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ANATOMIA PATOLOGICA

COMPENDIO SULLE TECNICHE DI BASE, LE PATOLOGIE DEI


TESSUTI MOLLI ED IL TRATTO GASTRO-INTESTINALE E RELATIVI
ANNESSI
SOMMARIO

SOMMARIO
INTRODUZIONE ALL’ANATOMIA PATOLOGICA
COS’È L’ANATOMIA PATOLOGICA?
IL RISCONTRO DIAGNOSTICO
LE FASI DEL RISCONTRO DIAGNOSTICO
TECNICHE BIOPTICHE
INDAGINE ISTOLOGICA
INDAGINE CITOLOGICA
COLORAZIONI
STADIAZIONE E GRADO DI UN TUMORE
PATOLOGIE DEL TESSUTO OSSEO E DEI TESSUTI MOLLI
INTRODUZIONE AI TUMORI DEI TESSUTI MOLLI E DEL TESSUTO OSSEO
TUMORI DEL TESSUTO ADIPOSO
TUMORI DEL TESSUTO FIBROSO
TUMORI DEL TESSUTO FIBROISTOCITARIO
TUMORI DELLE GUAINE NERVOSE PERIFERICHE
TUMORI DEL TESSUTO MUSCOLARE LISCIO
TUMORI DEL TESSUTO MUSCOLARE SCHELETRICO
TUMORI DI INCERTA DIFFERENZIAZIONE
TUMORI DEL TESSUTO VASCOLARE
TUMORI DEL TESSUTO OSSEO
APPARATO GASTROINTESTINALE
CENNI DI ANATOMIA, ISTOLOGIA E FISIOLOGIA
GASTRITE CRONICA
MALATTIA PEPTICA ULCEROSA
MALASSORBIMENTO
MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI (IBD)
DISTURBI DEL CIRCOLO
MALATTIA DI HIRSCHSPRUNG
ENTEROCOLITI BATTERICHE
ENTEROCOLITI PARASSITARIE
GASTROENTERITI DELLA POPOLAZIONE IMMUNODEPRESSA
MALATTIA DIVERTICOLARE
APPENDICITE ACUTA
CARCINOMA GASTRICO
TUMORE STROMALE GASTROINTESTINALE (GIST)
LINFOMA GASTROINTESTINALE
POLIPI INTESTINALI
POLIPOSI ADENOMATOSA FAMILIARE (FAP)
CANCRO EREDITARIO DEL COLON-RETTO NON POLIPOSICO (HNPCC)
ADENOCARCINOMA DEL COLON-RETTO
TUMORI DELL’APPENDICE
TUMORI DEL CANALE ANALE
PATOLOGIE DEL FEGATO E DELLE VIE BILIARI
CENNI DI ANATOMIA, ISTOLOGIA E FISIOLOGIA
LESIONI ELEMENTARI EPATOCITARIE
LESIONI ELEMENTARI DEL TESSUTO EPATICO
INSUFFICIENZA EPATICA
IPERTENSIONE PORTALE
CIRROSI EPATICA
EPATITE ACUTA
EPATITE CRONICA
LESIONI NODULARI BENIGNE
EPATOCARCINOMA (HCC)
MALATTIE DELLE VIE BILIARI INTRAEPATICHE
COLANGIOCARCINOMA (CAA)
CARCINOMA DELLA COLECISTI
PATOLOGIE DEL PANCREAS
CENNI DI ANATOMIA, ISTOLOGIA E FISIOLOGIA
PANCREATITE ACUTA
PANCREATITE CRONICA
CARCINOMA DEL PANCREAS
TUMORI ENDOCRINI DEL PANCREAS
INDICE ANALITICO
INTRODUZIONE ALL’ANATOMIA
PATOLOGICA

COS’È L’ANATOMIA PATOLOGICA?


IL RISCONTRO DIAGNOSTICO
LE FASI DEL RISCONTRO DIAGNOSTICO
TECNICHE BIOPTICHE
AGOBIOPSIA
BIOPSIA ENDOSCOPICA
Biopsia endoscopica intestinale
BIOPSIA EPATICA
ESAME INTRAOPERATORIO
BIOPSIA INCISIONALE ED ESCISSIONALE
TECNICA CHIRURGICA DI MOHS
INDAGINE ISTOLOGICA
INDAGINE CITOLOGICA
CITOLOGIA ESFOLIATIVA
Citologia esfoliativa diretta
Citologia esfoliativa indiretta
CITOLOGIA AGOASPIRATIVA
COLORAZIONI
COLORAZIONI ISTOLOGICHE
Ematossilina ed Eosina
Tricromica di Masson
Tricromica di Mallory
Impregnazione argentica
Orceina
COLORAZIONI ISTOCHIMICHE
Reazione PAS
Alcian Blu
IMMUNOISTOCHIMICA
Immunoistochimica diretta
Immunoistochimica indiretta
Differenze tra il metodo diretto ed indiretto
IMMUNOFLUORESCENZA
ISTOENZIMATICA
ALTRE TECNICHE
Citofluorimetria
Citogenetica e FISH
Amplificazione enzimatica del DNA con la PCR
STADIAZIONE E GRADO DI UN TUMORE
GRADO DI UN TUMORE
STADIO DI UN TUMORE
C OS ’ È L ’ ANATOMIA PATOLOGICA ?
L’anatomia patologica è una disciplina che studia le modificazioni indotte
dagli stati di malattia a carico di organi, tessuti e cellule, prevalentemente dal
punto di vista morfologico, sebbene possano essere sfruttate metodiche ben
più complesse ed avanzate tecnologicamente.
L’anatomia patologica fu introdotta in Italia nel lontano 1761 grazie all’opera
di Giovanni Battista Morgagni. A ciò seguirono l’introduzione di numerose
altre tecnologie e metodiche: Lissen ed il microscopio ottico; Blum la
fissazione in formalina; Klebs l’inclusione in paraffina, Minot ed il
microtomo e Bohmer che per primo utilizzò una delle più importanti
colorazione istologiche, ovvero l’ematossilina/eosina. Più recentemente, nella
seconda metà del ‘900, le diverse metodiche introdotte
dall’immunoistochimica e dalla patologia molecolare rivoluzionarono
completamente l’anatomia patologica, rendendo evidenti alcune
manifestazioni di patologie che non trovano un riscontro citologico od
istologico: immunofissazione, immunoistochimica enzimatica, utilizzo degli
anticorpi monoclonali, scoperta di specifici deficit proteici, mutazioni
geniche, aneuploidie e cromosomi aberranti sono solamente alcune delle più
importanti scoperte che videro la luce durante tale periodo.
Attualmente l’anatomia patologica si pone come obiettivo quello di 1)
giungere ad una diagnosi, permettendo così di impostare un trattamento
terapeutico e di esprimersi circa la prognosi; 2) monitorare l’evoluzione della
malattia, valutando così gli effetti e l’efficacia della terapia intrapresa; 3)
valutare la radicalità di un intervento e fornire informazioni prognostiche. Le
procedure per perpetrare tali scopi possono riguardare l’analisi dell’intero
corpo (autopsia), dei tessuti tramite metodiche istologiche, delle singole
cellule tramite metodiche citologiche ed ancora tecniche di biologia
molecolare per valutare aspetti quantitativi e qualitativi di macromolecole
organiche (DNA, RNA, proteine, glucidi).
IL RISCONTRO DIAGNOSTICO
Il riscontro diagnostico è un esame dettagliato dell’intero cadavere, che
riguarda aspetti microscopici e macroscopici, batteriologici e tossicologici,
condotto al fine di stabilire la causa di morte, identificare stati patologici,
verificare l’attendibilità e la qualità degli esami in vita, gli effetti delle
terapie, caratterizzare aspetti morfologici di nuove malattie, evidenziare
implicazioni medico-legali di responsabilità professione e contribuire a
constatazioni epidemiologiche ed allo studio patogenetico della malattia.
Il riscontro diagnostico sottostà al regolamento di Polizia Mortuaria che
definisce quando deve essere effettuato e le figure professionali che possono
effettuarlo. In genere viene effettuato 24 ore dopo il decesso, ma può essere,
in casi speciali, anticipato (ad esempio qualora vi sia il sospetto di malattia
infettiva diffusibile o specifiche richieste del medico) o posticipato fino a 48
ore (ad esempio nel sospetto di morte apparente o nel caso in cui si sospetti
che la causa del decesso possa essere una manovra medica). In caso di
riscontro diagnostico anticipato, un cardiologo deve effettuare monitoraggio
elettrocardiografico della durata di almeno venti minuti che confermi la
mancanza di attività elettrica del cuore. Le figure professionali che possono
effettuare il riscontro diagnostico sono definite dalla direzione sanitaria e
costituiscono i cosiddetti medici necroscopici, che sostanzialmente sono
riconducibili a due figure professionali specifiche: il medico legale, che si
occupa di riscontri diagnostici per morti accidentali, violente e ritrovamenti, e
l’anatomopatologo, che effettua riscontri diagnostici previa richiesta di un
medico.
Un caso particolare riguarda il sospetto di morte a causa di una manovra
medica errata. E’ possibile difatti che l’anatomopatologo si accorga, nel corso
dell’autopsia, di possibili “anomalie” legata a manovra medico-chirurgiche.
In tal caso, la procedura viene sospesa, la salma conservata in cella frigorifera
ed eventuali reperti autoptici accuratamente conservati. L’anatomopatologo
referta l’accaduto ed avvisa la direzione sanitaria che a sua volta si occuperà
di informare il magistrato di turno, il quale deciderà a sua volta circa la
prosecuzione della procedura autoptica e l’eventuale presenza di una colpa.
Se quest’ultimo evento si verifica, allora si procederà con un’autopsia
giudiziaria eseguita da un medico legale nominato dalla direzione sanitaria
ma esterno all’ASL di appartenenza. Si tenga in considerazione che,
contrariamente a quanto normalmente creduto, l’esecuzione di un’autopsia
non richiedere il consenso da parte dei famigliari, ad eccezione di morte
improvvisa del feto o nella sindrome della morte improvvisa del lattante dove
è necessario il consenso da parte di entrambi i genitori. Una volta richiesto
l’esame autoptico questo può essere interrotto solamente su richiesta del
medico che l’ha ordinato (fatto salvo per i casi precedentemente descritti). Le
autopsie fetali vengono condotte in maniere differente a seconda della
settimana in cui ha avuto termine la gravidanza:
In caso di gravidanze interrotte fino alla 25esima settimana, il feto
assieme alla placenta viene incluso in formalina ed inviato al
laboratorio come pezzo anatomico.
In caso di gravidanze interrotte dopo la 25esima settimana, il feto viene
inviato in sala settoria.
In ogni caso il feto viene sempre eviscerato, gli organi analizzati ed infine la
salma ricomposta.
L’anatomopatologo od il medico-legale non deve compiere alcun atto che
non sia necessario all’esecuzione dell’autopsia stessa affinché non vi sia
vilipendio di cadavere. Una volta effettuata l’autopsia, la salma viene
ricomposta, assieme a segatura, cotone e stracci che impediscono la
fuoriuscita di liquidi, e rivestita per essere riconsegnata in maniera dignitosa
alla famiglia.
LE FASI DEL RISCONTRO DIAGNOSTICO
Il riscontro diagnostico si articolo su diverse fasi, innanzitutto è necessario
valutare esternamente la salma circa lo stato in cui si presenta, il sesso, l’età
apparente, lo stato nutrizionale, eventuali interventi pregressi (che riguardano
sia esiti cicatriziali, tatuaggi, drenaggi, suture) e fenomeni tanatologici,
ovvero quei fenomeni cadaverici che si distinguono in immediati e
consecutivi. I fenomeni cadaverici immediati comprendono la cosiddetta
triade del Bichat, caratterizzata da assenza di respirazione, di attività
cardiocircolatoria e neurologica (coscienza e funzioni neurologiche). I
fenomeni cadaverici consecutivi comprendono:
Il rigor mortis ovvero la rigidità cadaverica, una condizione peculiare
della muscolatura liscia e striata che si caratterizza per l’insorgenza di
uno stato di retrazione e di compattezza che subentra gradualmente
entro 2-3 ore ad uno stato di flaccidità che segue la morte del soggetto.
Segue una fase di stabilizzazione in cui il rigor raggiunge la sua
massima intensità e l’atteggiamento del cadavere rimane fissato. Circa
3 giorni dopo la morte del soggetto segue la fase di risoluzione in cui il
rigor si esaurisce in maniera graduale. Generalmente il rigor interessa
dapprima le palpebre, seguono i muscoli massetere, del viso, del collo,
del tronco, gli arti superiori ed infine gli arti inferiore; anche la
risoluzione tende a seguire il medesimo ordine. Tale sequenza, che
comunque non costituisce un dogma assoluto, prende il nome di legge
di Nysten. Il meccanismo alla base del rigor è imputabile alla fissazione
dei ponti di actina e miosina a causa della deplezione di ATP.
Il livor mortis sono macchie ipostatiche, violacee che compaiono nelle
aree declivi del cadavere a causa all’arresto cardiocircolatorio, che
determina una condizione di stasi ematica. Entro le prime ore dalla
comparsa delle macchie, queste possono essere attenuate (e talora
scomparire completamente) esercitando una pressione tale da
allontanare il sangue stagnante nei capillari (ipostasi di primo grado),
inoltre modificando la posizione della salma è possibile che si attenuino
le macchie ipostatiche già presenti e che se ne formino di nuove nelle
nuove aree declivi. Dopo circa 10-12 ore le macchie ipostatiche non
risultano più soggette a processi di attenuazione, ovvero divengono
inamovibili (ipostasi di secondo grado); l’origine di tale fenomeno è
dovuto ai processi di autolisi delle emazie che liberano emoglobina con
conseguente imbibizione dei tessuti che si colora in maniera
irreversibile.
La disidratazione dovuta all’arresto cardiocircolatorio e che interessa
le mucose e le aree di cute più sottili (sclere, scroto e naso).
Il raffreddamento della salma con la temperatura che diminuisce
gradualmente assestandosi a quella ambiente.
La putrefazione del cadavere inizia dopo circa 3 giorni. Il fenomeno
iniziale riguarda sempre l’intestino cieco e si riverbera nella cute
sovrastante dell’ipocondrio destro come un’area verde-giallastra. Tale
fenomeno è dovuto alla permanenza nel cieco di batteri anaerobi che
proliferano, degradano e decompongono i tessuti, determinando la
formazione di gas (idrogeno solforato) che invadono i tessuti e si
combinano con l’emoglobina, formando la solfometaemoglobina
responsabile della colorazione tissutale. L’area pigmentata si diffonde
progressivamente a tutto il corpo, con viraggio del colore da verdastro a
nerastro e salienza del circolo venoso, soprattutto agli arti ed al tronco.
Alla valutazione esterna della salma segue l’eviscerazione con la valutazione
macroscopica degli organi. Il torace viene aperto tramite costotomo,
tagliando le coste circa 1cm interno alla porzione cartilaginea vicino all’osso.
Una volta rimossa la porzione di sterno e parte delle cartilagini costali, si
accede all’aia cardiaca, dove è già possibile effettuare alcune constatazioni,
come la valutazione di un eventuale tamponamento (presenza di sangue nello
spazio pericardico). Dapprima si valutano le arterie polmonari per ricercare la
presenza di un eventuale TEPA massiva, semplicemente inserendo un dito in
arteria e valutando se questa risulta occlusa. Segue l’eviscerazione del cuore,
delle arterie polmonari, cava superiore ed inferiore e dei polmoni. Di ogni
organo vengono valutati peso, colore, presenza di eventuali coaguli, aree di
necrosi e a livello cardiaco l’eventuale presenza di vegetazioni valvolari o
murali. Tramite un’incisione a forma di ‘Y’, da acromion a pube, si giunge a
livello del peritoneo peritoneale, che appare come una membrana biancastra,
quindi si recide delicatamente la membrana peritoneale e si accede alle anse
intestinali ed agli altri organi addominali (fegato, milza, stomaco). A livello
dello scavo pelvico vengono rimossi in blocco vescica, retto e genitali; ed
infine, sempre in blocco, si prelevano aorta, vena cava superiore, esofago,
trachea, stomaco, laringe e lingua. Di ogni organo deve essere effettuata una
valutazione delle caratteristiche (es. superficie, consistenza e colore) al taglio
e tutte le aree apparentemente patologiche devono essere prelevate, fissate in
formalina ed inviate al laboratorio per effettuare la successiva indagine
istologica (o metodiche più sofisticate).
Una volta raccolti tutti gli elementi necessari, il patologo fornisce una
epicrisi, ovvero un giudizio conclusivo che deriva dalla somma di tutti i
singoli giudizi parziali derivanti dalle diverse fasi del riscontro diagnostico
(esame esterno, esame macroscopico, microscopico e diagnosi
istopatologica). L’epicrisi fornisce una causa iniziale, cioè la causa che ha
portato alla morte, una causa intermedia, conseguenza della causa iniziale,
causa terminale, che ha effettivamente determinato la morte del soggetto, ed
altri stati morbosi rilevanti, ovvero quelle condizioni che non hanno avuto un
ruolo diretto nel determinare la morte del soggetto bensì nel compromettere
lo stato di salute del soggetto. Ad esempio, è possibile identificare come
ipotetica causa iniziale una protesi d’anca, come causa intermedia una TEPA
e come causa finale l’arresto cardiaco.
T ECNICHE B IOPTICHE
AGOBIOPSIA
L’agobiopsia è una tecnica bioptica che utilizza un ago tranciante per
prelevare campioni di tessuto da organi relativamente superficiali, talvolta
localizzati appena al di sotto della cute. La misura dell’ago utilizzato
differisce a seconda dell’organo di interesse: nella biopsia osteomidollare
(BOM) vengono utilizzati aghi di calibro maggiore mentre nel caso di fegato,
mammella, rene e prostata si utilizzano aghi di calibro compreso tra i 16 ed i
21 Gauge. Si ricorda inoltre che la dimensione in Gauge è inversamente
proporzionale al diametro dell’ago, ovvero quanto più è elevato il diametro
dell’ago tanto minore è il valore espresso in Gauge e viceversa. L’agobiopsia
con ago tranciante, detta anche microbiopsia Tru-Cut, permette di ottenere un
frustolo di materiale sul quale è possibile effettuare un’analisi di tipo
istologica, valutando le caratteristiche cellulari, l’organizzazione delle cellule
nel contesto del tessuto e la microarchitettura tissutale.
BIOPSIA ENDOSCOPICA
La biopsia endoscopica è una procedura bioptica basata sull’endoscopia ed
utilizzata per prelevare piccoli campioni di organo da sottoporre ad ulteriori
indagini. La procedura si basa sull’utilizzo di un endoscopio canalizzato
all’interno del quale viene posto un filo metallico che termina con una pinza
bioptica, utilizzata per tranciare piccole porzioni della parete dell’organo.
Una volta strappato il materiale, il filo viene sfilato dal canale
dell’endoscopio ed il frammento di materiale appositamente conservato in un
barattolo sterile contenente formalina od inviato a fresco, a seconda della
metodica diagnostica da utilizzare.
BIOPSIA ENDOSCOPICA INTESTINALE
La biopsia endoscopica intestinale viene effettuata tramite l’ausilio di un
endoscopio canalizzato con pinza bioptica. Il campione prelevato dalla parete
contiene sia tonaca mucosa che sottomucosa. In precedenza veniva utilizzata
la tecnica della suzione, basata sull’utilizzo di una pinza a pressione negativa
che aderisce e “risucchia” la parete intestinale e di una lama che taglia il
campione di tessuto. La biopsia da suzione, attualmente non più utilizzata,
permette di ottenere campioni con una maggiore quantità di tessuto, ma si
associa a possibili complicanze più gravi.
La biopsia intestinale deve includere più campioni, poiché le patologie
gastrointestinali possono originare un danno discontinuo alla parete
intestinale (es. l’andamento segmentario del morbo di Chron) ed un solo
campione potrebbe determinare un risultato falso negativo. In genere
vengono effettuate biopsie, di cui due a livello della seconda porzione del
duodeno ed altre due nella porzione più distale. Le biopsie a livello del bulbo
duodenale vengono generalmente evitate, essendo questa una zona che può
risentire dei processi infiammatori che hanno sede primariamente a livello
gastrico (es. gastrite cronica di tipo B), potendo dare di conseguenza dei falsi
positivi; inoltre la presenza delle ghiandole di Brunner può portare ad una
falsa diagnosi di atrofia. Affinché una biopsia risulti adeguata è necessario
che il campione prelevato contenga la tonaca mucosa e la sottomucosa; che
siano presenti almeno villi intestinali correttamente orientati, ovvero
sezionati lungo il loro asse maggiore (in quanto un taglio tangenziale
potrebbe determinare il riscontro di false atrofie ghiandolari od incremento di
linfociti intraepiteliali); che i diversi campioni prelevati siano correttamente
classificati ed ordinati dal più prossimale al più distale. I criteri di normalità
di una sezione istologica di intestino sono:
Presenza di almeno villi intestinali di altezza normale e con un
rapporto villo/cripta di .
Enterociti di normale altezza (circa µm).
Presenza di un normale pattern di linfociti intraepiteliali (IEL), ovvero
presenza di più linfociti alla base rispetto all’apice del villo ed in
numero inferiore a per enterociti.
Cripte di normale profondità e con una sola mitosi in atto per cripta.
Presenza di un modesto infiltrato di eosinofili, plasmacellule, istiociti,
mastociti e linfociti nel terzo inferiore della lamina propria.
La biopsia condotta a livello colico, oltre a dovere possedere i requisiti
precedentemente elencati, deve essere condotta ad una adeguata distanza
dalla rima anale.
BIOPSIA E PAT I C A
Il persistere di alterazioni laboratoristiche degli enzimi di danno epatico, in
associazione alla presenza di manifestazioni cliniche evidenti o nel sospetto
di una forma di epatite croniche, rende ragione dell’esecuzione di una biopsia
epatica. Questo esame, a differenza delle epatiti acute, fornisce importanti
informazioni circa l'entità dell'infiammazione, della fibrosi e del grado di
evoluzione della patologia. Naturalmente la biopsia medica è una manovra
non esente da rischi e complicanze, la più comune delle quali è
l'emoperitoneo, che si verifica nell'1-2% dei casi, soprattutto in relazione a
pazienti cirrotici e che per questo motivo presentano alterazione della
coagulazione. Il prelievo di tessuto epatico avviene tramite agobiopsia
percutanea con ago tranciante, la quale permette di ottenere un frustolo di
tessuto rappresentativo del tessuto e dell'intero spettro di lesioni che
coinvolgono il parenchima epatico. In corso di epatiti croniche difatti le
lesioni presentano risultano diffuse in tutto il parenchima. Una biopsia
epatica è adeguata quando (1) è rappresentativa del tessuto. Ciò richiede il
prelievo del materiale bioptico all'interno del parenchima epatico e non
appena al di sotto della capsula di Glisson, presentado il tessuto in questa
sede della alterazioni fisiologiche simil-cirrotiche che potrebbe costituire un
elemento confondente nell'iterpretazione dell'esame istologico. (2) contiene
almeno dagli 8 ai 10 spazi portali. Le sezioni istologiche provenienti da
biopsie epatiche devono essere di conseguenza colorate attraverso colorazioni
standard differenti per valutare aspetti diversi del tessuto:
L’ematossilina ed eosina, la tricromica di Masson e di Mallory
permettono di valutare l’organizzazione tessutale, l’architettura del
lobulo, lo spazio portale ed eventuali aree di fibrosi.
L’impregnazione argentina evidenzia le fibre reticolari argirofile sulle
quali giacciono gli epatociti, fondamentale per discriminare il tessuto
normale da quello epatitico in fase di rigenerazione, cirrotico e
neoplastico.
La colorazione di Perls (blu di Prussia) evidenzia la presenza del ferro.
La colorazione PAS diastasi, dopo digestione del glicogeno (del quel il
fegato è estremamente ricco), evidenzia i mucopolisaccaridi.
L'uso della biopsia epatica è aumentato progressivamente nel corso degli anni
soprattutto in relazione a diversi scopi: (1) confermare la diagnosi clinica, (2)
determinare il grado grado e la severità delle lesioni infiammatorie e
necrotiche e l'estensione della fibrosi, (3) valutare l'eventuale presenza di
altre patologie concomitanti e (4) fornire suggerimenti circa il miglior
approccio terapeutico. A questo scopo, nel corso degli anni, sono stati
proposti dei sistemi di valutazione semiquantitativi che permettono di
definire, attraverso degli indici numerici, il grado di attività istologica (in
inglese HAI, Histology Activity Index). Principalmente si valuta il grado di
attività necro-infiammatoria e la loro localizzazione e lo stadio della fibrosi in
relazione alla sua entità ed estensione. Un sistema di classificazione
semiquantitativo deve essere di facile utilizzo, facilmente riproducibili e ben
correlato con gli aspetti clinici. L'indice di Knodell è stato il primo sistema
ideato a questo proposito e si basa sull'assegnare dei punteggi separati
all'attività necro-infiammatoria e alla fibrosi, dalla somma di grado e stadio
deriva il punteggio finale. L'indice di Knodell è alquanto complesso e valuta
in maniera molto accurata le lesioni necro-infiammatorie ma non altrettanto
la fibrosi, difatti raggruppa assieme la fibrosi porto-portale e porto-centrale
che tuttavia si associano a due significati clinici molto differenti. L'indice di
Ishak valuta il grado di attività necro-infiammatoria e, in maniera più
accurata rispetto all'indice di Knodell, lo stadio di fibrosi con le relative
alterazioni dell'architettura del parenchima epatico. Dalla comparazione dei
due score ottenuti si elabora la migliore strategia terapeutica per il paziente.
Un altro aspetto che può essere valutato nella biopsia epatica riguarda il
grado di steatosi. Secondo i criteri di Brunt, la steatosi epatica è definita di
grado 1 quando meno del 33% del parenchima epatico biopsiato è steatosico;
di grado 2 quando dal 33% al 66% del parenchima epatico è steatosico; di
grado 3 quando pù del 66% del parenchima epatico è steatosico.
ESAME I N T R A O P E R ATO R I O
L’esame intraoperatorio è una procedura diagnostica di anatomia patologica
utilizzabile particolarmente sfrutta nell’ambito della chirurgia. Durante
l’esecuzione di un intervento, è possibile ad esempio che il chirurgo richieda
una consulenza circa la natura di eventuali lesioni o lo stato dei margini della
lesione. In tal caso non è possibile seguire le canoniche procedure di
preparazione del campione istologico, in quanto l’esito della consulenza deve
giungere in tempi rapidi. Per questo motivo, il materiale biopsiato giunge a
fresco in laboratorio, viene incluso in un criopreservante (OTC) e congelato a
secco in un criostato, dove verrà successivamente sezionato. Le sezioni
ottenute vengono colorate in l’ematossilina-eosina o la Giemsa. L’esame
intraoperatorio non fornisce una diagnosi completa circa la natura della
lesione bensì risulta estremamente utile per rispondere a quesiti semplici,
circa la malignità o benignità di una neoplasia, lo stato dei margini, la
presenza od assenza di metastasi. Le sezioni ottenute da campioni congelati e
tagliati al criostato presentano una distorsione della morfologia cellulare ed
una alterazione dell’organizzazione strutturale, risultando meno affidabili e
precisi rispetto ad un vetrino ottenuto da un campione fissato in formalina ed
incluso in paraffina.
BIOPSIA INCISIONALE ED ESCISSIONALE
Biopsia incisionale ed escissionale sono tecniche bioptiche chirurgiche
particolarmente sfruttate nel campo della dermatologia. La biopsia incisionale
consiste nell’asportazione di parte di una lesione che non può essere
completamente escissa perché interessa strutture circostanti di vitale
importanza (es. grossi vasi). La biopsia escissionale consiste invece
nell’asportazione dell’intera lesione e di parte dei tessuti normali che la
delimitano.
TECNICA CHIRURGICA DI MOHS
La tecnica chirurgica di Mohs è una tecnica dermatologica per il
trattamento microscopio di tumori epiteliali della cute, in particolare
carcinomi basocellulari e spinocellulari. L’evoluzione di questi tipi tumorali è
subdola e lenta e spesso non è possibile stabilire con esattezza la profondità e
l’estensione della lesione. Una tecnica chirurgica convenzionale tenderebbe
ad includere nell’escissione della lesione una maggiore quantità di tessuto
sano, nel tentativo di massimizzare l’efficacia e la certezza dell’intervento. La
tecnica chirurgica micrografica di Mohs invece permette di asportare in
maniera completa la lesione senza dovere contestualmente rimuove una
eccessiva quantità di tessuto sano, grazie al fine controllo microscopico dei
margini e del fondo del campione di pelle asportato in sede intraoperatoria.
Tale tecnica viene adoperata soprattutto nel contesto di lesioni che insorgono
in punti difficilmente accessibili dall’operatore, quali viso, orecchie, naso e
campi interni dell’occhio.
I NDAGINE ISTOLOGICA
L’indagine istologica consiste nell’analisi tramite microscopio ottico di
sottilissime sezioni di tessuto ottenute da materiale di dimensioni maggiori
appositamente processato. Il materiale che giunge al laboratorio può essere
un pezzo operatorio o una biopsia, la differenza è in realtà abbastanza
sfumata e si basa più che altro sulle dimensioni: il pezzo operatorio presenta
dimensioni elevate (es. una porzione di colon come esito di colectomia)
mentre la biopsia dimensioni ridotte (es. una microbiopsia Tru-Cut che
corrisponde ad un frustolo di tessuto di pochi mm di diametro). Sia la biopsia
che il pezzo operatorio possono giungere al laboratorio fissati oppure a
fresco, questo aspetto è fondamentale in quanto ogni metodica richiede un
trattamento differente del campione: ad esempio l’indagine istologica
tradizionale richiede una fase di fissazione ed il campione di conseguenza
può giungere già fissato; mentre in immunofluorescenza la fase di fissazione
è assente ed il campione deve necessariamente giungere a fresco. Il materiale
bioptico presenta in genere già dimensioni adeguate per essere incluso in
paraffina e tagliato al microtomo, mentre il pezzo operatorio, dopo
un’accurata descrizione macroscopica, deve essere campionato. Il
campionamento consiste nella selezione di diverse macro-aree di interesse e
nella loro riduzione in campioni di dimensioni inferiori ed adeguate per
l’inclusione in paraffina ed il taglio al microtomo, inoltre la parte eccedente
di tessuto può essere conservata come riserva.
La fissazione è il primo passaggio nell’allestimento di un vetrino tradizionale
e serve a preservare la struttura del campione. Il materiale viene sottoposto ad
un trattamento chimico o fisico che blocca i processi metabolici in atto. In
questo maniera (1) si previene la degradazione cellulare e tissutale ad opera
di enzimi litici, (2) si denaturano e si rendono insolubili le proteine e gli altri
costituenti cellulari e tissutali, in maniera tale da preservare la struttura e la
morfologia del tessuto, ed (3) infine si uccidono gli eventuali microrganismi
presenti che potrebbero aggredire e degradare il tessuto. Il fissativo più
comunemente utilizzato è la formalina, solitamente al %, che reagisce con i
gruppi amminici delle proteine formando dei ponti crociati, senza tuttavia
alterare significativamente la struttura tridimensionale delle proteine e la loro
antigenicità.
Il secondo passaggio è l’inclusione del campione in paraffina per permettere
il taglio di sezioni di circa micron. Il campione viene inizialmente
sottoposto ad una fase di lavaggio e di disidratazione con alcol in fasi
crescenti fino a giungere al %. La disidratazione del campione è
fondamentale in quanto la paraffina non è solubile in acqua. Successivamente
il campione viene chiarificato (fase di chiarificazione) in una soluzione di
solventi organici (ad esempio xilolo o toluolo) che prendono il posto
dell’alcol e costituiscono buoni solventi per la paraffina. Infine vi è la fase di
inclusione vera e propria, che si articola in una prima fase di infiltrazione,
durante la quale il campione viene immerso nel mezzo d’inclusione allo stato
liquido per un periodo tale da consentire la penetrazione del mezzo nella
globalità del tessuto, ed in una fase di indurimento, che permette di includere
fisicamente il campione in un materiale omogeneo e sufficientemente solido
da poter essere tagliato in finissime sezioni per mezzo del microtomo.
Il terzo ed ultimo passaggio consiste nella colorazione del campione, in
quanto le sezioni tagliate al microtomo sono così piccole da risultare
praticamente trasparenti. Le tecniche di colorazione si basano su interazioni
elettrostatiche tra coloranti e costituenti cellulari. Tra i coloranti classici, si
annoverano quelli basici (ad esempio l’ematossilina), utilizzati per rendere
evidenti le strutture acide; e quelli acidi (ad esempio l’eosina), utilizzati per le
strutture basiche. L’acido periodico di Shiff (PAS) reagisce con i
mucopolisaccaridi (e può risultare molto utile nell’evidenziare le ife di
Aspergillus). Le fibre elastiche vengono colorate con orceina e resorcina-
fucsina. La colorazione di Ziehl-Neelsen viene utilizzata per i micobatteri
mentre la colorazione di Fontana-Tribondeau può essere utilizzata per la
visualizzazione delle spirochete (ad esempio il Treponema Pallidum).
Nella pratica clinica può essere talora necessario compiere una valutazione in
tempi relativamente brevi a partire dall’osservazione istologica di un
campione, soprattutto nel contesto della chirurgia (si veda Esame
intraoperatorio). Un esame intraoperatorio ad esempio può essere richiesto
per pazienti operati che non presentano una diagnosi pre-operatoria, nel
riscontro accidentale di lesioni inaspettate, nella valutazione dei margini di
resezione del pezzo operatorio (che devono essere indenni da lesioni
patologiche). Nell’esecuzione di un esame intra-operatorio il tempo a
disposizione del patologo è limitato ed insufficiente per l’allestimento di un
vetrino istologico tradizionale. Di conseguenza si rende necessaria la
preparazione di vetrini istologici a partire da materiale congelato. Il campione
viene inviato al laboratorio a fresco dove viene incluso in un criopreservante
(OTC) e congelato a secco, in maniera da risultare sufficientemente rigido per
essere tagliato. Una volta irrigiditosi viene tagliato al criostato,
sostanzialmente un microtomo posto all’interno di una camera refrigerante,
ed infine colorato per essere visibile al microscopio ottico.
I NDAGINE CITOLOGICA
In generale con il termine indagine citologica si intende l’osservazione al
microscopio ottico di cellule prelevate da determinati punti del nostro
organismo. Attualmente le indagini citologiche occupano un posto di rilievo
nello screening generale della popolazione, nella diagnostica e nel follow-up
dei pazienti.
C I TO L O G I A E S F O L I AT I VA
La citologia esfoliativa consiste nella raccolta degli elementi cellulari che
esfoliano spontaneamente in cavità preformate (citologia esfoliativa diretta) o
che derivano dallo spazzolamento meccanico (brushing) della superficie
dell’organo (citologia esfoliativa indiretta).
I campioni devono essere rappresentativi del tessuto e perciò comprendere i
diversi tipi cellulari.
CITOLOGIA ESFOLIATIVA DIRETTA
La citologia esfoliativa diretta riguarda l’analisi citologica di urine, dei liquidi
raccolti in cavità sierose (pleurico, pericardico e peritoneale), dell’escreato e
del liquor.
L’esame citologico delle urine viene generalmente indicato in presenza di
ematuria sospetta e mira all’individuazione di cellule neoplastiche nei
campioni urinari. Per l’esame vengono raccolti in barattoli sterili almeno 3
campioni delle seconde urine del mattino, prelevate in giorni alterni per via
dei tempi di esfoliazione dell’epitelio di transizione. La componente cellulare
all’interno delle urine risulta estremamente diluita e di conseguenza deve
essere processata in maniera tale da concentrare le cellule. Le urine vengono
travasate in una Falcol e poste in una centrifuga per 10 minuti a 2000 rpm,
dopodiché si elimina il surnatante ad eccezione di 5 mL e si centrifuga
nuovamente per 10 minuti a 1500 rpm. Il materiale viene raccolto su un
vetrino tramite degli appositi distributori e l’eccesso viene eliminato. Le
cellule depositate sul vetrino vengono fissate per mezzo di un citospray e
colorate in ematossilina ed eosina. In caso di esito positivo viene effettuata
una cistoscopia con biopsia perché il sospetto citologico deve essere
confermato da un’indagine istologica.
L’esame citologico dell’espettorato è alquanto peculiare in quanto, pur
trattandosi di cellule esfoliate, viene processato tramite metodiche istologiche
(fissato, incluso e colorato). Si raccolgono 3 campioni consecutivi al mattino
e a digiuno. Il materiale viene quindi fissato in formalina, incluso in paraffina
e sezionato al microtomo.
L’analisi del liquor viene condotta soprattutto nel sospetto di lesioni che si
localizzano a livello delle meningi o di leucemie linfoidi.
CITOLOGIA ESFOLIATIVA INDIRETTA
La citologia esfoliativa indiretta consiste nell’esfoliazione meccanica degli
strati epiteliali più superficiali tramite spazzolamento e scraping. Questa
tecnica viene utilizzata ad esempio per il PAP test e per l’analisi delle cellule
delle vie biliari.
C I TO L O G I A A G O A S P I R AT I VA
La citologia agoaspirativa o fine needle aspiration biopsy (FNAB) consiste
nel prelievo di cellule direttamente dalla lesione o dal tessuto lesionato, con o
senza guida strumentale. La procedura richiede l’utilizzo di un ago sottile (di
circa 22-23 Gauge) e può essere utilizzata per ottenere campioni di cellule
provenienti da linfonodi superficiali e profondi, mammella, ghiandole
salivari, tiroide, milza, reni, polmone, pancreas e fegato. Il materiale
prelevato viene strisciato su un vetrino, fissato con un citospray e colorato
(Giemsa, Papanicolau o ematossilina-eosina).
Nel contesto del carcinoma della mammella, il patologo classifica il grado di
sospetto citologico in cinque possibili classi:
C1 quadro citologico non sufficiente per definire la diagnosi.
C2 quadro citologico normale.
C3 quadro citologico dubbio, verosimilmente benigno.
C4 quadro citologico dubbio, verosimilmente maligno.
C5 quadro citologico sicuramente maligno.
Nel contesto del carcinoma della tiroide, il patologo classifica il grado di
sospetto citologico secondo la classificazione THY in:
THY1 quadro citologico non diagnostico per prelievo inadeguato.
THY1C quadro citologico non diagnostico per prelievo inadeguato
proveniente da lesione cistica.
THY2 quadro citologico benigno da patologie non neoplastiche (es.
morbo di Basedow ed altre tiroiditi).
THY3 quadro citologico indeterminato che può ulteriormente
sottoclassificato in THY3A (atipie) e THY3F (neoplasia follicolare).
THY4 quadro citologico verosimilmente ascrivibile a lesione maligna.
THY5 quadro citologico di malignità certa.
In relazione all’esame citologico bisogna sottolineare che nei casi dubbi,
come nel THY3, la conferma diagnostica e la diagnosi differenziale tra
adenoma ed adenocarcinoma arriva dall’esame istologico che deve indagare
aspetti quali l’infiltrazione vascolare e della capsula. La malignità certa del
THY5 si evidenzia sulla base di caratteristiche ben definita (es. carcinoma
papillare, metastasi da carcinoma a cellula chiare del rene o linfoma).
C OLORAZIONI
COLORAZIONI I S TO L O G I C H E
Le colorazioni istologiche sono colorazioni istomorfologiche che vengono
utilizzate per rendere più evidenti certe componenti del tessuto analizzato,
dunque permettono di visualizzare la struttura del tessuto, le sue componenti
e la morfologia cellulare.
EMATOSSILINA ED EOSINA
L’ematossilina-eosina (EE) è una colorazione bicromica che utilizza
l’ematossilina, un colorante basico, per colorare in viola/nerastro le
componenti acidi (nucleo, ribosomi, secrezioni acide) e l’eosina, un colorante
acido, per colorare in rosa il citoplasma e le componenti della matrice dei
tessuti basici (muscolare, connettivo ed osseo).

