatosi a grosse gocce si osserva lo spostamento del nucleo in periferia. La goccia è unica e sposta
tutti gli organuli, nucleo compreso, verso la periferia.
Invece, nella steatosi a piccolo gocciole, essendone presenti diversi, non c’è uno spostamento di organuli
per cui il nucleo rimane centrale. La presenza di una steatosi a grosse o piccole cellule dipende dal tipo di
lipidi che si accumulano:

• lipidi semplici e trigliceridi, nella steatosi a grosse gocce


• lipidi semplici ma con una quota importante di fosfolipidi nella steatosi a piccole gocce dovuta al
fatto che i fosfolipidi diminuiscono la tensione superficiale dei grassi

La distinzione tra la steatosi a grosse e quella a piccole gocce dell’epatocita è importante perché si è visto
che la steatosi a piccole gocce non è importante dato che gli organuli sono ancora conservati.
Contrariamente la steatosi a grosse gocce è importante perché distrugge, comprime gli organuli (compreso
il nucleo) non facendoli funzionare bene.
Quando si fa il giudizio per la trapiantabilità di un fegato, bisogna contare la percentuale degli epatociti con
steatosi a grosse gocce ma non quella degli epatociti a piccole gocce. Per essere trapiantabile, il fegato non
deve avere più del 25 % degli epatociti occupati da steatosi a grosse gocce.

P.S. Quando la cellula steatosica è molto grande può accadere che la sezione cada in un punto in cui non è
presente il nucleo per cui la cellula appare senza nucleo quando, invece, questo è presente.

GLICOGENOSI
Un altro processo regressivo è la GLICOGENOSI, cioè un accumulo di glicogeno all’interno degli organi.
Possiamo avere un accumulo di glicogeno in soggetti che hanno disturbi del metabolismo del glucosio (vedi
diabete mellito). Però ci sono anche soggetti che geneticamente hanno un deficit enzimatico che non
consente loro il normale metabolismo del glicogeno (glicogenosi congenite).
La sede di accumulo del glicogeno è sempre intracellulare. Il glicogeno si può accumulare all’interno delle
cellule, le quali sono aumentate di volume e con citoplasma chiaro, perché l’eosinofilia del citoplasma
dipende dalle proteine. Il citoplasma povero in proteine e ricco di glicogeno non si colora normalmente se
non con la reazione PAS.

Nel caso del diabete scompensato, si ha una iperglicemia con conseguente polimerizzazione del glicogeno a
livello epatico. Contemporaneamente si ha glicosuria, riassorbimento del glucosio filtrato a livello renale e
deposito di glicogeno nei tubuli. Si osserva, dunque, un aumento del glicogeno sia a livello epatico che a
livello renale. Inoltre, quanta più insulina viene somministrata al paziente, tanto più il glicogeno si accumula
a livello delle cellule, perché uno degli effetti dell’insulina è quello di aumentare i depositi di glicogeno
periferici.

Esistono, poi, le glicogenosi congenite dovute a deficit enzimatici di enzimi coinvolti nella mobilizzazione del
glicogeno. Si tratta di patologie autosomiche recessive. La sintesi e la mobilizzazione del glicogeno avviene
ad opera delle fosforilazioni: il glucosio viene fosforilato e aggiunto alla molecola di glicogeno pre-esistente
mentre quando bisogna mobilizzarlo, si distaccano le singole unità per ottenere alla fine glucosio-6-fosfato.

Tra le glicogenosi (se ne conoscono 14) ma ricordiamo solo quelle di:

• tipo I (malattia di Von Gierke) dovuta al deficit di glucosio-6-fosfatasi.


Quando il glucosio giunge a livello epatico e viene metabolizzato si crea una molecola di glucosio-6-
fosfato. La molecola di glucosio-6-fosfato ha due possibilità:
- il fosforo viene trasferito dalla posizione 6 alla posizione 1 e il glucosio viene avviato alla sintesi
del glicogeno
- il G6P viene liberato della molecola di fosfato e diventa glucosio circolante.
Se manca la glucosio-6-fosfatasi, il glicogeno si scinde e si sintetizza tranquillamente, l’unica cosa
che manca è la possibilità di immettere glucosio nel sangue. Quindi mancando la glucosio-6-
fosfatasi non viene fornito il glucosio nel sangue. Questa malattia non è grave perché se il bambino
viene abituato a mangiare poco e spesso, la sua glicemia raggiunge comunque un livello ottimale.
La caratteristica è che la glucosio-6-fosfatasi non sta in tutti gli organi, ma soprattutto nel fegato e
nel rene, quindi nella glicogenosi di Von Gierke il danno cellulare è a livello epatico e dei tubuli
renali.
• tipo II (malattia di Pompe) dovuta al deficit di α-glicosidasi che è un enzima lisosomiale che serve a
demolire le strutture glicidiche dei vari organelli. Quindi la malattia di Pompe è una malattia in cui il
glicogeno è confinato all’interno delle membrane lisosomiali, a differenza di tutte le altre in cui il
glicogeno è libero nel citoplasma. Questo accumulo diventa, comunque, enorme per cui la cellula
va in sofferenza e, siccome colpisce prevalentemente i muscoli striati e il cuore, i bambini con la
malattia di Pompe difficilmente raggiungono i 4 anni di vita perché muoiono per scompenso
cardiaco.
• tipo III (malattia di Forbes) e tipo IV (malattia di Andersen) dovute rispettivamente al deficit di
enzima ramificante o di enzima deramificante, con accumulo rispettivamente di glicogeno a catena
lunga e a catene corte. Se interessa la catena lunga, si ha glicogeno sferulare (si parla di
SFERULOSI), mentre se interessa le catene laterali si ha un glicogeno molto lungo (simil
amilopectina) che è un po’ tossico per la cellula epatica che, infatti, può andare incontro a cirrosi.
• tipo V e tipo VI dovuto a deficit delle fosforilasi muscolari e epatiche.

La glicogenosi si trova solo in alcuni organi cioè:

− fegato
− reni
− miocardio
− muscolo scheletrico
− linfonodi (accumulo di glicogeno nei macrofagi)

Gli organi affetti risultano:

− aumentati di volume
− pallidi
− non untuosi, contrariamente alla steatosi, ma friabili, cioè poco consistenti

Microscopicamente, la cellula assume un aspetto che viene definito vegetale perché il nucleo è centrale,
non come nella steatosi in cui il nucleo viene spostato in periferia, il citoplasma non si colora e gli organuli
cellulari sono tutti confinati a ridosso della membrana cellulare. La cellula si presenta, quindi, con il nucleo
centrale, il citoplasma chiaro e la membrana cellulare più colorata come accade per la cellulosa nelle
piante. La cellula con la glicogenosi si dice che somigli alle cellule vegetali perché gli organuli periferici
simulano la cellulosa delle cellule vegetali stesse.
Al microscopio elettronico, il glicogeno si presenta come una struttura elettrondensa a trifoglio oppure,
eventualmente, libero nel citoplasma o nei lisosomi (vedi malattia di Pompe).
Per evidenziare il glicogeno bisogna evitare la formalina perché il glicogeno è solubile in acqua, quindi la
formalina lo scioglie per cui bisogna usare fissativi alcolici, come il liquido di Zenker (formalina + additivi
come il mercurio o altri metalli pesanti che ostacolano la solubilizzazione del glicogeno), oppure il
congelamento.
La colorazione, invece, si effettua con la reazione PAS la quale, però, evidenzia sia zuccheri semplici che
complessi.
Per essere sicuri che si tratti di glicogeno e non, per esempio, di glicoproteine bisogna confrontare due fette
seriate: una la si colora con il PAS e, quindi, sarà PAS positiva, l’altra, prima di utilizzare l’acido periodico, la
si tratta con la DIASTASI (enzima della saliva) che scioglie il glicogeno, per cui alla reazione risulta PAS -.
Dunque, se il preparato è PAS + e diastasi-sensibile si tratta di glicogeno, mentre se è PAS + e diastasi-
resistente non si tratta di glicogeno.
Può capitare che il nucleo possa avere delle inclusioni parzialmente PAS positive perché, quando la cellula si
divide e ha un sacco di glicogeno, al momento della formazione delle cellule figlie, la membrana nucleare
può catturare anche una certa quantità di glicogeno. Alcuni, però, sostengono che si tratti di aspetti
paranucleari falsi perché, in realtà, è presente una tasca della membrana nucleare interna, altri, invece, che
il glicogeno può attraversare la membrana nucleare per portarsi, quindi, nel nucleo.
Di sicuro al microscopio elettronico, nel nucleo si osserva il glicogeno, come ci sia arrivato, però, non si sa.
Se la PAS positività è granulare si può anche evitare di fare il test con la diastasi perché la disposizione
granulare è tipica del glicogeno.

P.S. Esistono tesaurismosi:

− glucidiche (glicogenosi di tipo I, II, III, etc…)


− muco-polisaccaridiche, dovute al fatto che si accumulano prodotti metabolici non elaborati dei
mucopolisaccaridi. I muco-polisaccaridi sono molecole molto complesse ma sostanzialmente
costituiti da basi elementari molto piccole: per esempio l’acido ialuronico è un accumulo di glucidi
collegati con il COOH, il dermatansolfato (mucopolisaccaride della cute) o il condroitinsolfato
(sostanza fondamentale delle cartilagini) sono glucosio coniugato con acido solforico.
I mucopolisaccaridi sono come la plastica cioè si modellano a seconda delle esigenze. Questo vuol
dire che c'è un turnover molto elevato e se gli enzimi non sono tutti giusti, si hanno prodotti
catabolici che si accumulano dato che l'organismo non riesce a demolirli efficacemente. Si tratta di
malattie che colpiscono elettivamente le ossa. Le mucopolisaccaridosi sono dette, infatti, anche
gargoilismi (dai gargoil delle cattedrali gotiche) perché quando i mucopolisacaridi non sono
sintetizzati correttamente, le vertebre si schiacciano e formano il gibbo, le cartilagini di
coniugazione si formano in maniera anomala (nanismo), la faccia si presenta con una mandibola
prominente, la lingua fuoriesce, l'attacco dell'orecchio è basso, etc...
− lipidiche, dovute a deficit di enzimi implicati nella demolizione dei lipidi. Gli organi più colpiti sono
solitamente il fegato e l'encefalo (→ organo che contiene più grassi in assoluto). Si tratta di
accumulo di lipidi complessi. Tra le forme più importanti ricordiamo la malattia di Tay-Sachs o
quella di Gaucher caratterizzate da deficit cognitivo e oligofrenia del bambino. La Tay-Sachs è
chiamata, infatti, anche idiozia amaurotica perché il bambino, oltre al deficit cognitivo, è
generalmente anche cieco.

AMILOIDOSI
Sempre tra i processi regressivi ricordiamo l’AMILOIDOSI dovuto all'accumulo di proteine nell'interstizio
che determina compressione delle cellule e, quindi, atrofia. Inoltre, essendo una patologia interstiziale,
l’amiloide può creare una barriere tra vaso e parenchima impedendo la corretta nutrizione delle cellule
dell’organo.
Macroscopicamente l’accumulo di proteine fa aumentare notevolmente il volume dell'organo che, tra
l’altro, assume un aspetto vitreo. Gli organi che presentano amiloidosi hanno una durezza notevole tanto
che, nell'autopsia, ad esempio, il fegato presenta nella parte inferiore l'impronta del rene, idem per la
milza, etc…
Istologicamente l'accumulo di sostanza amorfa, vitrea, acidofila, PAS positiva ricorda la ialinosi interstiziale.
Al microscopio elettronico l’amiloide è, però, microfibrillare, composto da fibre nel 90-95% con spessore
variabile compreso tra 7.6-10 nm. Questa componente fibrillare è fatta da subfibrille (TROPOAMILOIDE)
non più lunghe di 10 nm. Il tropoamiloide ha la forma di mazza da golf cioè con un'espansione periferica. Le
espansioni non si dispongono in modo circolare bensì in maniera elicoidale rispetto al fascio. La
componente fibrillare è tenuta insieme da una proteina pentagonale, SOSTANZA P che non è presente in
quantità superiore al 5-10%.
Facendo un’analisi biochimica dell’amiloide si vede che, mentre la componente pentagonale è sempre
costituita dalla stessa glicoproteina plasmatica, cioè è un essudato di una proteina plasmatica che va lì a
compattare le fibrille, le fibrille non sono formate tutte dalla stessa proteina. Infatti, l’amiloide non è
costituita da molecole omogenee ma da molecole molto diverse l’una dall’altra.
Tra le proteine più frequenti ricordiamo:

− la componente AL (proteina Amiloid-Light), formata da frammenti di catene leggere delle


immunoglobuline
− la proteina AA (Amiloid-A) il cui precursore sierico è la proteina SAA (Syndrome Acute Associated).
Quest’ultima proteina è prodotta dal fegato essendo una proteina della fase acuta
dell’infiammazione. Questa, immessa in circolo, è capace di stimolare il sistema immunitario nei
momenti di riacutizzazione di malattie croniche
− il β-amiloide che si accumula per mancata azione della α-secretina che viene sostituita dalla β-
secretina in corso di malattia di Alzheimer
− i frammenti di TTR (transtiretina): la transtiretina è una globulina che trasporta
contemporaneamente gli ormoni tiroidei e la vitamina A
− la β2 microglobulina in corso di dialisi cronica
− le proteine prioniche in corso di encefalopatia da prioni
− nel caso di tumori endocrini possiamo trovare amiloide costituito a partire da frammenti
dell’ormone prodotto. Ad esempio il carcinoma midollare della tiroide produce la tireocalcitonina:
frammenti di tireocalcitonina si trovano nell’amiloidosi associata a tale tumore

Dunque, riassumendo: la sostanza P serve solo per tenere unite le proteine ed è responsabile solo della PAS
positività, essendo una glicoproteina del siero; la componente principale dell’amiloide (95%) è data dalle
fibre, che non sono formate da un’unica proteina, ma possono essere formate da diverse proteine (AL, AA,
ecc..).

Un concetto importante è il seguente: le caratteristiche dell’amiloide non dipendono dalla costituzione


biochimica della proteina, bensì dalla disposizione di queste proteine nello spazio. È l’architettura o
struttura quaternaria della proteina, quella responsabile delle caratteristiche dell’amiloide. Quindi la
costituzione anatomica delle proteine dell’amiloide non è casuale, ma è strettamente determinata e
perfettamente ripetuta nello spazio. Quando una proteina diventa strettamente conformata e ripetuta
sempre alla stessa maniera nello spazio forma un cristallo. Osservando l’amiloide con i raggi X si può notare
che, nonostante la diversa natura biochimica delle proteine, tutte queste proteine hanno una struttura
sempre molto regolare che corrisponde alla struttura cristallografica.
Quindi tutte le proprietà dell’amiloide dipendono dalla sua struttura quaternaria, indipendentemente dagli
amminoacidi che la formano.

L’amiloide:

• è ROSSO CONGO positiva: il Rosso Congo è una colorazione specifica per l’amiloide cioè
nessun’altra sostanza si colora con il Rosso Congo.
• presenta BIRIFRANGENZA VERDE: per essere certi che la reazione sia avvenuta in maniera corretta,
dobbiamo osservare il preparato con il Rosso Congo al microscopio a luce polarizzata e osservare
birifrangenza verde scuro/verde bottiglia, fenomeno indicato con il termine di dicroismo. Questo
fenomeno è dovuto al fatto che la struttura cristallografica della proteina colorata con il rosso
Congo offre una deviazione della luce dal rosso al verde scuro. Il dicroismo è, dunque, una
testimonianza della struttura cristallografica dell’amiloide.
• emette LUCE ROSSA alla microscopia a fluorescenza: osservando il preparato colorato con il Rosso
Congo con il microscopio a fluorescenza si può apprezzare una luce rossa.
• presenta METACROMASIA: esistono dei coloranti definiti metacromatici i quali solo quando si
uniscono con sostanze dette anch’esse metacromatiche acquistano un colore diverso da quello
originario.
Ad esempio, il cristalvioletto (che è viola) quando si lega ai mucopolisaccaridi diventa rosso: questo
significa che colorando un vetrino con cristalvioletto avremo i nuclei in viola (perché i nuclei non
sono metacromatici) e il condroetilsolfato rosso, in quanto il condroetilsolfato è metacromatico.
La stessa cosa succede per il blu di toluidina il quale, quando incontra il condroetilsolfato, diventa
rosso.
Nel caso dell’amiloide, utilizzando il cristalvioletto, avremo i nuclei in viola scuro e l’amiloide in
rosso, mentre se usiamo il blu di toluidina avremo i nuclei in blu e l’amiloide in rosso.
Questo succede perché certi coloranti hanno i gruppi cromogeni che sono posti tutti alla stessa
distanza l’uno dall’altro (circa 7 Å). Se si osserva un mucopolisaccaride, i gruppi reattivi (COOH,
SO3) che stanno sul glucosio si ripetono nello spazio tutti alla stessa distanza. Quindi, quando il
colorante metacromatico che ha i gruppi tutti a 7 Å incontra un mucopolisaccaride che ha tutti i
COOH e SO3 tutti alla stessa distanza, si ha una congiunzione massima, il legame idrogeno che lega
il gruppo cromogeno con il gruppo reattivo del mucopolisaccaride acquista un potere diverso di
assorbimento della luce e la sostanza cambia il colore.
Nel caso dell’amiloide, si hanno le palette delle mazze da golf disposte in maniera elicoidale tutte a
7 Å. Le palette delle mazze da golf presentano NH2 per cui, quando incontrano il colorante
metacromatico, si ha la fusione piena a 7 Å e, quindi, la metacromasia.
Ciò che è importante sottolineare è che tutte le caratteristiche non dipendono dal tipo di proteina,
ma da come essa si dispone nello spazio.

Macroscopicamente, poiché oggi esistono anticorpi anti-proteina A e anticorpi anti-proteina P, mediante


l’immunoistochimica possiamo individuare non solo l’amiloide se evidenziamo la presenza della
proteina P che è comune a tutte le forme di amiloide, ma anche il tipo di amiloide se utilizziamo anticorpi
contro la proteina AA o contro la proteina AL, etc...

Se si ha un pezzo che si sospetta presentare amiloidosi, si prende la fetta del preparato e si inserisce sopra
la soluzione iodo-iodurata (liquido di Lugol). Questa ha una colorazione marrone che diventa violetta
quando si aggiunge sopra una soluzione diluita con qualche goccia di acido solforico. L’amiloide assume,
dunque, una colorazione rosso-bruna. Questa tecnica realizzata da Virchow fece inizialmente pensare che
l’amiloide fosse zucchero per cui si scelse come nome della patologia amiloidosi.
Ci sono diversi tipi di amiloide distinguibili in base alle proteine.
Secondo la classificazione clinica distinguiamo:

o AMILOIDOSI IMMUNOGLOBULINICA, legata alla deposizione di frammenti di catene leggere k e λ,


cioè sostanza AL. Questo tipo di amiloidosi si trova soprattutto nel cuore e nei muscoli striati
causando prevalentemente insufficienza cardiaca e negli altri organi una manifestazione simil
neoplastica. Le catene leggere dell’immunoglobulina si ritrovano soprattutto nelle malattie
emopoietiche come un linfoma o una gammopatia monoclonale oppure si ritrovano come segni
premonitori di queste.
o AMILOIDOSI REATTIVA SECONDARIA dovute ad accumuli di frammenti della catena SAA. Viene
definita amiloidosi viscerale o addominale perché colpisce reni, fegato, milza, surreni. La proteina
SAA si trova nelle malattie croniche infiammatorie, quindi, un tempo la condizione era frequente
nei soggetti che avevano la tubercolosi cronica, oggi in quelli affetti da osteomielite, colite ulcerosa,
malattia di Crohn, artrite reumatoide, cioè malattie che impegnano il sistema immunitario in
maniera cronica e molto potente.
o AMILOIDOSI EREDO-FAMILIARI (rare), autosomiche dominanti o recessivi, in cui avremo sempre
l’accumulo di sostanza A o transtiretina.
o AMILOIDOSI SISTEMICA SENILE dovuta alla precipitazione di transtiretina che coinvolge soprattutto
il cuore e l’encefalo
o AMILOIDOSI NEI DIALIZZATI dovuta all’accumulo do β2-microglobulina
o AMILOIDOSI LOCALIZZATA NEI TUMORI ENDOCRINI: quando l’amiloidosi si trova nel tumore
endocrino, non è come le altre amiloidosi in cui i depositi possono essere dappertutto, ma in
questo caso sono sempre nel punto di massima produzione, cioè nel tumore. Se un paziente ha un
carcinoma midollare della tiroide l’amiloidosi non si trova nel cuore ma solo nella tiroide nel punto
dove è presente il tumore. Se, poi, in questo paziente con carcinoma midollare della tiroide
facendo la biopsia epatica, viene fuori un nodulo di amiloide vuol dire che li è presente una
metastasi
o AMILOIDOSI CEREBRALE (vedi malattia di Alzheimer) in cui l’amiloide è costituito da β-proteine per
alterato funzionamento delle α-secretasi.

L’amiloide non si presenta, però, ad esempio, in tutti i pazienti con tubercolosi cronica o con iper-gamma-
globulinemia policlonale. Questo è dovuto al fatto che, oltre alla malattia iniziale, devono essere presenti
dei deficit macrofagici che non consentono di distruggere completamente l’eccesso di proteine. Inoltre,
deve essere presente un FATTORE STABILIZZANTE l’amiloide nei macrofagi. Quindi i macrofagi da un lato
non hanno gli enzimi per poter distruggere completamente le proteine in eccesso ma hanno anche un
fattore che facilita l’aggregazione dell’amiloide.

Riassumendo, le cause dell’amiloidosi sono, quindi:

− accumulo di proteine normali in eccesso che si aggregano in maniera impropria


− accumulo di proteine mutate e strutturalmente instabili che tendono ad aggregarsi in maniera
alterata (vedi tumori o malattie ereditarie)
− parziale proteolisi
− alterazioni delle cellule macrofagiche che favoriscono il deposito dell’amiloide

L’organo affetto da amiloidosi presenta atrofia del parenchima, cioè se un paziente ha un’amiloidosi
cardiaca o epatica, questa deposizione di sostanza dura ed interstiziale provoca, sia per ipossia sia per
compressione, l’atrofia completa delle cellule connettivali e, quindi, deficit cardiaco, renale, epatico e così
via. Il problema è che, abbastanza spesso, il paziente ha problemi non quando l’amiloide è clinicamente
manifesta ma anche quando sono presenti poche fibrille di amiloide, poiché si tratta di interferenze con la
dinamica propria delle cellule connettivali. Non c’è una correlazione tra quantità di amiloide depositata e
difetti parenchimali dell’organo.
Bastano poche fibrille al punto giusto per diventare dannose per la dinamica degli organi.
P.S. Nel fegato l’accumulo di amiloide nello spazio di Disse determina atrofia meccanica, per compressione
degli epatociti, e atrofia anossica, per compressione dei sinusoidi.

P.S. Nel rene l’amiloidosi porta ad una progressiva chiusura dei capillari con conseguente riduzione del
filtrato glomerulare.

P.S. Uno dei segni della amiloidosi è la macroglossia.

Riguardo alla diagnosi dell’amilidosi, una volta si iniettava il Rosso Congo in endovena e se ne valutava
l’espulsione. Oggi, invece, qualunque sia il tipo di amiloidosi, si fa una biopsia rettale: si prelevano
frammenti di muscosa rettale, si sottopongono alla colorazione con il Rosso Congo e si osserva nella parete
delle arterie accumulo di materiale amiloide.
Le forme di amiloidosi localizzate, però, hanno la caratteristica di essere scambiate per tumori a causa della
loto consistenza dura. Quindi l'amiloidosi localizzata è definita anche pseudo-tumorale.

Nel caso della milza, poi, è possibile osservare una situazione particolare.
Nella milza sono presenti, infatti, la polpa rossa (costituiti da sinusoidi con cellule a doga di botte) e la polpa
bianca (costituita da follicoli linfatici e vene centrofollicolari). Per motivi ancora non chiari, l'amiloide tende
a depositarsi prevalentemente nella polpa rossa e nelle vene centrofollicolari, per cui si può osservare una
amiloidosi della polpa rossa caratterizzata da zone lardacee e zone rossastre di polpa rossa residua (aspetto
"a prosciutto di contadino") o del follicolo linfatico caratterizzata da un fondo rosso che corrisponde alla
polpa rossa non interessata e da gettoni grigiastri dispersi che corrispondo ai follicoli in preda ad amiloidosi
(aspetto "a sagù" → salsa indiana).
NECROSI
Per necrosi si intende la morte delle cellule.
Essa può essere:
− SPONTANEA
− INDOTTA
e presenta morfologie differenti in base alla causa che la determinano.
La necrosi è una morte cellulare che provoca la scomparsa delle caratteristiche cito-istologiche del tessuto,
cioè la cellula progressivamente scompare.
Si tratta di un fenomeno tempo dipendente, perché si evidenzia dopo un certo periodo di tempo
dall’applicazione dell’insulto che, se di una certa intensità o di una certa durata, innescano un processo
irreversibile.
Può impiegare anche ore o giorni e può coinvolgere anche un elevato numero di cellule.

Il meccanismo con cui avviene la necrosi cellulare è:


o coagulazione delle proteine cellulari: le proteine del citoplasma sono di struttura o di funzione.
Quando si verifica la necrosi le proteine cessano di svolgere la loro funzione, si degradano e
diventano più compatte. Quindi la cellula aumenta la sua eosinofilia, perché la basicità delle
proteine precipitate diventa più alta.
o lisi delle proteine precipitate che può avvenire
• per autolisi, quando si attivano gli enzimi lisosomiali
• per eterolisi, quando non c’è questa attività all’interno della cellula, e quindi, devono
intervenire i macrofagi o i granulociti neutrofili, che con i loro enzimi distruggono la cellula
morta. Quindi l’eterolisi si ha quando la distruzione avviene ad opera di cellule esterne,
quali i leucociti, ma vedremo che, per esempio, nella gangrena la lisi viene provocata dalle
esotossine dei microbi.

L’aspetto della necrosi è variabile ed è proprio questa variabile morfologica che consente di fare diagnosi
eziologica.
Dal punto di vista morfologico:
• il citoplasma aumenta l’acidofilia
• il nucleo può andare incontro a picnosi, cariolisi o carioressi.
Tra le alterazioni biochimiche ricordiamo:
• ingresso degli ioni sodio (la pompa del sodio/potassio non funziona più)
• diminuzione degli ioni potassio
• aumento ioni calcio
• aumento dell’acqua intracellulare
• comparsa di polipeptidi frutto della digestione di proteine strutturali, cioè compaiono frammenti di
proteine dovuti alla degradazione delle proteine principali.
Al microscopio elettronico, si osserva:
• sofferenza dei mitocondri, che si trovano già nelle prime fasi della degradazione
• riduzione dei ribosomi
• frammentazione e distruzione progressiva degli organuli subcellulari.

Il nucleo non presenta più una distribuzione omogenea della cromatina: ci sono zone in cui la cromatina è
più evidente (eterocromatina) e zone in cui la cromatina è debolmente colorata (eucromatina).
Nella necrosi possiamo avere un compattamento degli acidi nucleici e degli istoni per cui il nucleo diventa
molto più colorato e molto più piccolo (PICNOSI). La picnosi nucleare è, quindi, caratterizzata
dall’addensamento marcato degli acidi nucleici e degli istoni tanto che il nucleo appare piccolo e molto più
basofilo.
Nella CARIORESSI, la cromatina comincia a diventare sempre più colorata, ma quello che è importante è
che la membrana nucleare si interrompe, quindi, questi ammassi di cromatina addensata, assumono
l’aspetto tigrato e si distribuiscono, poi, nel citoplasma.
Quindi nella picnosi il nucleo rimane unico, piccolo, denso e molto colorato, mentre nella carioressi il
nucleo si frantuma, o meglio si ha la rottura della membrana nucleare per cui la cromatina intensamente
colorata si distribuisce.
Nella CARIOLISI si ha, invece, ingresso di acqua nel nucleo, per cui il nucleo progressivamente diviene
sempre meno colorato fino alla disintegrazione degli acidi nucleici e alla sua scomparsa. Si ha una vera e
propria evanescenza progressiva della cromatina.

Macroscopicamente la necrosi compare come una zona compatta con margini netti (vedi necrosi
coagulativa da infarto bianco della milza).

P.S. L’infarto del polmone è sempre rosso.

P.S. Nella necrosi di tipo coagulativa le proteine precipitano nel citoplasma che risulta dunque
maggiormente eosinofilo e i nuclei scompaiono per picnosi nucleare.

Quando il tessuto diventa necrotico, il tessuto non può rimanere così ma deve essere riassorbito.
Per far avvenire il RIASSORBIMENTO dell’area necrotica, intorno all’area, si assiste a vasodilatazione e
proliferazione dell’endotelio con formazione di vasi neoformati che entrano all’interno del tessuto
necrotico.
I vasi neoformati portano nella zona necrotica in primis cellule infiammatorie, cioè granulociti neutrofili e
macrofagi. I neutrofili sono i primi a comparire perché prima ancora dell’angiogenesi, grazie alla sola
vasodilatazione periferica, i granulociti migrano verso l’area necrotica. Questi aumentano, poi, grazie alla
neoangiogenesi che si verifica all’interno del tessuto necrotico stesso.
I granulociti e macrofagi lisano la zona necrotica (eterolisi) mentre, contemporaneamente, i macrofagi,
attraverso le loro citochine, richiamano cellule fibroblastiche e miofibroblastiche (tessuto di granulazione)
che cominciano a produrre un collagene di I tipo e fibronectina (→ sostanza che fa da collante e rende più
stabile il collagene di I tipo). La fibronectina attiva ancora di più la fagocitosi macrofagica ed, inoltre, il
collagene viene anch’esso riassorbito e sostituito da collagene definitivo.
Nei giorni successivi, si osserva nell’area necrotica la presenza di collagene definitivo, cellule infiammatorie
che progressivamente diminuiscono e vasi che alla fine vengono riassorbiti. Si forma cioè una cicatrice
fibrosa.
Quindi per tessuto di granulazione infiammatoria intendiamo un tessuto che è caratterizzato da tre
componenti:
• NEOANGIOGENESI
• CELLULE INFIAMMATORIE
• FIBROBLASTI
Queste tre componenti sono diversamente presenti a seconda dello stadio di evoluzione del tessuto di
granulazione verso la cicatrice.
Una cosa che dovete tenere presente sul tessuto di granulazione è che l’evoluzione è automatica, cioè una
volta che i macrofagi entrano in funzione si forma la cicatrice. Non si può mai avere una restitutio ad
integrum, perché i macrofagi inducono l’angiogenesi, richiamano i fibroblasti... tutto automaticamente
evolve verso la cicatrice.
Il tessuto di granulazione non è, però, solo tipico della necrosi ma di tutte le riparazioni: ferita chirurgica (→
tra i due bordi di una ferita chirurgica si forma un tessuto di granulazione che poi evolve in cicatrice), una
lesione traumatica di un certo grado, una infiammazione con perdita di sostanza, etc… tutti processi che
evolvono nella formazione di una cicatrizzazione.

Possiamo distinguere due tipologie di necrosi:


- CELLULARE: perdita delle cellule parenchimali senza che venga intaccata l’architettura dell’organo,
quindi il connettivo non è coinvolto.
- TISSUTALE: perdita di sostanza che coinvolgerà anche il connettivo.
È importante fare questa distinzione perché per attivare il tessuto di granulazione infiammatorio la necrosi
deve coinvolgere il connettivo. Quindi se la necrosi è solo cellulare, avremo la restitutio ad integrum perché
le cellule parenchimali che sono morte verranno sostituite.
In un’epatite acuta con necrosi degli epatociti senza coinvolgimento del connettivo, la fase di guarigione
sarà una restitutio ad integrum perché gli epatociti morti vengono sostituiti.
In un’epatite cronica dove vi è una necrosi tissutale si ha una evoluzione, invece, verso la cirrosi.
Nella tubulo-necrosi con solo coinvolgimento dell’epitelio dei tubuli renali l’evoluzione è la restitutio ad
integrum.
Nella necrosi delle cellule dei tubuli renali, membrana basale e connettivo, invece, si ha cicatrice con
perdita del nefrone.

La necrosi, dal punto di vista morfologico, si distingue in:


- COAGULATIVA
- COLLIQUATIVA
- CASEOSA
- GOMMOSA
- FIBRINOIDE
- ENZIMATICA
- GANGRENOSA:
o SECCA che avviene per fatti infiammatori e vascolari
o UMIDA che avviene nella stasi
o GASSOSA ad opera di microbi

Nella NECROSI COAGULATIVA si ha la conservazione dell’architettura del tessuto. Il fenomeno che sta alla
base di questa necrosi è, infatti, la denaturazione e la coagulazione delle proteine. Si assiste a una
mummificazione della cellula: la cellula rimane lì perché non è capace di eseguire l’autolisi dato che le
proteine sono precipitate per l’anossia. L’area interessata è pallida, dotata di colorito grigio-bianco e con
una consistenza aumentata.
La necrosi coagulativa si osserva in corso di infarto dove il cuore non si rompe proprio perché le cellule
morte mantengono la loro struttura. Dal punto di vista della consistenza non c’è differenza tra area
infartuata e area non infartuata. Nel momento in cui, però, avviene la digestione del tessuto ad opera delle
cellule infiammatorie, si può avere, però, la rottura del cuore. Questo avviene dopo qualche giorno, cioè
quando il tessuto necrotico è invaso dai granulociti, in quella fase transitoria da tessuto di granulazione
infiammatorio a cicatrice. In questo caso, la consistenza diminuisce e, se il paziente presenta la pressione
alta, si può avere la rottura del cuore.
Oltre alla struttura conservata, si apprezzano limiti cellulari evidenti e citoplasmi omogenei e acidofili.
La causa della necrosi coagulativa sono le ischemie o gli agenti chimici o fisici (vedi necrosi coagulativa della
cute in un elettrofolgorato; necrosi coagulativa di un esofago di un soggetto che tenta di suicidarsi usando
la soda caustica).
Le sedi colpite possono essere varie:

• CUORE
• RENE
• MILZA
• NEOPLASIE: la necrosi neoplastica è caratteristicamente coagulativa, in quanto risulta essere
l’effetto della discrepanza tra crescita cellulare e supporto vascolare. Infatti, in questa condizione,
ci sono delle zone del tumore che non avendo ossigeno a sufficienza sono interessate da necrosi di
tipo coagulativo.

I processi di riparazione della necrosi coagulativa non incominciano immediatamente, ma dopo qualche
giorno. L’infarto assume una configurazione che viene detta a bersaglio:
- la parte centrale è coagulata ed appare bianca.
- la parte intermedi presenta infiltrazione e citolisi mediata dai granulociti
neutrofili. La zona appare giallastra perché interessata da infiammazione
purulenta.
- la parte più esterna è vasodilatata. Si parla di orletto iperemico, cioè di una
zona rossa.

P.S. Quando si esegue un’autopsia, non si osservano solo gli infarti recenti ma si possono osservare anche
infarti precedenti in quanto la zona infartuata è caratterizzata da una cicatrice fibrosa associata a qualche
residuo di muscolatura, in quanto le fibre muscolari non si rigenerano più.
Dal punto di vista clinico, la zona infartuata è una zona che non si contrae e, di conseguenza,
all’osservazione ecografica cardiaca risulta immobile. Chiaramente, la zona infartuata dovrà essere di
grosse dimensioni per dare un quadro ecografico visibile. I patologi, invece, riescono a rilevare anche delle
piccolissime aree d’infarto che evolvono in cicatrice grazie alla valutazione degli analiti cardiaci.

La NECROSI COLLIQUATIVA è una distruzione rapida delle cellule dovuta a fenomeni autolitici o eterolitici.
La differenza che c’è tra una necrosi coagulativa e una colliquativa è che nella seconda, le cellule morte
vanno incontro a rapida distruzione dovuta a:

• attivazione degli enzimi all’interno della cellula stessa


• attivazione di enzimi che provengono dall’esterno, cioè dalle cellule infiammatorie o altre

La necrosi colliquativa rispetto a quella coagulativa comporta una riduzione di consistenza già nelle prime
fasi (ricordiamo nella coagulativa che non c’è differenza di consistenza nei primi momenti).
Il termine “colliquativo” indica proprio che il tessuto non risulta né solido né liquido ma ha una consistenza
molto ridotta che si avvicina a quella dei fluidi.

Microscopicamente non ci sono più i limiti cellulari, in quanto la distruzione delle proteine provoca la morte
delle cellule. Di conseguenza all’osservazione, non si osservano cellule mummificate ma detriti nucleari e
cellulari oltre a granulociti in regressione, in quanto la distruzione delle cellule è dovuta ad un’eterolisi da
granulociti neutrofili.
Quest’aspetto è tipico delle infezioni acute.

Si forma il PUS, in cui troviamo:

o CELLULE NECROTICHE in fase colliquativa


o GRANULOCITI NEUTROFILI che sono stati la causa della distruzione delle cellule.
Questa necrosi è tipica dell’encefalo. La colliquazione si vede molto bene dopo la fissazione dell’organo dal
momento che questo appare tutto indurito fatta eccezione per l’area interessata dall’area colliquata.

Quindi, se l’infarto avviene negli organi parenchimatosi si ha la necrosi coagulativa ma se l’infarto avviene
nell’encefalo, le cellule vanno sempre incontro sì a necrosi coagulativa ma, essendo presente in questa
sede la mielina, quando questa non è supportata dall’ossigeno, viene immediatamente attaccata dalla
microglia e lisata, esitando in una necrosi colliquativa.
Quindi la mielina che è formata da lipoproteine complesse, si riduce a lipidi semplici, diventano una poltiglia
oleosa. Per questo motivo l’infarto nell’encefalo viene chiamato RAMMOLLIMENTO.

La NECROSI CASEOSA è la distruzione cellulare che avviene ad opera dei bacilli tubercolari e meno
frequentemente nella lebbra. È una necrosi coagulativa, ma con distruzione delle cellule.

Innanzitutto la necrosi caseosa non è dovuta all’intero corpo batterico dei bacilli tubercolari ma solo alla
frazione lipidica come dimostrato dall’esperimento di Koch (isolando gli acidi micolici, cioè la frazione
lipidica di una coltura di bacilli tubercolari ed iniettandoli, si osserva la necrosi caseosa).
Di conseguenza, questo tipo di necrosi non è l’effetto dell’infezione bensì dell’azione tossica della
componente lipidica del batterio.
Macroscopicamente l’area presenta un aspetto:

• SECCO, non umido, a metà strada tra la necrosi coagulativa e la colliquativa


• GRANULOSO
• BIANCASTRO, simile al formaggio fresco, da qui il termine “caseosa”

Istologicamente, invece, si osserva:

• materiale amorfo e acidofilo, dovuto alle proteine cellulari


• scarsi detriti cellulari, quasi pari a zero: scompare tutto grazie all’azione degli acidi micolici, persino
la componente elastica reticolare.
• granuloma tubercolare
Siccome il materiale della necrosi caseosa è fortemente acidofilo e secco, molto spesso si osserva una
calcificazione distrofica.

Se si vuole distinguere subito un granuloma tubercolare da un ascesso:

• la necrosi nell’ascesso è ematossilinofila perché ci sono i nuclei dei granulociti neutrofili


• la necrosi caseosa è appena appena granulare, mai ematossilinofila ma fortemente acidofila.

La NECROSI GOMMOSA è quella che si osserva in corso di sifilide. Si forma un materiale sia amorfo che
filante ad opera di trombi infiammatori presenti nelle arterie. Le arterie presentano, infatti, la parete
infiltrata delle plasmacellule evocate dalle spirochete e questo infiltrato è tale da provocare la trombosi e
l’occlusione delle arterie per cui il parenchima che sta intorno va incontro a necrosi.

A differenza della necrosi caseosa quella gommosa è un po’ più filante: si vedono dei filamenti dovuti al
materiale necrotico che non è completamente lisato e istologicamente non si distrugge tutto ma
rimangono soprattutto le fibre elastiche, evidenziabili con le opportune colorazioni.

La NECROSI FIBRINOIDE è, invece, una necrosi spiccatamente eosinofila e legata alla presenza di fibrina. Si
tratta di una necrosi tissutale fortemente acidofila che risponde alle reazioni per la fibrina, sia istochimiche
(colorazione di Weigert) che immunoistochimiche.
La necrosi fibrinoide è, infatti, una reazione in cui troviamo fibrina.
Essa coinvolge i tessuti soprattutto in concomitanza con reazioni immunologiche. Infatti, oltre alla fibrina, è
possibile individuare complessi antigene-anticorpo. Non a caso, questo tipo di necrosi fibrinoide viene
chiamata fibrinoide di tipo immunologico (vedi nodulo reumatoide di un’artrite reumatoide in cui oltre alla
fibrina si osservano complessi antigene-anticorpo oppure l’ipertensione maligna in cui sulla parete delle
piccole arterie si osservano immunocomplessi).
Durante questa necrosi, si osserva materiale rosa chiaro o fibrinoso molto caratteristico.
La necrosi fibrinoide può essere anche non immunologica, cioè possiamo trovare frammenti di fibrina nella
necrosi senza immunocomplessi. Un esempio è l’ulcera peptica.
L’ulcera peptica è caratterizzata da un fondo necrotico di necrosi fibrinoide perché la fibrina essuda nella
zona di ulcerazione in assenza di complessi antigene-anticorpo perché non si tratta di una malattia
immunologica. Allora, in questo caso, si parla di necrosi fibrinoide non immunologica.

La NECROSI ENZIMATICA è quella che si forma per liberazione di enzimi da parte delle cellule. La necrosi
enzimatica si osserva in corso di pancreatite acuta in cui si ha un’anomala attivazione degli enzimi che sono
presenti nel pancreas. Il pancreas contiene tutti gli enzimi che possono distruggere gli alimenti:

• amilasi per gli zuccheri


• proteasi per le proteine
• lipasi per i grassi

Se questi enzimi si attivano in maniera anomala, distruggono tutto il tessuto pancreatico e il grasso
presente nelle vicinanze.

In particolare, parliamo di STEATONECROSI quando le lipasi distruggono i trigliceridi, liberando gli acidi
grassi che catturano il calcio e il potassio.

Macroscopicamente, nel grasso di osservano scagliette biancastre, dovuti a saturazione degli acidi grassi
con il calcio e il potassio. Il tutto è accompagnato da un alone iperemico. Queste aree biancastre vengono
chiamate “a gocce di cera”.

P.S. La steatonecrosi non si presenta, però, solo a livello pancreatico ma anche in seguito a traumi che
coinvolgono organi ricchi in adipe (vedi trauma della mammella o ernia che coinvolge l’omento il quale
incarcerato in un sacco erniario va in necrosi e libera i trigliceridi).

La GANGRENA è una necrosi tissutale molto estesa, legata a fatti ischemici o a infezioni (vedi Clostridium
responsabile di una gangrena gassosa). Inizialmente appare come una necrosi coagulativa su base
ischemica. Nel momento in cui si sovrappone un’infezione batterica si ha necrosi colliquativa determinando
il quadro di gangrena.

Si distingue una gangrena:

• SECCA: non maleodorante è prevalentemente ischemica


• UMIDO-GASSOSA: è presente quando vi è l'intervento dei batteri che non solo fluidificano le cellule
ma determinano una decarbossilazione degli aminoacidi con liberazione di amine biogene. Tutto il
tessuto è disfatto, putrefatto e maleodorante.

APOPTOSI

Accanto alla necrosi, la distruzione tissutale può avvenire anche per un altro meccanismo che è
l’APOPTOSI. L’apoptosi è una morte programmata, cioè esistono dei loci del DNA che comandano la
distruzione della cellula stessa.

L’apoptosi è un meccanismo di scomparsa attiva della cellula che richiede un sacco di energia e una serie di
enzimi che attivino i geni del DNA che sono destinati all’autodistruzione. Questi enzimi provocano la
degradazione del DNA in piccoli frammenti che insieme con parte del citoplasma vengono internalizzati nei
corpi apoptotici.

Questo fenomeno è rapido e non provoca una reazione infiammatoria. L’apoptosi può essere definita come
una necrosi cellulare fisiologica.

L’apoptosi si presenta:

• moltissimo durante la FASE EMBRIONALE: quando c’è la formazione dell’embrione e del feto ci
sono delle strutture, gli organi embrionali, che compaiono nella vita embrionale e, poi, devono
essere riassorbiti. Il riassorbimento avviene mediante una distruzione autoprogrammata delle
cellule, anzi se non si distruggono si parla di residui embrionali (organi che si dovevano distruggere
completamente e, poi, non si distruggono).
• durante la SOPPRESSIONE DELLE CELLULE ANOMALE: grazie all’apoptosi moltissime cellule
danneggiate o che iniziano il processo di trasformazione vengono eliminate in modo da impedire
l’evoluzione del processo patologico.
• durante la MATURAZIONE DEI LINFOCITI NEL CENTRO GERMINATIVO DEI FOLLICOLI LINFATICI: i
follicoli linfatici sono dei follicoli che si ritrovano nei linfonodi, nella milza etc… Allora quando arriva
l’antigene, il follicolo deve formare anticorpi verso questo antigene. Le cellule che si trovano in quel
momento nel follicolo non sono programmate per quell’antigene per cui iniziano a moltiplicarsi e
subiscono una serie enorme di mutazioni, fino a quando non ingranano quella mutazione che formi
una cellula che sia in grado di poter rispondere all’antigene. Questa cellula si replica fino a formare
un manto intorno al follicolo. Tutte le altre cellule che sono mutate ma che non sono funzionali
devono essere eliminate, andando incontro all’apoptosi.
• per eliminare le cellule in RISPOSTA A STIMOLI ORMONALI (es. la terapia tireostatica determina
riduzione del volume della tiroide accompagnata dalla distruzione per apoptosi di alcune cellule)
• in corso di MALATTIE AUTOIMMUNITARIE
• in corso di INFEZIONI VIRALI

L’apoptosi è un evento fisiologico che serve per modellare il tessuto ed eliminare le cellule anomale.
Le cellule sane esprimoni i geni anti-apoptotici che impediscono l’avvio dell’apoptosi. Nel caso in cui sia
presente una anomalia si innesca, però, una cascata di geni che parte con i geni che avviano l’apoptosi,
segue con quelli che eseguono l’apoptosi e termina con quelli che controllano la digestione delle cellule
morte. Tutto questo comporta un grande dispendio di energia.

Oltre all’apoptosi in sé, importante è anche il mancato avvio o la mancata esecuzione dell’apoptosi perché
le cellule neoplastiche deviate quando imparano ad inibire o evadere l’apoptosi, diventano delle cellule
immortali tali da determinare la neoplasia.

L’apoptosi può seguire:


− una via mitocondriale (o intrinseca)
− una via di membrana (o estrinseca) attivata da stimoli che vengono dall’esterno (es. ormoni che
rimodellando gli organi inducono l’apoptosi).

Nella VIA INTRINSECA la permeabilità mitocondriale aumenta con rilascio, nel citoplasma, di proteine pro-
apoptotiche che innescano il programma di morte.
Il rilascio di queste proteine è controllato da un gruppo di proteine anti-apoptotiche. Il gene più importante
anti-apoptotico è Bcl2 che si trova maggiormente espresso nelle cellule del mantello, quelle già
sensibilizzate per l’antigene che non devono morire per garantire il mantenimento della memoria
immunologica che altrimenti verrebbe persa. Bcl2 sta, infatti, per “B-cell Lynphoma 2” dato che questo
gene è stato identificato mutato nei linfomi. Se Bcl2 è attivato la cellula non muore per cui se è espresso
dalle cellule della memoria non succede nulla ma se Bcl2 è attivato in una cellula mutata del centro
germinativo, queste cellule imparano a sottrarsi all’apoptosi e diventano proliferanti determinando la
comparsa di linfoma.

Nella VIA ESTRINSECA l’apoptosi viene innescata attraverso i recettori di morte presenti sulla membrana
cellulare. Tra questi recettori ricordiamo quello del Tumor Necrosis Factor (TNF) implicato nell’interazione
proteina-proteina. I macrofagi, infatti, distruggono le cellule proprio attivando l’apoptosi attraverso il TNF.
Questi recettori di membrana imitano, pertanto, i segnali apoptotici all’interno della cellula.

La cascata enzimatica di fattori iniziatori ed effettori si completa con l’attivazione delle caspasi che
determinano la degradazione del nucleo e della sua membrana e, quindi, la formazione dei corpi apoptotici
eliminati tramite fagocitosi.

Esistono delle differenze tra la necrosi e l’apoptosi.


La necrosi determina:

• scomparsa della membrana cellulare


• addensamento della cromatina
• conservazione complessiva della forma
• aree di cellule continue completamente necrotiche
• la reazione del tessuto circostante (cioè induce una risposta infiammatoria con attivazione dei
macrofagi, formazione del tessuto di granulazione e conseguente formazione di una cicatrice)

Nell’apoptosi, invece, vi è l’autodegradazione delle cellule in frammenti definiti CORPI APOPTOTICI che
vengono immediatamente distrutti dai macrofagi o dalle cellule vicine. Il nucleo diventa ipercromatico e la
cromatina si addensa in prossimità della membrana nucleare.
è opportuno precisare che anche le cellule epiteliali in prossimità della cellula che è andata incontro ad
apoptosi possono captare corpi apoptotici e distruggerli.
Quello che è importante ricordare è che questo fenomeno è rapidissimo perché programmato. Questa
rapidità impedisce che i macrofagi che partecipano alla distruzione delle cellule attivino le citochine per
produrre tessuto di granulazione.

P.S. Nello stomaco o l’intestino, le cellule hanno una vita media è di tre giorni. Queste cellule dopo tre
giorni vengono eliminate per apoptosi. Si ha la condensazione del nucleo che, poi, si fraziona in tante
piccole parti. Infine la membrana cellulare si mette intorno a questi detriti cellulari e altri organuli che, poi,
vengono catturati dai macrofagi o dalle cellule vicine.

P.S. In passato si sono addirittura scambiate per cellule necrotiche alcune cellule che andavano, invece,
incontro a fenomeni apoptotici.

Ricordiamo che tra i geni che impediscono l’apoptosi il principale è il Bcl2 mentre tra quelli che attivano la
stessa esempio emblematico è p53. p53 è, infatti, il più potente gene antitumorale che è capace di attivare
l’apoptosi ogni volta che le cellule presentano un danno irreparabile a livello del DNA. Se p53 è mutato, la
cellula non va incontro ad apoptosi, quindi, se alterata non viene più distrutta.

P.S. Nel fegato i residui dei corpi apoptotici sono detti CORPI DI COUNCILMAN.

AUTOFAGIA e XENOFAGIA

Altri tipi di morte cellulare sono l’AUTOFAGIA e la XENOFAGIA utili per la distruzione delle cellule
completamente inattive oppure con parte del loro citoplasma fortemente danneggiato.
Questo è un sistema che mettono in atto soprattutto i tumori: quando vengono danneggiati dalle radiazioni
oppure da chemioterapici, i tumori vanno incontro ad apoptosi. Può succedere, però, che le cellule residue
pratichino l’autofagia per consentire alle cellule resistenti di aumentare la loro capacità di proliferazione
oppure la xenofagia per reclutare materiale dalle cellule limitrofe danneggiate in modo da ricavare energia.
In corso di autofagia si possono osservare le VESCICOLE DI YUGS che contengono frammenti di citoplasma.

CALCIFICAZIONI TISSUTALI
La calcificazione consiste nella deposizione di sali di calcio.
Questi si depositano in molti processi patologici.
Nella maggior parte dei casi i sali di cacio che si depositano lo fanno sotto forma di FOSFATI DI CALCIO o, a
volte, come CARBONATO DI CALCIO.

La colorazione con ematossilina-eosina mostra precipitati di colore blu scuro, con diverse forme.
Importante è l’aspetto “a bulbo di cipolla” determinato dal fatto che la calcificazione attira nuova
calcificazione creando una stratificazione.
Nel sangue il rapporto calcio-fosforo è molto vicino al punto di precipitazione. Quando l’organismo produce
una sostanza basica come l’osteina, l’innalzamento del pH favorisce la precipitazione dei sali di calcio. Si
forma così il tessuto osseo. Il connettivo pertanto forma la matrice osteoide e, su questa matrice osteoide,
precipita poi il fosfato di calcio semplicemente perché il pH aumenta.

Oltre che alla calcificazione fisiologica, si può avere la calcificazione patologica la quale può essere distinta
in:
• CALCIFICAZIONE DISTROFICA: la variazione del pH del tessuto (distrofia del tessuto) facilita la
precipitazione dei sali di calcio.
• CALCIFICAZIONE METASTATICA: è associata a ipercalcemia. Non tutti i tessuti nella calcificazione
metastatica si calcificano allo stesso modo: per esempio l’interstizio pancreatico o le papille renali
sono zone in cui il pH è favorevole alla deposizione di sali di calcio. Questo tipo di calcificazione è
detto plurizonale perché va a colpire i tessuti a seconda delle loro caratteristiche intrinseche.
• CALCIFICAZIONI IDIOPATICHE in cui non si conosce il motivo perché non è presente né una
distrofia del tessuto né una ipercalcemia.

Macroscopicamente si osservano da minute granulazioni biancastre fino a grossolane concrezioni.


Quando con il bisturi si seziona un nodulo calcificato si sente uno stridore sotto il coltello perché i sali di
calcio stridono al passaggio della lama. In questo caso si provvede ad eseguire una decalcificazione perché
contrariamente il preparato non può essere tagliato. Inoltre, rovinerebbe la lama del microtomo.

Microscopicamente si vedono granuli o zolle intensamente basofile. Un aspetto particolare sono i CORPI
PSAMMOMATOSI, cioè calcificazioni distrofiche dove il calcio si accumula su più strati “a bulbo di cipolla”.
Si tratta di corpi tipici del meningioma, del carcinoma midollare della tiroide, del carcinoma sieroso ovarico,
etc...

Le CALCIFICAZIONI DISTROFICHE SECONDARIE sono associate a:

• tessuti necrotici
• aterosclerosi
• trombi organizzati
• cicatrici che hanno tendenza a diventare sempre più ialine, ossia più acidofili, e quando sono molto
acidofili (sono pertanto basiche) finiscono per trattenere il calcio.

Le CALCIFICAZIONI METASTATICHE sono dovute a ipercalcemia dovuta a:


• iperparatiroidismo (aumenta il paratormone → aumenta la concentrazione di calcio)
• metastasi ossee (le metastasi sono osteolitiche, liberano sali di calcio aumentando la calcemia)
• ipervitaminosi D (che si comporta come l’iperparatiroidismo)
• atrofie ossee come l’osteoporosi
• nefropatie (che fanno perdere fosfato con aumento conseguente del calcio)
• sarcoidosi se coinvolge le ossa

Le CALCIFICAZIONI IDIOPATICHE possono essere localizzate o diffuse e si presentano in soggetti peraltro


sani.

P.S. Per essere sicuri che si tratti di calcificazione occorre eseguire la colorazione Von Kossa.

PIGMENTAZIONI PATOLOGICHE

Esistono dei coloranti naturali che sono presenti nei tessuti. Questi coloranti ci aiutano a fare diverse
diagnosi perché oltre ai coloranti fisiologici alcuni sono identificabili come patologici.
Ad esempio, in un individuo che si espone al sole aumenta la melanina la quale, però, può aumentare
anche in corso di un tumore che produce melanina (tumore melanico).

I pigmenti sono sostanze colorate insolubili (infatti non vengono persi durante la preparazione del
preparato). Si distinguono in:

• PIGMENTI ESOGENI se provengono dall’esterno


• PIGMENTI ENDOGENI se sono normalmente prodotti dal metabolismo cellulare

Tra le pigmentazioni esogene ricordiamo:


• ANTRACOSI: la più importante tra le pigmentazioni esogene che consiste nell’accumulo di polvere
di carbone. Le polveri di carbone arrivano per via inalatoria sino agli alveoli dove il carbone viene
catturato dai macrofagi che si spostano, poi, nei setti interlobulari. Il carbone è, però, un materiale
inerte che i macrofagi non riescono a distruggere: ogni grammo di antrace che entra nell’organismo
viene trattenuto all’interno dei macrofagi conferendo la tipica colorazione macroscopica.
Ovviamente, anche l’inquinamento determina la formazione di depositi di carbone ma questo
diventa abbondante solo quando il soggetto lavora nelle miniere e risulta, dunque, costantemente
esposto al carbone.
La cellula macrofagica che non riesce a smaltire l’antrace si dirige nei vasi linfatici, i quali iniziano
nei setti interlobulari, per dirigersi nei linfonodi peribronchiali e dell’ilo. Infatti, osservando il
polmone dall’esterno, si può notare un DISEGNO ESAGONALE che corrisponde esattamente ai
lobuli polmonari.
Non a caso un polmone che non ha mai respirato non presenta antracosi per cui se si sospettasse
una malformazione congenita non si dovrebbe trovare un polmone con antrocosi.
• SIDEROSI: cioè l’accumulo di ossido di ferro che entra per via inalatoria. Questo non si trova
comunemente nell’aria, però, si trova nelle miniere. In questo caso, si osservano polmoni con
colorito rosso-marrone.
• ARGINOSI: cioè l’accumulo di sali d’argento che penetrano per via inalatoria (→ molte amalgame
per la cura dei denti sono a base d’argento.), tramite l’apparato digerente ma soprattutto per via
parenterale. In questo caso, si osserva un colorito grigio-blu (o ardesia). Spesso si osservano
pazienti che hanno una pigmentazione patologica della mucosa orale e dell’arcata dentale: il
dentista fa un prelievo perché pensa sia, ad esempio, un melanoma e, invece, si rivela essere
solamente una pigmentazione da sali d’argento che si sono liberati dall’amalgama.

Tra le pigmentazioni endogene ricordiamo:


• EMOSIDEROSI: cioè l’accumulo di ferro endogeno. Il ferro endogeno deriva dalla degradazione del
gruppo eme dell’emoglobina, della mioglobina o dei citocromi. Il ferro liberato dall’eme si accumula
sotto forma di EMOSIDERINA.
P.S. Per SIDEROSI si intende l’accumulo di ferro esogeno.
P.S. Esistono dei disturbi genetici per i quali non si riesce a sintetizzare l’anello tetrapirrolico con
conseguente accumulo di precursori dell’emoglobina. Questa malattie sono dette PORFIRIE e sono molto
dannose perché i precursori idrosolubili si localizzano a livello del sottocute per cui, quando un soggetto si
espone al sole, presenta un’irritazione correlata al fatto che queste sostanze sono fotosensibili.
P.S. Nell’organismo il ferro totale è pari a 4-5 gr. Il ferro è contenuto in una quantità enorme di alimenti
come ferro ridotto (2+) anche se la fonte migliore di ferro è quella ossidata (3+). Normalmente, noi non
assorbiamo tutto il ferro ingerito. Normalmente in caso di necessità di ferro, la APOFERRITINA
INTESTINALE cede il ferro alla TRANSFERRINA la quale lo porta ai macrofagi del midollo dove si forma la
FERRITINA TISSUTALE. Se la ferritina è satura, la transferrina sarà satura e così anche la apoferritina che
quindi non accetterà più altro ferro. Questa cosa non succede quando c’è un’anemia emolitica, perché in
questo caso l’intestino continuerà a far entrare ferro.

L’emosiderina è, in un certo senso, patologica perché è un aggregato di ferritina e carboidrati che


immediatamente lega il ferro liberato dal gruppo eme e si deposita all’interno dei macrofagi
nell’interstizio. L’emosiderina non è libera ma è trattenuta nei macrofagi conferendo ai tessuti un
colore GIALLO-ORO o GIALLO-BRUNO lievemente rinfrangente.
L’emosiderina si può evidenziare con la colorazione di Perls, che prevede l’utilizzo di ferrocianuro di
potassio (incolore) che in presenza di Fe3+ si ossida a ferricianuro di potassio diventando blu. Non a
caso, questa colorazione è detta anche BLU DI PRUSSIA.
Se si ha un fegato in cui è presente emosiderosi delle cellule di Kupffer, la diagnosi è emosiderosi da
anemia emolitica.
Se si ha un fegato in cui le cellule di Kupffer sono negative e gli epatociti sono positivi alla
colorazione di Perls, la dignosi è epatopatia alcolica perchè l’alcol distrugge i mitocondri.
Se il paziente ha emosiderosi sia nelle cellule di Kupffer sia negli epatociti, il paziente è un
talassemico: progressivamente sono stati colpiti prima le cellule di Kupffer e, poi, gli epatociti.

L’accumulo di emosiderina può essere:

• GENERALIZZATO (o SISTEMICO) vedi malattie emolitiche dove l’emosiderina si accumula


progressivamente in diversi organi, le trasfusioni ripetute, l’attività eritropoietina diminuita,
diete ricche in ferro e povere di proteine. Gli organi maggiormente colpiti sono comunque
fegato e milza.
• LOCALIZZATO vedi focolai emorragici, infarti o stasi.

È opportuno precisare che l’emosiderosi, però, non produce danno al parenchima degli organi. Nel
momento in cui l’emosiderosi arreca danni al parenchima si parla di EMOCROMATOSI. La
differenza tra emosiderosi ed emocromatosi non è, però, ancora ben chiara perché il danno
cellulare è una cosa che avviene gradualmente nel tempo. L’idea più accreditata è che
l’emocromatosi sia una esagerazione dell’emosiderosi che coinvolge anche le cellule parenchimali.
Quando il deposito è eccessivo finisce per passare dal macrofago alla cellula parenchimale che ne
risulta danneggiata.
L’emocromatosi è, però, anche una malattia EREDITARIA, cioè il paziente presenta delle mutazioni
che riguardano le proteine coinvolte nel metabolismo del ferro (ad esempio manca l’apoferritina
intestinale oppure è presente una distruzione eccessiva di globuli rossi, etc...).
L’emocromatosi interessa principalmente gli uomini dopo i 40 anni (se si tratta di talassemici anche
molto prima) perché le donne sono più protette dal rischio di accumulo eccessivo di ferro per le
mestruazioni, la gravidanza e l’allattamento.
L’emocromatosi è una malattia generalizzata chiamata anche “diabete bronzino” perché se viene
colpito il pancreas (sia esocrino che le isole pancreatiche) si ha diabete. Essa può colpire, però,
anche le ghiandole surrenali (→ c’è più melanina in circolo e ciò determina un colore più scuro della
cute), il fegato (→ cirrosi epatica), etc…

• BILIRUBINA: ottenuta dalla degradazione della parte proteina del gruppo eme, cioè la
protoporfirina IX. Questa può accumularsi per eccessiva emocateresi, per difetti epatocitari
congeniti, come nella malattia di Gilbert, o per colestasi intraepatica o extraepatica. Si distingue
un ittero di tipo DIRETTO o INDIRETTO a seconda della bilirubina che si accumula (coniugata a
livello epatico o meno) in modo da avere un’idea sulla causa dell’ittero. Se il pigmento biliare si
accumula all’interno dell’epatocita solitamente l’accumulo è dovuto ad una malattia epatica.
Se, invece, si osserva che l’accumulo di pigmento riguarda oltre agli epatociti anche gli spazi tra
gli epatociti, ossia i canalicoli biliari, si pensa a colestasi. Si formano, in questo caso, dei TROMBI
BILIARI. I canalicoli biliari sono così fortemente dilatati tanto da poter esser visti alla
microscopia ottica nonostante normalmente siano visibili solo alla microscopia elettronica.