Figura 1, tessuto muscolare scheletrico colorato in ematossilina ed eosina (EE). Per gentile
concessione di Rollroboter (CC BY-SA 3.0).

TRICROMICA DI MASSON
La tricromica di Masson è una colorazione tricromica che utilizza
l’ematossilina, un colorante basico, per colorare i nuclei cellulari in
viola/nerastro; la fucsina, un colorante acido, per colorare il citoplasma in
rosso ed il blu di anilina, un colorante basico, per colorare in azzurro le fibre
collagene ed il muco.
Figura 2, cute di ratto colorato in tricromica di Masson. In rosso si apprezzano le fibre muscolare ed
in blu il tessuto connettivo. Per gentile concessione di Jhsteel (CC BY-SA 4.0).

TRICROMICA DI MALLORY
La tricromica di Mallory è una colorazione tricromica che utilizza la fucsina
per colorare i nuclei cellulari in rosso; l’orange G per colorare in arancione il
citoplasma ed il blu di anilina o metilene per colorare in azzurro le fibre
collagene.
IMPREGNAZIONE ARGENTICA
L’impregnazione argentica (o metodo di Golgi) è una colorazione che
permette di visualizzare le cellule del tessuto nervoso, in quanto i neuroni ed i
suoi organuli si colorano in nero.

Figura 4, sezione di ippocampo umano colorato con impregnazione argentica (metodo di Golgi). Per
gentile concessione di MethoxyRoxy (CC BY-SA 2.5).

ORCEINA
L’orceina viene utilizzata per colorare in rosso-brunastro le fibre elastiche.
COLORAZIONI I S TO C H I M I C H E
Le colorazioni istochimiche sono colorazioni che forniscono informazioni
non tanto di carattere istomorfologico bensì sulla natura delle sostanze
chimiche, organiche ed inorganiche, delle componenti tissutali.
REAZIONE PAS
La reazione PAS (acido periodico-reattivo di Schiff) è una reazione
istochimica che viene utilizzata per evidenziare la presenza di mucine neutre
in epiteli secernenti e ghiandole endocrine. L’acido periodico attacca
selettivamente il gruppo amminico primario o quello ossidrilico, liberando un
gruppo aldeidico che viene rilevato dal reattivo di Schiff.

Figura 6, cellule caliciformi contenenti mucine neutre colorate in PAS. Per gentile concessione di
CoRus13 (CC BY-SA 4.0).

ALCIAN BLU
L’ Alcian Blu è un colorante carico positivamente ed utilizzato per colorare
le mucine acide tipiche di alcuni tessuti, quali la cartilagine.

Figura 7, sezione di esofago di Barrett (una metaplasia esofagea) colorata in Alcian Blu. Si notino le
cellule mucipare ricche di mucine acide colorante in azzurro.

I M M U N O I S TO C H I M I C A
Con il termine immunoistochimica si intende una tecnica in grado di rivelare
la presenza di specifiche molecole o strutture nel compartimento intra ed
extracellulare. L’immunoistochimica si basa sul legame tra antigene ed
anticorpo, addizionato a sistemi di rivelazione (enzimatici), diretti ed
indiretti, che evidenziano l’avvenuta coniugazione. In genere si utilizzano
anticorpi primari o secondari coniugati ad un enzima catalizzatore,
solitamente una perossidasi che reagisce con un substrato (DAB, FAST-RED
TR, cromogeno) determinando la formazione di un precipitato insolubile
visibile in microscopia ottica L’antigene è generalmente una molecole di
natura amminoacidica (proteina semplice o complessa) e rappresenta il
bersaglio specifico mentre l’anticorpo, mono o policlonale, viene utilizzato
come sonda rivelatrice. Un aspetto particolare dell’immunoenzimatica
riguarda la procedura di preparazione, la formalina utilizzata come fissante
tende a denaturare le proteine, determinando la formazione di ponti metilenici
che alterano i profili dei determinanti antigenici, potendo difatti rendere il sito
di legame dell’anticorpo refrattario al determinante antigenico, e di
conseguenza risulta fondamentale trattare chimicamente il campione in
maniera tale da rompere tali ponti. Un altro aspetto da considerare riguarda
l’utilizzo delle perossidasi come enzima catalizzatore, a livello cellulare sono
presenti già perossidasi endogene che devono essere inibite (in genere
attraverso saturazione con perossido di idrogeno) in maniera tale da non
inficiare il risultato dell’azione delle perossidasi esogene coniugate
all’anticorpo.
IMMUNOISTOCHIMICA DIRETTA
Nell’immunoistochimica diretta si utilizza un anticorpo specifico legato alla
perossidasi che lega selettivamente l’antigene tissutale, permettendo
successivamente la rivelazione mediante l’utilizzo di un substrato
cromogeno. E’ una tecnica veloce e dall’elevata specificità, tuttavia richiede
che ogni singolo anticorpo specifico per un determinato antigene sia
coniugato all’enzima catalizzatore.
IMMUNOISTOCHIMICA INDIRETTA
Nell’immunoistochimica indiretta si utilizza un anticorpo primario che
viene fatto reagire con l’antigene tissutale e che costituisce a sua volta il
determinante antigenico per un anticorpo secondario legato ad un enzima
catalizzatore. L’anticorpo secondario (talvolta si possono utilizzare anche dei
terziari) legare la regione costante (Fc) dell’anticorpo primario, rivelandone
la presenza. E’ una tecnica più versatile rispetto all’immunoistochimica
diretta in quanto è possibile utilizzare uno stesso anticorpo secondario per più
anticorpi primari di una stessa specie.
DIFFERENZE TRA IL METODO DIRETTO ED INDIRETTO
Nella tecnica diretta il legame specifico tra antigene tissutale ed anticorpo è
in rapporto di 1 ad 1, per cui la quantità di substrato colorato prodotto sarà
proporzionale alla quantità di antigene tissutali (considerando in eccesso
l’anticorpo). Nella tecnica indiretta il rapporto tra antigene tissutale ed
anticorpo primario e secondario è variabile, in quanto un anticorpo primario
può essere legato da più anticorpi secondari grazie a sistemi di amplificazione
del segnale (biotina-avidina, polimeri e PAP). Ciò naturalmente ha il
vantaggio di rendere più evidente l’avvenuta reazione.

Figura 8, immunoistochimica/fluorescenza diretta ed indiretta. Nella diretta l'anticorpo primario è


coniugato direttamente al sistema rivelatore; nella diretta l’anticorpo primario viene legato da più
anticorpi secondari ognuno dei quali coniugato al sistema di rivelazione. Per gentile concessione di
Westhayl618 (CC BY-SA 4.0).

L’immunoistochimica presenta diverse applicazioni: immunofenotipizzazione


di una cellula a seconda del marker utilizzato (citocheratine per le cellule
epiteliali, vimentina per le mesenchimali e GFAP per le gliali);
differenziazione linfocitaria, citotipi funzionali nel contesto di uno stesso
tessuto, anomalie di espressione proteica da alterazione genica, marcatori
prognostici o di risposta alle terapia (recettori ormonali, presenza od assenza
di determinati oncogeni), ricerca di antigeni virali.
IMMUNOFLUORESCENZA
L’immunofluorescenza è una tecnica, dal punto di vista concettuale simile
all’immunoistochimica, fondata sulla specificità di legame tra antigene ed
anticorpo. Come per l’immunoistochimica, anche nell’immunofluorescenza
esiste un sistema rivelatore, che consiste nell’utilizzo di anticorpi marcati con
specifici fluorocromi, ovvero sostanze in grado di emettere radiazioni
elettromagnetiche nello spettro del visibile quando eccitate da radiazioni
ultraviolette. Essa viene utilizzata soprattutto nel contesto della diagnostica di
patologie renali e cutanee ed esattamente come l’immunoistochimica esiste
una tecnica diretta ed indiretta.
I S TO E N Z I M AT I C A
L’istoenzimatica è una metodica utilizzata per identificare e localizzare le
attività enzimatiche in una cellula o in tessuto. La fissazione dei campioni
determina il venire meno dell’attività enzimatica e di conseguenza non viene
effettuata. I campioni bioptici prelevati vengono di conseguenza inviati a
fresco, congelati a secco e conservati a circa C per essere
successivamente tagliati al criostato. Questa tecnica permette di identificare
un enzima in maniera indiretta, basandosi sul prodotto della reazione
catalizzata dall’enzima attraverso l’utilizzo dei cosiddetti reagenti di cattura
(coloranti o metalli pesanti) che fissano il prodotto di reazione nel punto in
cui esso si ferma, impedendone la propagazione nel resto del tessuto.
A LT R E TECNICHE
CITOFLUORIMETRIA
La citofluorimetria è una tecnica che permette di caratterizzare
automaticamente, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, una
sospensione cellulare, a seconda di determinati parametrici fisici o della
presenza di particolari pattern molecolari. Essa può essere utilizzata sia per
l’analisi di cellule che si trovano direttamente in sospensione (sangue,
midollo, liquor ed urine) sia di quelle tissutali, previa disgregazione
meccanica od enzimatica e successiva sospensione delle cellule. L’analisi
basata su parametrici fisici permette di discriminare una popolazione
cellulare sulla base di criteri morfologici (dimensioni, presenza di granuli) in
sottopopolazioni (come eritrociti, granulociti e linfociti); l’utilizzo di
biomarcatori ed anticorpi marcati con fluorocromi permette un’analisi più
fine che può discriminare ad esempio una popolazione linfocitaria in linfociti
T, B, T-reg, citotossici.
CITOGENETICA E FISH
La citogenetica è una branca della genetica che permette di studiare il
patrimonio cromosomico (cariotipo) di popolazioni cellulari allo scopo di
identificare anomalie che possono sottendere quadri patologici (leucemie,
linfomi, tumori) e nella diagnostica prenatale. L’ibridazione fluorescente in
situ (FISH) è una tecnica citogenetica che può essere utilizzata per
identificare la presenza o l’assenza di particolari sequenze di acido nucleico
in cellule in interfase. La FISH si basa sulla complementarietà di due
molecole di acido nucleico e sulla loro selettività di legame, essa sfrutta la
presenza di sonde nucleotidiche marcate con fluorocromi che si legano
selettivamente all’acido nucleico d’interesse, rivelandone la presenza o
l’eventuale assenza. La FISH può essere utilizzata per ricercare la presenza di
genoma virale, l’analisi di oncogeni, anomalie nel numero dei cromosomi
(aneuploidie, delezione del cromosoma X od Y), aberrazioni cromosomiche
(traslocazioni, delezioni, duplicazioni) ed alterazioni nell’espressione di
determinati geni da parte di cellule neoplastiche. La procedura di basa su:
1. Progettazione della sonda e marcatura con fluorocromi.
2. Denaturazione del DNA e della sonda per permetterne il successivo
appaiamento.
3. Esposizione del DNA alla sonda in eccesso e loro ibridazione.
4. Lavaggio della quota di sonda in eccesso.
5. Esaminazione dei preparati in microscopia a fluorescenza.
La sonde utilizzate vengono progettate sulla base della presenza di
determinate sequenze nucleotidiche nella regione cromosomica oggetto dello
studio: sonde telomero e centromero specifiche si basano sull’utilizzo di
sonde complementari a sequenze ripetute presenti nelle suddette regioni
cromosomiche; sonde cromosoma specifiche si basano sull’utilizzo di sonde
complementari all’intera sequenza di DNA che costituisce il cromosoma;
sonde locus specifiche si basano sull’utilizzo di sonde complementari a
determinati loci genetici.
L’UroVysion è un particolare kit di ibridazione in situ utilizzato per la
diagnostica dei carcinomi transizionali della vescica e di colangiocarcinoma.
Si compone di tre sonde centromeriche, una nello spettro del rosso per il
cromosoma 3, una in quello del verde per il cromosoma 7 ed una azzurrina
per il cromosoma 17. In aggiunta si utilizza una sonda locus specifica nello
spettro del giallo per il gene che codifica per la proteina p16 localizzate in
corrispondenza della locus 9p21. La proteina p16 è un oncosoppressore e di
conseguenza la sua funzione viene meno nel momento in cui entrambi gli
alleli risultano deleti o mutati con perdita di funzione. Le sonde
centromeriche permettono di identificare il numero di cromosomi e di
conseguenza visualizzare eventuali aneuploidie, mentre il mancato segnale
proveniente dalla sonda locus specifica evidenzia la presenza di una
delezione genica a carico di entrambi gli alleli. Una cellula somatica non
neoplastica presenta due segnali per ogni tipo di sonda, ad evidenziare la
presenza di due cromosomi e di due locus 9p21. Una cellula neoplastica
presenterà un numero di segnali centromerici superiore a due per lo specifico
tipo di sonde in relazione ai cromosomi interessati ed eventualmente nessun
segnale per la sonda locus specifica 9p21 in presenza di co-delezione. Si
ritiene positivo il test quando sono presenti almeno 5 cellule con due
cromosomi non diploidi oppure almeno 12 cellule con co-delezione del locus
9p21. La perdita in omozigosi di p16 si associa ad invasività del carcinoma
transizionale della vescica. L'analisi deve essere condotta su almeno 25
cellule morfologicamente anormali, ovvero che alla contro colorazione
presentino atipie nucleari evidenti (es. addensamento della cromatina). Inoltre
le cellule non devono essere sovrapposte ed in metafase, in quanto questa
fase del ciclo cellulare si associa ad alterazioni del numero dei cromosomi.
Un'analisi così condotta permette una valutazione sia di carattere citogenetica
che morfologico.
AMPLIFICAZIONE ENZIMATICA DEL DNA CON LA PCR
La reazione a catena della polimerasi (PCR) è una tecnica utilizzata per
amplificare uno specifico frammento di DNA sfruttando enzimi adibiti alla
sua duplicazione. La procedura prevede l’utilizzo di una certa quantità di
DNA polimerasi termostabile, la Taq polimerasi, in soluzione con il DNA da
amplificare, i quattro desossiribonucleotidi e due oligonucleotidi
complementari all’estremità ’ in eccesso e con funzione di primer. La DNA
polimerasi necessita difatti di un innesco, costituito dai due oligonucleotidi,
affinché possa esplicare la sua funzione polimerasica. La soluzione con tutti
gli elementi viene ( ) riscaldata alla temperatura di °C di modo da
determinare la dissociazione dei due filamenti di DNA da amplificare; ( )
raffreddata alla temperatura di °C per permettere l’appaiamento del singolo
filamento di DNA con il primer all’estremità ’; ( ) riscaldata alla
temperatura di °C per permettere alla Taq polimerasi di aggiungere
nucleotidi a partire dall’estremità ’. Tutto questo processo è completamente
automatizzato e si articola su più fasi di modo che la quantità di DNA
amplificato raddoppi ad ogni ciclo (ad esempio con frammenti di DNA si
otterranno al ciclo successivo un totale di molecole di DNA amplificato).
S TADIAZIONE E GRADO DI UN TUMORE
Lo stadio ed il grado di un tumore sono due concetti differenti che valutano
entrambi aspetti molto importanti di una neoplasia. La stadiazione è una
descrizione del tumore in relazione all’estensione (nei suoi diversi aspetti)
della neoplasia nel corpo, mentre il grado di un tumore (o grading) è una
valutazione di quanto le cellule tumorali differiscono in aspetto ed
organizzazione rispetto alla controparte sana. La stadiazione fornisce
informazioni circa le dimensioni della lesione primitiva e l’eventuale
diffusione nell’organismo, da ciò dipende la prognosi ed il tipo di trattamento
più adeguato. Ad esempio un tumore localizzato e di piccole dimensioni può
essere trattato localmente con la chirurgia o con la radioterapia, mentre la
diffusione in altre sedi richiede trattamenti sistemici. Il grado di un tumore
fornisce invece informazioni circa il comportamento e la natura della
neoplasia, quanto più è elevato il grado tanto più le cellule neoplastiche
risultano aberranti e tendono a proliferare e disseminare più velocemente.
GRADO DI UN TUMORE
Il grado di un tumore consiste in una descrizione del tumore basato su quanto
le cellule neoplastiche ed il tessuto tumorale si discostano dalla controparte
sana all’esame microscopico. La conoscenza di queste informazioni è
estremamente utile in quanto fornisce indicazioni circa il comportamento
della neoplasia, la sua velocità di crescita e l’eventuale infiltrazione dei
tessuti circostanti. I tumori con cellule neoplastiche ed organizzazione
tissutale simili alla controparte normale vengono definiti “ben differenziati”.
Essi crescono e disseminano più lentamente rispetto ai tumori
“indifferenziati” o “scarsamente differenziati”, i quali presentano cellule
abnormi e risultano privi di una normale organizzazione tissutale.
Il grado di un tumore viene attribuito dal patologo in seguito ad analisi della
biopsia tumorale. Il sistema di grading può differire a seconda del tipo di
tumore, in quanto alcune neoplasie, come il carcinoma della mammella e
della prostata, ne possiedono uno specifico. In generale, se non è specificato
il sistema di grading, i tumori sono classificati con un grado che va da 1 a 4, a
seconda delle caratteristiche precedentemente descritte. I tumori di grado 1
sono “ben differenziati” e si caratterizzano per la presenza di cellule
neoplastiche e di una organizzazione tissutale molto simili alla controparte
normale. Le cellule replicano e disseminano molto lentamente. I tumori di
grado 3 e 4 sono rispettivamente “scarsamente differenziati” ed
“indifferenziati” e si caratterizzano per la presenza di cellule e di una
organizzazione tissutale anormali rispetto alla controparte normale. Le cellule
tendono a proliferare e a disseminare molto più rapidamente rispetto ai
tumori di basso grado. Si veda la Tabella 2 per tutti i gradi e le relative
descrizioni.
S TA D I O DI UN TUMORE
Lo stadio di un tumore descrive l’entità della neoplasia in relazione alle
dimensioni, all’interessamento di strutture adiacenti e l’eventuale
disseminazione a siti distanti. Una corretta stadiazione tumorale fornisce al
clinico informazioni prognostiche, terapeutiche e circa gli eventuali trial
clinici a cui il paziente potrebbe aderire. I sistemi di stadiazione presenti nella
pratica clinica sono diversi, alcuni specifici per determinate neoplasie ed altri,
come il sistema TNM, di più ampio utilizzo. In ogni caso, la stragrande
maggioranza dei sistemi di stadiazione includono informazioni circa (1) le
dimensioni del tumore, (2) tipo di cellule, (3) localizzazione del tumore, (4)
interessamento linfonodale, (5) presenza di metastasi e (6) grado del tumore.
Il sistema TNM della American Joint Commitee on Cancer (AJCC) è il
sistema di stadiazione più ampiamente utilizzato e deriva dall’acronimo
inglese Tumour, Node, Metastasis. Esso si basa su tre elementi chiave
fondamentali: dimensioni del tumore primitivo (T), interessamento
linfonodale (N) e presenza di metastasi (M). Le dimensione del tumore (T)
si riferiscono alla lesione primitiva e non alle sue eventuali metastasi. Alla
lettera T segue un numero che risulta tanto maggiore quanto più il tumore è
grande o quanto più si è accresciuto nei tessuti vicini. L’Interessamento di
linfonodi loco-regionali (N) si riferisce alla localizzazione e al numero dei
linfonodi interessati. Alla lettera N segue un numero che risulta tanto più
elevato quanti più linfonodi sono interessati. Le metastasi a distanza (M) si
riferiscono all’eventuale disseminazione della neoplasia in altre regioni del
corpo. Alla lettera M segue il numero 0, se il tumore non ha disseminato in
altre regioni del corpo, o il numero 1, se il tumore ha disseminato il altre parti
del corpo. Si veda la Tabella 3 per una descrizione più accurata delle diverse
voci.
AUTOPSIA AUTOPSIA CLINICA CHI PUO’
MEDICO- (RISCONTRO RICHIEDERE
LEGALE DIAGNOSTICO) UN’AUTOPSIA
Soggetti giunti Perinatale, feti o neonati di peso > 500 gr Un medico di reparto, per i
cadavere al DEA e sino a 7 giorni di vita extrauterina ricoverati
Morti violente Pediatriche (7 giorni – 15 anni) L’ASL nel sospetto di malattia
infettiva
Morti per causa Adulte Il medico curante per i soggetti
sconosciuta o sospetta deceduti in casa
Suicidi --- ---
Infortuni sul lavoro --- ---
Tabella 1, differenze tra autopsia medico-legale e clinica e soggetti che possono richiedere
l'esecuzione di una procedura autoptica.

Grado del tumore Grado di differenziazione


Gx Grado indeterminato
Grado 1 (G1) Ben differenziato (basso grado)
Grado 2 (G2) Moderatamente differenziato (grado
intermedio)
Grado 3 (G3) Scarsamente differenziato (alto grado)
Grado 4 (G4) Indifferenziato (alto grado)
Tabella 2, sistema di grading delle neoplasie.

Dimensioni del tumore primitivo (T)


Tx Il tumore primitivo non può essere misurato
T0 Non evidenza di tumore primitivo
Tis Carcinoma in situ (CIS), presenza di cellule maligne confinate
al sito in cui si sono primariamente formate. Il CIS può
evolvere a carcinoma ed invadere i tessuti adiacenti
T1, T2, In relazione alle dimensioni e all’estensione del tumore
T3, T4
Interessamento dei linfondi loco-regionali (N)
Nx Linfonodi loco-regionali non valutabili
N0 Linfonodi loco-regionali non interessati da cancro
N1, N2, Coinvolgimento dei linfonodi loco-regionali (in relazione al
N3 numero e alla localizzazione dei linfonodi interessati)
Metastasi a distanza (M)
Mx Le metastasi non possono essere valutate
M0 Assenza di metastasi
M1 Presenza di metastasi
Tabella 3, sistema di stadiazione TNM.
PATOLOGIE DEL TESSUTO OSSEO E DEI
TESSUTI MOLLI

INTRODUZIONE AI TUMORI DEI TESSUTI MOLLI E DEL TESSUTO OSSEO


TUMORI DEL TESSUTO ADIPOSO
LIPOMI
LIPOSARCOMI
Liposarcoma ben differenziato (grado 1)
Liposarcoma mixoide (grado 2)
Liposarcoma pleomorfo (grado 3)
Liposarcoma a cellule rotonde (grado 3)
TUMORI DEL TESSUTO FIBROSO
DERMATOFIBROSARCOMA PROTUBERANS
FIBROSARCOMA
TUMORE FIBROSO SOLITARIO EXTRAPLEURICO
TUMORE MIOFIBROBLASTICO INFIAMMATORIO
TUMORI DEL TESSUTO FIBROISTOCITARIO
ISTIOCITOMA FIBROSO MALIGNO (SARCOMA PLEOMORFO)
TUMORI DELLE GUAINE NERVOSE PERIFERICHE
SCHWANNOMA MALIGNO
SCHWANNOMA BENIGNO
TUMORI DEL TESSUTO MUSCOLARE LISCIO
LEIOMIOMA
LEIOMIOSARCOMA
TUMORI DEL TESSUTO MUSCOLARE SCHELETRICO
RABDOMIOSARCOMA
Rabdomiosarcoma embrionale
Rabdomiosarcoma alveolare
Rabdomiosarcoma pleomorfo
TUMORI DI INCERTA DIFFERENZIAZIONE
SARCOMA SINOVIALE
TUMORI DEL TESSUTO VASCOLARE
SARCOMA DI KAPOSI
Variante classica
Variante AIDS associata
ANGIOSARCOMA
TUMORI DEL TESSUTO OSSEO
TUMORI OSTEOGENICI
Osteoma osteoide e osteoblastoma
Osteosarcoma
TUMORI CONDROGENICI
Osteocondroma
Condroma
Condroblastoma
Condrosarcoma
ALTRI TUMORI DEL TESSUTO OSSEO
Tumore a cellule giganti
Sarcoma di Ewing /PNET
Linfoma primitivo dell’osso
Cordoma
MALATTIA METASTATICA
TUMORI DI NATURA NEOPLASTICA INDEFINITA
Osteoma
Istiocitosi a cellule di Langerhans
Cisti ossea solitaria
Cisti ossea aneurismatica
I NTRODUZIONE AI TUMORI DEI TESSUTI MOLLI E DEL
TESSUTO OSSEO
I tumori dei tessuti molli consistono in proliferazioni di cellule
mesenchimali che coinvolgono tessuti extrascheletrici e non epiteliali del
corpo (soprattutto a livello degli arti), con esclusione dei visceri, delle
meningi e del sistema linforeticolare. La classificazione di tali tumori si basa
sul tipo di tessuto che riproducono (adiposo, vascolare, nervoso, muscolare),
nonostante non si abbia la reale certezza circa la loro derivazione dalla
controparte normalmente differenziata. Difatti si ritiene che questi originino
in realtà da cellule mesenchimali indifferenziate multipotenti in grado di dare
origine a tutti i diversi tessuti di derivazione mesenchimale.
La reale frequenza dei tumori dei tessuti molli non è facilmente stimabile, in
quanto la maggior parte delle lesioni benigne non viene asportata. Negli Stati
Uniti l’incidenza annua si attesta attorno ai 9500 casi/anno e nonostante ciò le
lesioni maligne (sarcomi) risultano responsabili del di tutte le morti per
cancro, indice della loro letalità.
I tumori dei tessuti molli possono essere considerati, in linea teorica, come
lesioni a carattere maligno, in quanto non derivano quasi mai da alterazioni
della controparte normalmente differenziata, ad eccezione del tumore
maligno delle guaine nervose periferiche (MPNST) o schwannoma maligno.
Possono essere indotti da radiazioni, da carcinogeni chimici e dalla presenza
di corpi estranei. Sono note alterazioni genetiche che si mantengono anche in
corso di recidiva ma che risultano poco utili ai fini diagnostici, ad eccezione
di geni di fusione (dovuti a riarrangiamenti cromosomici) ricercabili tramite
FISH o PCR. Inoltre, a differenza dei carcinomi, i sarcomi tendono a
metastatizzare per via ematogena, in particolare a livello polmonare ed
osseo. I fattori prognostici riguardano le dimensioni, la sede (in superficie od
in profondità), la presenza di foci di cellule in mitosi, le caratteristiche dei
margini, il grado istologico e la stadiazione.
Il sistema di grading dei sarcomi comunemente utilizzato in Europa è il
grading della Federazione Francese dei Centri di Cancerologia (FNCLCC),
basato su differenziazione, mitosi e necrosi tumorale. Il sistema FNCLCC
prevede l’assegnazione di tre possibili gradi a seconda del punteggio totale
ottenuto dalla somma degli score dei singoli parametri, per cui risulta
necessario valutare ogni sezione istologica opportunamente. Nonostante ciò
sono presenti dei sarcomi che possiedono di per sé un grading precostituito
indipendentemente dal punteggio ottenibile sulla base dei parametri, ad
esempio l’osteosarcoma possiede sempre una grado di 3.
T UMORI DEL TESSUTO ADIPOSO
LIPOMI
I lipomi sono lesioni benigne del tessuto adiposo e rappresentano il più
frequente tumore dei tessuti molli dell’adulto. Si presentano
macroscopicamente come masse capsulate di dimensioni variabili e di colore
giallastro, costituite da adipociti maturi. In genere si sviluppano nel sottocute
dei segmenti prossimali degli arti e del tronco, sono non dolenti sebbene
possano dare origine a deformazioni importanti.
LIPOSARCOMI
I liposarcomi sono i più frequenti sarcomi dell’adulto, rappresentando
all’incirca il dei casi totali negli adulti con età anni. In genere si
sviluppano nei tessuti molli profondi degli arti e del retroperitoneo, potendo
raggiungere notevoli dimensioni. La sopravvivenza a anni è di circa del
in assenza di recidive ( per quelli ad alto grado; per quelli a basso
grado) e si abbassa al in presenza di metastasi. Tutti i tipi di liposarcomi
danno origine a recidive locali in assenza di un’adeguata terapia chirurgica, la
comparsa di recidive è un fattore prognostico negativo anche quando il
liposarcoma non è infiltrante ed in genere è questo tipo di evento a
determinare l’exitus.
A seconda delle caratteristiche morfologiche si distinguono diversi sottotipi
di liposarcoma. Ad eccezione del liposarcoma ben differenziato, che
assomiglia al lipoma ed è caratterizzato dalla presenza di cellule ben
differenziate (adipociti), gli altri tipi di liposarcoma sono caratterizzati dalla
presenza di cellule neoplastiche non differenziate note come lipoblasti.
LIPOSARCOMA BEN DIFFERENZIATO (GRADO 1)
Il liposarcoma ben differenziato è caratterizzato dalla presenza adipociti
ben differenziati, spesso le cellule neoplastiche presentano aberrazioni
cromosomiche. Dal punto di vista istologico assomiglia al lipoma.
LIPOSARCOMA MIXOIDE (GRADO 2)
Il liposarcoma mixoide presenta microscopicamente l’aspetto di un tessuto
mixoide, caratterizzato dalla presenza di una sostanza fondamentale ricca in
mucopolissacaridi con uno stroma ben vascolarizzato.
LIPOSARCOMA PLEOMORFO (GRADO 3)
Il liposarcoma pleomorfo può raggiungere dimensioni piuttosto elevate ed al
taglio presentare una colorazione nerastra. Dal punto di vista microscopico è
caratterizzato dalla presenza di lipoblasti con nuclei variabili, numerose
mitosi in atto e presenza di diffuse aree di necrosi. La variamente pleomorfa è
in genere aggressiva e metastatizza frequentemente.
LIPOSARCOMA A CELLULE ROTONDE (GRADO 3)
Il liposarcoma a cellule rotonde costituisce generalmente una variante
maggiormente aggressiva del liposarcoma mixoide, è caratterizzato da
lipoblasti con forti atipie e presenta un elevato rischio metastatico.

Figura 9, liposarcoma mixoide caratterizzato dalla presenza di alcune cellule ben differenziate
riconducibili ad adipociti e cellule meno differenziate (lipoblasti). Sono presenti anche capillari dalla
parete sottile ed arborizzata (a cosiddetto pattern chicken wire). Per gentile concessione di Humpath
(CC BY 2.0)
T UMORI DEL TESSUTO FIBROSO
D E R M ATO F I B R O S A R C O M A PROTUBERANS
Il dermatofibrosarcoma protuberans è un fibrosarcoma primitivo ben
differenziato che insorge nel contesto dei tessuti molli del derma cutaneo. E’
una lesione maligna a crescita lenta che molto raramente dà origine a
metastasi ma che può frequentemente dare origine a recidive. Per tale motivo
vengono utilizzate tecniche dermatologiche specifiche (tecnica chirurgica di
Mohs) che prevedano una stretta collaborazione tra la chirurgia
dermatologica e l’anatomia patologica. In genere si presenta
macroscopicamente come una lesione solida nodulare, aggregante e
“protuberante”. La neoplasia tende ad estendersi verso i tessuti profondi (dal
derma verso il tessuto adiposo sottocutaneo), assumendo un aspetto
caratteristico a nido d’ape. L’epidermide sovrastante è solitamente
assottigliata e la lesione può andare talvolta incontro ad ulcerazione. Dal
punto di vista istologico si caratterizza per la presenza di fibroblasti disposti
in maniera radiale (a ruota di carro). All’immunoistochimica è presente
positività per il CD34 che serve a confermare la diagnosi ma non è di per sé
sufficiente nel porla.

Figura 10, dermatofibrosarcoma protuberans, si noti la disposizione dei fibroblasti in maniera radiale,
aspetto definito a ruota di carro. Per gentile concessione di Nephron (CC BY-SA 3.0).

FIBROSARCOMA
Il fibrosarcoma è un tumore maligno raro che può insorgere a qualsiasi età
ed in qualsiasi distretto, sebbene tenda ad interessare soprattutto i tessuti
molli degli arti inferiori e del tronco. Sono tumori aggressivi che tendono a
recidivare in oltre il dei casi ed a metastatizzare (in particolare a livello
polmonare ed osseo) in oltre il dei casi. Secondo i dati epidemiologici, la
sopravvivenza a anni non supera il , evidenziandone la natura letale. In
generale sono lesioni ad alto grado (fibrosarcoma scarsamente differenziato)
sebbene esistano varianti meno aggressive (fibrosarcoma ben differenziato e
convenzionale).
I fibrosarcomi appaiono dal punto di vista macroscopico come masse ben
definite, lobulate, non capsulate, di colore grigiastro ed a margini
apparentemente netti ma in realtà infiltrativi. L’aspetto microscopico varia a
seconda del grado della lesione, i fibrosarcomi a basso grado presentano
fibroblasti a forma fusata disposti in maniera ordinata, a costituire un pattern
noto come “a spina di pesce”, mentre quelli a più alto grado presentano
cellule neoplastiche con maggiori atipie, pleomorfismo, numero foci mitotici
ed aree di necrosi.
TUMORE F I B R O S O S O L I TA R I O E X T R A P L E U R I C O
Il tumore fibroso solitario extrapleurico, un tempo noto come
“mesotelioma benigno” o “emoangiopericitoma”, è una lesione tipica della
pleura che può insorgere, con le stesse caratteristiche, anche a livello dei
tessuti molli. E’ una lesione di grado intermedio, al confine tra benigno e
maligno, che può recidivare ripetutamente (soprattutto in sede extrapleurica)
assumendo di volta in volta maggiore malignità. Per questo motivo è
necessario un intervento di rimozione radicale.
Il tumore fibroso solitario extrapleurico appare dal punto di vista
macroscopico come una massa di tessuto fibroso denso con occasionali ciste
riempite di liquido viscoso. Microscopicamente appare costituito da cellule
fusate simil-fibroblasti che si dispongono attorno ai vasi a formare dei
cuscinetti con un pattern vascolare definito a “corna di cervo”.
Figura 11, tumore fibroso solitario extrapleurico, si noti la presenza di cellule fusate simil-fibroblasti
che si dispongono attorno ai vasi a formare dei cuscinetti. E’ presente inoltre il tipico pattern
vascolare definito a corna di cervo (“staghorn vascular pattern”) che corrisponde alle aree biancastre
che si diramano a ricordare la forma di corna di cervo. Per gentile concessione di KGH (CC BY-SA
3.0).

TUMORE M I O F I B R O B L A S T I C O I N F I A M M ATO R I O
Il tumore miofibroblastico infiammatorio è una lesione mesenchimale
caratterizzata dalla presenza di cellule fusate simil-miofibroblastiche
associate ad infiltrato infiammatorio. E’ un tumore raro che si manifesta in
genere in giovane età. Una buona parte dei tumori miofibroblastici
infiammatori presenta un riarrangiamento cromosomico che coinvolge la
chinasi del linfoma anaplastico (ALK), determinandone una espressione
aberrante.
T UMORI DEL TESSUTO FIBROISTOCITARIO
I tumori del tessuto fibroistocitario si caratterizzano per la presenza di una
componente mista che vede la compartecipazione sia di tessuto fibroso che
istocitario (evidenziabile con tecniche di immunoistochimica).
I S T I O C I TO M A FIBROSO MALIGNO (SARCOMA PLEOMORFO)
L’istiocitoma fibroso maligno è una lesione dei tessuti molli tipicamente
radio-indotta, molto frequente (superata unicamente dal liposarcoma) che
insorge in genere nei soggetti maschi in età adulta ( anni) e che interessa
soprattutto il compartimento profondo degli arti inferiori. E’ una lesione non
responsiva alla radioterapia che richiedere una exeresi completa, in quanto
recidiva piuttosto frequentemente. La sopravvivenza a anni è in intorno al
. Inoltre a differenza di altri sarcomi può metastatizzare oltre che a livello
polmonare anche a livello linfonodale.
L’istiocitoma fibroso maligno appare dal punto di vista macroscopico come
una lesione di dimensioni rilevanti e di aspetto irregolare al tagio. Dal punto
di vista microscopico, si caratterizza per la presenza di fibroblasti,
miofibroblasti ed istiociti (cellule giganti assenti nei fibrosarcomi). In genere
è caratterizzato da un elevato pleomorfismo citologico, numerosi foci mitotici
e nelle sue varianti può presentare molte cellule giganti multinucleate
(sarcoma pleomorfo a cellule giganti, grado 3) ed un pattern tipicamente
storiforme (sarcoma pleomorfo a pattern storiforme, grado2) che non si
osserva nei fibrosarcomi (che invece possono presentare il pattern a “spina di
pesce”).
T UMORI DELLE GUAINE NERVOSE PERIFERICHE
S C H WA N N O M A MALIGNO
Lo schwannoma maligno o tumore maligno della guaina del nervo
periferico o neurofibrosarcoma è una neoplasia non neuronale altamente
maligna, recidivante, localmente invasiva e frequentemente metastatizzante
(anche a livello cardiaco) che origina dalle cellule della guaina nervosa dei
nervi periferici di grandi e medie dimensioni. Alcune di queste lesioni
possono insorgere in maniera sporadica e all’incirca nel dei casi si
presentano nel contesto di una patologia legata alla mutazione del gene NF1,
ovvero la neurofibromatosi di tipo 1 (o di von Recklinghausen) che si
caratterizza per la presenza di neurofibromi, gliomi del nervo ottico, noduli
pigmentati dell’iride e macule cutanee iperpigmentate.
E’ una neoplasia a rapida crescita che può raggiungere anche dimensioni
notevoli in breve tempo. Dal punto di vista microscopico si caratterizza per la
presenza di cellule fusate, talvolta allungate e con processi bipolari che
ricordano le cellule di Schwann. All’immunoistochimica è presente in genere
positività per la proteina S100. In circa il dei casi, lo schwannoma maligno
si presente in una variante più aggressiva a cellule epitelioidi, definita
appunto schwannoma epitelioide maligno. Esso si caratterizza per la
presenza di cellule epiteliodi che crescono in nidi, potendo apparire come
metastasi da carcinoma o melanoma, da cui possono essere differenziati
tramite l’ausilio dell’immunoistochimica sulla base della mancata reattività
alla cheratina e per la positività alla proteina S100 (anche il melanoma risulta
positivo a tale marker, essendo una neoplasia neuroectodermica).
S C H WA N N O M A BENIGNO
Lo schwannoma benigno è un tumore della guaina del nervo periferico a
carattere benigno e ben più frequente rispetto alla controparte maligna.
Originano a partite dalle cellule di Schwann che rivestono i tronchi nervosi
periferici (spesso a carico dell’VIII nervo cranico a livello dell’angolo ponto-
cerebellare) e determinano la formazione di masse ben delimitate, incapsulate
e grigiastre che comprimono le strutture circostanti.
La diagnosi può essere effettuata senza l’ausilio dell’immunoistochimica, in
quanto presentano un quadro istologico comune e ben delineato. Le cellule
sono allungate e presentano processi citoplasmatici che si dispongono in
fascicoli, i nuclei sono raggruppati in “palizzate” frammiste a zone di
acellularità che costituiscono i corpi di Verocay. Sono presenti inoltre zone a
più lassa cellularità con prevalenza dello stroma di tipo mixoide.

Figura 12, Schwannoma benigno, si notino i corpi di Verocay (zone acellulari costituite dalle
protrusioni citoplasmatiche disposte in fascicoli)) frammiste alle due "palizzate" di nuclei; a sinistra si
può apprezzare una zona a più lassa cellularità con presenza di tessuto mixoide. Per gentile
concessione di Jensflorian (CC BY-SA 3.0).
T UMORI DEL TESSUTO MUSCOLARE LISCIO
LEIOMIOMA
I leiomioma è una neoplasia benigna del muscolo liscio che insorge
soprattutto a livello uterino e costituisce il tumore più frequente nelle donne.
Può insorgere anche a livello dei muscoli erettori del pelo (leiomioma pilare),
nel capezzolo, scroto e labbra vulvari e più raramente interessa i tessuti molli
profondi e la parete intestinale. La presenza di leiomiomi cutanei multipli può
talvolta rientrare nel contesto della sindrome della leiomiomatosi ereditaria
associata al carcinoma renale, una sindrome familiare trasmessa in maniera
autosomica dominante ed associata allo predisposizione per lo sviluppo di
leiomiomi uterini e carcinoma renale.
LEIOMIOSARCOMA
Il leiomiosarcoma è una neoplasia maligna a carico dei tessuti molli,
costituisce il di tutti i sarcomi ed è più frequente nel sesso femminile che
in quello maschile. Solitamente interessa la cute ed i tessuti profondi degli
arti, il retroperitoneo ed i grandi vasi. E’ un tumore estremamente aggressivo
e la sopravvivenza a anni è appena del .
I leiomiosarcomi si presentano come masse solide, non dolorose che possono
raggiungere anche dimensioni notevoli. A livello microscopico, si
caratterizzano per la presenza di cellule fusate con nucleo “a sigaro” disposte
in maniera intrecciata. All’immunoistochimica risultano positivi per l’actina e
la desmina.

Figura 13, leiomiosarcoma, le cellule presentano una forma affusolato e variamente intrecciate tra
loro, inoltre si può apprezzare il tipico pattern dei nuclei "a sigaro". Per gentile concessione di
Nephron (CC BY-SA 3.0).
T UMORI DEL TESSUTO MUSCOLARE SCHELETRICO
RABDOMIOSARCOMA
Il rabdomiosarcoma è un tumore ad alta malignità che compare solitamente
in età pediatrica e nel corso dell’adolescenza, rappresentando il sarcoma dei
tessuti molli più frequente nella suddetta fascia d’età. Solitamente insorge a
livello del distretto testa e collo e dell’apparato genitourinario, zone in cui il
muscolo scheletrico è scarsamente o per nulla rappresentato, e più raramente
a livello degli arti in associazione alla muscolatura scheletrica. Il
rabdomiosarcoma è un tumore raramente eleggibile all’exeresi per via delle
sedi d’insorgenza che spesso impediscono l’esecuzione di un intervento
chirurgico, tuttavia può essere trattato tramite chemioterapia e radioterapia
(sebbene l’istotipo alveolare possa risultare refrattario ad entrambi i
trattamenti). Attualmente la sopravvivenza a anni è di circa il .
Indipendentemente dalla varietà istologica considerata, la cellula diagnostica
è il rabdomioblasto, che si caratterizza per la presenza di citoplasma
granulare, eccentrico, eosinofilo e ricco di filamenti spessi e sottili. Dal punto
di vista diagnostico può essere utilizzata l’immunoreattività nei confronti di
desmina, MYOD1 e miogenina, in particolare per le forme a più elevato
grado di pleomorfismo.
RABDOMIOSARCOMA EMBRIONALE
Il rabdomiosarcoma embrionale appartiene alla cosiddetta categoria dei
“small-blue-round-cell-tumor” (SBRCT), ovvero un gruppo di neoplasie che
si caratterizzano per la presenza di cellule neoplastiche aventi nuclei che si
colorano spiccatamente in blu con l’ematossilina/eosina. La differenziazione
dei diversi istotipi viene condotta con l’ausilio dell’immunoistochimica e la
positività nei confronti di appositi marker. Il rabdomiosarcoma embrionale
insorge solitamente nei bambini di età inferiore ai anni ed interessa cavità
orale, orbita, orecchio medio, regione paratesticolare, prostata e vagina.
Comprende la variante botrioide (detto sarcoma botrioide) che si
caratterizza per lo sviluppo di numerose masse simili a grappoli d’uva che si
proiettano all’interno della cavità (talora obliterandola completamente),
l’anaplastico ed a cellula fusate. La variante botrioide presenta la prognosi
migliore, mentre l’anaplastico è spesso mortale. Dal punto di vista
patogenetico risulta importante la traslocazione t(2;8) che coinvolge il gene
PAX3.
RABDOMIOSARCOMA ALVEOLARE
Il rabdomiosarcoma alveolare è una neoplasia che insorge tipicamente
durante l’adolescenza ed interessa la muscolatura profonda degli arti. La
denominazione “alveolare” è dovuta alla micro-architettura tumorale,
caratterizzata dalla presenza di tralci di tessuto fibroso che dividono le cellule
in veri e propri nidi, ricordando la struttura dell’alveolo polmonare. Al centro
dei nidi si può apprezzare la presenza di infiltrato infiammatorio e cellule
neoplastiche scarsamente coese, mentre quelle in periferia aderiscono ai setti
fibrosi. Un’anomalia cromosomica importante sia dal punto di vista della
diagnosi che nella patogenesi del rabdomiosarcoma alveolare è la
traslocazione t(2;13) che determina la formazione di un gene di fusione
PAX3-FKHR, associato nel dei casi ad un’amplificazione di N-myc.
RABDOMIOSARCOMA PLEOMORFO
Il rabdomiosarcoma pleomorfo è una neoplasia che insorge tipicamente nei
tessuti profondi dell’adulto. E’ caratterizzato da un elevato pleomorfismo,
con cellule neoplastiche che presentano numero atipie, talora risultano
multinucleate, con nuclei bizzarri e giganti, e può assomigliare dal punto di
vista istologico ad altri sarcomi pleomorfi.

Figura 14, rabdomiosarcoma alveolare, si noti la presenza di tralci di tessuto fibroso a cui aderiscono
le cellule neoplastiche con una maggiore lassità cellulare al centro dei nidi. La micro-architettura
ricorda l’alveolo polmonare, somiglianza responsabile della denominazione “alveolare”. Per gentile
concessione di Humpath (CC BY-SA 3.0).
T UMORI DI INCERTA DIFFERENZIAZIONE
SARCOMA SINOVIALE
Il sarcoma sinoviale è una neoplasia dei tessuti molli relativamente
frequente, in quanto rappresenta il di tutti i sarcomi. La denominazione
deriva dal fatto che un tempo si riteneva riproducesse la membrana sinoviale,
ma in realtà la cellula d’origine è ancora incerta. La lesione insorge
generalmente nei tessuti profondi degli arti inferiori, in corrispondenza delle
grandi articolazioni (ginocchia ed anca) ma in sede extra-articolare. E’ un
tumore a crescita lenta con una sopravvivenza a di circa il che
diminuisce a anni al a causa delle recidive locali, mestasti polmonari ed
anche linfonodali. Un certo numero di sarcomi sinoviali può presentarsi
anche come piccole lesioni ( cm) a livello di mani e piedi,
prevalentemente nelle giovani donne ed associato ad una prognosi migliore.
Dal punto di vista microscopico, il sarcoma sinoviale può presentarsi in due
diversi quadri (bifasico o monofasico) per la peculiare presenza di una
duplice linea di differenziazione della cellula neoplastica, ovvero simil-
mesenchimale e simil-epiteliale. Nella forma monofasica sono presenti
unicamente cellule fusate o, molto raramente, solo cellule simil-epiteliali; in
quella bifasica sono presenti cellule fusate frammiste a cellule cubiche simili-
epiteliali che si organizzano in strutture simil-ghiandolari.
All’immunoistochimica le cellule simil-epiteliali presentano reattività per la
citocheratina, che può essere sfruttata dal punto di vista diagnostico. Inoltre i
sarcomi sinoviali presentano in genere una traslocazione cromosomica t(x;18)
che determina la formazione di un gene di fusione aberrante, caratteristica
che può essere sfruttata per una diagnosi di tipo molecolare.
T UMORI DEL TESSUTO VASCOLARE
SARCOMA DI KAPOSI
Il sarcoma di Kaposi (SK) è una neoplasia dei tessuti molli abbastanza
comune nei soggetti affetti da AIDS, mentre risulta raro in altre popolazioni.
Una costante nella patogenesi del tumore è l’infezione da parte di un herpes
virus (HHV8 o KSHV) che determina a livello delle cellule endoteliali
un’infezione litica ed una latente. L’infezione litica promuove il reclutamento
di linfociti T (che nei soggetti AIDS risultano essi stessi compromessi) e di
altre cellule infiammatorie che producono in maniera aberrante VEGF, dando
origine ad un disordine proliferativo a cui si associa l’alterata espressione di
alcuni oncogeni ed oncosoppressori (ad esempio p53) nelle cellule endoteliali
infette dovuta all’infezione latente. Tutto ciò esita in un’incontrollata
proliferazione cellulare ed in una spiccata resistenza ai meccanismi
apoptotici. Risulta evidente come la crescita stessa della lesione tumorale
dipenda anche dalla funzionalità del sistema immunitario del soggetto. La
peculiarità delle cellule neoplastiche del SK è che possono differenziare in
cellule endoteliali linfatiche, evidenziando come tale lesione costituisca un
disordine primariamente dell’endotelio linfatico anziché vascolare. Il SK
insorge nella sua variante classica a livello della cute, ma può interessare
anche le mucose, i visceri ed i linfonodi. In generale si riconoscono quattro
forme della malattia (classica, AIDS-associata, da trapianto-associata,
linfoadenopatica), sulla base di caratteristiche demografiche e di fattori di
rischio della popolazione considerata.
VARIANTE CLASSICA
La variante classica del SK è stata la prima ad essere descritta, interessa in
genere soggetti europei in età avanzata (è rara negli USA), immunodepressi o
con alterazioni del sistema immunitario, con concomitanti tumori maligni ma
non affetti da AIDS. Nella sua forma classica, il SK tende ad insorgere a
livello degli arti inferiori e superiori, interessando la cute ed il sottocute. Dal
punto di vista macroscopico, si presenta come multiple lesioni nodulari o a
placca, di colore rossastro, che si sviluppano lentamente in direzione
prossimale. La variante classica è una lesione che non presenta caratteristiche
di malignità ed è di pertinenza dermatologica, in un certo numero di casi può
andare incontro a remissione spontanea. La forma classica del SK (ed a volte
anche le altre varianti) tende a svilupparsi secondo tre stadi:
Inizialmente si ha la comparsa di macule di colore rossastro a livello
delle estremità degli arti. All’esame microscopico la lesione appare
molto simile al tessuto di granulazione, si apprezzano spazi vascolari
determinati da una anormale proliferazione delle cellule endoteliali con
infiltrato infiammatorio e sono assenti le cellule neoplastiche fusiformi.
Con il progredire del tempo, la lesione si estende prossimalmente e si
formano placche violacee talora rilevate. All’esame microscopico sono
presenti numerosi vasi del derma espansi e irregolari con infiltrato
infiammatorio (soprattutto linfocitario) circondati da cellule fusiformi.
Infine si ha la formazione di lesioni nodulari di colore
violaceo/rossastro. All’esame microscopico si apprezza la presenza di
diversi strati di cellule fusiformi con presenza di irregolari vasi e talora
zone di stravaso ematico in un contesto infiammatorio.
VARIANTE AIDS ASSOCIATA
La variante AIDS associata del SK si manifestava originariamente in circa
1/3 dei pazienti AIDS positivi, soprattutto nei maschi omosessuali.
Attualmente l’incidenza del SK in questa popolazione è drasticamente
diminuita in concomitanza con le moderne terapie antiretrovirali. Questa
forma di SK tende a coinvolgere soprattutto i visceri ed i linfonodi e si può
diffondere anche estesamente, tuttavia l’exitus è spesso determinato dalla
sviluppo di infezioni opportunistiche o di altri linfomi. Bisogna difatti
ricordare che nei soggetti AIDS viene meno la sorveglianza immunitaria nei
confronti delle cellule neoplastiche e l’efficacia stessa del sistema
immunitario nel distruggere microbi normalmente innocui.

Figura 15, sarcoma di Kaposi (SK), si notino gli spazi vascolari contenenti eritrociti circondati da
cellule neoplastiche fusiformi. Per gentile concessione di Yale Rosen (CC BY-SA 2.0).

ANGIOSARCOMA
L’angiosarcoma è una neoplasia endoteliale maligna ad alto grado che può
insorgere a livello cutaneo (volto, cuoio capelluto), epatico, milza, mammella
e gli arti. La sopravvivenza a anni è rara, anche con trattamento chirurgico e
chemioterapico. E’ un tumore estremamente aggressivo che può interessare
anche gli strati più profondi (ad esempio a livello degli arti può interessare
anche le ossa). Inoltre è un tumore che può essere indotto dalle radiazioni.
Alcuni fattori di rischio per lo sviluppo di angiosarcoma riguardano
l’esposizione professionale a cloruro di polivinile (una plastica molto
diffusa), l’esposizione alle radiazioni, l’utilizzo in passato di mezzo di
contrasto Thorotrast ed il linfedema cronico legato alla mastectomia radicale
(con resezione dei linfonodi) in seguito al carcinoma della mammella.
Dal punto di vista macroscopico, l’angiosarcoma si presenta come noduli
cutanei multipli di colore rossastro, non dolenti, inizialmente di piccole
dimensioni e che si trasformano successivamente in masse carnose e soffici,
con evidenti aree emorragiche e di necrosi. Dal punto di vista microscopico,
l’angiosarcoma può presentare cellule anaplastiche rigonfie che si
organizzano a formare canali vascolari fino a cellule completamente
indifferenziate con assenza di spazi vascolari. All’immunoistochimica
presenta positività per il CD31, marcatore sfruttato dal punto di vista
diagnostico.
T UMORI DEL TESSUTO OSSEO
I tumori del tessuto osseo, considerati nel loro insieme, tendono a colpire
tutte le età e possono insorgere in qualsiasi segmento osseo, sebbene vi sia
una tendenza a svilupparsi nelle ossa lunghe degli arti. Bisogna considerare
comunque che alcuni tumori ossei tendono a presentarsi in specifici gruppi
d’età e in determinati segmenti ossei (facendo riferimento alle ossa lunghe,
epifisi, diafisi e metafisi), per cui tali caratteristiche risultano estremamente
importanti anche dal punto di vista diagnostico. Ad esempio, un tumore a
livello delle falangi si rivela spesso essere un condroma, mentre un sarcoma
di Ewing in genere insorge nei soggetti di età inferiore ai anni a livello
delle diafisi delle ossa lunghe.
Sede Tipo di tumore
Diafisi Sarcoma di Ewing
Metafisi Osteosarcoma
Epifisi Sarcoma gigantocellulare dell’osso
Tabella 4, tumori maligni che insorgono più frequentemente nei diversi segmenti ossei delle ossa
lunghe.

Le tecniche di imaging (RX e TC) possono evidenziare le lesioni ossee ed il


quadro radiologico si correla spesso alla malignità del tumore. Le lesioni a
margini ben definiti in genere sono dovute a tumori benigni, metastasi ossee
e solo raramente a neoplasie maligne (ad esempio il condrosarcoma a basso
grado); le lesioni a margini mal definiti in genere sono dovute a tumori
maligni, con prevalenza diversa nei differenti gruppi d’età, ad esempio il
sarcoma di Ewing interessa in genere soggetti di età inferiore ai anni;
lesioni sclerotiche (osteoaddensanti) sono aree di neoformazione di tessuto
osseo possono essere dovute a metastasi, soprattutto nell’adulto (ad esempio
metastasi di carcinoma prostatico), o a tumori primitivi dell’osso,
specialmente nel bambino (ad esempio osteosarcoma).
TUMORI OSTEOGENICI
I tumori osteogenici sono tumori del tessuto osseo che si caratterizzano per la
deposizione di osso, solitamente immaturo, ovvero caratterizzato dalla
presenza di trabecole intrecciate a vario grado di mineralizzazione.
OSTEOMA OSTEOIDE E OSTEOBLASTOMA
L’osteoma osteoide è una neoplasia benigna che origina a livello del tessuto
osseo, insorge prevalentemente in età pediatrica o nel giovane ed interessa
prevalentemente le diafisi delle ossa lunghe degli arti, in particolare femore e
tibia. In genere provoca dolore, specialmente notturno, che viene controllato
mediante l’utilizzo di antidolorifici, tale caratteristica lo differenzia
dall’osteosarcoma che interessa i soggetti della stessa fascia d’età.
Dal punto di vista macroscopico, le lesioni appaiono come masse
rotondeggianti di colore brunastro, alla radiografia presentano un tipico
aspetto “a bersaglio”, in quanto attorno al tumore vero e proprio (detto nido),
radiotrasparente e generalmente con un’area di mineralizzazione centrale, si
forma tessuto osseo reattivo (radiopaco) che circonda la lesione. Dal punto di
vista microscopico, l’osteoma osteoide appare come un tessuto osseo
immaturo, con trabecole ossee variamente orientate ed intrecciate,
presentante cellule neoplastiche simil-osteoblastiche e prive di atipie ed
osteoclasti immersi in tessuto connettivo lasso riccamente vascolarizzato.
L’osteoblastoma è una neoplasia benigna molto simile all’osteoma osteoide
ma di dimensioni maggiori e privo del tipico aspetto “a bersaglio” alla
radiografia. Inoltre tende a colpire con maggiore frequenza il rachide.
OSTEOSARCOMA
L’osteosarcoma è il più frequente tumore maligno primitivo dell’osso, ad
eccezione di mieloma e linfoma. Colpisce più frequentemente il sesso
maschile e presenta una distribuzione di tipo bimodale, con un picco
d’insorgenza nel giovane, tra i ed i anni, ed uno nell’anziano. E’ un
tumore che può essere indotto da radiazioni o carcinogeni chimici
(radioterapia e chemioterapia costituiscono difatti due fattori di rischio).
Talora può determinare una fragilità ossea importante ed una inaspettata
frattura può costituire il primo segno clinico della malattia. Tra i fattori di
rischio per lo sviluppo dell’osteosarcoma si annoverano:
Malattia di Paget, una malattia degenerativa caratterizzata da un
continuo ed abnorme rimaneggiamento del tessuto osseo. Costituisce un
fattori di rischio soprattutto per la popolazione anziana.
Radioterapia e chemioterapia, essendo un tumore che può essere
indotto da radiazioni e carcinogeni chimici, costituiscono fattori di
rischio rispettivamente nella popolazione anziana e nei giovani.
Osteocondromatosi e displasia fibrosa.
Protesizzazione d’anca.
Gli osteosarcomi insorgono tendenzialmente nelle sedi di accrescimento
osseo, dove si ritieni che gli osteoblasti siano più proni all’acquisizioni di
mutazioni genetiche che ne determinino la trasformazione in senso
neoplastico. Solitamente interessano le metafisi (per l’appunto zone di
accrescimento osseo) delle ossa lunghe, le ossa piatte delle cranio e della
mascella e più raramente diafisi ed epifisi, in quest’ultimo caso solitamente
con tempi di latenza nell’ordine di anni. Le zone più frequentemente
interessate sono il femore distale, la tibia prossimale e l’omero distale. La
variante più comune è l’osteosarcoma centrale classico che origina in sede
intramidollare come una lesione solitaria che si sviluppa perifericamente
verso la superficie. Esistono anche varianti multicentriche, forme
estremamente aggressive in cui l’osteosarcoma si presenta
contemporaneamente in più sedi. La variante multicentrica presenta
un’incidenza maggiore nei giovani e si associa in genere a mutazioni di p53.
L’osteosarcoma, come la quasi totalità dei sarcoma, metastatizza per via
ematica, dando origine a metastasi polmonari, ossee e cardiache. Ad oggi la
sopravvivenza a anni è all’incirca del , sebbene la prognosi possa variare
a seconda delle varietà considerate. Fattori prognostici negativi sono costituiti
dalla varietà teleangectasica e multicentrica, malattia di Paget, fosfatasi
alcalina elevata, scarsa necrosi in seguito a chemioterapia, insorgenza nelle
ossa cranio-facciali (ad eccezione delle mascellari) e vertebrali, perdita dello
status di eterozigosi per la proteina RB (secondo il modello delle 2-hit di
Knudson); fattori prognostici positivi riguardano l’insorgenza a livello delle
ossa mascellari e nelle estremità distali, lesiona singola, varietà parostale o
periostea e necrosi estesa in seguito a chemioterapia. L’osteosarcoma viene
trattato con un approccio multidisciplinare che prevede dapprima un
trattamento preventivo con chemioterapia, basato sull’evidenza che alla
diagnosi in un altissimo numero di casi sono presenti già metastasi (talora
non rivelabili dalle metodiche di imaging perché troppo piccole), a cui segue
una chirurgia demolitiva (disarticolazione, amputazione o resezioni notevoli).
Il pezzo anatomico viene quindi analizzato dall’anatomopatologo che dovrà
valutare la lesione e la sua risposta al trattamento (una necrosi molto estesa in
seguito a chemioterapia costituisce un fattore prognostico positivo).
Dal punto di vista microscopico, l’osteosarcoma appare come una massa
voluminosa, dolente e non responsiva agli antidolorifici, irregolare, di colore
grigiastro, con aree cistiche e necrotiche. Come detto in precedenza,
solitamente origina in sede intramidollare, infiltra estesamente il canale
midollare, sostituisce il midollo e successivamente si sviluppa verso
l’esterno, distruggendo la corticale e sollevando il periostio per estendersi nei
tessuti molli, interessando solo raramente le articolazioni ed i legamenti. In
superficie può talora determinare la formazioni di noduli satelliti (skin
metastasis), ovvero metastasi migranti prossime alla sede primitiva del
tumore. Talora alla radiografia si possono apprezzare, oltre a lesioni
osteoaddensanti, anche lesioni osteolitiche. Dal punto di vista microscopico,
l’osteosarcoma si caratterizza per la presenza di cellule atipiche, scarsamente
differenziante, che depositano tessuto osseo. Talora è possibile che
compaiano in quantità variabile anche altre matrici, come tessuto cartilagineo
e fibroso. Bisogna difatti considerare che l’osteosarcoma è un tumore ad alto
grado di malignità e scarsamente differenziato e di conseguenza la cellula
neoplastica multipotente può potenzialmente differenziare in senso
condroblastico o fibroblastico, oltre che osteoblastico. Tale peculiarità
dell’osteosarcoma può talora determinare delle difficoltà nel formulare la
diagnosi: in ogni caso, qualora sia presente una scarsa matrice osteoide con
prevalenza di tessuto cartilagineo o fibroso, bisogna porre comunque la
diagnosi di osteosarcoma. La variante di osteosarcoma caratterizzata da
un’abbondante matrice cartilaginea prende il nome di osteosarcoma
condroblastico.

Figura 16, osteosarcoma, si noti la presenza di una matrice osteoide con immerse cellule anaplastiche,
giganti, con numerose atipie e la presenza di figure mitotiche. Per gentile concessione di Nephron (CC
BY-SA 3.0).
Le diverse varietà di osteosarcoma si associano a prognosi differenti:
L’osteosarcoma teleangectasico è una varietà estremamente aggressiva
che si caratterizza per la presenza di cellule giganti multinucleate e di
vasi sanguigni privi di una parete continua e direttamente scavati
nell’osso, con formazione di cavità ricche di globuli rossi che ricordano
delle cisti aneurismatiche.
L’osteosarcoma parostale è una varietà a basso grado di malignità che
si caratterizza per lo sviluppo della lesione dalla superficie ossea (al di
fuori del periostio) verso i tessuti molli. La massa tumorale è costituita
da tessuto osseo maturo, con linee cementati, a disposizione alterata e
contenente le cellule neoplastiche. In genere insorge nei soggetti in età
avanzata, si sviluppa lentamente, determinando la formazione di una
massa dolente che porta alla progressiva perdita funzionale, non
metastatizza e si associa ad una prognosi favorevole con una
sopravvivenza a anni dell’ .
L’osteosarcoma periosteo è una forma estremamente rara che insorge
tipicamente nelle donne, a livello del confine diafisi e metafisi nella
tibia prossimale o femore distale. E’ un tumore ben differenziato che
non interessa mai il canale midollare. Presenta una prognosi buona ma
inferiore rispetto all’osteosarcoma parostale, in quanto può recidivare
localmente e nel dei casi origina delle metastasi.
TUMORI CONDROGENICI
I tumori condrogenici sono tumori del tessuto osseo che si caratterizzano per
la deposizione di cartilagine, principalmente di tipo ialino o mixoide;
raramente la cartilagine fibrosa ed elastica.
OSTEOCONDROMA
L’osteocondroma è un tumore benigno, relativamente frequente, che si
sviluppa sulla superficie ossea, appare come una lesione fungiforme,
ricoperta di cartilagine, che si collega allo scheletro sottostante per mezzo di
un peduncolo osseo. In genere si presenta come una lesione solitaria, ma in
un ridotto numero di casi può rientrare nel contesto della sindrome delle
esostosi multiple ereditarie. Si ritiene che alla base della trasformazione in
senso neoplastico vi sia una alterazione nei processi di ossificazione
endocondrale (un processo di ossificazione che ha origina a partire da un
cappuccio cartilagineo) che determina un’aberrante proliferazione cellulare.
Per questo motivo, insorge tipicamente in quelle sedi che vedono processi di
ossificazione endocondrale, come le metafisi delle ossa lunghe, specialmente
nei giovani.
CONDROMA
Il condroma è un tumore benigno piuttosto frequente del tessuto osseo che
insorge solitamente nelle ossa di origine endocondrale, specialmente a livello
delle metafisi delle ossa tubulari delle dita, mentre raramente interessa le ossa
più profonde. Il condroma può interessare la cavità midollare (e viene più
propriamente detto encondroma) o la superficie ossea (condroma
iuxtacorticali). Alla radiografia, i condromi appaiono come lesioni
osteolitiche radiotrasparenti di forma rotondeggiante. All’esame
microscopico, si caratterizzano invece per la presenza di noduli di cartilagine
ialina disordinata con cellule ben differenziate, spesso rivestiti da un sottile
strato di osso reattivo.
CONDROBLASTOMA
Il condroblastoma è un raro tumore benigno del tessuto osseo che insorge
solitamente a livello epifisario, specialmente a livello della regione del
ginocchio. Essendo tumori a localizzazione iuxta-articolare, possono risultare
dolenti e limitare la funzionalità dell’articolazione. All’esame microscopico,
si caratterizzano per la presenza di cellule neoplastiche simil-condroblastiche,
di forma poliedrica, con nuclei cellulari iperlobulati, immerse in una scarsa
matrice ialina ad architettura retiforme. Sparse nel contesto della lesione si
osservano osteoclasti, cellule non neoplastiche giganti e multinucleate.