DISTURBI DEL CIRCOLO

Si definiscono DISTURBI DEL CIRCOLO condizioni patologiche che derivano da un’erronea distribuzione del
sangue totale o di parte dei suoi elementi nell’organismo. Si precisa “parte” perché, per esempio,
nell’edema è interessata solo la parte liquida e non tutto il sangue o, ancora, nell’emorragia diapedetica
sono coinvolti solo i globuli rossi.
Dunque per disturbi di circolo si intende una diversa distribuzione del sangue nei vari distretti che può
essere sia in deficit che in eccesso.

Normalmente il circolo è fisiologicamente assicurato dalla azione contrattile del cuore e dalla elasticità e
capacità di contrazione dei vasi per cui alterazioni del circolo corrispondono ad alterazioni di questi due
elementi.

Di seguito, si vedranno solo alcuni tipi di disturbi di circolo.


Tra quelli in eccesso ricordiamo:

• EDEMA
• IPEREMIA PASSIVA
• STASI

tra quelli in difetto:

• ANEMIA
• ISCHEMIA
• INFARTO

tra quelli dovuti a lesioni vascolari:

• TROMBOSI
• EMBOLIA
• EMORRAGIA

L’EDEMA non è altro che un accumulo di liquidi interstiziali. È opportuno precisare nell'interstizio e non
nelle cellule. L'edema cellulare, infatti, si verifica solo a livello dell'encefalo e sarebbe il cosiddetto
RIGONFIAMENTO IDROPICO.
Gli organi si presentano aumentati di volume, ma essendo un aumento di liquido interstiziale ovviamente il
colore dell’organo sarà più pallido e la consistenza più pastosa. La situazione morfologica è simili a quella
della degenerazione cellulare con l’unica differenza che, al momento del taglio, in caso di edema si osserva
una grande fuoriuscita di liquidi.
Se il liquido che determina l’edema non è infiammatorio (vedi versamento presente nelle cavità sierose) si
parla di un trasudato mentre se, viceversa, il liquido che caratterizza l’edema è risultato di un’infezione,
quindi infiammatorio, si parla di un essudato.
Il trasudato è caratterizzato da una quantità di albumina e globuline molto bassa. Infatti, il peso specifico
del trasudato è basso. Il liquido è limpido e se osservato nelle cavità sierose determina la formazione di una
superficie liscia e riflettente perché non è presente disepitelizzazione dell’epitelio (che, invece, avviene in
caso di pleurite sierosa o pericardite sierosa in cui la superficie appare opaca). Questa situazione è
l’opposto dell’essudazione in cui, invece, si ha liquido, cellule della flogosi e proteine per cui un alto peso
specifico.

Quando il liquido di accumula nelle cavità chiuse parliamo di:

- IDROTORACE → cavità pleurica


- IDROPERICARDIO
- ASCITE → cavità peritoneale
- IDROCEFALO → cavità ventricolari dell’encefalo e spazi su aracnoidei
- IDROCELE → vaginale del testicolo (cavità seriosa, prodotta e separatasi dalla cavità peritoneale)
- IDRARTRO → cavità delle articolazioni (vedi ginocchio, anca)
- ANASARCA → quando c’è un edema generalizzato caratterizzato da edema interstiziale diffuso nel
sottocutaneo e nei visceri associato a versamenti nelle cavità sierose. Si può verificare in gravi
condizioni di scompenso cardiocircolatorio.

Riguardo alla PATOGENESI si ricordi la dinamica di formazione del liquido interstiziale. Esso si forma per
l’azione di forze attive che attirano acqua nell’interstizio:

- pressione idrostatica del sangue, in quanto l’acqua passa dai vasi nell’interstizio attraverso la forza
propulsiva a monte
- forze elettrolitiche: se nell’interstizio c’è molto sodio, allora si accumula molta acqua

e forze negative che ostacolano l’edema:

- pressione oncotica, determinata dalla quantità di proteine presenti nel plasma. Quante più proteine
sono presenti nel plasma, tanto meno l’acqua tende a fuoriuscire, in quanto le proteine sono
idrofile e trattengono acqua. Viceversa quando le proteine sono poche l'acqua fuoriesce.
- deflusso del linfatico: per esempio, in una linfadenopatia inguinale di tipo infiammatorio o
neoplastico, il flusso della linfa dell’arto che prende la via di quei linfonodi inguinali viene impedito
con conseguente accumulo di liquido a valle del distretto linfatico. Si parla di edema linfatico.

Il tutto, poi, dipende dalla permeabilità vascolare. Quando aumenta la permeabilità vasale, cioè in casi di
infiammazione o attivazione di proteine vasodilatatrici per motivi di tipo meccanico, ormonale, etc… si
verifica una fuga di acqua dall'interno dei vasi all'esterno instaurando un circolo vizioso. Per l’aumentata
permeabilità sfuggono soprattutto le proteine a basso peso molecolare, la pressione oncotica nel sangue
diminuisce e aumenta nell’interstizio in modo da aumentare l’afflusso di acqua all’interstizio.

Dunque le cause di edema sono:

- aumento della pressione idrostatica (es. iperemia da stasi);


- diminuzione della pressione oncotica, dovuta a digiuno prolungato o a perdita di proteine. Si pensi
alla sindrome nefrosica, legata a malattie del glomerulo renale che fanno disperdere un’ampia
quota di proteine nelle urine anche nell’ordine di gr/giorno. La diminuzione della pressione
oncotica può anche essere dovuta, però, a diminuzione della sintesi proteica, come in caso di cirrosi
in cui diminuisce in primis l’albumina dato che il fegato non funziona correttamente.
- aumento di Na+ nell’interstizio, come in tutte le sindromi renali
- mancato deflusso linfatico
- aumento della vasopermeabilità

La cute che ricopre l’area edematosa si presenta pastosa e non più elastica con positività alla
digitopressione (SEGNO DELLA FOVEA).

Istologicamente l'edema non è osservabile perché l’acqua viene persa durante la preparazione dei vetrini,
però, la minima quantità di proteine presenti si colora con eosina in maniera estremamente tenue.

La STASI coincide con l’iperemia passiva cioè l’aumento di sangue in un dato di stretto per un impedimento
al deflusso. Si distinguono forme circoscritte e forme sistemiche.
Tuttavia, l’aumento di volume del sangue in un territorio può anche essere dovuto anche ad un aumento
dell’arrivo del sangue (iperemia attiva).
Ricapitolando, l’aumento di volume di sangue in un territorio può essere, quindi, dovuto a:

- impedita capacità di deflusso (IPEREMIA PASSIVA o STASI)


aumento del volume del sangue in arrivo (IPEREMIA ATTIVA). L’iperemia attiva si verifica nelle
prime fasi della flogosi (fase vascolare) in cui si assiste a vasodilatazione, aumento di sangue nel
territorio infiammato, arrossamento, perdita di liquidi etc… Si può osservare anche in caso di
iperafflusso dovuto a shunt interatriale o interventricolare in caso di vizio cardiaco congenito in cui
il sangue passa dal ventricolo sinistro a quello destro tramite una comunicazione interventricolare.
Si ha iperemia attiva anche in caso di fistola arterovenosa.

P.S. Prima della nascita le pressioni nei due ventricoli sono uguali, alla nascita per la chiusura del foro di
Botallo aumenta la pressione a sinistra favorendo lo shunt sinistro → destro.

Si parla dunque di STASI GENERALIZZATA (o SISTEMICA) quando si ha un deficit della porzione destra o
sinistra del cuore con conseguente deficit della pompa cardiaca e rallentamento del sangue in tutti i
distretti (INSUFFICIENZA CARDIACA) e di STASI LOCALIZZATE quando si ha un ostacolo al deflusso venoso.
Infatti, oltre ai deficit della pompa cardiaca (vedi vizio valvolare come la stenosi della mitrale, reflusso
mitralico o insufficienza mitralica in cui il sangue si ferma nell’atrio sinistro e il polmone non ha un reflusso
normale), si può avere ostruzione del deflusso venoso per:

- subostruzione o ostruzione delle vene


- masse che comprimono il compartimento venoso
- dilatazioni vascolari

A livello dei tessuti la stasi si presenta con:

- edema a causa dell’ostacolo al deflusso che fa aumentare la pressione idrostatica


- aumento di volume e peso nell’organo. Se l’organo è capsulato la capsula viene messa in tensione
- colorito rosso cupo (che differenzia tale quadro da quello di iperemia attiva, in cui l’organo è rosso
accesso perché si tratta di sangue ossigenato)
- ipossia da stasi: quando il sangue scorre in un distretto, il tessuto capta normalmente l’ossigeno,
mentre se il sangue ristagna questo continua a cedere ossigeno al tessuto e la saturazione del gas
scende al di sotto del 90% con conseguente ipossia
- sofferenza parenchimale
- fuoriuscita di globuli rossi e formazione di microemorragie con conseguente deposito di
emosiderina
- consistenza inizialmente elastica ma man mano che la stasi cronicizza la consistenza aumenta,
perché la componente parenchimale di un organo inizia a soffrire andando incontro a necrosi. Le
cellule dell’interstizio, invece, essendo di tipo connettivale resistono di più all’ipossia. Si ha un
infiltrato di macrofagi con aumento dei depositi di emosiderina. L’organo assume un tipico aspetto
che ci permette di parlare di INDURIMENTO BRUNO dell’organo (indurimento= aumento
connettivo; bruno= emosiderina).

Esistono varie tipologie di stasi, di cui noi approfondiremo solo alcune:

• STASI POLMONARE: può essere sia di tipo centrale per insufficienza cardiaca, per ipertensione
arteriosa, per ipertrofia del ventricolo sinistro o per vizi valvolari sia di tipo periferico per occlusione
venosa del piccolo circolo spesso correlata all’utilizzo di farmaci particolari come antiblastici o
antibiotici. Si distingue in acuta, subacuta e cronica.
o STASI ACUTA: macroscopicamente il polmone aumenta in volume e in peso. Il colorito è
rosso cupo, la consistenza pastosa e la superficie della sezione è umida e lucida per
l’abbondante presenza di liquidi. Al sezionamento si assiste alla fuoriuscita spontanea di
sangue. Si osserva, poi, un ispessimento della mucosa bronchiale.
Istologicamente si ha la dilatazione di tutta la rete venosa sia a livello di bronchi che dei
bronchioli ma soprattutto a livello dei capillari dato che, in condizioni fisiologiche, non tutti
sono aperti ma si aprono all’aumentare dell’attività fisica. In caso di stasi, si ha dilatazione
di tutti i capillari tanto che questa dilatazione associata all’ispessimento dei setti
interalveolari fanno parlare di un aspetto a corona di rosario.
All’interno degli alveoli e dei lumi bronchiolari si osservano trasudato, emazie, cellule
macrofagiche che fagocitano i globuli rossi extravasati e si riempiono di emosiderina
(cellule del Bizzozzero, Perls positive). Queste ultime si riscontrano anche nell’espettorato.
o STASI SUBACUTA O CRONICA: nella stasi subacuta o cronica si ha un aumento delle cellule
del Bizzozzero e del connettivo interstiziale tanto da arrivare all’indurimento bruno dei
polmoni che diventano più piccoli e di colorito brunastro perché aumentano i depositi di
cellule del Bizzozzero, che contengono emosiderina. I setti sono molto ispessiti e anche
all’interno dei sinusoidi è presente una grande quantità di cellule del Bizzozzero. Tutto
questo altera gli scambi respiratori (deficit respiratorio) e aumenta le resistenze periferiche
del circolo polmonare con conseguente ipertensione cardiaca destra.
• STASI EPATICA: la stasi epatica è causata da:
- un ostacolo del cuore destro come una pericardite cronica costrittiva
- un ostacolo in corrispondenza della vena cava inferiore come nella sindrome di Budd-Chiari in
cui c’è ostruzione della vena cava che può essere di tipo congenito o acquisito, dovuta a
trombosi o a tumori renali che creano delle macrovegetazioni che vanno dalla vena renale alla
vena cava fino al cuore, passando per le vene sovraepatiche ostruendole.
Spesso la cava è la vena che si ostruisce prima in corso di pericardite dal momento che presenta
un tratto intrapericardico per cui può essere occlusa dalla fibrosi.
- un ostacolo nelle vene sovraepatiche e nelle vene sottolobulari: le vene centrolobulari
scaricano nelle vene sottolobulari che vanno a finire nelle vene sovraepatiche.
- situazioni patologiche di tipo iatrogeno, ovvero indotte da farmaci. Si ha trombosi di tutte le
vene sottolobulari determinando endotelite con trombosi.

La malattia venosa occlusiva si può vedere anche in altri organi: per esempio nel polmone, una causa di
stasi polmonare potrebbe essere la MALATTIA VENO-OCCLUSIVA DEL POLMONE, che è dovuta a farmaci
antitumorali (come accade per il fegato) o a virus particolarmente deleteri per queste regioni. Il paziente ha
il polmone ingorgato di sangue associata ad una trombosi occlusiva delle piccole vene del polmone. Quindi
non sempre la sindrome di Budd-Chiari è legata alla vena cava o alle vene sovraepatiche, ma può
interessare anche le vene sottolobulari purchè sia sistematica ovvero interessi TUTTE le vene sottolobulari.

P.S. Bisogna distinguere la sindrome di Budd-Chiari dalla malattia di Budd-Chiari vera e propria, cioè la
trombosi obliterante primitiva caratterizzata dalla trombosi elettiva delle vene sovraepatiche, la quale è
una malattia rara che si presenta soprattutto nei bambini.

P.S. L’ostruzione delle vene sovraepatiche può essere dovuta a:

• MALFORMAZIONE CONGENITA con conseguente obliterazione delle vene sovraepatiche


• DIAFRAMMI FIBROSI
• ATRESIA
• IPERPLASIA FIBROSA
• TROMBOFLEBITE SETTICA DELLE VENE SOVRAEPATICHE, soprattutto in corso di epatite purulenta.
• trombosi neoplastica delle vene sovraepatiche (vedi carcinoma renale in cui vermiciattoli di tessuto
tumorale possono invadere la vena renale e da qui raggiungere direttamente la vena cava. Possono
vegetare a tal punto da raggiungere l’atrio destro)
• TROMBOSI o EMBOLIA RETROGRADA (vedi emboli paradossi, cioè emboli che provengono dalla
parte superiore del corpo attraverso la vena cava superiore e anziché andare dall'atrio destro e
ventricolo destro, scendono nella vena cava inferiore)
• COMPRESSIONE ESTRINSECA a causa di cisti o di ascessi sottodiaframmatici del fegato che
ostruiscono le vene sovraepatiche
• TROMBOFLEBITE TOSSICA cioè ci sono dei casi in cui l'endotelio delle vene sovraepatiche risulta
tossico ad alcuni farmaci, soprattutto farmaci antineoplastici per cui nel corso di terapie
antineoplastiche si ha l'ostruzione delle vene sovraepatiche.

P.S. Una malattia simile alla sindrome di Budd-Chiari è la malattia veno occlusivo del fegato, cioè
un'ostruzione trombotica delle vene sottolobulari. Questa malattia è prevalentemente di tipo tossico cioè
una complicanza di un processo tossico dell'endotelio.

o STASI EPATICA ACUTA: nella stasi epatica acuta il fegato è aumentato di volume, ha un
polso venoso che è uguale a quello della giugulare ed è pieno di sangue. Dal peso normale
di 1500 grammi si arriva fino a 2000-2100 grammi, tanto da rendere il fegato palpabile. Il
fegato duole: le uniche due situazioni in cui il fegato duole sono la stasi epatica acuta e le
neoplasie. Si vede solo sangue nelle vene centrolobulari. Se la situazione persiste si ha
STASI SUBACUTA. Si può osservare una punteggiatura cianotica.
o STASI EPATICA SUBACUTA: nella stasi subacuta si ha fegato a noce moscata: la zona 3,
ovvero quella intorno alla vena centrolobulare perde gli epatociti per la pressione e
l’alterata ossigenazione. Gli epatociti vicini allo spazio periportale, invece, presentano
degenerazione grassa. Quindi si hanno zone piene di sangue (rosse) e zone con epatociti a
degenerazione grassa (gialle) che danno al fegato l’aspetto a noce moscata. Si parla di
inversione lobulare perché sembra che il lobulo si organizzi attorno allo spazio portale e
non intorno alla vena centrolobulare siccome gli unici epatociti rimasti sono quelli della
zona 1. Il fegato con atrofia si riduce e non è più palpabile. Inoltre, il polso epatico
scompare. Si può avere la falsa impressione di una guarigione, quando in realtà si ha un
peggioramento perché l’atrofia ha ridotto di volume il fegato.
o STASI EPATICA CRONICA: si ha fibrosi interstiziale che comincia dalla vena centrolobulare.
La differenza con la cirrosi sta nel fatto che, nella cirrosi, la fibrosi parte dallo spazio portale
e scompagina il lobulo, invece, nella stasi cronica comincia intorno alla vena centrolobulare
e non c’è uno scompaginamento totale del lobulo. Il fegato presenta, quindi, un volume
ridotto, un indurimento bruno e un ispessimento della capsula glissoniana dovuta alla stasi
linfatica conseguente alla stasi ematica.
• MILZA DA STASI: la milza ha una circolazione complessa, in parte chiusa e in parte aperta. La milza
è vascolarizzata dall’arteria splenica. Riguardo al deflusso la massima parte del sangue esce dalla
milza tramite la vena splenica che si unisce alla vena mesenterica inferiore e comincia a formare la
vena porta a cui si aggiunge, poi, la vena mesenterica superiore. Dal polo superiore della milza le
vene gastriche brevi vanno sul fondo dello stomaco e superano il diaframma attraverso lo iato
dando origine alla vena azygos che si getta nella vena cava superiore. Quindi tutta la milza è
tributaria della vena cava inferiore mentre il polo superiore è tributario della vena cava superiore.
Si può avere una stasi splenica legata a un disturbo di circolo generalizzato (STASI VENOSA
SISTEMICA) oppure si ha stasi venosa splenica legata alla vena porta (STASI VENOSA PERIFERICA).
o STASI VENOSA SISTEMICA (o CENTRALE): nella stasi venosa sistemica, la milza non gioca un
ruolo fondamentale perché, se il sangue non riesce a fuoriuscire e non arriva in
abbondanza, si crea un deposito di sangue che non incide effettivamente sulla circolazione.
La milza normale pesa 150-170 grammi. Nella stasi centrale si ha, invece, splenomegalia (>
500 grammi).
Nella stasi centrale, la milza triplica il suo peso (450 grammi) non solo perché riesce a
conservare sangue, ma anche perché attiva le sue cellule, infatti, si ha l’aumento delle
cellule spleniche.
I disturbi di circolo riguardano la polpa rossa e non la polpa bianca, cioè riguarda solo quella
parte costituita da sinusoidi attraverso cui passa il sangue. I globuli rossi fuoriusciti dal
circolo vengono captati, poi, da macrofagi, detti CELLULE A DAGA DI BOTTE, che rivestono i
sinusoidi.
Nella stasi acuta sistemica la milza raggiunge 200-250 grammi e la milza non si palpa.
Nella stasi cronica sistemica aumenta fino a 500 grammi ma non di più. Aumenta
soprattutto il diametro trasverso per cui la milza continua a non essere palpabile. Si ha
indurimento bruno della milza perché aumenta anche la componente fibrosa.
In corso di stasi sistemica, la milza è molo protetta perché il sangue tende a ristagnare a
livello epatico e il cuore lavora di meno essendoci meno sangue in circolo per cui il sangue
che arriva alla milza è relativamente poco.
Nella stasi centrale si ha anche stasi linfatica. Dal momento che i vasi linfatici nella milza,
come nel fegato, passano sotto la capsula, si ha ispessimento fibroso della capsula tanto da
parlare di milza a zucchero candito.
o MILZA DA STASI PERIFERICA: si ha un ostacolo del flusso circostante solitamente per la
cirrosi epatica. Nel caso della cirrosi epatica, infatti, si ha ipertensione portale che si scarica
sì su tutto l’intestino ma principalmente sulla milza perché la milza può accettare un grande
carico di sangue (P.S. La milza si trova a ponte tra la vena cava inferiore e la vena cava
superiore). Il sangue ristagna nella milza, facendo aumentare la pressione della vena porta
che porta all’apertura delle vene gastriche brevi che rinforzano il circolo periesofageo. Si
formano, dunque, le varici esofagee che sono la causa di morte del cirrotico. L’apertura
delle vene gastriche brevi riduce la pressione della vena porta che si apre così che il sangue
possa passarci attraverso, secondo la sua via naturale (si chiudono le arterie gastriche
brevi). Questo porta, però, a lungo andare nuovamente ad un aumento della pressione
della vena porta che, di conseguenza, si chiude permettendo l’apertura delle vene gastriche
brevi. Si ha così una sorta di ginnastica emodinamica che induce una spinta proliferativa
notevole della polpa rossa. Nella fase cronica si ha SPLENOMEGALIA FIBROCONGESTIZIA: la
milza in questa fase raggiunge e supera i 1000 g di peso, aumenta il diametro longitudinale
e, quindi, è facilmente palpabile dato che può raggiungere anche la linea ombelicale
trasversa e talvolta la fossa iliaca (milza a lingua di cane). È uno dei casi di splenomegalie
più eclatanti. Solitamente nel trattare chirurgicamente l’emodinamica della cirrosi si crea
una fistola tra la vena porta e la vena cava inferiore in modo che il sangue non ristagni nella
prima.

P.S. Le maggiori splenomegalie sono dovute a splenomegalia fibrocongestizia, malaria, tesaurismosi tipo
Gaucher e amiloidosi.

Macroscopicamente il diametro longitudinale è aumentato, il peso supera i 500 grammi, la


consistenza è aumentata e sulla superficie di sezione si vedono corpuscoli bianchi con
centro marrone. Si tratta dei NODULI SCLEROSIDEROTICI DI GAMMA-GANDY, ovvero
piccoli focolai in cui si ha uno stravaso emorragico con deposizione di emosiderina e con un
contorno di fibre connettivali.
Istologicamente i corpuscoli del Malpighi, ovvero i follicoli linfatici, sembrano scomparire
ma, in realtà, sono solo più distanziati a causa dell’aumento notevole della polpa rossa.
Si osserva, poi, sclerosi della polpa rossa: le cellule non si poggiano più su fibre reticolari
bensì su fibre collagene.
Per essere una splenomegalia fibrocongestizia devono essere presenti dilatazioni notevoli
dei sinusoidi con aumento dello spessore del tessuto presente tra un sinusoide e l’altro
dovuto alla deposizione del collagene e noduli sclero-siderotici, cioè deposizione di
emosiderina e calcio dovuti alle microemorragie.

P.S. Quando la polpa rossa aumenta di volume, qualunque sia la causa, si assiste a danni vascolari perché le
cellule a daga di botte aumentate distruggono più cellule circolanti, per cui l’ipersplenismo è sempre
associato ad anemia, leucopenia e trombocitopenia.

L’EMORRAGIA è la fuoriuscita del sangue dal letto cardiovascolare, cioè dal cuore o dai vasi.
La fuoriuscita può avvenire per DIAPEDESI per cui si ha un’emorragia di piccole dimensioni dovuto al
passaggio di liquidi attraverso la parete. Si tratta di una emorragia di tipo capillare: non si ha rottura della
parete dei vasi ma il capillare aumenta la distanza tra due cellule endoteliali.
Se è presente la rottura del vaso si parla di:

• RESSI se la rottura del vaso è dall’interno verso l’esterno


• DIABROSI se la rottura è dall’esterno all’interno. Esempi di diabrosi sono l’emorragia da ulcera
peptica che è un’usura progressiva dei vasi dall’esterno verso l’interno o l’emorragia nei tumori che
è un’usura progressiva del vaso dall’esterno verso l’interno.

Si possono avere due tipologie di emorragia:

- EMORRAGIA LOCALIZZATA
- EMORRAGIA GENERALIZZATA (o DIATESI EMORRAGICA → diatesi significa tendenza all’emorragia)

L’emorragia LOCALIZZATA è dovuta ad alterazioni dirette della parete vasale, come traumi, aneurismi,
ferite, flogosi, ulcere, tumori per cui l’emorragia si trova solo in quel vaso.

Invece le emorragie GENERALIZZATE (o DIATESI EMORRAGICHE) possono dipendere da elementi che


concorrono a mantenere la parete vascolare integra, cioè piastrine, fattori di coagulazione e struttura della
parete vascolare. La fragilità vascolare può essere dovuta a:

• alterazioni delle piastrine, per fattori congeniti e fattori acquisiti.


Tra i fattori congeniti ricordiamo assenza di alcuni fattori piastrinici che provocano diatesi
emorragica, mentre tra i fattori acquisiti la malattia di Werlhof, che è malattia autoimmune in cui
l’organismo produce anticorpi verso alcuni antigeni piastrinici distruggendo le piastrine.
In entrambi i casi si ha, quindi, riduzione o alterata funzionalità delle piastrine di tipo congenito o
acquisito.
• alterazioni dei fattori della coagulazione, di tipo congenito o acquisito.
L'emofilia è una malattia congenita che determina tendenza all’emorragia per mancanza del
fattore VIII. Anche all’assenza di tutti gli altri fattori della coagulazione determina rischio
emorragico generalizzato.
Tra le alterazioni di tipo acquisito ricordiamo la cirrosi in cui si ha un aumento del tempo di
tromboplastina perché mancano i fattori di coagulazione prodotti dal fegato; il malassorbimento;
la carenza di vitamina K; farmaci che sopprimono i fattori della coagulazione (vedi aspirina).
• alterazioni della parete vascolare. La parete vascolare (formata da endotelio, lamina basale e
perciti) può presentare alterazioni congenite come nel caso della atassia teleangectasia (la quale si
associa anche a disturbi nervosi) oppure alterazioni acquisite, come nel caso dello scorbuto o del
diabete, che determina una vasculopatia microangiopatia periferica.

Quando parliamo di emorragia dobbiamo distinguere:

• EMATOMA cioè una raccolta ematica in una cavità neoformata. L’emorragia “scava” una cavità e in
questa cavità si raccoglie sangue e si distrugge il tessuto. Quando l’ematoma è molto esteso e
riguarda gran parte dell’organo si parla di APOPLESSIA.
• Se l'emorragia si raccoglie in cavità preformata si parla di:
o EMOCEFALO: interno se il sangue si raccoglie nei ventricoli cerebrali; esterno se il sangue si
raccoglie in spazi subaracnoidei
o EMOTORACE
o EMOPERICARDIO
o EMOPERITONEO
o EMATOCELE, emorragia nella tonaca vaginale del testicolo
o EMARTRO, emorragia nell’articolazione
• Emorragie correlate all’apparato respiratorio cioè:
o EPISTASSI, fuoriuscita di sangue dal cavo nasale
o EMOTTISI (o EMOFTOE), emissione di sangue con la tosse che, quindi, origina da trachea o
bronchi
• Emorragie riguardanti l’apparato digerente:
o EMATEMESI, emorragia associata al vomito
o MELENA, emissione di sangue digerito con le feci. Nella melena il sangue deriva da una
stazione molto alta, o lo stomaco o il duodeno, per cui avviene la trasformazione chimica
del sangue prima che venga emesso con feci. Le feci sono molto scure e hanno un odore
particolare
o ENTERORRAGIA (o PROCTORRAGIA), emissione di sangue vivo con le feci, cioè sangue non
è digerito (vedi emissione di sangue dal colon)
• EMATURIA: emorragia attraverso l’apparato urinario
• Emorragia nell’apparato genitale femminile:
o METRORRAGGIA: fuoriuscita di sangue dai genitali non associata al ciclo mestruale. Può
originare dall’endometrio, da collo dell’utero o dalla vagina.
o MENORRAGIA: perdita di sangue coincidente con le mestruazioni, cioè mestruazione con
quantità di sangue molto abbondante
L’ECCHIMOSI è, invece, la fuoriuscita di sangue senza che si formi alcuna cavità. Nella ecchimosi si ha
diffusione di sangue senza che si raccolga perché la quantità di sangue non è tale da scavare una cavità ma
il sangue infiltra i tessuti lassi distribuendosi in un territorio (soffusione).
Le PETECCHIE sono ecchimosi molto piccole (1 mm) mentre la PORPORA non è altro che la presenza di
petecchie multiple.

Le dimensioni del focolaio emorragico dipendono da:

− CALIBRO DEL VASO → se si rompe un vaso di grandi dimensioni si ha la perdita di grosse quantità di
sangue
− TIPO DI VASO → la rottura di un vaso arterioso determina una emorragia più grave rispetto ad una
rottura di un vaso venoso essendo il sistema arterioso un sistema ad alta pressione
− ENTITÀ DELLA ROTTURA
− SEDE → se il parenchima dell’organo riesce a tamponare l’emorragia questa sarà di una entità
minore
− STATO DI COAGULAZIONE (le emorragie in un emofilico saranno molto più abbondanti rispetto a un
soggetto normale).

P.S. La porpora cerebri (tante petecchie diffuse nell’encefalo) provoca morte in moltissimi soggetti. Può
essere correlata a varie situazioni, da un semplice colpo di sole in estate all’avvelenamento.

Nella zona con ecchimosi i globuli rossi sono progressivamente riassorbiti e si ha la restitutio ad integrum. Si
osserva il cambiamento del colore, prima rosso, poi rosso-bruno, poi verdastro, poi giallastro e, infine, il
colore normale. Tutto questo è dovuto alla metaemoglobina che viene rilasciata e si modifica in varie fasi.

In caso di ematoma, invece, innanzitutto, avviene la coagulazione del sangue fuoriuscito per cui il siero
(parte non coagulata) viene riassorbito per osmosi mentre la parte corpuscolata richiama macrofagi che
procedono con lo smaltimento progressivo dell’ematoma. Si assiste ad una demarcazione fibrosa per cui
l'ematoma si conclude con una pseudocisti. La pseudocisti si forma perché i macrofagi attivano un tessuto
di granulazione infiammatorio intorno al focolaio emorragico, demoliscono il focolaio emorragico anche
grazie all’azione di altre cellule infiammatorie e, nel frattempo, si forma il guscio fibroso. All’interno di
questo guscio fibroso rimane un liquido, non limpido ma citrino, xantocromico (giallastro). La superficie
della pseudocisti è rugginosa per la deposizione di emosiderina.

La TROMBOSI non è altro che la coagulazione del sangue nel letto cardiovascolare del vivente.
Quando l'individuo muore il sangue si distribuisce in maniera diversa rispetto al vivente: i globuli rossi si
distribuiscono in basso, le piastrine vanno verso l’alto e si impilano, così come i globuli rossi e i globuli
bianchi. Si formano cioè i COAGULI POST-MORTALI. Il coagulo post-mortale deve essere differenziato dal
trombo vitale, perché all’autopsia bisogna capire se il sangue è coagulato prima della morte e, quindi, è
stata la possibile causa della morte o se si tratta di coagulazione post-mortale.

Il trombo vitale:

− è duro e friabile (nelle mani si spacca)


− è opaco, perché ha poche proteine che compattano le cellule
− non aderisce necessariamente alla parete (ad esempio un coagulo che è trovato dall’anatomo-
patologo nel cuore destro, può anche essere un embolo staccatosi dalla vena femorale che è
arrivato al cuore dove ha provocato l’ostruzione dell’arteria polmonare causando la morte di
paziente. Questo tromboembolo non è, infatti, aderente alla parete).

Il coagulo post-mortale che è dovuto all’impilamento delle cellule e delle piastrine nel plasma rivestito da
proteine, è un coagulo:
− non friabile
− lucido per la grande quantità di proteine
− non si riesce a spezzare tra le dita perché è elastico

Il coagulo post-mortale, così come il trombo vitale, può essere:

o rosso, se contiene globuli rossi (si trova nella parte ipostatica)


o bianco, se fatto di piastrine e globuli bianchi (si trova nella parte non ipostatica).

L’inglobamento proteico del coagulo post-mortem fa somigliare il coagulo rosso alla gelatina di ribes
mentre fa somigliare quello bianco alla gelatina di pollo.

I trombi si possono formare in qualunque distretto tranne che nei capillari perché i capillari hanno diametro
inferiore a quello del globulo rosso. Possiamo, dunque, dire che nel cuore, nelle arterie, nelle vene possono
formarsi i trombi.
I trombi possono essere:

• PARIETALI, quando i trombi occupano una parte del lume, quindi aderiscono ad un polo della
parete, ma non riescono ad occupare tutto il lume del vaso
• OCCLUSIVI, quando occupano l’intero lume e bloccano la circolazione
• CARDIACI
• ARTERIOSI
• VENOSI

I trombi bianchi sono solitamente trombi che si formano nelle arterie perché nell’arteria la velocità del
sangue è elevata, quindi il trombo comincia a formarsi in un punto, poi i globuli rossi sono trasportati via,
mentre i globuli bianchi e le piastrine si accumulano sul punto iniziale di coagulazione. In questo caso la
coda del trombo nelle arterie è anterogada, cioè è diretta verso avanti.
Nelle vene, dove la circolazione è più lenta, si trovano trombi rossi perché coagulano tutte le proteine
insieme con globuli rossi e globuli bianchi. In questo caso, però, la coda è retrograda, va indietro. È
importante sottolineare questo aspetto perché durante la formazione del trombo può avvenire una
progressiva ostruzione di altre vene, perché il trombo si crea in un punto e, poi, si sviluppa indietro potendo
occludere altri sbocchi venosi che si trovano precedentemente.
I trombi, però, sia arteriosi che venosi, spesso sono variegati, cioè i trombi non si formano tutti in un
momento, ma progressivamente nel tempo, quindi sul trombo si raccolgono prima i globuli rossi, poi i
globuli bianchi, poi di nuovo i globuli rossi, etc… È presente un’alternanza che dipende da fasi di costruzione
del trombo, il quale si ingrandisce nel tempo con stratificazioni successive di tipo rosso e di tipo bianco. Si
parla, perciò, di trombi in genere variegati con alternanza di montate rosse e montate bianche. Le linee di
stratificazione sono dette LINEE DI ZAHN. Esse rappresentano la temporalità del trombo.
Riguardo alla PATOGENESI DELLA TROMBOSI, dobbiamo ricordare che il trombo si forma per:

• DANNO ENDOTELIALE: l'endotelio riveste il connettivo e, dal momento che i fattori della
coagulazione sono attivati dal connettivo, questa condizione impedisce che avvenga l’attivazione
dei fattori della coagulazione. Inoltre il potenziale di membrana dell’endotelio presenta cariche
elettriche negative rivolte all’esterno, così come le piastrine, determinando una sorta di repulsione
elettrostatica. Può accadere, però, che si abbia denudazione, ad esempio, in caso di placche
ateromasiche, di necrosi endocardica da infarto o di azione batterica come nell’endocardite
trombotica, innescando così la trombosi. Può anche accadere che la trombosi si presenti in caso di
endotelio integro ma con perdita del potenziale (vedi CID) per fattori endoteliotossici.
• ALTERAZIONI DEL FLUSSO: il flusso normale nei vasi è di tipo laminare, cioè caratterizzato da
elementi (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) che corrono su traiettorie parallele non
incrociandosi mai. In questo flusso la velocità è maggiore al centro e pari a zero in periferia. Tutto
questo garantisce gli scambi in periferia. Nel momento in cui si presenta il flusso laminare gli
elementi più grandi viaggiano al centro del vaso mentre quelli più piccole in periferia. In ordine,
dall’interno verso l’esterno si presentano, globuli rossi e globuli bianchi, poi le piastrine e in
periferia le proteine. Normalmente non c’è impilamento di cellule e, quindi, non si hanno problemi.
Quando si passa dal flusso laminare al flusso turbolento o a quello rallentato è possibile che
avvenga impilamento di globuli rossi, avviando così la coagulazione.
Si ha un flusso turbolento se ci sono variazione di lume (vedi le stenosi, gli aneurismi, i vizi valvolari,
la dilatazione cardiaca) mentre si ha il rallentamento del sangue, ad esempio, in un individuo
ingessato in cui il sangue nelle vene dell’arto ingessato rallenta moltissimo o in un paziente
allettato. In entrambi i casi è opportuno prescrivere una terapia anticoagulante per impedire la
trombosi.
• IPERCOAGULABILITÀ: la quale può essere congenita o acquisita.
La trombofilia congenita colpisce circa lo 0,3% della popolazione e il 15% di feti abortiti, mentre
l’ipercoagulabilità acquisita è dovuta a diversi fattori come:
− FUMO
− OBESITÀ
− GRAVIDANZA: durante la gravidanza si ha aumento notevole di tromboplastina, ciò è
dovuto al fatto che le cellule del feto viaggiano nel sangue materno determinando
trombofilia. In realtà, per la madre è benefico avere un aumento di tromboplastina ematica
perché, in questo caso, dopo il parto non si ha una grossa perdita di sangue nonostante si
rompa un grande numero di arterie e vene. Nonostante questo la trombofilia costituisce un
rischio per la madre perché durante la gravidanza le vene pelviche si dilatano e se, dopo il
parto, la madre non cammina, la stasi venosa può indurre la formazione di trombi
all’interno delle vene pelviche e la conseguente formazione di emboli
− PIASTRINOSI
− CARCINOMA PANCREATICO: in corso di carcinoma pancreatico si producono più proteasi
che possono attivare i fattori della coagulazione. La trombosi è, infatti, uno dei segni più
precoci di carcinoma pancreatico così come di tanti altri tumori.
− STEROIDI: nei culturisti che fanno uso di steroidi il rischio trombotico è aumentato.

P.S. Negli atleti si controlla attentamente l’ematocrito affinché esso non aumenti dato che l’ematocrito
aumentato costituisce un alto rischio di trombosi.

Riguardo alle conseguenze della trombosi possiamo dire che se la trombosi arteriosa è occlusiva impedisce
l’afflusso di sangue anche al cuore evolvendo in un infarto.

Ben diversa è la situazione di trombosi venosa. Distinguiamo:

• FLEBOTROMBOSI cioè trombosi che colpiscono un vaso ectsasico o una varice


• TROMBOFLEBITI cioè trombosi che si instaurano su una vena infiammata

La flebotrombosi è più grave perché nelle tromboflebiti il trombo creato, essendo un territorio
infiammatorio, è molto più aderente alla parete, quindi è raro il distacco dell’embolo. Se il trombo si
instaura in una vena ectasica (vedi vena femorale o vene pelviche di donna che ha da poco partorito), esso
è debolmente aderente alla parete per cui tende ad embolizzare.
Si ha stasi a valle della vena colpita ma soprattutto si ha la possibilità di distacco di emboli con conseguente
occlusione vasale.

Nel caso di trombosi cardiaca (vedi territorio infartuale o infezione delle valvole), i trombi che si formano
possono diventare emboli, i quali possono occludere vasi arteriosi e provocare infarti.
Le possibili evoluzioni di un trombo sono:

• PROPAGAZIONE → il trombo cresce nel tempo. Nel caso di una trombosi venosa la coda del
trombo può interessare sempre più vene. Rara è l’evenienza di una propagazione di una trombosi
arteriosa.
• EMBOLIZZAZIONE
• DISSOLUZIONE
• ORGANIZZAZIONE
• INCORPORAZIONE

EMBOLIZZAZIONE, DISSOLUZIONE e ORGANIZZAZIONE si considerano insieme.


Il trombo è costituito da elementi del sangue in degenerazione (dopo qualche ora il globulo rosso non è più
integro, è disciolto nel trombo) e da fibrina, quindi il trombo è in grado di attivare il sistema fibrinolitico,
cioè quel sistema umorale (→ si trova nel sangue) di enzimi che sciolgono la fibrina. Quando il sistema
fibrinolitico si attiva può distaccare il trombo digerendo un punto di aggancio o, comunque, renderlo labile
in modo che il circolo possa determinarne il distacco. Si forma così un tromboembolo (embolizzazione).
Se il trombo è piccolo, il sistema fibrinolitico lo può lisare, cioè lo può disintegrare completamente
(DISSOLUZIONE). Non a caso aumentano i derivati della fibrina in circolo: ricercando la quantità di derivati
di fibrina nel sangue, si può fare una valutazione della capacità di fibrinolisi del soggetto e della
coagulazione.
Se il trombo è molto grande, il sistema fibrinolitico non riesce a digerire il trombo, questo perché, dopo un
po’ di tempo (due o tre giorni), la fibrina si stabilizza cioè diventa un polimero molto più voluminoso in cui si
frappone fibronectina diventando inattaccabile dal sistema fibrinolitico. Questa fibrina che non può essere
degradata richiama il sistema macrofagico che inizia a smaltire il trombo ma nel contempo richiama altre
cellule infiammatorie. Si assiste alla neo-angiogenesi: l’endotelio dei vasi comincia a crescere sotto lo
stimolo dei macrofagi ed entra nel trombo, poi col sangue arrivano nuove cellule infiammatorie, che
disintegrano il trombo e contemporaneamente si assiste all’attivazione dei fibroblasti e dei miofibroblasti
con conseguente ORGANIZZAZIONE del trombo.
Il trombo fibrino-emorragico diventa un trombo fibroso, attraversando la fase intermedia di tessuto di
granulazione infiammatorio.
Ricapitolando:

• EMBOLIZZAZIONE → il sistema fibrinolitico attacca un punto di aggancio


• DISSOLUZIONE → il trombo è piccolo per cui il sistema fibrinolitico lo aggredisce e lo disintegra
• ORGANIZZAZIONE → il trombo si organizza attraverso formazione di tessuto di granulazione,
perché la fibrina stabilizzata richiama i macrofagi.

Se il trombo non è occlusivo ma parietale, il trombo diventa fibroso e parte della tonaca intima, perché
l'endotelio lo riveste. Se il trombo è, invece, occlusivo, esso diventa un tappo fibroso. Quando il trombo è
occlusivo, nella fase del tessuto di granulazione infiammatorio, contiene un gran numero di vasi di piccole
dimensioni (capillari). La pressione sanguigna che colpisce il trombo può rendere pervi alcuni vasi capillari, i
quali si mettono a ponte tra il territorio a monte e il territorio a valle. Questi vasi assicurano un minimo di
trasporto di sangue nel territorio ostruito (in alcuni casi per la pressione molto elevata, sono presenti
tantissimi capillari permanenti. Ad esempio nell’emangioma della porta, quando la vena porta diventa
trombizzata, il trombo si organizza e nel contempo si ricanalizza, perché ci sono tantissimi capillari, tanto
che istologicamente sembra un emangioma).

L’EMBOLIA è la presenza nel sangue di qualunque sostanza non miscibile con il sangue (anche gas nelle
circostanze in cui non sono miscibili con il sangue). Non si può dire un corpo estraneo perché il 97% di casi
di embolia è dovuto a un trombo che non è un corpo estraneo. Esempi di corpi estranei sono i proiettili che
possono entrare in circolo dopo aver penetrato il corpo.
Si distinguono embolie da sostanze solide, liquide o gassose.
Il 97% di emboli sono tromboemboli staccatisi dalla sede originaria: alcune volte è un trombo intero (ad
esempio si stacca dalla safena dilatata) altre parte del trombo perché il sistema fibrinolitico in parte riesce a
operare e in parte no. Questo embolo può provocare occlusione di un vaso se il vaso che incontra è più
piccolo della sezione dell’embolo stesso.

La tromboembolia può originarsi da trombi venosi, da trombi arteriosi o da trombi che originano da camere
cardiache.
Un embolo di origine venosa provoca embolia dell’arteria polmonare. Generalmente il trombo deriva da
una vena profonda dell’arto inferiore. Questa situazione dipende dal diametro del trombo: il trombo in
safena non ha diametro maggiore del tronco dell’arteria polmonare ma può essere allungato perché la
safena è una lunga vena per cui, per un flusso turbolento, può appallottolarsi bloccando la circolazione del
ventricolo destro perché forma un EMBOLO A CAVALIERE nell’arteria polomonare. Per riflesso
glossofaringeo-vago-cuore, i battiti del cuore sono inibiti drasticamente dal momento che il cuore
percepisce una volemia dieci volte superiore nel cuore destro e si muore.
Questa embolia polmonare massiva con morte improvvisa accade in diverse situazioni: nella donna che ha
partorito da poco che rimane a letto per qualche giorno e alzandosi presenta un distacco di un
tromboembolo dalle vene pelviche oppure nei fibromi molto grandi dell’utero o nell’iperplasia prostatica,
cioè situazioni in cui le vene pelviche si dilatano molto favorendo la trombosi e la tromboembolia. La
terapia anticoagulante prescritta in questi casi serve proprio per evitare questa complicanza.
Se l'embolo è di diametro ridotto, si ferma nei rami periferici di medio calibro dell’arteria polmonare
causando infarto polmonare.
Se si blocca, invece, nei rami di piccolo calibro l’embolia risulta sintomatica salvo il caso della pneumopatia
ipertensiva legata ad una embolia polmonare peristente.
L’embolo di origine cardiaca o arteriosa causa tromboembolia sistemica (embolizzazione in encefalo, in
milza, in reni, in intestino, etc…).
Dalle cavità cardiache si possono formare emboli in situazioni di:

− trombosi su infarto del miocardio (2/3 dei casi)


− trombosi atriale in soggetto con fibrillazione (1/4 dei casi)
− endocardite trombotica

In base alla costituzione distinguiamo:

• TROMBI DI TIPO SOLIDO (proiettili; tromboemboli; macrometastasi di tumori; sostanza caseosa che
riveste il feto; villi coriali durante la gravidanza)
• TROMBI DI TIPO LIQUIDO (iniezioni oleose; lipidi liberati per frattura di osso o grossi traumatismi
che causano embolia sia a livello polmonare che a livello nervoso. Ad esempio, il midollo osseo in
questi casi di grandi traumatismi può dare embolia in encefalo e in polmone; sostanze con cui
vengono arricchite molte droghe iniettate, come polveri, talco)
• TROMBI DI TIPO GASSOSO: dovuti ad una rapida depressurizzazione del soggetto. Il sub, ad
esempio, non ha embolia quando sta in profondità ma solo quando risale, perché la quantità di gas
disciolto in un liquido dipende dalla pressione a cui è sottoposto (scendendo di 10 metri, la
pressione atmosferica aumenta di 1 atmosfera). Se, infatti, risale troppo rapidamente, può andare
incontro a embolia gassosa per la formazione di bolle di azoto. Anche in caso di disastro aereo la
depressurizzazione provoca embolia nei passeggeri e morte prima dello schianto.
INFARTO

L'INFARTO si definisce come una necrosi ischemica coagulativa.

Non si può parlare di infarto se non è presente morte tissutale (non la morte delle singole cellule) di tipo
ischemica cioè dovuta ad una ostruzione vascolare. La necrosi che si verifica in corso di infarto è
coagulativa cioè si assiste alla coagulazione delle proteine delle cellule morte mantenendo così
l’architettura del tessuto. Una volta che si è costituita una necrosi ampia il suo riassorbimento determina la
cicatrizzazione.

Non bisogna pensare che l’infarto sia dovuto esclusivamente al blocco della circolazione arteriosa dal
momento che anche l’ostruzione venosa (non la stasi) ne può essere responsabile. Anzi il termine latino
“infarto” significa proprio “infarcimento emorragico” dato che, in corso di infarto rosso, la fuoriuscita di
globuli rossi conferisce il tipico colore al tessuto.

Sia il blocco della circolazione che il blocco totale del drenaggio venoso comportano:
• una riduzione o, comunque, una scomparsa dell’apporto di ossigeno
• una brusca caduta dell’ATP cellulare perché la cellula non riesce ad eseguire la respirazione
cellulare
• un difetto di selettività di membrana cellulare con conseguente accumulo di ioni calcio nel
citoplasma
• un aumento dei radicali liberi che provocano danno ossidativo delle strutture cellulari
• l’attivazione delle caspasi calcio dipendente
• la precipitazione delle proteine

È opportuno precisare, però, che la necrosi di tipo ischemico non è solo quella coagulativa dal momento
che, a livello cerebrale, essa si manifesta come necrosi di tipo colliquativa (anche se il discorso è un po’ più
complesso nel senso che non è una vera e propria necrosi colliquativa).

L’infarto è un fenomeno tempo dipendente.


Nel momento in cui si ha la necrosi cellulare e la precipitazione delle proteine non si ha istologicamente la
certezza che in quel territorio sia avvenuta la necrosi ischemica perché, nella necrosi coagulativa, per molto
tempo le strutture cellulari rimangono evidenti. I segni di una necrosi coagulativa compaiono almeno 24
ore dopo l'inizio dell’evento ischemico.
Se si tiene presente che all'incirca il 90% di soggetti che hanno l'infarto del miocardio muoiono nelle prime
24h, si deduce che, nel caso di infarto del miocardio (ma anche di altri organi se la morte avviene nelle ore
immediatamente successive all'ostruzione vascolare), facendo l'autopsia, si noterà l'ostruzione ma non si
osserverà nessun segno sul tessuto dell’infarto stesso.
Per evidenziare la zona di necrosi bisogna utilizzare, infatti, delle tecniche specifiche.
Ad esempio, nell'infarto del miocardio si possono evidenziare gli enzimi cardiaci attraverso l'ossidazione dei
SALI DI TETRAZOLIO dal momento che i sali di tetrazolio, quando sono ossidati, diventano colorati.
In una fetta di miocardio in cui è avvenuto l'infarto i sali di tetrazolio colorano le zone non infartuate
mentre le zone dell'infarto rimangono non colorate perché i sali di tetrazolio non sono modificati dagli
enzimi cardiaci che sono stati persi.
Esistono, poi, altre tecniche che ci permettono di evidenziare la necrosi come la scomparsa del glicogeno.
Le cellule andando in anaerobiosi, consumano il glicogeno che, quindi, nella zona necrotica scompare.

Nell’area infartuata, una volta che si è verificata la precipitazione delle proteine, si verifica:
• AUTOLISI per l’attivazione degli enzimi lisosomiali
• ETEROLISI perché la zona infartuata libera i radicali liberi

Nella zona dell'infarto è presente, poi, vasodilatazione cioè gli enzimi che vengono liberati nel territorio
infartuale agiscono sul territorio vicino determinando vasodilatazione. La vasodilatazione comporta il
richiamo di granulociti neutrofili i quali si occupano della distruzione del tessuto necrotico la quale esita
nella formazione di una cicatrice.

Affinché si verifichi l'infarto per ostruzione arteriosa è necessario che il circolo arterioso sia terminale, cioè
che i rami principali che si diramano dall’arteria dell'organo non presentino comunicazioni fra di loro.
Quindi arriva l'arteria principale, si dirama in 3/4 arterie figlie e nessuna di questa arteria ha delle
anastomosi con le altre. Se si dovesse occludere una di queste arterie il territorio di distribuzione di quella
arteria andrebbe incontro a necrosi non potendo essere vicariato.
Questo aspetto permette di capire perché il cuore va incontro infarto e il muscolo scheletrico no (P.S. Nel
muscolo scheletrico il circolo arterioso contiene numerose arterie che realizzano anastomosi fra di loro).
In realtà, iniettando nei preparati anatomici i coloranti a livello delle coronarie o a livello dell’arteria
splenica o a livello dell'arteria renale, cioè tutti organi con circolo terminale, si possono apprezzare anche
nei soggetti sani delle piccole anastomosi tra i rami arteriosi per cui si dice che, affinché si verifichi l’infarto,
il circolo arterioso deve essere di tipo funzionalmente terminale dato che il circolo funzionalmente
terminale ha comunque delle piccole anastomosi.

L’entità dell’infarto dipende, dunque, anche dalla tensione di ossigeno e dalla rapidità con cui si verifica
l'ostruzione.
Se l'ostruzione dell'arteria non è rapida ma è progressiva (ad esempio anni) le anastomosi possono
aumentare di calibro e se ne possono formare delle nuove. Addirittura, sono registrati dei casi in cui
l'arteria è completamente ostruita ma non si è verificato nessun infarto perché l'ostruzione è stata graduale
nel tempo e nel frattempo si sono costituiti dei circoli collaterali che hanno sopperito all’ostruzione.

Un altro elemento importante da tenere in considerazione è la sensibilità all’anossia.


Se il tessuto che viene sottoposto all’anossia è un tessuto che consuma molto ossigeno, anche una stenosi
non totale può portare ad un infarto. Non a caso l'infarto si verifica nel cuore (soprattutto se ipertrofico),
nell’encefalo, etc… perché sono organi che hanno una estrazione di ossigeno molto elevata.
Contrariamente organi come la prostata non presentano mai infarto perché la loro richiesta di ossigeno è
esigua. Addirittura la prostata ipertrofica ha solo il 30% di possibilità di andare incontro ad infarto perché la
richiesta di ossigeno che si trova nella prostata ipertrofica certamente è molto più elevata della prostata
normale.
Stessa considerazione si può fare per il cuore. Il cuore ipertrofico presenta un’alta probabilità di avere degli
infarti rispetto al cuore normale. Bisogna tener presente che, nell’ipertrofia cardiaca, non esiste un
aumento del numero delle cellule ma solo delle dimensioni delle cellule stesse. I capillari che circoscrivono
la fibra posso aumentare e certamente aumentano ma, alla parte centrale della fibra, arriva comunque
meno ossigeno per cui nel cuore ipertrofico è più facile che si verifichi un infarto.

Può succedere, però, che si abbiano degli INFARTI SENZA OSTRUZIONE. Questi si verificano quando:
• le richieste di ossigeno sono molto elevate (vedi cuore ipertrofico)
• quando c'è una stenosi che riduce del 60-70% il calibro di una coronaria
• se il paziente ha una forte emozione o uno stress notevole che determina una contrazione
persistente della muscolatura delle coronarie. Non deve essere una contrazione momentanea ma
deve essere una contrazione persistente. In questo caso da una ostruzione del 60-70% si giunge ad
una del 90-95% determinando un infarto senza nessuna ostruzione dell'arteria.

È chiaro che gli organi che hanno una doppia circolazione (vedi fegato) vanno difficilmente incontro ad
infarto.

L’infarto può essere, poi, favorito dalla presenza di un ridotto contenuto di ossigeno nel sangue circolante
(vedi anemia, ischemia, etc…).
Quindi riassumendo l’infarto dipende da:
• tipo di circolo
• sensibilità all’anossia
• rapidità di occlusione
• ridotto contenuto di ossigeno nel sangue circolante
Generalmente l’infarto interessa:
• MIOCARDIO
• ENCEFALO
• POLMONI
• INTESTINO
• MILZA
• DIDIMO: nel caso del didimo, ma in generale di tutti gli organi dotati di peduncolo vascolare (vedi
anse intestinali) la torsione del peduncolo vascolare fa sì che le arterie rimangano pervie mentre le
vene che hanno una parete più debole collabiscano determinando infarto emorragico.
Le ovaie sono molto più stabili rispetto al didimo. Bisogna, comunque, considerare che se le ovaie
hanno un tumore cistico può succedere che ci sia la torsione sul peduncolo che determini necrosi
totale dovuta alla torsione del peduncolo vascolare.

Solitamente un infarto ischemico presenta un colorito pallido doppiato da un orletto iperemico indicativo
della presenza di una zona necrotica. L’orletto iperemico di vasodilatazione è un orletto che compare
almeno dopo 24-48 ore. Successivamente all'interno del orletto iperemico si crea una zona giallastra
costituita dai granulociti neutrofili che cominciano a demolire il tessuto necrotico. Questo cuore non si
rompe perché il tessuto necrotico presenta la stessa durezza del tessuto normale. Però, nel momento in cui
inizia la demolizione, prima che si verifichi la cicatrizzazione, la durezza del parenchima in corso di eterolisi
viene meno per cui, se è presente una condizione di ipertensione permanente, il cuore si può rompere.
Quindi intorno alla fine della prima settimana possiamo avere la rottura del cuore.

Nel caso dell'encefalo si presenta, però, un rammollimento più che una necrosi colliquativa. Non si parla di
infarto nell'encefalo piuttosto di rammollimento cerebrale.
Istologicamente, quando è presente un’ostruzione di un'arteria cerebrale, dopo 24h si osserva una necrosi
coagulativa soprattutto delle cellule nervose. Nei giorni successivi, però, si assiste ad una demielinizzazione
dell'area necrotica, la mielina si sfalda e diventa un ammasso di lipidi semplici responsabili del
rammollimento del tessuto. Nell'encefalo si osserva sempre l’orletto iperemico intorno alla zona di necrosi,
però, all'interno nella zona di necrosi la consistenza risulta sempre meno evidente.
Si possono avere tre tipi di infarto:
• INFARTO ISCHEMICO (o BIANCO) che è quello del cuore, dell'encefalo, del rene, della milza, dove si
assiste ad interruzione del sangue arterioso e alla progressiva scomparsa del sangue attraverso le
vene. Alla fine la zona interessata è più pallida rispetto al tessuto circostante.
• INFARTO ROSSO (o EMORRAGICO) che può essere dovuto a varie cause:
o l’organo presenta delle arterie che sono funzionalmente terminali ma che costituiscono
delle sottili anastomosi in modo tale da garantire l'arrivo del sangue ma non in quantità
tale da poter essere allontanata. Per esempio nell'encefalo se il rammollimento colpisce la
sostanza bianca si ha un infarto bianco ma se, invece, colpisce la corteccia cerebrale cioè la
sostanza grigia al di sotto delle meningi (questa sostanza è parzialmente irrorata da arterie
perforanti che derivano dalla pia madre) una certa quantità di sangue arriva all'encefalo ma
non in quantità sufficiente per poter allontanare la quantità di sangue presente. Gli
eritrociti si bloccano lì, rimangono nella zona e non sono sufficienti per irrorare e per
scambiare ossigeno. Non potendo essere allontanati si ha ugualmente un rammollimento
ma un RAMMOLLIMENTO ROSSO anziché un rammollimento bianco.
o l’organo presenta una doppia circolazione (non è il caso del polmone. Le arterie bronchiali
terminano più o meno prima dei bronchi segmentali. Quindi il polmone ha sì una doppia
circolazione ma la circolazione bronchiale riguarda solo i bronchi e non il parenchima). Se
consideriamo il fegato, dobbiamo considerare che ad esso afferiscono l'arteria epatica e la
vena porta. È vero che sperimentalmente se si chiude uno dei due vasi non succede niente
ma se la situazione è precaria perché, ad esempio, si ha una CID che determina la
contemporanea occlusione dell’arteria epatica e della vena porta, il sangue giunge nella
zona infartuata tramite la circolazione parallela ma non viene più allontanato causando
infarto emorragico.
o è presente una pressione venosa elevata (vedi polmone o fegato).
È questa la vera ragione per cui l’infarto del polmone è di tipo emorragico. Normalmente
l'arteria polmonare presenta una pressione ridicola (25 mmHg). L’atrio sinistro, invece, ha
una pressione venosa elevata. La differenza tra pressione arteriosa e pressione venosa nel
polmone è ridicola, molto bassa, scarsissima ma se si blocca un ramo della polmonare, il
sangue che sta nelle vene refluisce verso la zona necrotica e mancando l'arteria che spinge
il sangue in avanti, il sangue refluisce verso il territorio di infarto.
La stessa cosa succede nell'intestino. L'intestino ha una circolazione venosa che va verso la
vena mesenterica. La vena mesenterica ha una pressione molto elevata essendo tributaria
della vena cava. Se si ostruisce un ramo dell'arteria mesenterica, il sangue venoso di quel
territorio refluisce verso il territorio di infarto.
o l’organo è provvisto di peduncolo vascolare. La torsione del peduncolo vascolare produce
una ostruzione venosa ma non arteriosa con conseguente blocco del sangue nel territorio
infartuato.

Le sedi di infarto emorragico sono: encefalo, polmone, intestino e didimo.


Ogni infarto emorragico segue le stesse tappe dell’infarto ischemico (necrosi coagulativa,
essudazione di granulociti, etc…). Nell’infarto emorragico, però, ci sarà la possibilità di
identificare l’area infartuata un tantino prima. Se in caso di infarto ischemico nelle prime
fasi non si osserva niente, nell’infarto emorragico, sin dalle prime fasi, la zona presenta un
infarcimento emorragico.
• INFARTO SETTICO si presenta nel momento in cui i germi in circolo vanno ad occludere un'arteria di
piccole dimensioni provocando un piccolo infarto. Se gli altri infarti dopo circa 15 giorni vengono
sostituiti da una cicatrice fibrosa nel caso di infarto settico si ha una progressione verso l'ascesso.
In questa zona:
o si ha NECROSI
o si ha l’ATTECCHIMENTO DEI GERMI
o non si ha cicatrice fibrosa ma un ASCESSO METASTATICO
L’evoluzione di questa forma di infarto determina necrosi con essudazione di granulociti neutrofili
ma soprattutto macrofagi che collaborano alla riduzione del tessuto necrotico e
contemporaneamente provocano:
o neo-angiogenesi
o vascolarizzazione dell'area necrotica
o arrivo di altre cellule infiammatorie che demoliscono progressivamente l'area necrotica
o richiamo di fibroblasti e mio-fibroblasti
Si forma un tessuto di granulazione infiammatorio con progressiva evoluzione verso la cicatrice.
In sunto si ritrovano:
o cellule endoteliali
o cellule infiammatorie
o progressiva riduzione della componente vascolare e cellulare
o fagocitosi dei detriti
o aumento delle fibre collagene e fibrosi con formazione di una cicatrice fibrosa.

P.S. La milza ha più possibilità di avere infarti splenici quando è più voluminosa soprattutto in corso di
anemia indotta dalla leucemia. Questa tipologia di milza caratterizzata da un colorito rossastro è detta
“milza leucemica” perché diffusa nella leucemia mieloide cronica.

FLOGOSI
La FLOGOSI è una reazione locale e generale ad un insulto del connettivo.
Non esiste mai una flogosi che sia solo locale perché comunque una flogosi comporta una reazione
dell'organismo che è tanto più potente quando più forte è l’intervento dell'immunità.
Gli agenti che sono in grado di provocare una flogosi sono gli stessi della degenerazione cellulare:
• STIMOLI IPOSSICI
• FISICI
• CHIMICI
• IMMUNOLOGICI
• BIOLOGICI
• GENETICI
Nella degenerazione cellulare questi agenti patogeni agiscono sulle cellule e nelle cellule provocano una
modificazione del loro regime biochimico fino ad avere delle modificazioni del loro aspetto morfologico e
delle loro funzioni.
Invece, la flogosi è una reazione del connettivo nei confronti degli stessi agenti.
Non vi può essere reazione infiammatoria se non è coinvolto il connettivo.
Questi agenti provocano una reazione del connettivo e dei vasi che provoca una serie di loro modificazioni
morfologiche e biochimiche.
Si tratta di un fenomeno vitale: le cellule morte non possono certamente rispondere con una flogosi.
Lo scopo della flogosi è quello di:
• distruggere o allontanare l'agente lesivo
• limitare il danno e la sua estensione ai tessuti vicini
• eliminare le cellule che sono state coinvolte nel processo e che sono state danneggiate
irreversibilmente
• preparare il terreno per la successiva riparazione.
Quindi questa reazione garantisce la distruzione del danno, lo circoscrive, lo elimina e lo ripara.