Figura 17, condroblastoma, si noti la presenza di osteoblasti di forma poliedrica con nuclei lobulati e
di una cellula gigante multinucleata non neoplastica (osteoclasto), immersi in una matrice cartilaginea
scarsa ad architettura retiforme. Per gentile concessione di Sarahkayb (CC BY-SA 4.0).

CONDROSARCOMA
Il condrosarcoma è un tumore maligno dei tessuti molli relativamente
frequente e rappresenta il terzo (dopo mieloma ed osteosarcoma) fra i tumori
dell’osso. Viene classificato in base alla sede d’insorgenza in centrale
(intramidollare), periferico e periostale; ed in base alle caratteristiche
istologiche in convenzionale, a cellule chiare, mesenchimale e
dedifferenziato. La forma più comune, all’incirca il dei casi, è il
condrosarcoma centrale convenzionale. Il condrosarcoma centrale ha origine
a livello della porzione centrale di un segmento osseo de novo ed in numero
ridotto di casi da una precedente condroma; quello periferico solitamente
insorge primariamente al di fuori dell’osso per impiantarvisi successivamente
oppure a partire dalla degenerazione del cappuccio cartilagineo di un
osteocondroma.
Il condrosarcoma convenzionale interessa solitamente i soggetti di sesso
maschile tra i anni e colpisce più frequentemente le zone centrali dello
scheletro (pelvi, bacino, coste, vertebre, spalle) e solo raramente le metafisi
delle ossa lunghe. In un ridotto numero di casi il condrosarcoma
convenzionale può insorgere a partire da un precedente condroma od
osteocondroma. Dal punto di vista macroscopico, i condrosarcomi appaiono
come lesioni voluminose costituite da noduli di colore madreperlaceo. Dal
punto di vista microscopio, si caratterizzano per la presenza di cellule
neoplastiche atipiche immerse in una matrice ialina e mixoide. A seconda
delle caratteristiche cellulari e della cellularità, le lesioni possono essere
classificate in maniera differente (e con prognosi associate diverse):
Lesioni di basso grado (G1) si caratterizzano per la presenza di una
lieve ipercellularità, le cellule neoplastiche assomigliano a condrociti
normali, risultano rigonfie e tendono ad associarsi in gruppetti. La
sopravvivenza a anni è del .
Lesioni di grado intermedio (G2) si caratterizzano per una più elevata
ipercellularità e per la presenza di cellule atipiche. La prognosi è più
sfavorevole rispetto ai G1.
Lesioni ad alto grado (G3) si caratterizzano per una spiccata
ipercellularità e pleomorfismo, con cellule giganti e numerose figure
mitotiche. La sopravvivenza a anni è appena del , anche in
relazione alla spiccata tendenza a metastatizzare, specialmente a livello
polmonare.
Il condrosarcoma periostale (detto anche iuxtacorticale) è una variante più
rara che insorge a livello del periostio (ovvero a partire dalla superficie ossea)
delle diafisi delle ossa lunghe. In genere presenta una buona prognosi, in
quanto ha una scarsa tendenza a metastatizzare.
Il condrosarcoma mesenchimale è una variante di condrosarcoma piuttosto
aggressiva che insorge tipicamente nel giovane. Si caratterizza per la
presenza di noduli di cartilagine ben differenziata ed aree di ipercellularità
con piccole cellule maligne rotonde ed indifferenziate, facendo parte di
conseguenza dei “small-blue-round-cell-tumor” (SBRCT). Sono presenti
delle strutture vascolari piuttosto caratteristiche, che ricordano quelle
dell’emangiopericitoma. Presenta una spiccata tendenza a metastatizzare a
livello polmonare ed osseo e la sopravvivenza a anni è scarsa.
A LT R I T U M O R I D E L T E S S U TO O S S E O
TUMORE A CELLULE GIGANTI
Il tumore a cellule giganti è un tumore benigno, ma localmente aggressivo,
che si caratterizza per la presenza sia di fibrocellule mononucleate
neoplastiche che di numerose cellule giganti multinucleate (osteoclasti), per
tale motivo talora viene detto anche osteoclastoma. In generale insorge a
livello della regione del ginocchio, interessando l’epifisi del femore distale o
quella della tibia prossimale. La lesione erode il piano osseo subcondrale,
distrugge la cartilagine sovrastante e determina la formazione di una massa di
tessuto molle rivestita unicamente da un piccolo strato di osso reattivo.

Figura 18, tumore a cellule giganti (osteoclastoma), si noti la presenza di piccole cellule mononucleate
e delle cellule giganti multinucleate (osteoclasti). Per gentile concessione di Nephron (CC BY-SA 3.0)
[modificato da Giant cell tumour of bone .jpg,].

SARCOMA DI EWING /PNET


Il sarcoma di Ewing ed il tumore neuroectodermico primitivo (PNET)
sono due tumori appartenenti alla famiglia dei tumori di Ewing e facenti parte
dei “small-blue-round-cell-tumor” (SBRCT) primitivi dell’osso. Essi
presentano delle caratteristiche fenotipiche molto simili e possiedono la
stessa aberrazione cromosomica, per cui vengono considerati come una
variante dello stesso tumore a diverso grado di differenziazione. Il sarcoma di
Ewing e PNET rappresentano all’incirca l’ dei tumori maligni primitivi
dell’osso e costituiscono il secondo gruppo più frequente fra i sarcomi ossei
nel bambino, difatti la stragrande maggioranza dei casi coinvolge soggetti di
età inferiore ai anni. Le lesioni insorgono solitamente a carico delle diafisi
delle ossa lunghe (in particolare femore) e talora anche nelle ossa piatte
(quelle del bacino, la scapola, le coste) e corte (come le vertebre). In un
ridotto numero di casi può presentarsi in maniera multifocale. In generale il
sarcoma di Ewing insorge in sede intramidollare, invade la corticale, solleva
il periostio e si infiltra nei tessuti molli; esiste però anche una variante che
origina primitivamente nei tessuti molli. Un tempo si trattava di un tumore
con una prognosi infausta, ma l’introduzione di una chemioterapia realmente
efficacie ha spostato la sopravvivenza a anni al . In un certo numero di
casi può metastatizzare, principalmente a livello polmonare e del sistema
nervoso centrale.
Dal punto di vista macroscopico, si presenta come una massa soffice, in
accrescimento, con aree di necrosi ed emorragia, dolente, associata a sintomi
costituzionali (febbre, calo ponderale) ed alterazione dei dati di laboratorio
(aumento della VES, leucocitosi ed anemia), tutti elementi che potrebbero
indirizzare verso una diagnosi di tipo infettiva. Alla radiografia appare come
una lesione osteolitica, destruente, con margini infiltrativi ed estensione nei
tessuti molli adiacenti, che solleva il periostio e determina una reazione
periostale dal caratteristico pattern “a bulbo di cipolla”. Dal punto di vista
microscopico, si caratterizza per la presenza di numerose piccole cellule
rotondeggianti, dallo scarso citoplasma e dal nucleo spiccatamente colorato in
blu in ematossilina/eosina, un tipico aspetto dei SBRCT, immerse in uno
stroma connettivale alquanto scarso. Le cellule neoplastiche tendono
a disporsi nella cosiddetta rosetta di Homer-Wrigth, un tipo di rosetta in cui
le cellule circondano uno spazio centrale fibrillare.
Figura 19, sarcoma di Ewing/PNET, si noti la presenza di piccole cellule blu rotondeggianti e dallo
scarso citoplasma. Talora possono essere apprezzate delle formazioni di cellule che si dispongono
circolarmente attorno ad uno spazio centrale fibrillare (rosetta di Homer-Wright). Per gentile
concessione di Euthman (CC BY-SA 2.0).

Dal punto di vista patogenetico, nell’ dei casi si osserva una traslocazione
t(11;22) che interessa il gene EWSR1, determinando la formazione di una
proteina chimerica che altera l’espressione di determinati geni target. La
traslocazione può essere evidenziata utilizzando la FISH oppure il suo
trascritto può essere amplificato mediante la PCR. All’immunoistochimica
risulta positivo per CD59, CD57, NSE (enolasi neurone specifica) e PAS
(diastasi sensibile).
LINFOMA PRIMITIVO DELL’OSSO
Il linfoma primitivo dell’osso è una rara neoplasia primitiva dell’osso che
può coinvolgere in generale tutte le ossa ricche di midollo rosso, con una
particolare predilezione per la metafisi delle ossa lunghe. In generale
presentano un aspetto carnoso, di colore biancastro, tipicamente sono diffusi
ed a grandi cellule B. In presenza di una terapia adeguata, la sopravvivenza a
anni supera l’ .
CORDOMA
Il cordoma è un tumore maligno raro che insorge lungo la linea mediana, ha
origine a partire da residui notocordali presenti nello scheletro assiale ed
interessa tipicamente gli individui adulti di sesso maschile. E’ un tumore a
crescita lenta con distruzione locale dell’osso, raramente origina metastasi (di
solito a livello dei gangli linfatici, polmoni ed ossa) e tende a recidivare
localmente, comprimendo le strutture limitrofe. Le sedi in cui insorge sono
tipicamente sedi di difficile accesso e di scarsa risoluzione:
Nel dei casi origina a livello sacro-coccigeo, l’osso viene
progressivamente distrutto e la lesione può diffondere a livello
retroperitoneale, presentandosi talora come una massa extra-rettale ben
palpabile.
Nel dei casi origina a livello del clivus dell’occipitale o nella zona
sfeno-occipitale. Si presenta come una massa nasale, paranasale o
rinofaringea che può comprimere nervi cranici dando origine a tutta una
serie di disturbi neurologici.
Nel dei casi insorge a livello della colonna toraco-lombare.
Nonostante sia un tumore primitivo dell’osso, il cordoma presenta tratti tipici
delle neoplasie epiteliali. Dal punto di vista macroscopico, appare come una
massa di aspetto mucoide, aspetto tipicamente epiteliale. All’analisi
microscopica, si caratterizza per la presenza di grosse cellule, dal citoplasma
ampio e chiaro, con nucleo piccolo e contorni sottili, provviste di ampi
vacuoli, dette cellule fisalifore. Le cellule neoplastiche presentano un
fenotipico tipicamente epiteliale ed esprimono, se pur in maniera
differenziata, biomarcatori epiteliali (ad esempio la N-caderina, associata ad
una prognosi più sfavorevole, ed alcune citocheratine).

Figura 20, cordoma, si noti la presenza di grosse cellule fisalifore dal citoplasma chiaro, ampio e
vacuolato, un aspetto tipico delle cellule vegetali. Per gentile concessione di Nephron (CC BY-SA 3.0).

M A L AT T I A M E TA S TAT I C A
Le lesioni metastatiche sono neoplasie maligne che insorgono nel contesto
di una neoplasia in stadio avanzato che dissemina in altri distretti
dell’organismo. Le metastasi sono le più comuni neoplasie maligne del
tessuto osseo. Le vie di diffusione possono riguardare:
Infiltrazione diretta per contiguità.
Diffusione per via ematogena o linfatica.
Diffusione intrarachidea per mezzo del plesso venoso di Batson.
Potenzialmente una metastasi ossea può avere origine da qualsiasi neoplasia
maligna, ma a seconda del gruppo considerato si osserva una frequenza
differente. Nell’adulto, circa l’ delle metastasi ha origina a partire da
carcinomi prostatici, della mammella, del rene, del polmone e della tiroide.
Nel bambino, la maggior parte delle metastasi originano da neuroblastoma,
tumore di Wilms, osteosarcoma, sarcoma di Ewing e rabdomiosarcoma.
TUMORI D I N AT U R A N E O P L A S T I C A I N D E F I N I TA
I tumori di natura neoplastica indefinita sono lesioni borderline che
potrebbero avere qualche connessione con la natura neoplastica.
OSTEOMA
L’osteoma è una lesione di natura indefinita (talora classificato come un
tumore benigno) che si presenta macroscopicamente come una lesione
bozzoluta, di forma ovale, che interessa solitamente le ossa facciali,
emergendo in superficie, e talora quelle all’interno del cranio. Origina
solitamente dalla corticale dell’osso in sede sottoperiostale e si caratterizza
per la presenza di tessuto osseo immaturo. In genere sono lesioni dalla scarsa
rilevanza clinica, ad eccezione di quando ostruiscono i seni o comprino le
strutture circostanti.
ISTIOCITOSI A CELLULE DI LANGERHANS
L’istiocitosi a cellule di Langerhans è una malattia che si caratterizza per la
proliferazione ed accumulo di cellule di Langerhans, in genere sotto forma di
granulomi. Può presentarsi in maniera uni-focale, come una singola lesione,
oppure come una condizione sistemica, con lesioni multifocali. Lo scheletro è
l’organo più frequentemente interessato, in particolare le lesioni tendono a
localizzarsi a livello della teca cranica, ed alla radiografia appaiono come
lesioni osteolitiche ben definite, che ricordano quelle di un mieloma o di una
metastasi. Dal punto di vista microscopico, si caratterizza per la presenza di
cellule di Langerhans (che normalmente sono confinate a livello cutaneo),
caratterizzate da abbondante citoplasma, spesso vacuolate, con nuclei che
presentano un caratteristico solco centrale che conferisce alle cellule un
aspetto “a chicco di caffè”; accompagnate da un abbondante infiltrato di
cellule eosinofile, che talora possono rappresentare la componente principale
dell’infiltrato, tant’è che un tempo questa malattia era nota come granuloma
eosinofilo. All’immunoistochimica le cellule neoplastiche risultano positive
per i marcatori delle cellule di Langerhans.

Figura 21, istiocitosi a cellule di Langerhans, si noti la presenza di cellule istiocitiche con un ampio
citoplasma chiaro, un nucleo con aspetto vacuolato ed il tipico solco centrale che conferisce l'aspetto
"a chicco di caffè". Alle cellule di Langerhans si accompagna un infiltrato di cellule eosinofile. Per
gentile concessione di Yale Rosen (CC BY-SA 2.0).

CISTI OSSEA SOLITARIA


La cisti ossea solitaria è una lesione idiopatica del tessuto osseo che si
manifesta come una cavità unicamerale priva di rivestimento epiteliale
(caratteristica che la classifica più propriamente come una pseudocisti)
ripiena di liquido dall’aspetto sieroso. E’ una lesione la cui eziologia non è
nota, un tempo si riteneva di origine traumatica; tendenzialmente interessa le
metafisi delle ossa lunghe, e talora anche delle ossa piatte, dei soggetti in
giovane età. Le pareti della cavità risultano rivestite da un tessuto connettivo
fibroso, talora contenente cellule giganti multinucleate di tipo osteoclastico,
al di sotto del quale si ritrova tessuto osseo.
CISTI OSSEA ANEURISMATICA
La cisti ossea aneurismatica è una lesione idiopatica del tessuto osseo,
considerata una variante della cisti ossea solitaria, che si manifesta come una
cavità multicamerale priva di rivestimento epiteliale e contenente sangue, che
può essere riassorbito con formazione di precipitati di emosiderina.
Tendenzialmente interessa le metafisi delle ossa lunghe ed i corpi vertebrali
dei soggetti in giovane età. Le pareti della cavità risultano rivestite di tessuto
connettivo fibroso ricco di cellule giganti multinucleate di tipo osteoclastico,
al di tosso del quale si ritrova tessuto osseo immaturo reattivo.
Figura 22, cisti ossea aneurismatica, si noti la presenza della cavità ripiena di eritrociti delimitata da
una tessuto connettivo fibroso ricco di cellule giganti multinucleate di tipo osteoclastico. Per gentile
concessione di Sarahkayb (CC BY-SA 4.0).
Parametri Descrizioni
Differenziazione Viene assegnato un punteggio da 1 a 3 a seconda
dell’aspetto delle cellule neoplastiche:
Score 1: cellule che assomigliano a cellule di
tessuti mesenchimali dell’adulto.
Score 2: sarcomi per cui è certo l’istotipo
cellulare.
Score 3: sarcomi indifferenziati ed embrionali,
sarcomi il cui istotipo è dubbio, sarcomi della
sinovia, osteosarcomi e tumori neuroectodermici
primitivi (PNET).
Numero di mitosi Viene assegnato un punteggio da 1 a 3 a seconda
del numero di mitosi per campo (HPF):
Score 1: 0-9 mitosi per 10 HPF.
Score 2: 10-19 mitosi per 10 HPF.
Score 3: ≥ 20 mitosi per 10 HPF.
Necrosi Viene assegnato un punteggio da 0 a 2 a seconda
dell’interessamento necrotico del tumore:
Score 0: assenza di necrosi.
Score 1: ≤ 50% di necrosi tumorale.
Score 2: ≥ 50% di necrosi tumorale.
Grado istologico ottenuto Deriva dalla somma dei punteggi dei singoli
parametri:
Grado 1: per score di 2,3.
Grado 2: per score di 4,5.
Grado 3: per score di 6,7,8.
Tabella 5, grading istologico del sistema Fédération nationale des centres de lutte contre le cancer
(FNCLCC). Il grado istologico ottenuto si basa sulla somma dei punteggi dei singoli parametri
(differenziazione, mitosi e necrosi).

Tipo istologico Score Tipo istologico Score


Liposarcoma ben differenziato 1 Sarcoma pleomorfo a pattern 2
storiforme
Liposarcoma mixoide 2 Sarcoma pleomorfo a cellule giganti 3
Liposarcoma pleomorfo 3 Leiomiosarcoma ben differenziato 1
Liposarcoma mixoide ad alto grado 3 Leiomiosarcoma convenzionale 2
(liposarcoma a cellule rotonde)
Osteosarcoma 3 Leiomiosarcoma 3
pleomorfico/epitelioide/scarsamente
differenziato
Tumore neuroectodermico primitivo 3 Fibrosarcoma ben differenziato 1
(PNET)
Fibrosarcoma convenzionale 2 Fibrosarcoma scarsamente 3
differenziato
Tabella 6, alcuni esempi di grading istologico FNCLCC a seconda dell'istotipo considerato.
APPARATO GASTROINTESTINALE

CENNI DI ANATOMIA, ISTOLOGIA E FISIOLOGIA


STOMACO
INTESTINO TENUE
CANALE ANALE
VASCOLARIZZAZIONE DEL TRATTO GASTROINTESTINALE
Vascolarizzazione dello stomaco
Vascolarizzazione dell’intestino tenue
Vascolarizzazione dell’intestino crasso e del canale anale
GASTRITE CRONICA
GASTRITE CRONICA DI TIPO A (AUTOIMMUNE)
GASTRITE CRONICA DI TIPO B (DA H.PYLORI)
Helicobacter Pylori
MALATTIA PEPTICA ULCEROSA
Complicanze
MALASSORBIMENTO
CELIACHIA
Classificazione di Marsh-Oberhuber
Classificazione di Corazza-Villanacci
MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI (IBD)
MORBO DI CHRON
RETTOCOLITE ULCEROSA
DISTURBI DEL CIRCOLO
INFARTO INTESTINALE
COLITE ISCHEMICA
MALATTIA DI HIRSCHSPRUNG
MALATTIE HIRSCHSPRUNG-SIMILI
Displasia intestinale neuronale di tipo B (NID-B)
Ipoganglianosi del colon
Ipoplasia delle cellule nervose
Immaturità dei plessi nervosi sottomucoso e mioenterico
Desmosis coli
DIAGNOSI DIFFERENZIALE DI MALATTIA DI HIRSCHSPRUNG
ENTEROCOLITI BATTERICHE
COLITE PSEUDOMEMBRANOSA
MORBO DI WHIPPLE
ENTEROCOLITE DA CAMPYLOBACTER
COLERA
SALMONELLOSI
Febbre tifoide
Salmonellosi minori
SHIGELLOSI
ENTEROCOLITI PARASSITARIE
CRIPTOSPORIDIOSI
AMEBIASI INTESTINALE
GASTROENTERITI DELLA POPOLAZIONE IMMUNODEPRESSA
MICROSPORIDIOSI
ENTERITE DA CMV
MALATTIA DIVERTICOLARE
APPENDICITE ACUTA
CARCINOMA GASTRICO
Classificazione di Lauren
Carcinoma gastrico precoce (EGC)
Metastatizzazione
Complicanze
Prognosi e terapia
TUMORE STROMALE GASTROINTESTINALE (GIST)
LINFOMA GASTROINTESTINALE
LINFOMI A CELLULE B DEL MALT
POLIPI INTESTINALI
POLIPI INTESTINALI NON NEOPLASTICI
Polipi iperplastici
Polipi amartomatosi
POLIPI NEOPLASTICI
Polipi adenomatosi
POLIPOSI ADENOMATOSA FAMILIARE (FAP)
CANCRO EREDITARIO DEL COLON-RETTO NON POLIPOSICO (HNPCC)
ADENOCARCINOMA DEL COLON-RETTO
TUMORI DELL’APPENDICE
CARCINOIDE APPENDICOLARE
ADENOCARCINOMA APPENDICOLARE
TUMORI MUCINOSI DELL’APPENDICE
Adenoma appendicolare mucinoso
Neoplasia mucinosa appendicolare di basso grado (LAMN)
Adenocarcinoma appendicolare mucinoso
PSEUDOMIXOMA PERITONEALE
TUMORI DEL CANALE ANALE
CARCINOMA A CELLULE SQUAMOSE DEL CANALE ANALE
ADENOCARCINOMA DEL CANALE ANALE
ALTRE NEOPLASIE DEL CANALE ANALE
C ENNI DI ANATOMIA , ISTOLOGIA E FISIOLOGIA
S TO M A C O
Lo stomaco è un organo addominale che si suddivide, dal punto di vista
anatomico, in quattro regioni: cardias, fondo, antro e piloro. Dal punto di
vista dell’anatomia patologica, risulta più interessante la suddivisione
funzionale ed istologica che tiene conto di due regioni: la regione fundica,
che comprende fondo e corpo, e quella antrale, che comprende antro e
cardias.
Lo stomaco è un organo sia esocrino che endocrino che si occupa della
digestione delle macromolecole introdotte dall’alimentazione, in minima
parte hanno luogo processi di assorbimento (anche se non paragonabili a
quelli del tratto intestinale) di sostanze quali acqua, sali, farmaci liposolubili,
alcol, ed infine partecipa alla regolazione di funzioni più complesse come
l’appetito. I processi digestivi che hanno luogo nello stomaco vedono
coinvolti due principali elementi: l’acido cloridrico e la pepsina. L’acido
cloridrico ha un’azione battericida, digestiva e di attivazione del pepsinogeno
a pepsina; la pepsina è un enzima proteolitico la cui cinetica è adatta ai bassi
livelli di pH, garantiti per l’appunto dall’acidità gastrica. La mucosa gastrica
è potenzialmente suscettibile all’azione dell’acido gastrico e della pepsina,
ma i processi autodigestivi vengono fisiologicamente evitati grazie alla
presenza di una barriera di muco e bicarbonato e allo strato epiteliale. In sede
autoptica la barriera di muco e bicarbonato, ad esempio, viene persa. La
barriera mucosa gastrica consiste di uno strato di bicarbonato e muco che
riveste la mucosa gastrica, risulta impermeabile agli enzimi e scarsamente
permeabili all’acqua, così che il pH all’interno del gel ed in prossimità della
superficie mucosa è di circa , mentre nel lume gastrico è circa . La barriera
epiteliale è costituita invece di un epitelio cilindrico semplice costituito dalle
cellule colonnari che rivestono le pliche gastriche e secernono muco e
bicarbonato.
La regione antrale, che comprende antro e cardias, è costituita
prevalentemente da cellule mucosecernenti, intervallate occasionalmente da
cellule enterocromaffini , prevalentemente nella regione pilorica, che
svolgono una funzione paracrina, attraverso la secrezione di ormoni quali
gastrina e somatostatina.
La regione fundica, che comprende fondo e corpo, è costituita dalle cellule
parietali, che secernono acido cloridrico e fattore intrinseco (una
glicoproteina che si complessa con la vitamina B12 affinché sia assorbibile a
livello ileale), dalle cellule principali, che producono pepsinogeno ed una
debole lipasi, dalle cellule mucosecernenti e cellule enteroendocrine, che
si trovano ad ogni livello della ghiandola gastrica ma tendono a concentrarsi
a livello della base, risultando così a stretto contatto con la lamina basale ed i
capillari. Le diverse cellule enteroendocrine, che si caratterizzano per la
produzione di ormoni differenti, possono essere discriminate sulla base di
caratteristiche immunoistochimiche.
INTESTINO TENUE
L’intestino tenue è un organo addominale, costituito di duodeno, digiuno ed
ileo, sede di processi digestivi e della stragrande maggioranza dei processi di
assorbimento delle molecole introdotte con l’alimentazione. Si caratterizza
per la presenza dei villi intestinali, estroflessioni della lamina propria della
mucosa in direzione del lume che aumentano la superficie di assorbimento
assieme ai microvilli degli enterociti, intervallati dalle cripte del Lieberkühn
(o ghiandole intestinali), alla base della quali sono presenti le cellule
staminali che rigenerano gli enterociti persi per sfaldamento. In genere a
livello delle cripte è possibile apprezzare una sola mitosi, un numero di
mitosi superiore può essere un primo segno patologico. Tra altezza del villo e
profondità della cripta esiste un rapporto villo/cripta conservato di circa 5:1.
Il villo intestinale è costituito da uno scheletro di stroma connettivale che
contiene le strutture vascolari e cellule infiammatorie (linfociti, plasmacellule
e granulociti) che “sorvegliano” l’interfaccia tra ambiente interno ed esterno.
La parete intestinale è costituita, dall’interno verso l’esterno, da una tonaca
mucosa, una sottomucosa, una muscolare ed una sierosa. La tonaca mucosa si
compone di un epitelio colonnare semplice, della lamina propria e della
muscularis mucosae; la sottomucosa contiene uno strato di tessuto connettivo
denso con vasi sanguigni, linfatici ed il plesso nervoso sottomucoso (o di
Meissner); la muscolare contiene uno strato di muscolatura liscia circolare
interno, il plesso nervoso mioenterico (o di Auerbach) ed uno strato di
muscolatura liscia longitudinale esterno; infine la sierosa è lo strato più
esterno e si costituisce da un epitelio squamoso semplice (mesotelio) e da una
piccola quantità di tessuto connettivo sottostante.

Figura 23, sezione di intestino tenue. Risulta ben evidente la struttura del villo, la presenza delle
ghiandole intestinali intercalate tra i villi e l’infiltrato linfocitario che costituisce il MALT. Per gentile
concessione di Nephron (CC BY-SA 3.0).

CANALE ANALE
Il canale anale è la porzione termina dell’intestino crasso, lunga appena 3-5
cm e situata tra la linea pettinata e la cute perineale. Al di sopra della linea
dentata, l’intestino è rivestito da mucosa del colon-retto, con epitelio
cilindrico mucosecernente; l’epitelio che riveste il canale anale è di tipo
squamoso non cheratinizzante nella porzione prossimale e diviene
cheratinizzato in prossimità della cute perineale. Terminato il canale anale, in
corrispondenza della linea di Hilton riconoscibile per la presenza di annessi
cutanei, si ritrova l’epidermide con epitelio squamoso pluristratificato
cheratinizzato. Tale distinzione è importante perché la prognosi ed il
trattamento terapeutico di una eventuale lesione differiscono a seconda del
sito d'insorgenza (cute perineale, colon discendente e canale anale): i tumori
del canale anale sono neoplasie che insorgono tra la linea dentata e la rima
anale.
Tra le epitelio cilindrico della mucosa del colon-retto e la porzione superiore
del canale anale e presentano una zona di transizione, nota come zona cloaco-
genica, così definita perché da essa derivano le cellule staminali che danno
origine all'epitelio urinario e squamoso del canale anale durante
l’embriogenesi. Dal punto di vista istologico, l'epitelio della zona cloaco-
genica è simile a quello di transizione, un epitelio di tipo cilindrico-squamoso
con vari aspetti di possibili di cheratinizzazione e cellule neuroendocrine a
contatto con la membrana basale. Si ritiene che la maggior parte delle
neoplasie del canale anale abbia origine a partire dalla zona di transizione.
VASCOLARIZZAZIONE D E L T R AT TO G A S T R O I N T E S T I N A L E
VASCOLARIZZAZIONE DELLO STOMACO
La vascolarizzazione arteriosa dello stomaco è a carico dell’arteria gastrica
destra, ramo dell’epatica comune; della gastro-epiploica destra, ramo
dell’arteria gastro-duodenale; dell’arteria gastrica sinistra che si dirama
direttamente dal tripode celiaco; dell’arteria gastro-epiploica di sinistra e le
gastriche brevi, entrambi rami dell’arteria splenica. La gastrica di sinistra e di
destra si anastomizzano a formare un’arcata vascolare che irrora la piccola
curvatura dello stomaco, mentre l’anastomosi tra gastro-epiploica di destra e
sinistra forma un’arcata vascolare che irrora la grande curvatura dello
stomaco. Il fondo gastrico è irrorato dalle gastriche brevi decorrendo nel
legamento gastrolienale.
La vascolarizzazione venosa dello stomaco è a carico dell’arteria gastrica di
sinistra e di destra che drenano il sangue refluo nella vena porta; della vena
gastro-epiploica di destra che confluisce nella mesenterica superiore che a sua
volta drena il sangue direttamente nella porta; delle vene gastriche brevi e
gastro-epiploica di sinistra che confluiscono nella vena splenica che a sua
volta drena il sangue refluo direttamente nella porta. Alcuni rami venosi della
regione cardiale e della faccia posteriore del fondo dello stomaco drenano
nelle vene esofagee, nelle diaframmatiche inferiori e nelle surrenali, tributarie
della vena cava.
Figura 24, schema della vascolarizzazione venosa dello stomaco.

VASCOLARIZZAZIONE DELL’INTESTINO TENUE


La vascolarizzazione arteriosa del duodeno dipende principalmente
dall’arteria pancreatico-duodenale superiore, ramo dell’arteria gastrico-
duodenale; e dall’arteria pancreatico-duodenale inferiore, ramo dell’arteria
mesenterica superiore. Le arteria pancreatico-duodenali si anastomizzano a
formare due arcata arteriose che decorrono sulla faccia posteriore ed inferiore
del pancreas.

Figura 25, schema della vascolarizzazione arteriosa dello stomaco, della milza, del pancreas e della
prima parte del duodeno.

La vascolarizzazione del digiuno ed ileo dipende da numerose arterie


intestinali (ileali e digiunali) che si dipartono dall’arteria mesenterica
superiore. L’ultima ansa ileale è servita da un’arcata arteriosa formata dal
ramo ileale dall’arteria ileo-colica, ramo della mesenterica superiore, e la
porzione terminale della mesenterica superiore stessa. Le arterie intestinali a
loro volta si anastomizzano nello spessore del mesentere a formare una serie
di arcate vascolari da cui si dipartono le arterie rette che in prossimità
dell’ansa intestinale si biforcano e la abbracciano, anastomizzandosi sulla
faccia opposto.
La vascolarizzazione venosa dell’intestino tenue dipende dalle vene
pancreatico-duodenali, duodenali ed intestinali, tutte affluenti della
mesenterica superiore. Le vene seguono il decorso dei rami arteriosi e sono
tutte tributarie del sistema portale, essendo la mesenterica superiore drenata
nella porta.
VASCOLARIZZAZIONE DELL’INTESTINO CRASSO E DEL CANALE ANALE
La vascolarizzazione arteriosa dell’intestino crasso è principalmente a
carico dell’arteria mesenterica superiore ed inferiore, rami dell’aorta
addominale. Dall’arteria mesenterica superiore originano l’arteria colica
media, la colica di destra e l’arteria ileo-colica a cui si aggiungono le
numerose arterie ileali e digiunali. Dall’arteria mesenterica inferiore
originano l’arteria colica di sinistra, la rettale (o emorroidale) superiore e le
arterie retto-sigmoidee. Dall’arteria iliaca interna originano le arterie rettali (o
emorroidali) medie ed inferiori. Dall’arteria ileo-colica originano l’arteria
appendicolare, ciecale anteriore e posteriore ed il ramo ileale e colico che
vascolarizzano rispettivamente l’appendice, il cieco, la parte terminale
dell’ileo ed il colon ascendente. Il colon è servito dall’arteria colica destra,
media e sinistra. Il ramo ascendente della colica media e della sinistra si
anastomizzano a formare la cosiddetta arcata del Riolano. Il retto è servito
dall’arteria emorroidale superiore, media, inferiore e rami minori della
sacrale media.
La vascolarizzazione venosa dell’intestino crasso varia a seconda del
distretto considerato. Il sangue refluo proveniente da colon e cieco è drenato
nella mesenterica superiore ed inferiore, tributarie della porta. A livello del
retto i vasi venosi formano nella sottomucosa un ricco plesso emorroidale,
particolarmente sviluppato a livello della linea pettinata (plesso emorroidale
interno o superiore) e che si continua inferiormente attorno all’orifizio anale
(plesso emorroidale esterno o inferiore). Il plesso emorroidale interno è
drenato dalla vena rettale superiore, confluente nella mesenterica inferiore e
quindi tributaria del sistema portale; il plesso emorroidale esterno è drenato
dalla vena rettale media ed inferiore confluenti nella vena iliaca interna e
quindi tributarie della cava inferiore. In questo modo a livello del retto si
forma un’anastomosi tra il sistema portale e quello della vena cava inferiore.

Figura 26, schema della vascolarizzazione arteriosa dell'intestino tenue e di parte del crasso.
G ASTRITE CRONICA
Le gastriti croniche sono patologie infiammatorie che interessano la mucosa
gastrica e si caratterizzano per l’evidenza di un infiltrato infiammatorio. La
diagnosi di gastrite cronica viene effettuata mediante una biopsia gastrica che
dimostra la presenza di elementi infiammatori e di danno tissutale. I fattori
che sottendono una gastrite cronica sono diversi e tutti esitano in
un’alterazione della barriera mucosa gastrica con esposizione dell’epitelio
all’acido cloridrico e all’azione enzimatica della pepsina. Tra i più importanti
fattori vi sono infezioni da batteri (principalmente Helicobacter Pylori), virus
o tossinfezioni, autoimmunità, agenti chimici e fisici, fenomeni ischemici e
inappropriato utilizzo di FANS.
GASTRITE CRONICA DI TIPO A ( A U TO I M M U N E )
Le gastriti autoimmuni costituiscono meno del dei casi di gastrite
cronica ed interessano prevalentemente la popolazione anziana. In generale
interessa solamente la regione fundica (corpo e fondo dello stomaco) e tende
a risparmiare la regione antrale, in quanto il meccanismo patogenetico si basa
sulla presenza di autoanticorpi diretti contro autoantigeni presenti sulle
cellule parietali (che come detto in precedenza si trovano a livello della
regione fundica). La progressiva perdita di cellule parietali determina una
riduzione della secrezione di acido gastrico, fino alla completa acloridria, e di
fattore intrinseco. Questi due eventi a loro volta determinano una condizione
di ipergastrinemia, che si instaura attraverso un meccanismo a feedback nel
tentativo di ripristinare una adeguata secrezione gastrica, e di deficit di
vitamina B12, che causa il progressivo sviluppo di anemia perniciosa.
L’iperplasia delle cellule G neuroendocrine può talora esitare in veri e propri
tumori neuroendocrini (o carcinoidi) gastrina-secernenti, detti gastrinomi. La
gastrite cronica autoimmune viene talora definita anche come gastrite
cronica atrofica in quanto si associa ad assottigliamento della mucosa con
rarefazione ed atrofia ghiandolare e metaplasia intestinale, ovvero
sostituzione delle cellule epiteliali dello stomaco con quelle intestinali.
Questa condizione viene considerata una pre-cancerosi e si associa ad un
aumentato rischio di sviluppo di carcinoma gastrico.
GASTRITE CRONICA DI TIPO B ( D A H.P Y L O R I )
Le gastriti croniche di tipo B rappresentano all’incirca l’ delle gastriti
croniche, possono insorgere a qualsiasi età e si associano ad un aumentato
rischio di sviluppo di carcinoma gastrico, linfoma ed ulcera peptica. La
patogenesi è legata all’infezione cronica persistente da parte di Helicobacter
Pylori, un batterio spiraliforme Gram-negativo e non sporigeno, mentre
raramente una sua infezione acuta produce una quantità di sintomi tali da
richiedere attenzione medica. Esiste anche una forma di gastrite cronica
legata all’infezione di Helicobacter Heilmannii, un organismo interspecie che
ha come serbatoio naturale gatti, cani, suini e primati e che può
occasionalmente infettare l’uomo. Le infezioni da Helicobacter Pylori ed
Helicobacter Heilmannii vengono trattate nella stessa maniera, tuttavia il
riconoscimento di un’infezione da parte di Helicobacter Heilmannii è molto
importate in quanto permette di trattare gli animali domestici ed evitare
l’ulteriore contagio umano.
La gastrite cronica di tipo B, nelle sue fasi iniziali, interessa l’antro gastrico,
determinando quindi l’insorgenza di una gastrite associata ad ipercloridria e
normo od ipogastrinemia con un aumentato rischio di sviluppare un ulcera
peptica. In un certo numero di pazienti, la gastrite antrale può progredire e
coinvolgere corpo e fondo dello stomaco, divenendo una pangastrite cronica
con atrofia multifocale della mucosa gastrica, metaplasia intestinale e
aumentato rischio di sviluppare un carcinoma gastrico. Naturalmente questo
aspetto della gastrite cronica di tipo B deve essere tenuto in considerazione
anche nelle fasi diagnostiche e quindi il prelievo bioptico deve riguardare non
solo la regione antrale ma anche quella fundica. Il danno alla mucosa gastrica
è funzione dell’interazione tra patogeno ed ospite: in parte dipende dal ceppo
di Helicobacter Pylori e dalle tossine da esso prodotte ed in parte dipende
dalla risposta immunitaria propria dell’ospite. Ad esempio sono stati
osservati determinati pleomorfismi del gene IL-1β che si associano
maggiormente allo sviluppo di pangastrite. Il batterio è naturalmente il
primum movens del danno alla mucosa gastrica, in quanto è in grado di
danneggiare direttamente la mucosa attraverso la produzione di tossine e ione
ammonio ed indirettamente attraverso il processo flogistico evocato,
favorendo così l’azione autodigestiva di acido cloridrico e pepsina.
HELICOBACTER PYLORI
L’Helicobacter Pylori è un batterio acido-intollerante in grado di
sopravvivere nel muco gastrico, stazionando a livello della superficie della
mucosa o delle pieghe delle cripte. Difatti l’infezione interessa lo stomaco,
sebbene possano essere presenti anche infezioni esofagee e duodenali in aree
ectopiche di mucosa gastrica. Tra i fattori di virulenza del batterio si
annoverano:
La presenza di un flagello che permette al batterio di spostarsi
all’interno del muco gastrico.
La presenza di adesine che permettono al batterio di aderire saldamente
alla superficie gastrica.
La produzione di ureasi, un enzima in grado di scindere l’urea
endogena in ammoniaca ed anidride carbonica, aumentando localmente
il pH grazie all’azione tamponante dell’ammoniaca che si ionizza a
ione ammonio. La reazione catalizzata dall’ureasi può essere sfruttata
per l’esecuzione di un esame di screening, il test del respiro (breath
test), in grado di rilevare l’emissione di anidride carbonica
radiomarcata.
La secrezione delle tossine CagA e VacA che si associano ad un
aumentato rischio di sviluppo di carcinoma gastrico ed ulcera peptica e
permettono un ulteriore suddivisione di Helicobacter Pylori in ceppi.
La modalità di trasmissione è di tipo oro-fecale e ciò rende l’infezione
piuttosto frequente nelle comunità chiuse e a scarso livello socio-economico,
indipendentemente dalla fascia d’età, tant’è che spesso all’interno di una
stessa famiglia si ritrovano diversi focolai infettivi.
La diagnosi di gastrite cronica di tipo B si basa sull’esecuzione di indagini
non invasive ed invasive, che trovano giustificazione sulla base di un sospetto
fondato di infezione di Helicobacter Pylori. Il primo aspetto da valutare
riguarda la presenza di sintomi aspecifici (come nausea e pirosi) che possano
far pensare ad una possibile infezione di Helicobacter Pylori o ad una
pregressa storia di infezione da parte del suddetto batterio.
Un primo test di screening eseguibile è il test del respiro (breath test), che
tuttavia non è né specifico né sensibile, e si basa sul metabolismo stesso del
patogeno e nello specifico sulla reazione catalizzata dall’ureasi. Il paziente
ingerisce urea radiomarcata che, in caso di infezione, potrà essere
metabolizzata ad ammoniaca ed anidride carbonica. Quest’ultima diffonderà
nei capillari ematici per essere successivamente espulsa tramite la
respirazione. La rilevazione di anidride carbonica radiomarcata e dunque
proveniente dall’urea esogena ingerita potrà confermare la presenza del
batterio. La ricerca degli antigeni fecali può essere utile nel monitorare
l’efficacia terapeutica nel caso in cui questi siano già presenti all’esordio
dell’infezione, in quanto non in tutti i pazienti infetti da Helicobacter Pylori
vi è riscontro di antigeni fecali. Infine è possibile effettuare indagini di tipo
sierologiche volte alla ricerca di anticorpi contro il batterio.
La metodica di riferimento per la diagnosi di gastrite cronica di tipo B rimane
in ogni caso la biopsia, che deve essere sempre effettuata nel sospetto di
gastrite cronica. L’indagine istologica permette di visualizzare direttamente la
presenza del batterio, valutare l’entità del danno gastrico e l’eventuale
presenza di displasie, lesioni neoplastiche e linfomatose. La gastrite cronica
di tipo B si caratterizza per la presenza di infiltrato infiammatorio cronico con
presenza di plasmacellule e granulociti neutrofili nella lamina propria e
quest’ultimi talora possono ritrovarsi intercalati tra le cellule epiteliali.
L’aspetto tipico della gastrite cronica da Helicobacter Pylori è la presenza di
un infiltrato di neutrofili intraepiteliali e plasmacellule sottoepiteliali. A
volte i granulociti neutrofili possono accumularsi nelle foveole gastriche
determinando veri e propri ascessi foveolari. L’entità dell’infiltrato
granulocitario può inoltre fornire informazioni circa lo stato della malattia:
durante le fasi di replicazione batterica ed in presenza di ceppi
particolarmente virulenti, si osserverà la presenza di una più intensa attività
granulocitaria. Talora si possono osservare aggregati di tessuto linfoide ed
alcuni follicoli secondari con centro germinativo, reperti legati ad una
continua stimolazione antigenica del MALT, dovuta all’infezione cronica
persistente. L’eradicazione dell’infezione determina il venire meno dello
stimolo proliferativo con risoluzione della condizione di iperplasia delle
cellule B. Il persistere dell’infezione in associazione alla presenza di
aggregati di tessuto linfoide può potenzialmente determinare lo sviluppo di
un linfoma a carico del MALT. Nella pangastrite, così come nella gastrite
cronica di tipo A, si può osservare rarefazione ed atrofia ghiandolare con
ipocloridria che determina, tramite un meccanismo a feedback, iperplasia
delle cellule G neuroendocrine, condizione che predispone allo sviluppo del
carcinoide. Talora si può osservare anche displasia epiteliale che può
progredire fino alla condizione di carcinoma in situ (sebbene a livello
gastrico non si utilizzi il termine di carcinoma in situ), difatti la displasia ad
alto grado costituisce una lesione pre-cancerosa. Un altro reperto che può
essere osservato è la metaplasia intestinale, una lesione pre-cancerosa in cui
si ha sostituzione dell’epitelio maturo tipico dello stomaco con quello
intestinale, più adatto al nuovo microambiente gastrico. La metaplasia
intestinale si caratterizza per la presenza di cellule mucipare caliciformi che
producono un muco acido che ostacola l’insediamento del batterio; talora si
possono riscontrare anche cellule del Paneth, che secernono enzimi ad azione
antimicrobica.

Figura 27, metaplasia intestinale in corso di gastrite cronica. Si noti la presenza di cellule caliciformi
intercalate tra cellule epiteliali assorbenti. E’ inoltre apprezzabile il tipico orletto a spazzola di
comune riscontro nell’intestino tenue. Per gentile concessione di Patho (CC BY-SA 3.0).

La metaplasia intestinale può essere classificata come completa o incompleta:


si definisce completa quando vi è una trasformazione di fatto della mucosa
dello stomaco in mucosa del piccolo intestino, con presenza di cellule
caliciformi mucipare, cellule assorbenti (con il tipico orletto a spazzola) e
talora cellule del Paneth; si definisce incompleta quando vi è una
trasformazione della mucosa dello stomaco in mucosa tipica del grande
intestino, con presenza di colonociti, cellule caliciformi mucipare ed assenza
di cellule assorbenti (e quindi del tipico orletto a spazzola).
Tra le colorazioni più utilizzate per visualizzare direttamente il batterio vi
sono la colorazione di Warthin-Starry e la colorazione di Giemsa. La
colorazione di Warthin-Starry è un’impregnazione argentica che colora il
microrganismo in nero, mentre il metodo di Giemsa è una colorazione
differenziale che colora il batterio in blu, in entrambi i casi risulta evidente la
presenza del batterio a livello della superficie della mucosa gastrica.
Figura 28, colorazione di Warthin-Starry, si noti la presenza di bastoncelli colorati in nero a livello
della superficie della mucosa gastrica. Risulta evidente la presenza di Helicobater Pylori a livello dello
strato di muco che riveste la superficie gastrica. Per gentile concessione di Yutaka Tsutsumi.

Il persistere dell’infezione si associa ad un aumentato rischio di sviluppo di


ulcera peptica, carcinoma gastrico di tipo intestinale e linfoma, per questi
motivi, oltre che per le manifestazioni legate alla gastrite cronica in sé, risulta
fondamentale eradicare completamente l’infezione. Il primo approccio
terapeutico riguarda la somministrazione di inibitori di pompa protonica, che
risultano utili nel trattamento sintomatico pur non risolvendo l’infezione.
Innanzitutto deve essere sempre effettuata una biopsia gastrica in quanto
serve a confermare la diagnosi e ad impostare il trattamento antibiotico
adeguato. Gli antibiotici maggiormente utilizzati per il trattamento delle
infezioni da Helicobacter Pylori sono claritromicina ed amoxicillina, tuttavia
sono insorti ceppi resistenti che si manifestano in circa il dei pazienti
trattati e soprattutto quelli in età pediatrica. La resistenza è legata a mutazioni
dei geni che codificano per gli RNA ribosomiali e che determinano
l’incapacità dell’antibiotico di legarsi al ribosoma ed arrestare la sintesi
proteica del batterio. Poiché Helicobacter Pylori è un batterio che cresce
difficilmente nei normali terreni di coltura, con conseguente impossibilità di
eseguire un antibiogramma, l’antibiotico resistenza viene indagata tramite
metodica FISH o PCR. Nella FISH si utilizzano due sonde di colore diverso,
ad esempio verde per il gene wild-type (non mutato) e rosso per il gene
mutato, e a seconda della fluorescenza rilevata sarà possibile determinare la
presenza o meno di resistenza: la rilevazione della sola fluorescenza verde
indica l’assenza di geni mutati; la rilevazione della sola fluorescenza rossa
indica la presenza di geni mutati; la rilevazione di una fluorescenza di colore
giallo indica la presenza di ceppi sensibili frammisti a ceppi antibiotico-
resistenti. Nella PCR si ricerca la mutazione tramite indagine molecolare,
andando a valutare i geni che codificano per gli RNA ribosomiali. Entrambe
le tecniche possono essere condotte su materiale incluso in paraffina.
L’efficacia della terapia viene valutata a distanza sia dal punto vista clinico,
in relazione al persistere o meno dei sintomi, che dal punto di vista
laboratoristico, con ricerca degli antigeni fecali e test del respiro. L’eventuale
persistere dei sintomi o l’evidenza del persistere dell’infezione può richiedere
una nuova esecuzione della biopsia per ricercare eventuali altre complicanze.
M ALATTIA PEPTICA ULCEROSA
La malattia peptica ulcerosa consiste in una perdita di tessuto a carico dello
stomaco (ulcera gastrica) o del duodeno (ulcera duodenale). Nell’ulcera
peptica si ha la formazione di una soluzione di continuo, dovuta alla perdita
di mucosa e muscularis mucosae, che espone la sottomucosa all’ambiente
luminale, mentre con il termine di erosione si intende più propriamente una
lesione superficiale con soluzione di continuo dovuta alla sola perdita della
sola mucosa. L’ulcera peptica in genera si localizza più frequentemente a
livello dell’antro gastrico, della prima porzione di duodeno e piccola
curvatura dello stomaco; più raramente interessa il fondo e la grande
curvatura. Talora l’ulcera peptica può insorgere anche in sede esofagea, in
seguito a malattia da reflusso gastroesofageo o presenza di mucosa gastrica
ectopica. Ad eccezione del duodeno, le sedi interessate coincidono con la
localizzazione del carcinoma gastrico; nonostante tale sovrapposizione,
l’ulcera peptica non rappresenta una lesione pre-cancerosa e non rientra nella
storia evolutiva del carcinoma gastrico, di conseguenza non vi è alcun nesso
di causalità. Il fattore di rischio più importante per lo sviluppo dell’ulcera
peptica è costituito dalla gastrite cronica di tipo B (che si caratterizza per una
condizione di ipercloridria) indotta dall’infezione cronica da Helicobacter
Pylori. All’incirca il dei pazienti con storia di malattia peptica
ulcerosa presenta infezione da parte di tale batterio.
I meccanismi patogenetici alla base dello sviluppo della malattia peptica
ulcerosa riguardano le stesse alterazioni dell’equilibro tra i meccanismi di
difesa e gli agenti lesivi presenti nel contesto della gastrite cronica. Per tali
motivi, nella stragrande maggioranza dei casi l’ulcera peptica si sviluppa in
contesto di gastrite cronica. Risulta meno chiaro invece perché alcuni soggetti
sviluppino solamente gastrite cronica mentre altri anche ulcera peptica. Come
detto in precedenza, il fattore di rischio più importante è costituito
dall’infezione di Helicobacter Pylori, presente nel dei paziente con
ulcera duodenale e nel circa dei pazienti con ulcera gastrica. Helicobacter
Pylori concorre allo sviluppo della gastrite cronica di tipo B e dell’ulcera
peptica attraverso meccanismi differenti: determina direttamente danno a
livello della mucosa per mezzo di tossine, indirettamente attraverso l’azione
dello ione ammonio e lo stimolo pro-flogistico e favorendo l’azione
dell’acido cloridrico e pepsina. Inoltre è stata osservata una correlazione tra
l’infezione del ceppo di Helicobacter Pylori CagA e lo sviluppo di ulcera
pepetica, in quanto si ritiene che la tossina CagA prodotta abbia una spiccata
antigenicità e dia luogo ad intensi processi infiammatori. Altri fattori di
rischio importanti riguardano il tabagismo, il consumo di sostanze alcoliche,
l’ipercloridria, ipergastrinemia, l’abuso di FANS, l’uso prolungato di
corticosteroidi, la ridotta vascolarizzazione delle lesioni in via di guarigione
ed aumento della velocità di svuotamento gastrico.
Dal punto di vista morfologico, appaiono come lesioni singole, non rilevate, a
margini netti, con il margine mucoso sul bordo dell’ulcera in piano con la
mucosa circostante e di diametro inferiore ai cm. Il fondo è libero, privo di
essudato, in quanto qualsiasi sostanza depositata viene rapidamente digerita
dal succo gastrico, emorragico o fibroso-cicatriziale e talora si possono
persino apprezzare i vasi ematici. La lesione è circondata da pliche gastriche
che si irradiano a raggiera. In particolari situazioni, come nel contesto della
sindrome di Zollinger-Ellison possono manifestarsi multiple ulcere peptiche
sostenute da una condizione di ipergastrinemia ed ipercloridria. E’ importante
sottolineare l’aspetto differente di ulcera peptica e carcinoma gastrico
ulcerato che invece appare come una lesione a bordi irregolari, con il margine
mucoso sul bordo della lesione rilevato e di dimensioni maggiori rispetto
all’ulcera peptica. In presenza di casi dubbi è possibile effettuare una biopsia
nelle zone periferiche dell’ulcera, per valutare le caratteristiche istologiche
della lesione (infiammatorie con processi di guarigione in atto, neoplastiche).
La biopsia si effettua nella zona dei margini della lesione e non al centro
perché, se condotta a tale livello, evidenzierebbe solamente la presenza di
aree di necrosi con tessuto di granulazione. All’aspetto microscopico, la
lesione presenta, procedendo dalla superficie in profondità, una zona di
essudazione, zona di necrosi, tessuto di granulazione con infiltrato
infiammatorio ed infine una zona di fibrosi cicatriziale. Le aree di mucosa
intorno alla lesione possono presentare aspetti di rigenerazione, talora
irregolarità nucleare e perdita dello strato di muco, elementi che potrebbero
far pensare ad una neoplasia, tuttavia bisogna considerare la presenza di
eventuali aree di metaplasia intestinale, di Helicobacter Pylori e l’infiltrato
infiammatorio che indirizzano verso una diagnosi di ulcera peptica.
COMPLICANZE
Il persistere della malattia peptica ulcerosa può determinare l’insorgenza di
diverse complicanze: anemia sideropenica legata allo stillicidio ematico per il
continuo sanguinamento della ferita; emorragia da rottura di un vaso
arterioso, nel caso in cui la necrosi penetri in profondità nella parete gastrica;
perforazione dell’ulcera (soprattutto duodenale e della parete anteriore dello
stomaco), evento alquanto raro e potenzialmente fatale, che determina la
fuoriuscita di chimo nella cavità peritoneale con conseguente peritonite
chimica (saccata o diffusa); penetrazione dell’ulcera in organi parenchimatosi
per contiguità, ad esempio nell’ulcera duodenale o pilorica vi può essere
interessamento del pancreas con conseguente pancreatite acuta; occlusione
gastrica o duodenale in seguito a formazione di una stenosi cicatriziale o per
la presenza di tessuto edematoso come esito delle guarigione, in particolare a
livello di piloro e cardias, aree di restringimento fisiologico.
MALASSORBIMENTO
Con il termine malassorbimento si intende una condizione caratterizzata da
un alterato assorbimento di micronutrienti (vitamine, minerali, carboidrati,
lipidi, proteine e talora anche acqua) legato a patologie che coinvolgono il
piccolo intestino, ovvero la porzione di intestino dove avviene la stragrande
maggioranza dei fisiologici processi di assorbimento. Il segno distintivo del
malassorbimento è la steatorrea, a cui si possono accompagnare anoressia,
calo ponderale, meteorismo e diminuzione della massa muscolare. Le
patologie che sottendono tale condizione possono essere primitive del piccolo
intestino (ad esempio la celiachia) o secondarie ad altre patologie (ad
esempio pancreatite cronica, fibrosi cistica, morbo di Chron), e possono
intaccare qualunque fase del processo digestivo (digestione intraluminale e
terminale), di assorbimento e trasporto delle sostanze assorbite. La digestione
intraluminale riguarda la digestione delle macromolecole (zuccheri
complessi, lipidi, proteine) in molecole più semplici all’interno del lume; la
digestione terminale riguarda i processi di digestione degli zuccheri e dei
peptidi che avvengono a livello dell’orletto a spazzola del piccolo intestino; il
trasporto transepiteliale riguarda il trasporto di nutrienti, liquidi ed elettroliti
attraverso il le cellule epiteliali e la loro successiva trasformazione; il
trasporto linfatico riguarda il passaggio dei lipidi assorbiti verso il vaso
chilifero e quindi nel circolo linfatico.
Le patologie con malassorbimento possono riguardare uno o più
micronutrienti e, come descritto precedentemente, si presentano con
manifestazioni di carattere generale e segni e sintomi tipici del deficit
specifico, determinando globalmente un quadro sindromico. Le
manifestazioni comuni riguardano la comparsa di diarrea cronica, dolore
addominale, calo ponderale, amenorrea, riduzione della massa muscolare;
mentre manifestazioni più fini riguardano ad esempio l’anemia
megaloblastica nel deficit di folati e B12 e quella microcitica nella carenza
marziale, la neuropatia periferica nel deficit di vitamina A e B12,
l’osteopenia e la tetenia nel deficit di calcio, magnesia e vitamina D. Inoltre il
quadro di presentazione può differire nell’adulto e nel bambino.
CELIACHIA
La celiachia è la patologia più importante, dal punto di vista epidemiologico,
per il malassorbimento e si caratterizza per la presenza di danno a livello
della mucosa del piccolo intestino, con progressivo ed ingravescente
assottigliamento dei villi intestinali. La celiachia è una enteropatia immuno-
mediata scatenata dall’ingestione di cereali contenenti glutine. Il quadro
clinico ed istologico migliorano dopo la sospensione di tale composto dalla
dieta. Nei bambini la malattia si manifesta con dolore addominale, diarrea
cronica, calo ponderale, perdita di tono muscolare e ritardo nella crescita;
nell’adulto il quadro è più sfumato, il segno più frequente di malattia è il
riscontro di un’anemia di nuova insorgenza accompagnata talora da diarrea
cronica, meteorismo e facile faticabilità. Possono essere presenti anche
sintomi extra-intestinali come artralgie, artrite, stomatiti aftose, osteoporosi,
anemia sideropenica ed infertilità. Gli individui affetti da celiachia presentano
un maggiore rischio di sviluppo di linfoma a cellule T associato ad
enteropatia ed adenocarcinoma dell’intestino tenue. L’eliminazione dalla
dieta di cibi contenenti il glutine determina un miglioramento sia dei sintomi
che del quadro istologico e costituisce l’unica terapia attualmente disponibile.
La celiachia è una malattia legata ad una impropria risposta dei linfociti T a
stimoli ambientali in soggetti predisposti geneticamente. Nella patogenesi
della malattia sembrano avere un ruolo critico alcune proteine HLA di classe
II, in particolare quelle codificate dalle forme alleliche HLA-DQ2 ed HLA-
DQ8, in quanto risultano presenti in quasi tutti gli affetti dal morbo celiaco. Il
fattore ambientale precipitante è l’esposizione al glutine, una proteina
contenuta in numerosi cereali. I linfociti T reagiscono nei confronti della
gliadina, una componente proteica del glutine che contiene la maggior parte
dei residui peptidici responsabili della malattia. La digestione intraluminale e
terminale del glutine porta alla formazione di diversi amminoacidi e peptidi
gliadinici. In risposta alla presenza di alcuni peptidi gliadinici, gli enterociti
esprimono IL-15 che a sua volta promuove il reclutamento dei linfociti T
CD8+ dalla lamina propria in sede intraepiteliale e la loro attivazione con
espressione del recettore NKG2D. Inoltre alcuni enterociti esprimono anche
MIC-A, una molecola di superficie simile alla HLA di classe I espressa in
risposta allo stress cellulare. Le cellule T citotossiche intraepiteliali
riconoscono ed aggrediscono gli enterociti che esprimono MIC-A grazie al
legame con il recettore NKG2D. Il danno alla barriera epiteliale favorisce
l’ulteriore passaggio di altri peptidi gliadinici che vengono deaminati dalla
transglutaminasi. I peptidi gliadicini deaminati vengono successivamente
captati dalle cellule presentati l’antigene (APC) e presentati su HLA-DQ2 o
HLA-DQ8 ai linfociti T CD4+. Quest’ultimi, una volta attivati, sono in grado
di promuovere la secrezione di citochine che contribuiscono all’ulteriore
danno epiteliale.
L’iter diagnostico prevede dapprima l’esecuzione di indagini sierologiche
non invasive volte alla ricerca di anticorpi specifici. Gli anticorpi a maggiore
sensibilità sono le IgA anti-transglutaminasi e le IgA o IgG anti-gliadina
deaminata. Gli anticorpi anti-endomisio sono più specifici ma meno sensibili
rispetto agli altri. Il deficit di IgA è un fattore confondente che spesso è
presente nel contesto del morbo celiaco e deve essere tenuto in
considerazione in caso di test IgA negativo. La tipizzazione di HLA può
essere utile in quanto l’assenza di HLA-DQ2 e HLA-DQ8 ha un alto valore
predittivo negativo, ma la loro presenza non è comunque sufficiente a
confermare la diagnosi. La conferma diagnostica si ha tramite l’esecuzione di
una biopsia intestinale. In genere viene eseguita una prima biopsia
endoscopica intestinale, volta a valutare il quadro istologico, a cui segue un
periodo di sospensione del glutine dalla dieta ed una seconda biopsia a
distanza di tempo, necessaria a valutare l’evoluzione del quadro istologico
(oltre che sintomatologico) in assenza di esposizione al glutine. Il campione
bioptico (si veda Biopsia endoscopica intestinale) può essere colorato tramite
una colorazione istologica normale (ematossilina ed eosina), una colorazione
istochimica (Alcian/PAS) ed immunoistochimica. Quest’ultima è una
colorazione specifica in quanto permette di evidenziare, tramite l’utilizzo di
anticorpi diretti contro il CD3, un biomarcatore dei linfociti T, la densità e la
distribuzione dei linfociti. In un paziente affetto da celiachia il riscontro
tipico è un assottigliamento della mucosa duodenale con infiltrato
intraepiteliale di linfociti T, in particolare si caratterizza per:
Conta dei linfociti intraepiteliali (IEL) superiore a per enterociti,
con una distribuzione maggiore all’apice rispetto alla base del villo, sia
in ematossilina ed eosina che in immunoistochimica per CD3.
Riduzione dell’altezza degli enterociti, con presenza di vacuoli
citoplasmatici e scomparsa dell’orletto a spazzola.
Iperplasia criptica con aumento della profondità della cripta e del
numero di mitosi per cripta.
Atrofia dei villi con inversione del rapporto villo/cripta, causato dalla
distruzione degli enterociti in numero superiore rispetto alle cellule
proliferanti nella cripta.
L’iperplasia criptica e l’atrofia dei villi con inversione del rapporto
villo/cripta sono elementi patognomonici della celiachia.
CLASSIFICAZIONE DI MARSH-OBERHUBER
La classificazione di Marsh è una classificazione anatomopatologica di
danno della mucosa intestinale basata sulla conta dei linfociti intraepiteliali,
sull’iperplasia criptica e sull’atrofia dei villi con inversione del rapporto
villo/cripta, che identifica tipi di lesione:
Lesione di tipo o infiltrativa, caratterizzata da una normale
architettura con rapporto villo/cripta conservato ed aumento isolato del
numero dei linfociti intraepiteliali.
Lesione di tipo o iperplastica, caratterizzata da una normale
architettura dei villi intestinali, da un numero di linfociti intraepiteliali
normali e da iperplasia degli elementi ghiandolari.
Lesione di tipo o distruttiva, caratterizzata da atrofia dei villi,
iperplasia delle cripte ghiandolari ed aumento del numero dei linfociti
intraepiteliali.
Lesione di tipo o atrofiche, caratterizzata da atrofia dei villi,
appiattimento della mucosa in assenza di iperplasia delle cripte
ghiandolari.
Nella pratica clinica la lesione tipo non è patognomonica di celiachia, ma
può permettere la diagnosi se compare in associazione ad un quadro clinico
suggestivo ed uno sierologico positivo. La classificazione di Marsh è stata
rivisitata successivamente da Oberhuber (da cui la classificazione di Marsh-
Oberhuber) che ha proposto la suddivisione della lesione di tipo in
(atrofia dei villi di grado lieve), (atrofia dei villi di grado moderato) e
(atrofia totale dei villi).
CLASSIFICAZIONE DI CORAZZA-VILLANACCI
La classificazione di Corazza-Villanacci è una più recente classificazione
che prevede la suddivisione delle lesioni in due gradi, sulla base della
presenza o meno di atrofia dei villi:
Grado A (lesione non atrofica), che comprende le lesioni di tipo e ,
ovvero un riscontro di solo aumento della conta dei linfociti
intraepiteliali.
Grado B (lesione atrofica), che comprende le lesioni e ,
caratterizzata dalla presenza di mucosa atrofica. Viene suddivisa in B1,
con atrofia parziale dei villi intestinali e rapporto villo/cripta inferiore a
, e B2, con atrofia completa dei villi intestinali.
Inoltre il cut-off dell’IEL è stato ridotto a ogni enterociti (anziché
). In ogni caso, in presenza di atrofia dei villi unitamente a un IEL aumentato
( ) le tre classificazioni oggi conosciute e validate (Marsh, Marsh-
Oberhuber e Corazza-Villanacci) depongono tutte verso la diagnosi di
celiachia.
M ALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI (IBD)
Le malattie infiammatorie intestinali sono patologie infiammatorie
croniche legate ad una inappropriata attivazione del sistema immunitario. Le
più importanti sono il morbo di Chron e la rettocolite ulcerosa che si
distinguono in base alle sedi coinvolte ed all’espressione morfologica della
malattia.
Le IBD si presentano clinicamente con fasi di acuzie, caratterizzate da dolore
addominale, diarrea intermittente talvolta ematica e febbre, intervallate da
fasi asintomatiche. A tali manifestazioni si possono associare anche
complicanze legate al malassorbimento, come forme di anemia, ed occlusione
intestinale per esiti cicatriziali. Sono talora presenti anche manifestazioni
extra-intestinali come artrite, sacroileite, spondiloartriti sieronegative, lesioni
cutanee, pericolangite e colangite. La patogenesi delle IBD è ancora poco
chiara, risulta comunque evidente il ruolo del sistema immunitario
nell’originare il danno tissutale. Sono malattie a genesi multifattoriale che in
soggetti predisposti, in risposta alla presenza di un microbiota particolare, si
manifestano come reazioni infiammatorie aberranti. Nonostante risulti
cruciale l’azione del sistema immunitario e nonostante talora si associno a
malattie autoimmuni (ad esempio la spondilite anchilosante), le IBD non
sono annoverate tra le malattia autoimmuni.
L’approccio terapeutico è farmacologico e si basa sulla somministrazione di
farmaci in grado di indurre remissione della malattia e prevenire le fasi di
acuzie. In genere vengono utilizzati FANS (es. mesalazina), antibiotici (es.
sulfasalazina, metronidazolo), cortisone, immunosoppressori (es. azatioprina)
e farmaci biologici di nuova generazione, come gli anticorpi anti-TNF. Nei
casi più gravi è richiesto l’intervento chirurgico, come asportazioni di tratti di
intestino con stenosi cicatriziali (soprattutto nel Chron) o colectomia (nella
rettocolite ulcerosa).
La più temibile complicanza a lungo termine delle IBD riguarda lo sviluppo
di una neoplasia. Il rischio aumenta in relazione a diversi fattori: durata della
malattia, frequenza delle riacutizzazioni, intensità del processo infiammatorio
e aree coinvolte. Nelle IBD le aree di displasia insorgono generalmente su
una mucosa piatte e non poliposica e non vengono riconosciute
macroscopicamente come aree di alterazione tissutale. Per questi motivi, si
utilizzano sempre più tecniche di imaging endoscopico avanzate nel tentativo
di intercettare precocemente le aree displastiche; a ciò si aggiunge anche la
ricerca di marcatori di displasia nel tessuto non displastico, come ad esempio
l’instabilità genomica nella mucosa rettale; tuttavia la migliore tecnica rimane
ancora il monitoraggio bioptico su campioni casuali di mucosa (per l’assenza
di equivalenti macroscopici). La displasia ad alto grado può evolvere in un
carcinoma infiltrante caratterizzato dall’unifocalità, dall’assenza di rilievi
macroscopici caratteristici (talora si può apprezzare la sola presenza di
placche), dall’instabilità dei microsatelliti e per essere infiltrante già al suo
esordio.
MORBO DI CHRON
Il morbo di Chron è una malattia sistemica che può interessare
potenzialmente qualsiasi regione del tratto gastrointestinale. Le sedi più
frequentemente interessate sono l’ileo terminale (e spesso la malattia
esordisce proprio come una ileite terminale), la valvola ileo-ciecale, il cieco,
la regione ano-rettale e il colon destro. La malattia interessa l’intero spessore
della parete intestinale (transmurale) ed tratti non contigui di intestino,
ovvero presenta un pattern segmentario, con zone di affezione intervallate ad
aree indenni. La presenza di lesioni “a salto” è una caratteristica peculiare del
morbo di Chron e può risultare utile nella diagnosi differenziale con la
rettocolite ulcerosa.
Il morbo di Chron è una malattia relativamente rara, in Europa ha
un’incidenza annua di circa nuovi casi ogni abitanti e presenta una
curva bimodale, con il primo picco tra i anni ed il secondo tra i
anni. E’ più frequente nei paesi occidentali e nel sesso femminile. E’ una
malattia a genesi multifattoriale con particolare rilevanza per quanto riguarda
i fattori genetici, il microbiota, l’alimentazione ed il sistema immunitario.
Nella patogenesi del Chron sembrano avere un ruolo importante alcune
isoforme della proteina NOD2, un pattern recognition receptor (PRR)
coinvolto nella modulazione dell’immunità innata, e di alcune proteine
coinvolte nei processi di autofagia necessari per la clearance batterica e
l’omeostasi epiteliale. In particolare sono stati avanzate ipotesi circa la
presenza di isoforme di NOD2 meno efficaci nel riconoscere i microbi
intestinali che, una volta penetrati nella lamina propria, sarebbero
responsabili degli importanti processi infiammatori alla base della malattia.
Per quanto riguarda il sistema immunitario, sembra avere un ruolo molto
importante la presenza di linfociti T polarizzati in senso TH1 e TH17, mentre
hanno un ruolo protettivo alcune pleiomorfismi del recettore per IL-23, una
interleuchina coinvolta nella modulazione della popolazione TH17. Sono state
osservate anche disfunzioni epiteliali che potrebbero avere un ruolo nella
patogenesi della malattia e riguardano alterazioni nei sistemi proteici che
costituiscono le giunzioni occludenti, dei sistemi trasporto di cationi organici,
delle difensine contenute nei granuli delle cellule di Paneth e nelle mucine
che costituiscono il film mucoso che riveste la superficie epiteliale. Un ruolo
sicuramente importante ed ancora poco definito riguarda il microbiota
intestinale che sembra essere sempre più coinvolto nella patogenesi della
malattia.
Dal punto di vista macroscopico, la lesione iniziale del morbo di Chron è
costituita dall’ulcera aftosa, una lesione a stampo, a bordi netti, che può
svilupparsi in maniera multifocale e confluire a formare grandi ulcere
serpiginose, fissuriformi, allungate, penetranti nella parete ed orientate lungo
l’asse maggiore del viscere. La mucosa è solitamente edematosa ed assume
un aspetto ad acciottolato, in quanto le ulcere si sviluppano tra aree di
mucosa sana che appaiono rilevate rispetto alle lesioni. Talvolta le lesioni
possono estendersi così in profondità da formare vere e proprie fissurazioni,
responsabili di tratti fistolosi o sedi di perforazione. Il processo
infiammatorio alla base del morbo di Chron interessa tutta la parete del
viscere e di conseguenza, nelle aree di affezione, la mucosa è edematosa, la
sottomucosa fibrotica e la muscolare propria ipertrofica, tutti questi fattori
congiunti esitano spesso in aree di stenosi, che si intervallano a segmenti di
intestino normale. Dal punto di vista microscopico, il morbo di Chron si
caratterizza per l’importante infiltrato infiammatorio, prevalentemente
granulocitario ed eosinofilo, che interessa tutto lo spessore della parete
intestinale. Il processo flogistico nel contesto della malattia di Chron è di
entità minore rispetto alla rettocolite ulcerosa ed inoltre solo raramente
l’infiltrato granulocitario esita in criptite ed ascessi criptici. I continui
processi distruttivi e riparativi alterano l’architettura della mucosa, con
formazione di cripte intestinali ramificate ed orientate in maniera anomala. A
differenza della rettocolite ulcerosa, la mucosecrezione è conservata. Al
danno epiteliale cronico si associa spesso l’insorgenza di metaplasia
epiteliale, frequentemente caratterizzata in tale sede dalla comparsa di
strutture ghiandole simili alle ghiandole antrali gastriche e per questo definita
metaplasia pseudopilorica. In alcuni casi si può osservare a livello colico
metaplasia a cellule di Paneth, dove normalmente le cellule di Paneth sono
assenti. Nel % dei casi si osserva la presenza di granulomi epiteliodi
non necrotizzanti sia nelle sedi di malattia attiva che in regioni indenni e a
qualche livello dello spessore della parete, talora persino nei linfonodi
mesenterici e livello cutaneo (malattia di Chron metastatica). La presenza dei
granulomi epiteliodi non necrotizzanti indirizza particolarmente verso la
diagnosi di Chron, permettondo di escludere altre cause infiammatorie (TBC,
micobatteriosi) che si caratterizzano invece per la presenza di granulomi
epiteliodi necrotizzanti. La recrudescenza dei processi flogistici porta
progressivamente alla comparsa di una mucosa dall’architettura sovvertita,
metaplasia e con atrofia delle cripte intestinali.
Dal punto di vista clinico si caratterizza per la presenza di periodi di
recrudescenza con dolore addominale, diarrea intermittente, diarrea ematica e
febbre, a cui seguono fasi asintomatiche. Il morbo di Chron è una causa
secondaria di malassorbimento e si associa a carenza marziale nei casi
d’interessa colico; deficit generale di sostante nutritive e vitamine e
dispersione delle proteine sieriche soprattutto se è interessato il tenue. Per
questo motivo, si associa spesso a forme di anemia, astenia, perdita di peso e
perdita di tono muscolare. L’infiammazione può determinare la formazione,
prevalentemente a livello dell’ileo terminale, di cicatrici fibrotiche stenosanti
che richiedono una asportazione chirurgica. Le fissurazioni ulcerose possono
determinare la formazione di tratti fistolosi tra le anse intestinali, con la
vescica, la vagina e la cute addominale e perianale. A differenza della
rettocolite ulcerosa, la fissurazione della parete intestinale esita raramente
nella perforazione, in quanto si sviluppa in maniera progressiva e lentamente;
l’infiammazione a carico della sierosa, con presenza di depositi di fibrina,
può determinare la formazione di sinechie di adesione tra le sierose dei
diversi visceri, permettendo la formazione dei tratti fistolosi. Sono presenti
anche manifestazioni extra-intestinali, quali artrite, artralgie e spondiloartriti
sieronegative (ad esempio la spondilite anchilosante).
R E T TO C O L I T E ULCEROSA
La rettocolite ulcerosa è una malattia infiammatoria cronica dell’intestino
simile al morbo di Chron, ma che si esprime diversamente dal punto di vista
morfologico e delle aree interessate. La malattia interessa in genere il solo
intestino crasso e si sviluppa inizialmente a livello del retto per propagarsi
fino al trasverso, raramente progredisce fino ad interessare la valvola ileo-
ciecale. A differenza del morbo di Chron, la malattia si sviluppa in maniera
contigua e non interessa tutta la parete dell’intestino ma solamente la mucosa
e sottomucosa. La rettocolite ulcerosa esordisce in genere attorno ai anni,
pur essendo noti casi di insorgenza in età pediatrica e nell’anziano, più
frequente nei paesi occidentali, nel sesso femminile e tra i non fumatori.
Presenta una incidenza negli Stati Uniti di circa nuovi casi ogni
abitanti.
Come già discusso per il morbo di Chron, nella patogenesi della rettocolite
ulcerosa sembrano avere un ruolo importante alcune isoforme di PRR (come
NOD2) e di proteine coinvolte nei processi di autofagia necessari per la
clearance batterica e l’omeostasi epiteliale. Alcuni dati suggeriscono un ruolo
dei linfociti T polarizzati in senso TH2 nella patogenesi della malattia. I
linfociti TH2 producono IL-13 che risulta coinvolta nell’eliminazione dei
microrganismi o dei loro prodotti a livello degli organi parassitati. Nei
pazienti affetti da rettocolite ulcerosa si osservano aumentati livelli di IL-13
nella mucosa dei pazienti affetti. Tuttavia il ruolo protettivo di alcuni
pleiomorfismi del recettore per IL-23 e l’efficacia di farmaci biologici anti-
TNF sostengono un possibile ruolo dei linfociti TH1 e TH17. Ancora più
recentemente sono stata associate alla malattia alcuni pleiomorfismi di IL-10.
Sono state osservate anche disfunzioni epiteliali che potrebbero avere un
ruolo nella patogenesi della malattia e riguardano alterazioni nei sistemi
proteici che costituiscono le giunzioni occludenti, dei sistemi trasporto di
cationi organici, delle difensine contenute nei granuli delle cellule di Paneth e
nelle mucine che costituiscono il film mucoso che riveste la superficie
epiteliale. Un ruolo sicuramente importante ed ancora poco definito riguarda
il microbiota intestinale che sembra essere sempre più coinvolto nella
patogenesi della malattia.
Dal punto di vista macroscopico, la malattia insorge solitamente a livello del
retto e si propaga in maniera contigua verso i segmenti colici prossimali. A
differenza del morbo di Chron non si osservano lesioni “a salto” e
l’infiammazione non interessa l’intero spessore della parete ma solamente
mucosa e sottomucosa. La rettocolite ulcerosa si caratterizza per la presenza
di ulcere ampie, lineari, non aftoidi che insorgono su una mucosa edematosa
ed arrossata. Le ulcere sono orientate lungo l’asse longitudinale del colon ma
non hanno l’aspetto serpiginoso di quelle del Chron. Frammiste alle ampie
ulcere vi sono aree di mucosa in via di guarigione che formano i cosiddetti
psudopolipi, a differenza dei polipi intestinali (che possiedono un vero e
proprio asse fibrovascolare) non costituiscono lesioni pre-cancerose ma
solamente escrescenze di mucosa. L’atrofia della mucosa può essere una
conseguenza a lungo termine dei processi flogistici a carico della tonaca
mucosa e sottomucosa e si caratterizza per l’appiattimento della superficie
intestinale con scomparsa delle tipiche pliche intestinali. L’infiammazione ed
i mediatori infiammatori possono irritare l’attività neuromuscolare portando a
progressiva perdita dell’attività peristaltica. Dal punto di vista microscopico,
la rettocolite ulcerosa presenta aspetti in comune con il morbo di Chron, si
caratterizza per un infiltrato infiammatorio prevalentemente granulocitario
con processi flogistici di entità maggiore, inoltre questi interessano la
mucosa, più raramente la sottomucosa e mai la muscolare propria.
Raggruppamenti di granulociti sono osservabili a livello delle cripte
intestinali dove determinano criptite ed formazione di ascessi criptici. Difatti
i granulociti neutrofili infiltrano e si raggruppano all’interno delle cripte
(ascessi criptici), dove danneggiano progressivamente la mucosa fino ad
esitare nella distruzione delle cripte intestinali. I continui processi distruttivi e
riparativi alterano l’architettura della mucosa, le cripte intestinali risultano
diradate, presentano aspetti ramificazione ed un orientamento anomalo. Nelle
fasi di recrudescenza è presente mucodeplezione severa che si caratterizza per
l’assenza di granuli di mucina nelle cellule mucosecernenti. Nelle fase di
remissione della malattia l’importante infiltrato infiammatorio granulocitario
viene sostituito da un infiltrato infiammatorio cronico blando e permane una
condizione di atrofia ghiandolare. Al danno epiteliale cronico si associa
spesso l’insorgenza di metaplasia epiteliale, frequentemente caratterizzata in
tale sede dalla comparsa di strutture ghiandole simili alle ghiandole antrali
gastriche e per questo definita metaplasia pseudopilorica. I processi flogisti
possono determinare a lungo termine alterazioni nell’architettura della
mucosa con atrofia e fibrosi della sottomucosa. Possono essere presenti aree
di metaplasia pseudopilorica e a cellule di Paneth. A differenza del morbo di
Chron, la parete intestinale appare assottigliata e di conseguenza non si
osservano aree di stenosi cicatriziali, inoltre la sierosa è indenne da processi
flogistici che possano favorire l’insorgere di sinechie di adesione e
conseguentemente di tratti fistolosi, mentre per le caratteristiche stesse della
malattia (assottigliamento della mucosa e alterazione dell’attività peristaltica)
più facilmente potrà verificarsi una perforazione intestinale. Nella rettocolite
ulcerosa non sono presenti granulomi epiteliodi non necrotizzanti.
Dal punto di vista clinico si caratterizza per la presenza di periodi di
recrudescenza con dolore addominale, diarrea ematica con filamenti mucosi e
crampi addominali che si attenuano con la defecazione, intervallati da fasi
asintomatiche. Talvolta all’esordio i sintomi sono così violenti da risultare
una vera e propria emergenza medica. Tra le complicanze più temibili vi è la
perforazione intestinale, dovuta all’assottigliamento della parete intestinale e
all’imperiosa dilatazione colica. L’infiammazione ed i mediatori
infiammatori determinano difatti atrofia della mucosa con assottigliamento
della parete intestinale ed alterata funzionalità neuromuscolare a cui segue la
perdita dell’attività peristaltica, determinando dilatazione del colon e
megacolon tossico. Quest’ultima è una condizione caratterizzata da
un’improvvisa dilatazione gassosa del colon indipendente da processi
ostruttivi.