La flogosi si distingue in:


• ACUTA
• CRONICA
le quali hanno delle modalità differenti.
Nella flogosi acuta si ha una serie di eventi connettivali che provocano una rapida eliminazione dell'agente
patogeno e, quindi, questo consente di concludere la fase infiammatoria nel giro di pochi giorni o di poche
settimane.
Invece, nella flogosi cronica, si ha una reazione protratta nel tempo che mette in atto risposte che sono
diverse da quelle della reazione acuta.
La flogosi cronica può essere:
• la conseguenza di una flogosi acuta: questo lo si vede frequentemente per agenti che sono in
grado di prolungare lo stimolo flogistico
• frutto di uno stimolo che è protratto nel tempo ma è meno intenso.

Quindi:
• se lo stimolo è o troppo intenso o non facilmente eliminabile si passa dalla fase acuta alla fase
cronica.
• se, invece, lo stimo non è molto intenso ma è prolungato la flogosi comincia già come cronica.

Secondo la vecchia classificazione di Virchow si identificavano le flogosi:


• acute come angioflogosi dato che sviluppano più una reazione di tipo vascolare
• croniche come istoflogosi perché sviluppano più una reazione tissutale cioè del connettivo

In realtà non è così perché anche molte forme croniche sono delle angioflogosi.
L’idea secondo la quale la forma cronica coinvolge di più il connettivo che i vasi deriva dal fatto che, fino
agli anni ’70, si pensava che esistessero delle cellule reattive tipiche del connettivo, i cosiddetti “istiociti
tissutali”, cioè macrofagi che non si spostano mai dal connettivo. Ad oggi, si sa, però, che se è presente un
macrofago nel connettivo questo è essudato dal sangue, comunque deriva da un monocita. Quindi anche le
istoflogosi sono in realtà delle flogosi vascolari: solo che le cellule che vengono attivate non sono i
granulociti ma sono soprattutto i linfociti, etc....
In sunto, possiamo dire che sia le angioflogosi che le istoflogosi sono essudative perché le cellule che si
ritrovano nel connettivo sono sempre derivate dal sangue.

Molti distinguono, poi, inutilmente FLOGOSI SPECIFICA e FLOGOSI ASPECIFICA


Per flogosi specifica si intende una flogosi in cui le modificazioni molto spesso indotte da alcune funzioni
biologiche del germe permettono alla vista della flogosi di avanzare una ipotesi sull’agente eziologico che
ne è la causa. Purtroppo non sempre questo è vero: per esempio il bacillo tubercolare in alcune condizioni
non manifesta le tipiche caratteristiche morfologiche (vedi soggetto anergico che presenta la tubercolosi
senza granulomi) così come i granulomi si possono formare anche in assenza di una tubercolosi. Il patologo
accorto non dice, infatti, “visto un granuloma tubercolare”, bensì ”visto un granuloma che molto
probabilmente è di tipo tubercolare”. Sarà, poi, la microbiologia a confermare il sospetto diagnostico. Ad
oggi, oltre al classico esame batteriologico si può evidenziare sul granuloma tubercolare con la colorazione
di Ziehl-Neelsen il bacillo tubercolare oppure tramite PCR dimostrare che il tubercolo o anche una reazione
apparentemente aspecifica sia dovuta al bacillo tubercolare.
Quindi diciamo che grossomodo le flogosi specifiche ci indicano una eziologia grazie al quadro morfologico
particolare. Bisogna, però, essere sempre molto cauti: bisogna procedere con la verifica microbiologica o
molecolare al fine di identificare quel tipo di germe e confermare il sospetto diagnostico.

È necessario sottolineare che esiste, però, una discrepanza tra il concetto di specificità tra il patologo e il
clinico. Ad esempio, il quadro del Morbo di Crohn è un quadro infiammatorio assolutamente aspecifico per
il patologo ma, per il clinico, è assolutamente specifico dato che solo quella malattia ha quel tipo di
evoluzione. Stessa cosa vale per il tifo: si tratta di una flogosi aspecifica ma l’evoluzione clinica della
malattia essendo specifica permette di definire un quadro che è clinicamente specifico.
Bisogna, dunque, precisare se si parla di un quadro morfologicamente specifico o clinicamente specifico.

FLOGOSI ACUTA
La flogosi acuta inizia con una fase vascolare cioè con una vasodilatazione.
Secondo le vecchie nozioni di Galeno (medico romano), la flogosi acuta è caratterizzata da: RUBOR,
TUMOR, DOLOR e CALOR a cui si è aggiunta, successivamente, anche la FUNCTIO LESA.
Come segni generali di flogosi ricordiamo:
• febbre
• astenia
• leucocitosi

Il rossore e il calore sono dovuti all’iper-afflusso di sangue (iperemia attiva). Infatti, tutti i capillari sono
dilatati nella zona della flogosi per:
• istamina
• sostanze istamino-simili che provocano vasodilatazione
• bradichinine che mantengono la vasodilatazione, etc…
Il tumor è dovuto sia alla vasodilatazione che all’essudazione.
Il dolor è dovuto sia alla compressione dei nervi periferici che all’azione delle citochine che hanno la
capacità di causare dolore.
La functio lesa è dovuta all’interruzione del movimento e della funzionalità dell’organo perché il paziente
che ha dolore non riesce ad eseguire il normale movimento o, comunque, le normali funzioni dell’organo.

In sunto in una flogosi si osserva vasodilatazione, marginazione dei granulociti neutrofili, adesione dei
neutrofili alle cellule endoteli (come accade fra l’endometrio e la blastocisti), diapedesi, chemiotassi,
fagocitosi e killing.

Classicamente i momenti dell’infiammazione sono stati suddivisi in quattro fasi:


• FASE ESSUDATIVA → cioè fase vascolare e migrazione di elementi infiammatori. Si ha una fugace
contrazione arteriolare (neurogena e/o adrenergica) a cui segue la vasodilatazione delle arteriole,
dei capillari e delle venule che determina rallentamento del flusso sanguigno, marginazione di
leucociti e piastrine, impilamento dei globuli rossi e formazione di un essudato ricco in PMN.
• FASE PRODUTTIVA → raccolta di elementi infiammatori nel tessuto
• FASE REGRESSIVA → sappiamo che gli agenti infiammatori sono in grado di indurre danni a livello
del parenchima e, a volte, dell’interstizio con conseguente necrosi cellulare (coinvolge cellule
parenchimali e interstiziali) e tissutale (coinvolge anche il connettivo).
• FASE RIPARATIVA

P.S. L’essudato è caratterizzato da:

• COMPONENTE LIQUIDA → sostanza amorfa debolmente acidofila, omogene o granulomatosa a


contenuto proteico in cui spesso sono evidenti sottili filamenti acidofili irregolarmente intrecciati di
fibrina.
• COMPONENTE CORPUSCOLATA → costituita da leucociti come PMN (6 – 24 h) o monociti
macrofagi (24 – 48 h) ed emazie.
Invece, il trasudato è una componente liquida a basso peso molecolare non contenente proteine
contrariamente all’essudato.

Quando la flogosi diventa cronica non c’è più la possibilità di utilizzare i neutrofili ma intervengono i
monociti che, convertiti in cellule macrofagiche, producono mediatori dell’infiammazioni. a seconda del
tipo di infezione possono essere presenti, però, anche linfociti e plasmacellule.

La flogosi può essere:

• LESIONE ERITEMATOSA quando prevale nettamente la fase vascolare cioè avviene solo la
vasodilatazione che interessa prevalentemente cute e mucose che appaiono arrossate
• FLOGOSI SIEROSA quando c’è una vasodilatazione ma anche un essudato che riguarda cute,
mucose secernenti ma anche i parenchimi degli organi. In questo caso sulla cute o sulle mucose si
possono formare vescicole o bolle.
Per VESCICOLA si intende una raccolta di liquido inferiore al cm mentre per BOLLA una superiore al
cm.
Si può avere CATARRO dovuto alla perdita dell’epitelio a livello delle mucose da cui fuoriesce una
grande quantità di liquido non più trattenuto all’interno della tonaca propria delle mucose.
• FLOGOSI FIBRINOSA o SIERO-FIBRINOSA se riguarda prevalentemente le sierose ma può riguardare
anche mucose e parenchima. Solitamente si parla di pleurite, pericardite e peritonite. Il termine
siero-fibrinosa vuole indicare che sulla pleura, sul pericardio o sul peritoneo, si trova un essudato di
fibrina con stratificazione di essa sulla sierosa. Questa stratificazione si può verificare sulle mucose
determinando la formazione delle cosiddette pseudo-membrane che possono essere senza necrosi
tissutale, con necrosi tissutale o con necrosi epiteliale. Tra le pseudo-membrane senza necrosi
tissutale possiamo ricordare la laringite in cui si osserva anche un essudato in parte formato da ife
fungine. Si possono avere pseudomembrane con necrosi epiteliale nelle infezioni ad opera di ceppi
spirillari nel cavo orale come nel caso di difterite.
• PURULENTA in questo caso è ubiquitaria. La flogosi purulenta si automantiene: i germi richiamano
un grande quantità di granulociti neutrofili che, pur fagocitando il germe, non riescono a
distruggerlo per cui vanno incontro a degenerazione grassa e, poi, a lisi che produce pus e fattori
chemiotattici per i neutrofili. Questa flogosi è difficilissima da trattare perché il farmaco che arriva è
inattivato dal pH troppo basso del sangue. La terapia che si fa serve a prevenire la setticemia dato
che la flogosi purulenta è vinta solo quando spontaneamente il focolaio emorragico fistolizza verso
l’esterno grazie agli enzimi litici con conseguente evacuazione del pus e formazione di una cicatrice.
Si può intervenire anche drenando manualmente l’ascesso. Durante questa tipologia di flogosi si
può formare:
o pustola è una raccolta di essudato purulento nello spessore dell’epidermide
o foruncolo è una raccolta di pus nel derma intorno agli apparati pilo-sebacei
o ascesso è una raccolta di essudato purulento in una cavità neoformata circoscritta da
tessuto di granulazione
o flemmone è una raccolta di essudato purulento senza cavità. Quest’ultimo è molto più
pericoloso dell’ascesso perché anche se ha provocato necrosi l’ascesso è abbastanza
demarcato e delimitato, invece, nel flemmone la flogosi purulenta scivola lungo le fasce
o empiema cioè una flogosi purulenta che si forma in una cavità preformata.

P.S. La flogosi putrida è una flogosi purulenta che presenta grande necrosi e bacilli responsabili della
gangrena gassosa. Tale flogosi è maleodorante perché gli enzimi decarbossilanti liberano le ammine.

• EMORRAGICA
• NECROTIZZANTE
• MISTE (fibrino-emorragiche, necrotizzante, putrida)

P.S. Se, in una vescicola cutanea o mucosa, il liquido è limpido e non è pieno di granulociti neutrofili si tratta
di una vescicola virale mentre se il liquido è torbido e ci sono molti granulociti neutrofili, si tratta di una
pustola con essudato granulocitario.

P.S. Nella pericardite fibrinosa il cuore viene definito cuore villoso perché si formano tante piccole striscette
fatte di fibrina che tendono a disporsi ordinatamente grazie alla ritmicità del battito cardicaco che
conferiscono alla superficie l’aspetto del velluto.

Nella flogosi fibrinosa il tessuto può avere due evoluzioni:

• se la flogosi dura poco, ovvero qualche giorno, il sistema fibrinolitico è in grado di sciogliere la
fibrina che si è formata nell’essudato grazie agli enzimi fibrinolitici determinando la restitutio ad
integrum
• se la fibrina persiste per molti giorni e si stabilizza cioè le sue catene polimerizzano e si legano
grazie alla fibronectina, essa diventa inattaccabile dal sistema fibrinolitico e richiama macrofagi e
fibroblasti senza che si verifichi l’angiogenesi. La fibrina si trasforma in collagene con formazione di
briglie aderenziali tra foglietto parietale e viscerale delle sierose, di placche solo sul foglietto
viscerale o solo su quello parietale o di una obliterazione della cavità toracica o addominale
(vengono murati polmone, cuore, addome).

Per GRANULOMA si intende una flogosi a prevalente costituzione monocitico-macrofagico o di linfociti e


plasmacellule nella flogosi cronica.
I granulomi possono essere:

- ASPECIFICI cioè:

• da corpo estraneo ad esempio frammenti di pietra, scaglie di legno, materiale ferroso rilasciato da
protesi di anca, spine di ricci di mari, etc… Il corpo estraneo può essere anche endogeno (vedi cisti
epidermale infiammata che libera le cellule di sfaldamento)
• colesterinico legato all’emolisi dei globuli rossi con liberazione di colesterolo dalle membrane
cellulare
• lipofagico quando il tessuto adiposo libera acidi grassi che saponificano con il potassio o il calcio
come nella steato-necrosi o in caso di omento strozzato da un sacco erniario con conseguente
rilascio di grasso
• colloidofagico ad esempio, nelle tiroiditi di De Quervain la tireoglobulina rilasciata dalla rottura del
follicolo viene attaccata dai macrofagi

- SPECIFICI cioè da:

• TBC
• sarcoidosi
• rinoscleroma

P.S. La LUE e l’actinomicosi non sono caratterizzate da granulomi.

Il granuloma è costituito da elementi derivanti dai monociti che possono essere cellule giganti, epitelioidi,
macrofagiche. Dal monocita derivano, infatti, il MACROFAGO che presenta capacità fagocitanti, l’ISTIOCITA
MACROFAGO che presenta i vacuoli di fagocitosi e un citoplasma eosinofilico, le CELLULE EPITELIOIDI che
hanno un citoplasma eosinofilo e non hanno capacità di fagocitosi però hanno grande attività di sintesi
proteica soprattutto di fattori chemiotattici e CELLULE GIGANTI che derivano dalla fusione di più cellule
epitelioidi. Secondo alcuni queste cellule non hanno attività secondo altri hanno attività macrofagica, non
lo si sa esattamente.

Le cellule epitelioidi dei granulomi hanno le seguenti caratteristiche:

− nucleo piccolo
− citoplasma eosinofilo
− limiti cellulari non evidenti

Le cellule giganti (o di Langhans) contengono almeno 400 nuclei anche se se ne contano circa 40 perché, in
istologia, si osserva un preparato bidimensionale. All’interno di queste cellule troviamo spesso vacuoli di
fagocitosi e, qualche volta, i prodotti di digestione della fagocitosi. Se le cellule giganti vanno incontro a
infezione, il materiale fuoriesce provocando una reazione granulomatosa.

La FASE RIPARATIVA della flogosi segue la seguente evoluzione. Una flogosi può essere determinata da:

• GERMI PRONTAMENTE DISTRUTTI che causano un DANNO NON LETALE. A questa condizione può
subentrare o il RIASSORBIMENTO DELL’ESSUDATO con RESTITUTIO AD INTEGRUM o
l’ORGANIZZAZIONE DELL’ESSUDATO con formazione di una CICATRICE
• GERMI RESISTENTI ALLA DISTRUZIONE che causano una NECROSI CELLULARE. Se i tessuti sono
perenni si forma la cicatrice mentre se sono labili o stabili e lo stroma non viene intaccato si ha la
RESTITUTIO AD INTEGRUM per rigenerazione cellulare se sono labili o stabili e viene intaccato lo
stroma si ha la CICATRICE
FLOGOSI SPECIFICHE

Le flogosi specifiche sono quelle in cui è possibile identificare il germe che le ha causate in base alla
morfologia che assumono.

Tra le flogosi specifiche annoveriamo:

• TUBERCOLOSI
• SIFILIDE (o LUE)
• SARCOIDOSI
• ACTINOMICOSI

TUBERCOLOSI

La TUBERCOLOSI è una malattia infiammatoria cronica, granulomatosa, contagiosa, diffusa in tutto il


mondo la cui eziologia risiede nel BACILLO DI KOCH (o MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS).
Epidemiologicamente si registrano:

- 1,7 miliardi di persone affette da tubercolosi (TBC)


- 8-10 milioni di nuovi casi all’anno
- 1,7 milioni di decessi all’anno

P.S. Dopo l’HIV, la più frequente malattia infettiva al mondo è la malaria.

Nei paesi più industrializzate è stata debellata. Nel passato, soprattutto nell’Italia meridionale, la
tubercolosi era molto diffusa.
Oggi sono più frequenti le malattie tubercolari secondarie con coinvolgimento di altri organi oltre ai
polmonari: pielonefriti tubercolari, artriti tubercolari, cioè forme che si manifestano senza aver avuto prima
un sentore della malattia.
tra l’altro, è stato riscontrato un aumento della malattia a livello polmonare nei bambini sottoposti a
terapie antiblastiche o negli anziani.

Le malattie che aumentano il rischio di contrarre la TBC sono:

- diabete mellito
- linfoma di Hodgkin
- patologie polmonari croniche (silicosi)
- insufficienza renale cronica
- malnutrizione
- alcoolismo
- immunodeficienza
- immunosoppressione

Il Mycobacterium Tuberculosis è un batterio aerobio obbligato di forma bastoncellare e alcol-acido


resistente. Tramite la colorazione di Ziehl Nielsen è possibile evidenziare il bacillo che appare rosso-violaceo
per la fucsina basica. Dal momento che i bacilli sono solitamente pochi si preferisce mettere in evidenza il
batterio con l’utilizzo della PCR.
La colorazione non si fa solo su strisci di materiale biologico ma si può fare anche su materiale paraffinato.

P.S. La colorazione di Ziehl-Nielsen consiste in:

− applicare fucsina fenicata a caldo


− decolorare con una soluzione di alcool-acido
− eseguire la colorazione di contrasto con blu di metilene

I micobatteri, essendo alcool-acido resistenti per il loro involucro lipoproteico, non si decolorano ma
trattengono la fucsina per cui appaiono colorati in rosso su uno sfondo blu pallido.

Nel momento in cui si ha un’infezione tubercolare, il paziente sviluppa una reazione immunitaria che viene
saggiata con i test cutanei come il Tine test o il Test alla tubercolina di Mantoux. Riguardo a quest’ultimo, si
tratta di un’intradermo-reazione che riguarda l’immunità di tipo IV, ovvero l’immunità ritardata. Si iniettano
derivati proteici purificati del bacillo tubercolare e, dopo 48-72 ore, se il test è positivo, compare un nodulo
palpabile, perché questa reazione non è una reazione vascolare ma è prevalentemente di tipo cellulo-
mediata.
Sono registrati casi di falsi negativi ad esempio per anergia del soggetto (→ se un paziente ha la sarcoidosi
non solo la sua reazione precedentemente Mantoux positiva diventa negativa, ma anche tutte le reazioni di
tipo T, ovvero le reazioni in cui viene attivata l’immunità di tipo T, risultano alterate).
I falsi positivi possono essere, invece, dovuti alla presenza di micobatteri atipici.

La malattia sviluppa lesioni tissutali croniche progressive.


Essa si sviluppa in presenza di condizioni favorenti, quali povertà, affollamento, stati di immunodeficienza,
etc... Spesso, oggi, si osservano riattivazione dei processi tubercolari nei soggetti che sono sottoposti a
terapia antitumorale.
Le vie di penetrazione del Mycobacterium sono:
• aerogena: oltre il 90% delle infezioni è dovuta ad una trasmissione per via aerea. Il bacillo
tubercolare prevalentemente si localizza, infatti, come prima infezione, nei polmoni
• nell’8% dei casi la via di penetrazione è quella digerente
P.S. Un’altra possibile fonte di infezione umana è il Mycobacterium Bovis, che è contenuto nel latte non
pastorizzato in maniera adeguata. In questo caso l’organo colpito è il digerente e più precisamente l’ultimo
tratto dell’ileo perché più ricco di linfatici
• cute e mucose sono responsabili di infezioni di prima istanza solo in pochissimi casi eccezionali.
Affinché ci si infezione, però, devo essere presenti ampie zone di abrasione a livello dell’epitelio o
dell’epidermide, altrimenti l’infezione primitiva a livello cutaneo non esiste.
Non esiste la trasmissione per via transplacentare: come dimostrato da tutta una serie di esperimenti, le
frazioni di micobatteri non riescono ad attraversare la placenta. Se un bambino presenta precocemente
infezione tubercolare è perché l’ha acquistata dalla madre subito dopo la nascita, MAI durante la
gestazione (vedi contatto tra madre e neonato che viene coccolato).

Le vie di diffusione sono prevalentemente:


• via linfatica nella tubercolosi primaria
• via ematogena nella tubercolosi secondaria
• via endocanalicolare, cioè una lesione di un bronco periferico interessa, poi, il bronco principale, la
trachea, la laringe. Infatti caratteristica della tubercolosi nella laringe è la commessura posteriore
dove soprattutto durante la notte con il decubito si accumulano le secrezioni che arrivano dalla
trachea. Quindi un’ulcera della commessura posteriore è, generalmente, un’ulcera tubercolare. La
via endocanalicolare la possiamo osservare anche nell’urogenitale per cui dal rene il bacillo va alla
vescica, dalla vescica va al rene controlaterale oppure dalla vescica va al deferente e dal deferente
va all’epididimo.

Quando il bacillo tubercolare entra nell’organismo, il soggetto non ha avuto contatti precedenti con il
bacillo, quindi la reazione immunitaria è nulla. Il paziente svilupperà una tubercolosi al 92% polmonare e
all’8% intestinale. Questa tubercolosi di primo ingresso è detta TUBERCOLOSI PRIMARIA. Questa
tubercolosi nel 95% dei casi guarisce e il bacillo viene incarcerato. Si parla di un soggetto normoergico: il
bacillo entra e l’organismo risponde determinando una guarigione che, molto spesso, non è per restitutio
ad integrum ma per cicatrizzazione.
In questi soggetti si può avere, però, una RIATTIVAZIONE del germe e, quindi, REINFEZIONE ENDOGENA
oppure può capitare che possano arrivare, sempre per via aerea, nuovi germi. In questo caso parliamo di
TUBERCOLOSI POSTPRIMARIA.
La tubercolosi una volta attivata nel focolaio primario va incontro a diffusione linfo-ematogena (reni, ossa,
surreni, meningi, etc…) cioè si ha TUBERCOLOSI SECONDARIA.
Nel caso di tubercolosi postprimaria o secondaria la risposta può essere iperergica (risposta produttiva, cioè
tendente a limitare le infezioni) o ipoergica (risposta essudativa, cioè il soggetto non reagisce al batterio ma
soccombe con conseguente necrosi, cavernizzazione, etc…)

Le fasi della malattia sono:


- PERIODO PRIMARIO con formazione del complesso primario di Ghon. In questo caso si distingue:
o FOCOLAIO PRIMARIO ovvero focolaio nel viscere
o LINFANGITE CONSENSUALE, cioè il bacillo che segue le vie linfatiche determina una
infiammazione dei linfatici fino al linfonodo drenante
o LINFOADENITE SATELLITE dovuta ai germi dal focolaio primario che giungono nei linfonodi
locoregionali.
- PERIODO POSTPRIMARIO cioè la riacutizzazione in sede oppure la diffusione a distanza del bacillo.
L’entità della malattia dipende dalla VIRULENZA e dalla PATOGENICITÀ del batterio e dalla RISPOSTA
IMMUNOLOGICA dell’organismo.

Nel Mycobacterium Tuberculosis si possono distinguere:


- COMPONENTI LIPIDICHE (50%) che sono responsabili dell’alcool-acido resistenza, della formazione
delle cellule giganti e della virulenza. Infatti, si può procurare una necrosi caseosa iniettando
sottocute direttamente la frazione lipidica, cioè gli acidi micolici dato che questi sono acidi grassi
fortemente necrotizzanti per le cellule umane
- COMPONENTI PROTEICHE sono responsabili dell’immunità avendo potere antigenico: basti
pensare alla tubercolina responsabile del test di Mantoux. Non bisogna pensare, però, che il corpo
batterico presenti solo la tubercolina come antigene: esistono tutta una serie di sostanze proteiche
allergizzanti. Inoltre la frazione proteica è responsabile della trasformazione degli istiociti in cellule
epitelioidi
- FRAZIONI GLICIDICHE sono coinvolte nella chemiotassi dei PMN e nella promozione
dell’essudazione sierosa.
La morfologia delle lesioni tubercolari permette di distinguere una tubercolosi:
- ESSUDATIVA
- PRODUTTIVA
La LESIONE ESSUDATIVA è tipica del soggetto anergico cioè del soggetto che non riesce a rispondere alla
stimolazione antigenica. Le lesioni essudative sono lesioni che sono caratterizzate da una carica batterica
elevata perché l’organismo non si oppone all’attacco del germe. Spesso però la sensibilità alla tubercolina è
negativa, quindi, se un paziente è tubercolotico e la reazione alla Mantoux è negativa non è perché è sano
ma perché è anergico. L’essudato è di tipo sierofibrinoso con granulociti e macrofagi cioè una componente
cellulare molto aspecifica. Molto spesso le forme essudative sono caratterizzate dalla necrosi caseosa.

La FORMA PRODUTTIVA si presenta, invece, quando la risposta dell’organismo è efficace. Il test di Mantoux
è positivo, la carica bacillare è modesta e l’incontro tra bacillo scarso e la risposta dell’organismo efficace
favorisce la formazione del TUBERCOLO, che è formato da cellule giganti, linfociti e cellule epitelioidi. Si
assiste, dunque, ad una reazione istiogena specifica verso il bacillo tubercolare. Solo della forma produttiva
è, quindi, possibile fare diagnosi certa. Si formano piccoli granulomi detti miliarici, perché sono grandi
quanto un grano di miglio.
I tubercoli vengono definiti CRUDI nella prima fase, quando ancora non è presente la necrosi caseosa e
COTTI nella seconda fase quando compare al centro la necrosi caseosa e, quindi, l’aspetto è giallastro,
granuloso, secco.

Il TUBERCOLO ha dimensioni di circa 1-2 mm ed è formato da:


• CELLULE EPITELIOIDI in prevalenza
• CELLULE GIGANTI MULTINUCLEATE con la tendenza dei nuclei a disporsi in periferia (cellule ad
anello o a ferro di cavallo). Vengono anche dette cellule di Langhans
• LINFOCITI
• PLASMACELLULE
• ISTIOCITI
• FIBROBLASTI
Sostanzialmente sono presenti cellule epitelioidi e cellule giganti.
È poi possibile individuare la NECROSI CASEOSA in piccole proporzioni all’interno del granuloma che, invece,
nella forma essudativa è presente in maniera estesa. Essa è una necrosi provocata dagli acidi micolici che,
quindi, si trova sia nella forma produttiva che nella forma essudativa. In questo caso si osserva del
materiale amorfo e acidofilo costituito da minute granulazioni proteiche acidofile e da una scarsa
componente di lipidi di origine batterica o tissutale. L’aspetto importante è che nella zona di necrosi
caseosa si ha la cancellazione di tutte le strutture preesistenti: non si osservano né residui nucleari né
residui di fibre reticolari o elastiche. Le fibre elastiche sono le ultime a scomparire perché più resistenti. Di
solito i bacilli tubercolari nella zona di necrosi caseosa non sono presenti a causa della relativa anossia e
acidità della zona.

Il tubercolo può, però, evolvere. La necrosi caseosa rimane lì secca, non si può rimuovere, ma può
FLUIDIFICARE, cioè all’interno della necrosi caseosa i granulociti neutrofili lisano le proteine e il materiale
lipidico presente nella necrosi caseosa che diventa fluido e come tale viene eliminato.
Per poter essere eliminata la necrosi caseosa deve diventare fluida e può farlo solo in presenza di PMN.
È opportuno precisare che nel periodo primario la necrosi caseosa non fluidifica. Come testimoniato dal
secondo esperimento di Koch, se si prende una cavia e si iniettano gli acidi micolici si produce necrosi
caseosa ma questa necrosi rimane lì mentre se si prende una cavia già sensibilizzata per il bacillo di Koch e
si iniettano gli acidi micolici si forma la necrosi caseosa che, poi, fluidifica.
Quindi affinché avvenga la fluidificazione della necrosi caseosa è necessario che l’organismo sia
sensibilizzato ad una serie di proteine del bacillo per cui la fluidificazione avviene solo nella fase post-
primaria.
Questo aspetto è fondamentale perché nell’osservazione della malattia tubercolare esistono dei casi in cui
la necrosi caseosa non fluidifica: nel TUBERCOLOMA si ha la necrosi caseosa, la reazione granulomatosa
intorno e nessun segno di fluidificazione.
Nel momento in cui si ha l’allontanamento del materiale si può avere tisi, cioè emissione di sangue con la
tosse, e cavernizzazione. Se la malattia non è polmonare ma, per esempio, è renale, si ha necrosi della
papilla, ematuria e ulcera neoplastica. Nell’utero, nei testicoli, nelle ossa si può avere la forma
ulcerocaseosa che provoca nel caso dei corpi vertebrali il loro crollo (P.S. Il corpo vertebrale è la sede
elettiva della tubercolosi ossea).
Quindi la perdita di sostanza nel polmone è detta caverna, mentre negli altri organi forma ulcerocaseosa.

Il COMPLESSO PRIMARIO costituito dal focolaio parenchimale di Ghon si trova solitamente nei campi medi
del polmone, perché l’aria arriva ai polmoni attraverso la trachea defluendo meglio in queste aree.
Solitamente è colpito il polmone di destra piuttosto che quello di sinistra perché il bronco di destra segue in
maniera più rettilinea la trachea. Quindi la localizzazione è il lobo medio a destra o la lingula a sinistra in
sede subpleurica. Di solito le dimensioni sono di massimo 1,5 cm.
La forma primaria sia che la si osservi nel focolaio primario sia che la si osservi sul linfonodo o sulle strisce
linfatiche è un’infezione di tipo essudativo, quindi caratterizzata da fibrina, macrofagi e granulociti
neutrofili. Il complesso primario aspetta che arrivi l’immunità che ricordiamo determinare una risposta
ritardata per evolvere. Il complesso primario, infatti, dura in genere 40 giorni, durante i quali:
- il paziente diventa MANTOUX POSITIVO, cioè sviluppa una sensibilità verso la tubercolina e quindi
verso tutto il complesso antigenico del tubercolo il che significa che avendo raggiunto l’immunità
questo complesso viene accerchiato dalla fibrosi e incarcerato. Si tratta cioè di una reazione
normoergica: un germe attacca, l’organismo risponde con l’immunità e l’immunità diventa efficace
tanto da isolare il processo
- si assiste alla comparsa della NECROSI CASEOSA, che non è il risultato dell’azione immunologica
visibile sia a livello del focolaio primario sia a livello dei linfonodi. Quando arriva l’incarceramento
dopo 40 giorni i focolai (polmone e linfonodi) sono dotati di un guscio fibroso, il nucleo di necrosi
caseosa spesso presenta calcificazione. Quindi, per il resto della vita, il paziente presenta un
focolaio primario che non è 1.5 cm perché con la sclerosi si riduce, ma è di 0,5/1 cm. All’esame
radiologico si possono apprezzare linfonodi dell’ilo calcifici.

In meno del 5% dei casi, l’infezione colpisce pazienti che non sono capaci di allestire una reazione
normoergica. In questo caso si possono avere una serie enorme di condizioni:
• FOCOLAI MULTIPLI, cioè il paziente è realmente anergico e crea tanti focolai
• FOCOLAI GIGANTI cioè focolai di 3/4 cm
• LINFOADENOPATIA TRACHEOBRONCHIALE, cioè i linfonodi attorno al bronco possono avere una
periadenite molto importante e possono provocare l’occlusione del bronco per compressione e,
quindi, un’atelettasia (mancanza dell’aria) del lobo medio oppure retrazione dell’esofago per
formazione di un diverticolo dell’esofago medio.
• TUBERCOLOSI PRIMARIA PROGRESSIVA: l’individuo non sviluppa alcuna reazione e quindi la flogosi
di tipo essudativo persiste. La necrosi caseosa compare ma il paziente non è mai positivo alla
Mantoux e sviluppa una caverna primaria: necrosi caseosa, fluidificazione del focolaio primario e
formazione di una caverna già nel periodo primario. La caverna primaria si differenzia dalla caverna
che si forma nel periodo postprimario, perché nella caverna primaria la sede è quella del focolaio
primario mentre nelle forme postprimarie le sedi delle caverne sono più alte, subtracheale o
apicale.
I COMPLESSI POSTPRIMARI possono essere, secondo lo schema di Virchow, ESSUDATIVI o PRODUTTIVI. I
focolai essudativi sono come quelli del complesso primario ma, mentre il complesso primario è destinato
dopo 40 giorni a chiudersi per l’intervento dell’immunità, in una fase postprimaria questo non avviene. La
flogosi essudativa è estremamente negativa perché l’immunità non interverrà mai. Si assiste a necrosi
caseosa, fluidificazione e formazione della caverna. Da un punto di vista evolutivo-morfologico non
possiamo avanzare una diagnosi di tubercolosi perché si ha un essudato fibrinoso di tipo macrofagico senza
formazione di tubercoli. Invece se la forma è produttiva, la Mantoux è positiva, si formano i granulomi e,
quindi, è presente una flogosi morfologicamente evidente.
Tuttavia le lesioni sono generalmente combinate: più tipicamente essudative o più tipicamente produttive.
Dall’incontro del bacillo tubercolare e della capacità di risposta dell’organismo dipendono diverse
possibilità di evoluzione perché il tutto dipende da quanto bacillo è presente, dalla risposta dell’organismo,
da come si configura, etc…
Riassumendo se nel periodo postprimario c’è un’evoluzione anergica si ha un complesso essudativo, se si
ha un’evoluzione iperergica uno produttivo. Tra anergia e iperergia, poi, c’è una gamma di possibilità
differenti.
Possiamo distinguere i focolai in:
• FOCOLAI NODULARI sono quelli che Virchow chiamava essudativi o anergici. La Mantoux o è
negativa o è scarsamente positiva. Può esserci:
o infiltrato precoce ed in questo caso si parla di una ripresa della malattia polmonare. Sono
focolai che si formano in alto rispetto al complesso primario sotto la clavicola e che
evolvono verso la formazione di caverne. Il prodotto colliquato della cavernula viene
rimosso per emottisi in modo che questa rimanga detersa e ciò favorisce la guarigione.
Tutto questo ha un’evoluzione molto lenta.
o lobite o broncopolmonite, cioè forme più estese.
Nella lobite si ha il coinvolgimento di un intero segmento polmonare o un intero loco
polmonare. Il paziente presenterà febbre non molto elevata per più di una settimana e
quadri radiologici simili a quelli di una polmonite locale. Mancherà, però, l’herpes e
l’andamento della febbre è tipico della lobite. Queste forme sono molto tossiche e mettono
a dura prova il paziente.
La broncopolmonite si presenta in una condizione di anergia assoluta, cioè il paziente
presenta focolai multipli di tubercolosi bilaterale con uno stato settico molto elevato, che si
conclude nel giro di poche settimane con la morte del paziente. Questi sono focolai
prevalentemente anergici in cui si manifesta l’aggressività del germe.
• FOCOLAI MILIARICI sono il risultato di una disseminazione del bacillo in soggetti iperergici. Il
paziente sta bene, ha una buona risposta, però, il focolaio tubercolare si svuota o direttamente nel
sangue o in un canale linfatico e, poi, nel sangue. Questo provoca la disseminazione bacillare per
cui possiamo avere focolai miliarici localizzati nelle meningi, nella pianta del piede, etc… Questo
comporta uno stato tossico importante: se è presente una disseminazione miliarica generalizzata
bisogna subito intervenire altrimenti il paziente morirà. Per individuare una disseminazione miliare
basta osservare il fundus dell’occhio: se il fundus dell’occhio è coinvolto vuol dire che anche le
meningi sono state coinvolte. Inoltre è probabile che siano interessati anche altri organi (polmoni,
fegato, i reni, etc…). La forma miliarica generalizzata è molto preoccupante perché, operando un
paziente con un focolaio tubercolare, bisogna somministrare una copertura antibiotica perché la
manipolazione dell’intervento chirurgico manda in circolo molti germi. Se il paziente non muore
questa forma guarisce con una fibrosi senza necrosi caseosa.
• FOCOLAI ISOLATI (o CRONICI) i quali si presentano nella TUBERCOLOSI ATIPICA. Normalmente la
guarigione di una tubercolosi prevede: infiltrato caseoso, fluidificazione e caverna, che è una forma
di guarigione perché si perde sì un pezzo di polmone ma si svuota la carica batterica. Se questo non
succede perché la fluidificazione non è stata completata a causa, ad esempi, di un bronco bloccato,
la guarigione non avviene e avremo focolai cronici. In particolare si distinguono:
o TUBERCOLOSI DELL’APICE: particolarmente pericolosa perché provoca una estensione alle
strutture vicine (come pleura) che consentono una stabilizzazione della malattia. Infatti,
normalmente se è presente una patologia dell’apice polmonare (normalmente risparmiato
essendo molto areato) si dice che si tratta di una TBC o di un tumore di Pancoast
o TUBERCOLOMA: un focolaio di tubercolosi con molta necrosi caseosa e poco tessuto
infiammatorio che rimane stabile nel tempo, cioè non si ingrandisce (vedi vecchio focolaio
bloccato, follicolo colliquato in cui il sistema di drenaggio è bloccato, svuotamento parziale
con riempimento o angolatura del bronco di drenaggio).
o TUBERCOLOSI ULCERO-CASEOSA: tanti focolai perpetui nel tempo che sono il risultato di un
incompleto svuotamento delle caverne con evidenza di lesioni cicatriziali, caverne di nuova
o vecchia formazione e infiltrati precoci. Questa forma, oggi, è molto rara.

P.S. Nel caso dell’apparato genitale femminile la tuba è la sede di infezione preferita rispetto all’endometrio
dato che l’endometrio si sfalda ogni mese e il tubercolo impiega 40 giorni per formarsi. Giustamente,
questo non vale per le donne in menopausa in cui è frequente una endometrite ulcero-caseosa.
P.S. È importante ricordare che vicino al granuloma tubercolare si osserva sempre una iperplasia
dell’epitelio vicino a causa delle citochine che sostengono l’infezione e che sono anche in grado di stimolare
l’iperplasia delle cellule epiteliali.

SIFILIDE
La SIFILIDE è una malattia causata dal TREPONEMA PALLIDUM.
Le vie di penetrazione sono soprattutto la cute, le mucose e la placenta. La trasmissione più frequente è
quella sessuale. Si distingue una forma:
• ACQUISITA
• CONGENITA per contagio tramite la placenta
In base allo stadio della malattia si distingue una:
- SIFILIDE PRIMARIA
- SIFILIDE SECONDARIA
- SIFILIDE TERZIARIA
Una volta subito il contagio, dopo 2-6 settimane, si manifesta il SIFILOMA PRIMARIO. Affinché si osservi la
comparsa del sifiloma primario, è fondamentale che vi sia una risposta immunitaria. Quindi si ha prima una
fase di batteremia e, poi, la risposta immunologica si allestisce nel punto dove è presente la maggior parte
dei batteri, ovvero il punto di inoculo.
Il sifiloma primario non è altro che la conseguenza della risposta immunitaria nel punto di inoculo.
Dopo il sifiloma primario si ha la guarigione spontanea ma dopo qualche mese, da 1 a 6 mesi, si ha la
comparsa del SIFILOMA SECONDARIO. La fase di sifilide secondaria è anche nota come FASE DELLA
GENERALIZZAZIONE perché l batterio risulta essere presente in moltissimi visceri, ma soprattutto sulla cute
e sulle mucose. A questo punto:
− 1/3 dei pazienti guarisce
− 1/3 guarisce ma la reazione immunologica permane per cui la sierologia è positiva. Anche se i
loro test risultano positivi, i pazienti sono clinicamente guariti
− 1/3 evolve verso la sifilide terziaria
La SIFILIDE TERZIARIA è una sifilide d’organo cioè riguarda uno specifico distretto del nostro organismo:
sifilide cardiovascolare, nervosa, epatica, etc…
Si tratta di una risposta specializzata, differente dalla sifilide secondaria in cui si ha una risposta
generalizzata.
Mentre la sifilide primaria e secondaria sono obbligatore, la sifilide terziaria non lo è affatto, cioè si può
guarire e non presentarla.

P.S. Gli unici esempi di contagio


extrasessuale di sifilide riguardano
il personale sanitario: ostetriche e
medici. Infatti, l’organo che è più
ricco di spirochete è la placenta.
Non a caso, in passato, veniva
utilizzata la placenta per realizzare
un test di immobilizzazione delle
spirochete.

Nella sifilide primaria si osserva


macroscopicamente il SIFILOMA
sui genitali maschili e femminili
cioè una papula dura che aumenta
progressivamente di volume tanto
da potersi erodere
superficialmente accompagnata da una linfoadenomegalia dei linfonodi loco-regionali, cioè un linfonodo
più grande associato ad una micropoliadenopatia di fondo. Questo aspetto è caratteristico perché un
linfonodo che risulta essere più grande degli altri permette di fare la diagnosi di sifilide soprattutto se duro,
cartilagineo e parzialmente eroso.
Il fatto che il sifiloma sia eroso lo rende una possibile fonte di contagio essendo l’essudato ricco in
spirochete.
Microscopicamente l’essudato è, infatti, ricco di spirochete evidenziabili con la colorazione di Fontana
(impregnazione argentica). L’infiltrato infiammatorio non è costituito da granulociti (i granulociti si
evidenziano solamente quando il sifiloma è eroso) ma è costituito da linfociti e plasmacellule (infiltrato
linfoplasmacellulare massivo) associate ad una ricca componente vascolare. Per quest’ultima caratteristica i
sifilomi appaiono di coloro rosso-rameico, caratteristica utilizzabile in ambito diagnostico.
Nella donna può accadere che il sifiloma si formi nei genitali interni (vagina e collo dell’utero) per cui la
donna presenterà direttamente la sifilide secondaria senza aver avuto i segni di quella primaria. Si parla,
infatti, di SIFILIDE DECAPITATA.

Nella sifilide secondaria, dopo qualche settimana dalla scomparsa del sifiloma, si ha una diffusa
proliferazione delle spirochete.
Le lesioni cutanee sono particolarmente frequenti soprattutto sul palmo delle mani, sulla pianta del piede e
nella regione ano-genitale dove si osservano delle lesioni macro-papulari pustolose.
Le lesioni mucose riguardano la cavità buccale, l’orofaringe e i genitali esterni. Nella regione ano-genitale si
evidenziano condilomi piani (diversi da quelli da papilloma).
Esistono delle localizzazioni particolari come il collo in cui si forma il tipico collare di Venere oppure il cranio
con conseguente perdita dei capelli o del terzo esterno delle sopracciglia.
Tutte le lesioni sono facilmente diagnosticabili per la presenza di spirochete e tutte sono pericolose per la
trasmissione.
È sempre presente la linfoadenopatia generalizzata, la febbre, il malessere, la sierologia positiva ma
soprattutto, quello che colpisce della sifilide è il coinvolgimento vascolare.
Dal punto di vista istologico si osserva sempre un ricco infiltrato infiammatorio linfoplasmacellulare che può
essere associato a endoarterite proliferativa, cioè germi che hanno la tendenza di aggredire le arterie e
provocare la loro ostruzione.
Anche queste lesioni guariscono e, poi, vanno incontro a una fase di latenza.
P.S. Quando tutta la parete di un vaso è interessata dall’arterite si parla di PANARTERITE, altrimenti si
distinguono ENDOARTERITE, MESOARTERITE e PERIARTERITE.
La SIFILIDE TERZIARIA, come detto, non è necessario che ci sia. Colpisce l’1/3 dei pazienti e ci sono diverse
forme. Quelle più gravi sono quella cardiovascolare e quella nervosa. Il tutto non dipende dal ceppo.
La sifilide terziaria benigna è caratterizzata dalle GOMME, ovvero aree di necrosi gommosa. La lesione
gommosa può risolversi in una cicatrice stellate fortemente retraente. Oltre all'infiltrato infiammatorio si
osservano anche grande quantità di detriti nucleari e di fibre elastiche.
Si osserva sempre un infiltrato arterioso che oblitera le arterie di piccolo e medio calibro. La forma
cardiovascolare colpisce l’aorta perchè vengono interessati i suoi vasa vasorum. Non a caso il tratto di aorta
più colpito è quello prossimale, ossia quello in cui si ritrovano molti vasa vasorum. L’interessamento
dell’aorta prossimale, caratterizzato dal rangrinzimento dell’intima (aspetto a carta di sigaretta) può
determinare insufficienza della valvola aortica, dilatazione aneurismatica.
La NEUROSIFILIDE è più complessa e può presentarsi come:
− MENINGOVASCOLARE se colpisce i vasi delle meningi
− PARALISI PROGRESSIVA che, in realtà, non è tanto associata a paralisi ma più a demenza
(soprattutto sindromi paranoiche) perché sono colpiti i vasi del circolo di Willis e i vasi più piccoli
con conseguente progressiva perdita di parenchima nervoso
− TABE DORSALE legata alla demielinizzazione per degenerazione walleriana dei cordoni posteriori
del midollo spinale. Non si conosce bene il motivo ma si presenta una radicolite delle radici
posteriori dei nervi spinali con successiva demielinizzazione e perdita della sensibilità sia
esterocettiva che propriocettiva di tutti i cordoni posteriori.

SIFILIDE CONGENITA
Le spirochete sono capaci di attraversare la placenta ma non nei primi mesi per cui si può parlare anche di
sifilide connatale.
Infatti, il rivestimento dei villi coriali è fatto da un doppio strato di cellule: il trofoblasto (quello che i libri
chiamano sinciziotrofoblasto) e il citotrofoblasto. Questo doppio strato impedisce alle spirochete di
passare.
A partire, però, dal 5 mese, lo strato dello citotrofoblasto diventa irregolare fino a scomparire e, quindi, si
può avere il passaggio delle spirochete dal sangue materno direttamente al sangue fetale.
Le conseguenze nel feto dipendono dalla carica batterica.
Se una donna è nel periodo terziario, a prescindere che sia clinicamente sana o affetta, la possibilità di
passaggio del treponema è estremamente bassa, quasi inesistente.
Se, invece, siamo nel periodo primario, con una carica batterica notevole, la probabilità esiste ed è anche
molto consistente.
Se si conosce che la madre è affetta da sifilide basta somministrare una terapia anti-sifilitica specifica con
penicillina cioè un antibiotico che non danneggia il prodotto del concepimento.
A questo punto, è possibile fare un ulteriore distinzione di sifilide congenita:
− PRECOCE
− TARDIVA
Questa distinzione si basa sulla carica batterica.
La SIFILIDE PRECOCE è quella già presenta alla nascita. Può provocare un aborto dal 5 mese in poi o la
morte in utero (quando la concentrazione di spirochete nella placenta è molto elevate). Il bambino
presenta:
- secrezione nasale ricche di germi che, dopo trattamento medico, portano alla formazione di cicatrici
intorno all'orifizio delle narici
- eritema bolloso della pianta dei piedi, delle mani del neonato, intorno alla bocca e intorno all’ano.
Naturalmente, queste bolle non contengono liquido limpido perché sono piene di germi
- epatomegalia (fegato a pietra focaia)
- aumento di volume dei polmoni, quindi, difficoltà respiratoria e morte
In realtà, mentre nella sifilide acquisita la lesione più caratteristica è la gomma, nella sifilide congenita
prevale l'infiltrato interstiziale: nel feto si osserva un infiltrato plasmacellulare diffuso. Questo infiltrato si
trasforma in collagene tanto che il fegato aumenta di volume e diventa fibroso e duro (fegato a pietra
focaia).
Per cui se il fegato presenta una cicatrice retraente e stellata si tratta di sifilide acquisita, mentre se il fegato
è duro, fibroso, biancastro ed aumentato di volume di sifilide congenita.

La stessa cosa accade nel polmone: l’infiltrato plasmacellulare interstiziale causa una polmonite fibrosa
inestensibile di colorito biancastro (polmonite alba).
Poi, nella forma congenita, sono presenti le lesioni scheletriche, particolarmente spiccate a livello della
cartilagine, cioè osteocondriti, o del periostio, cioè periostiti che determinano la formazione di tibia a
sciabola e naso a sella per crescita non armonica di queste strutture.
Le osteocondriti sono infiammazioni delle cartilagini (soprattutto giunzione cartilagine-osso) e, in particolar
modo, delle cartilagini costali, che diventano dure e a grani di rosario (toccando il costato del feto si
sentono una serie di pallini). Poi si osserva pseudoparalisi di Parrot dovuto al fatto che le cartilagini di
coniugazione vanno in necrosi e, quindi, si staccano. Siccome sulle epifisi si legano i tendini dei muscoli, il
bambino non muove il braccio ma non perché è presente una vera e propria paralisi.
Nella SIFILIDE TARDIVA, presente in caso di carica batterica bassa, si osserva la TRIADE DI HUTCHINSON
cioè:
− MALFORMAZIONI DEI DENTI (deformità del margine di occlusione degli incisivi dentali)
− CHERATITE INTERSTIZIALE con conseguente cecità
− SORDITÀ per l’infezione dell’VIII paio dei nervi cranici.
Si possono avere anche anomalie scheletriche o neurologiche. Compare dopo i 2 anni al massimo entro i
10-11 anni. Eventuali lesioni che compaiono successivamente sono da ritenersi acquisite e non congenite.

SARCOIDOSI

La SARCOIDOSI è una stranissima malattia caratterizzata dalla presenza del GRANULOMA SARCOIDEO,
simile a quello tubercolare ma con assenza di necrosi caseosa. Questo granuloma è ricco di cellule
epitelioidi, scarsi linfociti distribuiti perifericamente e cellule giganti tipo Langhans.
Non è una malattia infiammatoria bensì una malattia cronica granulomatosa sistemica di origine
disreattiva.
Colpisce più frequentemente le donne rispetto agli uomini in tutte le età ma più frequentemente nelle età
giovanili.

Questo granuloma colpisce TUTTE le sedi: polmone, linfonodi, cute, ghiandole salivari, lacrimali, ossa, etc...
infatti è da considerare come una disreattività immunitaria sistemica.

Non si sa cosa produca questi granulomi dal momento che non è possibile isolare alcun germe.
Quello che si sa è che la sarcoidosi dipende da uno squilibrio fra linfociti T CD4 (Helper) e linfociti T CD8
(Suppressor).

Se si ha un normale rapporto tra T CD4 e T CD8, il sistema immunitario funziona normalmente.


Quando si va ad osservare la concentrazione di questi linfociti nei soggetti affetti da sarcoidosi si nota che
nel sangue periferico il rapporto è normale, mentre nei tessuti questo rapporto è squilibrato a favore dei T
CD4. L’immunità risulta completamente alterata perché l’immunità di tipo T sparisce (se un paziente prima
era positivo alla tubercolina ora diventa negative). La risposta di tipo B risulta aumentata, essendo regolata
dai CD4, per cui si riscontra una ipergammaglobulinemia policloalei. Non potendo rispondere con
l’immunità di tipo T, il sistema recluta i macrofagi con conseguente formazione dei granulomi.
P.S. La risposta dei T si saggia con il dermatofagoide, cioè un batterio ubiquitario. I soggetti con sarcoidosi
perdono la responsività al dermatofagoide.

Se si prende un granuloma sarcoideo, lo si omogenizza e lo si inocula nella cute di un soggetto affetto da


sarcoidosi (TEST DI KVEIM), si ha una positività, cioè una intradermoreazione come se ci fosse una
possibilità di trasmissione ma, in realtà, questa è dovuta al fatto che, facendo l'omogenato, si iniettano nel
derma sostanze ad attività citochinasica, cioè fattori che attirano i macrofagi determinando la formazione
di un granuloma nella sede di inoculo. Nonostante ciò NON si tratta di UNA MALATTIA INFIAMMATORIA.

I granulomi si possono formare in tutte le sedi ma soprattutto a livello dei: LINFONODI (non di un singolo
distretto. Si ha un interessamento generalizzato.), POLMONE e CUTE.

P.S. In caso di sospetto di sarcoidosi bisogna fare la biopsia del linfonodo pre-scalenico che solitamente è
quello più colpito da sarcoidosi.

Esistono dei fattori genetici che possono predisporre alla sarcoidosis: ad esempio, questa patologia risulta
esser molto frequente nelle popolazioni scandinave.

Quindi, le lesioni nodulari sono uguali a quelle della tubercolosi, piccole e appena visibili ad occhio nudo,
ma non si osserva necrosi caseose.

I granulomi, rispetto a quelli tubercolari, hanno più cellule epitelioidi e i linfociti, mentre nei granulomi
tubercolari sono posti tra le cellule epiteliodi, in quelli sarcoidei sono periferici, non entrano nel granuloma,
che risulta essere fatto solo da cellule epitelioidi e da cellule giganti. Questo fa sì che il granuloma sarcoideo
sia ben demarcato contrariamente a quello tubercolare che tende a crescere e diffondere.
La porzione centrale non è di caseosi ma ricca di fibre collagene per cui molto eosinofila.
Infatti l'evoluzione del granuloma molto spesso è verso una fibroialinosi dato che i macrofagi inducono i
fibroblasti a produrre collagene.
Nelle cellule giganti si osservano delle inclusioni dette CORPI DI SCHAUMANN, dovuti alla calcificazione per
precipitazione di sali di calcio, e i CORPI ASTEROIDI, che sono dovuti a vacuolizzazioni all'interno delle
cellule giganti.
I granulomi sarcoidei non tendono a confluire come quelli della TBC ma restano separati l'uno dall'altro e
ciò è dovuto essenzialmente ai linfociti periferici.

A piccolo ingrandimento:
- i granulomi sembrano che siano incastrati, come se fossero stati messi lì all'interno di un linfonodo
- i corpi di Schaumann appaiono come concrezioni di sali di calcio lamellati dal momento che tendono a
stratificarsi in fasi successive

P.S. I sali di calcio si formano perchè la sarcoidosi è caratterizzata da ipercalcemia dal momento che una
delle sedi più convolte è l’osso.

- i corpi asteroidi appaiono con un citoplasma dotato di una parte centrale più eosinofila. Verso la periferia
si osservano tanti vacuoli per cui il citoplasma diventa filamentoso tra il nucleo e la periferia.

I corpi asteroidi e i corpi di Shaumann non sono caratteristici della sarcoidosi, ma sono molto frequenti.
Quindi non permettono di fare diagnosi differenziale ma possono aiutare.

In corso di sarcoidosi si può avere la SINDROME DI HEERFORDT, cioè:


− UVEITE GRANULOMATOSA
− PARODONTITE GRANULOMATOSA
− PARALISI DEL NERVO FACCIALE il quale attraversando la parotide può andare incontro a fibrosi
Quando la sarcoidosi colpisce le ghiandole salivari e lacrimali si parla di SINDROME DI MIKULICZ.

P.S. Nei granulomi sarcoidei la ialinosi che parte del centro e si porta verso la periferia non deve essere
confusa con la necrosi caseosa.

La DIAGNOSTICA prevede la valutazione del polmone perché la sarcoidosi colpisce diversi organi e
contemporaneamente, ma nonostante la sintomatologia generalizzata, il paziente sta bene. I problemi
arrivano quando viene colpito il polmone.

Ci sono tre stadi di gravità della malattia polmonare.


Se l'evoluzione del granuloma sarcoideo è verso la sclerosi si ha una sclerosi polmonare, quindi, una fibrosi
con conseguente insufficienza cardio-respiratoria. I segni sono: dispnea, tolore toracico, tosse, etc...
La progressione è abbastanza imprevedibile. La malattia può recedere con il cortisone.
Nel 70% dei casi si guarisce ma nel 20% la situazione cronicizza.
L’elemento che rende letale la malattia è il coinvolgimento del polmone.

La diagnosi si basa, quindi, su:

− RX TORACE per stadiare l’interessamento polmonare


− LESIONI CUTANEE
− SPLENOMEGALIA
il tutto associato ad una sintomatologia generale: alterazioni respiratorio, febbre, affaticamento, calo
ponderale e sudorazione notturna.

Bisogna sempre diffidare di LESIONI SIMIL-SARCOIDEE.


Il granuloma sarcoideo è un ripiego, se vogliamo, cioè si forma nel momento in cui l'immunità ritardata non
funziona coma dovrebbe.

Questa cosa succede anche localmente in altre circostanze:

o tumore della mammella con metastasi nei linfonodi in cui, dopo la rimozione delle metastasi, nei
linfonodi si osserva la sarcoidosi
o ulcera peptica in cui si osservano linfonodi aumenti di volume intorno allo stomaco con granuloma
sarcoideo.

Questo fenomeno è dovuto al fatto che queste lesioni impegnano il sistema immunitario. La risposta in
questo caso locale è morfologicamente indistinguibile dalla sarcoidosi (REAZIONE SIMIL SARCOIDEA).
Esiste, però, una differenza nelle razioni simil sarcoidee, non si ha una risposta generalizzata, la calcemia è
normale, le gammaglobuline sono normali, non si ha febbre e soprattutto il granuloma riguarda solo quei
linfonodi e non tutti gli organi. Quindi è una reazione localizzata, a differenza della sarcoidosi che è
generalizzata. È inutile in questo caso trattare il paziente con cortisone.

ACTINOMICOSI
L’ACTINOMICOSI è la malattia causata da batteri anaerobi facoltativi, cioè ACTINOMYCES BOVIS e
ACTINOMYCES ISRAELII, presenti come saprofiti nell'intestino delle pecore, le quali provvedono a
disseminarli dappertutto. Questi possono pervenire nel cavo orale dell'uomo, soprattutto nelle zone più
anaerobiotiche (P.S. Eessendo anaerobio facoltativo l’Actinomyces vive meglio in presenza di un po’ di
anidride carbonica), come le cripte tonsillari, le tasche gengivali o le carie dentali.
Nel momento in cui il paziente presenta una depressione del sistema immunitario, questi si attivano
determinando una malattia che si chiama ACTINOMICOSI CERVICO-FACCIALE.
Questi germi possono anche essere ingeriti e diventare addominali. Addirittura si possono avere dei casi di
appendicite actinomicotica che, se non diagnosticata in tempo, può diffondere in addome (ACTINOMICOSI
ADDOMIMALE).
Se i germi vengono aspirati si ha, invece, ACTINOMICOSI TORACICHE. Soprattutto nella parte basale del
polmone che è più atelettasica, questi possono fistolizzare. Qualche volta possono essere scambiati per
tumori vista la loro crescita lenta.
Esiste anche una ACTINOMICOSI PELVICA che può arrivare anche alla vagina (immaginate voi come) e
giungere fino all'utero o alle salpingi, ad esempio, quando il ginecologo inserisce la spirale.

In tutti i casi, si osservano batteri proliferanti con formazione di una lesione non demarcata simil ascessuale
intorno al batterio ricco in granulociti neutrofilo. Non si tratta, infatti, di una malattia granulomatosa ma
purulenta. Il tessuto di granulazione circostante non è mai completo per cui la lesione può estendersi
guadagnando le zone vicine.
Esistono, però, delle differenze fra un nodulo actinomicotico e un ascesso: la crescita lenta del primo
rispetto al secondo e la mancata percezione del dolore.
Esso si manifesta sulla guancia, si estende a tutto il collo molto lentamente, poi fistolizza all'esterno con
emissione di pus in cui si osservano granuli densi di colore giallo zolfo (GRANULI DI LANGENBECK) che
corrispondono alle colonie batteriche (→ segno specifico).
La fistula è solitamente molto estesa e serpiginosa, cioè può estendersi dalla guancia fino base del collo.
Istologicamente, nella sede del pus, si osserva la raccolta di intrecci di filamenti batterici fortemente PAS
positivi, basofili, con espansioni a clava eosinofile periferiche. Intorno a questi elementi si osservamo cellule
epitelioidi, linfociti, plasmacellule, etc…

IPERTROFIA, IPERPLASIA, METAPLASIA, DISPLASIA, NEOPLASIA

Tra i processi proliferativi cellulari si distinguono quelli fisiologici, quelli al limite tra fisiologia e patologia e
quelli sicuramente patologici.
Tra quelli FISIOLOGICI ricordiamo quelli riparativi e cicatriziali. Al termine di un’infiammazione che ha
determinata sofferenza cellulare, necrosi o inabilità delle cellule, gli stessi fattori che provocano
l’infiammazione sono in grado di costringere le cellule epiteliali e i parenchimi a riparare. Idem se c’è stato
un coinvolgimento del connettivo.
Inoltre l’iperplasia è da intendersi fisiologica quando è correlata ad un aumentato fabbisogno dell’attività
delle cellule. Se si osserva un endometrio iperplasico in una donna di 30 anni si tratta di una situazione
fisiologica ma se si osserva lo stesso endometrio in una donna di 90 anni no, pur essendo lo stesso quadro
morfologico, perché in quest’ultimo caso non vi è una ragione fisiologica che giustifichi l’iperplasia. La
stessa cosa vale per la metaplasia che è la sostituzione di un tessuto con un altro della sua stessa specie.
Francamente PATOLOGICI sono, invece, i processi di displasia e neoplasia.

Le caratteristiche dell’evento proliferativo ci permettono di classificare un processo proliferativo come:

• NORMOTIPICO → la cellula prolifera e mantiene le caratteristiche morfologiche e funzionali delle


cellule che la hanno generata
• METATIPICO → la cellula subisce una deviazione morfologica e funzionale cioè, ad esempio, un
epitelio respiratorio viene sostituito da un epitelio squamoso. Le cellule sono comunque
differenziate e normo strutturate
• ATIPICO → le cellule presentano deviazioni morfologiche e funzionali con perdita di alcune
caratteristiche tipiche di quella di origine e acquisizione di altre caratteristiche diverse

IPERTROFIA e IPERPLASIA
IPERTROFIA significa aumento di volume delle cellule mentre IPERPLASIA aumento di numero.
Il termine ipertrofia, utilizzato in senso macroscopico, può essere indice di un aumento di numero delle
cellule o ad un aumento del volume delle singole cellule.