Figura 29, la seguente immagine raffigura i diversi pattern di affezione della rettocolite ulcerosa e del
morbo di Chron. Per gentile concessione di RicHard-59 (CC BY-SA 4.0) [Modificata da Crohn's
Disease vs. Ulcerative Colitis.jpg].
D ISTURBI DEL CIRCOLO
La vascolarizzazione intestinale (si veda Vascolarizzazione dell’intestino
tenue e Vascolarizzazione dell’intestino crasso) è ricca di anastomosi che
possono vicariare, più o meno efficacemente, l’occlusione di eventuali rami
arteriosi. A ciò si aggiunge anche il contributo di rami collaterali provenienti
dalla circolazione celiaca, pudenda interna ed iliaca interna, che tuttavia
contribuiscono prevalentemente alla vascolarizzazione dell’intestino dalla
metà del colon trasverso in poi. Il colon discendente è servito inoltre da rami
provenienti da circoli collaterali della parete addominale posteriore che non
interessano invece l’ascendente. Di conseguenza sono presenti zone più
suscettibili di altre ad ischemia, in particolare risultano più a rischio il tenue
ed il crasso fino alla metà del colon trasverso. L’instaurarsi di una lenta
riduzione del flusso ematico è meglio tollerata rispetto ad un evento acuto ed
una compromissione improvvisa di uno dei vasi principali può determinare
all’infarto di diversi metri di intestino. Tuttavia solo raramente l’estensione
dell’infarto corrisponde al territorio servito dal vaso compromesso, proprio
per la presenza di anastomosi e circoli collaterali.
I N FA RTO INTESTINALE
L’infarto intestinale è dipeso da una compromissione del flusso ematico che
può instaurarsi secondo modalità e tempi differenti. Inoltre l’infarto può
essere mucoso (limitato alla tonaca mucosa), intramurale (tonaca mucosa e
sottomucosa) ed transmurale (coinvolge l’intera parete). L’infarto mucoso ed
intramucoso è generalmente causato da una ipoperfusione cronica od acuta,
mentre quello transmurale da una vera e propria occlusione vascolare acuta.
L’occlusione del vaso può essere dovuta a fenomeni embolici (vegetazioni
cardiache, tromboemboli post-infartuali, legati a fibrillazione atriale,
valvulopatie, endocarditi), aneurisma dell’aorta addominale, condizioni di
ipercoagulabilità, aterosclerosi grave dei vasi mesenterici. Dal punto di vista
epidemiologico, i fenomeni embolici interessano maggiormente la
mesenterica superiore, che si diparte dall’aorta addominale ad angolo acuto,
rispetto all’inferiore, che invece si diparte ad angolo retto. L’ipoperfusione
intestinale può essere legata anche ad insufficienza cardiaca, shock e
disidratazione. Più raramente il flusso ematico può essere compresso da
vasculiti come la poliarterite nodosa, la granulomatosi di Wegener e la
porpora di Schönlein-Henoch. Oltre ai fenomeni precedentemente descritti
sono presenti anche fenomeni meccanici: volvoli e intussuscezione. Il
volvolo, che consiste in una torsione dell’intestino lungo l’asse ortogonale
mesenterico, più frequente nell’età pediatrica, può determinare oltre che
occlusione intestinale anche compressione vascolare con infarto intestinale.
L’intussuscezione, che consiste in una invaginazione di un segmento
intestinale all’interno di uno contiguo posto a valle, può progredire verso
l’occlusione intestinale e determinare compressione vascolare con infarto
intestinale. La trombosi venosa mesenterica è una condizione patologica che,
più raramente rispetto alle precedenti descritte, può portare ad ischemia
intestinale e può derivare da ristagno del sangue venose per presenza di
masse addominali, cirrosi, neoplasie e condizioni di ipercoagulabilità.
Il danno ischemico è funzione della gravità e dei tempi in cui insorge la
compromissione vascolare, del vaso interessato e dei distretti da esso serviti.
L’iniziale danno ipossico può determinare di per sé già un certo grado di
danno cellulare, anche se le cellule epiteliali dell’intestino sono relativamente
resistenti alla transitoria deplezione d’ossigeno. Il danno principale sembra
aver luogo in seguito alla riperfusione dell’area ischemica che favorisce lo
sviluppo di radicali liberi, infiltrazione neutrofila, rilascio di mediatori
dell’infiammazione ed espressione di fattori di trascrizione intracellulari
come HIF-1 ed NF-κB.
Dal punto di vista macroscopico, l’infarto intestinale è di tipo emorragico.
L’infarto mucoso ed intramurale si caratterizza per la presenza di lesioni “a
chiazze” anche se è possibile che vi sia un intero segmento contiguo
interessato. La mucosa appare edematosa, rossastra, sanguinolenta con
emorragia luminale e talora ulcerata. Come detto in precedenza, i processi
necrotici e l’emorragia sono confinati alla mucosa e sottomucosa mentre
risultano indenni la tonaca muscolare propria e la sierosa. L’edema può
invece interessare anche la muscolare propria e può essere apprezzato in
superficie come un inspessimento della parete addominale. Nelle fasi iniziale
dell’infarto transmurale la zona infartuata appare congesta ed assume una
colorazione rosso-brunastro. Successivamente la parete diviene edematosa ed
inspessita, nel lume si accumula sangue e muco sanguinolento e talora anche
versamento intraperitoneale sieroematico o purulento, legato
all’infiammazione della sierosa. Dopo alcuni giorni si ha necrosi coagulativa
della muscolare propria con possibile perforazione intestinale. Lo
sfaldamento delle cellule epiteliali costituisce un punto di accesso per i batteri
anaerobi contenuti nel lume intestinale, che possono proliferare ed essere
causa di importanti peritoniti. La sierosa infiammata appare in questo caso
rivestita da un essudato purulento e fibrinoide. Dal punto di vista
microscopico, il quadro istologico varia a seconda che l’infarto sia mucoso,
intramurale e transmurale (le cui caratteristiche sono state descritte in
precedenza). La parate intestinale, con interessamento delle diverse tonache a
seconda del tipo di infarto, risulta infiltrata di emazie, emorragica, con vasi
dilatati e congesti; si apprezzano aree necrotiche, atrofia e sfaldamento delle
cellule epiteliali. In acuto l’infiltrato infiammatorio è assente, ma in seguito
alla riperfusione vengono attirati i neutrofili. Lo sfaldamento dell’epitelio
favorisce la sovrainfezione da parte dei batteri anaerobi che popolano
l’intestino, portando alla cosiddetta gangrena intestinale, una condizione
alquanto seria che può predisporre ad ulcerazione e perforazione della parete.
COLITE ISCHEMICA
La colite ischemica è la forma più comune di ischemia intestinale e risulta
particolarmente frequente nella popolazione anziana. Si manifesta con dolore
addominale, soprattutto post-prandiale quando è richiesto un maggiore
afflusso di sangue al viscere. L’ischemia cronica si sviluppa come
conseguenza di una riduzione del flusso ematico intestinale ed esita in
sofferenza della tonaca mucosa ed infiammazione. A differenza dell’infarto
intestinale, presenta complicanze meno gravi, interessa la sola tonaca
mucosa, l’intestino è colpito in maniera segmentaria ed in genere
limitatamente alla flessura splenica. Dal punto di vista microscopico si
caratterizza per la presenza di aree di necrosi della tonaca mucosa infiltrate di
emazie, cellule infiammatorie e anche tessuto di granulazione. Una
condizione di ischemia cronica si accompagna invece a fibrosi della
sottomucosa con possibile stenosi cicatriziale. L’ischemia è in genere legata a
problemi sistemici come l’ipotensione o più localizzati come la presenza di
placche aterosclerotiche o trombi subocclusivi.
M ALATTIA DI H IRSCHSPRUNG
La malattia di Hirschsprung definita anche megacolon congenito agangliare
è una patologia congenita della motilità intestinale, con assenza della
peristalsi intestinale e tratti di ostruzione dovuti all’assenza dei plessi nervosi
sottomucoso e mioenterico. Si manifesta di solito nel bambino, in maniera
isolata o legata ad altre anomalie dello sviluppo, ed il % di tutti i casi in
bambini affetti dalla sindrome di Down. Talora può presentarsi anche
nell’adulto, in genere perché la malattia è in forma lieve e risulta asintomatica
o paucisintomatica oppure perché evolve lentamente. La malattia di
Hirschsprung deve essere differenziata da tutte quelle patologie che
determinano l’insorgenza di quadri Hirschspunrg-simili, come la displasia
intestinale neuronale di tipo B, ipoganglionosi del colon, ipoplasia delle
cellule nervose e desmosis coli. La terapia è prettamente chirurgica e
comprende l’asportazione del tratto agangliare ed anastomosi del colon
normale col retto.
La malattia è dovuta ad un’alterata migrazione delle cellule della cresta
neurale dal cieco al retto o ad una precoce morte delle cellule gangliari
durante l’embriogenesi. L’alterata migrazione può riguardare il tratto che va
dal cieco al colon in maniera segmentaria od interamente. Ciò provoca la
formazione di un segmento intestinale privo dei plessi nervosi sottomucoso e
mioenterico: ciò determina il venire meno dell’attività peristaltica in quel
segmento con occlusione intestinale ed l’accumulo di materiale a monte del
segmento interessato (con relativa dilatazione colica da cui il nome
megacolon). La dilatazione riguarda dunque la porzione di colon
normalmente innervata mentre la parte agangliare è normale o contratta. In
funzione della lunghezza del tratto interessato, si distinguono diverse varianti
cliniche. In genere risulta sempre coinvolto il retto, mentre la lunghezza degli
altri segmenti è variabile. Nella forma classica è interessato il retto ed il
sigma, nell’ultracorto sono interessati pochi centimetri prossimalmente alla
linea pettinata e nella forma pancolica vi è un interessamento di tutto il colon.
Nella patogenesi della malattia sembrano avere un ruolo importante
mutazioni a carico di geni coinvolti nello sviluppo dei plessi nervosi, tra i
quali il gene RET localizzato sul cromosoma 21. Tali geni codificano per
proteine coinvolte nei processi di migrazione delle cellule della cresta
neurale. La maggiore prevalenza nei soggetti Down, caratterizzati da una
trisomia del cromosoma 21, è probabilmente legata ad un effetto di dosaggio
genico che causa un’attivazione solamente parziale del gene RET.
Dal punto di vista clinico, i neonati si presentano con un addome globoso ed
il primo segno di malattia, sebbene non patognomonico, è la mancata
espulsione del meconio e la stipsi occlusiva. La defecazione in questi soggetti
avviene unicamente per gravità, pur essendo possibile il transito di piccole
quantità di feci nei casi in cui siano interessati solamente pochi centimetri di
colon. Nelle fasi iniziali il tratto agangliare appare inspessito mentre
l’accumulo di materiale fecale a monte nel colon normalmente innervato ne
determina una progressiva dilatazione e favorisce lo sviluppo di enterocoliti
recidivanti, fattori che contribuiscono all’assottigliamento e sfiancamento
della parete intestinale. Le complicanze più temibili riguardano la
perforazione intestinale con conseguente peritonite stercoracea e le
enterocoliti con squilibri idroelettrolitici.
Alla diagnosi possono contribuire, oltre che elementi clinici, anche esami
strumentali come l’esame manometrico ano-rettale ed il pasto baritato.
Tuttavia la metodica d’elezione risulta l’esame istologico volto alla ricerca
dei plessi nervosi (nello specifico si veda Diagnosi di malattia di
Hirschsprung). Poiché la formazione di entrambi i plessi nervosi è legata alla
migrazione delle cellule della cresta neurale, è sufficiente documentare
l’assenza di uno solo dei due plessi per effettuare la diagnosi. L’assenza di un
plesso implica l’assenza dell’altro. Per questo motivo, è possibile effettuare la
diagnosi di malattia tramite l’esecuzione di una biopsia endoscopica volta a
ricercare la presenza del plesso nervoso sottomucoso.
L’anatomopatologo ha inoltre un ruolo molto importante anche in sede intra-
operatoria in quanto valuta, tramite l’esecuzione di colorazioni rapide (LDH
rapido), la presenza delle cellule gangliari, esprimendosi di conseguenza sul
segmento colico da asportare e sulla successiva anastomosi.
M A L AT T I E H I R S C H S P R U N G - S I M I L I
DISPLASIA INTESTINALE NEURONALE DI TIPO B (NID-B)
La displasia intestinale neuronale di tipo B è una rara malattia legata ad
un’anomalia dello sviluppo del plesso nervoso sottomucoso che si
caratterizza per la presenza di iperplasia con cellule gangliari giganti e fibre
colinergiche ipertrofiche. Insorge tipicamente nel bambino e può manifestarsi
in maniera isolata o associata ad Hirschsprung o patologie simili. Nel caso in
cui si accompagni alla malattia di Hirschsprung, il tratto agangliare si ritrova
a monte del quadro displastico: in questo contesto la rimozione del tratto
agangliare non risolve il quadro sintomatico, in quanto permane il tratto
displastico a valle.
IPOGANGLIANOSI DEL COLON
L’ipoganglianosi del colon è una malattia congenita dovuta ad un alterato
sviluppo del plesso nervoso mioenterico e che si caratterizza per una marcata
riduzione delle cellule gangliari del plesso. La malattia può presentarsi in
maniera isolata o associata alla malattia di Hirschsprung.
IPOPLASIA DELLE CELLULE NERVOSE
L’ipoplasia delle cellule nervose è una condizione di immaturità delle
cellule nervose che si risolve spontaneamente attorno ai anni. Le
cellule gangliari nei plessi presentano dimensioni inferiori al % rispetto al
corrispettivo normale e l’attività colinergica è ridotta.
IMMATURITÀ DEI PLESSI NERVOSI SOTTOMUCOSO E MIOENTERICO
L’immaturità dei plessi nervosi sottomucoso e mioenterico si caratterizza
per la presenza di cellule gangliari che all’immunoistochimica risultano
positive per l’acetil-colinesterasi (AchE) e negative per lattato deidrogenasi
(LDH) e la succinato deidrogenasi (SDH) mitocondriale. La negatività di tali
marcatori indica che le cellule nervose sono ancora immature. La
maturazione dei plessi avviene ai distanza di alcuni anni e viene monitorata
tramite indagine bioptiche con colorazioni immunoistochimica.
DESMOSIS COLI
La desmosis coli o desmosi intestinale è una rara malattia del tessuto
connettivo della parete intestinale. La malattia si caratterizza per l’assenza
parziale o totale del connettivo della tonaca muscolare, determinando gravi
alterazioni della motilità intestinale. Le cellule gangliari che costituiscono il
plesso nervoso mioenterico risultano disorganizzate ed ectopizzate nello
strato di muscolatura liscia circolare interno e longitudinale esterno e di
conseguenza non funzionanti. L’assenza di collageno può essere documentata
utilizzando la colorazione PicroSirius Red (Rosso Sirio) che colora in rosso le
fibre collagene ed in giallo le cellule muscolari. La PicroSirius Red è una
colorazione istologica che può essere utilizzata di conseguenza su materiale
fissato.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE DI M A L AT T I A DI HIRSCHSPRUNG
La diagnosi della malattia di Hirschsprung e la diagnosi differenziale dai
quadri Hirschsprung-simili è prettamente di tipo istologica. L’esecuzione di
esami non strumentali è utile nel sospetto di malattia ma non permette
comunque di discriminare tra i diversi quadri patologici. Ad esempio
l’esecuzione di una radiografia può essere utile nell’evidenziare la dilatazione
colica. La biopsia è in generale di tipo endoscopica (si veda Biopsia
endoscopica intestinale) essendo generalmente sufficiente la presenza di
mucosa e tonaca sottomucosa nel campione; tuttavia nel contesto della
diagnosi di alcune patologie rare (ad esempio la desmosis coli) si rendono
necessarie biopsie chirurgiche a tutto spessore per includere gli strati più
profondi. Una volta ottenuti i campioni bioptici possono essere effettuate
colorazione di immunoistochimica, che permettono la visualizzazione delle
diverse tonache che costituiscono la parete intestinale, e di istoenzimatica,
che permettono la valutazione di differenze funzionali come l’incrementata
attività colinergica nella malattia di Hirschsprung, la ridotta attività
colinergica nella ipoganglianosi colica ed il deficit di SHD nell’immaturità
dei plessi nervosi. Nel sospetto di malattia di Hirschsprung si effettuano tre
biopsie ad , e cm dalla linea dentata che permettono di definire il fenotipo
clinico della malattia: in Hirschsprung ultracorto l’area agangliare è situata
entro i cm dalla linea dentata e nel pancolico oltre i cm. Nel sospetto di
ipoganglianosi del colon vengono invece effettuate biopsie ad , e cm
dalla linea dentata. Poiché la diagnosi è prettamente istoenzimatica ed è
dunque necessario ricercare l’attività degli enzimi espressi dalle cellule
gangliari, la fissazione dei campioni non viene effettuata perché
determinerebbe il venire meno dell’attività enzimatica. I campioni vengono di
conseguenza inviati a fresco, congelati a secco e conservati a circa C
per essere successivamente tagliati al criostato. Inoltre il campione deve
essere completamente esaurito, ovvero tagliato completamente in sezioni
seriate al criostato in maniera tale da essere analizzato nel miglior modo
possibile, essendo possibile che una singola sezione non contenga le cellule
gangliari. Le colorazioni di istoenzimatica sono dirette contro:
Acetil-colinesterasi (AchE) che permette di marcare le fibre nervose
colinergiche e le cellule gangliari.
Lattato deidrogenasi (LDH) e NAPDH enzimi espressi dalle cellule
gangliari.
Succinato deidrogenasi (SDH) che permette di documentare l’avvenuta
maturazione dei plessi nervosi.
Alle colorazioni istoenzimatiche si aggiunge la possibilità di effettuare una
colorazione istologica, la PicroSirius Red, che permette di visualizzare
l’architettura e la disposizione dei plessi nervosi nel contesto della parete
intestinale. E’ una colorazione tricromica che colora in rosso le fibre
collagene, in giallo le cellule muscolari ed in blu i nuclei cellulari. Affinché
sia possibile porre la diagnosi di malattia di Hirschsprung è necessario che
via sia 1) agangliarità della parete, dimostrabile con istoenzimatica diretta
contro LDH e NADPH e 2) ipertrofia delle fibre colinergiche compensatoria,
dimostrabile con istoenzimatica diretta contro AchE.
E NTEROCOLITI BATTERICHE
COLITE PSEUDOMEMBRANOSA
La colite pseudomembranosa è la principale causa di colite batterica nei
soggetti ospedalizzati ed è solitamente legata ad un’infezione da Clostridium
Difficile, un bacillo Gram- sporigeno ed anerobio stretto, che insorge
tipicamente durante o in seguito ad un trattamento antibiotico, soprattutto con
cefalosporine di terza generazione. La malattia si manifesta con febbre,
dolore addominale, diarrea acquosa e talora ematica, crampi, leucocitosi e
disidratazione. Il trattamento terapeutico si basa sulla terapia con antibiotici
specifici per il Clostridium Difficile come la vancomicina ed il
metronidazolo.
L’infezione da Clostridium Difficile insorge probabilmente in seguito ad un
turbamento della normale flora microbica dovuta prevalentemente all’azione
della terapia antibiotica. A ciò si aggiungono altri fattori che contribuiscono
alla patogenesi della malattia e riguardano le condizioni cliniche ed igienico-
sanitarie del soggetto, la presenza di un ceppo batterico particolarmente
virulento, l’età avanzata, la presenza di un substrato genetico predisponente e
uno stato di immunodepressione. Inoltre sono maggiormente a rischio
soggetti con ischemia intestinale o sottoposti ad interventi di chirurgia
addominale. Sebbene la malattia riguardi solitamente i soggetti in età
avanzata, ospedalizzati ed in antibiotico-terapia, bisogna comunque
considerare che non in tutti coloro in cui è effettivamente avvenuta una
colonizzazione da Clostridium Difficile si sviluppa la malattia ed inoltre la
presenza del batterio e delle sue tossine è stata documentata anche in soggetti
completamente sani. Le tossine prodotte dal batterio (tossina A e B) causano
la ribosilazione delle GTPasi di piccole dimensioni e determinano rottura del
citoscheletro, perdita delle giunzioni serrate, rilascio di citochine ed infine
apoptosi.
La colite pseudomembranosa interessa prevalentemente l’intestino crasso,
soprattutto il retto, e raramente il tenue. Dal punto di vista macroscopico, si
caratterizza per la presenza di pseudomembrane, lesioni nodulari o a placca di
colore bianco-giallastro, confluenti, inizialmente di piccole dimensioni e che
si accrescono con il progredire della malattia. Dal punto di vista
microscopico, la mucosa appare disepitelializzata con un importante infiltrato
infiammatorio di tipo granulocitario nella lamina propria. La presenza di
essudato mucopurulento, insieme a depositi di fibrina e batteri determina la
formazione delle pseudomembrane sulla superficie della mucosa. Nelle fasi
precoci della malattia il danno si riscontra a livello dell’epitelio superficiale
posto tra le cripte intestinali (danno intercriptico), caratterizzato da aree di
disepitelizzazione con infiltrato neutrofilo e depositi di fibrina. Nelle fasi
avanzate la disepitelizzazione si estende fino ai della cripta e la base
risulta indenne, l’importante infiltrato granulocitario determina distensione
delle cripte per la formazione di essudato mucopurulento che deborda “a
vulcano” o “a fungo “ dalla base della cripta intestinale.

Figura 30, colite pseudomembranosa, si noti la presenza di cripte intestinali dilatate dall'essudato
mucopurulento e la presenza di infiltrato infiammatorio a livello della lamina propria. Per gentile
concessione di Ed Uthman (CC BY 2.0).

Figura 31, reperto endoscopico di colite pseudomembranosa, si noti la presenza delle lesioni bianco-
giallastre sulla superficie della mucosa. Per gentile concessione di Samir (CC BY 3.0).

La diagnosi di colite pseudomembranosa prevede l’iniziale ricerca delle


enterotossine di Clostridium Difficile nel materiale fecale a cui segue la
conferma tramite indagine istologica su reperto bioptico.
MORBO DI WHIPPLE
La malattia di Whipple è una rara malattia sistemica cronica su base
infettiva che si presenta con sintomi intestinali, diarrea, steatorrea, calo
ponderale e malassorbimento, associati a manifestazioni extra-intestinali,
come febbre, linfoadenopatie, artralgie, anemia, endocardite e disturbi
neurologici.
L’agente eziologico responsabile della malattia è il Tropheryma whipplei, un
microrganismo ubiquitario di riscontro solitamente Gram- ma in realtà
classificato tra gli attinomiceti (Gram+). L’infezione viene trasmessa
presumibilmente in maniera orofecale, dato che la presenza del batterio è
stata documenta in acque reflue soprattutto nei paesi rurali, tuttavia non tutti i
soggetti contraggono la malattia, ciò significa che ai fattori ambientali si
associa la presenza di un substrato genetico predisponente. La malattia si
manifesta in seguito all’imponente fagocitosi dei batteri da parte dei
macrofagi. Le cellule ripiene di batteri si accumulano nella lamina propria
dell’intestino tenue e dei linfonodi mesenterici, determinando una occlusione
dei vasi linfatici con conseguente mancato trasporto dei micronutrienti
(soprattutto i lipidi) e comparsa del quadro di malassorbimento e dei sintomi
intestinali. La presenza dei macrofagi infarciti di batteri si riscontra anche in
sedi extra-intestinali come i linfonodi, l’endocardio, la sinovia, le meningi ed
il sistema nervoso centrale, giustificando le manifestazioni extra-intestinali.
Dal punto di vista macroscopico, la superficie della mucosa può apparire
irregolare, con aree pigmentate di bianco-giallastro, villi espansi, larghi e
tozzi e talora con la presenza di un reticolo linfatico saliente ed ectasico. Dal
punto di vista microscopico, si osserva un importante accumulo di macrofagi
schiumosi nella lamina propria con conseguente dilatazione ed espansione dei
villi. I granuli dei lisosomi dei macrofagi risultano PAS positivi, diastasi
resistenti e negativi per la colorazione di Ziehl-Neelsen. Quest’ultima
caratteristica è molto importante per la diagnosi differenziale dalla
tubercolosi intestinale che si caratterizza per un infiltrato macrofagico simile,
che tuttavia si colora positivamente con la Ziehl-Neelsen. Alla microscopia
elettronica, i granuli dei macrofagi risultano ripieni di bacilli bastoncellari.
La diagnosi di morbo di Whipple è alquanto articolata. In presenza del
quadro istopatologico precedentemente descritto su reperti bioptici di
derivazione preferenzialmente duodenale o digiunale, la prima indagine da
effettuare riguarda la colorazione di Ziehl-Neelsen, in maniera tale da
differenziare la malattia dalla tubercolosi intestinale. La fase successiva
riguarda la colorazione con PAS che rende la diagnosi poco probabile in caso
di risultato negativo e piuttosto probabile in caso di esito positivo. In
entrambi i casi segue una conferma tramite esecuzione di indagine
immunoistochimica (IHC) o PCR. In presenza di due test negativi (PAS e
IHC o PCR) viene esclusa la diagnosi di morbo di Whipple mentre in
presenza di due test postivi la diagnosi è confermata. Nei casi dubbi è
possibile effettuare un ulteriore test con IHC o PCR su altri fluidi corporei o
linfonodi del soggetto, soprattutto se si sospetto una forma atipica dove
risultano prevalenti le manifestazioni di tipo extra-intestinale. In caso di
conferma di malattia di Whipple è inoltre raccomandato l’esecuzione di una
PCR sul liquido cefalorachidiano per escludere un interessamento delle
meningi e del sistema nervoso.
ENTEROCOLITE DA CAMPYLOBACTER
L’enterocolite da Campylobacter è la più comune forma di enterocolite
infettiva nei Paesi sviluppati ed è legata all’infezione da Campylobacter
Jejuni, un batterio Gram- bastoncellare, asporigeno e microaerofilo. La
malattia è acuta ed autolimitante e si manifesta solitamente con diarrea
acquosa, sebbene in presenza di particolari ceppi batterici possa essere
presente anche dissenteria e febbre enterica. La modalità di trasmissione è di
tipo oro-fecale ed è associata al consumo di alimenti contaminati (latte, carne
bovina, ovina e di volatili) od acqua inquinate da feci di animali infetti. Tra le
sequele più importanti si osserva artrite reattiva, in particolare nella
popolazione HLA-B27, e casi di sindrome di Guillain-Barré sono stati
descritti in letteratura. Lo sviluppo di tale sindrome sembra essere legata ad
una reazione crociata tra gli anticorpi anti-lipopolisaccaride specifici per
Campylobacter Jejuni ed i gangliosidi del sistema nervoso periferico e
centrale. Un quota importante di soggetti affetti dalla sindrome di Guillain-
Barré presente coprocolture positive o anticorpi circolanti per
Campylobacter.
I batteri penetrati nell’organismo sono in grado di transitare attraverso
l’ambiente gastrico, giunti a livello del tenue aderiscono alla mucosa
intestinale, grazie alla presenza di flagelli ed adesine, e proliferano
attivamente. Alcuni ceppi batterici sono in grado di produrre una esotossina
citolitica ed un’enterotossina simil-colerica che favoriscono l’invasione della
mucosa, determinando la comparsa di dissenteria. La febbre enterica si
sviluppa invece quando i batteri proliferano a livello della lamina propria e
nei linfonodi mesenterici.
Dal punto di vista microscopico, il quadro bioptico è alcuno aspecifico ed
identifica una colite acuta comune a molte forme infettive. Si può osservare
presenza di infiltrato infiammatorio nella lamina propria, ascessi criptici e
talora ulcerazioni superficiali della mucosa; tutti elementi che sostengono la
presenza anche di un meccanismo di tipo enteroinvasivo.
La conferma diagnostica si ottiene attraverso l’isolamento del batterio tramite
coprocoltura.
COLERA
Il colera è una malattia infettiva acuta ad elevata contagiosità legata
all’infezione da Vibrio Cholerae, un batterio Gram-, a virgola ed asporigeno.
La malattia si manifesta in maniera acuta, dopo un periodo di incubazione,
con una imponente diarrea acquosa profusa con feci costituite da ammassi
fioccosi di vibrioni e muco, le cosiddette feci ad “acqua di riso”, vomito,
tachipnea e disidratazione con possibile oligo-anuria, shock ipovolemico e
morte. Nella maggior parte dei soggetti infetti la malattia decorre in maniera
asintomatica o paucisintomatica. La modalità di trasmissione è di tipo oro-
fecale ed è associata al consumo di acqua inquinata e di cibi contaminati da
feci umane. La mattia è in genere autolimitante e si risolve spontaneamente
dopo alcuni giorni. L’approccio terapeutico riguarda la tempestiva
reidratazione del soggetto per via endovenosa od orale a cui si può associare
una terapia antibiotica per abbreviare la durata della diarrea, sebbene la
malattia si risolva spontaneamente dopo alcuni giorni. Una corretta e
tempestiva reidratazione può salvare oltre il % dei soggetti.
La malattia in generale si sviluppa nei casi in cui la quantità di batteri ingeriti
è elevata, soprattutto in associazione a soggetti con deficit di funzionalità
gastrica (acloridria od ipocloridria), gastroresecati od in terapia con antiacidi.
Superato lo stomaco, il batterio aderisce alla mucosa del tratto prossimale del
tenue senza invaderlo, rimanendo dunque confinato all’ambiente luminale. Il
meccanismo patogenetico del Vibrio Cholerae si basa sulla produzione da
parte del batterio di una enterotossina, composta di una subunità A e di
cinque subunità B. L’enterotossina aderisce alle cellule epiteliali per mezzo
della subunità B e viene trasportata per endocitosi retrograda verso il reticolo
endoplasmatico, dove la subunità A viene ridotta dalla disulfide-isomerasi e
rilasciata successivamente nel citosol. A livello citosolico la tossina
determina ribosilazione ed attivazione della proteina G stimolatoria (Gs) con
conseguente stimolazione dell’adenilato ciclasi ed accumulo di cAMP.
L’AMP ciclico determina attivazione del sistema di escrezione dei cloruri
(CFTR) ed inibizione del riassorbimento del sodio, l’aumento della
concentrazione di NaCl nel lume intestinale richiama acqua dai tessuti
originando la violenta diarrea acquosa caratteristica della malattia.
La diagnosi è sostanzialmente presuntiva e si basa sulla presenza di un
quadro sintomatico suggestivo di malattia, la conferma diagnostica può
essere ottenuta tramite esame microscopico delle feci in campo oscuro o
coprocoltura.
SALMONELLOSI
Con il termine salmonellosi si intendono tutte quelle condizioni patologiche
legate all’infezione da batteri appartenenti al genere Salmonella, enterobatteri
Gram-, asporigeni e piuttosto resistenti nell’ambiente esterno. A seconda
della specie batterica, le salmonellosi sono suddivide in maggiori e minori.
Alcune salmonellosi, come la febbre tifoide, presentano delle fasi sistemiche
mentre altre una esclusiva localizzazione a livello gastrointestinale. Molto
comuni sono le infezioni che decorrono in maniera asintomatica o
paucisintomatica e la condizione di portatore sano legato al persistere del
batterio a livello della colecisti. La modalità di trasmissione è di tipo oro-
fecale in seguito al consumo di alimenti contaminati od acqua inquinata. Dal
punto di vista clinico, le salmonellosi insorgono in maniera acuta e sono
autolimitanti, si manifestano un quadro piuttosto aspecifico, caratterizzato da
diarrea acquosa profusa, dissenteria, febbre e dolore addominale. La terapia è
in genere una terapia di supporto volta a ripristinare i liquidi ed i sali persi,
solitamente è sconsigliata la terapia antibiotica, ad eccezione della febbre
tifoide, in quanto può prolungare il persistere della diarrea per alterazioni
della normale flora microbica.
In genere è sufficiente una carica batterica piuttosto ridotto per dar luogo ad
una infezione sintomatica, soprattutto in soggetti che presentano deficit della
funzionalità gastrica. Giunte a livello dell’intestino tenue, le Salmonelle
producono una proteina batterica in grado di penetrare le cellule M e gli
enterociti ed attivare la GTPasi Rho. Ciò promuove una riorganizzazione
dell’actina con successiva captazione dei batteri e proliferazione degli stessi
all’interno dei fagosomi. La flagellina ed il lipopolissacaride batterici
evocano importanti processi flogisti che contribuiscono al danno della
mucosa intestinale.
FEBBRE TIFOIDE
La febbre tifoide o febbre enterica è una malattia legata all’infezione
sistemica da Salmonella Typhi e Salmonella Paratyphi, anche se la patologia
legata all’infezione di S.Paratyphi è più propriamente definita come paratifo.
L’uomo è l’unico serbatoio naturale e di conseguenza la principale sorgente
d’infezione, il batterio può permanere nell’intestino o nella colecisti per brevi
periodi di tempo od addirittura per tutta la vita e la carica batterica eliminata
con le feci è sufficiente a mantenere in circolo l’infezione. La malattia si
manifesta con nausea, vomito, diarrea ematica, calo ponderale e dolore
addominale a cui segue una breve fase asintomatica che precede la fase di
batteriemia e la febbre con sviluppo di un quadro simil-influenzale. Sono
presenti anche complicanze extra-intestinali come colecistite, litiasi biliare,
meningite, encefalopatie, miocardite, endocardite e polmonite. Dal punto di
vista terapeutico si attua una terapia di supporto, volta al reintegro dei sali e
liquidi persi, ed antibiotica.
Una volta penetrato nell’organismo, superato lo stomaco e giunto a livello
dell’intestino tenue, le Salmonelle sono in grado di invadere le cellule M e gli
enterociti, giungendo così a livello della lamina propria. In tale sede, vengono
attivati tutta una serie di meccanismi che possono alterare il trasporto
elettrolitico e causare diarrea. I batteri vengono fagocitati dalle cellule
mononucleate del tessuto linfoide, dove si replicano e disseminano
nell’organismo attraverso il torrente circolatorio e linfatico, in particolare a
livello della colecisti, placche del Peyer, fegato e milza. In corrispondenza di
questa fase compaiono i primi segni e sintomi della malattia. La presenza
delle Salmonelle nelle cellule mononucleate determinano alterazioni
funzionali e strutturali alla base dei processi di emofagocitosi, ritenuti
responsabili della pancitopenia osservata nei pazienti affetti da febbre
enterica. Nella patogenesi della malattia svolgono un ruolo importante le
endotossine batteriche e probabilmente citochine rilasciate impropriamente
dai macrofagi infettati.
Dal punto di visto macroscopico, si può apprezzare splenomegalia molle ed il
caratteristico rush cutaneo, definito come roseola tifosa, che caratterizza la
seconda fase della malattia e legato agli eventi vasculitici. Alla microscopia è
possibile osservare a livello dell’ileo terminale iperplasia delle placche del
Peyer e dei linfonodi mesenterici ed iperemia della mucosa. Nella lamina
propria si possono apprezzare macrofagi contenenti batteri, emazie e altri
detriti cellulari. Si possono formare ulcere ovali legate alla necrosi del tessuto
linfatico con estensione fino alla sottomucosa ed esfoliazione delle cellule
epiteliali. Sono presenti anche reperti extra-intestinali, come infiammazione
della colecisti, sofferenza aspecifica dei reni ed epatica, vasculiti dei capillari
dermici, iperemia ed iperplasia della polpa splenica ed alterazioni
degenerative del miocardio. In particolare a livello epatico si possono
apprezzare focolai di necrosi del parenchima dove gli epatociti sono sostituiti
da aggregati di macrofagi, definiti come noduli tifoidi e sviluppabili anche a
livello del midollo osseo e dei linfonodi.
La diagnosi si basa sull’isolamento del batterio tramite emocolture,
coprocolture o mielocolture e dalla successiva dimostrazione nel siero di
anticorpi specifici.
SALMONELLOSI MINORI
Le salmonellosi minori sono infezioni acute autolimitanti causate da batteri
del genere Salmonella. La malattia è a localizzazione esclusivamente
gastrointestinale e si manifesta con diarrea, dolore addominale, febbre e
vomito. La modalità di trasmissione è di tipo oro-fecale e vede come vettori
principali alimenti contaminati ed acqua inquinata da materiale fecale. Il
batterio è ubiquitario ed il serbatoio naturale è costituito da animali domestici
e di allevamento. Le affezioni presentano una maggiore incidenza durante i
mesi estivi, in particolare nei lattanti, negli anziani e soggetti defedati. La
terapia è solitamente di supporto e si basa sul reintegro dei liquidi e gli
elettroliti persi, è solitamente sconsigliata l’antibiotico-terapia in quanto può
determinare un prolungamento della diarrea conseguente ad alterazioni della
flora microbica.
I batteri penetrati nell’organismo superano il comparto gastrico e si annidano
a livello della lamina propria dell’intestino tenue, dove si replicano. Il
meccanismo patogenetico alla base del quadro sintomatico sembra essere
legato alla produzione di IL-8 e di una esotossina simile all’enterotossina
colerica.
In presenza di enterocolite, la mucosa appare iperemica, edematosa con
alcune emorragie puntiformi. Il tessuto linfoide presente nella lamina propria
ed i linfonodi mesenterici appaiono iperplastici.
La conferma diagnostica avviene attraverso la coprocoltura o l’isolamento del
batterio dall’alimento contaminato.
SHIGELLOSI
La shigellosi o dissenteria bacillare è una malattia acuta ed autolimitante
legata all’infezione di batteri del genere Shigella, enterobatteri Gram-, non
mobili, asporigeni, non capsulati ed anaerobi facoltativi. L’uomo è l’unico
serbatoio naturale conosciuto e l’infezione si trasmette per via oro-fecale
direttamente od indirettamente in seguito all’ingestioni di alimenti o acqua
contaminati. Il batterio è ubiquitario e le categorie più colpite sono i bambini,
i lavoratori immigrati ed i soggetti che viaggiano nei Paesi tropicali ed in via
di sviluppo, in particolare durante le stagioni calde. L’intensità del quadro
clinico è variabile ed i sintomi tipici sono febbre, dolore addominale e
diarrea. La shigellosi esordisce in genere con diarrea acquosa che nella metà
dei casi progredisce a dissenteria. Nei soggetti in età pediatrica la malattia ha
una maggiore intensità ed una durata inferiore. La maggior parte dei decessi
legati all’infezione da Shigella interessa i bambini al di sotto dei anni e nei
Paesi dove è endemico è responsabile del % delle morti per diarrea. Tra le
complicanze principali vi sono la sindrome di Reiter, una spondiloartrite
sieronegativa, e la sindrome emolitico-uremica (HUS) nei casi di infezione da
Shigella Dysenteriae sierotipo 1, il quale è in grado di produrre la tossina
Shiga responsabile della malattia. L’approccio terapeutico è volto al ripristino
dei liquidi ed elettroliti persi coadiuvato da una opportuna terapia antibiotica.
La quantità di batteri necessaria a produrre un’infezione sintomatica è
piuttosto ridotta, poiché Shigella è particolarmente resistente all’ambiente
gastrico. I batteri, giunti a livello del tratto finale del tenue e del colon,
aderiscono alla superficie della mucosa, penetrano le cellule M, all’interno
delle quali proliferano, e giungono nella lamina propria dove vengono
fagocitati dai macrofagi, inducendone l’apoptosi, ed evocano importanti
risposte flogistiche responsabili della formazione di microascessi, necrosi ed
ulcerazione della superficie epiteliale. Lo sfaldamento dell’epitelio rende
accessibile la membrana basolaterale dei colonociti, i quali possono essere
infettati dai batteri presenti nella lamina propria o nel lume intestinale.
Shigella Dysenteriae sierotipo 1 produce una particolare esotossina, la tossina
Shiga, in grado di inibire la sintesi proteica delle cellule eucariotiche,
determinando danno cellulare e successiva morte della cellula ospite.
L’infezione interessa soprattutto il colon e la parte terminale dell’intestino
tenue (particolarmente ricca di cellule M). Dal punto di vista macroscopico,
la mucosa appare emorragica, ulcerata, con stravaso ematico nel lume
intestinale ed eventuale organizzazione di pseudomembrane, costituite da
depositi di fibrina, leucociti, muco, batteri e detriti cellulari. Questi processi
interessano solamente gli strati più superficiali della parete e comunque non
oltrepassano comunque la tonaca muscolare, di conseguenza la perforazione
non è una complicanza associata alla shigellosi. I linfonodi mesenterici e il
tessuto linfoide possono risultare iperplastici in risposta all’infezione
batterica. Il quadro istologico è aspecifico e simile a quello di altre coliti
acute autolimitanti, si può apprezzare la presenza di infiltrato infiammatorio
nella lamina propria, aree di necrosi, tessuto di granulazione ed ulcerazioni
superficiali della mucosa. Dato l’interessamento dell’ileo terminare non
raramente le lesioni ulcerose sono confuse con le ulcere aftose che si
manifestano nella fasi iniziale del morbo di Chron.
La diagnosi di certezza si ottiene attraverso la coprocoltura. Possono risultare
utili la ricerca del batterio nel materiale fecale, tramite metodiche di
immunofluorescenza, e l’analisi microscopica a fresco, che evidenzia
l’aspetto caratteristico denominato bacillary exsudate (presenza di emazie,
leucociti e rari batteri in assenza di forme mobili).
E NTEROCOLITI PARASSITARIE
Le infezione virali e batteriche sono responsabili della stragrande
maggioranza delle affezioni a livello gastrointestinale, tuttavia una quota
importante riguarda le infezione parassitare, croniche o ricorrenti, da parte di
protozoi.
C R I P TO S P O R I D I O S I
La criptosporidiosi è una forma di enterocolite legata all’infezione da parte
di protozoi appartenenti al genere Cryptosporidium, come Cryptosporidium
Hominis e Cryptosporidium Parvum. La malattia si presenta sotto forma di
diarrea acuta autolimitante nei soggetti immunocompetenti e talora decorre
persino in maniera assolutamente asintomatica; nei paesi in via di Sviluppo e
con condizioni igienico-sanitarie precarie può essere causa di diarrea
persistente; infine nei soggetti immunodepressi (es. AIDS, trapianti) può
causare forme di diarrea cronica, talora intrattabili, associate a
malassorbimento e con disseminazione dell’infezione in altre sedi, come vie
respiratorie e biliari. Il microrganismo è assolutamente ubiquitario e vede
come serbatoio naturale diversi mammiferi. La modalità di trasmissione è di
tipo oro-fecale ed il vettore principale è l’acqua potabile contaminata. Le
oocisti sono particolarmente resistenti e possono persistere nell’acqua trattata
con il cloro e non opportunamente filtrata. Sono sufficienti poche oocisti per
dare luogo ad una infezione sintomatica.
Le oocisti ingerite giunte a livello gastrico liberano gli sporozoiti grazie
all’attivazione di una proteasi protozoaria attivata dall’acidità gastrica. A
livello dell’intestino tenue, gli sporozoiti aderiscono all’orletto a spazzola e
stimolano le cellule epiteliali ad inglobarli in vacuoli posti all’interno dei
microvilli. A questo punto il protozoo porta a compimento il suo intero ciclo
vitale. L’interessamento dell’orletto a spazzola si riverbera in alterati processi
di assorbimento e secrezione degli elettroliti unitamente ad un’aumentata
lassità delle giunzioni serrata che determinano la comparsa della diarrea
acquosa e di tutto il quadro sintomatico.
Alla microscopia ottica non sono presenti lesioni evidenti e l’infiltrato
infiammatorio risulta relativamente scarso, con presenza di normali linfociti e
plasmacellule che costituiscono il MALT. Il protozoo è inglobato nel
contesto del microvillo ed appare adeso alla superfice epiteliale. Nei soggetti
in età pediatrica e negli immunodepressi la malattia può talora presentarsi con
atrofia dei villi, iperplasia delle cripte ed infiltrato infiammatorio di natura
differente dal normale. Nel sospetto di infezione protozoaria risultano
particolarmente utili la colorazione PAS e la Giemsa che permettono di
rivelare la presenza dei microrganismi, di forma tondeggiante, adesi alla
superficie intestinale. All’esame ultrastrutturale appare inoltre evidente come
il protozoo sia contenuto all’interno di vacuoli intracellulari confinati in sede
extracitoplasmatica, una caratteristica peculiare del Cryptosporidium che ne
permette la differenziazione da altri parassiti.
La diagnosi di criptosporidiosi si basa sulla ricerca delle oocisti nel materiale
fecale, nell’aspirato intestinale od in materiale di derivazione delle vie
respiratorie (nelle forme disseminate) tramite l’utilizzo di colorazioni speciali
o tecniche di immunoistochimica. Inoltre può risultare utile l’identificazione
della specie e la genotipizzazione ai fini epidemiologici. L’analisi istologica
della biopsia endoscopica è diagnostica quando identifica con chiarezza le
forme proliferative adese alla superficie dell’epitelio e contenute all’interno
di vacuoli intracellulari in sede extracitoplasmatica. In questo contesto è
importante l’esame ultrastrutturale che permette di identificare il
microrganismo nel contesto di vacuoli intracellulari.

Figura 32, criptosporidiosi, si noti la presenza di formazioni tondeggianti adese sulla superficie della
mucosa intestinale. In realtà il protozoo è presente all'interno di vacuoli intracellulari confinati a
livello dei microvilli. Per gentile concessione di Nephron (CC BY-SA 3.0).

AMEBIASI INTESTINALE
Con il termine amebiasi si indicano tutte le principali sindromi legate
all’infezione da Entamoeba histolytica. La malattia si presenta tipicamente
con diarrea ematica, dolore addominale, calo ponderale ed ulcere della parete
colica, sebbene talora possa decorrere in maniera asintomatica. Colpisce più
frequentemente il colon ascendente ed il cieco, pur essendo possibile un
coinvolgimento di altre sedi del crasso. Tra le complicanze più temibili vi
sono la perforazione, la disseminazione dell’infezione soprattutto a livello
epatico (ascesso epatico amebico) e più raramente a livello cardiaco e
polmonare, la colite necrotizzante ed il megacolon. L’infezione si trasmette
per via orofecale e risulta endemica nei paesi tropicali con basse condizioni
igienico-sanitarie (es. India). L’Entamoeba histolytica è sprovvisto dei
mitocondri e degli enzimi del ciclo di Krebs ed è di conseguenza un
fermentatore obbligato del glucosio, questa caratteristica risulta fondamentale
dal punto di vista terapeutico poiché permette di utilizzare antibiotici, come il
metronidazolo, che agiscono inibendo tappe fondamentali del processo di
fermentazione.
Le cisti di Entamoeba histolytica ingerite sono in grado di resistere all’acidità
gastrica e di transitare a livello dell’intestino tenue dove avviene la
maturazione a trofozoiti. Il protozoo giunto a livello del colon ne colonizzano
la superficie e completa il suo ciclo vitale. Il protozoo una volta aderito alla
superficie intestinale causa apoptosi delle cellule epiteliali, invade le cripte e
infiltra la lamina propria, richiamando un’importante infiltrato granulocitario
responsabile in parte del danno tissutale ed alla formazione delle cosiddette
ulcere “a fiasco”. La penetrazione nei vasi intestinali, tributari della porta,
può determinare il propagarsi dell’infezione a livello epatico, dove si forma il
cosiddetto ascesso epatico amebico. Esso si caratterizza per la presenza di
una reazione infiammatoria che circoscrive le colonie protozoarie e permane
in seguito al risolversi della malattia acuta. I trofozoiti hanno un forma
rotondeggiate e risultano simili ai macrofagi, sebbene di dimensioni
maggiori. Le cisti mature presenti a livello colico vengono successivamente
espulse nell’ambiente luminale ed eliminate con le feci.