L’ipertrofia è tipica soprattutto degli elementi che normalmente non si dividono (tessuti perenni), come le
fibre cardiache e muscolari: non si ha la generazione di nuove fibrocellule ma un aumento di volume delle
cellule preesistenti.
L’iperplasia è, invece, tipica dei tessuti labili e stabili (vedi fegato).
Si può fare una distinzione tra:

• IPERTROFIA PURA → quando l’aumento del volume dell’organo è dovuta all’aumento del volume
cellulare
• IPERTROFIA D’ORGANO → quando l’ipertrofia è dovuta all’iperplasia degli elementi cellulari
• IPERTROFIA D’ORGANO DA IPERTROFIA E IPERPLASIA DELLE CELLULE → quando è presente sia un
aumento di numero che di dimensioni dell’organo (vedi utero gravido)

Se si parla di ipertrofia prostatica è opportuno precisare di che tipo si tratti cioè se sia da iperplasia,
ipertrofia o da iperplasia/ipertrofia cellulare.

L’eziologia dell’ipertrofia è nota: di solito è provocata da una necessità o da uno stimolo. Ad esempio il
cuore diventa ipertrofico per una situazione di ipertensione, di stenosi aortica o mitralica o di insufficienza
mitralica, cioè tutte condizioni che comportano la necessità di un lavoro eccessivo maggiore.
Una ipertrofia può essere dovuta anche ad una stimolazione ormonale (vedi prostata, utero, ghiandole
sensibili agli ormoni ipofisari).

In entrambi i casi si ha una limitazione nel tempo e nello spazio perché quando cessa uno stimolo, cessa
anche l’attività esaltata dell’organo e, quindi, cessa la condizione di ipertrofia.

Nell’ipertrofia si ha un accrescimento normotipico cioè le cellule che eventualmente si moltiplicano sono


cellule uguali a quelle originarie.

Se l’ipertrofia è la risposta tipica dei tessuti perenni, l’iperplasia è, invece, più caratteristica dei tessuti labili
che possono proliferare.

Esistono iperplasie ed ipertrofie:

• FUNZIONALI:
o muscolo scheletrico (ipetrofia pura)
o cardiaco (ipertrofia pura)
o muscolo liscio negli organi cavi nel caso in cui sia presente un ostacolo. Ad esempio se è
presente una stenosi del sigma il muscolo di quest’ultimo presenterà un’iperplasia per
cercare di vincere l’ostacolo (ipertrofia e iperplasia)
o utero durante la gravidanza (ipertrofia e iperplasia)
• RIGENERATIVE: presenti in seguito ad una perdita di sostanza per traumi, flogosi o necrosi o in caso
di compensazione
• COMPENSATORIE: nel caso di asportazione dell’organo controlaterale (vedi pazienti
nefrectomizzati, cioè che hanno subito un’asportazione di un rene, in cui è presente l’ipertrofia del
rene controlaterale)
• DA STASI: nel caso di ristagno di sangue, si può avere un aumento di volume dell’organo, che torna
normale con la cessazione della stasi.
• CORRELATIVE (o ENDOCRINE): come la mamma lactans (mammella durante l’allattamento),
l’iperplasia endometriale o l’ipertrofia prostatica, cioè situazioni di ipertrofia e iperplasia correlate
ad una stimolazione ormonale.
P.S. La cisti è una sacca o cavità chiusa di natura patologica, rivestita da epitelio e ripiena di liquidi, gas o
materiale semisolido. Essa può essere di due tipi: CISTI DA ESPANSIONE o CISTI DA RITENZIONE.
La CISTI DA ESPANSIONE si presenta quando le cellule aumentano di numero: se, ad esempio, le cellule che
rivestono una ghiandola sono 400 anziché 40, il diametro della ghiandola aumenta ma queste cellule sono
uguali a quelle della componente non cistica.
La CISTI DA RITENZIONE, invece, si presenta quando si ha un blocco nella escrezione per cui la ghiandola
non ha più la possibilità di secernere e il secreto rimane all'interno. Poiché la ghiandola continua a produrre
secreto, fino a quando ce la fa, questo si accumula all'interno della ghiandola, la dilata e, ad un certo punto,
per compressione meccanica, produce atrofia delle cellule che rivestono la ghiandola.
Per cui se in una cisti si osserva epitelio piatto, non funzionale, si tratta di una cisti da ritenzione, mentre se
si osserva dell’epitelio normale si tratta di una cisti da espansione.

METAPLASIA

Il termine METAPLASIA deriva dal greco e significa “costruzione altra”: è un processo per cui un tessuto
viene sostituito da un altro tessuto della stessa derivazione embrionale, cioè un epitelio viene sostituito da
un altro epitelio oppure un connettivo sostituito da un altro connettivo. Questo dogma definito da
Virchow nell’800 non è, in realtà, corretto perché oggi sappiamo che esistono delle metaplasie in cui si ha
una sostituzione epiteliale, per esempio, con una struttura mesenchimale (vedi EMT oppure cellula
muscolare dell’arteriola efferente del rene che si può trasformare in cellula secernente renina, attività
tipicamente epiteliale). Classicamente, comunque, si continua a sostenere che la metaplasia sia
caratterizzata dalla sostituzione di un tessuto con un altro della stessa origine embriogenetica. Questo
meccanismo è finalizzato, cioè non avviene di punto in bianco ma è una risposta a stimoli irritativi cronici,
come un’infiammazione cronica, ad una richiesta funzionale diversa o a modificazioni dell’ambiente in cui il
tessuto deve adattarsi. Per esempio una cicatrice di vecchia data è una cicatrice fibrosa ma se questa viene
continuamente stirata, distorta, sottoposta a stimoli, etc… diventa una cicatrice ossea (metaplasia ossea).

La metaplasia può essere:

• EPITELIALE
• CONNETTIVALE

Nell’ambito del connettivo: il connettivo fibroso può trasformarsi in connettivo cartilagineo o meglio ancora
in connettivo osseo, quindi lo stimolo irritativo o meccanico provoca la formazione di sostanza osteoide o
condroide e, quindi, la trasformazione. Un altro esempio ci è dato dalle cartilagini laringee che sono
normalmente ialine ma nei soggetti a partire da 40 anni in su di sesso maschile, queste cartilagini diventano
ossee con un guscio cartilagineo e un corpo osseo a causa della stimolazione ormonale.

Per quanto riguarda gli epiteli si può avere una metaplasia epidermoidale o pavimentosa squamosa a
partire da epitelio cilindrico (vedi bronchi di soggetti che fumano o sono esposti a sostanze irritanti;
endocervice in una situazione particolare di cui parleremo l’anno venturo; cistifellea per la presenza di
calcoli).
Anche gli epiteli transizionali possono essere interessati da metaplasia verso un epitelio squamoso. Per
esempio l’epitelio del bacinetto renale o della vescica in soggetti con calcoli renali o che hanno un parassita
della vescica (biliarziosi → molto frequente negli individui del mediterraneo settentrionale soprattutto
egiziani) presenta questa metaplasia.

Ancora, nel cavo orale e nell’esofago l’epitelio pavimentoso stratificato non corneificato diventa, a seguito
di uno stimolo irritativo cronico, corneificato (vedi leucoplachia del cavo orale, faringe, esofago e laringe).

L’epitelio pavimentoso diventa epitelio cilindrico nell’esofago di Barret. Questa è una condizione in cui si ha
reflusso continuo dell’acido cloridrico dello stomaco per condizioni congenite o acquisite. L’HCl stimola
l’epitelio pavimentoso che, però, non è attrezzato per questa situazione. L’epitelio cambia e si trasforma in
epitelio cilindrico come quello dello stomaco o intestinale che sono in grado di sopportare l’acidità.
Quindi quando è presente reflusso gastroesofageo possiamo avere: pazienti con epitelio pavimentoso,
pazienti con metaplasia cilindrica di tipo gastrico e pazienti con metaplasia cilindrica di tipo intestinale.

L’epitelio gastrico può diventare, invece, in alcune circostanze, cioè le gastriti croniche, un epitelio di tipo
intestinale.
Le glicoproteine che abbiamo nel corpo umano sono tutte con punto isoelettrico acido, le uniche
glicoproteine neutre sono quelle dello stomaco. Il motivo è che le mucine dello stomaco devono
fronteggiare una acidità (pH 1-2) che perforerebbe lo stomaco. Fisiologicamente, quindi, il muco dello
stomaco è un muco neutro. Se, però, nella mucosa gastrica si trovano ghiandole intestinali al posto di una
ghiandola che produce muco neutro si ha una ghiandola che produce muco acido e che non serve dunque
allo stesso scopo.

P.S. La metaplasia epidermoide è un meccanismo correlato a fenomeni riparativi o alla difesa contro stimoli
irritativi quali: flogosi, fumo, pollulazioni, calcolosi.

La metaplasia connettivale è irreversibile, cioè una volta che una cicatrice è diventata ossea non si può
tornare indietro ed eliminare la metaplasia; una volta che la cartilagine laringea da ialina è diventata
internamente ossea non si può tornare indietro.

Invece la metaplasia epiteliale viene considerata reversibile cioè se lo stimolo (flogosi, fumo, inquinamento,
calcolosi, fenomeni riparativi, etc...) viene meno, si ha una riduzione ed una scomparsa della metaplasia.
Questo è ciò che dicono i libri, però, io non ho mai visto una regressione di una metaplasia.

Tra le sedi più frequenti di metaplasia ricordiamo il collo dell’utero e la mucosa bronchiale.

Il collo dell’utero presenta un epitelio pavimentoso pluristratificato (cioè quello vaginale) fino all'orifizio
uterino esterno. Dall'orifizio uterino esterno in poi, invece, inizia un epitelio cilindrico. Può accadere che,
per vari motivi, l'epitelio cilindrico scivoli fuori al di fuori dell'orifizio uterino esterno. Questo processo si
chiama ECTROPION (o EVERSIONE o PIAGHETTA) e praticamente è presente in tutte le donne. Questo
epitelio cilindrico che sporge in vagina è poco resistente, perché è molto meno resistente contro i germi, i
traumi, etc…, quindi, normalmente, soprattutto per azione dell'acidità del secreto vaginale, l'epitelio
cilindrico a questo livello si trasforma in pavimentoso. Dal momento che il processo di metaplasia del collo
dell'utero avviene in quasi tutte le donne (99%) non lo si può considerare come processo pre-neoplastico.

P.S. Definiamo giunzione squamo-colonnare quella netta porzione in cui, a livello dell’orifizio uterino
esterno, la mucosa endocervicale si continua con l’epitelio cilindrico monofilare della cervice.

P.S. Descrivendo l’epitelio del collo dell’utero bisogna sempre dire: epitelio pavimentoso, epitelio
metaplastico ed epitelio cilindrico.

Riguardo alla mucosa bronchiale,


possiamo dire che è costituita
normalmente da ghiandole, da un epitelio
cilindrico plurifilare dove si osserva
un’alternanza tra cellule caliciformi
mucipare che producono muco e cellule
ciliate. Il rapporto cellule
mucipare/cellule ciliate è di solito di 3:1.
Questo rapporto è fondamentale perché,
nel momento in cui si instaura una
metaplasia squamosa, questa non ha
ciglia, perciò il muco che si produce non
può essere allontanato. Si osserva, quindi,
lo sviluppo di una bronchite cronica perché il muco che si forma ristagna e attira i germi.
Il soggetto fumatore o esposto fortemente all'inquinamento presenta, dunque:

− ZONE DI METAPLASIA SQUAMOSA


− ZONE DI IPERPLASIA DELLE CELLULE MUCIPARE pericolose perché si ha aumento di muco e
riduzione delle ciglia con conseguenti bronchiti croniche con catarro e tutto quello che consegue.

DISPLASIA
Il termine DISPLASIA è un termine greco che significa “cattiva costruzione” infatti si utilizza per indicare una
architettura tissutale alterata.
Il termine displasia è sempre stato associato recentemente alla neoplasia ma displasia vuol dire una
conformazione dell'architettura che non corrisponde a quella normale, non necessariamente associata a
trasformazione tumorale.
Ad esempio la displasia fibrocistica, oggi detta mastopatia, è una malattia caratterizzata da ghiandole che
proliferano, che diventano cistiche, papillari, poliepiteliose all' interno e da iperplasia lobulare e fibrosi.
Quindi non è una neoplasia. Stessa cosa vale per la displasia cistica renale che è, invece, una malattia
congenita causata da un’erronea costruzione dei tubuli i quali non maturano.

La displasia è accompagnata da un difetto di maturazione (→ riferimento a caratteristiche morfologiche) e


differenziazione (→ riferimento a caratteristiche funzionali) cellulare.
Le cellule displastiche sono morfologicamente diverse dalle cellule originarie ed è per questa ragione che
sono propense ad una trasformazione neoplastica. Non è detto, però, che la displasia debba
necessariamente tradursi in una neoplasia.
Una displasia può essere:
• LIEVE → le cellule immature sono solo quelle della porzione profonda del terzo interno
• MODERATA → i 2/3 profondi dell’epitelio sono occupati da cellule immature
• GRAVE → più dei 2/3 profondi dell’epitelio sono occupati da cellule immature anche se l’epitelio
dimostra di avere ancora capacità maturativa e differenziativa
• CARCINOMA IN SITU → tutto l’epitelio è trasformato ma non si sono sviluppate le capacità invasive

La displasia è una condizione reversibile se è possibile eliminare le cellule alterate oppure irreversibile. In
quest’ultimo caso si potrebbe avere una trasformazione maligna.

Tutti gli epiteli sono dotati di cellule staminali vicino alla membrana basale. Piano piano le cellule che
diventano più mature si portano verso l'alto ma se la cellula staminale è deviata si forma, vicino alla
membrana basale, un pool di cellule che non sono normali e non maturano creando così un disordine
architetturale.

I fattori che provocano la displasia sono vari:


- FLOGOSI (vedi HPV e collo dell'utero)
- DISTURBI DI CIRCOLO
- MAGGIORI RICHIESTE FUNZIONALI
- ALTERAZIONI ENDOCRINE
- STIMOLAZIONI DEGLI EPITELI

Non è vero che la displasia insorge prevalentemente negli epiteli metaplastici: insorge sia sugli epiteli
metaplastici che su quelli normali.

Quindi:
- non è vero che la displasia insorga necessariamente dalla metaplasia
- non è vero che la displasia termini necessariamente con un carcinoma
- non è vero che tutte le metaplasie sono patologiche
Possiamo avere displasia in tutti gli epiteli sia in quelli di rivestimento (vedi mucose) che in quelli
ghiandolari.

Nel corso di displasia, vicino alla membrana basale, si osserva:


- AUMENTO DEL NUMERO DI MITOSI: in un epitelio le cellule autorizzate a moltiplicarsi sono le cellule dello
strato basale, tutte le altre non devono moltiplicarsi. Se si trovano mitosi nello strato basale è tutto
normale ma se queste sono presenti anche tra le cellule parabasali o intermedie no perché questa
condizione è indice del fatto che le cellule sono così immature da essere in grado di moltiplicarsi.
- ALTERAZIONI DEL PROCESSO MATURATIVO: le cellule degli strati parabasale ed intermedio sono immature
- ALTERAZIONI NEL RAPPORTO NUCLEO/CITOPLASMA: il nucleo delle cellule è immaturo e più grande del
normale
- DISCARIOSI: si osservano nuclei dismorfici

A livello ghiandolare, se normalmente i nuclei delle cellule sono basali e metà della cellula è costituita da
muco o da secreto, localizzato in posizione apicale, in caso di displasia si osservano nuclei sovrapposti,
rapporto nucleo/citoplasma a favore del nucleo, secreto poco abbondante o assente e mitosi che si trovano
oltre il livello del colletto.

NEOPLASIE
Normalmente il processo di cancerogenesi prevede una serie di step che non devono necessariamente
essere tutti presenti:
- IMMORTALIZZAZIONE e PROLIFERAZIONE INCONTROLLATA: spesso il processo inizia da una infezione
virale (vedi collo dell’utero e HPV). Questo non significa che la cellula infettata sia necessariamente
neoplastica perché il 99,9% delle cellule infettate da HPV, ad esempio, poi non evolvono in carcinoma o
displasia
- FORMAZIONE DI DISPLASIA
- CARCINOMA INVASIVO

La neoplasia, infatti, è una proliferazione afinalistica cioè una proliferazione cellulare che non è finalizzata
ma immotivata.

Per studiarle possiamo classificarle dal punto di vista del:


- CRITERIO ISTOGENETICO
- COMPORTAMENTO BIOLOGICO (benigno o maligno)
- CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE (capacità di differenziarsi)
- ORIGINE DA STRUTTURE PROPRIE DELL’ORGANO

Per quanto riguarda l’istogenesi si possono distinguere neoplasie:


- EPITELIALI
- CONNETTIVALI
Per quanto riguarda il comportamento biologico si possono, invece, differenziare i tumori in:
- BENIGNI
- MALIGNI
Quando si distinguono i tumori in benigni e maligni in realtà bisogna tener conto che in biologia non esiste
una separazione netta perché esistono anche dei tumori ambigui che possono presentare caratteristiche sia
maligne che benigne. In questo caso di parla di tumori BORDER LINE. Ad esempio, un adenoma tiroideo è
benigno, però, esistono alcuni adenomi tiroidei che infiltrano la capsula e si comportano da tumori maligni.
Per quanto riguarda l’origine si differenziano in:
- PRIMITIVI (possono essere sia benigni che maligni)
- SECONDARI (sono solo maligni)
mentre secondo le caratteristiche morfologiche si distinguono tumori con grado di differenziazione
differente. Ogni tumore cerca di riprodurre le fattezze morfologiche dalle cellule da cui deriva, però, non
sempre ci riesce: se un tumore è molto simile alla cellula di origine si tratta di un tumore ben differenziato,
se invece non si discosta molto è un tumore scarsamente differenziato.
Le principali caratteristiche delle neoplasie benigne sono:
- AUTONOMIA NUTRITIVA garantita dalla neo-angiogenesi
- MORFOLOGIA +/- CONSERVATA
- FUNZIONALITÀ +/- CONSERVATA (vedi adenoma della tiroide in cui si può continuare a produrre
ormoni)
- FENOMENI COMPRESSIVI dato che, generalmente, non sono in grado di infiltrare i tessuti vicini ma
si accrescono al centro
- PROGRESSIVITÀ LIMITATA NEL TEMPO (vedi fibroadenoma della mammella il quale cresce
velocemente ma quando raggiunge i 2/2,5cm massimo 3cm non cresce più)
- RUOLO PATOGENETICO DI FATTORI ENDOCRINI, FLOGISTICI, VIRALI
- CAPSULA perlopiù presente
e delle maligne sono:
- AUTONOMIA NUTRITIVA garantita dalla neo-angiogenesi
- ATIPIE MORFOLOGICHE
- ATIPIE FUNZIONALI: ad esempio, maggiore o minore produzione ormonale
- FENOMENI INFILTRATIVI LOCALI: i tumori maligni non hanno una polarità maturativa ma si
accrescono in tutte le direzioni
- DISSEMINAZIONE A DISTANZA
- PROGRESSIVAMENTE ILLIMITATA
- AFINALISMO
- Ruolo di fattori endocrini, flogistici, virali più come cofattori
- Capsula assente anche se esistono tumori maligni capsulati come il carcinoma renale sia nei
bambini che nell’adulto
L’eziologia dei tumori risiede in alterazioni genetiche causate da:

• SOSTANZE CHIMICHE: si stima che l’industria chimica generi almeno 27 nuove sostanze chimiche al
giorno, di cui 9 sono cancerogene (vedi catrame della carta delle sigarette). Già nell’800 si capì che
l’elevata incidenza del CARCINOMA DELLA CUTE SCROTALE negli spazzacamini di Londra fosse
correlato a IDROCARBURI AROMATICI contenuti nella fuliggine come β-antracene e 3,4-
benzopirene.
Tra le sostanze chimiche ricordiamo:
o IDROCARBURI POLICICLICI presenti nel fumo di sigaretta e negli inquinanti ambientali
(carbone e derivati, vapore di scappamento degli autoveicoli, combustione del tabacco).
Causano CARCINOMA POLMONARE e DELLA VESCICA
o AMINE AROMATICHE vedi coloranti utilizzati dalle industrie come i coloranti azotati
responsabili di CARCINOMA VESCICA
o NITROSAMINE: si formano per contatto tra sostanze organiche e nitrati. In questo caso
sono gli insaccati particolarmente chiamati in causa i quali sono responsabili del
CARCINOMA ALLO STOMACO
o CLORURO DI VINILE il cui ione vinile è responsabile di EMANGIOSARCOMA DELLA CUTE e
DEL FEGATO. Lo ione vinile viene utilizzato per la fabbricazione di sostanze plastiche
(poliestere, le giacche che indossiamo, etc…)
o AFLATOSSINE, contenute nelle muffe dei cereali, responsabili di CARCINOMA
EPATOCELLULARE
o ASBESTO responsabili di MESOTELIOMA e CARCINOMA BRONCOGENO
• RADIAZIONI: hanno effetti sul genoma. Il grano che assimiliamo è frutto di una mutazione genetica
realizzata sperimentalmente dalle radiazioni sul genoma del grano. Nel corpo umano un esempio è
quello della tiroide che è molto sensibile dato che lo iodio diventa subito radioattivo: le radiazioni
del collo possono provocare, infatti, anche a distanza di anni un carcinoma della tiroide. Tra le
radiazioni più importanti ricordiamo:
o RAGGI ULTRAVIOLETTI responsabili di CARCINOMA BASO-CELLULARE, CARCINOMA
SQUAMOSO DELLA CUTE e probabilmente del MELANOMA
o RADIAZIONI IONIZZANTI responsabili di LEUCEMIE, CARCINOMA PAPILLARE DELLA TIROIDE
e CARCINOMA MAMMARIO
• AGENTI VIRALI: i virus che infettano una cellula possono ritrovarsi in forma episomica, se il genoma
non si integra nel genoma cellulare, o in forma integrata, se il genoma si integra in particolari punti
causando riarrangiamento genico e, quindi, neoplasia. Tra i virus oncogeni annoveriamo:
o HBV e BCV responsabili dell’EPATOCARCINOMA
o HPV responsabile del CARCINOMA DEL COLLO DELL’UTERO, DEL PENE e, secondo alcuni,
DEL CAVO ORALE
o EBV (Virus di Epstein-Barr) è il più pericoloso. È responsabile del LINFOMA DI BURKITT, del
LINFOMA DI HODGKIN e del CARCINOMA NASOFARINGEO.
o HHV8 (HERPES VIRUS 8) responsabile de SARCOMA DI KAPOSI
• ALTRI FATTORI non sono in grado primitivamente di formulare una mutazione genetica, ma molto
spesso sono fattori che favoriscono la seconda, terza, quarta fase della mutazione. L’inizio della
mutazione avviene per i tre fattori sopraelencati.

Le RADIAZIONI DA RAGGI ULTRAVIOLETTI provocano danni al DNA come osservato nei carcinomi
basocellulari della cute o nel melanoma ma anche nel carcinoma papillare della tiroide o nel carcinoma
mammario. Esistono soggetti che si espongono a radiazioni per guarire da un tumore e a distanza di decine
di anni ne manifestano altri, soprattutto angiosarcoma o fibrosarcoma. Infatti negli ultimi periodi si stanno
osservando angiosarcomi e fibrosarcomi delle cicatrici di carcinoma mammario di donne che 20/25 anni fa
hanno fatto la radioterapia locoregionale (P.S. In passato non si prestava molta attenzione nel cercare di
impedire la diffusione delle radiazioni in corso di radioterapia).

I VIRUS ONCOGENI sono tantissimi. Ultimamente è stata data particolare importanza all’SV40, un virus della
scimmia responsabile, tra l’altro, del mesotelioma, il quale può essere concausato proprio dall’associazione
fibre di asbesto/virus.

Per quanto riguarda l’EREDITARIETÀ non vi è una penetranza completa per cui le mutazioni costituiscono
perlopiù dei fattori predisponenti, una concausa solo in un numero limitato di neoplasie per cui sarebbe più
corretto parlare di FAMILIARITÀ. Una paziente con una mutazione ereditaria di BRCA ha una probabilità
maggiore di sviluppare un tumore alla mammella o all’ovaio così come una mutazione ereditaria di APC
predispone al tumore al colon (poliposi adenomatosa familiare).

Altri fattori che influenzano la trasformazione tumorale sono:

• INVECCHIAMENTO: determina una diminuzione dell’attività telomerasica e dei sistemi di riparo del
DNA. L’invecchiamento è, però, una concausa, non una causa del tumore ecco perché nella
popolazione anziana i tumori sono più frequenti rispetto ad una popolazione più giovanile (questo
non è propriamente vero perché esistono tumori congeniti, della prima infanzia, tumori dei giovani
etc…).
• ORMONI: se gli ormoni stimolano la proliferazione delle cellule bersaglio è chiaro che se queste
cellule sono mutate l’ormone facilita la trasformazione.
La prima cosa da fare dopo aver fatto diagnosi di un carcinoma della mammella è verificare se il
carcinoma ha mantenuto la capacità di rispondere agli ormoni: nell’esempio del carcinoma alla
mammella l’oncologo dovrà chiedersi se il tumore mantiene i recettori per gli estrogeni, perché se li
mantiene, è possibile utilizzare una terapia anti-estrogenica in modo da ridurre la crescita.
• FLOGOSI CRONICA: può contribuire a far proliferare le cellule deviate. Ad esempio, le reazioni
autoimmuni possono stimolare una neoplasia soprattutto se si considera la presenza di un sistema
immunitario compromesso che non è in grado di distruggere le cellule che stanno proliferando.
Generalmente in questo caso di parla di HOME LINFOMI, cioè linfomi non generalizzati ma che
tendono a localizzarsi nella sede di insorgenza. Possiamo ricordare tra gli agenti eziologici
responsabili di flogosi croniche TBC e HELICOBACTER PYLORI.

P.S. L’Helicobacter Pylori è in grado di richiamare un aggregato linfoide nello stomaco dove normalmente i
noduli linfatici e i follicoli non sono presenti contrariamente all’intestino. Infatti, il linfoma gastrico non si
sviluppa da follicoli pre-esistenti ma da quelli neoformati in seguito all’infezione.

P.S. Mentre in una prima fase l’immunità è capace di sopprimere le cellule deviate, in una seconda fase,
quando queste cellule sono sufficientemente numerose possono produrre fattori che stimolano la crescita
tumorale. Si crea, indipendentemente dalla flogosi, un microambiente tra cellule displastiche e cellule
infiammatorie che stimola la crescita delle cellule neoplastiche. Questo è un campo su cui si sta studiando
perché fino a quando il sistema immunitario è immunosorvegliante non c’è problema, ma quando c’è
questo viraggio da immunosorveglianza a immunostimolazione la cosa diventa pericolosa. Si sta cercando,
quindi, di creare linfociti CTL in grado di impedire il viraggio della risposta sostenendo
l’immunosorveglianza.

• FATTORI AMBIENTALI come:


o ABITUDINI ALIMENTARI: alcune popolazioni sono più soggette ad alcuni tumori perché
l’alimentazione carnea (vedi Occidente) aumenta il tasso di colesterolo e, quindi, favorisce
la formazione di pre-ormoni e, poi, di ormoni che inducono la trasformazione soprattutto
del colon oppure quella basata su riso molto caldo (vedi Giappone) favorisce lo sviluppo del
carcinoma gastrico.
o ABITUDINI SESSUALI (vedi carcinoma del collo dell’utero e HPV)
o ABITUDINI VOLUTTUARIE come il fumo, l’alcool, le droghe
o ATTIVITÀ LAVORATIVA basti pensare a:
− spazzacamini che sono a contatto con il catrame
− marinai e contadini esposti alle radiazioni attiniche sono a rischio di carcinoma
cutaneo
− tintori sono esposti al rischio di sviluppare carcinoma vescicale per l’utilizzo dei
coloranti tossici
− lavoratori che entrano in contatto con l’asbesto sono a rischio di mesotelioma

P.S. Bisogna distinguere tra:


− FATTORI, cioè gli elementi promuoventi che sono la causa della neoplasia (vedi sostanze chimiche o
agenti virali)
− COFATTORI, cioè elementi che inducono una maggiore proliferazione e che, quindi, favoriscono
solo lo sviluppo della neoplasia (vedi flogosi o ormoni)

Durante la fase di trasformazione neoplastica, si ha una mutazione genetica che porta allo sviluppo di un
clone cellulare modificato che inizia a proliferare. Nell’ambito di questo clone cellulare sorgono sottocloni
che acquisiscono le capacità di infiltrare e metastatizzare. Questo ci fa capire che una leucemia linfoblastica
infantile in cui troviamo tutte cellule uguale è facile da trattare mentre i tumori solidi, avendo subito molti
processi di trasformazione, generano diversi sottoprodotti clonali e, quindi, sono molto difficili da trattare
con la terapia medica.

Teoricamente, considerando il tumore come malattia genetica è possibile evitare l’esame istologico ed
individuare le tipologie genetiche del tumore con esami genetici in modo da passare alla terapia senza
nessuna diagnosi istologica. Questa non è, però, una pratica corretta perché si esamina una parte del DNA
di queste cellule, magari anche il DNA di un solo sottocolone senza avere alcuna idea sul tumore.

Le caratteristiche selle neoplasie maligne sono:

• ALTERAZIONI DEL DNA


• CLONALITÀ: il tumore comincia a svilupparsi a partire da un clone cellulare neoplastico ma, man
mano che la neoplasia subisce altre trasformazioni, questa non rimane monoclonale ma diventa
policlonale, cioè sviluppa più cloni. Questo aspetto è importantissimo per la terapia. Ad esempio,
soprattutto nei bambini, i linfomi vengono curati perché, essendo monoclonali, si può utilizzare un
unico farmaco. Contrariamente nelle neoplasie solide, che sono il risultato di una trasformazione
progressiva con conseguente eterogeneità genetica notevole, i farmaci sono adatti per il 20-40-60%
delle cellule per cui selezionano una popolazione cellulare che poi a quel chemioterapico non
reagisce più.
• COMPONENTE GENETICA: le neoplasie sono malattie dei geni per cui è possibile sviluppare una
diagnostica attraverso il gene (vedi tumore stromale dello stomaco e dell'intestino associato a
trasposizione del gene C-KIT → se l'esame istologico del tumore non permette di fare con certezza
la diagnosi, se è presente la mutazione di questo gene, si può dire con tranquillità di quale tumore
si tratti; sarcoma sinoviale che è un tumore molto complicato da diagnosticare istologicamente, ma
nel 62% dei casi presenta una mutazione di un gene SS1, cioè Synovial sarcoma 1).

I geni coinvolti nella trasformazione tumorale sono:

• ONCOGENI i quali stimolano la proliferazione cellulare


• ONCOSOPPRESSORI i quali inibiscono la crescita cellulare (vedi p53)

Molto importanti sono i GENI COINVOLTI NELLA RIPARAZIONE DEL DNA (vedi BRCA) oppure i GENI CHE
CONTROLLANO L’APOPTOSI (vedi BCL2 isolato nel linfoma ma, in realtà, presente nel mantello del
linfonodo normale).

P.S. I tumori soprattutto i linfomi sono in grado di attivare il BCL2 e ripararsi dall’apoptosi.

Le cellule tumorali oltre a riprodursi in modo incontrollato perdono l’inibizione da contatto. Le cellule
perdono l’adesione cellula-cellula per perdita di proteine di contatto come l’E-caderina. I sistemi di
ancoraggio vengono meno e la cellula diventa capace di staccarsi per poter invadere il circuito circostante
ed entrare nei vasi. Una volta entrata nei vasi la cellula comincia a sintetizzare marcatori delle cellule
mesenchimali. Questo fenomeno è detto EMT (EPITHELIAL MESENCHYMAL TRANSFORMATION). All’interno
dei vasi, la cellula epiteliale maligna riesce a spostarsi e, quindi, formare metastasi: una volta giunte in un
distretto diverso da quello di origine parte delle cellule muoiono perché non sono in grado di attecchire
mentre altre costituiscono la metastasi.

La cellula tumorale, inoltre, manifesta la perdita di specifiche vie metaboliche: la cellula neoplastica, quanto
più è maligna, tanto meno è funzionale perché il suo unico scopo è proliferare. La cellula ritorna ad una
condizione embrionale. Questo aspetto è importante perché la cellula sviluppa degli antigeni che erano
presenti durante la vita embrionale e che possono essere valutati per diagnosticare la presenza del tumore.
Ad esempio, la cellula del carcinoma epatocellulare produce α-fetoproteina come l'epatocita embrionale
che ne ha bisogno per proliferare. Questa proteina è importante:
- per l'anatomopatologo per fare diagnosi di carcinoma epatocellulare
- per il medico che, andando a dosare l'α-fetoproteina nel sangue, può monitorare nel tempo la malattia
epatica (α-fetoproteina elevata → carcinoma epatocellulare; pari a 0 dopo l'intervento → il tumore è stato
asportato del tutto; aumentata nuovamente a distanza di tempo → recidiva).
Anche le cellule in proliferazione in corso di cirrosi producono, però, α-fetoproteina per cui bisogna sempre
distinguere tra la produzione benigna della cirrosi e quella maligna dell'epatocarcinoma.
Infine una neoplasia può sviluppare enzimi e metaboliti che sono lesivi nei confronti delle cellule vicine
come:

− IALURONIDASI: capace di smaltire l'acido ialuronico al fine di rompere la membrana basale


− ENZIMI PROTEOLTICI
− FATTORI ANGIOGENICI: la cellula neoplastica ne produce moltissimi perché, per l'aumento del suo
metabolismo, ha bisogno di aumentare la vascolarizzazione. Molti farmaci antitumorali agiscono
contro i fattori di crescita dei vasi togliendo l’ossigeno al tumore tramite l’inibizione della neo-
angiogenesi che si sviluppa nell'ambito del tumore.

In sunto le caratteristiche delle neoplasie sono:

o proliferazione incontrollata
o perdita dell’inibizione da contatto
o ridotta adesività
o capacità invasive e metastatizzanti
o perdita delle specifiche vie metaboliche e funzioni
o sdifferenziamento in senso embrionale
o sviluppo di particolari enzimi e metaboliti

Nello sviluppo di una neoplasia assume un ruolo importante lo STROMA. Esso è responsabile della
consistenza della neoplasia:

• MOLLE
• ENCEFALOIDE → quando l’interstizio ha scarsa componente connettivale interstiziale
• DURA → quando le cellule proliferano in maniera massiccia
• SCIRROSA → quando c’è un connettivo denso tra le cellule. Si ha una consistenza quasi cicatriziale
• LAPIDEA → quando il connettivo è molto ridotto

La consistenza della neoplasia dipende dal suo stroma: quanto più ricco è lo stroma tanto più dura è la
neoplasia.
Solitamente lo stroma è composto da una componente vascolare, un infiltrato infiammatorio e una
componente mesenchimale.
Non è importante considerare solo la PRESENZA DI VASI ma anche:

o la DENSITÀ DEI VASI che è conseguenza della stimolazione che le cellule tumorali eseguono sulle
cellule endoteliali costringendole a proliferare. La densità dei vasi viene utilizzata come scala di
malignità: un tumore è tanto più maligno quanti più vasi è capace di formare. La carenza dei vasi è
responsabile, invece, dei fenomeni regressivi, in cui il tumore non riesce a produrre una certa
quantità di vasi e va in ipossia.
o la MORFOLOGIA DEI VASI che molte volte assume un significato diagnostico importante

essendo i vasi ematici e linfatici le vie principali della diffusione delle metastasi.

Possiamo, quindi, dire che la capacità di una cellula neoplastica di infiltrare lo stroma e di metastatizzare è il
frutto della relazione che la massa intrattiene con lo stroma circostante. Non a caso il tumore è in grado di
procurarsi lo stroma di cui necessita.

Per definire un tumore si può valutare:

− lo STADIO DELLA MALATTIA (o STAGING)


− il GRADO DI DIFFERENZIAZIONE (o GRADING)

Esistono vari sistemi di GRADING a seconda del tipo di neoplasia. Originariamente si propose un sistema
molto matematico ideato da Broders:
• GRADO 1 → meno de 25% delle cellule sono atipiche o indifferenziate
• GRADO 2 → meno del 50% delle cellule sono atipiche
• GRADO 3 → meno del 75% delle cellule sono atipiche
• GRADO 4 → più del 75% delle cellule sono atipiche

Chiaramente non si può applicare questo sistema a tutte le neoplasie perché si parte dal presupposto che i
tumori ben differenziati abbiano un comportamento meno aggressivo rispetto ai tumori scarsamente
differenziati, ma questo non è vero. Esistono per cui varie tipologie di grading: citologico, funzionale o
biochimico, nucleare, nucleolare, architetturale, relativo all’indice mitotico, etc…

Ad oggi si è stabilito che per valutare il differenziamento in alcuni tumori si utilizza un criterio morfologico
(→ cellula che ha più citoplasma è più differenziata rispetto ad una cellula che ne ha meno), in altri
caratteri citologici (→ cellula che ha nucleo più grande è meno differenziata), in altri criteri architetturali
(vedi carcinoma dell’endometrio o della prostata in cui più ghiandole sono presenti più il tumore è
differenziato. Un carcinoma dell’endometrio differenziato ha più del 50% di ghiandole presenti mentre
quello scarsamente differenziato meno del 10% delle ghiandole. Nel carcinoma della prostata si
distinguono, invece, cinque gradi diversi gradi di Gleason:

- ghiandole perfettamente mature con corpi regolari


- ghiandole perfettamente mature con corpi irregolari
- ghiandole cribrose
- ghiandole di piccole dimensioni con interstizio fibroso
- tumore senza ghiandole con interstizio interposto)

Quindi per ogni tumore bisogna utilizzare il sistema di grading più adatto (grading cellulare, grading di
differenziazione, grading architetturale, etc...).

P.S. Ad esempio, in caso di:

− CARCINOMA SQUAMOSO DEL POLMONE è più adatto il grading citologico: quanto più le cellule
sono in grado di diventare squamose, tanto meno il tumore è ggressivo, viceversa quanto meno le
cellule hanno una differenziazione squamosa, tanto più il tumore è aggressivo.
− CARCINOMA DEL COLON sono adatti sia un grading citologico che funzionale perché il tumore é più
aggressivo quando ha maggiore quantità di cellule atipiche che, in quanto tali, hanno meno
possibilità di produrre mucina.
− CARCINOMA PROSTATICO è più adatto un grading architetturale: le ghiandole sono ben costituite,
tendono a rimanere circoscritte → grado l; le ghiandole non esistono più, le cellule sono tutte
disperse nello stroma → grado V. Allo stesso modo il CARCINOMA DELL'ENDOMETRIO: se la
stragrande maggioranza del tumore è fatto da ghiandole, allora è ben differenziato; se le ghiandole
sono scarse il tumore è scarsamente differenziato.
− SARCOMA è più adatto il grading basato sull'indice mitotico o sulla presenza della necrosi: il tumore
è ben differenziato se presenta poche mitosi o poca necrosi.

Il grading viene indicato con la lettera G seguita da numeri arabi a seconda della scala utilizzata.
È estremamente difficile applicare il grading, perché qualunque sistema soffre di una quota importante di
soggettività: di solito i patologi giovani sono pessimisti quando guardano una neoplasia e danno sempre un
grado G3 mentre i patologi anziani, che ne hanno viste di tutti i colori, sono più ottimisti e tendono a dare
più frequentemente G1.
Per via di questo grado di soggettività, per alcuni tumori (vedi carcinoma mammella, prostata o renale)
sono stati inventati degli SCORING cioè dei parametri che vanno sommati tra loro al fine di ottenere un
punteggio (indice mitotico, architettura, nucleo, nucleolo, etc...).
Ad esempio per la mammella si utilizza un sistema G1, G2, G3 che si fonda su parametri architetturali e
nucleari e sull’indice mitotico. Si dà un punteggio da 1 a 3 per il grading architetturale (quanti più tubuli si
formano più è differenziato), da 4 a 6 per il grading nucleare e da 7 a 9 per l’indice mitotico. Lo scoring
globale se cade al di sotto di 6 è indice di un tumore ben differenziato, tra 6 e 7 di uno intermedio mentre
se supera 8 di uno scarsamente differenziato.
La stessa cosa vale per il carcinoma prostatico e lo scoring di Gleason o per il carcinoma renale e lo scoring
Fuhrman (→ caratteristiche citologiche, dimensioni e forma del nucleo, dimensioni dei nucleoli e
disposizione della cromatina).

Il discorso fatto sul grading può essere traslato a quello della STADIAZIONE la quale è la valutazione
dell’estensione della neoplasia sia in loco che a distanza il giorno prima del primo intervento.
Si è scelto il giorno prima del primo intervento come termine in modo da poter valutare in maniera ufficiale
i tumori.

Quindi la stadiazione è la valutazione della malattia che viene stabilita dopo aver fatto tutte le indagini.
L’indagine per valutare lo stadio non è la visita, oltre la visita bisogna fare la PET, la TAC, l’ECOGRAFIA
perché bisogna constatare quanto è esteso il tumore nella sede dove è insorto, se ci sono margini di
estensione, se ci sono linfonodi interessati, etc…
Quindi prima dell’intervento terapeutico la malattia ha bisogno di una stadiazione, di una valutazione
globale.

Non si può stadiare il tumore dopo il primo intervento terapeutico perché se, ad esempio, si esporta lo
stomaco e, dopo 6 mesi, si scopre una metastasi epatica, non è che il tumore passa dallo stadio primo allo
stadio quarto, rimane sempre nello stadio PRIMO ma IN EVOLUZIONE.

Il sistema utilizzato per la stadiazione è il TNM che è un sistema internazionale dotato di un significato
anche di tipo PROGNOSTICO. Secondo questa classificazione la sopravvivenza è più alta negli stadi più bassi
mentre, negli stadi più alti, la sopravvivenza è minore e la ripresa della malattia più facile.

È opportuno sottolineare che il TNM ha, poi, anche un enorme importanza nella programmazione
terapeutica.

P.S. Spesso le classificazioni sono, però, troppo stringenti. Un oncologo per compilare la scheda, ad
esempio, per un carcinoma della mammella deve indicare se si tratta di un tumore di stadio PRIMO A o di
stadio PRIMO B (STADIO A → carcinoma della mammella di 9,9 mm; STADIO B → 1,1 mm). Queste
classificazioni sono inutili perché la biologia non è matematica. Le misurazioni in biologia non sono mai
precise perché non si ha la possibilità di misurare al millimetro (es. donna con un carcinoma della
mammella sottoposta a biopsia mammotome, cioè 12 prelievi a quadrante di orologio. Alla fine nel
quadrante della mammella si vede un buco per cui è difficile stabilire le dimensioni della massa.

P.S. È impossibile valutare in mm l’infiltrazione di un carcinoma dell’endometrio perché tra endometrio e


miometrio non c’è nessuna sottomucosa, quindi nessuno è capace di dire dove finisce l’endometrio e dove
comincia il miometrio.

La classificazione internazionalmente TNM è stata messa a punto in Francia, nel 1943-52, nell’Istituto
Gustave Roussy e da allora viene aggiornata ogni due anni.

I criteri per valutare il TNM sono:

• DIMENSIONI DELLA LESIONE


• ESTENSIONE NELLA PARETE perché, ad esempio, nella parete dell’utero sono presenti scarsi
linfatici nella metà interna del miometrio e molti linfatici nella metà esterna. In questo caso
valutare l’infiltrazione è utile perché, se si infiltra meno della metà, la prognosi è buona (è come se
non infiltrasse proprio) mentre se infiltra più della metà è fondamentale saperlo, essendo la
prognosi peggiore.
• METASTASI AI LINFONODI
• METASTASI A DISTANZA

TMN, infatti, significa:

• T → ESTENSIONE DEL TUMORE NELLA SEDE


• N → LINFONODI
• M → METASTASI A DISTANZA

Allora T indica la grandezza dell’estensione dei tumori. Possiamo avere:

• T1 → tumore meno di 2 cm che ha interessato solo una sede anatomica. Se si ha un paziente con
un carcinoma alla mammella meno di 2 cm è un T1.
Se questa mammella presenta un nodulo, vicino alla fascia, di un centimetro e mezzo e, però, ha
invaso la fascia, non è più un T1 ma è un T4. Quindi bisogna essere precisi cioè il T1 è inferiore a 2
cm con coinvolgimento di una sola sede anatomica.
Se si considera un carcinoma della laringe di 5 mm che interessa la corda vocale si tratta di un T1
ma, se si considera un tumore di 1 cm che interessa la corda vocale e un ventricolo, non può essere
più un T1 ma un T2 perché interessa due regioni anatomiche contigue.
• T2 → tumore meno di 5 cm con coinvolgimento di due sede anatomiche contigue
• T3 → tumore superiore a 5 cm o coinvolgente la gran parte dell’organo
• T4 → tumore esteso alle strutture vicine
• Ts → tumore in situ cioè tumore che non ha infiltrato
• Tx → paziente che ha metastasi in cui il tumore primitivo non è evidente oppure non è stato
ricercato, cioè non si conosce nulla del tumore nella sua sede naturale

L’idea principale iniziale fondamentalmente era:


- T1 e T2 → tumore chirurgicamente resecabile
- T3 → tumore resecabile ma con ampie escissione e con molti rischi di recidive
- T4 → inutile cercare di resecarlo
cioè T1 tumore piccolo, T2 tumore non piccolo ma comunque chirurgicamente resecabile, T3 un tumore da
trattare con le pinze prima di operarlo e T4 meglio che non si operi. Il criterio era l’indirizzo terapeutico.
Poi, si è visto, però, che per ogni tipo di tumore questo concetto del piccolo resecabile, grande resecabile,
resecabile con difficoltà o non resecabile cambia.
Difatti gli aggiornamenti biennali che escono riguardano proprio i singoli tumori (cambiamenti su carcinoma
del cavo orale, su carcinoma dell’endometrio, su carcinoma dell’ovaio, etc…).

Bisogna, poi, considerare anche le sottoclassi: come accennato, per la mammella, T1A significa tumore
meno di 10 mm, T1B tra 10 mm e 20 mm.

N vuol dire coinvolgimento dei linfonodi. Possiamo avere:

• N0 → assenza dei linfonodi palpabili


• N1 → presenza di linfonodi senza caratteri di metastasi. I linfonodi sono palpabili, però, dalle
caratteristiche cliniche hanno più le caratteristiche dei linfonodi reattivi che non dei linfonodi con
metastasi.
• N2 → linfonodi palpabili sia nella sede di drenaggio che controlaterale. Per esempio, se una donna
ha un carcinoma nella mammella destra e linfonodi palpabili ma non sospetti nell’ascella destra è
un N1, ma se la signora ha anche linfonodi palpabili ma non sospetti a livello della mammaria
interna o a livello della catena ascellare sinistra è un N2.
• N3 → presenza di metastasi in sede con carattere di malignità
• Nx → il paziente è stato operato senza valutare i linfonodi.
Non sempre si può fare la valutazione: per esempio nel carcinoma allo stomaco i linfonodi loco regionali
non sempre sono evidenziabili.

Clinicamente il CARATTERE DI MALIGNITÀ DI UN LINFONODO è stabilito in base ad alcuni criteri importanti


che sono:

• linfonodi aumentati di volume


• linfonodi aumentati di consistenza
• linfonodi di forma tendenzialmente sferica plurilobata, comunque non ovalare perché il linfonodo
reattivo gira e si accresce intorno all’ilo. Quando, invece, è sferico ma non bilobato è un linfoma,
quando, invece, è sferico e plurilobato vuol dire che è presente una metastasi di carcinoma.
• linfonodi aderenti alla struttura vicine cioè vuol dire che il tumore metastatico ha aderito alla
capsula del linfonodo e ha provocato l’aderenza a strutture vicine.

Poi abbiamo le metastasi (M). Distinguiamo:

• M0 → non ci sono evidenza di metastasi


• M1 → evidenzia di metastasi
• M2, M3, M4, etc… sono gli organi metastatizzati cioè se un paziente ha un carcinoma del colon e
una metastasi solo al fegato è un M1, se ha metastasi al fegato e al polmone è un M2 e via di
seguito. M2, M3 non sono il numero delle metastasi nello stesso organo.
• Mx → non ci sono state valutazioni chiare delle metastasi.

Il sistema TNM è, quindi, un sistema analitico che fa perno su tutte le indagini che vengono fatte prima
dell’inizio della terapia. Una volta fatto rimane per sempre.
Oltre al TNM, al momento dell’intervento chirurgico, il patologo utilizza gli stessi criteri clinici (e non altri
criteri) per realizzare il pTNM. Allora sulla cartella si segna:

• TNM → stadiazione clinica


• pTNM → stadio patologico

Per me:

- pN0 vuol dire che non ci sono linfonodi metastatici


- pNx vuol dire che non si sono trovati linfonodi
- pN1 vuol dire che ci sono metastasi e un po’ di linfonodi, varia sempre da organo a organo, di solito
fino a 3 linfonodi è pN1 invece se sono di più pN2, pN3, etc…

Siccome è stata introdotta la pratica del linfonodo sentinella oggi si considera anche pNln cioè linfonodo
sentinella segnando, poi, la grandezza della metastasi perché, se un linfonodo sentinella che viene
tagliuzzato, etc… ha una metastasi che è inferiore ai 2 mm esso non non inficia il programma terapeutico.

Ci sono dei casi in cui non esiste il TNM clinico ma il TNM viene fatto al tavolo operatorio direttamente dal
patologo.
Per il carcinoma dell’ovaio, ad esempio, non viene fatta la stadiazione prima dell’intervento chirurgico dato
che non si sa nemmeno se si tratti di un tumore ovarico o di altro. Bisogna, quindi, seguire dei protocolli:
togliere il tumore ovarico, fare l’esame intraoperatorio per vedere che tumore sia, accertato che il tumore
sia maligno, bisogna eseguire l’isterectomia, l’appendicectomia, le biopsie delle docce peracoliche, le
biopsie della cupola di diaframmatica, etc… Tutte queste biopsie servono a fare la stadiazione del tumore.
Quindi ci sono dei casi in cui la stadiazione non sarà mai clinica ma sarà patologica e, quindi, noi abbiamo il
dovere di fare tutta questa stadiazione.

Contemporaneamente al TNM, le società scientifiche hanno stabilito dei criteri di stadiazione.


Nella clinica si sente parlare di stadio primo, stadio primo A, stadio secondo, stadio terzo, per esempio, del
carcinoma dell’ovaio, per il carcinoma del polmone, etc…
Però, se si va a leggere che cosa definisce lo stadio si vede che è il TNM.
Ad esempio lo stadio primo della mammella è un tumore che è pT1A o B N0 M0. Questo lo si fa perché il
TNM è molto dettagliato (sottogradi T2A, T2B, T2C, etc..) e tutte le sottoclassi non hanno un risvolto clinico
importante.
Gli stadi sono più riassuntivi.
La procedura terapeutica, infatti, si basa praticamente sullo stadio, non sul pTNM.

Riguardo alla classificazione istogenetica bisogna considerare:

• TUMORI CHE DERIVANO DA EPITELI


• TUMORI CHE DERIVANO DA CONNETTIVI
• TUMORE CHE DERIVANO DAL SISTEMA EMOLINFOPOIETICO
• TUMORI CHE DERIVANO DA SNC

La maggior parte dei tumori sono tumori epiteliali perché le cellule epiteliali hanno due caratteristiche che
li espongono alla carcinogenesi:

− sono ricchi in cellule staminali rispetto ai connettivi


− le cellule staminali epiteliali sono esposte a tantissimi insulti oncogeni: virus, sostanze tossiche,
etc…

Noi dobbiamo distinguere:

• EPITELI DI RIVESTIMENTO
• EPITELI GHIANDOLARI

Tra gli epiteli di rivestimento distinguiamo:

• CUTE
• MUCOSE

Nella CUTE i tumori epiteliali benigni possono avere diverse denominazioni ma si tratta sempre di un
tumore benigno cioè una proliferazione epiteliale che sporge sul piano cutaneo e che può avere
espressione più o meno vegetante. Esistono varie espressioni vegetanti come la VERRUCA, altre meno
vegetanti come il MOLLUSCO CONTAGIOSO e CONDILOMI.
I tumori maligni si chiamano, invece, CARCINOMI.

Nelle MUCOSE, i tumori benigni si chiamano POLIPI o PAPILLOMI e i tumori maligni CARCINOMI.
Precisiamo i concetti di polipi e di papillomi. Quando gli elementi epiteliali proliferano (questo vale anche
per la cute, non a caso la verruca non è altro che un papilloma della cute) hanno bisogno di più nutrienti.
Ricordiamo che l’epitelio è fatto di cellule che poggiano sulla membrana basale e che, in mezzo alle cellule
epiteliali, non vi sono vasi dato che i vasi stanno sotto la membrana basale.
Immaginate un pavimento di 100 mattonelle. Se le mattonelle invece di 100 diventano 1000 l’intonaco di
sotto non basterà più, quindi, si solleva.
Questo sollevamento della tonaca propria, comprendendo i vasi, si chiama ASSE CONNETTIVO VASCOLARE
DEL TUMORE.
Quindi, sia nella cute che nella mucosa, alla crescita dell’epitelio corrisponde una irregolarità della
membrana basale che forma degli assi connettivali dove all’interno ci sono i vasi che devono servire
all’epitelio per nutrirsi.
Se l’asse connettivo vascolare è unico parliamo di POLIPI.
Se, invece, l’asse connettivo vascolare è ramificato parliamo di PAPILLOMI.

Macroscopicamente il papilloma ha un aspetto moliforme perché dotato di tanti piccoli rami periferici
dell’asse connettivo vascolare.
Un condiloma non papillare piano presenta solo la crescita dell’epitelio ma la membrana basale risulta
abbastanza lineare.

I tumori degli epiteli ghiandolari sono detti:

• TUMORI BENIGNI → ADENOMI (semplice, cistico, papillifero, etc…)


• TUMORI MALIGNI → ADENOCARCINOMI

P.S. In un adenoma tiroideo non c’è colloide dato che il follicolo lavora molto.

P.S. Il carcinoma renale è strano perché è presente una capsula che non è una vera e propria capsula
perché, se normalmente la capsula è attivamente prodotta dal tessuto per cercare di fermare la crescita del
tumore (vedi adenoma renale), nel carcinoma renale, la capsula si forma perché la neoplasia va a
comprimere il tessuto vicino e lo atrofizza tanto da renderlo fibroso (pseudocapsula) per cui la capsula non
è attivamente prodotta.

Un carcinoma può essere ENDOFITICO quando si accresce all’interno di una struttura e ESOFITICO quando
si accresce al di fuori.
Il carcinoma ovarico esofitico è pericolo perché si trova nella cavità peritoneale per cui impiega pochi mesi
a diventare metastatico: si passa dallo stadio PRIMO allo stadio TERZO in pochi mesi. Questo accade perchè
il tumore si ritrova all’interno della cavità per cui, distaccandosi, le cellule non hanno bisogno di superare la
membrana basale ma vanno direttamente a colonizzare il peritoneo.

P.S. Il seminoma del testicolo è caratterizzato dalla linfocitosi dei setti: quanti più linfociti ci sono, tanto
migliore è la prognosi perché i linfociti non sono neoplastici ma reattivi. Quindi se c’è l’infiltrazione, vuol
dire che la reazione immunologica dell’organismo è molto efficace e, quindi, non consente al tumore di
proliferare molto.

Nel caso di carcinoma della mammella, ricordiamo il tumore a cellule adipocitoidi, cioè formato da cellule
costruite con una grossa goccia di muco al centro che sposta perifericamente il citoplasma (carcinoma
mucoso). Siccome il muco non si colora con ematossilina-eosina, di queste cellule si vede solo il citoplasma
periferico e il nucleo spostato alla periferia. L’immagine che si osserva è quella di un anello con castone: il
castone è rappresentato dal nucleo, il citoplasma rappresenta l’anello e il muco il dito.
Si ha questa condizione perché, in questi casi, c’è una modifica della capacità di secrezione e, quindi,
anziché andare all’esterno il muco ristagna all’interno della cellula e gonfia la cellula spostando il
citoplasma. Questo è quello che dicono i libri ma non è vero.
Se andiamo a vedere l’ultrastruttura, in questo tipo di tumore, non si ha una sola cellula ma un
conglomerato di almeno 2 o 3 cellule. Si ha, quindi, una micro-ghiandola con più cellule che hanno il secreto
in parte endocitoplasmatico e in parte all’interno di questa cavità.

Il carcinoma squamoso ripete la struttura dell’epidermide, cioè cellule basali con nucleo che rappresenta la
maggior parte della cellula e citoplasma scarso. Queste cellule sono le cellule impegnate nella divisione che,
poi, diventano cellule spinose dello strato spinoso e, poi, cellule dello strato corneo. Siccome manca la
superficie, però, lo strato corneo si ritrova all’interno del cordone dove si stratifica a bulbo di cipolla
determinando la formazione di strutture “a perla cornea”. Possiamo riassumere dicendo che il carcinoma
squamoso è caratterizzato dalla formazione di perle cornee all’interno dei cordoni dato che i cordoni sono
organizzate come la superficie dell’epidermide.
La tipologia di carcinoma squamoso a perle cornee è tipica, però, dei carcinomi squamosi ben differenziati
perché, se il carcinoma è meno differenziato, le cellule cheratinizzate sono poche e, quindi, le perle cornee
non si vedono.
Si parla di carcinoma squamoso perché le cellule hanno un bel citoplasma eosinofilo anche se non arrivano
a formare perle cornee e non hanno mai la tendenza a formare ghiandole perché altrimenti si tratterebbe
di adenocarcinoma.

NEOPLASIE CONNETTIVALI

I tumori mesenchimali sono tumori che hanno cancerogenesi differente perché originano da cellule
staminali che si trovano all’interno del mesenchima che normalmente servono per riparare, per avviare la
cicatrizzazione, etc...

Quando sono colpite dallo stimolo oncogeno, queste cellule non si de-differenziano (non trovate displasia
nei tumori connettivali) perché lo stimolo oncogeno agisce direttamente su cellule già fortemente
immature, distribuite nel connettivo. Quindi, il tumore insorge come tale senza bisogno di una fase di
precancerosi: comincia a prodursi e piano piano si forma all’interno del connettivo.

L’altro elemento importante sempre dei tumori mesenchimali è il fatto che il connettivo è capace di
differenziarsi in tantissimi tessuti: adiposo, connettivale, muscolare, etc…

Siccome lo stimolo agisce sulle cellule staminali, si possono avere differenziazioni diverse come, ad
esempio, un rabdiomiosarcoma al di fuori del muscolo striato.
Rabdiomiosarcoma significa tumore del tessuto muscolare striato ma non è detto che insorga nei muscoli.
Un rabdiomiosarcoma può anche insorgere nei connettivi perché queste cellule immature stimolate,
anziché differenziarsi in cellule adipose o cellule fibroblastiche, si differenziano in altro senso.

Quindi, nel caso di neoplasie connettivali, non si parla di tumori del tessuto adiposo ma di tumori a
differenziazione adiposa, a differenziazioni istiocitaria, a differenziazione muscolare, a differenziazione
ematica (non è che dal vaso l’endotelio prolifera e si forma l’angioma ma sono le cellule staminali che si
moltiplicano a formarlo).

P.S. Un lipoma macroscopicamente e istologicamente è costituito da tessuto adiposo maturo uguale a


quello circostante del grasso. Il lipoma, però, differentemente dal normale tessuto adiposo è dotato di
capsula.

In caso di emangioma capillare, si osservano vasi capillari che proliferano e mantengono una grandezza
normale. Questa condizione è differente da un emangioma cavernoso che è un emangioma dei sinusoidi in
cui, non avendo periciti, questi vasi si dilatano formando delle cavità che possono essere più o meno ampie.
L’emangioma cavernoso è più pericoloso dell’emangioma capillare. Infatti, l’emangioma cavernoso se è
sufficientemente grande tende, all’interno, alla trombosi perché il sangue rallenta tantissimo in queste
grosse cavità. Inoltre, essendo come una spugna piena di sangue esso può determinare un aumento di
forza da parte del cuore tale da causare scompenso.

Come già detto i tumori epiteliali maligni sono detti carcinomi. I tumori mesenchimali maligni, invece,
vengono definiti SARCOMI.

P.S. Gli inglesi e gli americani chiamano carcinomi tutte le neoplasie indipendentemente dalla loro origine,
sia essa connettivale o epiteliale.

P.S. Per distinguere un leiomioma da un leiomiosarcoma basta contare le mitosi: quando le mitosi superano
i 10 in 10 campi si tratta di un leiomiosarcoma.

Nel parlare di neoplasie un altro aspetto importantissimo da valutare è la MODALITÀ DI DIFFUSIONE:

La modalità di diffusione del tumore può essere:


- LOCALE
- A DISTANZA
L’INVASIONE LOCALE può essere per:

• CONTINUITÀ cioè segue la normale progressione anatomica dell’organo (vedi un tumore della pelvi
che interessa l’uretere oppure un tumore del bronco principale che interessa un bronco periferico)
• CONTIGUITÀ cioè viene interessato un organo vicino (vedi tumore del sigma che invade la vescica)

L’INVASIONE A DISTANZA non è altro che la METASTASI. La definizione corretta di metastasi è invasione a
distanza senza rapporti di contiguità con il tumore originario. Questo vuol dire che se un tumore al sigma
invade la vescica non si parla di una metastasi perché tra i due organi vi è un rapporto di vicinanza.
La metastasi implica, però, che il tumore debba entrare nei vasi, portarsi a distanza, ritornare epiteliale e
proliferare.
Quando, invece, si usa il termine LOCALIZZAZIONE SECONDARIA si vuole indicare una localizzazione del
tumore a distanza senza, però, la fase ematica e, quindi, di tutte le trasformazioni. Per certi tumori non è
facile stabilire, infatti, se si tratti di metastasi o no. Prendiamo come esempio il tumore ovarico il quale può
localizzarsi a livello peritoneale. La localizzazione peritoneale è, in teoria, una metastasi perché non c’è
rapporto di contiguità con il tumore primitivo ma se si considera la presenza del fluido peritoneale e la
discendenza embriogenetica dell’epitelio ovarico dal mesotelio peritoneale si spiega perché si parla di
localizzazione secondaria. Questo vale anche per il tumore dell’uretere che si impianta in vescica: se il
tumore si interrompe sulla parete non è una invasione per continuità ma considerando che l’urina è un
fluido che può trasportare cellule, non si può parlare neanche di metastasi. Si parla, dunque, di
localizzazione secondaria.

P.S. La proliferazione locale avviene lungo i piani anatomici di clivaggio (vasi, fasci muscolari, fibre nervose,
etc…).

Le vie di metastatizzazione sono, in realtà, due:

- VIA LINFATICA → più presente nelle neoplasie epiteliali maligne (che comunque non disdegnano la via
ematica)
- VIA EMATICA → più frequente nei tumori mesenchimali

P.S. Le metastasi presentano una scarsa capacità angiogenetica a differenza dei tumori primitivi tanto da
presentare una area di necrosi centrale (lesione ombelicata).

Quando è presente una displasia, prima di dare inizio all’invasione deve verificarsi una nuova mutazione
genica che seleziona un pull di cellule che sono in grado di aderire ai recettori di adesione del mesenchima,
liberare gli enzimi proteolitici e creare delle discontinuità della membrana basale in modo da permettere
alle cellule di entrare nel connettivo. La lesione infiltrante può, dunque, penetrare nei vasi sanguigni e
portarsi a distanza.

La localizzazione della metastasi dipende dalle connessioni vascolari e dalle sedi anatomiche.
Ad esempio, gli organi addominali, per via ematica, sono collegati al fegato.
Tutti gli organi tributari della vena cava superiore e inferiore metastatizzano al polmone.
Gli organi mediani, spesso, metastatizzano alla colonna vertebrale perché attraverso le vene del Retzius
parte un flusso vascolare che, dagli organi addominali, va al plesso para-vertebrale. Solitamente queste
vene sono chiuse, però, se è presente una condizione di sub-occlusione intestinale, lo sforzo alla
defecazione produce l’inversione del circolo ematico e porta il sangue verso le vene para-vertebrali. Inoltre,
gli organi mediani possono metastatizzare alle radici dei nervi (vedi carcinoma della prostata che, risalendo
le radici de nervi, giunge ai corpi vertebrali).

Le neoplasie maligne hanno una fase pre-invasiva, che consiste nella formazione dei precursori morfologici,
a cui segue la fase invasiva.
Nella FASE PRE-INVASIVA si parla di carcinoma in situ cioè un carcinoma che non supera la membrana
basale. Si osserva una membrana basale regolare e cellule atipiche, cioè fortemente immature, con scarso
citoplasma, ipercromiche, tutte uguali e che compiono mitosi atipiche.
La FASE INVASIVA viene anche detta micro-infiltrante o francamente infiltrante. In alcuni casi a questa fase
segue la metastatizzazione. Le cellule che invadono sono nettamente diverse dalle cellule in situ perché
quando invadono assumono una differenziazione particolare. Si tratta di cellule più grandi, con citoplasma
abbondante e di tipo eosinofilo.
Quindi nel carcinoma infiltrante si osservano cellule tutte uguali di tipo displastico e cellule di tipo
squamoso messe insieme.

P.S. I tumori tendono a metastatizzare spesso a livello delle ovaie o del surrene perché essendo queste
strutture producenti ormoni favoriscono l’impianto delle cellule metastatizzanti.

DISONTOGENIE

Le DISONTOGENIE sono errori dello sviluppo.

È risaputo che, durante la vita fetale, si costituiscono dei veri e propri organi che servono a costruire
l’organo definitivo e che, una volta che l’organo è stato formato correttamente, vanno incontro a
regressione.
Se nell’organizzare questi organi o nel distruggerli si commettono degli errori si presentano le disontogenie.
Gli errori possono essere, quindi, di tre tipi:
- MANCATA REGRESSIONE DI ORGANI FETALI: l’organo fetale non scompare totalmente e restano dei
residui embrionali. Tra gli organi fetali ricordiamo:

- TASCA DI RATHKE (o DIVERTICOLO FARINGEO), cioè una protrusione della faringe verso la sella
turcica la quale serve a formare l'adenoipofisi. Questa estroflessione della faringe prosegue, viene
attirata dall'encefalo, va a finire nella sella turcica dove si congiunge col peduncolo dell'ipofisi e
forma la neuroipofisi col peduncolo dell'ipotalamo. Una volta formatasi l'adenoipofisi, la tasca di
Rathke regredisce ma ci sono alcuni soggetti che lungo il tragitto tra la volta del rinofaringe e della
sella turcica possono presentare isole di epitelio che sono i residui della tasca.
- ORGANO DELLO SMALTO, cioè organo epiteliale ectodermico che serve per formare la dentina. una
volta formata la corona del dente l'organo dello smalto cessa di svilupparsi e regredisce. Alcuni
individui, però, possono presentare residui epiteliali intragengivali, i RESIDUI DEL MALASSEZ, che
sono appunto i residui dell'organo dello smalto.
- ABBOZZO MESONEFRICO che serve per formare i reni degli uccelli (nei mammiferi i reni originano
dal metanefro) e nei mammiferi per formare le vie escretrici dell'apparato genitale maschile.
- NOTOCORDA che serve per indurre la formazione dei corpi vertebrali per, poi, andare incontro a
regressione. Dal momento che la regressione procede dal centro alla periferia, si possono avere dei
residui della notocorda sotto il cranio o davanti al sacro.

- AMARTIE (in greco significa “peccato”): l’organo che si è formato non è organizzato architetturalmente
così come dovrebbe. Molti ritengono che gli angiomi non siano dei tumori ma delle amartie perché questi
non si accrescono mai nel tempo.
Tra le amartie ricordiamo:
- AMARTIA VASCOLARE, vedi punti del fegato in cui si sviluppa solo il sistema vascolare e non gli
epatociti (da non confondere con l’angioma)
- AMARTIA FIBROSA, vedi punti di rene costituti da connettivo e non da tubuli
- AMARTIA DA DIFETTO CORTICALE FIBROSO, vedi osso in cui a livello corticale, invece, di trovare
tessuto osseo, si osserva tessuto fibroso
- CORISTIE: presenza, in un organo, di strutture che non hanno niente a che fare con quell’organo (vedi
tessuto osseo in un fibroma renale). Tra le coristie più frequenti ricordiamo:
- coristia pancreatica nello stomaco (PANCREAS ABERRANTE) → si osserva una lesione polipoide
sessile nello stomaco ombelicata, si esegue un prelievo e si rileva del tessuto pancreatico. Può
essere di tipo duttale (solo dotti) o di tipo acinare (anche acini).
- mucosa gastrica nel diverticolo di Meckel (= residuo di intestino che collega l’intestino intra-
embrionale con l’intestino extra-embrionale attraverso l’ombelico che rimane nell’adulto come
diverticolo).

Da una disontogenia si può passare, in alcuni casi, ad un TUMORE DISONTOGENETICO cioè:

− TUMORI DEGLI ORGANI FETALI


− AMARTOMI
− CORISTOMI

Molte persone presentano i residui della tasca di Ratcke ma solo alcuni sviluppano il cranio-faringioma
(tumore localizzato nella sella turcica che insorge sui residui della tasca di Ratcke).
Oltre al CRANIO-FARINGIOMA tra i tumori disontogenetici ricordiamo:
• CORDOMA → tumore della notocorda non riassorbita
• AMELOBLASTOMA → tumore dell’organo dello smalto
• TUMORE DI WILLS (o NEFROBLASTOMA) → tumore dell’abbozzo metanefrico del rene non
riassorbito
• AMARTOMI → tumori che derivano dalle amartie. Se un’amartia rimane ferma nel tempo si
definisce amartia, se si accresce, amartoma
• CORISTOMA → tumore insorto su una precedente coristia
• TERATOMA → tumori con tessuti che derivano da tutti e tre i foglietti embrionali.

P.S. La coristia surrenalica che si forma nell’ovaio o nel testicolo è frutto del fatto che le gonadi,
discendendo dalla parete addominale, possono portarsi dietro anche frammenti di corteccia surrenalica.
Più rare sono le coristie spleniche in cui vicino al testicolo o all’ovaio si osservano milze sovrannumerarie
che indicano la vicinanza embriogenetica dei due organi.

P.S. Un tipo di amartoma è il COMPLESSO DI VON MEYENBURG, cioè in alcuni punti del fegato si osservano
aggregati di tubuli biliari (amartoma colangio-cellulare). Non si tratta di tumori, ma si tratta di amartie, cioè
un errore dello sviluppo in cui si sviluppa maggiormente la componente dei tubuli biliari rispetto al resto.

I TERATOMI sono tumori che presentano derivati di tutti e tre i foglietti embrionali perché derivano da
cellule altamente immature, cioè CELLULE GERMINALI PRIMORDIALI.
Queste si trovano vicino alla notocorda e intorno alla 4° settimana si portano nelle gonadi in formazione
dando origine agli spermatogoni e gli oogoni. Questo ci spiega perché i teratomi si trovano principalmente
nelle gonadi anche se esistono anche teratomi extra-gonadici che si trovano nella linea mediana, cioè lungo
la linea di origine delle cellule germinali indifferenziate (teratomi endocranici, epignato se si trovano sopra
la mascella, prognato se si trovano sotto la mascella, cioè nella bocca; mediastinici → mediastino
posteriore; addominali; retro-peritoneali; sacro-coccigei). Solo occasionalmente possiamo trovare teratomi
al di fuori della linea mediana per deviazione di queste cellule nella disseminazione.

Riguardo alla COMPOSIZIONE DEI TERATOMI possiamo dire che, partendo dalle cellule germinali
indifferenziate, i teratomi possono presentare un certo grado di maturazione sino a diventare dei veri e
propri homunculus (fetus in feto). Essi possono presentare, quindi, un alto grado di differenziazione ma
anche un basso grado di differenziazione.

P.S. Esiste una sorta di continuum tra: teratoma immaturo, teratoma maturo, homunculus (→ si osservano
strutture mature), mostro acardico (→ sono presenti più organi ma non il cuore per cui il feto sfrutta la
circolazione dell’individuo che lo ospita), feto congiunto e gemello monocoriale.

La CISTI DERMOIDE è un teratoma molto maturo che si osserva solo ed esclusivamente a livello dell’ovaio
(difficilmente nel testicolo). Si tratta di strutture dotate di una cavità ma non tese. Infatti, quando viene
rotta il fluido non esce ad alta pressione. Questo è dovuto al fatto che al suo interno non è presente liquido
ma materiale sebaceo frammisto a peli. La parete è costituita da connettivo ovarico ed epidermide e
presenta una parte ispessita, detta promontorio.
Quando si osserva una cisti dermoide bisogna, quindi, fare il prelievo nella zona più spessa (promontorio)
così da valutare l’eventuale presenza di tutti e tre i foglietti embrionali e poter fare nel modo più accurato
la diagnosi.

Il teratoma è benigno quando tutte le strutture sono coeve al soggetto, cioè quando le strutture sono
maturate secondo quella che è l’età del paziente o, meglio, quando il grado di maturazione di quel
determinato tessuto coincide con quello del paziente. In questo caso si parla di TERATOMA TRIFILLICO
MATURO (triffilico → formato da tutti e tre i foglietti embriologici).
Se, invece, si osservano dei tessuti immaturi, si tratta di un teratoma immaturo e, quindi, potenzialmente
maligno. Bisogna quantificare la porzione immatura perché da questa dipende la prognosi del paziente.

Il grading si esegue, infatti, in base alla quantità di tessuto immaturo:


- 100% di tessuto maturo → GRADO 0, cioè benigno
- meno di 1/3 di tessuto immaturo → GRADO 1 (nella pratica il tessuto immaturo è presente in pochi
vetrini)
- meno di 2/3 di tessuto immaturo → GRADO 2 (nella pratica il tessuto immaturo è presente in molti
vetrini)
- più di 2/3 di tessuto immaturo → GRADO 3 (nella pratica il tessuto immaturo è presente in tutti i vetrini)
In pratica, se un tumore è G0 o G1 non è preoccupante perché non è maligno ma se, invece, è G2 o G3, è
maligno e va trattato con la chemioterapia.

La parte di teratoma immaturo è costituita sempre da tessuto nervoso (-→ le strutture ricordano i tubi
neurali primordiali).

P.S. Sia nei teratomi G1 che nei G2 trattati, dopo anni dall’asportazione del tumore si osserva una carcinosi
peritoneale costituita da tessuto gliale maturo, cioè una gliomatosi matura del peritoneo che è
assolutamente benigna. Questa è dovuta al fatto che le cellule nervose immature che stavano nell’ovaio,
una volta raggiunto il peritoneo maturano in senso gliale.
APPARATO RESPIRATORIO
MALFORMAZIONI DELL’APPARATO RESPIRATORIO

GENERALITÀ SULLE MALFORMAZIONI


È fondamentale conoscere e saper riconoscere le malformazioni di un organo o apparato. Ad esempio per
un ginecologo, evidenziare la presenza di malformazioni congenite è importante anche per evitare denunce
di malpratica sanitaria perché i genitori devono poter decidere se interrompere o meno una gravidanza nel
caso in cui la malformazione comprometta seriamente la vita del feto.
Le malformazioni in gravidanza vengono valutate con le ecografie morfologiche dopo il terzo trimestre.
Lo studio di queste malformazioni può essere indicativo anche della presenza di cause ambientali che le
favoriscono (si pensi al territorio tarantino dell’ILVA) in modo da bonificare il territorio dopo conferme
ottenute da studi di carattere epidemiologico.

P.S. Alcune malformazioni possono anche essere curate durante la gravidanza.

MALFORMAZIONI DELL’APPARATO RESPIRATORIO


Le malformazioni dell’apparato respiratorio non sono particolarmente frequenti, diversamente da quelle
gastroenteriche, cardiache, renali o nervose che sono più diffuse.
Allo stesso modo, però, molte di esse sono compatibili con la vita perché il polmone è un organo pari e, di
solito, queste malformazioni colpiscono un unico polmone, lasciando l’altro libero di funzionare o,
addirittura, colpiscono un unico lobo.
Già con l’ecografia morfologica in gravidanza si può capire se la malformazione è compatibile con la vita o
meno.
Quando prima si partoriva in casa senza controlli o ancora oggigiorno nei paesi sottosviluppati, di queste
malformazioni non si aveva conoscenza prima della nascita. Generalmente la malformazione polmonare si
metteva in evidenza casualmente in età adulta solo in occasione di indagini (es. Rx torace) fatte per
l’insorgenza di malattie respiratorie del soggetto.

Il soggetto può nascere, infatti, con malformazioni che riguardano le strutture subsegmentarie del
polmone, cioè quelle che si trovano a valle del bronchiolo respiratorio terminale, dove sono presenti gli
alveoli. Si possono realizzare, quindi, dei quadri in cui l’unità di scambio alveolo-capillare non si forma
oppure si forma in alcuni lobi ma non in tutti. Il soggetto può nascere, quindi, con dei quadri malformativi
parziali che riguardano le strutture subsegmentarie e che si manifestano, per esempio, sotto forma di cisti,
dilatazioni o bronchiectasie, che si mettono in evidenza man mano che il bambino cresce mediante
infezioni ricorrenti polmonari in corso di visita pneumologica.

SVILUPPO EMBRIONALE DELL’APPARATO RESPIRATORIO

Per comprendere quali siano le alterazioni principali di trachea, bronchi e parenchima polmonare, bisogna
ricordare lo sviluppo embrionale.

Innanzitutto l’anatomia insegna che vi sono:

• due bronchi principali a sinistra

• tre bronchi principali a destra

• due lobi polmonari a sinistra

• tre lobi polmonari a destra


L’apparato respiratorio prende origine dal
solco laringotracheale (una diramazione
dell’intestino primordiale). Quindi,
prende origine dall’intestino primitivo (di
derivazione endodermica), da cui
anteriormente si diparte una piccola
estroflessione: la gemma polmonare.
Questa gemma si mette in evidenza dal
primo mese di gravidanza al secondo,
cioè nel PERIODO EMBRIONALE della
gravidanza (che va dal primo mese
all’inizio del secondo mese di gravidanza),
cioè in una fase precocissima della
gestazione.
Se in questo periodo la madre si espone a
farmaci particolari o radiazioni (vedi TAC),
questi agenti possono bloccare la
formazione della gemma polmonare e lo
sviluppo dell’apparato tracheo-bronco-
polmonare. Si ha, quindi, una agenesia
dell’apparato con conseguente aborto
precoce a causa dell’incompatibilità con la vita.
Questo si associa, inoltre, a malformazione
dell’intestino primitivo e, quindi, una situazione
catastrofica incompatibile con la vita.

P.S. La gravidanza dura 9 mesi, in media 36-38


settimane.

P.S. L’embriogenesi dell'apparato respiratorio segue


una sequenza ben precisa di eventi:
• PERIODO EMBRIONALE: la gemma polmonare comincia a evidenziarsi a partire dalla 4 settimana di
gestazione. Questo periodo lo definiamo anche periodo dell’abbozzo embrionale (4-5 settimana di
gestazione)
• PERIODO PSUEDOGHIANDOLARE: è il periodo in cui cominciano a formarsi le strutture bronchiali e
bronchiolari (6-16 settimana di gestazione)
• PERIODO CANALICOLARE: in questo periodo sono presenti le strutture intraparenchimali poste a valle del
bronchiolo respiratorio terminale (16-28 settimana di gestazione)
• PERIODO SACCIFORME: si formano i dotti alveolari che sono ramificazioni a valle del bronchiolo terminale
(28-34 settimana di gestazione)
• PERIODO ALVEOLARE: si formano gli alveoli che sono più numerosi a valle dei dotti alveolari. Infatti a
monte dei dotti alveolari gli alveoli sono rari (35-36 settimana di gestazione).

I due periodi critici dello sviluppo dell’apparato tracheo-bronco-polmonare sono:

• PERIODO PSEUDOGHIANDOLARE (dal 2° al 4° mese)

• PERIODO CANALICOLARE (dal 5° al 7° mese)


Una noxa patogena (vedi alterazioni molecolari,
infezioni, farmaci, radiazioni e altri) che agisce nei
primi 7 mesi di gravidanza, cioè durante questi
periodi critici, quindi, può essere responsabile di
quadri malformativi dell’apparato tracheo-bronco-
polmonare, più o meno compatibili con la vita.

Nel PERIODO PSEUDOGHIANDOLARE si ha lo


sviluppo delle vie aeree distali fino ai bronchioli
respiratori terminali. Dalla gemma polmonare
prendono origine le gemme bronchiali primarie di
destra e di sinistra che insieme al mesenchima
pleurico si accresceranno. Da queste ultime
prendono origine le gemme bronchiali secondarie,
in numero di 3 a destra e 2 a sinistra (1° mese) e da queste quelle terziarie (2° mese) che daranno origine,
insieme al mesenchima pleurico e al mesoderma, all’abbozzo polmonare.
Nel periodo pseudoghiandolare le gemme terziarie continuano a dividersi ma arrestano il loro sviluppo al
bronchiolo respiratorio terminale, il quale è caratterizzato ancora dalla presenza di cartilagine di sostegno e
da epitelio di rivestimento ciliato (come quello bronchiale).
A valle del bronchiolo respiratorio terminale si trovano, però, le strutture sacculari o acinari, che si
formano, invece, durante il PERIODO CANALICOLARE. Nel periodo canalicolare si sviluppa, quindi, l’unità di
scambio alveolo-capillare.

Se una noxa patogena agisce entro il 7° mese di sviluppo non si ha questo sviluppo: gli alveoli non si
formano, il polmone è costituito solo da bronchioli respiratori terminali e, così, si configura la cosiddetta
MALFORMAZIONE ADENOMATOIDE. Essa, è caratterizzata da una crescita esuberante del parenchima
polmonare che risulta privo di alveoli cioè manca l’unità di scambio alveolo-capillare. Questa
malformazione può essere diffusa a tutto il parenchima ma, in genere, è settorializzata (interessa ad
esempio un solo lobo, monolaterale o bilaterale). A questo punto bisogna decidere se far nascere un
neonato che ha un quadro malformativo adenomatoide dal momento che alla nascita avrà probabilmente
difficoltà respiratorie perché mancano le unità di scambio alveolo-capillari o addirittura non respirerà mai
morendo alla nascita. Nascono, quindi, tutta una serie di problemi etici sia per il dottore che per la madre.
Però, dato che questa patologia si accompagna frequentemente ad alterazioni di altri organi, generalmente
è indicativa una interruzione terapeutica di gravidanza. All’esame istologico si vede un polmone fetale che
presenta una crescita esuberante delle strutture bronchiolari terminali.

A partire dall’8° mese di gravidanza maturano le strutture alveolari. Dall’istologia sappiamo che a valle dei
bronchioli respiratori terminali compaiono gli pneumociti di tipo II che producono il surfactante, cioè il
tensioattivo che abbassa la tensione superficiale e, quindi, aiuta a distendere gli alveoli alla nascita per
garantire gli atti respiratori. Inoltre, il surfactante è fondamentale perché è un agente antiedemigeno.

Questo è molto importante, in quanto, il nato prematuro tra il 7° e l’8° mese, in cui gli pneumociti non sono
ancora maturi, non riesce a respirare. Quindi, nasce vivo ma, poi, muore immediatamente. Questa
condizione è nota come MALATTIA DA MEMBRANE IALINE o ATELETTASIA CONGENITA, cioè si assiste al
collasso del polmone, che non si espande perché, congenitamente, è presente questa malformazione, cioè
la mancata formazione degli pneumociti.

Il surfactante è una sostanza particolare che è formata inizialmente da sfingomielina che, poi, viene
trasformata in di-palmitato il quale si modifica. Questo tensioattivo ha, quindi, una chimica che si modifica
durante le settimane di gravidanza e, perciò, un parto precoce che si verifica prima della 36esima settimana
è a rischio per il neonato perché l’alveolo si è formato per cui l’unità di scambio alveolo-capillare è presente
ma gli pneumociti di II ordine non hanno ancora prodotto il surfactante maturo in grado di abbassare la
tensione superficiale e di svolgere la funzione anti-edemigena. Il neonato, allora, nasce, compie i primi atti
respiratori, i polmoni si dilatano inizialmente e, poi, collassano. Se manca l’effetto anti-edemigeno si
verifica il passaggio di fibrina dal capillare nell’alveolo per cui si crea una situazione di ipossia progressiva
che porta il neonato alla morte.

Questa condizione di mancata maturazione degli pneumociti, è una condizione frequentisisma. Può
succedere che, in parti prematuri che si verificano prima della 36esima settimana, che è la settimana esatta
in cui il surfactante è maturo al 100%, il neonato nasca vivo ma muore subito dopo (malattia da membrane
ialine o atelettasia congenita).

Le malformazioni congenite possono essere dovute ad una pletora infinita di cause di cui non se conoscono
in modo particolare di precise (farmaci, radiazioni, inquinamento ambientale, alterazioni genetiche,
ipovitaminosi, fattori carenziali vitaminici, etc..). I registri regionali, però, delle malformazioni congenite
stanno prendendo pian piano corpo e vita perché a livello nazionale si riescono a mappare aree a più alto
rischio o a più basso rischio per lo sviluppo di questi quadri malformativi in generale in modo da identificare
la reale incidenza delle varie cause.

Cominciamo ad analizzare le malformazioni che interessano l’apparato bronco-polmonare, partendo dalle


MALFORMAZIONI DELLA TRACHEA.
La classificazione delle malformazioni della trachea è la seguente:

• AGENESIA: è la situazione più grave che vede la mancata formazione dell’organo: la gemma
polmonare al primo mese non si è formata. Se manca la trachea, mancheranno i bronchi, mancherà
il polmone per cui si tratta di una condizione incompatibile con la vita. Dal momento che l’abbozzo
polmonare è endodermico, generalmente questa condizione è associata ad altre malformazioni
dell’apparato digerente (vedi agenesia dell’esofago o dell’intestino). Tutto questo determina
generalmente aborto precoce nel primo/secondo mese di gravidanza. Sono talmente precoci questi
aborti che quando una donna va a fare il raschiamento si osservano gli elementi della placenta che
cominciano a formarsi, le modificazioni di tipo gravidico dell’endometrio ma non si vede più
l’embrione. In questi casi si parla di “UOVI CIECHI”. L’ecografista durante l’ecografia non riconosce
più l’embrione e le beta-hCG scendono. Gli uovi ciechi sono aborti precocissimi da malformazioni
nel primo mese di gravidanza.

• ATRESIA: la trachea non viene canalizzata per alterazione del meccanismo di apoptosi. Si tratta di
una condizione incompatibile con la vita. Dal momento che anche altri organi vengono canalizzati
durante lo sviluppo embrionale può accadere che sia presente una atresia di più organi.
Generalmente l’atresia della trachea è associata a quella dell’esofago avendo le due strutture la
stessa origine embriologica.

• STENOSI CONGENITA: cioè riduzione del lume della trachea dovuta al fatto che il setto
mesodermico che separa trachea ed esofago determina una regione in cui l’esofago è più grande e
la trachea è più piccola per un suo lieve sbandamento rispetto all’asse verticale. Se la riduzione è
serrata, allora il pediatra se ne accorge per la difficoltà respiratoria del neonato ma, qualora non
fosse serrata, potremmo anche accadere che nessuno se ne accorga mai perché il soggetto riesce a
respirare regolarmente al massimo, in corso di attività fisica, presenta un lieve affanno. Questa
malformazione è perfettamente compatibile con la vita. Solitamente si ci accorge di avere una
stenosi congenita quando l’anestesista, dovendo intubare il paziente, incontra una serie di difficoltà
nell’inserire la sonda.

• MEGATRACHEA (o DILATAZIONE CONGENITA): cioè una trachea più dilatata rispetto al normale.
Essa è dovuta ad una lassità congenita dei tessuti che avvolgono l’organo (cartilagine non ben
formata, fibre muscolari più lasse). Durante gli atti respiratori (cosa che si evidenzia soprattutto
nello sportivo) la respirazione forzata, a causa della lassità dei tessuti, può favorire la dilatazione
dell’organo. È una malformazione compatibile con la vita. Magari molti di noi ce l’hanno ma non
sanno di averla

P.S. Le malformazioni congenite si devono conoscere perché il neonato può morire, non alla nascita, ma
magari in culla: la mamma mette il neonato a dormire dopo la poppata e, dopo alcune ore, lo trova morto.

• FISTOLE TRACHEO-ESOFAGEE: sono le malformazioni più temute. Fistola tracheo-esofagea vuol


dire comunicazione tra trachea ed esofago. Questa comunicazione si forma perché la derivazione
embriologica è la stessa, ovvero l’intestino primitivo: la trachea e, quindi, il polmone nascono dalla
gemma polmonare, che è situata al davanti dell’esofago, e via via si separa da esso ad opera di un
SETTO MESODERMICO, il quale divide la trachea dall’intestino primitivo, ovvero dall’esofago.
Può succedere, purtroppo, in alcuni neonati che la trachea non si separi in maniera adeguata
dall’esofago e, quindi, resti in comunicazione con l’esofago (fistola tracheo-esofagea).
Generalmente, in questi casi, si osserva un esofago atresico, ovvero privo di lume. Quindi la
comunicazione tra la trachea e l’esofago, che in genere si realizza per questa cattiva
sepimentazione ad opera del setto mesodermico, è caratterizzata anche dalla atresia dell’esofago
(cioè un organo privo di lume).

P.S. Durante la gravidanza le cavità degli organi con lume (esofago, uretere, vasi sanguigni, ghiandole, etc…)
si formano per apoptosi delle cellule. Se è presente un’anomalia dei geni che controllano l’apoptosi, per
radiazioni o farmaci, la conseguenza è l’atresia di un organo dotato di lume che, durante l’embriogenesi,
non si canalizza.

In genere, più che mancare tutto il lume, si osservano dei LUMI VIRTUALI.
La fistola tracheo-esofagea, con esofago atresico, cioè privo di lume, in genere è una fistola che
vede il passaggio di latte durante la suzione oppure dei succhi gastrici dall’esofago in trachea
proprio per la presenza del lume virtuale. Questo è il motivo per cui il bambino muore dopo la
poppata perché il latte o i succhi gastrici possono passare dall’esofago in trachea determinando la
cosiddetta BRONCO-POLMONITE AB INGESTIS, ovvero passaggio di materiale nell’alveolo che si
infetta e porta alla morte. Bisogna dimostrare con l’esame autoptico la presenza della
malformazione perché la mamma o il papà possono essere incriminati per aver ucciso il bambino
oppure può essere incriminato il ginecologo.
Esistono vari tipi di fistole che il ginecologo riconosce durante l’ecografia morfologica.
- FISTOLA TRACHEO-ESOFAGEA BASSA → esiste una condizione in cui l’esofago superiore è
atresico e la fistola è tra l’esofago inferiore e la trachea, generalmente localizzata a 2,5 cm dalla
biforcazione della trachea.
Questa è una delle condizioni più frequenti in assoluto. Se non viene fatta una buona ecografia
o una buona osservazione non viene riconosciuta subito per cui alla nascita si pensa
semplicemente che il bambino sia pigro nella poppata. In posizione supina, però, i succhi
gastrici risalgono dallo stomaco in trachea attraverso l’esofago inferiore, passano nei polmoni
che si infettano perché i succhi gastrici rappresenteranno materiale estraneo nell’alveolo, fonte
di proliferazione batterica e il bambino può morire per BRONCO-POLMONITE AB INGESTIS.
Però, se il ginecologo e l’ostetrico la riconoscono in gravidanza, si può ricoverare la mamma in
un reparto di alta specializzazione, dove il neonato nasce e viene portato subito in sala
operatoria per la correzione dell’esofago atresico e la chiusura della fistola.

P.S. La correzione dell’esofago atresico consiste in un intervento di chirurgia toracica e gasto-intestinale: si


apre il torace e l’esofago atresico viene sostituito con un pezzetto di ileo che nel tempo si adatta alla
funzione di esofago (perde i villi, acquisisce un epitelio pavimentoso e squamoso). L’esofago è un organo
che cresce nel tempo per raggiungere la lunghezza normale che è di 25 – 26 cm ragion per cui il neonato
andrà incontro a più interventi di chirurgia fino a che la situazione non si stabilizza grazie al blocco della
crescita e dell’altezza. Tuttavia in interventi sul mediastino esistono tutta una serie di fattori di rischio tra
cui ricordiamo le mediastiniti che possono evolvere e portare a morte. Allora di fronte a queste
malformazioni può essere consigliata l’interruzione terapeutica della gravidanza e nel caso in cui i genitori
non acconsentissero, programmare l’intervento in reparti di alta chirurgia.

• FISTOLA TRACHEO-ESOFAGEA SINGOLA in cui l’esofago atresico comunicante con trachea si


presenta a costituire una
tipica forma ad “H”.

• FISTOLA TRACHEO-
ESOFAGEA DOPPIA la quale è
gravissima per il rischio di
broncopolmonite ab ingestis.
Sia il moncone superiore
atresico che quello inferiore
sono collegati con la trachea.

• FISTOLA TRACHEO-
ESOFAGEA ALTA in cui
l’esofago superiore è
collegato con la fistola e
quello inferiore è atresico.

P.S. Per avere broncopolmonite ab ingestis, la comunicazione deve essere aperta, quindi, bisogna avere la
fistola pervia, ma si possono avere anche fistole impervie.

Riguardo alle MALFORMAZIONE BRONCHI ricordiamo:

o AGENESIA cioè la gemma polmonare non si è divisa oppure si è divisa dando origine ad un solo
bronco primario. Si assiste, dunque, alla mancanza del bronco principale.
Si può avere anche agenesia della gemma secondaria o terziaria con, ad esempio, mancanza del
bronco lobare.
Possiamo avere allora situazioni che possono essere incompatibili o compatibili con la vita a
seconda che l’agenesia sia bilaterale o monolaterale.
o APLASIA: il bronco si forma ma è un abbozzo rudimentale e, quindi, non è funzionante.
o STENOSI BRONCHIALI CONGENITE: cioè sono presenti tratti di lume stenotici. Molte di queste
stenosi sono, però, acquisite come conseguenza a processi infiammatori. Infatti, quelle congenite
sono rare e difficili da individuare.
o ATRESIA: cioè presenza di un bronco ma privo di lume. È una situazione compatibile con la vita. Si
può avere un bronco lobare o soprannumerario ossia in eccesso con conseguente lobo polmonare
in eccesso.
o BRONCO SOVRANNUMERARIO: si forma un abbozzo polmonare soprannumerario e, quindi, lobi
polmonari soprannumerari. Questi abbozzi di bronco e lobo polmonare soprannumerari possono
essere silenti ma, poiché spesso hanno vascolarizzazione propria, cioè sono dotati di propri rami
che derivano direttamente dall'aorta e non ventilano, vanno incontro a stasi ematica,
rappresentando punti di sviluppo di processi flogistici, infettivi o tumorali.
Tra le MALFORMAZIONI POLMONARI ricordiamo, invece, l’AGENESIA che può essere:

o BILATERALE

o MONOLATERALE
Si distinguono AGENESIE POLMONARE MONO/UNILATERALE:

− DI TIPO I → manca un bronco principale e, quindi, il polmone


omolaterale
− DI TIPO II → si osserva un abbozzo bronchiale in corrispondenza
della carena tracheale con conseguente abbozzo di parenchima
polmonare. Questo parenchima polmonare rudimentale può
essere sede di cancro, di processi infiammatori e, quindi, di
ascessi polmonari o gangrene per cui questa forma è più
pericolosa creando problemi dal punto di vista clinico.
− MALFORMAZIONI SUBLOBARI, cioè le strutture bronchiolari non
si formano ossia si creano delle anomalie di sviluppo dei
bronchioli e dei bronchi segmentari, subsegmentari sino ad
arrivare al bronchiolo respiratorio terminale. Se si osservano
situazioni con dilatazioni cistiche polmonari, si parla di:
o CISTI SOLITARIE CONGENITE
o POLMONE POLICISTICO che può essere:
▪ A SACCO DI KAUFMANN se in forma
macrocistica con una sola cisti
▪ A FAVO se sono presenti tante piccole cisti. Il polmone microcistico (o a favo
congenito) va in diagnosi differenziale con il polmone microcistico con
interstiziopatia fibrosante cioè caratterizzato da fibrosi polmonare
• MALFORMAZIONE ADENOMATOIDE CISTICA la quale si osserva sin dalla nascita o in età infantile. È
caratterizzata da un’eccessiva crescita del tessuto polmonare nella regione dei bronchioli terminali
con soppressione della crescita alveolare. La conseguenza è un polmone che si gonfia in esubero e
costituito da bronchioli respiratori terminali con aspetto caratteristico che fanno assumere al
parenchima un aspetto cistico. Questa malformazione adenomatoide cistica si associa spesso ad
altre malformazioni ragion per cui è consigliata la interruzione di gravidanza perché la
sopravvivenza del neonato è molto compromessa. Spesso, infatti, il cuore compresso dal polmone
ringonfio va in arresto cardiaco. Si possono avere anche degli ABBOZZI DI POLMONE IN ECCESSO
quindi bronchi principali in eccesso e lobi polmonari in eccesso. Si formano cioè polmoni
soprannumerari che possono funzionare in maniera autonoma dal punto di vista circolatorio ma
non respiratorio. Sono spesso sede di processi infiammatori e vengono alcune volte scoperti con
ascessi polmonari o gangrene polmonari. Possono essere sede di sviluppo di cancro polmonare.

Esistono, poi, anche MALFORMAZIONI NUMERICHE IN ECCESSO cioè lobi polmonari sovrannumerari con
bronchi soprannumerari, circolazione sanguigna anomala, etc…
ANOMALIE DEL CONTENUTO AEREO

Le malformazioni dell’albero tracheo-bronco-polmonare sono solo una piccolissima parte delle malattie
polmonari. Le patologie polmonari, infatti, si distinguono in neoplastiche e non.
Per quanto riguarda le malattie non neoplastiche bisogna considerare due patologie particolarmente
frequenti che vengono inserite nel capitolo delle ANOMALIE DEL CONTENUTO AEREO, cioè patologie legate
ad:
• ARIA IN ECCESSO (→ polmone gonfio ed enfisematoso)
• ARIA IN DIFETTO (→ polmone atelettasico e privo di aria perché si è sgonfiato o perché non ha mai
ventilato)
L’alterazione del contenuto aereo in difetto prende il nome di ATELETTASIA POLMONARE. In questo caso si
osserva una riduzione del contenuto aereo o, addirittura, mancata aereazione dei polmoni.
Atelettasia è, infatti, un termine che deriva dal greco ateles, imperfetto ed éktasis, distensione e sta ad
indicare proprio una alterata distensione dell’alveolo polmonare. Questa alterazione nell’espansione
dell’alveolo può essere distinta in due tipologie:
• ATELETTASIA DI TIPO PRIMARIO (o CONGENITA) se la riduzione di aria nei polmoni si verifica dalla
nascita o subito dopo la nascita
• ATELETTASIA DI TIPO SECONDARIO (o ACQUISITE) se i polmoni risultano privi di aria come
conseguenza di altre patologie

Sicuramente la forma più grave e più preoccupante è l’atelettasia primaria, cioè quella che riguarda i
neonati che, per l’appunto, nascono vivi ma muoiono a distanza di mezz’ora/un’ora dalla nascita.
Le forme secondarie sono degli svuotamenti del contenuto aereo secondari ad altre situazioni patologiche.
Spesso sono reversibili nel senso che, rimuovendo la causa che ha sgonfiato il polmone, quest’ultimo si
riesce ad espandere.
La differenza è data dal fatto che nell’atelettasia primaria viene compromesso il surfactante che, invece,
nelle atelettasie secondarie non è coinvolto.

ATELETTASIE ACQUISITE
Le atelettasie acquisite sono dovute allo svuotamento del contenuto aereo polmonare per cause:
- OSTRUTTIVE: è presente una condizione che ostruisce il bronco, dunque l’aria non entra. Se non entra
l’aria, quella presente si riassorbe. Normalmente, esistono dei meccanismi di comunicazione tra gli
alveoli, cioè i canali di Kohn: dunque l’aria residua in un alveolo non viene buttata fuori ma si sposta
negli alveoli vicini che ancora sopravvivono, pertanto il polmone o il parenchima polmonare che è
tributario di quel bronco ostruito via via collassa e si sgonfia.
- NON OSTRUTTIVE: si tratta di cause COMPRESSIVE, cioè tutte quelle cause che comprimono il
parenchima polmonare, per cui l’aria per quanto ci si sforzi non entra o ne entra talmente poca che ne
consegue una condizione di atelettasia. Alternativamente, l’atelettasia non ostruttiva può essere
causata da CONTRAZIONE.
Comunque sia, tutte le forme di atelettasia acquisita, di natura ostruttiva o non ostruttiva, la maggior parte
delle quali sono reversibili (tranne una), sono caratterizzate clinicamente da un quadro di INSUFFICIENZA
RESPIRATORIA, cioè di dispnea.
Le insufficienze respiratorie possono essere distinte in due tipi fondamentali: su base ostruttiva o su base
non ostruttiva.
In tutti i quadri di atelettasia acquisita si ha insufficienza respiratoria di tipo ostruttivo o restrittivo in base
alla causa che l’ha determinata.
Tra le atelettasie non ostruttive, da compressione o da contrazione, quella reversibile è quella da
compressione, perché rimuovendo la causa compressiva il polmone si riespande. L’ATELETTASIA DA
CONTRAZIONE è, invece, l’unica atelettasia acquisita irreversibile: questo perché il polmone si attacca alla
parete toracica per un meccanismo di fibrosi (fibrotorace) in seguito a continue pleuriti per cui il polmone
in questione è incarcerato da una fibrosi pleurica irreversibile. Durante un esame autoptico, il polmone che
presenta questa condizione viene staccato a pezzi dalla parete toracica perché questo vi resta adeso.
Questo polmone incarcerato non può espandersi, resta contratto rendendo la condizione irreversibile.
La conseguenza di una ATELETTASIA ACQUISITA DA OSTRUZIONE è lo svuotamento del territorio
polmonare a valle, quindi degli alveoli, con riassorbimento dell’aria intrappolata negli alveoli dipendenti.
A livello dell’unità di scambio alveolo-capillare non si registrano
danni: ecco perché quando si elimina la causa e il polmone si
riespande, la situazione ritorna assolutamente nella norma.
Quindi, nelle atelettasie da ostruzione non c’è danno a livello
capillare. È ovvio che il territorio polmonare atelettasico si
riespande se si rimuove velocemente la causa dell’ostruzione
perché, se si tarda, il polmone atelettasico tenderà ad
organizzarsi in senso fibroso. Quindi, la reversibilità del processo
dipende dalla tempestività dell’intervento.
Se l’ostruzione riguarda un grosso ramo bronchiale, la situazione
può compromettere la vita del soggetto perché questi non
respira più. È quello che accade in emergenza quando, in un
bimbo un corpo estraneo che ha inserito nel naso, va ad ostruire
un bronco principale creando una grave insufficienza
respiratoria. Quindi i corpi estranei, soprattutto nei bambini,
possono essere causa di atelettasia ostruttiva.
Altre cause di ostruzione sono le neoplasie, cioè il carcinoma dei
bronchi e il carcinoma polmonare. La maggior parte dei cancri del polmone, infatti, sono ilari, riguardano
cioè l’ilo polmonare per cui una massa neoplastica che vegeta nel lume bronchiale crea un’atelettasia del
territorio a valle, di conseguenza, il paziente lamenta una dispnea ingravescente via via accompagnata da
altri sintomi, come tosse accompagnata da un espettorato striato di sangue.
Infine, tutti i processi infiammatori che riguardano i bronchi ma anche l’interstizio polmonare, cioè il
parenchima polmonare in senso stretto, possono essere causa di ostruzione bronchiale. I processi
infiammatori provocano un ispessimento fibrotico del parenchima polmonare, se si considera l’interstizio,
oppure la fibrosi di un bronco provoca un restringimento, cioè una stenosi.
Qualsiasi processo infiammatorio dell’albero bronco-polmonare, quindi le bronchiti, le broncopolmoniti,
l’asma, cioè tutti quei processi infiammatori che provocano la formazione di muco, sono causa di
atelettasia, in quanto i tappi di muco creano a valle del territorio bronchiale interessato atelettasia.
Se si osserva atelettasia laddove sono presenti focolai o tappi di muco, si osserva anche enfisema, cioè
un’area con alveoli rigonfi perché il parenchima vicino cerca di sopperire al mancato funzionamento
riempendosi il più possibile di aria. Quindi laddove c’è un tratto di parenchima atelettasico, vicino c’è
sempre un enfisema vicario, cioè degli alveoli dilatati.

Nell’ATELETTASIA ACQUISITA DA COMPRESSIONE il parenchima


polmonare si svuota di aria se qualcosa dall’esterno spinge su di esso.
Per esempio, la compressione può essere causata da liquido presente
nel cavo pleurico oppure da aria presente sempre nel cavo pleurico.
Probabilmente è presente un enfisema sottocutaneo, perché durante il
prelievo effettuato di norma per stabilire se è presente una neoplasia
polmonare probabilmente si rompe una bolla enfisematosa e, quindi, si
libera aria.
Quindi la compressione può essere dovuta alla presenza di liquido nel
cavo pleurico, per esempio liquido sieroso, liquido siero-emorragico,
liquido purulento, come conseguenza di varie malattie, soprattutto
infiammatorie che portano all’accumulo di liquido, cioè di versamento
nel cavo pleurico. Negli anziani con scompenso cardiaco è frequente il
versamento pleurico sieroso da anomala circolazione del flusso
ematico. Infatti, spesso i pazienti con scompenso cardiaco possono
avere falde di liquido nelle aree declivi del torace. Quindi l’anziano, nei
casi di scompenso cardiaco, spesso ha delle falde di versamento
polmonare che oscurano ad una radiografia il parenchima polmonare sottostante che risulta atelettasico.
La compressione si può verificare non solo per la presenza di liquido nel cavo pleurico, ma anche per la
presenza di aria: si parla, cioè, di compressione da aria. La rottura di una bolla d’aria, come succede nelle
bronchiectasie, nelle malformazioni cistiche del polmone o nell’enfisema, può creare uno
PNEUMOTORACE, cioè l’accumulo di aria nel cavo pleurico.
Questa situazione si può verificare, per esempio, durante un allenamento di pallacanestro, di atletica, etc…
l’atleta cade per terra e diventa cianotico. È bene chiamare il 118 perché i medici in ambulanza sono pronti
a capire se si tratta di pneumotorace attraverso un esame obiettivo del paziente. Già nel trasporto in
ambulanza può essere inserito, infatti, un ago da siringa tra gli spazi intercostali per far fuoriuscire l’aria.
Svuotando il cavo pleurico di aria, il polmone riprende ad espandersi. Poi ovviamente in chirurgia toracica si
decide se operare e ricucire l’area del polmone sottostante dove è avvenuta la rottura della bolla d’aria
oppure no.
La compressione può essere dovuta, oltre che alla presenza di liquido o di aria nel cavo pleurico, anche ad
una neoplasia (→ massa occupante spazio), cioè qualsiasi neoplasia che interessa la pleura (neoplasie
pleuriche) dato che la pleura neoplastica schiaccia, per accrescimento della neoplasia stessa, il parenchima
polmonare sottostante oppure qualsiasi massa tumorale all’interno del parenchima polmonare (neoplasia
polmonare). In questi casi si osserva sempre atelettasia che circonda la neoplasia ed enfisema vicariante.
Bisogna prendere in considerazione anche le atelettasie da compressione causate dalla presenza di masse
endoaddominali, cioè masse all’interno dell’addome che schiacciano il diaframma (vedi grossa massa
neoplastica epatica e atelettasia dei lobi basali del polmone di destra).
Esistono anche delle condizioni congenite di diaframma lasso in cui il diaframma non mantiene la sua
posizione durante gli atti respiratori ma è rilassato, ad esempio, solo da un lato. Il rilassamento del
diaframma schiaccia i polmoni in alto determinando spesso atelettasia. Questa atelettasia tende poi a
peggiorare man mano che il soggetto diventa anziano.
Anche gli obesi presentano atelettasia compressiva per aumento del volume addominale determinando
dispnea. L’atelettasia polmonare è un problema che preoccupa, per esempio, il chirurgo quando decide di
operare un grande obeso. Inoltre il grande obeso crea disagio perché necessita di un letto operatorio di
particolari dimensioni, di una TAC aperta, etc.... Il problema grave lo hanno gli anestesisti che devono
intubare e assistere con la ventilazione questi obesi che hanno i polmoni schiacciati verso l’apice
polmonare. Quindi, importante è il discorso della terapia dell’obesità e della prevenzione dell’obesità a
partire dalle scuole.
Quindi qualsiasi condizione in cui viene schiacciato il diaframma causa insufficienza respiratoria per
atelettasia da compressione.
Altre possibilità di atelettasia da compressione sono, poi, l’adenomegalia, cioè l’aumento del volume dei
linfonodi oppure la fibrosi interstiziale.

L’ATELETTASIA DA CONTRAZIONE è una forma di atelettasia


irreversibile perché frutto di una fibrosi della pleura (vedi pleuriti
croniche fibrosanti che portano ad una fibrosi massiva della pleura e
che riguardano alcune categorie di lavoratori esposti a polveri
fibrosanti o sclerosanti) che portano ad un incarceramento
polmonare dato che la pleura si attacca alla parete toracica
(FIBROTORACE). Il polmone non può espandersi normalmente ed il
paziente va incontro ad insufficienza respiratoria restrittiva e non
ostruttiva perché l’aria entra poco con difficoltà per cui il polmone si
restringe dato che l’aria non riesce ad accumularsi in maniera
adeguata.
Questa situazione si ripercuote sul cuore determinando uno
scompenso cardio-congestizio con un cuore polmonare cronico dato
che sono le sezioni destre del cuore che via via ne risentono fino a
portare a morte il soggetto.
In genere i pazienti con atelettasia da contrazione camminano con la
bombola d’ossigeno: hanno un enfisema o altre patologie come una fibrosi polmonare restrittiva e
necessitano di ossigeno perché la dispnea è sempre più forte e la contrazione cardiaca è sempre più
difficoltosa dato che il cuore man mano che si scompensa, si dilata. Le sezioni destre pompano con
difficoltà sangue in un polmone che non riesce ad ossigenare, ad areare in maniera adeguata. Quella da
contrazione è l’unica forma di atelettasia irreversibile.
Il polmone tutto atelettasico è compatto, di colorito rosso vinoso (rosso scuro) e privo d’aria tanto che
messo in acqua affonda immediatamente. Questa pratica è definita dal medico legale PROVA
DOCIMASICA. È un’operazione che si fa in sala autoptica sui neonati nati vivi che poi muoiono. Serve a
vedere se il polmone ha contenuto aereo o meno. Se affonda velocemente in acqua vuol dire che non c’è
aria perché è pesante, se c’è aria, invece, tende a scendere nel bicchiere o lavandino lentamente.

Se l’area atelettasica, come normalmente succede, è focale si presenta rispetto al territorio polmonare
vicino come un’area di colorito rosso vinoso (mentre quello vicino è roseo) in genere di forma triangolare
con l’apice rivolto verso il punto dell’ostruzione e la base verso la superficie pleurica. L’area triangolare di
colorito rosso scuro è la stessa che si vede nell’infarto emorragico del polmone, con la stessa distribuzione,
con l’apice verso l’ilo e la base verso la superficie pleurica, però, l’infarto emorragico è un infarto in cui il
polmone e l’area interessata si riempiono di sangue per cui l’area è sopraelevata rispetto al parenchima
polmonare circostante. Se c’è atelettasia, l’area rosso vinosa compatta è un’area triangolare avallata,
depressa rispetto al parenchima polmonare circostante che è areato e che, addirittura, presenta un
enfisema vicario, compensatorio.
Quindi, le aree atelettasiche sono per lo più circoscritte, brunastre e depresse rispetto al parenchima
circostante che è sopraelevato e roseo.

Ricapitolando la diagnosi differenziale rispetto all’infarto emorragico consiste nel distinguere aree
sopraelevate da aree depresse.

Le atelettasie polmonari acquisite, se la causa non è rimossa rapidamente, possono creare problemi al
paziente perché le aree atelettasiche, svuotate di area e ricche di alveoli collassati offrono un territorio
ideale per lo sviluppo di infezioni polmonari o di processi neoplastici.
Quindi, le aree atelettasiche possono nel tempo, se non si rimuove la causa, essere causa di infezioni e
neoplasie.

La clinica delle atelettasie è:


• DISPNEA progressiva, ingravescente e proporzionale al territorio coinvolto cioè la dispnea è tanto più
intensa quanto più è ampia l’area atelettasica. In piccoli territori terminali del parenchima polmonare può
passare inosservata.
• DOLORE dovuto alla compressione esercitata da un versamento pleurico o da uno pneumotorace. Viene
percepito come un dolore violento indicato particolarmente alla spalla
• TOSSE talvolta insistente e generalmente secca
• CIANOSI che è immediata nella atelettasia ostruente (vedi bambino che mette la biglia nel naso).

Tra le complicanze annoveriamo PROCESSI INFETTIVI, ALTERAZIONI FIBROTICHE e CANCRO.

La DIAGNOSI si basa su:


• TC torace
• radiografia del torace
• broncoscopia utilizzata anche per la rimozione della causa (il broncoscopio è inserito attraverso le
vie nasali in trachea e bronchi per rimuovere i corpi estranei o fare prelievi bioptici per fare
diagnosi di massa neoplastica ostruente il bronco)
• prove di funzionalità respiratoria per evidenziare le varie forme di insufficienza respiratoria
restrittiva o ostruttiva.
La TERAPIA consiste nella rimozione della causa.

ATELETTASIA CONGENITA (o PRIMARIA)


L’atelettasia congenita è una condizione preoccupante sia per il ginecologo che per la coppia dato che se la
gravidanza non viene portata adeguatamente al termine il nascituro può avere problemi di atelettasia
congenita e morire.
Questa condizione di mancanza di aria nel polmone o di polmone che si riempie di aria ma poi si svuota alla
nascita deve essere distinta in due forma caratteristiche:
• Anectasia, cioè la mancanza di aria nel polmone da sempre (→ feto nato morto a termine perché non ha
mai respirato). I polmoni sono anectasici, cioè privi d’aria. Le cause sono tante:
− gravidanza che si interrompe spontaneamente in qualunque periodo della gestazione
− gravidanza a termine con neonato anectasico perché il cordone ombelicale lo ha strozzato
e, quindi, nasce ma morto. Il ginecologo non vede all’ecografia che il cordone si è girato
attorno al collo del neonato. L’ostetrico teme questo problema in tutti i parti perché nei
movimenti del feto (attorno all’ottavo mese il neonato si posiziona con la testa in basso
pronto per la nascita) può girarsi attorno al collo, imbrigliarsi tra collo e piedino o collo e
manina ed un colpo improvviso del feto stesso può causarne la morte per strozzamento.
La prova docimasica è positiva: il polmone del neonato o feto nell’acqua va a fondo immediatamente.
Il polmone è di color rosso vinoso e compatto, di consistenza simile al fegato.
Nel neonato che nasce a 9 mesi col cordone attorno al collo è facile dimostrare la causa di morte così
come nel distacco della placenta.

• Atelectasia congenita (o neonatale o malattia da membrane ialine o malattia da distress respiratorio


neonatale): il neonato nasce, respira e muore a distanza di alcune ore dalla nascita.
Questa condizione preoccupa di più perché il parto si realizza regolarmente ma il neonato, dopo 6-12h
dalla nascita, comincia ad andare incontro a distress respiratorio, cioè insufficienza respiratoria
progressiva tanto da portarlo a morte se non si interviene subito. Questa atelettasia può essere prevista
per cui bisogna informare la coppia del rischio in modo da poter salvare il neonato.
Per comprendere questa malattia dobbiamo chiarire, però, chi è il neonato: il neonato è il nato a
termine nelle prime 4 settimane di vita, dopodiché si chiama infante.
In passato il neonato nato prima delle 40 settimane e dal peso inferiore ai 2,5Kg si diceva prematuro e a
rischio di atelettasia congenita. Oggi il termine prematuro non esiste.
L’OMS definisce oggi prematuro un nato prima delle 37 settimane (P.S. Alla 37° settimana si produce il
surfactante) o un nato a termine (40ss) che pesa meno di 2,5Kg (immaturo, sottopeso).
La malattia da membrane ialina si può trovare sempre: in una gravidanza di un neonato che nasce prima
delle 37° settimane, quando il surfactante non è ancora maturo, o in uno che nasce a termine (40ss) ma
è piccolo, immaturo, perché la placenta non ha funzionato, la mamma era diabetica in gravidanza o
fumatrice e, quindi, non fa crescere in maniera adeguata il feto che resta piccolo ed immaturo.
Quindi, se un neonato nasce prima delle 37° settimane vi è il rischio di avere un alveolo polmonare con
un surfactante non adeguatamente formato. Se nasce a termine ma immaturo non ha ancora maturato
l’alveolo per cui avrà surfactante insufficiente nella sua funzione. In questo caso il neonato nasce e
respira ma muore in poco tempo.

P.S. Secondo l’OMS il neonato ha un altissimo rischio di mortalità. Infatti, esso ha il più alto rischio di
mortalità e morbilità rispetto all’infanzia, alla giovinezza, etc...

P.S. La gravidanza dura 9 mesi, in media 40±2 settimane (da 38 a 40 settimane). Soprattutto le primipare
possono andare oltre il termine ma sempre sotto sorveglianza ginecologica o addirittura ricovero della
mamma.
Il peso normale del neonato si aggira, secondo l’OMS, intorno a 3,3Kg±600g.
Durante la gestazione il surfactante prodotto dagli pneumociti di tipo II subisce delle modifiche chimiche e
molecolari.
Il surfactante è una miscela complessa di lecitina (75%) e fosfatidil-glicerolo (10%) la quale può essere
riprodotta in laboratorio in modo da costituire un presidio utile per salvare il neonato che non lo produce.
Esiste, infatti, un surfactante chimico venduto nelle farmacie ospedaliere che può essere somministrato al
neonato che nasce prima delle 37° settimane o a termine ma sottopeso.
La composizione del surfactante cambia nello sviluppo del feto:
− inizialmente, nelle prime settimane di gestazione, è costituito da sfingomielina, che scompare al
termine della gravidanza e lascia il posto alla lecitina e fosfatidil-glicerolo
− dalla 34° alla 40° settimana di gestazione compare la lecitina formata da α-palmitato, cioè è
presente fosfatidilcolina immatura
− prima delle 40 settimane la lecitina è ancora immatura e formata da α-palmitato e non dipalmitato.
Un neonato che nasce prima della 37° settimane è a rischio perché ha una lecitina immatura, che
non funziona come tensioattivo ed antiedemigeno.

Quando il nascituro nasce prima di 37 settimane o a termine ma sottopeso (<2,5Kg), come si verifica in
quasi tutte le gravidanze gemellari o plurigemellari, respira ma compie degli atti respiratori faticosissimi.

P.S. Il primo atto respiratorio del neonato, quello che dilata gli alveoli, è dolorosissimo. Il vagito non è altro
che l’espressione del dolore che il neonato avverte quando inizia a respirare.

Se il surfactante è insufficiente, questo


inizialmente tenta di abbassare la tensione
superficiale alveolare ma non ci riesce. Gli alveoli
si dilatano inizialmente sotto lo sforzo del
bambino ma, poi, collassano.
Il collasso degli alveoli porta ad acidosi metabolica
ed ipossia che danneggia l’epitelio alveolare che
cerca di resistere. Si presenta, dunque, un danno
agli pneumociti di tipo I e II tipo fino a giungere al
collasso progressivo degli alveoli ed all’atelettasia.
Bisogna ricordare, poi, che il surfactante è anche
un antiedemigeno cioè, grazie ad esso, il materiale
presente nei capillari alveolari (in particolare la fibrina) è trattenuta nei capillari.
In sunto, se manca il surfactante si presenta ipossia, acidosi ed edema il quale è peggiorato dall’acidosi
metabolica che danneggia le cellule endoteliali dei capillari per cui la fibrina si sposta in quantità sempre
maggiori negli alveoli.
Se la fibrina si sposta nell’alveolo, il capillare a contatto con l’alveolo vede aumentare sempre più la
distanza con il centro dell’alveolo, alterando l’ossigenazione. Il neonato inizia ad avere dispnea
ingravescente e cianosi progressiva. Inizia, quindi, un distress respiratorio ed il neonato deve essere portato
in terapia intensiva neonatale per essere sottoposto ad un caratteristico trattamento farmacologico:
intubazione per somministrare O2 ad elevata concentrazione in modo da ossigenare il sangue per evitare
che il piccolo muoia e somministrazione di surfactante esogeno.

Esiste, però, un problema relativamente all’ossigeno terapia in quanto l’ossigeno ad elevate concentrazioni
e l’acidosi metabolica creano radicali liberi in eccesso che sono causa di problemi a livello della parete dei
vasi. Il neonato può morire, quindi, per complicanze come:
− EMORRAGIE CEREBRALI
− PERVIETÀ DEL DOTTO DI BOTALLO e, quindi, CARDIOPATIA CONGENITA CIANOGENA che, però, può
essere prevenuta con i salicilati
− ENTERITE NECROTIZZANTE con necrosi dei vasi che irrorano il colon. Questi neonati devono essere
portati di corsa in sala operatoria per asportare il colon.
Questi neonati, in genere, muoiono per emorragia cerebrale o enterite necrotizzante e si è obbligati al
riscontro autoptico, bisogna dimostrare che la morte è stata causata dalla malattia da membrane ialine per
motivi legali e soprattutto per tranquillizzare e mostrare ai genitori, comunque informati dei rischi, che il
decesso è avvenuto per le complicanze legate al distress respiratorio.

P.S. Le membrane ialine si possono visualizzare con la colorazione PAS: l’acido periodico di Schiff (PAS)
dimostra la presenza di fibrina endoalveolare per cui la conclusione diagnostica del referto autoptico
anatomopatologico è: nato a termine con malattia da membrane ialine complicata eventualmente con
emorragia cerebrale o enterite necrotizzante.

Molto importante è anche la SINDROME DA DISTRESS RESPIRATRIO NELL’ADULTO (SDRA).


Purtroppo, sono molto diffuse sostanza tossiche sul territorio, come DROGHE, che sono causa di malattia
da distress respiratorio con membrane ialine nell’adulto. Tra le varie droghe importante è l’eroina sia che
venga assunta per iniezione che per aspirazione.
Il distress respiratorio o la malattia da membrane ialine dell’adulto si può presentare anche in seguito a
TRAUMI TORACICI, incidenti sul lavoro o stradali, EMBOLIA GASSOSA dei palombari, INFEZIONI VIRALI in
particolare l’ebola, etc... o ancora nei casi di POLMONITI AB INGESTIS, soprattutto negli anziani con
demenza o Parkinson, cioè malattie neurodegenerative.
La sindrome da distress respiratorio, che era chiamata Adult Respiratory Distress Syndrome, è in realtà una
sindrome acuta da danno alveolare diffuso acuto.
Si può curare in ospedali con un centro di rianimazione, utilizzando la circolazione extracorporea e la
ventilazione assistita per mettere a riposo il polmone.

ENFISEMA

L’enfisema non è altro che un’altra alterazione del contenuto aereo.

Sappiamo che atelettasia vuol dire riduzione del contenuto aereo che può essere congenita o acquisite, a
seconda degli eventi. Tra le atelettasie le più pericolose sono quelle congenite, cioè quelle neonatali: il
neonato nasce vivo ma muore nell’arco di poche ore dalla nascita per un difetto di funzionamento
dell’apparato o di una carenza del surfactante. Le atelettasie acquisite, invece, sono meno dannose perché
si tratta di forme reversibili, cioè il polmone può essere ricondotto alla normalità riespandendosi. Esiste,
però, una forma di atelettasia acquisita che è considerata irreversibile cioè quella caratterizzata da
fibrotorace. Si tratta di atelettasie da contrazione, cioè causate dall’ispessimento fibroso della pleura che
aderisce alla parete toracica creando la condizione di fibrotorace che impedisce, man mano che il processo
evolve, l’espansione del polmone che, quindi, si svuota.

Definiamo ENFISEMA un aumento del contenuto aereo. Il termine deriva dal greco EMPHYSÀÓ che vuol
dire gonfiare proprio ad indicare la presenza di un polmone gonfio, cioè pieno di aria.
Un eccesso di aria nel polmone, in realtà, si può verificare anche in situazioni banali come, ad esempio, un
eccesso di tosse violenta durante la stagione invernale per laringiti importanti o per malattie come la
pertosse dato che i violenti colpi di tosse caratterizzati da inspirazioni brusche possono creare un aumento,
in alcuni alveoli, del contenuto aereo. Questa condizione, però, non necessariamente è da considerare
malattia.
Questo è il motivo per il quale la vecchia definizione di enfisema del 1959 (enfisema → polmone pieno di
aria, con aria in eccesso) è stata rivalutata, poiché non tutte le condizioni di aumento di contenuto aereo
compromettono la vita del soggetto.

Esiste un ENFISEMA ACUTO che si risolve tranquillamente quando si rimuove la causa vedi respirazione
forzata in corso di:

• TOSSE VIOLENTA per una laringite, per una faringotracheite o per una malattia infettiva come la
pertosse
• COLLUTTAZIONE con tentativo di omicidio (vedi marito che vuole uccidere la propria compagna con
un cuscino sulla faccia. Durante la colluttazione la donna tenta di liberarsi, compie degli atti
inspiratori violenti ma, poi, viene soffocata nuovamente. Si presentano, dunque, atti respiratori
violenti che provocano un enfisema acuto. Se la situazione si risolve, ad esempio qualcuno blocca il
marito, la situazione nella donna ritorna alla normalità)
• ANNEGAMENTO
Dato che tutte queste forme di enfisema acuto si risolvono eliminando la causa, la società americana di
chirurgia toracica e di patologia toracica ha rivisto la definizione di enfisema del 1959 affermando che
esiste un enfisema acuto privo di significato patologico poiché la dilatazione temporanea si risolve se si
rimuove la causa.
Esiste, però, un enfisema cronico che compromette la vita del paziente tanto da portarlo a morte. I soggetti
che hanno enfisema cronico sono destinati a morire perché vanno incontro ad una complicanza cioè il
CUORE POLMONARE CRONICO per sovraccarico cardiaco destro.
La società americana di patologia toracica definisce, quindi, enfisema vero, cioè malattia, solo l’enfisema
cronico. L'OMS dice di considerare questa definizione: dilatazione abnorme e permanente degli spazi aerei
dato che, nell'enfisema acuto, la dilatazione è temporanea poiché reversibile.

L’ENFISEMA CRONICO è, dunque, una dilatazione abnorme, permanente, progressiva degli spazi aerei
distali al bronchiolo respiratorio terminale. Si tratta di una dilatazione abnorme e permanente ma
soprattutto progressiva che porta alla rottura permanente della parete alveolare e, quindi, dei setti
alveolari con compromissione dei capillari dato che questi si trovano nel setto alveolare adiacente
all’alveolo. Si tratta di una malattia progressiva irreversibile non associata a fibrosi dell’interstizio
polmonare.

Per riconoscere un bronchiolo respiratorio terminale basta ricordare alcuni aspetti morfologici:

• la cartilagine bronchiale cessa in corrispondenza del bronchiolo respiratorio terminale, quindi, a


valle del bronchiolo respiratorio terminale non sono più presenti le cartilagini. Questa caratteristica
fa sì che i sacchi alveolari e i duttuli a valle siano in grado di andare più facilmente incontro a
dilatazione
• nei bronchioli terminali non è presente una grande quantità di tonaca muscolare, cioè di
componente muscolare della parete
• nei bronchioli terminali non sono presenti le cellule ciliate a livello delle mucose
• via via che ci si porta verso il bronchiolo terminale compaiono gli pneumociti di I tipo e di II tipo.

P.S. Gli pneumociti di II tipo sono responsabili della produzione di surfactante mentre quelli di I tipo sono in
grado di rinnovare di volta in volta l’epitelio di rivestimento dell’alveolo, partecipando anche agli scambi
gassosi.

A causa della compromissione della circolazione sanguigna, in particolare del capillare arterioso, a livello
della circolazione polmonare si osserva ipertensione polmonare. La distruzione dei capillari determina
alterazione dell’ossigenazione con conseguente aumento della pressione polmonare che si ripercuote sulle
funzioni destre del cuore. Un soggetto che ha un enfisema cronico è un soggetto che, a lungo andare, andrà
in contro a scompenso cardiaco congestizio e, quindi, a cuore polmonare cronico.

Esistono vari tipi di enfisema cronico, come descritto dall’OMS. Di questi quattro tipi i più frequenti sono:

• ENFISEMA CENTROACINARE (95%)


• ENFISEMA PANACINARE (5%)

L’ENFISEMA CENTROACINARE (o ENFISEMA


OSTRUTTIVO) riconosce una causa ben
precisa che è l’ostruzione mucosa del
bronchiolo respiratorio terminale con
conseguente dilatazione a valle.
In pratica i tappi di muco ostruiscono il
bronchiolo e, quindi, durante l’atto
respiratorio, l’aria entra ma non esce
completamente, si crea una condizione di air
tracking, di intrappolamento dell’aria
all’interno dell’alveolo. L’aria residua negli
alveoli aumenta progressivamente a partire dal centro dell’acino alveolare o del sacco alveolare e, via via,
coinvolge tutto il territorio a valle del bronchiolo respiratorio terminale.

I soggetti che vanno incontro ad un enfisema cronico centroacinare sono:

• BRONCHITICI CRONICI o meglio tutti i fumatori che diventano nel tempo bronchitici cronici
• ASMATICI i quali a causa di episodi rincorrenti di infiammazione dell’albero bronchiale producono
tappi di muco
• soggetti con la FIBROSI CISTICA
• soggetti con BRONCOETTASIA

In pratica l’enfisema centroacinare è caratterizzato dalla iperproduzione di muco che determina la


dilatazione progressiva dell’acino a valle del bronchiolo respiratorio terminale, con conseguente
intrappolamento di aria e progressiva espansione e dilatazione degli alveoli.

L’ENFISEMA PANACINARE (o ENFISEMA NON OSTRUTTIVO) è così definito perché la dilatazione che si
trova a valle del bronchiolo respiratorio terminale è omogenea coinvolgendo tutto l’acino polmonare.

P.S. Esistono, poi, anche altri tipi di enfisema come l’ENFISEMA PERIACINARE (o PARASETTALE). L’enfisema
periacinare o parasettale lo si osserva in prossimità di aree atelectasiche o fibrotiche (enfisema
consensuale).
Esiste anche un ENFISEMA IRREGOLARE che insorge in modo sparso in alcuni soggetti che hanno avuto
fenomeni infettivi dell’albero respiratorio.
Queste due ultime forme di enfisema, cioè parasettale e irregolare, hanno poco significato da un punto di
vista clinico.

Ricapitolando nell’enfisema non ostruttivo si dilata tutto l’acino a valle del bronchiolo respiratorio
terminale mentre nell’enfisema centrolobulare l’ostruzione crea una dilatazione progressiva dei sacchi
alveolari fino a coinvolgere l’intero acino.

Tra le due forme di enfisema la più frequente è quella centroacinosa (90-95%) che si osserva più
frequentemente nei lobi superiori dei polmoni, nei lobi maggiormente areati del polmone e nei segmenti a
livello dell’apice polmonare dove la rottura della bolla enfisematosa può creare anche come complicanza
cioè lo pneumotorace.
I soggetti colpiti sono i fumatori accaniti ma anche soggetti che hanno iniziato a fumare in età giovanile.
Infatti, il fumo di sigaretta è la causa principale di enfisema cronico ostruttivo dal momento che è
responsabile dello sviluppo di bronchiti croniche. Un soggetto che ha sempre fumato tossisce e sputa
catarro in continuazione. Infatti si tratta di soggetti che, essendo sottoposti a rischio infettivo durante la
stagione invernale, vanno vaccinati. Questi soggetti se influenzati possono facilmente sviluppare bronchiti o
broncopolmoniti aggravando l’enfisema tanto da morire per insufficienza cardiaca.
Oltre ai fumatori, ex fumatori, bronchitici cronici e, soprattutto, soggetti che durante la stagione invernale
non vaccinandosi vanno incontro a fenomeni infettivi a livello polmonare, dobbiamo ricordare che
l’enfisema cronico ostruttivo si presenta in tutti quei soggetti che inalano polveri non fibrosanti o polveri
non sclerosanti, come per esempio i pollini, o polveri come quella di cotone, le quali sono in grado di
innescare reazioni infiammatorie nel polmone. Quindi esiste tutta una serie di soggetti che possono andare
incontro ad enfisema cronico ostruttivo per esposizione lavorativa a polveri allergenizzanti e non.

Gli enfisemi che si presentano in corso di malattie professionali fibrosanti sono dette PNEUMOCONIOSI.
Infatti, l’enfisema cronico ostruttivo può essere anche una complicanza di una fibrosi interstiziale
polmonare, cioè di una pneumoconiosi.

L’ENFISEMA PANACINARE è piuttosto raro (5%) e si presenta più frequente nella base del polmone.
Mentre l’enfisema cronico ostruttivo lo si trova più frequentemente, o almeno all’inizio, nelle porzioni
medio-apicali del polmone, questo è tipico delle basi polmonari.
Può accadere, però, che l’enfisema panacinoso sia semplicemente l’evoluzione di un enfisema centro-
acinare. In questo caso per fare una diagnosi corretta bisogna far riferimento all’anamnesi del paziente la
quale è l’unico mezzo di discernimento per capire se si tratta di un enfisema ostruttivo diventato poi
panacinare oppure di un enfisema panacinare fin dall’inizio.
L’enfisema panacinoso classico si associa al deficit ereditario di α1-antitripsina, enzima prodotto dal fegato
per espressione del gene Pi situato sul braccio lungo del cromosoma 14.

La funzione dell’α1-antitripsina è quella di inibire gli enzimi, in particolare le proteasi e tra queste,
soprattutto, l’elastasi prodotta dai granulociti neutrofili durante i processi infiammatori.
Durante una reazione infiammatoria si producono proteasi come l’elastasi, la tripsina, la chimotripsina,
etc…
Di tutte queste, importante è l’elastasi che è la proteasi in grado di digerire le fibre elastiche, cioè la
componente determinante dei setti alveolari. Normalmente durante un processo infiammatorio si creano
squilibri tra proteasi e anti-proteasi: aumentano le proteasi prodotte dai granulociti neutrofili, in particolare
l’elastasi a discapito dell’α1-antitripsina.
Se il soggetto portatore è un fumatore o un bronchitico cronico, va facilmente incontro a fenomeni
infiammatori creando spesso lo squilibrio tra proteasi e anti-proteasi per cui i setti alveolari si rompono per
la digestione delle fibre elastiche della parete alveolare.

In sunto, man mano che il tappo di muco fa aumentare il volume residuo di aria le pareti si gonfiano, gli
alveoli si dilatano ma la reazione infiammatoria che si è instaurata, perché il soggetto è un bronchitico
cronico, sbilancia proteasi e anti-proteasi a favore delle proteasi. Le proteasi digeriscono le fibre elastiche, il
setto si rompe e via via il processo cronico enfisematoso va avanti.

Nel caso di enfisema paracinare è presente un deficit ereditario di α1-antitripsina. Molte persone sono
portatrici di questa mutazione senza saperlo.
Il gene Pi è un gene polimorfo di cui si conoscono molte varianti alleliche e il genotipo più comune è il
genotipo PiM/PiM. Si è visto, però, che i soggetti che sviluppano per deficienza ereditaria l’enfisema
panacinare presentano, invece, un genotipo PiZ/PiZ. In questi soggetti un banale processo infiammatorio,
preso in giovane età, porta via via alla rottura progressiva dei setti alveolari con digestione delle fibre
elastiche. L’enfisema panacinare è, quindi, anche detto congenito, contrariamente a quello centroacinare
anche detto acquisito.

P.S. La patogenesi dell’enfisema cronico sia esso centrolobulare o panlobulare è legato allo squilibrio
elastasi/anti-elastasi. Questo squilibrio è relativo nei soggetti normali (→ enfisema cronico ostruttivo)
mentre diventa assoluto nei soggetti con deficit enzimatico ereditario.

I soggetti che presentano questa combinazione allelica sono soggetti che, se fumatori, diventano via via
suscettibili a processi infiammatori e sviluppano un enfisema panacinare in età precoce. Si parla di soggetti
che, intorno ai 35 anni, cominciano a sviluppare la malattia con le sue complicanze e conseguenze
cardiache. Se, però, questi soggetti sono non fumatori, l’età di comparsa dell’enfisema si sposta intorno ai
50 anni.
Se, dunque, in reparto arriva un soggetto giovane con un enfisema, la prima cosa da fare è un dosaggio
sierico dell’α1-antitripsina. Solitamente questi soggetti possono arrivare all’osservazione clinica anche per
complicanze cardiache o molto spesso per una malattia epatica, perché i soggetti con deficit di α1-
antitripsina sono esposti a cirrosi epatica metabolica.

In generale la diagnosi di enfisema cronico parte dall’anamnesi del paziente in cui si registra la presenza di
DISPNEA che è tipica dell’enfisema cronico ostruttivo o centroacinare sin da subito mentre si manifesta
tardivamente nell’enfisema cronico non ostruttivo. È presente, poi, TOSSE PRODUTTIVA, cioè con muco,
PERDITA DI PESO e TACHIPNEA associata ad un aumento della frequenza cardiaca.

Se è presente enfisema centroacinoso, alla dispnea per l’ostruzione a livello brochiale si manifesta anche la
CIANOSI. I pazienti sono, infatti, detti anche SOFFIATORI BLU.

Nell’enfisematoso panacinare non ostruttivo, la dispnea è dovuta alla distruzione dei capillari arteriosi
condizione che determina una cattiva ossigenazione. Non a caso la dispnea è tardiva e si presenta
sottosforzo. Non è, però, presente cianosi, infatti questi soggetti vengono detti SOFFIATORI ROSA.

Ci sono altri segni clinici che caratterizzano un enfisematoso cronico rilevabili mediante Rx DEL TORACE:

• IPERTRASPARENZA DEI CAMPI POLMONARI che già si suppone essere presente visitando il paziente
il quale presenta il torace a botte. Infatti, via via che i polmoni si riempiono di aria, spingono in
avanti lo sterno e allargano gli spazi intercostali per cui il diametro antero-posteriore del torace
tende ad eguagliare quello longitudinale.
• ATTENUAZIONE DELLA TRAMA VASCOLARE PERIFERICA: la rottura dei setti interalveolari determina
ialinosi dei capillari che si chiudono. Via via si attenua la trama vascolare e questo è un segno di
aumento dell’ipertensione polmonare
• CUORE AUMENTATO DI VOLUME per lo scompenso funzionale: il cuore non pompa sangue in
maniera adeguata nei polmoni.

Si osservano, poi, ANOMALIE NELLA SPIROMETRIA.

P.S. La spirometria è un esame che valuta i volumi respiratori utile in pneumologia e in medicina del lavoro
per verificare la funzionalità respiratoria ed evidenziare una eventuale insufficienza respiratoria.

In ultimo nei soggetti giovani, dove il quadro di enfisema è presente, si fa un PRELIEVO PER IL DOSAGGIO
DELL’α1-ANTITRIPSINA. Se si evidenzia i deficit bisogna monitorare anche il fegato: ecografia epatica e,
quindi, controllo periodico della funzionalità anche sierica perché questi sono soggetti a rischio di cirrosi
epatica da deficit di α1-antitripsina.

La TERAPIA consiste in:

• correggere o rimuovere la causa quando è possibile


• ossigeno terapia
• terapia antibiotica da somministrare soprattutto negli anziani perché qualsiasi flogosi protratta
aumenta lo squilibrio proteasi-antiproteasi favorendo la rottura dei setti interalveolari con
conseguente peggioramento dell’enfisema.
• profilassi antiallergica, associata a quella antibiotica, se l’enfisema è legato a inalazione di polveri
allergizzanti
• vaccino antinfluenzale
P.S. Questi soggetti costano tantissimo al sistema sanitario nazionale perché sono soggetti cronici e bisogna
seguirli per tutto l’anno con esami etc…

La morte sopraggiunge per scompenso cardiaco poiché si va incontro ad un cuore polmonare cronico.

Morfologicamente, il polmone con enfisema è rigonfio di aria ed assume un aspetto microcistico (con
dilatazioni cistiche di varie dimensioni) e spugnoso.
Durante l’autopsia, i polmoni sono rosei di un colorito roseo pallido con trama antracotica nera
evidentissima. Staccando lo sterno e mettendo in evidenza il cavo toracico questo appare asciutto.
Spingendo con un dito sul polmone, il dito imprime il parenchima perché l’aria si sposta verso l’alveolo
dilatato o gli alveoli rotti vicini per cui rimane l’impronta che, poi, scompare. È come se fosse un cuscino:
mettendo la testa si schiaccia, togliendola il cuscino si riposiziona.
Sfregando sotto le mani il polmone enfisematoso si sente una specie di rumore crepitante come quando si
prende la neve fresca e la si strofina tra le mani vicino l’orecchio oppure quando si strofina tra le mani un
batuffolo di ovatta.
Inoltre, dato che il soggetto muore per il cuore polmonare cronico, si osserva negli alveoli spesso del liquido
edematoso.

Istologicamente gli alveoli sono tutti dilatati, cioè presentano mega bolle.

VERSAMENTI PLEURICI

All’esterno del polmone abbiamo la pleura cioè un foglietto esile, trasparente, costituito da un doppio
strato: pleura viscerale e parietale. Essi scivolano l’uno sull’altro grazie alla presenza di una piccola quantità
di liquido per cui la pleura accompagna il polmone in tutti i suoi movimenti respiratori.
È normalmente presente, a livello pleurico, un epitelio monofilare cioè il mesotelio che è un epitelio
pavimentoso semplice che poggia sulla membrana basale e su un tessuto subpleurico dove è presente una
minima quantità di tessuto adiposo. Questi foglietti pleurici delimitano uno spazio che può andare incontro,
ad esempio, ad accumulo di liquidi oppure a fenomeni aderenziali per cui i due foglietti o si separano tra di
loro per accumulo di versamenti o addirittura possono fondersi perché si formano delle aderenze fibrose
tra entrambi i foglietti. Quindi, lo spazio virtuale può aumentare o scomparire perché si creano queste
situazioni estreme.

Nel cavo pleurico si può accumulare del liquido detto VERSAMENTO il quale può avere le caratteristiche del
trasudato o dell’essudato.

La differenza tra trasudato ed essudato è da ricercarsi nella costituzione tipica del versamento dato che
l’essudato è sempre ricco degli elementi della flogosi e, in particolare, di granulociti polimorfonucleati
mentre il trasudato è caratterizzato da fibrina e da una componente infiammatoria scarsissima, possiamo
dire assente.

I meccanismi che sottendono l’accumulo di un versamento trasudatizio o essudatizio sono:

• AUMENTO DELLA PRESSIONE IDROSTATICA, come succede in corso di ipertensione polmonare


• AUMENTO DELLA PERMEABILITÀ VASCOLARe come succede nei meccanismi di flogosi: quando c’è
una flogosi c’è sempre una dilatazione dei capillari
• RIDUZIONE DELLA PRESSIONE ONCOTICA
• AUMENTO DELLA PRESSIONE NEGATIVA INTRAPLEURICA, come nel caso dell’atelectasia
• RIDOTTO DRENAGGIO LINFATICO

I versamenti pleurici, che si distinguono in versamento infiammatorio (essudatizio) e versamento non


infiammatorio (trasudatizio), assumono denominazioni ben precise.
Il versamento infiammatorio a livello toracico viene detto PIOTORACE o EMPIEMA PLEURICO, cioè
versamento purulento (pus) che si accumula nel cavo pleurico e che necessita di essere drenato.
I versamenti non infiammatori si distinguono, invece, in:

• IDROTORACE: cioè accumulo di liquido nel cavo pleurico come quando accade in corso di:
o insufficienza cardiaca
o insufficienza renale
o cirrosi epatica per la modifica della pressione oncotica
o sindrome di Meigs che è una sindrome caratterizzata dalla presenza di un tumore ovarico,
cioè il fibroma ovarico, e ascite.
• EMOTORACE e CHILOTORACE: in questi casi del sangue/linfa si accumula nel cavo pleurico o in
quello toracico. Un versamento ematico, in genere, si osserva in corso di malattie reumatiche
localizzate in sede pleurica o polmonare, come l’artrite reumatoide o il lupus. Il caso più comune di
versamento ematico nel cavo pleurico è, però, quello presente in corso di processi tumorali: il
cancro metastatico alla pleura o il cancro primitivo della pleura si possono manifestare con la
comparsa di versamento ematico.
Il versamento ematico si può trovare anche in corso della più frequente malattia infettiva della
pleura primitiva o del polmone che si estende alla pleura, cioè la tubercolosi. Quindi, la tubercolosi
può causare versamento ematico, però, di tipo infiammatorio
Il versamento ematico assume un aspetto a “carne lessa”.

Il versamento infiammatorio, l’essudato, ricco di granulociti neutrofili si configura nel cosiddetto piotorace.

MALATTIE INFIAMMATORIE DELLA PLEURA: PLEURITI

Le MALATTIE INFIAMMATORIE DELLA PLEURA (o PLEURITI) possono essere classificate da un punto di vista
topografico in:

• MONOLATERALI, se interessano la pleura di un solo polmone


• BILATERALI, se interessano la pleura di entrambi i polmoni
• DIFFUSE, se interessano tutta la pleura in toto
• SACCATE, se limitate ad alcuni distretti della pleura

In base al decorso clinico cioè in base al tempo che impiega il processo infiammatorio a manifestarsi e a
risolversi, possono essere classificate, invece, in:

• ACUTE, cioè insorgono e si risolvono in poco tempo


• CRONICHE, durano nel tempo, in genere mesi
• SUBACUTE, si tratta di processi flogistici acuti che non si spengono del tutto ma si protraggono fino
a diventare cronici. Molto presente è un infiltrato di linfociti e di plasmacellule.

Inoltre, possono essere classificate in base alle caratteristiche del versamento in pleuriti, per cui processi
infiammatori, con:

• VERSAMENTO SIEROSO
• VERSAMENTO SIERO-FIBRINOSO cioè ricco di fibrina
• VERSAMENTO PREVALENTEMENTE FIBRINOSO
• VERSAMENTO PURULENTO, caratterizzato da una ricca componente granulocitaria
• VERSAMENTO GANGRENOSO con elementi della flogosi e batteri anaerobi che configurano il
quadro delle gangrene
• VERSAMENTO EMORRAGICO

In una flogosi acuta iniziale si ha prevalentemente versamento sieroso che, poi, diventa siero-fibrinoso e,
poi, emorragico o purulento a seconda dell’eziologia del processo, cioè in base alla causa che lo ha
determinato.
La classificazione che tiene conto del tipo e della qualità del versamento in genere si aggancia all’eziologia,
perché un versamento purulento (caratterizzato da granulociti polimorfonucleati) è sinonimo di una flogosi
batterica, uno sieroso può avere eziologia virale o non infettiva (es. pleuriti non infettive dovute a malattie
autoimmuni quali lupus, sclerodermia, artrite reumatoide, etc...). Un versamento striato di sangue o
sieroematico o francamente ematico è un versamento che, nella migliore delle ipotesi, può essere sinonimo
di un processo infettivo, come ad esempio un’infezione tubercolare che si è propagata a livello pleurico o
una tubercolosi primitiva pleurica oppure può essere sinonimo di una malattia reumatica o di tumori maligni
quali metastasi a localizzazione pleurica, che sono le forme più frequenti, oppure tumori primitivi della
pleura.

La pleurite può essere su base infettiva. Tra le cause infettive ricordiamo:

• BATTERI come lo Pneumococco o lo Stafilococco che sono responsabili di polmoniti e bronco-


polmoniti
• BACILLO DI KOCH, che è un micobatterio
• FUNGHI come la Candida e gli Actinomiceti
• VIRUS come il virus della varicella, della parotite, etc… che danno una pleurite con versamento
ricco di fibrina e linfociti e non di granulociti. Quindi, si tratta sempre di un essudato ma è ricco di
linfociti e non di granulociti come, invece, accade nelle infezioni batteriche.

Le pleuriti fungine sono tipiche dei soggetti immunodepressi (vedi pazienti sottoposti a chemioterapia,
soggetti che hanno immunodeficienza primaria o HIV positivi) di cui costituiscono l’evento finale o una
complicanza.

Le pleuriti possono essere distinte ancora in base alla comparsa del fenomeno e della malattia. L’agente
infettivo può localizzarsi primitivamente alla pleura ma può essere anche frutto di una diffusione
secondaria proveniente da altri focolai primitivi. Ad esempio, si possono avere pleuriti in corso di
morbillo/varicella/parotite come localizzazione ematogena del virus a livello pleurico, cioè il virus già
dall’inizio si va a localizzare a livello pleurico. Ma si può avere in altre situazioni, invece, la diffusione
dell’agente patogeno dal sottostante parenchima polmonare in corso di polmoniti e broncopolmoniti e,
quindi, in questo caso si parla di una pleurite para/metapneumonica, cioè che compare in corso di infezioni.
Quest’ultimo è un processo pleuritico consensuale al focolaio polmonare. Si possono avere anche delle
masse infettive mediastiniche cioè una mediastinite oppure una pericardite con conseguente
coinvolgimento della pleura.

Quindi, il processo infiammatorio primitivo e, poi, si diffonde oppure essere una estensione di un processo
infiammatorio in atto nel polmone, nel mediastino, nell’esofageo, nei linfonodi, etc…

Esistono delle pleuriti, però, che sono secondarie a traumi, cioè a traumi toracici. Ad esempio, un incidente
stradale che causa un trauma al torace può costituire un evento di contagio con agenti patogeni.

Oltre ai versamenti essudatizi ricchi in PMN, ne esistono anche altri poveri di granulociti polimorfonucleati
che si osservano in altre malattie come nell’artrite reumatoide, nel lupus, nelle neoplasie, in seguito a
farmaci, nella pneumoconiosi, in caso di radioterapia o in alcune malattie tossiche (vedi uremia). Si parla di
PLEURITI NON INFETTIVE. In questo caso si osserva la raccolta di versamento nel cavo pleurico con
caratteristiche sierose, sierofibrinose, etc… con elementi della flogosi (prevalentemente linfociti e
plasmacellule) e pochi granulociti polimorfonucleati, se non addirittura assenti.

Durante un processo infiammatorio la pleura appare opaca con riduzione del disegno antracotico del
polmone e, soprattutto, con un versamento stratificato sulla superficie pleurica. Essendo coinvolti entrambi
i foglietti, questi appaiono spesso fusi tra di loro, ispessiti e anche alcune volte, soprattutto in caso di
pleurite cronica, adesi alla parete toracica tanto da creare un quadro di fibrotorace.

Quindi, l’evoluzione clinica di una pleurite può essere:


• RISOLUZIONE DEL PROCESSO (restitutio)
• PLEURITI SACCATE che sono circoscritte
• FIBROTORACE

Il tutto dipende sempre dalla causa: ad esempio, una pleurite causata da una malattia infiammatoria
cronica, come lupus, uremia, pneumoconiosi o artrite reumatoide, non guarisce ma evolve in fibrosi.

TUMORI DELLA PLEURA

In generale una neoplasia presente in un organo può essere distinta secondo vari criteri. Il primo criterio è
quello grazie al quale si distinguono neoplasie benigne o maligne a seconda del comportamento biologico
del tumore. Il tumore benigno per definizione non uccide l’ospite (salvo alcune eccezioni, ovvero quando
esso è localizzato in una sede poco espansiva, come l’encefalo, in quanto il tumore facendo massa
comprime le strutture nervose fondamentali come i centri respiratori per cui l’individuo muore, oppure il
cuore dato che una neoplasia cardiaca potrebbe ostruire le cavità atriale o ventricolare bloccando la
circolazione, etc...). Il tumore maligno, invece, è quello che per definizione ha come unico scopo quello di
uccidere l’ospite e, per raggiungere tale scopo, può utilizzare vari modi, quali l’infiltrazione negli organi
vicini, l’effetto massa, la metastatizzazione, etc... Oggi si lavora molto a livello biologico e terapeutico per
arginare l’aggressività dei tumori maligni, per far aumentare la sopravvivenza di coloro che ne sono affetti e
per aumentare i casi di guarigione. Tra i tumori benigni e maligni, inoltre, esiste spesso un gruppo di
neoplasie che vengono definite “borderline” che non hanno tutti i caratteri della malignità ma mantengono
ancora alcune caratteristiche di benignità. Queste forme sono molto frequenti tra le neoplasie pleuriche ma
soprattutto tra quelle ovariche. Il trattamento dei tumori borderline richiede un’impostazione terapeutica
di massima sorveglianza sul paziente per evitare la recidiva, in quanto essi tendono a recidivare con la
progressione in forma maligna.

I tumori poi possono essere classificati in base alla cellula di partenza. Infatti, i tumori si distinguono anche
in tumori dei tessuti epiteliali e tumori dai tessuti connettivi. Esistono, però, anche delle neoplasie che non
appartengono a nessuna delle due categorie ma che per comodità vengono inserite tra quelle connettivali
cioè i tumori del sangue quali linfomi, leucemie, etc... la maggior parte dei quali sono maligni ma
rispondono alle terapie. Lo stesso discorso vale per le cellule nervose, anch’esse non sono epiteliali né
connettivali, per cui si parla di neoplasie del SNC o del SNP.
Ricapitolando abbiamo tumori epiteliali, tumori connettivali e tumori di linee cellulari speciali come la linea
ematica e la linea nervosa. Tra le neoplasie epiteliali e quelle connettivali le più frequenti in genere sono
quelle epiteliali.

Analizziamo, però, meglio le NEOPLASIE DELLE PLEURE.


Le sierose sono foglietti di rivestimento di alcuni organi. In particolare si distinguono la sierosa pleurica,
quella pericardica, quella peritoneale e quella vaginale testicolare. Esse non riconoscono un epitelio
comune ma presentano un rivestimento di cellule mesoteliali, cioè un monostrato di cellule pavimentose
che si schiaccia su di una membrana basale caratterizzante appunto il foglietto sieroso. Al di sotto della
membrana basale è presente un connettivo lasso ma molto povero, ad esempio, di tessuto adiposo, di
componente vascolare e di componente fibrosa. Si tratta, quindi, di un connettivo sottoepiteliale
estremamente scarso.

I tumori che originano in questa sede possono essere:

• BENIGNI
• MALIGNI

e possono essere:
• PRIMITIVI, se originano primariamente dagli elementi cellulari costituenti il tessuto
• SECONDARI, se metastatici

In sede pleurica, come anche in sede epatica, polmonare, etc... i tumori primitivi sono meno frequenti delle
forme metastatiche.
I tumori che metastatizzano a livello pleurico più frequentemente sono:

− quelli che originano dal sottostante parenchima polmonare


− nelle donne, quelli della mammella, che possono metastatizzare in sede pleurica per via retrograda
attraverso le strutture linfatiche, dell’ovaio o dell’endometrio
− quelli dell’intestino

cioè qualsiasi neoplasia che può oltrepassare il fegato e raggiungere per via ematogena direttamente la
pleura oppure il polmone e poi la pleura.

In sunto, i tumori maligni sono più frequenti rispetto a quelli primitivi, indirettamente ciò significa che i
tumori pleurici benigni sono molto rari, se non addirittura eccezionali. Inoltre, si può aggiungere che tra i
tumori maligni, sono più diffusi quelli metastatici rispetto alle forme primitive.

TUMORI PLEURICI BENIGNI

Per definire una neoplasia, cioè le sue caratteristiche morfologiche e biologiche, qualsiasi organo essa
coinvolga, si fa riferimento a delle classificazioni che, di volta in volta, vengono aggiornate dall’OMS e che
tutti in campo medico devono rispettare ed osservare. L’ultima classificazione risale al 2015. Essa classifica i
tumori benigni della pleura nel seguente modo:

• FORMA MESOTELIALE, la quale prende origine dal mesotelio. Si tratta di una forma papillare
spesso circoscritta, ben differenziata, che viene chiamata MESOTELIOMA (come il suo corrispettivo
maligno). Il mesotelioma benigno è dunque una forma papillare, quindi dotato di un asse
connettivo-vascolare su cui si stratifica il mesotelio. Si tratta di una forma molto rara
• TUMORE ADENOMATOIDE, cioè una neoplasia costituita di cellule mesoteliali e connettivali
frammiste. È un istotipo tumorale molto frequente nell’utero, nelle tube, nelle ovaie, nel didimo e
nell’epididimo mentre è molto raro in sede pleurica
• LIPOMI, cioè tumori connettivali che prendono origine dalla cellula adiposa. Si presentano come il
lipoma cutaneo cioè come una proliferazione di cellule adipose ben circoscritta in sede
sottopleurica che rende la pleura particolarmente spessa. Con una radiografia si nota un
ispessimento della pleura che allarma il chirurgo, il quale opera per eliminare la lesione benigna in
toracosocpia che sebbene sia innocua entra in diagnosti differenziale con una possibile forma
maligna
• TUMORE FIBROSO SOLITARIO (TFS), che è particolarmente caratteristico della pleura ed è
costituito prevalentemente da cellule mesenchimali. Esso è un tumore mesenchimale che
riconosce una forma classicamente benigna ed una maligna. Si tratta di un rompicapo per il
patologo, per il chirurgo e soprattutto per l’oncologo perché se maligno esso può recidivare e può
dare anche metastasi. Questo è il motivo per cui il paziente deve seguire uno stretto follow-up.

MESOTELIOMA PAPILLARE BEN DIFFERENZIATO (MP BENIGNO)

− Più frequente nel peritoneo


− Età media/anziana
− Esposizione ad asbesto
− Localizzati o multifocali
− Presente versamento pleurico e dolore toracico
− Macro: rilievi nodulari da 1 a 5 cm
− Isto: vegetazioni papillari senza atipie
− Prognosi: eccellente

Il MESOTELIOMA PAPILLARE BEN DIFFERENZIATO è molto più frequente nel peritoneo rispetto alla pleura.
Le donne sono maggiormente colpite da questa neoplasia che, però, non si può definire malattia poiché on
crea alcun problema. Solitamente ne sono colpiti soggetti di età medio-avanzata e, in genere, si individua in
pazienti che hanno avuto una esposizione all’asbesto, anche noto come amianto. Questa lesione può
essere localizzata (monofocale) o multifocale e viene riconosciuta poiché può dare origine a versamenti
pleurici generalmente di tipo sieroso (P.S. È raro che una lesione benigna provochi versamento
sieroematico) e dolore toracico per compressione dei nervi, in particolari i rami del vago.
Macroscopicamente tali neoplasie si presentano come rilievi nodulari o papillari di dimensioni variabili da 1
fino a 5 cm per cui si parla di estroflessioni papillari abbastanza ampie.
Istologicamente sono vegetazioni papillari senza segni di atipia citologica né segni di mitosi, cioè assi
connettivo-vascolari edematosi con rari vasi con un rivestimento mesoteliale senza appunto segni di atipia
citologica (nuclei tutti uguali, non ci sono mitosi). La prognosi è eccellente, cioè dopo la rimozione della
lesione il paziente sarà guarito al 100%, però, poiché questa neoplasia spesso, come si viene a sapere con
l’anamnesi del paziente, è legata all’esposizione all’asbesto, è necessario che il paziente non viene mai
abbandonato nel follow-up perché l’asbesto, se è stato respirato, può essere responsabile dello sviluppo di
un mesotelioma maligno in un altro punto della pleura.
Dunque anche se la prognosi è eccellente il paziente va comunque monitorato sempre nel corso del tempo.

TUMORE FIBROSO SOLITARIO (TFS)

− Origina dai fibroblasti sottomesoteliali


− Non appare correlato all’amianto
− Dolore, versamento pleurico, tosse
− Può interessare pleura parietale o viscerale
− Massa peduncolare nodulare fino a 10 cm
− Macroscopicamente omogeneo e cistico con aree di calcificazione, emorragia o necrosi
− Istologicamente cellule fusate a cellularità variabile frammiste a stroma collagene e vasi dilatati
− NAB2-STAT6 gene fusion, CD34, bcl2, CD99 positivi

Il mesotelioma papillare è la cosiddetta variante epiteliale o mesoteliale benigna del tumore pleurico, il
TUMORE FIBROSO SOLITARIO è, invece, la variante mesenchimale, perché prende origine dai fibroblasti
sottomesoteliali, cioè dal connettivo sottomesoteliale. Il TFS in genere non è correlato all’esposizione
all’amianto (minerale 100% cancerogeno) e viene riconosciuto in quanto provoca:

o DOLORE: la massa tumorale può diventare voluminosa e comprimere le strutture nervose che è un
elemento caratteristico
o VERSAMENTO PLEURICO: in genere sierofibrinoso o sieroso
o TOSSE per irritazione del laringeo ricorrente

Esso può prendere origine tanto dal connettivo sottomesoteliale della pleura viscerale quanto da quello
della pleura parietale, quindi, è un tumore che può indifferentemente interessare entrambi i foglietti
pleurici. Il TFS è solitamente una massa peduncolata e nodulare che può arrivare fino anche a 10 cm di
dimensioni.
Macroscopicamente questa lesione si presenta omogenea, ha una superficie liscia e al taglio un aspetto
omogeneo con colorito biancastro o un aspetto cistico. Talvolta sono presenti aree di necrosi e di
emorragia che se presenti in un tumore sono preoccupanti.
Istologicamente si osservano cellule fusate, cioè allungate, con inframmezzati vasi detti “a corna di cervo”
(cioè ramificati) nonché fibre collagene ben demarcate.
Questa neoplasia ha una caratteristica che aiuta molto nella diagnosi, ovvero presenta positività nucleare
immunoistochimica per il gene di fusione NAB2-STAT6: le linee guida del 2015 dell’OMS hanno stabilito che
tale fusione è presente nel 100% dei TFS, quindi appunto la positività ad essa consente di diagnosticarlo
velocemente, senza dover più affidarsi alla diagnostica differenziale.

Il TFS può avere caratteristiche di benignità ma può anche essere un tumore maligno. Il patologo distingue
le due forme in base al NUMERO DI MITOSI che vanno contate su 2 mm2 di campo: se le mitosi sono da 1 a
3 su 2 mm2 il TFS può essere definito benigno se, invece, le mitosi sono 4 o più, sempre su 2 mm2, la
neoplasia è definita maligna. Nel caso in cui sia in dubbio se le mitosi siano 3 o 4 i vetrini fanno il giro di
tutta Italia per essere controllati. Un TFS con un numero di mitosi tra 3 e 4 potrebbe essere una forma
intermedia che può dare recidiva ed anche metastatizzazione, quindi si tiene il paziente in stretto follow-
up. Un altro aspetto importante da considerare è il ruolo del chirurgo toracico che deve assicurarsi di
rimuovere completamente tutta la massa. Dal momento che questi tumori sono spesso peduncolati, il
chirurgo toracico deve eseguire, quindi, una buona resezione del peduncolo. Il peduncolo valutato
istologicamente dev’essere indenne da neoplasia. A quel punto si può seguire il paziente con il follow-up e,
dopo un certo numero di anni si può, se non è successo nient’altro, considerare il paziente fuori dal rischio.

Utilizzando la colorazione immunoistochimica per lo STAT6, se questa risulta positiva si può fare diagnosi
sicura di TFS ma non si può definire se si tratta di una forma benigna o di una maligna.

TUMORI PLEURICI MALIGNI

I tumori pleurici maligni sono prevalentemente metastatici, quelli primitivi sono molto rari e sono neoplasie
che possono originare dal connettivo sottomesoteliale, come TFS maligno, fibrosarcomi, angiosarcomi,
sarcoma sinoviale e mesotelioma (anch’esso si chiama mesotelioma, come il MP benigno, ma questa è la
variante maligna). Quando si parla del mesotelioma maligno della pleura, che prende origine dal mesotelio
di riferimento e che è il tumore primitivo della pleura più frequente pur essendo raro, non si può non
parlare dell’amianto, il quale è la sostanza che nel 100 % dei casi ne determina lo sviluppo.

L’AMIANTO è una fibra minerale appartenente al gruppo dei silicati inorganici polianionici presente in
natura sotto varie forme, le quali differiscono tra loro per caratteristiche di struttura e di biodegradabilità.
Può esistere come fibra:

o SPIRALIFORME (AMIANTO SERPENTINO) il cui tipo più diffuso è il crisotilo


o AGHIFORME (AMIANTO ANFIBOLO) di cui esistono varie tipologie come la crocidolite, l’amosite, la
tremolite, l’actinolite, etc...

Le fibre serpentine o aghiformi differiscono tra loro per lunghezza e per diametro: più tali fibre sono lunghe
più si prestano ad essere utilizzate nel mondo industriale. Se le fibre sono lunghe e sottili possono essere
frantumate e respirate per cui le fibre serpentine e aghiformi lunghe e sottili sono le più pericolose in
quanto vengono facilmente respirate e accumulate nell’apparato respiratorio. L’amianto è, in realtà, un
minerale eccezionale che viene estratto da miniere presenti in molti Paesi del mondo. Data la sua versatilità
è stato largamente utilizzato nel mondo industriale perché indistruttibile e a basso costo. In particolare le
fibre aghiformi si prestano molto bene ad essere compattate con altri minerali mentre quelle aghiformi si
lavorano molto facilmente.

Al microscopio a scansione, le fibre respirate presentano un tipico aspetto caratteristico a “bacchetta di


tamburo” dal momento che la fibra viene circondata da un pigmento ferroso.

Quindi, per via dell’indistruttibilità e del basso costo, l’amianto è stato utilizzato moltissimo fino agli anni
’80, quando ne è stata dimostrata la cancerogenicità e quindi in Europa ed altre aree ne sono stati banditi
l’utilizzo e la commercializzazione. In alcuni Paesi, però, quali Cina, India e Brasile, l’amianto continua ad
essere estratto ed utilizzato per cui i manufatti, ad esempio, cinesi o indiani, contenenti amianto vengono
importati nei Paesi in cui ne è vietato l’utilizzo sfruttando gli scarsi controlli alle dogane.
Molto probabilmente solo bandendo l’estrazione e l’utilizzo dell’amianto a livello mondiale si potrà
giungere alla sconfitta definitiva del mesotelioma.

L’amianto è stato utilizzato nel mondo industriale in forma agglomerata soprattutto nell’edilizia.
La Fibronit era un’azienda di produzione di manufatti in cemento-amianto con la fabbrica situata nel pieno
centro cittadino a Bari a causa della quale hanno perso la vita per mesotelioma centinaia di persone tra
operai e cittadini che abitavano in prossimità della fabbrica.
Tutti i palazzi costruiti negli anni ’50, ’60 e ’70 sono fatti di cemento-amianto per cui è necessario che siano
sottoposti a manutenzione periodica affinché le pareti non si sfaldino, ad esempio a causa delle piogge
acide, disperdendo le fibre nell’ambiente.

L’amianto era usato, in passato, anche allo stato puro, per esempio per fare le corde, in quanto molto
resistente oppure per fare i sacchi di iuta per la sua proprietà isolante nei confronti dell’umidità. Inoltre, è
stato utilizzato per realizzare porte antiincendio e altiforni delle fabbriche e tute dei pompieri in quanto
l’amianto ha un’ottima resistenza termica.
In più è un ottimo isolante acustico per cui con esso sono stati realizzati i mattoni di cemento-amianto per
migliorare l’insonorizzazione degli edifici.
Ancora i filamenti delle lampadine erano fatti in amianto, perché resistevano per più tempo. Infine anche
per l’isolamento termico e acustico dei treni e delle navi è stato largamente usato questo materiale. Perfino
i pannelli separatori o le postazioni degli uffici in passato contenevano amianto. Insomma a livello
industriale l’uso dell’amianto è stato massiccio e, per questo motivo, quando nella pratica clinica si scrive
un’anamnesi di un paziente non bisogna mai scrivere pensionato bensì bisogna capire se la sua mansione
lavorativa lo ha portato ad entrare in contatto con questo minerale.

P.S. A Taranto, l’incidenza di mesotelioma è molto alta a causa dell’ILVA perché gli altiforni coibentati con
amianto liberavano questo materiale nell’aria. Infatti, nonostante ci sia stata un’opera di bonifica di questi
altiforni sostituendo l’amianto con altri materiali, a causa delle precedenti esposizioni, l’incidenza di
mesotelioma tra i lavoratori dell’ILVA è ancora considerevole come anche tra gli abitanti delle zone
limitrofe.

L’amianto tuttavia non è l’unico minerale a causare il mesotelioma.


Ad esempio, in Sicilia, vicino alla cava vulcanica di Bianca Villa, dove veniva estratta la FLUORO-EDENITE la
quale ha le stesse caratteristiche dell’amianto, il materiale di scarto della cava è stato utilizzato per le
battute di strade. Il problema è che queste strade non sono mai state asfaltate per cui i bambini che
giocavano all’aperto sono entranti facilmente a contatto con queste polveri. Infatti, tuttora si riscontrano
casi di mesotelioma già in età infantile in quell’area.

Un altro minerale che può causare mesotelioma è l’ERIONITE che non è una fibra bensì una polvere che si
ritrova in Turchia, in Cappadocia, dove le tipiche case bianche venivano coibentate con questo minerale.

Questo materiale ha causato mesotelioma anche in età pediatrica e, addirittura, a causa dell’esalazione da
parte di madri, anche nel feto.

Il mesotelioma insorge per l’esposizione all’amianto perché è in grado di causare stress respiratorio.
Quando la sua fibra arriva all’ alveolo o alla pleura e non viene riconosciuta dai macrofagi, si accumula
liberamente fino a determinare una situazione infiammatoria cronica con produzione di ROS che fanno
attivare fibroblasti i quali inducono l’insorgenza del mesotelioma.
In realtà, può essere presente anche un attacco diretto dell’amianto al DNA della cellula bersaglio con
conseguente perdita di sequenze. Solitamente le sequenze più coinvolte nel processo di trasformazione
sono quelle regolatrici della proliferazione cellulare, come quella del CDKN2A localizzata sul cromosoma 9 o
di p21 la cui mutazione stimola la proliferazione in senso neoplastico. Proprio sullo studio della delezione di
questo gene si sta basano ora la ricerca per combattere il mesotelioma in quanto pare essere un aspetto
comune tra tutti i mesoteliomi.
Il mesotelioma può, però, anche essere causato dalla presenza del virus simiano SV40 che si è visto
infettare le scimmie del genere macaco da cui, negli anni che vanno dal ‘59 al ’63, sono stati estratti i
vaccini della poliomielite. Solo successivamente si è visto che nei soggetti sottoposti al vaccino l’insorgenza
di mesotelioma era molto alta. Questo fenomeno si è osservato, soprattutto, in America, dove c’era stata la
maggiore diffusione di questi lotti di vaccini anti-polio. Quindi anche il virus simiano SV40 può indurre
mesotelioma così come altre tipologie di tumori (vedi tumori cerebrali, sarcomi, linfomi, etc…).

L’amianto resta comunque il fattore più importante anche se ne è stato bandito l’utilizzo attraverso una
serie di normativa dal ’92 che hanno previsto anche l’obbligo di bonifica dei siti inquinati.

Le espressioni patologiche indotte dall’amianto sono:

- PLEURITE FIBROSA con versamento pleurico


- PLACCHE PLEURICHE FIBROSE BENIGNE
- FIBROSI INTERSTIZIALE POLMONARE
- SVILUPPO DI TUMORI come mesotelioma, carcinoma del polmone, carcinoma laringeo

In un soggetto fumatore esposto all’amianto con MESOTELIOMA, bisogna combattere con l’INPS per far
riconoscere la causa professionale di esposizione all’amianto piuttosto che attribuire la causa all’abitudine
voluttuaria al fumo di sigaretta.
Infatti, la maggior parte degli studi dimostra che l’associazione tra amianto-fumo di sigaretta può
potenziare il rischio di sviluppare il mesotelioma il quale è, però, più correlato all’esposizione all’amianto
che al fumo di sigaretta.
Il fumo potenzia solo la probabilità di sviluppare il mesotelioma perché riduce la clearance muco-ciliare e,
quindi, favorisce la penetrazione delle fibre nelle vie aeree terminali. Esso rappresenta solo un co-fattore
che migliora la penetrazione delle fibre nelle vie respiratorie piuttosto che la causa determinante.
Quando si sviluppa un cancro laringeo o un cancro del polmone, là la situazione si complica perché il fumo
è 100% cancerogeno nel polmone e 100% cancerogeno nelle vie respiratorie e, in questi casi, la situazione
deve essere dimostrata e dibattuta pesantemente in sede di dibattito legale. Bisogna, quindi, andare a
cercare alterazione genetiche tipiche del mesotelioma e del carcinoma polmonare o laringeo. Se mancano
le alterazioni tipiche del carcinoma polmonare, si individua come causa l’amianto.

Molte volte l’INPS chiede anche di isolare la fibra di amianto nel paziente perché altrimenti non viene
garantito il riconoscimento della causa di servizio.

Fare la diagnosi di mesotelioma non è semplice né per il clinico né per il patologo.


Non è una diagnosi semplice per il clinico perché da un punto di vista sintomatologico il mesotelioma può
mimare clinicamente il quadro di una pleurite cioè dolore, un po’ di versamento, quindi situazioni che
vengono confuse o a volte trascurate, trattate con terapia analgesica o antibiotica. Quindi la diagnosi di
mesotelioma è complicata perché mancano segni clinici specifici per la neoplasia per cui si scopre di avere
questo tumore tardivamente quando è già in fase conclamata.
Ma si tratta di una diagnosi difficile anche da un punto di vista anatomo-patologico perché i quadri
morfologici di questa neoplasia, soprattutto nella forma iniziale, sono sfumati e, quindi, sovrapponibili a
quelli di una iperplasia mesoteliale benigna reattiva ad una flogosi. Per tutte queste ragioni la diagnosi di
mesotelioma è spesso tardiva.

In sunto, possiamo dire che il mesotelioma maligno è il tumore più frequente in assoluto delle sierose ed è
più frequentemente localizzato in sede pleurica, la seconda localizzazione è il peritoneo. Esso è inoltre
correlata al 100% all’amianto ed è, quindi, un tumore tipico del mondo industriale e dei paesi
industrializzati. È un tumore che riconosce una lunga latenza anche di 20, 30, 40 anni dalla prima
esposizione per cui di difficile diagnosi. Gli studi epidemiologici mostrano che, per il fatto che è stato
bandito dal 1992 in poi l’utilizzo dell’amianto e per il fatto che i tempi di latenza sono lunghi, tra il 2010 e il
2020 si registrerà il picco di incidenza del tumore. Ad oggi, inoltre, nuovi studi epidemiologici sostengono
che questo picco di incidenza si protrarrà oltre il 2020 dato che non sono avvenute tutte le bonifiche dei siti
residenziali e industriali previste.
L’incidenza attuale di questo tumore è di 1-2 casi su 1 milione di abitanti per anno ma, in realtà, questo
numero è fortemente incrementato dagli ultimi studi epidemiologici. Addirittura in Turchia, per la erionite,
è considerato un tumore endemico.

I soggetti maggiormente colpiti sono i maschi, a causa di questioni lavorative, seguiti dalle donne che oggi
sono quelle forse più colpite dalla neoplasia perché sono state esposte a dosi minime di amianto in quanto
mogli o figlie di ex lavoratori di amianto che lavavano le tute da lavoro.

L’età media di insorgenza è tra i 60-70 anni ma oggi anche soggetti di 45/54 anni sono affetti da
mesotelioma soprattutto se abitanti di aree limitrofe a siti industriali o se figli di genitori che hanno
lavorato presso siti inquinati.

La sopravvivenza media a questa neoplasia non è cambiata nel tempo e va da 6 a 12 mesi anche se in alcuni
casi si riesce a raggiungere una sopravvivenza di 24-36 mesi se il paziente viene sottoposto a intervento
chirurgico o di 18-20 mesi se il mesotelioma anziché essere localizzato in sede pleurica si sviluppa in sede
peritoneale.

Il problema di questa neoplasia è che è resistente a qualunque tipo di terapia e, quindi, ad oggi non si
hanno chemioterapie in grado di controllare la crescita di questo tumore.

Il mesotelioma asbesto-correlato o correlato ad altri minerali è detto MESOTELIOMA SPORADICO ma esiste


anche un MESOTELIOMA EREDITARIO dovuto alla mutazione di BAP-1 che è un gene BRCA associato (come
il carcinoma ereditario della mammella) il quale è un oncosoppressore, situato del braccio corto sul
cromosoma 3, in particolare sul locus 3p21, che codifica per enzimi della famiglia delle carbossi-idrolasi.
Normalmente BAP-1 funziona regolando il ciclo cellulare per cui sue mutazioni determinano la BAP-1
CANCER SYNDROME, cioè mesotelioma, melanoma, carcinoma della mammella e carcinoma epatico.

Da un punto di vista clinico è molto difficile fare una stadiazione preclinica strumentale del mesotelioma
maligno, cioè non si riesce a stabilire se il tumore ha interessato solo la pleura parietale o anche quella
viscerale o anche il parenchima polmonare sottostante o il diaframma.

Il paziente spesso è curato con terapie palliative ma se ha la fortuna di essere trattato in un centro
specializzato viene sottoposto a chemioterapia pre-chirurgica e, poi, sottoposto a intervento demolitivo che
potrebbe allungare la sopravvivenza del paziente.

La chirurgia demolitiva sottoforma di PLEURECTOMIE, DECORTICAZIONI PLEURICHE o PLEURO-


PNEUMECTOMIE consiste in interventi molto aggressivi che richiedono un ricovero anche piuttosto
prolungato. Il soggetto riacquista la funzionalità ma il tumore non si arresta perché l’amianto nel contempo
arreca danno anche controlateralmente, sul mediastino o recidiva nel peritoneo (→ tramite il diaframma il
tumore si porta al peritoneo).

La difficoltà nella diagnosi del mesotelioma deriva dal fatto che istologicamente il tumore può presentarsi
in tre varianti:

• EPITELIOIDE
• SARCOMATOIDE
• MISTO

Un tumore misto epitelioide e sarcomatoide non può che essere un MESOTELIOMA.


La forma epitelioide pura crea problemi perché può mimare altre neoplasie epiteliali metastatiche alla
pleura in quanto il tumore epitelioide può assumere una morfologia:

o SOLIDA oppure TUBULARE e, quindi, mimare un ADENOCARCINOMA


o PAPILLARE e, quindi, mimare un CARCINOMA PAPILLIFERO DEL POLMONE o DELLA TIROIDE
o che mimi il MELANOMA
o che mimi il LINFOMA.

Il mesotelioma epitelioide crea grande difficoltà nella diagnosi differenziale la quale è molto importante
dato che bisogna distinguerlo dalle metastasi. In questo caso il paziente è sottoposto ad un iter terapeutico
differente nei due casi.

La diagnosi si basa sull’IMMUNOISTOCHIMICA ovvero sull’utilizzo di anticorpi diretti contro antigeni


cellulari del tumore.
Per il mesotelioma non esiste un marker specifico come per altre neoplasie ma si osservano marcatori
tendenzialmente positivi o tendenzialmente negativi

Tra i marker si considerano:

• CALRETININA (marker calcio legante)


• CITOCHERATINA 5-6
• WT1 (positivo anche nei tumori ovarici o in alcune neoplasie mammarie. Questo gene, localizzato sul
cromosoma 11, è responsabile del tumore di Wilms)
• D2-40
che, in genere, sono POSITIVI e:

• TTF1
• ANAPSINA
• CLAUDINA 4
• PAX-2 e PAX-8 (se positivo metastasi se negativo mesotelioma).
che sono sempre NEGATIVI.

Per fare una diagnosi differenziale precisa ed adeguata i campioni istologici devono essere di quantità
sufficiente poiché un mesotelioma epitelioide può mimare un’iperplasia reattiva del mesotelio per cui
bisogna avere una giusta quantità di materiale su cui lavorare.

Per distinguere il mesotelioma dall’iperplasia si valuta la presenza di tessuto adiposo o connettivale


sottomesoteliale. Se è presente il primo si tratta di un mesotelioma mentre se è presente il secondo di
iperplasia reattiva.

Non ci sono , comunque, protocolli standardizzati di diagnosi e terapia.

Per quanto riguarda la diagnosi anatomo-patologica si utilizzano una serie di parametri (vedi preparato
immunoistochimico, valutazione genetica come valutazione della delezione del gene 9p21 o di BAP-1,
indice mitotico per valutare l’aggressività).

P.S. Oggi si sta lavorando sull’immunoterapia, cioè si è visto che anche in questi tumori la presenza di un
infiltrato infiammatorio può condizionare l’utilizzo di determinati farmaci.
Ad oggi l’immunoterapia sul mesotelioma non ha dato risultati confortanti anzi, in alcuni soggetti,
l’immunoterapia ha precipitato maggiormente il quadro clinico.
PROCESSI INFIAMMATORI DELL’APPARATO RESPIRATORIO

Affrontiamo un argomento molto importante, cioè le malattie infiammatorie dell’apparato respiratorio le


quali sono patologie estremamente diffuse e facilmente curabili che, però, “prese sotto gamba” possono,
soprattutto nella stagione invernale, peggiorare e in taluni casi condurre alla morte.

Le FLOGOSI DEL POLMONE si possono classificare in vari modi. Ad esempio, tenendo conto della struttura
dell’apparato respiratorio si possono distinguere.

• TRACHEITI e TRACHEO-BRONCHITI → se il processo infiammatorio interessa la trachea o la trachea


e I bronchi
• BRONCHITI → se il processo infiammatorio interessa i bronchi
• POLMONITE → se il processo infiammatorio coinvolge estrinseca all’interno del polmone
• BRONCOPOLMONITE → se il processo infiammatorio coinvolge contemporaneamente bronchi e
polmoni

Molto spesso i processi infiammatori che interessano il polmone e il bronco sono contestuali, si realizzano
contemporanemente. Infatti, molti processi infiammatori, anche se nascono inizialmente solo nel bronco,
tendono a propagarsi, se non adeguatamente trattati, all’interno del polmone e viceversa.

Più precisamente con il termine di POLMONITE si indica un processo infiammatorio che interessa il
parenchima polmonare e ogni interstizio polmonare. Le bronchiti, infatti, sono dei processi che raramente
restano confinati nel bronco e hanno una valenza relativa rispetto alle polmoniti e alle broncopolmoniti.
Queste flogosi si possono estrinsecare tanto all’interno dell’alveolo quando nell’interstizio polmonare e,
quindi, le polmoniti in senso stretto possono avere una estrinsecazione endoalveolare o interstiziale.

Ricordiamo che tutti i processi infiammatori, compreso quello polmonare, possono avere origini INFETTIVA
o NON INFETTIVA. Tra le cause più importanti e più frequenti annoveriamo quelle ad eziologia infettive, di
conseguenza le polmoniti su base non infettiva sono poco frequenti. Tanto è vero che i processi
infiammatori ad eziologia non infettiva è forse più corretto definirli PNEUMOPATIE NON INFETTIVE più che
polmoniti in senso stretto. Tra queste pneumopatie posiamo ricordare quelle:

• da AGENTI FISICI come, per esempio, le radiazioni ionizzanti acquisite per trattamento radiante di
una massa neoplastica mediastinica o di una massa neoplastica polmonare. le radiazioni ionizzanti
inducono, infatti, una risposta infiammatoria a livello polmonare, prevalentemente a livello
interstiziale (PNEUMOPATIE NON INFETTIVE AD EZIOLOGIA TERAPIA RADIANTE).
• da SOSTANZE CHIMICHE di vario genere le quali possono determinare una reazione infiammatoria
che può avere tanto una estrinsecazione endoalveolare quanto interstiziale. Le pneumopatie
chimiche sono comunque prevalentemente interstiziali e causate da varie sostanze più o meno
cancerogene e allergizzanti. Anche farmaci come il cordarone (antiaritmico) ne possono essere una
causa. Non a caso, I pazienti che fanno uso di cordarono vengono sottoposti a controlli annuali per
evitare effetti collaterali quali fibrosi polmonare o tiroidea con conseguente insufficienza
respiratoria e ipotiroidismo. Se si manifestano complicanze, infatti, bisogna sostituire la terapia con
una di seconda scelta associata spesso ad un antiaggregante come l’aspirina.
• da POLVERI ALLERGICHE come pollini, etc… che possono determinare una reazione infiammatoria
del polmone con danno sia endoalveolare che interstiziale (PNEUMOPATIE NON INFETTIVE AD
EZIOLOGIA ALLERGICA) che, però, non esita mai in una fibrosi.

Si definiscono, poi, PNEUMOPATIE INTERSTIZIALI tutte quelle flogosi polmonari ad eziologia sconosciuta
(vedi sarcoidosi).
Importanti sono anche le pneumopatie da inalazione di polveri sclerosanti come, per esempio, la silice, il
berillio, lo stagno, il ferro, il carbone, l’asbesto.
Prima di analizzare le cause più frequenti di polmonite in senso stretto, occorre precisare che, come per
tutti i processi infiammatori, anche le polmoniti si possono distinguere, in base al decorso clinico della
patologia e, quindi, alla durata in:

• FLOGOSI ACUTA
• FLOGOSI SUBACUTE quando la fase acuta transita verso il cronico
• FLOGOSI CRONICA

Questo discorso vale soprattutto per le polmoniti infettive perchè per le polmoniti ad eziologia non
infettiva è meno evidente il danno acuto essendo il danno prevalentemente a decorso cronico,
determinando un danno maggiore all’individuo.

Considerando le forme flogistiche ad eziologia infettiva, possiamo distinguerle in base alla sede in cui si
estrinseca il processo infiammatori. Si parla di:

o POLMONITI ENDOALVEOLARI: si tratta di polmoniti infettive batteriche di tipo essudativo, cioè si


forma un essudato endoalveolare. Si tratta di flogosi acute correttamente note come flogosi
essudative endoalveolari acute. L’agente eziologico più frequente è un batterio, cioè il
Pneumococco. Queste flogosi possono essere particolarmente dannose e, quindi, condurre a morte
se non adeguatamente trattate soprattutto durante la stagione invernale, quando aumenta il
rischio di contaminazione comunitaria, da un individuo all’altro, per la refrigerazione.

o POLMONITI ENDOBROCHIALE-ENDOALVEOLARE: si può avere estrinsecazione della flogosi tra


bronco e polmone e, quindi, una polmonite essudativa endobronchiale endoalveolare. Ciò significa
che l’essudato dal bronco si propaga all’alveolo e, quindi, si manifesta come un quadro di
broncopolmonite. L’agente eziologico, essendo una flogosi essudativa endobronchiale
endoalveolare, è sempre lo stesso, cioè il Pneumococco.

o POLMONITI INTERSTIZIALI: si tratta di polmoniti che si estrinsecano nell’interstizio polmonare e


che non riconoscono come agente patogeno il batterio sopracitato ma soprattutto i virus.

Quindi ci troviamo di fronte alla possibità di classificare le polmoniti in base alla sede presso cui si
estrinseca il processo infiammatorio che “guardacaso” correla con il tipo di flogosi, acuto o cronico, e con
l’eziologia, batterica o virale.

Le polmoniti essudative batteriche e quelle virali si possono distinguere come:

• FLOGOSI TIPICA
• FLOGOSI ATIPICA

La POLMONITE TIPICA, è la polmonite batterica ovvero polmonite essudativa endoalveolare acuta o una
broncopolmonite.
La POLMONITE ATIPICA è, invece, la polmonite virale, definita così per la sede, la localizzazione del
processo infiammatorio, cioè l’interstizio polmonare, dato che la reazione infiammatoria nasce comunque
dalla colonizzazione dei virus all’interno del pneumocita. Sappiamo, infatti, che i virus per potersi replicare
hanno bisogno di cellule di supporto. Quindi il virus colonizza lo pneumocita e provoca un danno citopatico
all’interno dell’alveolo che è responsabile della risposta infiammatoria costitutita, non da granulociti, bensì
da linfociti come in tutte le infezioni virali. Di conseguenza abbiamo una risposta infiammatoria
prevalentemente linfocitaria nell’interstizio polmonare a seguito di un danno citopatico del virus a livello
del pneumocita di I ordine.

In caso di infezione batterica non si ha questo poichè non è necessario che il batterio provochi,
colonizzando il pneumocita, il danno citopatico semplicemente perchè i batteri, una volta giunti
nell’alveolo, richiamano i macrofagi endoalveolari che sono pronti ad arginare il fenomeno infiammatorio.
Si scatena già una risposta infiammatoria endoalveolare senza che sia necessario il danno citopatico
endoalveolare. La flogosi si estrinseca, poi in questo caso, come flogosi granulocitaria, costituita da
granulociti e macrofagi all’interno dell’alveolo polmonare o del bronco, se la flogosi parte come
broncopolmonite.

In sintesi la polmonite tipica è quella batterica essudativa mentre quella atipica è quella virale, definita in
questo modo perchè necessita del danno citopatico endoalveolare per determinare la flogosi che si
estrinseca, poi, nel sottile interstizio polmonare.

Lo studio epidemiologico della polmonite mostra come questo processo patologico sia estremamente
diffuso nel mondo: sono colpiti 4/5 soggetti su almeno 1000 abitati durante l’anno con una mortalità
globale del 10/14%.
Dunque una polmonite infettiva, batterica o virale, colpisce molti individui e tale numero aumenta in
determinate stagioni dell’anno.
Se si osserva il rapporto mortalità/ morbilità, la morbilità è molto più alta rispetto alla mortalità ovvero ci si
ammala tantissimo anche se, comunque, la mortalità mantiene un valore di tutto rispetto nonostante la
diffusione della terapia antibiotica. Infatti, la riduzione della mortalità è proprio da attribuire alla diffusione
dei farmaci.
Oggi, però, si sta assistendo ad un’altra situazione particolare, cioè la resistenza agli antibiotici. Il tutto è,
poi, aggravato dal fatto che le aziende farmaceutiche producono pochissimi antibiotici perchè, per ragioni
economiche, il mercato farmacologico è orientanto verso le patologie neoplastiche, cioè verso i farmaci
antineoplastici.
Inoltre, la stessa chemioterapia se da una parte ha lo scopo di arginare e sconfiggere un cancro, dall’altra
debilita il sistema immunitario. Infatti, il paziente oncologico è un immunodepresso condizione che lo
espone a morte per infezioni: molto spesso nell’immunocompromesso da chemioterapia il decesso avviene
proprio per infezioni polmonari o di vario tipo.

Quando un processo infettivo infiammatorio, batterico o virale, si instaura accade perchè determinati
meccanismi di protezione del nostro organismo vengono meno.
I normali meccanismi di difesa dell’apparato respiratorio contro la penetrazione di agenti patogeni sono: la

• CLEARANCE MUCOCILIARE: ciglia e muco hanno la funzione fondamentale di bloccare tutto ciò che
attraverso l’aria penetra eventualmente nei nostri polmoni
• MACROFAGI ENDOALVEOLARI che svolgono la prima terapia d’urto nei confronti di qualsiasi
patogeno che entra: quando questi macrofagi sono alterati, bloccati per altre situazioni (vedi per
inalazioni di polveri, sostanze chimiche, fumo di sigaretta, etc..) e, quindi, non adeguatamente
funzionanti, viene favorita la proliferazione e la penetrazione di batteri a livello alveolare
• TOSSE attraverso la quale viene eliminato all’esterno tutto ciò che penetra nelle vie aeree e, quindi,
è facile comprendere che i soggetti che hanno malattie degenerative (vedi Morbo di Alzheimer,
Sclerosi, Sclerodermie) che compromettono la realizzazione del riflesso nervoso della tosse sono
più esposti alle infezioni batterico/virali.

Nel momento in cui questi meccanismi di difesa vengono meno è opportuno consigliare, all’inizio della
stagione invernale, la vaccinazione antinfluenzale per proteggere tali soggetti con determinate fragilità da
possibili infezioni.
Per fragilità si intende anche semplicemente il fumo di sigaretta perchè sicuramente il soggetto fumatore è
il primo che subisce l’infezione influenzale durante la stagione in quanto il fumatore accanito presenta la
metaplasia dell’epitelio respiratorio, ovvero l’epitelio cilindrico ciliato viene sostituito con l’epitelio
pavimentoso pluristratificato più resistente quando esposto al fumo di sigaretta. Questo epitelio, però,
manca di ciglia per cui tutto passa e raggiunge l’alveolo.

Bisogna, poi, ricordare che lo scompenso cardiaco, le cardiopatie, l’insufficienza respiratoria e l’insufficienza
cardiaca favoriscono l’accumulo di liquido a livello polmonare e, quindi, la presenza di edema polmonare
(come nei pazienti scompensati, negli anziani e nei soggetti allettati) può favorire la proliferazione di
batteri.

I patogeni nei polmoni giungono:

o mediante la respirazione cioè per INALAZIONE. L’inalazione è la modalità più veloce con la quale
l’agente patogeno entra nel nostro organismo. Dopo il semplice starnuto di una persona infetta,
mediante le piccole gocce di saliva, il patogeno può essere respirato. Questo permette di capire
perchè la diffusione avvenga nelle comunità, nelle classi, nei supermercati, etc...
o mediante ASPIRAZIONE DI PATOGENI LOCALIZZATI A LIVELLO TONSILLARE. Quindi è possibile che
la flogosi localizzata in un determinato distretto, come una semplice tonsillite, faringite o infezione
buccale, possa favorire l’arrivo di patogeni nelle vie respiratorie.
o per VIA EMATOGENA. Infatti, per via ematica il patogeno può raggiungere l’albero respiratorio
essendoci uno stretto rapporto tra il cuore e i polmoni.
o per CONTINUITÀ DA FOCOLAI INFIAMMATORI VICINI come, per esempio, una esofagite infettiva,
una mediastinite, una pleurite e, quindi, un processo infiammatorio qualsiasi di un organo vicino
può diffondere al parenchima polmonare.

Cerchiamo, ora, di analizzare quali siano i PATOGENI che inducono polmonite tipica e atipica e
broncopolmonite.
Si tratta sicuramente di BATTERI GRAM + e tra questi il batterio per eccellenza è il Diplococcus (o
Streptococcus) Pneumoniae. A questo batterio seguono tanti altri come Streptococcus pyogenes,
Staphylococcus aureus, etc…
Sono responsabili di questi processi anche BATTERI GRAM – come la Klebsiella Pneumoniae che, in
ambienti ospedalieri, crea in pazienti ospedalizzati infezioni broncopolmonari. Altri batteri Gram – di
minore importanza sono: Proteus, Escherichia Coli, Enterobacter, Serratia, Haemophilus Influenzae,
Pseudomonas aeruginosa, etc…

Poi ci sono tutta un’altra serie di batteri tra cui BATTERI ANAEROBI che possono determinare polmoniti e
broncopolmoniti: questi creano tensione, paura in ambiente ospedaliero perchè sono difficili da eradicare
per cui complicano la reazione infiammatoria causando gangrene rendendo molto difficile il trattamento
delle infezioni batteriche anaerobiche.

Poi ancora ci sono tutta una serie di BATTERI EMERGENTI tra cui:

o Moraxella
o Legionellae
o Clamidiae
o Mycoplasmi
o Rickettsiae

che in alcuni ambiti e popolazioni creano grossi problemi essendo causa di polmoniti e broncopolmoniti
difficili da trattare farmacologicamente.

Esiste, poi, una forma particolare di polmonite causata dallo Pneumocystis carinii la quale è una forma
endoalveolare associata ad elevata mortalità e tipica degli immunodepressi (POLMONITE
OPPORTUNISTICA). Lo Pneumocystis è un fungo, cioè un microrganismo appartenente alla famiglia dei
miceti.

Esistono, poi, I virus responsabili di polmoniti atipiche, interstiziali che si distinguono in:

o VIRUS RESPIRATORI cioè:


− virus influenzali
− virus parainfluenzali
− virus sinciziale respiratorio
− adenovirus
o VIRUS SISTEMICI che una volta penetrati nell’ organismo complicano la malattia sistemica virale
con una polmonite virale interstiziale, cioè:
− cytomegalovirus
− virus di Epstein-Barr
− virus del morbillo
− virus della varicella e dell’herpes zoster
− cornonavirus (SARS)

La varicella è una banale malattia esantematica ma si complica molto spesso esattamente come il morbillo.
Ecco perchè è molto importante la vaccinazione contro le malattie esantematiche che possono sembrare
banali perchè si risolvono nel giro di pochi giorni ma che si possono, però, complicare. Ad esempio il
bambino con morbillo muore per polmonite interstiziale non per la infezione morbillosa. Quindi i virus
sistemici, come quelli del morbillo e della varicella, possono dare origine per diffusione ematogena a
polmoniti interstiziali. Infatti la polmonite in un neonato che possiede un interstizio polmonare più
rappresentato è molto grave.

Poi vi sono altri virus, come il Citomegalovirus o il virus di Epstein-Barr che, in genere, complicano I pazienti
immunodepressi. Ad esempio la polmonite da Citomegalovirus si osserva in un immunodepresso in caso di
HIV o di chemioterapie e conduce a morte. In questo ultimo caso la situazione è drammatica perchè non
esistono farmaci antivirali selettivi. Una infezione virale si tratta, infatti, semplicemente con farmaci
antipiretici (terapia sintomatica) e una copertura antibiotica. Talvolta possono essere usati alcuni farmaci
antivirali che hanno, però, grosse controindicazioni. Si prescrive una terapia antibiotica di copertura perchè
si può presentare una sovrainfezione che complica il quadro clinico. Non avendo farmaci selettivi per
qualsiasi virus, spesso le polmoniti atipiche sono causa di decesso per cui la scelta migliore è vaccinare tutti
i soggetti naturalemente predisposti alle infezioni virali (vedi bambini in età pediatric ache devono essere
vaccinati contro il virus del morbillo, della varicella, etc….)

Pericolosa è anche l’infezione da Coronavirus associato alla SARS, un’infezione drammatica che ha dato una
serie di morti in Cina e in altre popolazioni (anche in Italia) il quale è responsabile di polmoniti violente ed
emorragiche per cui il soggetto muore perchè non riesce più a respirare. L’unica possibilità di cura per il
paziente consiste nella circolazione extracorporea associate ad antivirali e antibiotici di copertura.

Anche i funghi tra cui Pneumocystis carinii (già analizzato), la Candida, l’Aspergillus, il Cryptococcus,
l’Istoplasma, i Coccidioidea, gli Actinomyces, la Nocardia, etc… sono responsabili di polmoniti micotiche
molto difficili da debellare e che si presentano negli immunodepressi.
POLMONITI

La POLMONITE TIPICA ACUTA ESSUDATIVA ENDOALVEOLARE è detta anche POLMONITE LOBARE FRANCA
ed è tipica dei soggetti che vivono in comunità.
Possono essere BATTERICHE o VIRALI.
L’agente patogeno principale è il Pneumococcus (o Diplococcus) e poi via via tutti gli altri patogeni.

È opportune distinguere dalla polmonite essudativa endoalveolare tipica comunitaria, la POLMONITE


ESSUDATIVA ENDOALVEOLARE ACUTA NON COMUNITARIA (o DEGLI AMBIENTI OSPEDALIERI) la quale
non è lobare ma è una broncopolmonite.

Quindi l’infezione acuta essudativa endoalveolare comunitaria è una polmonite tipica lobare franca, mentre
la polmonite degli ambienti ospedalieri è una broncopolmonite essudativa endobronchiale-
endopolmonare.

La polmonite acuta dei soggetti non ospedalizzati cioè che vivono in comunità sono delle polmoniti tipiche
dei soggetti immunocompetenti ovvero dotati di un sistema immunitario adeguato, maturo, che risponde
adeguatamente all’infezione batterica (in questo caso parliamo di essudativa, quindi necessariamente
batterica).
Nelle forme non comunitarie (o nosocomiali) l’agente patogeno prevalente è la Klebsiella. Si tratta di
soggetti immunodepressi: ospedalizzati, residenti in strutture di lungo-degenza oppure ricoverati in
rianimazione da almeno 14 giorni.

Riassumendo si distinguono:

− POLMONITI ESSUDATIVE COMUNITARIE → tipiche dei soggetti giovani ed immunocompetenti


− BRONCOPOLOMONITI ESSUDATIVE NOSOCOMIALI → tipiche dei soggetti non immunocompetenti,
giovani o anziani, che alloggiano in una struttura ospedaliera da almeno 14 giorni

La POLMONITE ESSUDATIVA ENDOALVEOLARE TIPICA COMUNITARIA viene definita lobare franca. Tende a
localizzarsi nei lobi inferiori e colpisce soprattutto il polmone di destra. Si riconosce una patogenesi
iperergica: il soggetto ha già avuto un contatto con il Diplococco (per esempio in caso di angina tonsillare)
ma un secondo contatto determina una reazione immunitaria esagerata tanto da determinare una flogosi
essudativa massiva di un intero lobo. Proprio per tale motivo questa forma viene detta lobare perchè un
intero lobo polmonare viene invaso dalla flogosi. Il rischio di questi soggetti è quello di avere complicanze
se la patologia non viene diagnosticata e curata.

Si tratta di una patologia acuta per cui non dura tanto: generalmente non supera una settimana.

È importante sapere che interessa unicamente i lobi inferiori come si può apprezzare all’auscultazione (vi è
una differenza tra lobo superiore e lobo inferiori).

È una malattia che si presenta in fasi, quindi ha una precisa evoluzione temporale:
- FASE I, dura 24 ore e viene definite FASE DI INGORGO EMATICO E DELL’EDEMA
- FASE II, dura dalla 2 alla 3° giornata e viene definita FASE DI EPATIZZAZIONE ROSSA
- FASE III, dura dalla 4 alla 6° giornata ed è definita FASE DELLA EPATIZZAZIONE GRIGIA
- FASE IV, dura altri due giorni ed è definite FASE DI RISOLUZIONE
Le prime 24 ore sono quelle in cui si arriva a casa la sera e ci si sente un po’ spezzati. Al risveglio la febbre è
altissima e compiaono i primi sintomi.
In queste prime 24 ore non bisogna somministare la terapia
antibiotica perché bisogna fare in modo che si realizzi la fase
della epatizzazione rossa, cioè la fase in cui i batteri
endoalveolari aumentano e soprattutto nell’alveolo accorrono gli
elementi della flogosi e, quindi, macrofagi e granulociti
polimorfonucleati che devono distruggere i batteri. Se si cerca di
spegnere subito l’infezione possono comparire una serie di
complicanze se non addirittura il decesso per il mancato 24 h
reclutamento dei PMN.
La FASE DELL’INGORGO EMATICO che dura solo 24 ore è la
fase che al tavolo autoptico non si vede mai, contrariamente a
quella di epatizzazione rossa o grigia o addirittura di
complicanza. In questa fase si osserva un lobo polmonare di
colorito rosso cupo perché gli alveoli, per l’iperemia, si
riempiono di emazie, le quali si spostano dai capillari
all’interno dell’alveolo. Nell’alveolo sono presenti anche i
macrofagi endoalveolari ma anche i batteri che iniziano la loro
proliferazione. Questa fase vede la presenza di pochi 2-3°
granulociti neutrofili che produrranno gli enzimi litici insieme giornata
ai macrofagi per spazzare via i batteri per cui, spegnendo il
processo infiammatorio subito, si crea un disastro.

La FASE DELLA EPATIZZAZIONE ROSSA comprende la seconda e


terza giornata ed è caratterizzata da flogosi essudativa
endoalveolare. Si osservano alveoli pieni di granulociti
polimorfonucleati che sono arrivati per combattere i batteri 6-7°
che nel frattempo proliferano, emazie sempre più evidenti ma giornata
soprattutto dai capillari alveolari nell’alveolo transita la
fibrina. La fibrina si sposta insieme alle emazie negli alveoli e
intrappola tutto il materiale presente nell’alveolo: batteri,
granulociti polimorfonucleati, macrofagi ed emazie. Nell’alveolo si crea una specie di tappo e l’alveolo non
ventila più. Il lobo polmonare acquista addirittura una caratteristica densa e compatta simil epatica da cui il
nome di epatizzazione rossa. Questa è la fase in cui dobbiamo iniziare a somministrare l’antibiotico perché
bisogna aiutare la bonifica dell’alveolo.

Nella FASE DI EPATIZZAZIONE GRIGIA (quarta e quinta giornata), la fibrina sempre più abbondante ricca di
batteri, macrofagi, granulociti e cellule sfaldate alveolari viene smaltita dagli enzimi proteolitici dei
macrofagi. Il colorito del lobo polmonare da essere rosso intenso vira verso il grigiastro (→ epatizzazione
grigia).

Nella FASE DI RISOLUZIONE il tappo di fibrina nell’alveolo è completamente lisato grazie agli enzimi
proteolitici prodotti dai macrofagi e dai polimorfonucleati che favoriscono la fluidificazione. Il materiale
lisato viene allontanato per via linfatica e attraverso la tosse. Il soggetto nella fase della risoluzione
riprende, quindi, a respirare e non avrà più sintomi.

Dal punto di vista clinico si osserva che:


− nella FASE DELL’INGORGO EMATICO il paziente ha una sintomatologia iniziale aspecifica. Il paziente
riferisce di sentirsi stanco e al mattino si sveglia con febbre altissima (38-39°C), brividi e soprattutto
tosse produttiva (l’ingorgo alveolare non è particolarmente ricco di fibrina per cui prevale il muco)
associate a dolore puntorio toracico alla respirazione dovuto al coinvolgimento pleurico.
All’ascultazione si percepiscono rantoli crepitanti durante la fase inspiratoria ed espiratoria, a causa
dell'accumulo di essudato negli alveoli.
− nella FASE DI EPATIZZAZIONE ROSSA e GRIGIA, all'auscultazione del torace, siccome gli alveoli sono
pieni di fibrina e di tutto il materiale in degradazione, si percepisce silenzio respiratorio. I sintomi
persistono ma la tosse è secca per la presenza del tappo di fibrina.
− nella FASE DELLA RISOLUZIONE si osserva che il paziente riprende la tosse produttiva con
l'espettorazione di un essudato fangoso, fetido e grigiastro, la febbre cala improvvisamente per lisi
e i rumori respiratori ritornano come crepitatio redox, ovvero aumentano durante la fase
espiratoria.

La condizione clinica si può aggravare se si somministra una terapia antibiotica troppo precoce. Infatti, se si
bonificare velocemente l’alveolo si può osservare la CARNIFICAZIONE del lobo polmonare, ovvero il lobo
polmonare resta compatto e omogeneo con la fibrina che si addensa per cui il processo infiammatorio
determina compattezza del lobo con fibrosi polmonare. Il soggetto può sopravvivere ma avrà un lobo fuori
uso da un punto di vista funzionale e, quindi, avrà dispnea nella corsa o in palestra.
Un'altra complicanza può essere la SOVRAINFEZIONE DA BATTERI ANAEROBI e, quindi, ascessi e gangrene
polmonari. Se una polmonite si complica con una gangrena bisogna intervenire aprendo il torace.
Si può, poi, avere la TRIADE DI MACCHIA FAVA, cioè in corso di polmonite batterica NON meningococcica
ma diplococcica è possibile osservare: batteriemia per cui il diplococco diffonde, per esempio, all'organo
più vicino che è il cuore, dando origine a endocarditi, miocarditi o pericarditi batteriche o, tramite la
circolazione cardio-polmonare, all'encefalo dando meningite.
Un'altra complicanza della polmonite lobare è la diffusione del processo infiammatorio alla pleura con la
conseguente raccolta purulenta nel cavo pleurico e, quindi, EMPIEMA.

P.S. Spesso si scambiano meningismi batterici in corso di polmoniti lobari da diplococco come meningite
batterica da meningococco che, invece, provoca un’essudazione batterica a cuffia con evoluzione rapida e
morte.

BRONCOPOLMONITE
La BRONCOPOLMONITE è una flogosi essudativa che
colpisce soggetti non immunocompetenti e, quindi,
soprattutto soggetti ospedalizzati per cui sono ascritte tra
le tipiche patologie nosocomiali. È un processo che,
proprio perché coinvolge soggetti non
immunocompetenti, NON ha una patogenesi iperergica
ma una ipoergica, iporeattiva e questo spiega il fatto che
la malattia si manifesti a focolai singoli o multipli.
I focolai multipli interessano entrambi i polmoni e
soprattutto i lobi inferiori ma esiste un’altra sede
peculiare che è quella lungo le docce paravertebrali
dovuta al fatto che, essendo pazienti ospedalizzati o
soggetti immunodepressi, stanno per parecchio tempo
sdraiati (vedi anziano, malato, neonato o bambino in età prescolare)
I focolai multipli possono addirittura confluire tra loro e dare origine a FORME PSEUDOLOBARI cioè mimano
quella che è una forma lobare.

Tra i fattori che predispongono alla broncopolmonite, oltre all’immunodepressione, ricordiamo il cattivo
funzionamento cardiaco e la stasi polmonare come accade nei soggetti con scompenso cardiaco ma anche
la difettosa ventilazione polmonare, l’aspirazione di materiale infettante e la perfrigerazione e l’inalazione
di polveri irritanti.
Gli agenti eziologici sono sempre gli stessi (Pneumococco, Stafilococco, Haemophilus Influenziae,
Mycoplasma, Clamiadiae, Legionella, Pseudomonas aeruginosa) con maggiore predilezione, però, per le
Klebsielle.

Dal un punto di vista evolutivo, la broncopolominite non ha lo stesso andamento a giorni prestabiliti della
polmonite lobare poichè i soggetti sono ipoergici o anergici e la malattia è a focolai multipli confluenti.
Infatti possono essere presenti focolai nella fase evolutiva dell’ingorgo ematico, focolai nella fase
dell’epatizzazione rossa, focolai nella epatizzazione grigia e altri in fase di risoluzione, cioè la caratteristica
della broncopolmonite è che i focolai seguono le stesse alterazioni morfologiche della polmonite lobare ma
ogni focolaio è in diversa fase evolutiva.
È difficile trattare, quindi, una broncopolmonite rispetto ad una polmonite lobare da un punto di vista
clinico-farmacologico perché il paziente non avrà le caratteristiche cliniche della polmonite lobare come la
febbre, i brividi, il dolore puntorio, la crepitatio, la tosse produttiva poi secca e poi dinuovo produttiva ma
avrà.
− febbre alta
− tosse produttiva e mai secca in virtù dei differenti focolai in fase evolutiva
− dolore toracico
Inoltre è presente un maggiore rischio di complicanze perché i soggetti non sono immunocompetenti.
La terapia antibiotica deve essere somministrata, infatti, per un tempo più prolungato rispetto alla
polmonite lobare. Questo spiega perché la broncopolmonite rappresenta spesso l’evento finale di morte in
soggetti ospedalizzati per altre ragioni.
Le complicanze sono:
− ASCESSI
− EMPIEMA PLEURICO
− GANGRENE DA SOVRAIFEZIONE CON ANAEROBI
− BATTERIEMIA SISTEMICA
− CARNIFICAZIONE (anche se quest’ultima è una caratteristica più spesso della polmonite lobare)
All’esame autopstico si osservano I vari focolai nelle varie fasi evolutive.

POLMONITE VIRALE
Le polmoniti virali sono legate alla localizzazione del
virus a livello alveolare. I virus (virus influenzale,
parainfluenzale, citomeglovirus, varicella, rhinovirus,
virus respiratorio sinciziale etc…) si localizzano a
livello degli pneumociti di I tipo provocando un
danno citopatico endoalveolare, risposta
infiammatoria ricca di linfociti nell’interstizio e, in
situazioni eccezionali, fibrosi, anche se normalmente
nelle polmoniti virali atipiche (o interstiziali) NON si
ha fibrosi.
La polmonite virale si manifesta con una fase iniziale
in cui il virus si trova all’interno dell’alveolo,
colonizza gli pneumociti, si ha iperemia e danno
citopatico con passaggio del virus nell’interstizio. Si
osserva una risposta infiammatoria interstiziale con
edema ed essudato prevalentemente
linfomonocitario come in tutte le flogosi virali. Non
c’è normalmente fibrosi e il quadro tende a risolversi
spontaneamente ed è sufficiente una terapia
antipiretica anche se è consigliata una terapia
antibiotica di supporto per evitare sovrinfezioni.

P.S. In caso di polmonite da virus sinciziale, si


osservano cellule multinucleate colonizzate dal virus
mentre, in caso di infezione da Citomegalovirus, si
apprezzano le classiche cellule ad occhio di civetta
che spesso si riscontrano in nati abortiti perché la
mamma ha contratto l’infezione da Citomegalovirus
in gravidanza oppure negli immunodepressi.

P.S. Una forma particolare di polmonite interstiziale


è la POLMONITE INTERSTIZIALE DESQUAMATIVA (DIP) in cui gli alveoli sono pieni di macrofagi che
contengono lipidi e granuli PAS + costituiti probabilmente da surfactante e materiale proteico precipitato.
Questa polmonite desquamativa è importante perché si localizza prevalentemente a livello dei lobi inferiori
e può indurre fibrosi interstiziale. La causa precisa di questa particolare polmonite interstiziale non si
conosce, tant’è che oggi si pensa che sia una fase iniziale di fibrosi idiopatica interstiziale.

SARS
La SARS (SINDROME DA DANNO RESPIRATORIO ACUTO) è una patologia indotta dai Coronavirus cioè virus
particolari che, nel 2003, hanno creato in Cina quasi una infezione endemica e decessi anche in Europa e in
Italia. Colpisce soprattutto adulti, ha un periodo di incubazione rapidissimo (3-7 giorni) e si manifesta con
tosse produttiva, dispnea importante, ipossia e, quindi, cianosi.
All’esame radiografico si riscontrano infiltrati polmonari densi bilaterali e quando si va ad osservare
istologicamente il soggetto deceduto per SARS si osserva:
− danno alveolare diffuso
− edema
− infiltrato linfocitario interstiziale
− molte membrane ialine cioè fibrina che passa dai capillari alveolari all’interno dell’alveolo creando
o peggiorando la condizione di dispnea ingravescente
− danno capillare e, quindi, emorragia
− condizioni che possono portare alla morte del soggetto.
In caso di SARS il trattamento possibile è quello di mettere il soggetto in circolazione extracorporea per
garantire l’ossigenazione del sangue, somministare una terapia antivirale e aspettare che il processo si
risolva.

PNEUMOPATIE

I processi infiammatori del polmone, in base all’eziologia, possono essere distinti in:

• INFETTIVI
• NON INFETTIVI
• PNEUMOPATIE

Nell’ambito delle PNEUMOPATIE rientrano tutta una serie di flogosi che si estrinsecano, prevalentemente,
nell’interstizio polmonare.
Si tratta di processi cronici, non neoplastici e non infettivi, del tratto bronchiolo-alveolare e, quindi, della
porzione funzionale del polmone.
La maggior parte di queste flogosi portano a fibrosi (ispessimento fibrotico dell’interstizio polmonare)
situazione che compromette la funzionalità dell’unità di scambio alveolo-capillare determinando
un’INSUFFICIENZA RESPIRATORIA DI TIPO RESTRITTIVO (IRR).

Le pneumopatie sono malattie ad esordio lento e insidioso e ad evoluzione progressiva, infatti, anche
rimuovendo la causa che le determina, il processo infiammatorio fibrosante procede nel tempo per cui i
soggetti potranno morire per IRR e conseguente scompenso cardiaco.
Dal punto di vista clinico un soggetto con pneumopatia, di qualsiasi età, ha difficoltà respiratorie
importanti, soprattutto sotto sforzo, inizia a presentare segni di ipossia (anche cianosi) e di complicanze
cardiache (inizialmente disturbi del ritmo legati all’ipertensione, successivamente scompenso cardiaco).
Un’indagine radiologica del torace mette in evidenza un ispessimento dell’interstizio polmonare di tipo
diffuso o di tipo nodulare (immagine a vetro smerigliato).
L’immagine a vetro smerigliato ha una particolare distribuzione: si apre dall’ilo polmonare verso l’apice e,
poi, verso la base (profilo a farfalla) e può essere indicativa sia di una pneumopatia interstiziale
(interstiziopatia) che di alcune neoplasie del polmone (adenocarcinomi del polmone).
Per quest’ultimo motivo, quando ci si trova di fronte ad un’immagine con profilo a farfalla, è obbligatorio
approfondire l’iter clinico-diagnostico con una biopsia.

L’inquadramento nosografico di questa patologia è:


• FORME AD EZIOLOGIA SCONOSCIUTA cioè:
o POLMONITI INTERSTIZIALI IDIOPATICHE
o DISORDINI GRANULOMATOSI come la sarcoidosi
• FORME DA CAUSA NOTA, cioè:
o da FARMACI come:
▪ AMIODARONE (o CORDARONE) è molto utilizzato dai cardiologi poiché è molto
efficace per il controllo delle aritmie cardiache. L’utilizzo prolungato di questo
farmaco determina, però, ipotiroidismo e fibrosi polmonare
▪ METOTREXATE e SALI D’ORO molto utilizzati dai reumatologi.
o associata a MALATTIE DEL COLLAGENE
o da POLVERI INQUINANTI (pneumoconiosi)
• FORME CHE POSSONO SIMULARE LA FIBROSI INTERSTIZIALI, cioè:
o LINFOANGIOLEIOMIOMATOSI che è una malattia tipica delle donne caratterizzata da noduli
nell’interstizio polmonare che ricordano il leiomioma uterino (noduli formati da cellule
muscolari lisce, vasi ematici e linfatici)
o ISTIOCITOSI A CELLULE DI LANGHERANS
o POLMONITE EOSINOFILA

Le malattie più comuni sono comunque le PNEUMOCONIOSI, cioè interstiziopatie determinate


dall’inalazione di polveri minerali.
Si tratta di malattie professionali che si osservano, prevalentemente, in soggetti che, lavorando, sono
esposti per un tempo prolungato ad un’alta concentrazione di queste polveri inquinanti.

Non tutte le polveri inalate provocano un danno interstiziale fibrosante.


Si distinguono, infatti:
- POLVERI SCLEROGENE le quali sono le più pericolose. Queste si accumulano nell’interstizio
polmonare, in quanto i macrofagi non sono in grado di distruggerle, e innescano una flogosi cronica
che porta all’attivazione dei fibroblasti e quindi alla fibrosi dell’interstizio.
- POLVERI NON SCLEROGENE le quali non provocano fibrosi ma provocano una risposta di tipo
allergico (polveri di cotone, fieno, etc...)

Un individuo che ha inalato polveri sclerogene, contrariamente ad un individuo che ha inalato polveri non
sclerogene, anche se allontanato dall’ambiente inquinato, nel tempo va incontro a tutte le manifestazioni
dannose della malattia perché le polveri rimangono nel polmone dato che non vi è alcuna possibilità di
eliminarle.
Il soggetto, pertanto, deve essere monitorato per sempre perché ha il rischio di sviluppare o una
pneumoconiosi o un cancro (complicanza di molte pneumopatie).

Le polveri più pericolose presentano caratteristiche dimensionali particolari.


Le particelle che hanno un diametro maggiore di 5 µm sono bloccate immediatamente attraverso la
clearance mucociliare ed espulse attraverso la saliva, lo starnuto o la tosse.
Le particelle che hanno un diametro minore di 2 µm sfuggono, invece, alle difese delle prime vie
respiratorie e raggiungono l’albero respiratorio terminale dove vengono facilmente eliminate attraverso la
via ematica/linfatica determinando un danno alveolare acuto relativamente poco grave.
Le particelle più pericolose sono quelle che hanno un diametro compreso tra 3 e 5 µm perché sono in grado
di sfuggire alle difese superficiali e si accumulano nell’albero respiratorio bronchiolo-alveolare innescando
la flogosi cronica.

Oltre alle dimensioni, bisogna considerare la tipologia di polvere respirata, la loro biodegradabilità e la
concentrazione e il tempo di esposizione per poter valutare realmente il rischio di sviluppare una
pneuomoconiosi.

Le pneumoconiosi più importanti sono:


- ANTRACOSI (polmone del minatore) causata dall’accumulo di carbone nell’interstizio polmonare
- SILICOSI causata dall’accumulo di silice (quarzo), la polvere più sclerogena in assoluto
- ASBESTOSI dovuta all’accumulo di polvere di asbesto (o amianto)
- BERILLIOSI dovuta all’accumulo polvere di berillio
Pneumoconiosi meno frequenti sono le SIDEROSI (accumulo di ferro) e quella determinata dall’accumulo di
rame.
Quasi tutte le pneumoconiosi si associano alla SINDROME DI CAPLAN, ovvero ad una variante di artrite
reumatoide determinata, probabilmente, da un’immunodeficienza indotta dall’accumulo di polveri
sclerogene.
Le polveri sclerogene che giungono a valle dell’albero respiratorio si accumulano, inizialmente, nei
macrofagi e ne innescano la morte dato che i macrofagi non presentano enzimi litici in grado di distruggere
le polveri le quali, attraverso il danno di membrana, passano nell’interstizio polmonare.
In questa operazione di tentata fagocitosi vengono liberati fattori della flogosi che richiamano altri
macrofagi e, soprattutto, fattori di attivazione dei fibroblasti che raggiungono il sito della flogosi e iniziano
ad arginare l’accumulo di polvere creando fibrosi o noduli fibrotici.

La fibrosi che si osserva in questi processi infiammatori interstiziali può essere:


• DIFFUSA
• NODULARE
Quindi si può avere una fibrosi che forma noduli che poi si uniscono tra di loro diventando diffusa oppure
una fibrosi diffusa diretta legata al processo infiammatorio cronico.
L’unica pneumoconiosi in grado di dare una fibrosi nodulare, a forma di nodulo, è la SILICOSI. Questo
accade perché evidentemente il processo infiammatorio che porta alla formazione del nodulo inizia già
all’interno dell’alveolo, cioè i macrofagi alveolari bloccano la polvere di silice e, poi, muoiono liberando altri
mediatori della flogosi. Arrivano, quindi, altri macrofagi nell’alveolo ma soprattutto già nell’alveolo inizia
l’attivazione dei fibroblasti che compongono il nodulo silicotico.
In caso di antracosi o di asbestosi, invece, l’attivazione fibroblastica è prevalentemente interstiziale, quindi,
comincia e si accentua via via nell’interstizio determinando una fibrosi diffusi.
Quindi la fibrosi dell’antracosi è diffusa così come quella della fibrosi dell’asbesto mentre quella della
silicosi è nodulare ma via via i noduli si fondono dando origine ad una fibrosi diffusa.

Il polmone si presenta in vario modo in base alla tipologia di pneumoconiosi.

ANTRACOSI
In caso di ANTRACOSI (→ polmone nero) il polmone si presenta nero all’esame autoptico o nei pezzi
chirurgici per l’accumulo di polvere di carbone sia nell’interstizio che nei macrofagi endoalveolari. Questo
aspetto nero è tipico del fumatore in cui questo effetto è a macchia di leopardo rispetto al minatore che,
inalando massimamente la polvere di carbone, presenta una antracosi più omogenea. Nel fumatore il
disegno antracotico è ben evidente specialmente se il soggetto fuma più di venti sigarette al giorno oppure
se ha un’abitudine al fumo datata. Anche stare molto tempo vicino al camino può favorire lo sviluppo di un
maggior disegno antracotico (vedi pizzaioli).

Il carbone si accumula inizialmente nelle zone più ventilate del polmone (apice) e, poi, via via dall’ilo
polmonare scende verso le basi polmonari.

L’antracosi può essere:


• LIEVE (o SEMPLICE) vedi quella dei fumatori
• SEVERA come quella del polmone del minatore che è tanto più grave quanta più polvere di silice o
di quarzo viene inalata insieme con il carbone. L’antracosi del minatore è un’antracosi
generalmente severa proprio perché associata all’inalazione di polvere di silice che determina una
fibrosi rapida e diffusa.

Per capire se si tratta di una semplice antracosi o di una antracosi associata a silicosi bisogna tener presente
che, nell’antracosi, il polmone è nero come la pece. Quando questa condizione si associa alla silicosi, il
polmone diventa lapideo, duro come la pietra dato che il silicio non è altro che una pietra. Quindi antracosi
e silicosi insieme determinano la formazione di un polmone di cui alcune parti sono più morbide per
l’accumulo di carbone e altre sono dure come la pietra tanto da creare difficolta nella fase di dissezione.

SILICOSI
La SILICOSI è la pneumoconiosi più frequente in assoluto al mondo e, quindi, anche in Italia.
È la prima causa di pneumoconiosi ed è tipica di tutti i lavoratori che inalano la silice cristallina
comunemente chiamata QUARZO. Il quarzo si ritrova nelle polveri industriali per cui sono interessati da
questa patologia i lavoratori delle imprese di edilizia, i lavoratori della ceramica, i lavoratori del vetro (vedi i
soffiatori del vetro che maneggiano la pasta di vetro che contiene quarzo), etc…
Per evitare l’inalazione, però, oggi si utilizzano dispositivi di protezione individuale, cioè mascherine con
filtri che bloccano le polveri presenti nell’aria.

P.S. La silice più pericolosa è quella cristallina, cioè il biossido di silicio.

Nella silicosi, la fibrosi si innesca all’interno dell’alveolo per cui si parla di FIBROSI NODULARE. Inizialmente
il nodulo è ISTIOCITARIO cioè costituito da istiociti cioè è un nodulo macrofagico successivamente, però,
per l’attivazione dei fibroblasti il nodulo si circonda di fibroblasti diventando un nodulo fibroistiocitario che,
poi, evolve alla fine in un nodulo fibroso responsabile dell’aspetto lapideo del polmone. I noduli possono
rimanere isolati conferendo la tipica immagine radiologica a vetro smerigliato oppure fondersi e creare
strie fibrose che vanno verso l’apice polmonare (zona più ventilata) e, poi, scendere verso la base del
polmone.

Quando è presente una silicosi vi è anche un enfisema consensuale perché gli alveoli vicini cercano di
compensare la parte non funzionante del polmone.
Anche la silicosi si può complicare con altre malattie, soprattutto con la malattia reumatica della
SINDROME DI CAPLAN oppure con la TUBERCOLOSI entrambe dovute ad un decadimento del sistema
immunitario, oppure con SOVRAINFEZIONI MICOTICHE o BATTERICHE se non addirittura il CANCRO,
essendo queste polveri minerali cancerogene.
Il problema della tubercolosi è che questa slatentizzata dalla silicosi viene trattata con l’antibiotico senza
l’utilizzo di cortisone, utile per la pneumoconiosi, dato che questo esacerba il processo tubercolotico.

ASBESTOSI
L’ASBESTOSI, contrariamente alla silicosi, tende ad essere graduale determinando un più alto rischio di
evoluzione verso il cancro, sia polmonare che pleurico (mesotelioma).
Essa è spesso associata alla presenza si PLACCHE PLEURICHE SCLERO-IALINE.

P.S. Per il riconoscimento della causa di servizio bisogna stabilire, nel soggetto che è stato esposto ad
amianto, l’estensione della fibrosi e la gravità della malattia nonché dimostrare la presenza dell’asbesto
nelle vie aeree. Purtroppo, però, questi non sono sempre facili da trovare per cui spesso pezzi di tessuto
vengono inviati all’Istituto di Sanita Superiore di Roma dove viene messa in pratica una metodica di
incenerimento del pezzo di polmone che permette di isolare le fibre di amianto dato che quest’ultimo è
indistruttibile per cui non si brucia.
Stabilire l’estensione e la gravità della fibrosi è molto importante.
Infatti, riguardo all’estensione, se la fibrosi è intorno al 25% del parenchima interessato, al paziente, pur
essendo stato esposto all’amianto, non viene riconosciuta l’invalidità e, quindi, l’indennizzo. Se la fibrosi
interessa dal 25% al 50% del parenchima viene riconosciuta, invece, una percentuale minima di
riconoscimento di invalidità che viene riconosciuta al 100% solo quando la fibrosi supera abbondantemente
il 50% del polmone per cui il paziente non si muove per la sua dispnea.
Altrettanto importante è stabilire la severità, cioè il grado della fibrosi per cui si valuta se la fibrosi circonda
parte del bronchiolo terminale (FIBROSI MINIMA), se si estende agli alveoli (FIBROSI LIEVE), se si estende
lievemente all’interstizio (FIBROSI MODERATA) o se tutta l’unità terminale bronchiolo-alveolare è
incarcerata nella fibrosi conferendo al polmone un aspetto a favo di miele (FIBROSI DIFFUSA). Un grado di
fibrosi severo è quello che determina l’invalidità permanente, cioè riconoscimento di totale invalidità.
Spesso, però, ci si trova di fronte ad ex operai o a persone esposte all’amianto che hanno una estensione
della fibrosi minima per cui non viene riconosciuto l’assegno di invalidità ma che, nel frattempo, sviluppano
il mesotelioma.

L’espressione patologica dell’asbestosi è, dunque, caratterizzata da:


• VERSAMENTO PLEURICO BENIGNO
• FIBROSI INTERSTIZIALE (asbestosi)
• PLACCHE PLEURICHE BENIGNE
• MESOTELIOMA
• ISPESSIMENTO DIFFUSO PLEURICO
• CARCINOMA POLMONARE

BERILLIOSI
La BERILLIOSI è una pneumoconiosi emergente perché è tipica dei lavoratori che entrano in contatto con
reattori nucleari o che lavorano nell’ambito dell’elettronica. Per fortuna siccome si parla di industrie ad
altissima tecnologia i sistemi di sicurezza sono utilizzati per cui la malattia, oggi, si presenta solo negli ex
esposti, cioè soggetti che sono entrati in contatto con il berillio senza conoscerne la pericolosità.

La berilliosi è caratterizzata da:


• FIBROSI POLMONARE
• LESIONI CUTANEE
• LESIONI ALLE OSSA
• LESIONI AL FEGATO
• LESIONI ALLA MILZA
Istologicamente si osserva una reazione fibrosante che ricorda un po’ i noduli della sarcoidosi. Quindi in
caso di sospetto di berilliosi è importante escludere la sarcoidosi o la silicosi.

SARCOIDOSI
La sarcoidosi è una interstiziopatia ad eziologia sconosciuta.
Essa è una malattia sistemica granulomatosa, cronica e progressiva che porta, come tutto le
pneumoconiosi, ad INSUFFICIENZA CRONICA RESTRITTIVA.
Colpisce vari organi ma i polmoni e i linfonodi mediastinici sono quelli maggiormente interessati.
Tra le altre sedi possibili ricordiamo, però, anche la milza, i reni, le ossa, l’uvea, le ghiandole salivari, etc…
È importante ricordare le ossa perché le lesioni sarcoidosiche a livello osseo provocano osteolisi
(contrariamente alla tubercolosi ossea) per cui rischio di fratture e dolori ossei associati a IPERCALCEMIA
responsabile di CALCIFICAZIONI DISTROFICHE che ne sono il primo segno. Le calcificazioni si possono
formare nei vari tessuti ma, in primis, a livello renale si assiste alla formazione di calcoli, cioè alla
CALCOLOSI RENALE. Possiamo, dunque, dire che ipercalcemia e calcolosi renale, con conseguente COLICA
RENALE, sono i primi segni della sarcoidosi.
LA DIAGNOSI è sempre di esclusione perciò bisogna escludere prima tutte le altre malattie granulomatose.
Questa malattia colpisce entrambi i sessi, sia maschi che femmine anche se è presente una certa
predisposizione per le donne, specialmente di età compresa tra i 20 e i 40 anni, soprattutto se scandinave
(bionde e con gli occhi azzurri o rosse). In America è più diffusa, però, nella razza di colore mentre in Africa
è più diffusa nel Sud Africa.
La PATOGENESI è nota nonostante non si conosca l’eziologia. Infatti, si è notato che, in corso di sarcoidosi,
è presente una COMPARTIMENTALIZZAZIONE DEI LINFOCITI T HELPER a livello tissutale (polmone, ossa,
milza, etc…), cioè i T helper si spostano a livello tissutale e qui determinano una reazione flogistica
granulomatosa. A livello ematico si osserva, quindi, una riduzione dei linfociti Th ma un aumento, ad
esempio, dei linfociti B con conseguente incremento anticorpale (non a caso si è pensato che questa
malattia fosse dovuta ad antigeni virali oppure a micobatteri atipici della tubercolosi, essendo in questi
individui particolarmente elevati gli anticorpi contro virus del morbillo, della rosolia o della tubercolosi. In
realtà non è mai stato isolato un antigene preciso).
Si osserva, dunque, uno SQUILIBRIO TRA I LINFOCITI T-HELPER e I LINFOCITI T-SUPPRESSOR.
Normalmente, questo rapporto è di 2/5:1, cioè è presente un numero maggiore di T Helper.
In corso di sarcoidosi, questo rapporto aumenta decisamente diventando 10/15:1 a livello tissutale,
determinando la formazione di granuli densi che fanno assumere al polmone l’aspetto di nido d’ape (o a
vetro smerigliato) cioè alternanza di zone più dense e zone più trasparenti all’Rx torace.
La diagnosi differenziale si può fare solo tramite biopsia.
Questi granulomi che non tendono alla fusione e non sono interessati da necrosi caseosa ma sono
semplicemente fibrosi.
Inoltre, nel granuloma della sarcoidosi si possono osservare CELLULE GIGANTI che sono diverse da quelle
della tubercolosi e i CORPI ASTEROIDI (o CONCOIDI o DI SCHAUMAN) cioè un misto di concrezioni
calciosiche e detriti cellulari.

La malattia da un punto di vista clinico si presenta con:


− FEBBRE
− ARTRALGIE (dolori ossei)
− TOSSE
− DISPNEA per la fibrosi polmonare
− EMOTTISI, cioè fuoriuscita di sangue con la tosse
− DOLORE TORACICO
− lesioni nodulari cutanee sotto forma di ERITEMA NODOSO
− COLICHE RENALI per la presenza di calcoli
− GLAUCOMA
− PERDITA DELLA VISTA
Occasionalmente sono stati registrati casi asintomatici.
La radiografia mette in evidenza lo slargamento dei linfonodi ilari e mediastinici e, soprattutto, il
caratteristico aspetto a vetro smerigliato.
Eseguendo un esame del sangue si osserva:
− EOSINOFILIA PERIFERICA (aumento degli eosinofili a livello periferico)
− RIDUZIONE DEI LINFOCITI A LIVELLO PERIFERICO
− IPERCALCEMIA CON IPERCALCIURIA
− AUMENTO DELL’ENZIMA ACE INIBITORE, elemento cruciale per fare diagnosi di sarcoidosi
Inoltre si osserva anergia cutanea al Bacillo di Koch (Montoux negativa), nonostante precedentemente il
test fosse positivo.

In sintesi:
- AUMENTO DELL’ACE
- IPERCALCEMIA
- IPERCALCIURIA
- MONTOUX NEGATIVO (→ ANERGIA CUTANEA)
- EOSINOFILIA PERIFERICA
- LINFOPENIA
spingono la diagnosi verso la sarcoidosi.

Si può, inoltre, eseguire un altro test per la diagnosi di sarcoidosi che è il TEST DI KVEIM-SILZBACH il quale
consiste nell’inoculazione sottocutanea di un linfonodo digerito affetto da sarcoidosi. Si osserva per cui una
reazione cutanea (test di Kveim-Silzbach positivo).
In genere questo test non viene più eseguito perché tramite la clinica, la biopsia e la radiografia si riesce a
fare diagnosi certa di sarcoidosi.

Occorre fare diagnosi differenziale con:

− TBC
− berilliosi cronica
− silicosi
− carcinomi e linfomi
− granulomatosi di Wegener
− noduli reumatoidi

È opportuno sottolineare che IL GRANULOMA SARCOIDOSICO NON È PATOGNOMONICO DELLA


SARCOIDOSI, a differenza del granuloma tubercolare che è patognomonico della tubercolosi.
Infatti, il granuloma sarcoidosico lo si può isolare anche in corso di altre malattie come: malattia di Crohn
(enterite cronica intestinale), retto-colite ulcerosa (→ malattie frequentissime tra i giovani) o tumori (vedi
cancro alla mammella o dello stomaco in cui si osservano reazioni di tipo sarcoidosico dei linfonodi
tributari).
TUMORI POLMONARI
I tumori polmonari hanno una altissima incidenza nel mondo. Si dividono, come sempre, in MALIGNI e
BENIGNI e, nell’ambito di ciascun, gruppo EPITELIALI e CONNETTIVALI.
La maggior parte, cioè il 95%, sono epiteliali e di questi il 95% sono carcinomi (maligni). Si tratta di tumori
con elevata frequenza ma con una scarsa sopravvivenza valutata dal momento della diagnosi.
Il 5% è rappresentano, invece, dai tumori neuroendocrini, cioè tumori che presentano l’immunofenotipo
delle cellule neuroendocrine, cioè esprimono marcatori neuroendocrini come l’ENOLASI NEURONALE
SPECIFICA, la CROMOGRANINA o la SINAPTOFISINA. Questi tumori, detti carcinoidi, si dividono in tre
categorie: a basso grado, a grado intermedio e carcinomi neuroendocrini in senso stretto.
Una piccolissima percentuale è, poi, rappresentata dalle neoplasie mesenchimali e da altre neoplasia come
linfomi primitivi, sarcomi, liposarcomi, etc…
Nel polmone i tumori più frequenti in assoluto sono, però, metastatici (per il discorso anche della
circolazione).
Quando si considerano i primitivi, questi sono epiteliali nel 95% dei casi e di questi il 95% sono carcinomi.

La classificazione della WHO del 2015 a cui si fa riferimento è stata redatta in base alla prognosi e alla
espressione dei marcatori molecolari che condizionano, poi, la scelta della chemioterapia.

TUMORI BENIGNI
I tumori polmonari benigni sono rari.
Tra questi il più importante è l’AMARTOMA (o AMARTIA) POLMONARE. L’amartia normalmente è una
lesione congenita su base malformativa, cioè disontogenica, mentre l’amartoma polmonare non è una
lesione tumorale benigna congenita disontogenetica. In questo caso con il termine di amartia si vuole
indicare un insieme di tessuti maturi benigni ma organizzati in maniera disordinata. Il termine viene,
dunque, utilizzato per mere questioni di analogia istologica con l’amartoma.
È un tumore tipico dell’adulto la cui massima incidenza è tra i 60 e 70 anni.
Possono essere SINGOLI o MULTIPLI (in genere singoli) e possono essere a LOCALIZZAZIONE PERIFERICA o
CENTRALE. I periferici sono distanti dall’ilo polmonare e vengono riscontrati di solito casualmente in un Rx
torace come una lesione nodulare singola periferica.
I centrali (più frequenti) si trovano, invece, in corrispondenza del bronco principale, perciò danno subito
segni di dispnea e ostruzione bronchiale. Si presentano come noduli ben circoscritti di diametro di 2cm
osservabili sempre all’Rx.
Una volta visualizzato il nodulo si porta subito il paziente in sala operatoria. La lesione al taglio appare
macroscopicamente traslucida, cartilaginea e tende a demarcarsi dal resto del parenchima polmonare. Si
osserva una commistione di tessuti: cartilagineo, osseo, adiposo, raramente muscolare liscio, fibro-mixoide
in cui restano intrappolati spazi vuoti rivestiti da epitelio respiratorio.
Si tratta, dunque, di una proliferazione di natura neoplastica connettivale ed epiteliale in cui
frequentemente si associano alterazioni cromosomiche come la traslocazione 3-12.

CARCINOIDI (tumori a basso-medio potenziale di malignità)


I carcinoidi sono tumori di differenziazione neuroendocrina per cui esprimono l’immunofenotipia delle
molecole di natura neuroendocrina: CD56, ENOLASI NEURONALE SPECIFICA, etc…
Questi carcinoidi in passato considerati benigni sono stati rivalutati dall’OMS nel 2015 perchè si è visto che
non tutti i carcinoidi restano lesioni benigne ma alcuni evolvono a metastasi.

P.S. I carcinomi neuroendocrini in senso stretto sono maligni.

I carcinoidi possono svilupparsi in qualunque tessuto con cellule neuroendocrine.


Nel polmone si sviluppano nell’albero bronchiale e nel sistema bronchiolo-alveolare, dove sono presenti le
cellule APUD neuroendocrine del Kulchitsky. Oggi, in realtà, si parla di cellule di natura epiteliale con
immunofenotipo neuroendocrino.
I carcinoidi sono stati classificati dall’OMS nel 2015 in:
− TIPICI: tumori neuroendocrini a basso potenziale di malignità che danno raramente recidive o
metastasi
− ATIPICI: tumori neuroendocrini a malignità intermedia che hanno rischio maggiore di recidiva e
metastasi a distanza
− CARCINOMI NEUROENDOCRINI IN SENSO STRETTO: i quali si distinguono in a grandi cellule e a
piccole cellule.

I carcinoidi a basso o intermedio grado di malignità non sono correlati al sesso, all’età o al fumo di sigaretta
mentre i carcinomi neuroendocrini in senso stretto si.
I carcinoidi (vale per tutti i carcinoidi) possono determinare la SINDROME DA CARCINOIDE, caratterizzata
da:

• DIARREA
• RUSH CUTANEO
• CIANOSI
• raramente SINDROME DI CUSHING per produzione di ACTH

I carcinoidi si manifestano come una LESIONE NODULO ILARE con crescita ad iceberg, cioè si approfondano
dal bronco verso il parenchima.
Bisogna distinguere i carcinoidi a basso-medio grado di malignità dai TUMORLETS, cioè aggregati di cellule
neuroendocrine iperplastiche sparse nel parenchima polmonare, ossia piccoli noduli intrapolmonari
benigni. I tumorlets non hanno valenza clinica non avendo dignità di neoplasia in senso stretto.
I carcinoidi appaiono come noduli di diametro fra i 0,5 e 10 cm, invece, i tumorlets hanno diametro
inferiore a 0,5 cm per cui si vedono solo istologicamente.
I carcinoidi hanno pattern di crescita istologico:
− INSULARE, come gli organi neuroendocrini
− CORDONALE
− PSEUDO TUBULARE

Sono aggregati nodulari circondati/intercalati da stroma collagene, connettivo lasso con vasi, come ogni
cellula neuroendocrina a cui i vasi servono per riversare il secreto. Si tratta di tumori monotoni cioè
costituti da cellule con nucleo dotato di cromatina granulare (a sale e pepe) e citoplasma eosinofilo scarso a
causa della secrezione ormonale. Per stabilire se il paziente deve seguire uno stretto follow-up bisogna
tener conto di due criteri, cioè:
− NUMERO DI MITOSI
− PRESENZA DI NECROSI

i quali permettono di fare diagnosi di CARCINOIDE TIPICO o ATIPICO.


Per quanto riguarda le mitosi, il cut-off è di due mitosi per 2mm2 ad ingrandimento medio di 40x (circa 12
campi): sotto le 2 mitosi si tratta di carcinoide tipico, sopra di atipico.
Per la necrosi, invece, se è assente si tratta di carcinoide tipico mentre se presente di atipico.

In alcuni casi ci può essere un numero di mitosi minore di due ma presenza di necrosi. In questo caso si
segnala il tutto e si richiede la valutazione del marker immunoistochimico Ki67 che individua le cellule che
si stanno per preparare alla mitosi dato che si tratta di un anticorpo monoclonale che individua le cellule in
transizione G0-G1.
La valutazione di Ki67 differisce da quella delle mitosi perché permette di capire se la cellula si sta
preparando alla mitosi. Ki67 dev’essere inferiore al 5% per parlare di carcinoide tipico.
Se Ki67 è inferiore al 5% e le mitosi inferiori a 2 su 2mm2, ma è presente necrosi, si tratta di carcinoide
tipico.
Nel caso di carcinoide atipico si osserva necrosi, mitosi fino a 10 per mm2 e, a volte, nuclei polimorfi, cioè
grandi e irregolari.

Con l’immunoistochimica si può eseguire anche la valutazione della positività agli anticorpi anti-
cromogranina, anti-enolasi specifiche, etc… Questi saranno tutti positivi, soprattutto la cromogranina, che
si può anche dosare nel siero per monitorare eventuali recidive o metastasi nel caso di carcinoidi atipici
positivi alla cromogranina.
Il marker immmunoistochimico TTF1 (FATTORE TIROIDEO) è negativo sia nel carcinoide atipico che in
quello tipico, mentre è positivo nel carcinoma neuroendocrino (in quest’ultimo sono positivi anche tutti gli
altri marker detti prima).
Alcuni carcinoidi tipici possono metastatizzare o recidivare così come alcuni carcinoidi atipici restano uguali
e non proliferano. Ultimamente, infatti, si sta pensando che ogni tumore abbia un’eterogenea espressione
di marcatori immunoistochimici: per il Ki67 possiamo avere aree di tumore in cui il marker è più espresso e
altre dove è meno espresso, quindi il cut-off del 5% per il Ki67 attualmente deriva da una panoramica di
tutto il nodulo (per esempio su 1000 cellule negative, solo il 5% sono positive).
Oggi si stanno usando sempre di più sistemi automatici che fanno la scannerizzazione di tutto il vetrino per
capire se è più opportuno valutare Ki67 in modo panoramico, solo sull’area di maggiore positività o in
modo accurato su tutto il tumore.

CARCINOMA POLMONARE
Il carcinoma polmonare è un tumore molto pericoloso che occupa il primo posto nel mondo per incidenza e
mortalità.
È più frequente nel sesso maschile (nel 2008 rapporto maschi/femmine 2:1 in USA).
Si tratta di un tumore in ascesa nei Paesi industrializzati che sta emergendo, però, anche in quelli in via di
sviluppo.
In Italia muoiono 30.000-40.000 persone all’anno.
Solo il 13% sopravvive a 5 anni dalla diagnosi.
L’età di insorgenza è tra i 50 e 60 anni anche se, oggi, si registrano casi anche in soggetti con età inferiore a
40 anni perché c’è maggiore suscettibilità genetica a cancerogeni ambientali.
In Europa e in America, per fortuna, l’incidenza si sta leggermente abbassando perché è stato vietato il
fumo nei luoghi chiusi.

Dal punto di vista eziologico, sono da considerare:


- FUMO DI TABACCO (prima causa)
- FATTORI OCCUPAZIONALI: amianto, silice, berillio, cancerogeni lavorativi
- INQUINAMENTO
- PREDISPOSIZIONE GENETICA: alcune persone sono più sensibili ai cancerogeni ambientali per cui
hanno maggior rischio di sviluppare cancro anche in età giovanile.
- PRECEDENTI MALATTIE POLMONARI come sarcoidosi, tubercolosi, fibrosi idiopatica, etc…

Il fumo di tabacco è il principale killer. Infatti, il fumo libera 4800 sostanze chimiche, di cui 300 sono nocive
per la salute, tra cui le più importanti sono:
− IDROCARBURI POLICICLICI (benzopirene, benzoantracene, fluoroantracene)
− POLONIO 210
− COMPOSTI CON CROMO e NICHEL
− NITROSAMMINE cioè ammine aromatiche liberate dalla combustione della carta che avvolge il
tabacco

P.S. Il fumatore è sensibile, in realtà, non solo allo sviluppo del cancro polmonare ma anche di quello
vescicale perché nell’urina si liberano composti cancerogeni diretti che danneggiano le cellule uroepiteliali
dato che i cancerogeni smaltiti dal fegato. Basti pensare alle nitrosammine che sono inattivate per
glucuronazione a livello epatico per, poi, essere allontanato con le urine. Nella vescica, però, è presente un
enzima che scinde il legame tra la ammina aromatica e l’acido glucuronico così che l’ammina è nuovamente
libera in vescica di agire sull’urotelio e provocare il cancro vescicale.

Le sostanze cancerogene si liberano sia nella combustione del tabacco e della carta sia nel fumo presente
nell’aria, cioè nella fase gassosa della combustione del tabacco la quale è ricca di sostanze cancerogene
come ROS, NO, etc… Per questo motivo anche il fumo passivo nel soggetto non fumatore aumenta lo stesso
il rischio di sviluppare carcinoma.

Per i fumatori il rischio è correlato al numero di sigarette fumate al giorno e all’età di inizio dell’abitudine al
fumo.
Nel soggetto che smette di fumare il rischio è sempre maggiore rispetto al non fumatore ma comunque
diminuisce rispetto a quello calcolato considerando la reiterazione della pratica del fumo.

Il carcinoma polmonare colpisce di più gli uomini perché l’abitudine al fumo è tipicamente maschile, anche
se, con il tempo, il rischio è aumentato anche nelle donne che hanno iniziato a fumare come retaggio
dell’emancipazione sociale.
Ultimamente i carcinomi fumo-correlati si sono ridotti nei maschi e, invece, sta aumentando nelle donne un
particolare tipo istologico di carcinoma polmonare, cioè l’ADENOCARCINOMA, il quale è un carcinoma non
fumo-correlato.

P.S. Anche la sigaretta elettronica aumenta il rischio di carcinoma polmonare anche se si tratta di sigarette
a basso contenuto di nicotina.

I fumatori e gli ex-fumatori hanno il rischio di sviluppare delle particolari varianti istologiche del carcinoma
polmonare, cioè quello non a piccole cellule (CARCINOMA SQUAMOCELLULARE) e quello a piccole cellule
(CARCINOMA NEUROENDOCRINO), mentre i non fumatori e le donne presentano un alto rischio di
sviluppare l’ADENOCARCINOMA.

Il carcinoma polmonare si localizza soprattutto in corrispondenza dell’ilo polmonare, del bronco principale,
soprattutto a dx e dei lobi superiori. In questo caso dà quindi segni quali ostruzione, dispnea e tosse con
escreato striato di sangue segno che permette una diagnosi precoce.
Questo non esclude che possa localizzarsi a livello periferico quando si localizza a distanza dal bronco
principale e dall’ilo polmonare. Il periferico può presentarsi come:
- NODULO UNICO (singolo)
- NODULI MULTIPLI, monolaterali o bilaterali. In questo caso è più facile che sia un tumore
metastatico per cui occorre fare diagnosi differenziale tra tumore primitivo e metastatico.
- NODULO UNICO APICALE, cioè presente all’apice polmonare. Esso è frequente in soggetti esposti a
radiazioni ionizzanti. È anche detto TUMORE DI CIUFFINI-PANCOAST. Si tratta di un tumore
subdolo perché si trova nell’apice che è una porzione silente, può crescere e infiltrare pleure e rami
del plesso brachiale e del trigemino dando, quindi, sintomi fuorvianti quali dolore a spalla e collo,
alla faccia, all’occhio (→ ptosi palpebrale), enoftalmo (→ bulbo rientrato), etc… mimando per la
gran parte sindromi otoriniche o oculistiche. Se si localizza a sx può mimare addirittura infarto per
sviluppo di un dolore al braccio sx.
- SEDE SUB PLEURICA: si osserva un ispessimento pleurico che può essere scambiato con una
pleurite fibrosa o un tumore primitivo pleurico per cui va fatta una diagnosi differenziale con il
mesotelioma e le pleuriti. Anch’esso è subdolo perché dà segni clinici tardivamente. Si manifesta
con versamento pleurico.

In caso di LESIONI PRENEOPLASTICHE DEL CARCINOMA POLMONARE si osserva la transizione da epitelio


normale a neoplastico attraverso un’area grigia che è la DISPLASIA, cioè una lesione a cavallo tra normale e
patologico (maligno).
L’OMS 2015 ha definito i PRECURSORI MORFOLOGICI del cancro polmonare partendo dall’abitudine del
fumo. Questi precursori sono:
o DISPLASIA DELL’EPITELIO BRONCHIALE, ovvero sostituzione dell’epitelio cilindrico ciliato
respiratorio con cellule APUD e cellule caliciformi mucipare intercalate in un epitelio metaplastico
pavimentoso pluristratificato, più resistente al fumo ma più suscettibile alle infezioni.

P.S. La metaplasia è un adattamento cellulare patologico, mentre la displasia non è un adattamento ma un


disordine citoarchitetturale e maturativo della cellula con perdita del controllo della proliferazione e
specializzazione, cioè perdita o acquisto di nuove funzioni. Si tratta di una pre-cancerosi.

Dalla condizione di displasia epiteliale, prima di basso e poi di alto grado, si giunge al CARCINOMA
IN SITU SQUAMO CELLULARE (o EPIDERMOIDALE), così detto perché prende origine dalla
metaplasia pavimentosa.
o IPERPLASIA BRONCHIOLO-ALVEOLARE: Il fumo di sigaretta e gli altri cancerogeni non solo
modificano l’epitelio bronchiale, ma anche l’epitelio bronchiolo-alveolare, cioè quello a valle del
bronchiolo respiratorio terminale dove non sono presenti cellule caliciformi mucipare (→ PAS
positive), ciglia e cartilagini di rivestimento. Qui il fumo induce iperplasia e non metaplasia
dell’epitelio bronchiolo alveolare, inizialmente senza atipia, cioè tipica, e poi con atipia.
Quest’ultima condizione è equivalente alla displasia dell’epitelio bronchiale solo che, se questa
nasce dalla metaplasia, l’iperplasia atipica nasce da una iperplasia usuale, cioè semplice.
Dall’iperplasia atipica si passa, poi, all’adenocarcinoma in situ, poi, all’adenocarcinoma micro-
invasivo e all’adenocarcinoma francamente invasivo. L’adenocarcinoma in situ può dare origine
all’adenocarcinoma bronchiolo alveolare che è un carcinoma non invasivo caratterizzato dalla
proliferazione cancerosa dell’epitelio bronchiolo-alveolare che tappezza la parete degli alveoli e dei
bronchioli tanto da farla sembrare normale anche se neoplastica. Si tratta di un carcinoma anche se
il tutto sembra normale. Questa variante, oggi detta CARCINOMA LEPIDICO, è la più frequente. Si
tratta di un adenocarcinoma in situ.

Il fumo, infine, può provocare iperplasia delle cellule APUD (neuroendocrine) con conseguente carcinoma
neuroendocrino (a piccole cellule).

P.S. I carcinoidi neuroendocrini non sono fumo correlati di solito.

DIAGNOSI DEL TUMORE POLMONARE


La diagnosi del tumore polmonare si basa sulla biopsia bronchiale eseguita tramite BRONCOSCOPIA.
Nell’eseguire tramite prelievo esiste, però, il rischio di provocare emorragie importanti che possono
portare al decesso del paziente.
La broncoscopia è una tecnica valida se il tumore è centrale ma se il tumore è periferico non si può eseguire
la broncoscopia per cui si fanno dei prelievi TAC guidati dall’esterno con rischio, però, in questo caso, di
pneumotorace.
La biopsia serve a stabilire se il tumore è a piccole cellule (carcinoma neuroendocrino → prognosi pessima)
oppure non a piccole cellule (carcinoma non neuroendocrino → 13% dei pazienti sopravvivere), essendo
questi carcinomi con prognosi differenti.

I carcinomi polmonari cellule si distinguono in:


o CARCINOMA NON NEUROENDOCRINO:
− CARCINOMA SQUAMOSO da displasia squamo cellulare fumo correlato con una incidenza
del 43% nei maschi e del 23% nelle femmine
− ADENOCARCINOMA con incidenza del 27% nei maschi e del 42% nelle femmine. Bisogna
fare diagnosi differenziale con le metastasi anche se è presente solo un nodulo
o CARCINOMI NEUROENDOCRINI:
− CARCINOMA NEUROENDOCRINO A PICCOLE CELLULLE il quale è fumo correlato nel maschio
e non fumo correlato nelle femmine
− CARCINOMA NEUROENDOCRINO A GRANDI CELLLULE il quale può sembrare un carcinoma
squamoso o un adenocarcinoma in variante solida. Importanti sono, dunque, la biopsia e
l’immunistochimica.

P.S. Sia il carcinoma neuroendocrino a piccole che quello a grandi cellule non sono operabili perché il
paziente di solito ha già metastasi. Al massimo se il paziente risponde alla terapia il tempo di sopravvivenza
è di massimo 12 mesi.
− CARCINOMA INDIFFERENZIATO A GRANDI CELLULE il quale non esprime marcatori di
nessun immunofenotipo. La prognosi è pessima e l’incidenza è del 9%
− CARCINOMA SARCOMATOIDE il quale è un carcinoma a fenotipo epiteliale che si
sdifferenzia in senso sarcomatoide. È una forma molto aggressiva con una incidenza del 2%.

Dal punto di vista diagnostico, è importante che si faccia una diagnosi preoperatoria del cancro polmonare
perché esistono alcuni tipi istologici che non possono essere trattati chirurgicamente per le loro
caratteristiche di aggressività, ma devono essere sottoposti solo a trattamenti chemio e radioterapici. La
biopsia preoperatoria diventa, dunque, fondamentale. Come già detto essa viene eseguita attraverso la
broncoscopia oppure attraverso un’ago-biopsia TAC guidata.
Secondo l’organizzazione mondiale della sanità, la diagnosi preoperatoria ha la finalità di distinguere i
tumori del polmone in due grosse categorie, cioè due categorie a prognosi differente e a trattamento
differente:

• CARCINOMI NON A PICCOLE CELLULE


• CARCINOMI A PICCOLE CELLULE (o SMALL CELL LUNG CANCER o SCLC), cioè tumori di
differenziazione o meglio con immunofenotipo neuroendocrino cioè che producono neuro-ormoni
come la cromogranina, la serotonina, l’enolasi neuro specifica e che sono TTF-1 positivi.

Lo small cell è il cancro a peggiore prognosi perché, quando viene evidenziato, spesso ha già dato metastasi
avendo, come tutte le neoplasie neuroendocrine, un’affinità per i vasi ematici. Infatti, come le cellule
neuroendocrine riversano il loro secreto nei capillari, questi carcinomi riversano cellule che metastatizzano
rapidamente. Le metastasi generalmente si osservano al polmone controlaterale, alle ossa e all’encefalo
(→ responsabile delle prime manifestazioni cliniche: il paziente comincia ad avere disturbi cerebrali, visivi,
dell’equilibrio, etc...).

La diagnosi precoce consiste nell’evitare che i tumori diano metastasi cerebrali che sono spesso la
condizione che porta a morte l’individuo. Infatti, una diagnosi di uno small cell che non ha ancora dato
metastasi cerebrali ma, per esempio, ha solo localizzazioni polmonari, permette di indirizzare il paziente a
chemio e radioterapia che sono specifiche per i tumori neuroendocrini che rispondono benissimo a chemio
e radio tanto da assistere anche ad una riduzione totale delle masse tumorali.
C’è stato un periodo in cui si era pensato di trattare chirurgicamente carcinomi neuroendocrini small cell di
grandi dimensioni che avevano risposto alla chemio e che, quindi, si erano particolarmente ridotti
diventando operabili. Dato che, però, il rischio di avere metastasi in transito restava alto, si è visto che non
ha senso operare anche post-chemio questi individui perché, poi, la sopravvivenza finale non varia (i
soggetti muoiono comunque nell’arco dell’anno/18 mesi). Oggi si sta modificando ancora il trattamento
farmacologico mirando su terapie più sensibili utilizzabili se i tumori presentano determinate alterazioni
molecolari.

Questo significa che una volta fatta la distinzione tra small cell oppure non small cell carcinoma, se si
individua un non small cell bisogna individuare il tipo istologico rappresentato tramite diagnostica bioptica
preoperatoria.
Ricordiamo che i carcinomi neuroendocrini possono essere di due tipi: a piccole cellule oppure a grandi
cellule. Se non viene fatta una diagnosi pre-operatoria e arriva un frammento di polmone per l’esame
intraoperatorio è facile confondere un tumore neuroendocrino a grandi cellule con uno non a piccole
cellule, procedendo nell’intervento quando non sarebbe necessario. In questo caso il patologo non è
ovviamente condannabile perché la diagnosi intraoperatoria di un carcinoma neuroendocrino a grandi
cellule può essere confusa con quella di un carcinoma non a piccole cellule. La diagnosi intraoperatorio
deve, infatti, essere poi confermata da una immunoistochimica.
Esistono, poi, situazioni ancora più complicate in cui il carcinoma neuroendocrino è formato sia da una
componente a piccole cellule che da una componente neuroendocrina a grandi cellule, cioè una forma
neuroendocrina mista small cell e large cell. Addirittura in alcuni casi si possono avere una componente
neuroendocrina e una non neuroendocrina. In questi casi la prognosi è valutata sulla base dello small cell
essendo la forma più aggressiva in assoluto. L’oncologo deve decidere il trattamento in base alla
percentuale di rappresentazione dello small cell e non small cell utilizzando cioè delle chemioterapie
combinate associate a radioterapia. Tutto ciò è indice di una prognosi infausta.

Abbiamo visto che i carcinomi neuroendocrini a piccole cellule e a grandi cellule rappresentano una piccola
percentuale di tipi istologici di cancro polmonare.
Da padrone normalmente fanno i carcinomi non a piccole cellule di tipo squamoso e l’adenocarcinoma.
Il carcinoma squamoso è particolarmente rappresentato nel maschio rispetto alla donna situazione che si
ribalta nell’ adenocarcinoma, che è l’istotipo più frequente nel sesso femminile.
Spesso l’adenocarcinoma non è fumo-correllato.
Esiste, poi, il gruppo del carcinoma indifferenziato a grandi cellule cioè tumori che non esprimono nessun
fenotipo, né di tipo squamoso, né di adenocarcinoma, né di tumore neuroendocrino, cioè sono tumori
anaplastici che non esprimono nulla con prognosi infausta e sottoposti al massimo a chemio palliativa.
Poi esistono dei tumori indifferenziati che mirano verso la differenziazione in senso sarcomatoide
(positività per alcuni marcatori mesenchimali). Anche questi presentano una prognosi drammatica. Queste
forme assolutamente aggressive rappresentano, però, una percentuale molto bassa dei tumori polmonari.

La precedente classificazione WHO, quella del 1999, distingueva una serie di varianti morfologiche che
spesso erano difficile da diagnosticare e da etichettare. Tra l’altro non vi era alcuna correlazione
prognostica tra il tipo istologico e la sopravvivenza e, ovviamente, la risposta alla terapia. Per questo
motivo la WHO 2015 ha riclassificato nel 2015 il tutto, semplificando decisamente la classificazione dei
tumori del polmone.
Importante è stata l’introduzione nella classificazione della neoplasia in situ, quindi non invasiva, prima non
considerata. Questa neoplasia può essere di tipo squamoso, se prende origine da una displasia epiteliale
oppure può essere un adenocarcinoma in situ se prende origine da una iperplasia bronchioloalveolare
atipica. Questo, poi, può essere una variante classica oppure una variante lepidica, che corrisponde al
vecchio carcinoma bronchioalveolare. Il bronchioalveolare può essere di due tipi: quello classico o
addirittura una variante piuttosto rara mucinosa.
Secondo la WHO, di fronte ad un adenocarcinoma che diventa invasivo, è estremamente importante e
fondamentale per la diagnosi e per la prognosi del paziente, stabilire l’entità della componente invasiva,
cioè distinguere tra un adenocarcinoma:

• MICROINVASIVO, cioè un adenocarcinoma minimamente invasivo con una componente invasiva


inferiore ai 5 mm, la cui prognosi è eccellente perché è come se fosse un carcinoma in situ. Pur
essendoci una componente minimamente invasiva che condiziona la terapia, la prognosi è
comunque eccellente.
• FRANCAMENTE INVASIVO, cioè un adenocarcinoma con una componente invasiva superiore a 5
mm. Se si tratta di un adenocarcinoma francamente invasivo bisogna quantificare la componente
lepidica presente ed esprimerla in percentuale.
o se il pattern lepidico supera il 50% della massa neoplastica invasiva la prognosi è buona.
Stabilito questo bisogna valutare quale altro pattern viene espresso con la componente
lepidica.
o se il pattern lepidico non supera il 50% si vanno a vedere gli altri pattern:
▪ pattern classico acinare o pattern tubulare o pattern papillare: finché troviamo
questi pattern nell’adenocarcinoma invasivo, la prognosi è ancora buona. È
sicuramente peggiore della precendente ma buona.
▪ pattern morfologico micropapillare oppure pattern di adenocarcinoma solido
(solitamente PAS positivo perché mucoso), la prognosi è assolutamente infausta
per l’alto rischio di metastasi. Infatti, molto spesso i linfonodi drenanti la zona sono
positivi, cioè si osservano linfonodi piccini ma metastatici a tutte le stazioni
bronchiali.
▪ variante mucinosa: tra queste ricordiamo, per esempio, la variante colloidale. Si
osserva prevalentemente muco con una componente cellulare neoplastica scarsa
che galleggia. La prognosi è intermedia.
▪ variante enterica: si tratta di adenocarcinomi primitivi del polmone,
morfologicamente identici all’adenocarcinoma intestinale. Esprimono anche, a
volte, gli stessi marcatori istochimici e allora questo paziente, che ha un unico
nodulo polmonare di adenocarcinoma enterico, ovviamente, comincia tutto un iter
di controllo, perché bisogna escludere che il nodulo sia frutto di una
metastatizzazione di un carcinoma dell’intestino, di un carcinoma gastrico o di un
carcinoma delle vie biliari. Questi pazienti vengono rivoltati come dei calzini:
colonscopia, gastroscopia, TAC per visualizzare le vie biliari, etc… Questa forma
risponde alle stesse terapie del colon.

Secondo la nuova classificazione WHO 2015, il carcinoma squamoso può essere di due tipi:

• CHERATINIZZANTE
• NON CHERATINIZZANTE

Chiaramente la variante cheratinizzante presenta una prognosi migliore perché mantiene la


differenziazione cellulare.

Dal momento che il carcinoma squamoso non cheratinizzante può assomigliare all’adenocarcinoma solido
oppure ad un carcinoma neuroendocrino a grandi cellule, l’OMS 2015 chiarisce che è fondamentale nella
diagnosi del carcinoma squamoso, soprattutto del non cheratinizzante, dell’adenocarcinoma solido e del
carcinoma neuroendocrino a grandi cellule l’indagine immunoistochimica.
Il pannello immunoistochimico da seguire è il seguente.

CARCINOMA SQUAMOSO CK ad alto peso molecolare


p63 +
p40 +
TTF-1 (primitività polmonare)
ADENOCARCINOMA CK 7+ CK AE1 e AE2 +
CDX2 – (d.d. con adenocarcinoma intestinale)
CK CAM 5.2 +
TTF-1 +
MICROCITOMA Ki67 ++
Sinaptofisina +/-
CD 45 (LC) – (d.d. con linfomi)

Il carcinoma squamoso ha una sua immunopositività per le citocheratine (CK) ad alto peso molecolare
come la citocheratina 34 β E12, per p63 e per p40. In un laboratorio di anatomia patologica che si rispetti,
questi anticorpi (anti-citocheratina 34β E12, anti-p63, anti-p40) devono essere presenti.

L’adenocarcinoma, che è sempre una neoplasia epiteliale, ha una immunopositività per altre citocheratine,
per esempio per quelle a medio e basso peso molecolare, come la citocheratina AE1/AE3 e, soprattutto, la
citocheratina 7. Dato che l’adenocarcinoma intestinale non è positivo alla citocheratina 7 ma lo è per la
citocheratina 20 e per CDX2, sapere che l’adenocarcinoma primitivo del polmone è positivo alla
citocheratina 7 ci permette di escludere la presenza di metastasi. Infatti, se il tumore è citocheratina 20 e
CDX2 negativo si esclude che si tratti di una metastasi di un adenocarcinoma intestinale. L’adenocarcinoma
è, poi, positivo ad un marker epiteliale e al TTF-1 (fattore tiroideo).

Esiste, però, una variante di adenocarcinoma enteroide che somiglia all’adenocarcinoma dell’intestino per
cui potrebbe essere positivo alla citocheratina 20 e anche al CDX2, un marcatore specifico nucleare degli
adenocarcinomi primitivi dell’intestino. Quindi quando ci si trova di fronte ad un adenoenteroide che
esprime CDX2 e anche citocheratina 20 e non esprime la 7, secondo l’OMS, bisogna escludere con
colonscopia, gastroscopia, etc... qualsiasi neoplasia del tratto gastroenterico per poter definire primitivo
l’adenocarcinoma polmonare variante enterica.

Poi esistono tutte le varianti neuroendocrine a piccole cellule che esprimono:

• citocheratine a basso peso molecolare come CAM 5,2


• tutti i carcinomi neuroendocrini esprimono il TTF-1 per cui se un paziente non ha nulla alla tiroide e
non ha un cancro tiroideo TTF-1 positivo, vuol dire che il tumore polmonare è un carcinoma
neuroendocrino primitivo del polmone
• sinaptofisina
• cromogranina
• Ki-67 il quale è un indice di proliferazione cellullare il quale nei carcinomi neuroendocrini è
altissimo (80%-90% di immunopositività), cosa che normalmente non si osserva in qualsiasi forma
di carcinoma squamoso, solido e adenocarcinoma.

La terapia del cancro del polmone, oggi grazie agli studi dell’OMS 2015, è condizionata dalle alterazioni
molecolari dal momento che si sta lavorando sulla target therapy, cioè sulla terapia personalizzata, ovvero
per ogni paziente che ha un determinato cancro e anche a parità di tipo istologico bisogna vedere se quel
tumore o quei tumori esprimono determinate alterazioni molecolari per poter adeguare così la terapia.

Tra l’altro l’OMS ha sottolineato che alcuni oncogeni sono mutati più o meno frequentemente nei vari tipi
di tumori.
Un esempio è k-RAS che è un oncogene che codifica per una proteina inserita a livello della membrana
cellulare la quale ha una funzione importante nell’innescare i segnali di crescita cellulare.
k-RAS è particolarmente mutato negli adenocarcinomi dei soggetti di razza caucasica. In particolare, la
mutazione di k-RAS è frequente dal 15%-35% negli adenocarcinomi, nel 20% nei carcinomi a grandi cellule,
in meno del 5% dei carcinomi squamosi e in una percentuale molto bassa (< 1%) nei neuroendocrini a
piccole cellule (o cellule a chicco di avena).
Le mutazioni di k-RAS più frequentemente osservate riguardano i codoni 12 e 13 i quali sono, poi, quelli
abitualmente valutati dal laboratorio di genetica e le cui alterazioni vengono riconosciute dal sistema
sanitario nazionale come alterazioni condizionanti la terapia.
Altre mutazioni che condizionano la terapia sono, ad esempio, quella di p53 oppure l’amplificazione, la
delezione o la mutazione del recettore tirosin chinasico EGFR. In genere si osserva una delezione dell’esone
19 oppure una mutazione dell’esone 20. Quest’alterazione la osserviamo dal 5%-10% negli adenocarcinomi,
nel 10% nei carcinomi squamocellulari mentre in una percentuale quasi irrilevante nel carcinoma
neuroendocrino a piccole cellule.
Quando il soggetto ha effettuato la sua terapia e quest’ultima non ha modificato per niente la sua
condizione, cioè il paziente non risponde alla terapia, l’oncologo richiede l’analisi delle alterazioni e, in
particolare, dei riarrangiamenti di altri geni, come ALK oppure ROS1. Si tratta comunque sempre di geni
coinvolti nel controllo della proliferazione cellulare. Se alterati, infatti, il paziente risponde a terapie
particolari come, per esempio, quella con il crizotinib.
Le mutazioni di EGFR e ALK sono più frequenti nei non fumatori con adenocarcinoma mentre la mutazione
di k-RAS è frequente nei fumatori che possono presentare prevalentemente un adenocarcinoma dell’ilo
polmonare oppure un carcinoma a piccole cellule o ancora un carcinoma squamocellulare.

Oggi si sta lavorando molto sul PD-L1, un marcatore che quando è modificato suggerisce un alterazione del
sistema immunitario a carico di linfociti T. Ad esempio alcuni carcinomi del polmone possono avere l’iper-
espressione di PD-L1 e, quindi, un anomalo funzionamento del sistema cellulare immunomediato dei
linfociti T.
L’espressione di PD-L1 sta condizionando, infatti, le nuove immunoterapie ma si è ancora in una fase
sperimentale avanzata.
Sembra che l’alterazione immunologica del sistema immunitario sia anche particolarmente espressa nel
cancro della mammella offrendo una immunoterapia in soggetti tripli-negativi che non rispondono alla
terapia ormonale anti-estrogenica e anti-progestinica o alla terapia anti-HER2.

La valutazione molecolare sta prendendo piede soprattutto in tutti quei tipi di tumori che non esprimono
nulla ma che sono particolarmente aggressivi.
Basti pensare al mesotelioma che è un tumore aggressivo che non risponde al trattamento chemioterapico.
Le terapie adottate sono, infatti, terapie palliative (vedi cis-platino) in quanto nessun farmaco ha un’azione
selettiva nei confronti della cellula mesoteliale neoplastica. Si è lavorato, quindi, in trials clinici anche
sull’associazione PDL1/mesotelioma ma i risultati sono stati negativi in quanto finora non è stata
evidenziata nessuna risposta nei trattamenti del mesotelioma con immunoterapia per alterazione del PDL1.
Ad oggi si sta lavorando, invece, su BAP1.

P.S. Il carcinoma neuroendocrino a piccole cellule è così chiamato in quanto costituito da cellule linfociti-
simile. Queste cellule così piccole, monotone, con nucleo allungato e scarso citoplasma, sono cellule in
notevole attività proliferativa. Determinando il Ki-67 di queste cellule, queste risultano quasi tutte positive,
come accade per il TTF1. In più esprimono il fattore tiroideo che aiuta a fare diagnosi. Inoltre, in questo
caso, si può escludere la possibilità che si tratti di un linfoma attraverso l’utilizzo di un antigene diretto
contro le cellule linfocitarie: il CD45 (antigene comune linfocitario). In questo caso l’antigene comune
linfocitario è negativo e questo permette di escludere la possibilità che si tratti di un linfoma a piccole
cellule.
APPARATO CARDIO-VASCOLARE
MALATTIE INFIAMMATORIE DEL CUORE

In base alla componente di tessuto cardiaco coinvolte, le flogosi cardiache vengono distinte in:

• PERICARDITI
• ENDOCARDITI
• MIOCARDITI

Che si abbia una flogosi solamente localizzata al pericardio o all’endocardio o al miocardio è una condizione
rara perché spesso sono coinvolti tutti gli strati per cui si parla di PANCARDITE, ovvero del coinvolgimento
di tutti e tre gli strati della parete cardiaca.

PERICARDITI

Ricordiamo che il pericardio è una sierosa che riveste il cuore e che consta di due foglietti: uno parietale e
uno viscerale tra i quali scorre un fluido particolarmente scarso che consente, durante i movimenti ritmici
del cuore, l’espansione dell’organo stesso.
Le PERICARDITI possono riconoscere differenti cause ma la condizione caratteristica è che, pur essendo
determinate da diversi fattori, da un punto di vista clinico e morfologico, presentano le stesse
caratteristiche, cioè quadri perfettamente sovrapponibili.

Si possono distinguere le pericarditi in base:

• al TIPO DI VERSAMENTO
• alla CAUSA (infettiva o non infettiva)
• al DECORSO CLINICO (acute o croniche)

Le PERICARDITI INFETTIVE sono le più


frequenti e tra queste le più caratterizzanti
sono quelle da virus:

• Coxsackie
• Adenovirus
• Echovirus
• Virus influenzali
• Virus dell’AIDS

Le pericarditi infettive di origine batterica


sono, invece, meno frequenti e spesso
sono dovute all’estensione di una flogosi
batterica, per esempio, dal polmone o dal
mediastino in sede pericardica.
Si possono avere, poi, anche forme fungine da Candida o da Aspergillo o anche pericarditi parassitarie
come, per esempio, quelle in corso di infezione da Trypanosoma Cruzi (→malattia di Chagas), o da metazoi
come gli Echinococchi.
Nel caso di PERICARDITE NON INFETTIVA
possiamo annoverare varie situazioni:

o PERICARDITI CONSENSUALI A INFARTO


ACUTO DEL MIOCARDIO che è la
situazione più caratteristica
o PERICARDITI NON INFETTIVE SU BASE
IATROGENA cioè farmacologica: la
somministrazione di determinati farmaci
come, per esempio, i chemioterapici o gli
immunoterapici in terapie oncologiche
o PERICARDITI SU BASE TRAUMATICA, cioè
come conseguenza di traumi toracici per
incidenti di varia natura o di traumi
violenti, come possono essere traumi da
corpi fendenti o da colpi di arma da fuoco
o PERICARDITI NON INFETTIVE DA COMPLICANZA DI INTERVENTI CARDIACI: in caso di intervento a
cuore aperto, il pericardio deve essere necessariamente aperto e, quindi, questa operazione
comporta una reazione riparativa infiammatoria dell’organo stesso
o PERICARDITI DA CATETERISMO CARDIACO
o PERICARDITI NON INFETTIVE DA MALATTIE SISTEMICHE come può essere un lupus, una
sclerodermia
o PERICARDITI COME RISPOSTA INFIAMMATORIA ALLA LOCALIZZAZIONE DI TUMORI PRIMITIVI o
METASTATICI nel pericardio (vedi mesotelioma primitivo del pericardio o metastasi al pericardio di
tumori mediastinici, polmonari, etc…).

Essendo le cause di pericarditi non infettive molteplici, di volta in volta devono essere individuate tramite
l’anamnesi.

In base alle caratteristiche del versamento, possiamo distinguere le pericarditi in:

o SIEROSA quando il versamento non supera i 200 cm3 di liquido


o SIERO-FIBRINOSA quando il versamento è un misto tra uno sieroso e uno fibrinoso
o FIBRINOSA PURA se la componente sierosa manca completamente per cui si osserva la sola
deposizione di fibrina sulla superficie pericardica. Quando il versamento fibrinoso è prevalente, si
parla di pericardite secca
o PURULENTA nelle rare forme di pericarditi batteriche
o EMORRAGICHE: si distinguono quelle siero-emorragiche e quelle siero-fibrino-emorragiche. Un
versamento siero-ematico o siero-fibrino-ematico è pericoloso in quanto dovuto ad una estensione
di una malattia infettiva a livello pericardico come la tubercolosi oppure ad una localizzazione
pericardica di una malattia reumatica. La maggior parte di queste pericarditi siero-fibrino-
emorragiche sono, però, la conseguenza dell’estensione di processi neoplastici al pericardio come
nel caso di una neoplasia dell’esofago, polmonare, linfonodale mediastinica, etc…

Nel caso in cui il versamento sia particolarmente abbondante, si assiste ad una compressione a livello
cardiaco, cioè ad un TAMPONAMENTO CARDIACO che può causare la morte del soggetto.

Da un punto di vista clinico le pericarditi possono essere ACUTE o CRONICHE.


Le forme acute sono quelle infettive mentre le forme croniche sono quelle ad eziologia non infettiva
oppure nell’ambito dell’eziologia infettiva la forma tubercolare.

I quadri morfologici delle pericarditi acute infettive sono quelli di una flogosi acuta linfo-monocitaria se
l’agente patogeno è un virus. L’infiltrato infiammatorio linfomonocitario si localizza a livello della sierosa
pericardica insieme con un versamento prevalentemente di tipo sieroso. Queste forme virali che tra l’altro
sono le più frequenti si risolvono abbastanza rapidamente ma con la possibilità di complicanze infettive
batteriche per cui richiedono una terapia antibiotica di copertura.
Si possono avere, però, anche forme batteriche caratterizzate dalla presenza di un infiltrato infiammatorio
granulocitario a livello delle sierose con formazione di ascessi e di un versamento purulento.
Le forme batteriche sono più pericolose in quanto, se si diffondono nel miocardio sottostante, comportano
localizzazioni ascessuali anche nel miocardio con morte improvvisa del paziente.

Da un punto di vista clinico le pericarditi acute si presentano con la comparsa di un dolore toracico
retrosternale improvviso e intenso che si irradia al collo, alla spalla e a tutta la schiena. È un dolore diverso
da quello dell’angina pectoris che, invece, è simile a quello dell’infarto, ovvero costrittivo.
All’auscultazione cardiaca si apprezzano rumori di sfregamento e all’elettrocardiogramma si osservano
anomalie di ripolarizzazione del miocardio.

La terapia dipende dalla causa. Bisogna, quindi, fare un esame del sangue con emocoltura e valutare
l’eventuale presenza di batteri in circolo o di antigeni sierici virali. Se si è, poi, costretti ad eseguire una
PERICARDIOCENTESI, ovvero lo svuotamento del liquido pericardico per eliminare il rischio di
tamponamento cardiaco, bisogna fare l’esame colturale del liquido pericardico per stabilire la causa precisa
della pericardite e per poter prescrivere così la terapia mirata.

Le pericarditi croniche sono prevalentemente non infettive fatta eccezione per la tubercolosi la quale è
caratterizzata da un versamento siero-fibrino-ematico.
Tutte le forme croniche non infettive danno origine generalmente ad un versamento fibrinoso.

Nel versamento fibrinoso, sierofibrinoso e siero-fibrino-ematico, se è scarsa la componente liquida, la


fibrina può dare origine a una condizione caratteristica di pericardio a pane e burro oppure far assumere
alla superficie pericardica un aspetto pettinato o anche villoso.

Come detto, la pericardite fibrinosa è tipica di alcuni quadri non infettivi cioè si presenta in corso di uremia,
di malattia reumatica (→ malattia che si sviluppa come risposta esagerata dell’organismo ad antigeni
batterici che svolgono un’azione crociata dapprima contro il batterio che ha causato un’angina tonsillare e
successivamente contro gli antigeni del miocardio per mimetismo molecolare), come conseguenza di un
infarto o come evoluzione di una pericardite virale.

Quando questa pericardite fibrinosa si realizza, si possono auscultare rumori di sfregamento auscultabili
solo in presenza della componente liquida. Se, infatti, la pericardite è particolarmente secca, è difficile
apprezzarli. Il tutto è, poi, associato a dolori toracici, febbre, dispnea, etc...

La pericardite fibrinosa può evolvere dando luogo ad una fusione dei foglietti pericardici che vanno ad
ispessirsi e, quindi, a comprimere il cuore dando origine ad una condizione detta PERICARDITE CRONICA
COSTRITTIVA: il cuore resta ingabbiato tra i due foglietti sierosi ispessiti, fibrosi e non riesce a funzionare
correttamente.
Il soggetto con pericardite cronica costrittiva può salvarsi solo se si rimuove chirurgicamente il pericardio
(PERICARDIOTOMIA). Infatti, questi pazienti spesso vanno incontro a morte per una inadeguata gittata
cardiaca dovuta al fatto che il cuore non riesce a contrarsi determinando così scompenso generalizzato.

Non è detto, però, che un versamento pericardico evolva verso una fibrosi completa configurando il quadro
di pericardite cronica costrittiva. Infatti, come accade nella maggior parte dei casi di pericarditi virali, si può
avere un RIASSORBIMENTO DEL VERSAMENTO oppure la FORMAZIONE DI ADERENZE CIRCOSCRITTE.

Quindi l’evoluzione delle pericarditi può essere la guarigione, le aderenze circoscritte oppure un’aderenza
fibrosa diffusa che configura un quadro di pericardite cronica costrittiva.
P.S. La CONCRETIO CORDIS causa sovraccarico destro con conseguente stasi epatica e pseudo-cirrosi
pericarditica di Pick.

P.S. Se la pericardite si estende al di fuori del pericardio determinando mediastinite si parla di ACCRETIO
CORDIS. All’esame autoptico il cuore è talmente tanto ancorato allo sterno da staccarsi insieme con questo.

MIOCARDITI

Le MIOCARDITI sono processi infiammatori ad eziologia non ischemica del miocardio associati a
degenerazione e necrosi dei miocardiociti, non in grado di rigenerarsi anche se, oggi, si parla di alcune
possibilità di rigenerazione.

Da un punto di vista epidemiologico sono dei processi piuttosto rari, infatti, solo nel 2-4% dei casi
provocano morte improvvisa. Spesso sono malattie asintomatiche che colpiscono soggetti appartenenti a
qualunque fascia di età.

Anche le miocarditi come le pericarditi possono essere ad eziologia INFETTIVA e NON INFETTIVA. In
particolare le possibili cause di miocardite sono spesso in comune con la pericardite.

Per quanto riguarda le CAUSE INFETTIVE, quella più frequenta resta quella virale da Coxsakies virus,
Adenovirus o Virus influenzali, ma esistono anche forme meno frequenti batteriche, fungine e da metazoi
in particolare le echinococcosi.
Le forme fungine ma anche le forme batteriche si osservano spesso nei soggetti immunodepressi.

Per le forme ad eziologia non infettiva le cause possono essere:

• RADIAZIONI IONIZZANTI: un giovane sottoposto ad una terapia radiante contro una massa
mediastinica (tumore timico o polmonare o dell’esofago) può presentare come complicanza una
miocardite non infettive o una pericardite non infettive
• FARMACI
• DISMETABOLISMI basti pensare alle carenze vitaminiche che sono causa di miocardite soprattutto
nei paesi poco sviluppati
• SOSTANZE TOSSICHE come COCAINA che insieme alla miocardite può provocare anche infarto del
miocardio
• REAZIONI AUTOIMMUNI: tra queste ricordiamo la MALATTIA REUMATICA, cioè la forma di
miocardite post-infettiva cioè post angina tonsillare da streptococco β-emolitico di gruppo A. Ad
esempio, quando il bambino che è affetto dalla sua prima tonsillite a 5 anni, può sviluppare una
risposta immunitaria esagerata diretta contro antigeni batterici sviluppando contemporaneamente
una reazione contro auto antigeni del sarcolemma miocardico per mimetismo molecolare. In
questo caso si presenta una miocardite cronica che spesso evolve e si complica in una pancardite o,
ancora peggio, se la malattia reumatica si va a localizzare su un lembo valvolare, le lesioni
reumatiche valvolari si possono complicare con sovra infezioni batteriche evolvendo in endocarditi.
È opportuno, però, precisare che la malattia reumatica rappresenta nei paesi Occidentali un quadro
clinico in via di estinzione anche se, nei paesi più poveri, si registrano numerosi di questi casi.

Quando la miocardite si realizza su base infettiva o non infettiva, l’andamento clinico della malattia può
essere ACUTO, SUB-ACUTO, CRONICO o RICORRENTE cioè possono recidivare (processo cronico che può
riacutizzarsi).

Il processo infiammatorio cronico può dare luogo ad una disfunzione cardiaca che porta viva via allo
sfiancamento del cuore, in particolare a livello ventricolare sinistro. La dilatazione è dovuta al fatto che il
processo infiammatorio cronicizzando va incontro a fibrosi limitando la contrattilità del cuore che, dunque,
tende a sfiancare. Non a caso, nel 2006, la società americana di cardiologia ha inserito le miocarditi tra le
cardiomiopatie acquisite dilatative.
Molte di queste miocarditi evolvono in maniera asintomatica per cui non le si apprezzano clinicamente se
non quando il cuore diventa sfiancato.

La patogenesi delle miocarditi varia a seconda dell’eziologia.


Le più frequenti sono quelle ad eziologia virale. In questo caso si ha un danno citopatico diretto causato del
virus che infetta le cellule miocardiche. Inoltre, l’alterazione è legata alla liberazione di sostanze
immunitarie che vanno ad attaccare il miocardiocita (danno immunomediato). Questo discorso non vale
solo per le forme virali ma anche per quelle batteriche (vedi difterite in cui il corinebacterium difteriae
produce la tossina difterica che come effetto secondario determina la lisi del miocitario).

In caso di miocardite, il cuore può avere un aspetto:

• NORMALE se osservato nella fase acuta di malattia o nella fase cronica iniziale non dilatativa
• DILATATO quando si instaura una cardiomiopatia dilatativa.

La consistenza del cuore è flaccida data la presenza di una componente infiammatoria associata ad edema
e l’aspetto è quello di carne lessa per la presenza di fibrosi che sfianca il miocardiocita. Inoltre è possibile
individuare la presenza di trombi murali sia a livello atriale che ventricolare. I trombi murali ventricolari
possono, poi, dare luogo a diffusione di trombi in altre sedi determinando una serie di complicanze
ischemiche in vari apparati compreso il cuore. Il soggetto con cardiomiopatia dilatativa può andare, infatti,
incontro a morte perché si distacca un tromboembolo che va ad occludere un’arteria coronarica
determinando infarto consequenziale.

Da un punto di vista istologico si osserva un infiltrato infiammatorio linfocitario per le forme virali associato
ad edema. L’infiltrato è localizzato intorno alla parete dei vasi cioè è perivasale ed interstiziale tanto da
simulare molto spesso l’aspetto di un infarto in fase iniziale oppure il rigetto di un cuore trapiantato.
In sunto, da un punto di vista morfologico si osserva un infiltrato flogistico linfocitario perivascolare
interstiziale con associata necrosi dei miocardiociti.
Se l’infezione è batterica si osserva la presenza dei granulociti, cioè un infiltrato granulocitario associato alla
formazione di veri e propri ascessi. L’infiltrato granulocitario è molto pericoloso perché nelle miocarditi
infettive ad eziologia batterica la necrosi diventa estesa e massiva per cui il soggetto nella maggior parte dei
casi muore nonostante la terapia antibiotica.
Nelle forme allergiche, nelle forme iatrogene o nelle forme da radiazioni l’infiltrato infiammatorio
presenta anche una componente granulocitaria eosinofila che si ritrova anche nel rigetto acuto del
miocardio. Questa caratteristica permette di identificare facilmente quello che è un danno non infettivo
(vedi farmaci, radiazioni, ipersensibilità).

In alcuni casi di miocardite ad eziologia infettiva sulla biopsia si può stabilire l’agente patogeno (CMV,
herpes, funghi etc…). Ad esempio, il CMV va a colonizzare il nucleo dei miocardiociti che, quindi, appare con
l’aspetto caratteristico della cellula infettata da CMV cioè ad occhio di civetta (→ macro nucleolo rosso al
centro del nucleo circondato da una area otticamente vuota).

Nelle forme croniche, la necrosi dei miocardiociti viene sostituita da tessuto cicatriziale al momento della
guarigione. Non si può, però, essere certi che la cicatrice sia l’esito di una miocardite oppure l’esito di un
infarto. L’unico modo per discernere i due quadri è l’anamnesi.

Da un punto di vista clinico le miocarditi possono avere un andamento acuto o cronico.


Le FORME ACUTE possono avere una evoluzione benigna nel senso che si può guarire giustamente nel
momento in cui il danno miocitario non è severo. Si può avere, però, una morte improvvisa perché il
processo infiammatorio provoca un serio danno al miocardio con conseguente INSUFFICIENZA DELLA
POMPA CARDIACA che non si contrae correttamente causando scompenso acuto e morte. Si può giungere
alla morte anche per ARITMIE VENTRICOLARI IMPORTANTI situazione che accade soprattutto nelle forme
virali che hanno un particolare neurotropismo oppure in caso di una localizzazione dell’infezione
miocardica in corrispondenza del nodo seno atriale, situazione che determina arresto elettrico, quindi
dissociazione elettrica, arresto cardiaco e morte improvvisa.

La forma acuta può, però, cronicizzare. Se cronicizza nel momento in cui il processo si spegne si ha la
comparsa di AREE SCLEROCICATRIZIALI che vanno in diagnosi differenziale con le cicatrici in corso di infarto
acuto. Nelle forme cronicizzate si può assistere anche alla dilatazione: la fibrosi porta ad una anomala
contrazione del cuore con suo progressivo sfiancamento. La cronicizzazione di un processo infettivo può,
quindi, evolvere in una CARDIOMIOPATIA INFETTIVA ACQUISITA DILATATIVA.

Le forme batteriche sono quelle più pericolose in assoluto dato che, soprattutto, nella fase acuta provocano
ascessi determinando morte dell’individuo.

Tra le forme infettive importanti è quella da Bacillo di Koch il quale, a livello cardiaco, determina miocardite
tubercolare, cioè una miocardite cronica con presenza di granulomi la quale va in diagnosi differenziale con
la sarcoidosi.

Le forme di miocardite virali, dove è presente edema e necrosi dei cardiomiciti, sono comunemente
riscontrate in autopsie pediatriche.
Se sono miocarditi batteriche, invece, si formano ascessi.

Nel caso di forme croniche, vedi la tubercolosi, invece, nell’essudato infiammatorio cronico, oltre ai linfociti
e alle plasmacellule, si osservano cellule giganti.

Esistono, poi, miocarditi infettive FUNGINEE da Candida, da Aspergillo o da Criptococchi (→ funghi con un
aspetto ad anello e con una parete rinforzata). I criptococchi sono molto pericolosi per i soggetti
immunodepressi e HIV+ in cui molto spesso si disseminano in vari organi, encefalo, polmone, cuore, reni
provocando delle necrosi pazzesche che provocano la morte del soggetto se la localizzazione è cardiaca o
celebrale.

Riguarda alle miocarditi protozoarie importante è quella determinata dal Tripanosoma Cruzi, un protozoo
tipico dell’America centrale responsabile della MALATTIA DI CHAGAS. Esso ha un neurotrospismo tanto da
diffondersi attraverso le strutture nervose. Nel momento in cui raggiunge le strutture gangliari nervose le
distrugge. Può capitare, però, che si localizzi a livello cardiaco intaccando le aree dei nodi e causando la
morte dell’individuo. Il protozoo si può, però, localizzare a livello dei plessi nervosi che controllano lo
sfintere esofageo o quello rettale determinando la loro disfunzione (sfintere esofageo inferiore chiuso → a
monte megaesofago; sfintere rettale chiuso → a monte megacolon). Tra le miocarditi protozoarie possiamo
ricordare anche quella da Toxoplasma il quale può localizzarsi ovunque ma, quando si localizza nel
miocardio, provoca un danno cronico che porta a morte l’individuo.

Importanti sono anche le MIOCARDITI DA IPERSENSIBILITÀ la cui forma per eccellenza è la MALATTIA
REUMATICA che si sviluppa dopo alcuni giorni da una infezione con angina tonsillare da streptococco β-
emolitico di gruppo A. In questa forma vengono prodotti anticorpi diretti contro antigeni batterici e contro
antigeni del sarcolemma miocardico per lo sviluppo di una reazione crociata che porta alla distruzione dei
cardiomiociti. La malattia reumatica è da tener in considerazione perché va in diagnosi differenziale con
altre malattie caratterizzate dalla formazione dei granulomi come la tubercolosi e la sarcoidosi o con il
rigetto del trapianto (→ sono presenti eosinofili). Il granuloma della malattia reumatica si estrinseca, però,
sempre nell’interstizio cardiaco determinando la formazione dei cosiddetti NODULI DI ASHOFF che hanno
una necrosi centrale caratteristica diversa dalla necrosi della tubercolosi o della sarcoidosi, cioè una
NECROSI FIBRINOIDE che si può trovare anche nell’ulcera gastrica.

P.S. Esistono poche malattie caratterizzate da necrosi fibrinoide per cui quando si presenta ci si indirizza
verso degli specifici ambiti.

Oltre alla necrosi fibrinoide ci aiuta nella diagnosi anche l’analisi delle CELLULE DI ASHOFF che sono cellule
giganti e delle CELLULE DI ANITSCKOW anche queste cellule giganti istiocito simili caratterizzate, però,
all’interno da molti nuclei con aspetto ad occhio di civetta. Il granuloma è, poi, circondato da linfociti e
plasmacellule elementi caratteristici di un nodulo granulomatoso.

Da non sottovalutare è, poi, la MIOCARDITE DI FIEDLER che è una forma di miocardite idiopatica che
colpisce soggetti tra i 30 e i 50 anni e che è caratterizzata da un esito rapidamente infausto dato che il
soggetto muore improvvisamente per scompenso cardiaco o per disturbi del ritmo.

Il cuore quando viene analizzato presenta macroscopicamente chiazze rosee circondate da un alone più
chiaro. Le aree appaiono simil-infartuali cioè mimano la chiazza che appare su un cuore infartuato. Questa
forma è stata scoperta solo agli inizi del secolo scorso.

Quando si osservano istologicamente le aree flogistiche sono tutte caratterizzate dalla presenza di cellule
istiocitarie giganti tipiche di un infiltrato cronico che non si organizzano mai a formare granulomi ma
rimangono sparse nell’interstizio che circondano i miocardiociti in necrosi.

ENDOCARDITI

Le malattie endocarditi coinvolgono l’endocardio che è il foglietto di rivestimento delle cavità cardiache,
cioè quello che guarda sulla superficie ematica ed è in continuità con l’intima dei grossi vasi.
L’endocardio non riveste soltanto le pareti cardiache, cioè gli atri e i ventricoli, ma anche la superficie
valvolare, cioè le valvole.
Macroscopicamente, l’endocardio appare come una membrana, un foglietto liscio e lucente di rivestimento
delle cavità cardiache e della superficie valvolare che si pone in continuità con la parete dei grossi vasi.
Istologicamente, si tratta di un rivestimento endoteliale, cioè l’endocardio non è altro che un endotelio che
poggia sulla tonaca propria in cui si riconosce una zona di superficie ricca di fibre collagene ed una zona
profonda ricca di fibre elastiche e di fibre muscolari lisce. La presenza delle fibre elastiche spiega la
funzionalità di questo foglietto nell’attività cardiaca. Nella tonaca propria si osservano, poi, vasi, cioè
capillari ed arteriole.
È opportuno precisare che la maggior parte di questi processi infiammatori si estrinsecano sull’endocardio
valvolare.

Sappiamo che, normalmente, le valvole cardiache servono a dirigere il flusso del torrente circolatorio
gestendo la direzione del circolo sanguigno mediante movimenti di apertura e di chiusura dei lembi
valvolari.
Anatomicamente le valvole vengono distinte in due tipi fondamentali: atrio-ventricolari e ventricolo-
arteriose.
Le valvole atrio-ventricolari sono la bicuspide (due lembi) e la tricuspide (tre lembi) le quali hanno la
funzione di dirigere il sangue dall’atrio verso il ventricolo.
Le valvole ventricolo-arteriose, invece, dirigono il sangue con la loro forma semilunare (tre lembi)
esattamente o verso l’arteria polmonare o verso l’aorta.
Tutte le valvole presentano una base d’impianto, un margine di chiusura e un margine libero. Le valvole
atrio-ventricolari hanno una base d’impianto che è in continuità con l’anello (o anulus) fibroso, poi una
superficie di chiusura ed il margine libero.
I lembi valvolari sono, però, tra di loro affiancati per cui è possibile riconoscere una commissura che è il
punto di passaggio tra un lembo e l’altro.
È importante precisare, poi, che le valvole atrio-ventricolari sono agganciate alla parete ventricolare
attraverso muscoli papillari e corde tendinee. Questa presenza fa sì che la valvola possa funzionare
normalmente e, quindi, essere in grado di svolgere la sua funzione. Infatti, qualora fossero integri i lembi
valvolari ma si abbia la rottura di un muscolo papillare o di una corda tendinea si può comunque avere uno
scompenso improvviso e, quindi, morire. Questo evento si manifesta come complicanza di un infarto acuto
del miocardio. Infatti, se un infarto della parete ventricolare si estende al muscolo papillare a livello del
lembo anteriore della mitrale può determinare necrosi del muscolo papillare e insufficienza valvolare acuta.
La rottura di una corda tendinea si può presentare, però anche su base traumatica a livello toracico o per
altre malattie.
Può capitare, poi, che anziché rompersi i muscoli papillari ed osservare insufficienza valvolare acuta, si
possa avere la fibrosi delle corde tendinee per la presenza di una malattia infiammatoria cronica valvolare
(vedi malattia reumatica) rendendo la valvola insufficiente.
Addirittura, in alcuni casi, si può assistere alla fusione delle commissure valvolari in seguito alla fibrosi che
segue un processo infiammatorio. Tutto questo determina insufficienza o stenosi valvolare a seconda di
come si realizza la fibrosi.

In sunto, si parla di STENO-INSUFFICIENZE:

− ACUTE in caso di rottura delle corde tendinee o dei muscoli papillari


− CRONICHE in caso di retrazione valvolare o presenza di fusione delle commissure. In questo caso
l’insufficienza o la stenosi valvolare cronica possono essere seguite nel tempo e sottoposte ad un
intervento di cardiochirurgia di sostituzione valvolare

P.S. L’OSTIO VALVOLARE è il foro in cui patologi e cardiochirurghi inseriscono le dita per valutare se l’ostio
valvolare sia continente o incontinente. In genere la circonferenza media dell’ostio valvolare a dx nel
maschio è di 120 mm (circa tre dita) mentre nella donna è più stretto, cioè 100 mm. A sx l’ostio si riduce a
100 mm nel maschio e a 90 mm nelle donne. Conoscere le misure è importante in quanto consente ai
cardiologi e ai cardiochirurghi di stabilire se sono presenti alterazioni della valvola sotto forma di stenosi o
se è presente insufficienza per sfiancamento valvolare.

Le valvole semilunari hanno specifiche caratteristiche istologiche.


Sono formate da uno STRATO DI TONACA ENDOTELIALE, uno
STRATO FIBROSO, uno STRATO ELASTICO e uno STRATO
SPONGIOSO. La tonaca elastica nelle semilunari è particolarmente
rappresentata sul margine libero (assiale) della valvola cioè quello
che guarda verso il flusso ematico. Le tonache spongiosa e fibrosa si
ritrovano, invece, particolarmente rappresentate sul margine rivolto
verso la parete ventricolare.

La maggior parte delle endocarditi si estrinsecano sulle valvole


perché queste sono sottoposte a maggiore stress emodinamico con
conseguente insorgenza di VIZI VALVOLARI (insufficienza per
difettosa chiusura, stenosi per incompleta apertura della valvola o
vizi valvolari combinati, cioè steno-insufficienza).

Le cause dei vizi valvolari possono essere:

− MALFORMAZIONI CONGENITE
− MALFORMAZIONI ACQUISITE le quali costituiscono la gran parte dei vizi valvolari (vedi vizio
valvolare successivo ad endocardite)

Le manifestazioni cliniche dei vizi valvolari possono essere: ACUTE o CRONICHE.


Il VIZIO ACUTO è dovuto a rottura dei muscoli papillari a cui segue la morte improvvisa per scompenso
valvolare.
Il VIZIO CRONICO comporta, invece, una serie di quadri, come steno-insufficienza, stenosi o insufficienza,
che possono essere sottoposti ad intervento chirurgico al fine di ripararle.

I vizi valvolari ventricolo-arteriosi si instaurano, generalmente, in modo progressivo essendo vizi cronici
caratterizzati da una stenosi dell'anulus valvolare, dalla fusione delle commissure dei lembi valvolari o da
uno sfiancamento valvolare con conseguente insufficienza valvolare.
Come già detto, i vizi valvolari ventricolo-arteriosi sono prevalentemente di natura cronica a meno che non
ci sia un danno acuto, per esempio, a carico dell’ostio coronarico che è presente in corrispondenza del
lembo anteriore dell’aorta. Infatti, un aneurisma aortico o un’occlusione trombotica dell’orifizio coronarico
può determinare morte improvvisa. Contrariamente una stenosi/insufficienza delle valvole semilunari
determinano quadri cronici.

I vizi valvolari sono prevalentemente legati a endocarditi.


Tenendo conto dell’eziologia, l'ENDOCARDITE può essere di natura:

− INFETTIVA
− NON INFETTIVA

particolarmente estrinsecata a livello dell’endocardio valvolare e/o parietale, anche se la maggior parte
delle endocarditi sono valvolari.
Dal punto di vista cronologico si distinguono in:

− ACUTE
− SUBACUTE
− CRONICHE
− RICORRENTI, cioè processi infiammatori che cronicizzano ma che possono, poi, riacutizzarsi.

Dal punto di vista morfologico, invece, si distinguono in:

− VERRUCOSE
− POLIPOSE
− ULCEROSE
− FORME MISTE ULCERO-POLIPOSE

Dal punto di vista epidemiologico, l’endocardite infettiva è caratterizzata da:

− morbilità elevata dato che ne derivano forme croniche con vizi valvolari
− mortalità ridotta dato che oggi le forme croniche si possono operare con la sostituzione valvolare

I maschi sono i più colpiti soprattutto dopo i 40 anni fino ai 60 (età medio o avanzata). Le donne possono
essere colpite da endocardite infettiva soprattutto se presentano vizi valvolari congeniti come, per
esempio, il prolasso della valvola mitrale.
I lembi prolassati della valvola mitrale, rilevabili con ecocardio in quasi tutte le donne, sono situazioni
compatibili con la vita. In questo caso cambia solo il rischio chirurgico anestesiologico che da essere basso
diventa più alto. Il prolasso congenito non dà problemi a meno che la valvola prolassata non sia interessata
da un processo infettivo o da uno reumatico.

Le endocarditi si instaurano soprattutto se sono presenti dei FATTORI PREDISPONENTI:

o LOCALI:
− malformazioni
− interventi chirurgici sul cuore che possono complicarsi con infezioni
− precedenti infarti del miocardio
− pregressa endocardite reumatica
− flogosi croniche da endocardite reumatica che possono complicarsi con infezioni batteriche
− cardiomiopatia ipertrofica
o GENERALI:
− immunodepressione
− tossicodipendenza
− emodialisi: I soggetti sottoposti ad emodialisi per insufficienza renale sono soggetti a
rischio di sviluppare endocarditi in quanto presentano una fistola a livello del braccio
aperta che può essere invasa da agenti infettivi
Gli agenti eziologici della endocardite sono:

− BATTERICI (Streptococco, Stafilococco, Salmonella, Brucella, Escherichia Coli)


− VIRALI
− FUNGINI
− NON INFETTIVI come la malattia reumatica, forme iatrogene, forme da radiazioni, etc...

Le forme infettive si differenziano dall’endocardite reumatica in quanto l'infezione batterica o virale


interessa soprattutto i lembi di chiusura essendo questi sotto stress.

Riguardo alla morfologia, i processi infettivi quando si localizzano a livello valvolare danno origine ad una
deposizione di materiale trombotico costituito da fibrina, ricco di granulociti, piastrine e batteri. Il deposito
trombotico può andare incontro ad ulcerazione perché friabile dando luogo a manifestazioni trombotiche
ulcerate, ulcero-polipose, etc... Si possono distaccare dei veri e propri trombi infettivi che possono partire
in circolo occludendo le coronarie o originando ascessi di cui i più temibili sono quelli cerebrali.

Le endocarditi infettive nella fase acuta si possono complicare con la comparsa di trombosi ma anche con la
perforazione della valvola, determinando insufficienza acuta valvolare.
Se l'endocardite si estende ad un muscolo papillare si possono avere ulcerazione, necrosi e rottura del
muscolo papillare oppure sfiancamento aneurismatico del lembo valvolare.

Le complicanze possono essere, dunque:

o DIRETTE:
− PERFORAZIONE VALVOLARE
− ROTTURA CORDA TENDINEA
− ANEURISMA DEI LEMBI
− OSTRUZIONE DELL’OSTIO VALVOLARE, con conseguente scompenso cardiaco e
splenomegalia, correlata alla continua attivazione del sistema immunitario.
o INDIRETTE
− EMBOLIA SETTICA
− ASCESSI MIOCARDICI
− ANEURISMI CARDIACI
− NODULI DI OSLER, cioè noduli sottocutanei a livello delle dita delle mani e dei piedi
− LESIONI RENALI

Le forme acute di complicanza portano a morte improvvisa del paziente tranne quando le endocarditi acute
cronicizzano dando luogo a fibrosi e, quindi, a stenosi o a steno-insufficienza.

Giustamente l’esito di una endocardite è una guarigione dopo terapia, vizi valvolari, eventuali recidive in
seguito a riduzione temporanea delle difese immunitarie che determina riattivazione del focolaio
endocarditico o esito infausto, oggi piuttosto improbabile.

P.S. Tra le endocarditi non infettive ricordiamo:

• ENDOCARDITE VERRUCOSA ATIPICA (o di LIEBMAN-SACKS) che nella metà dei casi si manifesta in
pazienti affetto da LES. Presenta delle manifestazioni simili a quella reumatica perché è anch'essa
verrucosa ma è definita atipica perché colpisce non solo la mitrale come la forma reumatica ma
anche la tricuspide. Inoltre, la sua atipicità è dovuta anche al fatto che colpisce non solo la faccia
assiale della valvola ma anche la faccia parietale. In ogni caso la tendenza di queste patologie di
evolvere in senso sclerotico è modesta tant'è vero che solo raramente si accompagnano a
disfunzione cardiaca.
• ENDOCARDITE TROMBOTICA MARANTICA: il termine marantica fa riferimento al marasma che è
una situazione di grave debilitazione fisica e psichica che coinvolge soprattutto pazienti cachettici. È
detta trombotica perché si accompagna a stati di ipercoagulabilità ematica, cioè trombosi venosa o
CID, che determinano la formazione di trombi su valvole sclerotiche o distrofiche, a livello della
mitrale, dell'aortica o della tricuspide.
Nel 50% dei casi colpisce soggetti al di sopra dei 50 anni.
Può determinare embolie sistemiche nel 40% dei casi perché i trombi che si formano sulle superfici
endocardiche sono piuttosto friabili per cui, ad esempio, anche una piccola mobilizzazione di un
paziente allettato (→ situazione che facilita il ristagno di sangue e la trombosi) può determinare
embolia. È opportuno precisare che la formazione dei trombi favorisce l’evoluzione in forme
infettive.

CARDITE REUMATICA

La forma più importante di CARDITE (o PANCARDITE) è quella REUMATICA.

Questa è una malattia che rappresenta il 20% di tutte le cardiomiopatie ed è in aumento nei paesi tropicali.
Colpisce soprattutto giovani adulti e adolescenti senza differenza di sesso essendo questi soggetti che si
ammalano facilmente di angine-tonsillare.
Infatti dopo 10-40 giorni, in seguito ad infezione streptococcica β emolitica di gruppo A, si innesca una
risposta immunitaria contro l'antigene batterico ma anche contro antigene self del sarcolemma cardiaco
per mimetismo molecolare. Questa condizione porta a livello cardiaco, che si tratti di endocardio,
miocardio o pericardio, alla localizzazione della malattia sotto forma di lesione granulomatosa con presenza
di cellule gigante e necrosi fibrinogena.

I granulomi si osservano anche a livello del pericardio ma, a livello endocardico, si può apprezzare bene
l’edema e l’infiltrato infiammatorio che protrude da focolai erosivi di superficie. Si formano le cosiddette
VERRUCHE REUMATICHE, cioè lesioni piccole di 1-3 mm che si dispongono a corona di rosario lungo il
margine di chiusura della valvola. Queste verruche si differenziano dal trombo dell'endocardite infettiva
perché sono stabili, cioè attaccate alla parete e difficili da sfaldare. Per tale ragione, la complicanza
trombotica di una malattia reumatica è una evenienza molto rara rispetto alla complicanza trombotica
della endocardite infettiva.

La cronicizzazione dell'endocardite verrucosa reumatica nel tempo può portare ad una fusione delle
commissure valvolari con irrigidimento e restringimento dell'ostio valvolare, quindi a difetti valvolari sotto
forma di stenosi, insufficienza o steno-insufficienza.

Inoltre, sulla malattia reumatica si può instaurare, poi, una malattia infettiva ad eziologia batterica. In
questo caso si avrà una condizione di endocardite infettiva batterica ulcero-poliposa su valvola reumatica
che può immettere ovviamente trombi infettivi in circolo.

La malattia reumatica per le sue complicanze può essere sottoposta a trattamento chirurgico di
sostituzione valvolare.

TUMORI DEL CUORE

I tumori del cuore non sono tumori frequenti.


Essi sono distinti in due grosse categorie:

• TUMORI CONGENITI

• TUMORI ACQUISITI

I TUMORI CONGENITI del cuore sono tipici dell'infanzia, quindi sono tumori che possono essere addirittura
diagnosticati nella vita intrauterina o che si manifestano nei primi anni di vita. Possono essere causa di
morte in culla del neonato se non diagnosticati. Tra questi tumori ricordiamo il RABDIOMIOMA, il
FIBROMA e la CARDIOMIOPATIA ISTIOCITOIDE. Questi tre tumori dell'infanzia sono amartomi benigne che,
in teoria, potrebbero essere anche operati.

I TUMORI PRIMITIVI dell'adulto sono, invece, eventi rari e si distinguono in:

• FORME BENIGNE (75%) → MIXOMA CARDIACO, ELASTOFIBROMA PAPILLIFERO e IPERTROFIA


LIPOMATOSA

• FORME MALIGNE → RABDOMIOSARCOMA e ANGIOSARCOMA che prendono origine


rispettivamente da una cellula miocardica e dalla parete dei vasi

Il RABDOMIOMA deriva da precursori embrionali di cellule miocardiche. Si tratta di una lesione nodulare
spesso multicentrica localizzata nel miocardio ventricolare. È formata anche da cellule aracniformi ricche di
glicogeno.
Per queste caratteristiche, il ginecologo in caso di rabdomiomi deve valutare se fare abortire o no la madre.
Spesso le gravidanze si interrompono spontaneamente, quindi si preferisce intervenire con una
interruzione terapeutica di gravidanza piuttosto che giungere al 7-8 mese e, poi, perdere in utero il
bambino. Il rabdomioma è spesso associato alla sclerosi tuberosa che è una malattia autosomica
dominante rara (150-160 casi a livello mondiale) caratterizzata dall'associazione di tumori cardiaci
nell’infanzia o nell’età adulta (→ mixoma) con iperpigmentazione della cute e disturbi endocrinologici.

Il FIBROMA si osserva nei bambini solitamente di 11 anni. Spesso è calcifico ed è operabile quando viene
individuato. È sempre una lesione amartomatosa, quindi, di solito genetica.

La MIOCARDIOPATIA ISTIOCITOIDE del neonato e del bambino è una lesione con localizzazione variabile
(endocardio, miocardio, nodo atrioventriale o seno atriale) che può portare a morte improvvisa.
È formato da cellule embrionali (che ricordano vagamente il miocardiocita di origine) organizzate a formare
strutture nodulari.

Il MIXOMA è un tumore cardiaco dell’adulto associato alla SINDOME DI CARMEY, cioè una sindrome
autosomica dominante caratterizzata da una alterazione particolare di un gene.

P.S. Il rabdomiosarcoma è una variante dei tumori maligni rari dell'infanzia insieme con il tumore renale di
Wilms e all’epatoblastoma epatico. Questi sono le tre varianti di tumori maligni prevalenti dell'infanzia.
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