Figura 33, amebiasi intestinale, si noti la presenza di Entamoeba histolytica (cerchiati) dalla forma
rotondeggiante simil-macrofagicq contenenti eritrociti. Per gentile concessione di Nephron (CC BY-SA
3.0).
L’indagine parassitologica del materiale fecale è fondamentale per effettuare
la diagnosi e si bassa sulla ricerca delle cisti e dei trofozoiti. La
differenziazione dell’Entamoeba Dispar, non patogena per l’uomo, avviene
tramite l’utilizzo di tecniche di immunoistochimica o PCR. L’indagine
istologica bioptica non è solitamente necessaria per effettuare la diagnosi, in
quanto è sufficiente l’identificazione del protozoo nel materiale fecale.
G ASTROENTERITI DELLA POPOLAZIONE
IMMUNODEPRESSA
MICROSPORIDIOSI
La microsporidiosi è una malattia legata all’infezione da microsporidi,
parassiti endocellulari obbligati e sporigeni, che differiscono dagli altri
protozoi per la loro forma molto simile a quello di una cellula eucariotica
primitiva, tanto da essere paragonati da alcuni ricercatori a forme aberranti di
funghi. La microsporidiosi era un tempo una malattia rara che ha subito un
aumento significativo in corrispondenza dell’epidemia di HIV, prima della
terapia antiretrovirale. La modalità di trasmissione non è completamente
chiarita e sono state ipotizzate la modalità oro-fecale e inalatoria. Il quadro
sintomatico dipende dalla localizzazione anatomia del parassita, sebbene sia
più frequentemente interessato il tratto gastrointestinale. A tale livello la
malattia si manifesta sotto forma di diarrea acquosa profusa, dolori
addominale, calo ponderale legato al malassorbimento e talora colangiopatia
sclerosante. La diagnosi si basa sulla ricerca del microrganismo a livello degli
enterociti e si avvale della microscopia elettronica.
ENTERITE DA CMV
L’enterite da Cytomegalovirus è una malattia legata all’infezione da parte
del suddetto virus che si verifica soprattutto nella popolazione
immunodepressa (es. AIDS) e negli anziani. L’infezione da CMV non
riguarda solamente gli enterociti ma interessa anche le cellule endoteliali,
potendo determinare gravi lesioni vascolari che esitano in ulcerazioni della
parete intestinale e diarrea ematica. Una particolare attenzione meritano i
pazienti affetti da malattia infiammatorie croniche, quali la rettocolite
ulcerosa ed il morbo di Chron, e trattati con corticosteroidi, in quanto
presentano un maggiore rischio di poter sviluppare l’infezione. La diagnosi si
basa sulla ricerca degli effetti citopatici del virus, come l’aumento di volume,
la presenza di inclusioni intranucleari, a cui si possono addizionare tecniche
di immunoistochimica e test molecolari. Bisogna comunque tenere in
considerazione che l’indagine PCR può presentare dei falsi positivi, in quanto
il virus è ubiquitario e spesso è presente nelle cellule epiteliali dell’intestino
in uno stato di latenza.
M ALATTIA DIVERTICOLARE
Il termine malattia diverticolare o diverticolosi identifica una condizione
patologica caratterizzata dalla presenza di estroflessioni sacciformi costituite
da mucosa e sottomucosa a livello colico. I diverticoli possono regredire
spontaneamente o più frequentemente aumentare in numero e dimensioni con
il progredire del tempo. La malattia è comune nella popolazione occidentale e
si ritiene che all’incirca il 50% dei soggetti oltre i 60 anni siano affetti da
questa condizione, mentre risulta rara nei pazienti asiatici, probabilmente in
relazione alle differenti abitudini alimentari. Nella maggior parte dei soggetti
la malattia decorre in maniera asintomatica e viene diagnostica in maniera
accidentale. Una quota minore di soggetti sviluppa sintomi quali dolore
addominale sordo, stipsi, talvolta fasi di stitichezza alternate a diarrea,
tenesmo e perdite ematiche. L’occlusione del diverticolo con ristagno di
materiale fecale favorisce l’instaurarsi di processi infiammatori, condizione
nota come diverticolite, che associata all’elevata pressione endoluminale può
ulteriormente sfiancare la già sottile parete del diverticolo, esitando nei casi
peggiori in una perforazione intestinale. L’infiammazione può inoltre
determinare lo sviluppo di colite segmentaria con ispessimento della parete e
possibile formazione di aree di stenosi. La diverticolite in genere si risolve
spontaneamente e solo in casi eccezionali, a rischio perforazione, si procede
con un intervento chirurgico.
La patogenesi della malattia è probabilmente legata alla particolare struttura
della muscolare propria del colon che, a differenze di altre sedi, presenta lo
strato di muscolatura liscia longitudinale esterno raccolto in tre sottili bande
di tessuto, note come taenia coli. I vasi sanguigni ed i nervi rivestiti dalla
guaina connettivale penetrano nello strato di muscolatura circolare interno,
determinando delle discontinuità nello strato muscolare. L’elevata pressione
endoluminale dovuta verosimilmente ad una importante attività peristaltica,
soprattutto in relazione ad una dieta ricca di fibre, favorirebbe lo sviluppo di
diverticoli nei punti a maggior debolezza della parete colica.
Dal punto di vista macroscopico, si presentano come estroflessioni sacciformi
multiple, spesso rivestite da appendici epiploiche, a livello della parete colica,
soprattutto nel sigma. All’esame microscopico della parete diverticolare,
questa appare assottigliata, con una mucosa piatta o atrofica, una sottomucosa
poco rappresentata e la muscolare propria scarsa o del tutto assente.
A PPENDICITE ACUTA
L’appendicite acuta è una infiammazione acuta dell'appendicite, un
diverticolo normale dell'intestino cieco soggetto a processi flogistici acuti
cronici. La malattia interessa soprattutto gli adolescenti ed i giovani adulti,
sebbene possa verificarsi a qualunque età.
Il meccanismo patogenetico consiste in un alterato deflusso del sangue
venoso legato all'aumento della pressione endoluminale dovuto alla presenza
di masse (fecali, calcoli biliari, neoplasie) che occludono il lume ciecale.
L'ischemia e la stasi del contenuto luminale favoriscono la proliferazione
batterica e l'instaurarsi di un processo infiammatorio con prevalente infiltrato
di tipo granulocitario neutrofilo.
Dal punto di vista morfologico, l'appendice risulta edematosa e congesta e nei
casi più importanti una reazione fibrinopurulenta della membrana sierosa con
eventuale formazione di ascessi. Il progredire della malattia determina
ulcerazione emorragia della mucosa e necrosi gangrenosa che si estende alla
sierosa, con possibile rottura della parete ciecale e peritonite acuta. All'esame
microscopico appare evidente l'infiltrato neutrofilo perivascolare che
interessa tutti gli strati della parete e nei casi più importanti la presenza di un
abbondante essudato fibrinopurulento.
C ARCINOMA GASTRICO
Il carcinoma gastrico rappresenta all’incirca il % dei tumori dello
stomaco. L’incidenza del tumore gastrico presenta una distribuzione
geografica ben precisa e risulta particolarmente elevata in paesi quali
Giappone, Cile, Cina ed Europa orientale. Particolarmente importante è in
Giappone dove rappresenta una delle maggiori cause di morte. In questi Paesi
sono in atto programmi di screening volti al riconoscimento di neoplasie in
fasi precoci del loro percorso evolutivo e nel % dei nuovi casi vengono
intercettati allo stadio di carcinoma gastrico precoce, ovvero quando il
tumore è ancora limitato a mucosa e sottomucosa. In Italia l’incidenza del
carcinoma gastrico è relativamente bassa ma rappresenta un’importante causa
di mortalità, poiché, non essendo conveniente attuare programmi di screening
preventivi a causa della bassa incidenza, le nuove neoplasie identificate
risultano già in uno stadio avanzato della loro storia evolutiva. L’incidenza è
inoltre maggiore nei soggetti di sesso maschile, nelle classi socio-economiche
più basse, negli individui affetti da metaplasia intestinale e gastrite cronica
atrofica e la malattia da reflusso gastroesofageo. Naturalmente la
distribuzione geografica del tumore e la diversa incidenza tra le classi sociali
evidenzia come siano coinvolti sia substrati genetici predisponenti che fattori
esogeni. I fattori genetici ed epigenetici per cui è stato ipotizzato un ruolo
nella patogenesi della malattia sono il gruppo sanguigno A, mutazioni a
carico dei geni coinvolti nei mismatch repair e della E-caderina; mentre i
fattori ambientali associati riguardano l’alimentazione, il fumo, pregressi
interventi chirurgici a livello gastrico ed esposizione a radiazioni. In
Giappone sembrano avere un ruolo importante i processi di lavorazione della
carne di pesce, il principale alimento consumato nel Paese.
Le lesioni precancerose sono lesioni istologiche, identificabili attraverso
l’esecuzione di una biopsia, generalmente consistenti in aree di displasia
tissutale. A livello gastrico vengono considerate come lesioni precancerose,
oltre che le aree di displasia, anche la metaplasia intestinale e l’esofago di
Barret. E’ utile in questo contesto ricordare la differenza tra metaplasia e
displasia. La metaplasia consiste in una modificazione istologica reversibile
in cui una cellula adulta differenziata viene sostituita da un’altra cellula
differente, al venir meno dello stimolo metaplastico il tessuto ritorna allo
stato di normalità. La displasia consiste in una modificazione di carattere
qualitativo, quantitativo e morfologico delle cellule, in genere epiteliali, di un
tessuto, essa è dovuta alla perdita di meccanismi di controllo della
proliferazione cellulare, ad alterazioni dell’architettura del tessuto e dei
processi di differenziamento cellulare con sostituzione delle cellule
differenziate con cellule immature, talora con bizzarre, con aberrazioni
cromosomiche ed altre atipie. I tessuti displastici, in relazione alla gravità del
quadro, presentano un certo pleomorfismo. Le displasie di grado lieve-
moderato, che non coinvolgono l’intero spessore di un epitelio, sono
potenzialmente reversibili ed il tessuto può tornare allo stato di normalità con
la rimozione del fattore scatenante. La displasia di grado elevato che interessa
l’intero spessore epiteliale è definita carcinoma in situ e corrisponde ad uno
stato pre-invasivo del cancro. Tanto più è elevato il grado di displasia, tanto
maggiore è la probabilità che questa evolva in una vera e propria lesione
neoplastica. La condizione precancerosa è invece una condizione clinico-
patologica che predispone al cancro (es. la rettocolite ulcerosa) e si esprime a
livello istologico come una lesione. La metaplasia intestinale (si veda
Figura 34), come detto in precedenza, è una lesione pre-cancerosa, che si
caratterizza per la sostituzione dell’epitelio maturo tipico dello stomaco con
quello intestinale, più adatto al nuovo microambiente gastrico. La metaplasia
intestinale può essere classificata come completa o incompleta: si definisce
completa quando vi è una trasformazione di fatto della mucosa dello stomaco
in mucosa del piccolo intestino, con presenza di cellule caliciformi mucipare,
cellule assorbenti (con il tipico orletto a spazzola) e talora cellule del Paneth;
si definisce incompleta quando vi è una trasformazione della mucosa dello
stomaco in mucosa tipica del grande intestino, con presenza di colonociti,
cellule caliciformi mucipare ed assenza di cellule assorbenti (e quindi del
tipico orletto a spazzola). La gastrite cronica di tipo B (da H.Pylori) è una
condizione precancerosa legata all’infezione da parte di Helicobacter Pylori
che aumenta di circa volte lo sviluppo del di adenocarcinoma dello
stomaco distale al cardias, soprattutto nel caso di gastrite cronica atrofica
multifocale, anche in relazione allo sviluppo di metaplasia intestinale . La
malattia da reflusso gastroesofageo è una condizione precancerosa che può
determinare lo sviluppo di esofago di Barrett, caratterizzato da metaplasia
intestinale su mucosa gastrica risalita nell’esofago con o senza displasia, e
predispone allo sviluppo di adenocarcinoma della giunzione gastroesofagea.
Altre condizioni precancerose sono la gastrite cronica autoimmune, la
malattia di Menetrier e la presenza di polipi gastrici adenomatosi.
Il carcinoma gastrico può insorgere ex novo, ovvero in pazienti che non
presentano una storia clinica di patologie gastriche, oppure in pazienti che
presentano lesioni o condizioni precancerose (es. gastriche cronica
autoimmune). I due diversi gruppi si caratterizzano per differenze dal punto
di vista sia epidemiologico che morfologico e riflettono il coinvolgimento di
mutazioni geniche differenti. I pazienti in cui la lesione insorge ex novo sono
solitamente soggetti relativamente giovani, l’incidenza è la stessa in tutto il
mondo e la prognosi è peggiore. Le lesioni che insorgono in pazienti che
presentano lesioni o condizioni predisponenti sono solitamente anziani, la
prognosi è migliore, per via della lunga storia clinica e del relativo
monitoraggio, e l’incidenza differisce a seconda dell’area geografica
considerata.
La malattia si manifesta inizialmente con sintomi simili a quelli della gastrite
cronica, disfagia, dispepsia e nausea, e nelle fasi più avanzate con calo
ponderale, anemia, alterazioni dell’alvo ed emorragia. In caso di
interessamento di cardias e piloro possono essere presenti anche segni di
ostruzione. In un grande numero di casi, le manifestazioni iniziali della
malattia sono oggetto di scarsa considerazione così che la diagnosi viene
posta in uno stadio avanzato della storia della neoplasia, spesso già in un
contesto di malattia metastatica. Talora addirittura il primo segno di malattia
è l’ingrossamento del linfonodo sovraclaveare sinistro (linfonodo di
Virchow), dovuto alla localizzazione di metastasi nella suddetta sede.
Le sedi più frequentemente interessate sono antro, piloro, piccola curva e
meno frequentemente cardias e grande curva.
CLASSIFICAZIONE DI LAUREN
I carcinomi gastrici possono essere classificati in relazione a diversi aspetti:
posizione nello stomaco, istotipo, caratteristiche di crescita e grado di
invasione. L’aspetto microscopico (tubulare, papillare, mucinoso,
adenosquamoso, indifferenziato, a cellule con castone e a piccole cellule) è
meramente descrittivo e fornisce informazioni poco utili dal punto di vista
della prognosi e delle possibilità terapeutiche. La classificazione di Lauren,
proposta nel , si basa sulle caratteristiche delle cellule basali delle fossette
gastriche ed individua due principali istotipi, intestinale e diffuso, che si
differenziano dal punto di vista clinico, molecolare ed epidemiologico.
Il carcinoma gastrico di tipo intestinale interessa solitamente soggetti in età
avanzata di sesso maschile (> anni), risulta prevalente nei Paesi ad alto
rischio ed è più frequente rispetto al carcinoma gastrico diffuso. La neoplasia
si sviluppa a partire da lesioni precancerose, tipicamente aree di metaplasia
intestinale, con cellule neoplastiche che crescono lungo fronti ampi e coesivi
e si organizzano in strutture pseudo-ghiandolari. L’adenocarcinoma gastrico
di tipo intestinale può essere classificato secondo tre gradi (ben differenziato,
moderatamente differenziato e poco differenziato) sulla base di atipie, focolai
di mitosi e capacità di formazione di pseudoghiandole. Dal punto di vista
macroscopico, la neoplasia, pur potendo penetrare nella parete gastrica, si
organizza solitamente in una massa esofitica voluminosa, spesso ulcerata, con
bordi irregolari e con pliche gastriche disposte a raggera attorno alla lesione
stessa. L’incidenza del carcinoma gastrico di tipo intestinale è notevolmente
diminuita nei tempi recenti e la prognosi è migliore rispetto alla forma
diffusa, in quanto la lunga storia di patologia gastrica dei soggetti a rischio ed
il relativo monitoraggio permette di individuare precocemente l’eventuale
sviluppo di lesioni. Nella patogenesi del carcinoma gastrico di tipo intestinale
sembrano essere coinvolte alterazioni della via di segnalazione WNT/β-
catenina.
Il carcinoma gastrico diffuso interessa soggetti relativamente giovani (
anni), senza predilezione di sesso, l’incidenza risulta uniforme in tutti
i Paesi e non è associato alla presenza di lesioni precancerose. Le cellule
neoplastiche risultano scarsamente coesive, non si organizzano in strutture
ghiandolari ed infiltrano singolarmente od in piccoli gruppi l’intera parete
gastrica, potendo talora essere confuse con infiltrato infiammatorio. Il
citoplasma delle cellule è ricco di vacuoli di mucina che spingono il nucleo in
periferia, conferendo il cosiddetto aspetto “a cellule con castone”. Dal punto
di vista macroscopico, la neoplasia può non costituire una massa tumorale
evidente ma spesso l’infiltrazione dà luogo ad una reazione desmoplastica,
ovvero deposizione di tessuto fibroso o connettivo che irrigidisce la parete
dello stomaco, conferendo una consistenza lignea che viene definita linite
plastica. La colorazione in Alcian-PAS permette di colorare le cellule
neoplastiche in blu per la presenza di vacuoli di mucina oppure è possibile
utilizzare tecniche di immunoistochimica dirette contro alcune citocheratine.
Nella patogenesi del carcinoma gastrico diffuso sembrano avere un ruolo
chiave le mutazioni del gene CDH1, ovvero il gene che codifica per la E-
caderina, una importante proteina coinvolta nell’adesione intercellulare
epiteliale.
CARCINOMA GASTRICO PRECOCE (EGC)
Con il termine carcinoma gastrico precoce o early gastric cancer (EGC) si
intende qualsiasi adenocarcinoma gastrico che infiltri la parete gastrica
limitatamente alla mucosa (early mucoso) o alla sottomucosa (early
sottomucoso), indipendentemente dalle dimensioni del tumore,
dall’interessamento linfonodale o dal tempo intercorso dallo sviluppo della
neoformazione. Il carcinoma gastrico avanzato si estende fino ad
interessare parete muscolare, sottosierosa e sierosa. Il concetto di carcinoma
gastrico precoce ha avuto origine in Giappone, dove l’incidenza del
carcinoma gastrico è piuttosto elevata, e si basa unicamente sulla precoce
identificazione della lesione. La diagnosi di carcinoma gastrico precoce è una
diagnosi che viene posta a posteriori in seguito a gastrectomia, essendo
necessario valutare appieno l’infiltrazione neoplastica della parate gastrica.
La biopsia gastrica endoscopica non è adeguata a tale scopo poiché include
unicamente mucosa e sottomucosa ed impedisce valutazione sugli strati più
profondi del tessuto. Questo aspetto è drammaticamente importante essendo i
linfatici più rappresentati negli strati profondi della parete: quanto più la
neoplasia infiltra in profondità la parete gastrica, tanto maggiore è il rischio
di metastatizzazione. Alla diagnosi di carcinoma gastrico precoce il % circa
degli early mucosi ed il % degli early sottomucosi presentano metastasi a
livello linfonodale e la sopravvivenza a anni dopo intervento di
gastrectomia, indipendentemente dall’interessamento linfonodale è del
circa. In caso di carcinoma gastrico avanzato la sopravvivenza a anni dopo
intervento di gastrectomia è appena del % circa.
METASTATIZZAZIONE
Il carcinoma gastrico può metastatizzare in diverse sedi in relazione alla
localizzazione primitiva ed alla modalità di trasmissione. La
metastatizzazione per contiguità può interessare il fegato quando
primitivamente localizzato nel corpo e nella superficie anteriore; milza e
colon trasverso quando primitivamente localizzato nella grande curvatura;
duodeno e pancreas quando primitivamente localizzato nell’antro; esofago
quando localizzato primitivamente in regione cardiale. La metastatizzazione
per via linfatica riguarda i linfonodi loco-regionali presenti a livello di
piccola e grande curvatura, paraortici e celiaci; ed i linfonodi mediastinici,
nel caso in cui la lesione sia primitiva della regione cardiale. Nei casi di
carcinoma gastrico avanzato spesso il primo segno di malattia è
l’interessamento di un linfonodo sovraclaveare sinistro, detto anche linfonodo
di Virchow; i motivi alla base di tale localizzazione non sono noti. La
metastatizzazione per via ematogena riguarda il fegato, in particolare per il
tipo intestinale, e polmoni. La metastatizzazione per via intraperitoneale
avviene in seguito ad esfoliazione delle cellule neoplastiche nella cavità
intraperitoneale, soprattutto nel contesto del carcinoma gastrico diffuso, con
localizzazione a livello di entrambe le ovaie e formazione del cosiddetto
tumore di Krukenberg.
COMPLICANZE
La malattia neoplastica si può associare a complicanze di vario genere:
formazione di aree di stenosi, laddove insorga primitivamente in zone
anatomicamente ristrette (cardias ed antro); emorragia gastrica (gastrorragia)
in caso di infiltrazione neoplastica di vasi arteriosi con distruzione della
parete vascolare; peritonite chimica in seguito a perforazione della parete e
passaggio del chimo in sede intraperitoneale.
PROGNOSI E TERAPIA
La prognosi del carcinoma gastrico è legata principalmente all’entità
dell’infiltrazione della parete, alla metastatizzazione linfonodale e a distanza,
al tipo di carcinoma e al grading.
Dal punto di vista terapeutico, la chirurgia rimane la soluzione migliore nel
contesto del carcinoma gastrico precoce e la sopravvivenza a anni è attorno
al %. In caso di carcinoma gastrico avanzato la sopravvivenza a anni si
attesta attorno al % con una ulteriore riduzione al % nelle forme
metastatiche.
Nella patogenesi di alcune forme di carcinoma gastrico sono coinvolte
alterazioni della via di trasduzione di HER2/neu, ovvero un proto-oncogene
facente parte della famiglia dei recettori per il fattore di crescita epidermico,
che codifica per la proteina HER2 o ERBB2. L’amplificazione del gene
determina una abnorme espressione della proteina in membrana. Talora
inoltre l’aumento della densità proteica può essere legato ad altri meccanismi
e quindi può presentarsi in assenza di amplificazione genica. Il recettore è
costituito da un dominio extracellulare di legame, uno transmembrana ed uno
intracellulare con attività tirosin-chinasica. In presenza degli appropriati
stimoli, il recettore omo o eterodimerizza con un altro recettore della famiglia
EGFR, si autofosforila in residui tirosinici ed attiva tutta una serie di vie di
segnalazione. In circa il % delle neoplasie gastriche è presente una de-
regolazione di questa via di segnalazione legata a fenomeni di amplificazione
genica o di aumentata espressione recettoriale. In tale contesto trovano
applicazione Trastuzumab ed Pertuzumab, due anticorpi monoclonali che
agiscono a livello della suddetta via di segnalazione inibendo la
dimerizzazione recettoriale. La positività ad HER2/neu è un fattore
prognostico negativo, in quanto indica che il clone tumorale è più aggressivo,
e predittivo positivo, poiché responsivo alla terapia con anticorpi
monocolonali. La presenza di positività per alterazioni in HER2/neu è
solitamente correlato al carcinoma gastrico di tipo intestinale e si associa ad
una prognosi peggiore, mentre non si correla con fattori quali età, sesso,
dimensioni e stadiazione TMN. Un aspetto piuttosto particolare del
carcinoma gastrico riguarda l’eterogeneità del pool di cellule neoplastiche di
cui si compone: differenze fenotipiche piuttosto marcate possono essere
presenti in punti differenti della stessa neoformazione, così che ad esempio
l’aumento della densità recettoriale di HER2/neu risulti presente solo in
alcuni punti ed assente in altri. Affinché sia possibile trattare in maniera
mirata i pazienti è necessario che questi risultino eleggibili al trattamento
ovvero che presentino il difetto precedentemente descritto. Innanzitutto viene
eseguita una indagine di immunoistochimica (IH), su campioni bioptici
prelevati in punti differenti della neoformazione, per verificare l’entità
dell’espressione del recettore in membrana. Per fare ciò si utilizzano anticorpi
specifici diretti contro HER2. Il risultato del test è funzione (1) dell’intensità
della colorazione, (2) frazione percentuale di cellule neoplastiche colorate
(almeno il % su pezzo operatorio e cellule contigue su biopsia gastrica) e
(3) colorazione circonferenziale della membrana completa o discontinua.
Viene attribuito uno score da a , dove rappresenta l’assenza di
colorazione e una colorazione circonferenziale intensa di numerose cellule.
In caso di score il paziente è eleggibile al trattamento con gli anticorpi
monoclonali, mentre nei casi dubbi ( e ) si procede ad analisi con
ibridazione in situ tramite metodica FISH. La stessa metodica viene applicata
nell’agospirato dei noduli mammari. Le cellule neoplastiche del carcinoma
mammario si colorano in maniera circonferenziale, mentre nel caso di
carcinoma gastrico è sufficiente che si colori la membrana baso-laterale. La
FISH è una tecnica molecolare di ibridazione in situ (si veda Citogenetica e
FISH), applicata su tessuto fissato ed incluso e successivamente sparaffinato,
che permette di constatare, tramite l’ausilio di apposite sonde, la presenza di
amplificazione del gene HER2/neu. In genere vengono utilizzate due sonde di
colore diverso, una sonda centromerica-specifica per il cromosoma di
colore rosso ed una sonda locus-specifica per il gene HER2/neu di colore
verde. Le cellule somatiche presentano un cariotipo diploide e perciò in
condizioni di normalità il numero di segnali di ciascun tipo è pari a , ad
indicare che ogni cellule presenta due cromosomi, ciascuno con un solo
centromero ed un solo gene. In caso di amplificazione genica, il rapporto tra
segnale locus-specifico e segnale centromerico in una singola cellula è
(es. segnali verdi locus-specifici e segnali rossi centromerici, rapporto
). Sono possibili anche casi di polisomia con presenza di più segnali
centromerici e locus-specifici, in tal caso, nonostante il rapporto , si
considera la polisoma marcata come equivalente dell’amplificazione (es.
segnali verdi locus-specifici e segnali rossi centromerici, rapporto rapporto
). Il paziente con un risultato all’IH e con positività alla FISH è
eleggibile al trattamento con gli anticorpi monoclonali. In caso di
eterogeneità della massa tumorale è necessario effettuare più biopsie, in
quanto l’eterogeneità macroscopica può essere sottesa ad una eterogeneità dei
cloni neoplastici. La positività anche solamente di uno dei campioni all’IH o
all’IH e FISH rende il paziente eleggibile al trattamento, essendo quell’area
di neoplasia potenzialmente la più aggressiva (come detto in precedenza la
positività ad HER2/neu è un fattore prognostico negativo) e comunque
responsiva alla terapia farmacologica.
T UMORE STROMALE GASTROINTESTINALE (GIST)
Il tumore stromale gastrointestinale (GIST) è il tumore mesenchimale più
comune dell’addome, soventemente a carico dello stomaco e del piccolo
intestino. I GIST sono relativamente rari, insorgono in maniera sporadica ed
interessano maggiormente soggetti adulti in età avanzata, sono rari nei
bambini dove tuttavia risultano maggiormente aggressivi. I GIST possono
anche manifestarsi in giovani soggetti di sesso femminile nel contesto di una
rara malattia non ereditaria, nota come triade di Carney, che si caratterizza
per la presenza di GIST, paraganglioma e condroma polmonare. I GIST sono
dei tumori eterogenei la cui natura e comportamento (anche inteso come
aggressività della neoplasia) differiscono a seconda dell’istogenesi e delle
alterazioni molecolari che sottendono la trasformazione in senso neoplastico.
Possono insorgere lungo tutto il tratto gastrointestinale, sebbene più
frequentemente a livello della parete gastrica, del piccolo intestino e
raramente e meno frequentemente nel colon-retto. Sono documentati anche
casi di GIST insorti in sedi ectopiche (es. mesentere, retroperitoneo ed
omento). Nel 60% dei casi insorgono in sede sottomucosa, nel 10%
intramurali e nel 30% sottosierosi. L’interessamento di tonaca muscolare o
muscolaris mucosae assieme alla frequente presenza di aspetti fenotipici
comuni alle cellule muscolari lisce ha determinato in tempi passati l’errata
classificazione dei GIST come forme di leiomiomi e leiomiosarcomi. I tumori
stromali gastrointestinali disseminano per via ematica, principalmente a
livello epatico e per contiguità al peritoneo. Dal punto di vista clinico, i GIST
che insorgono a livello gastrico risultano frequentemente asintomatici e
vengono spesso riscontrati come incidentalomi o in sede autoptica.
L’interessamento del piccolo intestino con crescita della massa intestinale in
direzione luminare può associarsi ad occlusione o subocclusione, la massa
neoplastica può crescere anche in direzione della sierosa risultando in questo
caso asintomatico per un lungo periodo di tempo. Durante la crescita è
possibile inoltre che la neoformazione vada incontro ad ulcerazione e
sanguinamento con conseguenza comparsa di dolore addominale e melena.
Si ritiene che i GIST abbiano origine a partire dalle cellule interstiziali di
Cajal (ICC), ovvero cellule segnapasso presenti nella muscolare propria del
tratto gastrointestinale, o che condividano con esse una cellula staminale.
Tale ipotesi è sostenuta da aspetti fenotipici comuni sia alle ICC che alle
cellule neoplastiche, quali espressione di CD117, di marcatori delle cellule
muscolari lisce ( desmina e actina) e delle cellule nervose (S100), oltre che
per la presenza di aspetti tipici all’esame ultrastrutturale, come filamenti di
actina, vescicole secretorie e terminali sinaptici. Una quota non trascurabile
di GIST non esprime CD117 e di conseguenza si rende necessario l’utilizzo
di un ulteriore marcatore, il CD34, per identificare le cellule neoplastiche.
Nella patogenesi della neoplasia, l’evento chiave è legato a mutazioni
primitive attivanti il proto-oncogene c-KIT (SCFR o CD117) o, più
raramente, il gene omologo PDGFR a , i quali codificano per recettori di
membrana tirosin-chinasici coinvolti nella regolazione di diverse vie di
segnalazione, come la la cascata delle MAP chinasi e la via di AKT, che
regolano aspetti quali proliferazione e sopravvivenza cellulare. Nelle forme di
GIST sporadico le mutazioni di c-KIT e PDGFR a risultano mutuamente
esclusive. In condizioni normali, la presenza di ligando, SCF per c-KIT e
PDGF per PDGFR a , determina omodimerizzazione del recettore con
attivazione della via di segnalazione. Le mutazioni coinvolte nella patogenesi
dei GIST determinano un guadagno di funzione del gene con conseguente
produzione di recettori tirosin-chinasi costitutivamente attivati e
sovvertimento dei segnali intracellulari che regolano proliferazione e
sopravvivenza cellulare. I GIST presentano una diversa aggressività in
relazione al gene e all’esone interessato. Le mutazioni inoltre presentano
carattere sito-specifico, cosicché le mutazioni dell’esone 9 di c-KIT si
riscontrano soprattutto nei GIST del piccolo intestino e del colon destro,
quelle di PDGFR a si associano a sviluppo di GIST con fenotipo epitelioide
ed assente o scarsa espressione di CD117 a livello gastrico ed omentale,
mentre le mutazioni dell’esone 11 presentano una distribuzione casuale. Le
mutazioni degli esoni 9 ed 11 di c-KIT si correlano a forme più aggressive
mentre quelle a carico di PDGFR a a forme meno aggressive. La conoscenza
del gene e dell’esone mutato costituisce di conseguenza un fattore
prognostico di malattia e predittivo di terapia. La mutazione dell’esone 11 i c-
KIT si associano a lesioni responsive alla terapia farmacologica nel 70-80%
dei casi; le lesioni legate a mutazioni dell’esone 9 di c-KIT e d PDGFR a
risultano responsive alla terapia farmacologica nel 30-40% dei casi; ed i
GIST con c-KIT e PDGFR a wild-type presentano una risposta del tutto
assente o scarsa alla terapia farmacologica nella maggior parte dei casi. La
terapia farmacologica può inoltre determinare lo sviluppo di mutazioni
secondarie (o di resistenza), in quanto il farmaco seleziona negativamente
tutte le cellule neoplastiche responsive alla terapia, determinando il
permanere dei soli cloni neoplastici farmaco-resistenti. L’insorgere di
mutazioni di resistenza nei confronti del farmaco in uso determina inefficacia
del trattamento farmacologico. Tuttavia, a differenza di altri tumori che
sviluppano una assoluta farmaco-resistenza, non tutte le mutazioni secondarie
a carico di c-KIT si traducono in una totale assenza di risposta terapeutica,
bensì spesso esitano in una riduzione della risposta al farmaco. Ciò accade
perché le mutazioni determinano modificazioni conformazionali del recettore
che riducono l’affinità per il farmaco. Di conseguenza l’individuazione delle
mutazioni di resistenza è estremamente importante in quanto permette al
clinico di adeguare la posologia o di sostituire il farmaco in uso con un altro
per il quale il tumore è ancora sensibile. L’analisi mutazionale consiste nel
sequenziamento diretto su DNA estratto da tessuto fissato ed è consigliata (1)
in presenza di GIST negativi per mutazioni di c-KIT, (2) per escludere la
presenza di cloni neoplastici farmaco-resistenti in GIST con fattori
prognostici negativi e (3) per il monitoraggio della resistenza farmacologica.
Sono inoltre in corso studi sulla biopsia liquida (già applicata nel contesto del
carcinoma polmonare) che permetterebbe la ricerca e quindi l’analisi di DNA
tumore circolante nel sangue.
Dal punto di vista macroscopico, i GIST si presentano come lesioni solitarie
omogenee di piccole o grosse dimensioni, di colore biancastro, a consistenza
dura e carnosa, con una tipica area di depressione centrale “a ombelico”,
ulcerate o ricoperte da mucosa intatta o con crescita verso la sierosa. Il core
interno può risultare sclerotico e favorire la formazione di aree di necrosi ed
ulcerazione. Dal punto di vista microscopico, le cellule neoplastiche possono
presentare un aspetto fusiforme, principalmente i GIST a differenziazione
muscolare liscia, oppure epiteliode; possono organizzarsi in strutture
fascicolate o vorticoidi con presenza di fibre skenoidi, ovvero grovigli di
strutture fibrillari ialine o eosinofile costituite da fibre collagene (fenotipo
neuronale). Le cellule possono essere indifferenziate, differenziate in senso
muscolare liscio o neuronale o presentare aspetti fenotipici comuni ad
entrambi. La discriminazione delle diverse forme si basa sull’
immunoistochimica o per la presenza di aspetti caratteristici all’esame
ultrastrutturale:
I GIST a differenziazione muscolare liscia sono i più frequenti e
vengono marcati con anticorpi diretti contro actina e desmina,
all’esame ultrastrutturale si può apprezzare la presenza di filamenti di
actina.
I GIST a differenziazione neuronale sono particolarmente frequenti nei
pazienti affetti da neurofibromatosi di tipo 1, e vengono marcati con
anticorpi diretti contro la proteina S100 mentre risultano negativi per
actina e desmina, all’esame ultrastrutturale presentano aspetti tipici
neuronali, come la presenza di vescicole sinaptiche.
I GIST a differenziazione mista sono relativamente rari e presentano
aspetti fenotipici sia delle cellule muscolari lisce che dei neuroni.
I GIST uncommitted risultano negativi all’immunoistochimica per la
proteina S100, desmina ed actina e positivi per CD117 o CD34,
all’esame ultrastrutturale non presentano aspetti caratteristici.
La diagnosi di GIST viene è di tipo immunoistochimica e basa sulla positività
per CD117 (90-95% dei casi) o al CD34 (70-80% dei casi), oppure in
presenza di un aspetto morfologico prevalente con assenza di positività al
CD117. L’immunofenotipizzazione delle cellule neoplastiche viene condotta
tramite immunoistochimica in relazione alla presenza di marcatori biologici
miodi e neuronali. Il fenotipo più frequento è quello muscolare liscio. Le
diverse forme di GIST presentano grossomodo la stessa prognosi, ad
eccezione della forma indifferenziata (uncommitted) che presenta prognosi
peggiore. La stratificazione del rischio si basa prevalentemente su due fattori
prognostici, dimensioni della massa tumorale e indice mitotico valutato su 50
HPF. I soggetti più a rischio sono quelli che presentano una lesione di
dimensioni maggiore ai 10 cm o più di 10 mitosi per 50 HPF. Fattori
prognostici di minore rilevanza clinica sono la profondità d’invasione, il tipo
di GIST, la sede (quelli gastrici presentano prognosi migliore rispetto a quelli
che insorgono a livello del colon-retto), la presenza di metastasi ed il tipo di
mutazione genica. La terapia è prettamente chirurgica e prevede l’escissione
dell’intera lesione senza linfoadenectomia, in quanto la disseminazione
avviene per via ematica. La terapia medica con Imatinib, un farmaco
biologici inibitore delle tirosin-chinasi, quali Imatinib, è indicato come
terapia adiuvante dopo trattamento chirurgico o nei casi di tumore inoperabile
e/o metastatico, naturalmente in relazione alla presenza di mutazioni geniche
di c-KIT o PDGFR a .
L INFOMA GASTROINTESTINALE
I linfomi extranodali, primitivi o secondari, possono svilupparsi in qualsiasi
tessuto, sebbene più frequentemente interessino il tratto gastrointestinale ed
in particolare lo stomaco. All'incirca il 5% di tutte le neoplasie maligne dello
stomaco sono costituite da linfomi primitivi, in particolare a cellule B. Le
lesioni primitive insorgono soprattutto in corso di gastrite cronica di tipo B,
celiachia e condizioni di immunodepressione. Le localizzazioni secondarie
sono invece legate alla presenza vi linfomi primitivi nodali. Si distinguono tre
tipi di linfomi primitivi: (1) linfomi a cellule B del tessuto linfoide
associato a mucosa (MALT) (2) linfomi a cellule B non del MALT. (3)
linfomi a cellule T, lesioni ad alto grado di malignità che insorgono
soprattutto nei soggetti giovani in associazione a sindromi da
malassorbimenti, principalmente la celiachia. Di tutte queste forme di
linfoma primitivo dello stomaco la più frequente ed importante è linfoma a
cellule B del MALT.
LINFOMI A CELLULE B DEL MALT
I linfomi a cellule B del tessuto linfoide associato a mucosa (MALT) o, più
semplicemente, MALTomi possono insorgere lungo tutto il tratto
gastrointestinale, in ordine di frequenza interessano principalmente stomaco,
piccolo intestino e colon. Dal punto di vista clinico, si presentano con dolore
epigastrico, dispepsia, calo ponderale e possono dare origine ad ematemesi e
melena in seguito a fenomeni di ulcerazione della mucosa. Nella stragrande
maggioranza dei casi coesistono con gastrite cronica da H.Pylori. Fattori
predittivi negativi di malattia sono a trasformazione linfomi diffusi a grandi
cellule B, l’interessamento linfonodale e l'infiltrazione della muscolare
propria.
Dal punto di vista patogenetico, un ruolo estremamente importante è svolto
dall'infezione cronica di H.Pylori che costituisce lo stimolo prolinfomatoso e
determina la formazione dei follicoli linfoidi. Tuttavia non tutti i MALTomi
insorgono in associazione a gastrite cronica di tipo B, ciò evidenzia la
presenza di altri fattori e meccanismi coinvolti nello sviluppo della neoplasia.
In ogni caso, la forte associazione tra gastrite cronica di tipo B è MALToma è
fornita dal fatto che l'eliminazione dell'infezione induce spesso una
remissione durevole senza o con scarsa recidiva nella stragrande maggioranze
dei pazienti. L’infezione cronica da parte di Helicobacter induce la
formazione di tessuto linfoide secondario in maniera persistente, nel corso del
tempo è possibile che alcune cellule B, ovvero il tipo linfocitario
prevalentemente coinvolto, acquisiscano alterazioni cromosomiche
responsabili delle formazione di cloni di cellule B aberranti. Ai MALTomi
gastrici nella fattispecie si associano tre traslocazione: più frequentemente
t(11;18), t(1;14) e t(14;18). Tutte e tre le traslocazioni si associano ad un
certo grado di antibiotico-resistenza, in particolare la t(11;18) è
frequentemente osservata nelle forme di MALToma H.Pylori negativo.
L'effetto netto di ciascuna di queste traslocazione è l'attivazione costitutiva
del fattore di trascrizione NF-κB, coinvolto nella proliferazione e
sopravvivenza cellulare. Nei MALTomi privi di queste traslocazione,
l’iperespressione di NF-κB è legata all'infezione persistente: l'eradicazione
dell'infezione elimina, in questi casi, lo stimolo immunitario alla base della
incontrollata proliferazione cellulare, determinando una regressione della
neoplasia. La conoscenza delle alterazioni molecolari che possono sottendere
lo sviluppo del tumore sono di conseguenza estremamente importanti, sia dal
punto di vista prognostico che terapeutico. Nelle forme di tumore prive di
traslocazioni cromosomiche il semplice utilizzo di un antibiotico può
determinare una regressione della malattia; mentre le forme tumorali in cui vi
è un'attivazione costitutiva di NF-κB legata alla traslocazioni cromosomica
non rispondono all’eradicazione dell’infezione. Ulteriore eventi molecolari
possono inoltre determinare l’evoluzione del MALToma in linfoma diffusi a
grandi cellule B, tumori ad alto e notevolmente aggressivi.
Dal punto di vista macroscopico, i linfomi a cellule B del MALT possono
presentarsi come aree di erosione, ulcere, discromiche e più frequentemente
come formazioni mammellonate che insorgono nelle sedi di infiammazione
cronica. L’iperplasia del tessuto linfoide solleva la mucosa determinando la
formazione di queste protrusione mammellonate. Possono avere origine a
partire da tessuto linfoide preesistente, come le placche di Peyer nell'intestino
tenue, o insorgere in tessuti privi di tessuto linfoide. L’infiammazione cronica
da H.Pylori costituisce lo stimolo prolinfomatoso, alla base
dell’organizzazione e dell’iperplasia del tessuto linfoide. Dal punto di vista
istologico, i MALTomi appaiono come densi infiltrati di piccoli linfociti nella
lamina propria. La presenza di piccole cellule evidenzia il basso grado della
lesione, tuttavia, come accade per altri linfomi di basso grado, anche i
MALTomi possono trasformarsi in tumori più aggressivi ad alto grado,
istologicamente definiti dalla presenza di linfomi diffusi a grandi cellule B. I
linfociti inoltre possono presentare aspetti di differenziazione in senso
plasmacellulare; talora le cellule possono presentare un’alterazione definite
monocitoide, dovuta alla presenza ampio citoplasma pallido che conferisce
un aspetto simil-monocita. La lesioni più importante in chiave diagnostica è
l'infiltrazione focale con distruzione delle ghiandole gastriche a creare le
cosiddette lesioni linfoepiteliali. All'esame immunoistochimico, i MALTomi
esprimono il marcatore delle cellule B mature CD20 ma non CD5 e CD10.
P OLIPI INTESTINALI
Con il termine polipo si definisce una massa ben definita che si sviluppa in
un organo cavo, comunemente nel colon ma anche a livello dell’esofago,
dello stomaco e del tenue. Il polipo origina come un piccolo rilievo della
mucosa e viene in questo stadio definito polipo sessile. Nel processo di
accrescimento, la proliferazione di cellule adiacenti alla massa e l’effetto di
trazione dovuto alla progressiva protrusione nel lume determinano lo
sviluppo di un peduncolo, con conseguente formazione di un polipo
peduncolato. Dal punto di vista strutturale, i polipi si caratterizzano per la
presenza di un tipico asse fibrovascolare che ne permette la distinzione dagli
pseudopolipi (presenti ad esempio nella Rettocolite ulcerosa). Come detto in
precedenza, i polipi possono insorgere in svariati organi cavi, quali utero,
cavità nasali, in corrispondenza delle corde vocali oltre che nel tratto
gastrointestinale. In relazione al sito d’insorgenza, il significato clinico
associato è differente: i polipi nasali sono in realtà pseudopolipi dovuti ad
iperplasia della mucosa conseguente a stimolazione allergenica; quelli uterini
sono legati a stimolazione ormonale; mentre quelli del tratto gastrointestinale
possono essere non neoplastici o neoplastici. I polipi intestinali non
neoplastici possono essere infiammatori, amartomatosi o iperplastici. I polipi
intestinali neoplastici più comuni sono invece gli adenomi che possono
potenzialmente progredire fino allo stadio di adenocarcinomi. Infine possono
essere presenti pseudopolipi infiammatori dovuti a fenomeni ciclici di danno
e rigenerazione tissutale, ad esempio la rettocolite ulcerosa; pseudopolipi
legati alla presenza di masse intraparietali che sollevano la mucosa nel loro
sviluppo in direzione del lume, come nel caso dei GIST; ed infine
pseudopolipi linfoidi legati ad iperplasia del MALT.
POLIPI INTESTINALI NON NEOPLASTICI
I polipi intestinali non neoplastici si distinguono in iperplastici,
amartomatosi, infiammatori e polipi giovanili.
POLIPI IPERPLASTICI
Il 95% dei polipi intestinali sono polipi iperplastici, piccole lesioni sessili,
localizzate prevalentemente nel crasso e nell’appendice in corrispondenza
delle pliche mucose, che interessano prevalentemente i soggetti in età
avanzata e non hanno alcun potenziale di malignità. La patogenesi dei polipi
iperplastici non è completamente chiara e si ritiene essere legata a fenomeni
di riduzione della velocità di turnover cellulare concomitanti ad una ritardata
esfoliazione cellulare, con conseguente accumulo di cellule assorbenti e
caliciformi. All’esame microscopico le aree di mucosa del polipo appaiono
ricche di cellule assorbenti e caliciformi e le ghiandole intestinali presentano
un aspetto stellato e seghettato in sezione trasversale.

Figura 34, polipo intestinale iperplastico. La mucosa risulta ricca di cellule assorbenti e caliciformi
organizzate in ghiandole dall’aspetto stellato in sezione trasversale. Per gentile concessione di
CoRus13 (CC BY-SA 4.0).

POLIPI AMARTOMATOSI
I polipi amartomatosi sono lesioni simil-tumorali costituite da una
commistione di tessuti maturi normalmente rappresentati nell'organo
interessato e disposti secondo un’architettura completamente sovvertita. I
polipi amartomatosi possono insorgere in maniera sporadica o manifestarsi
nell’ambito di sindromi acquisite ed ereditarie.
La sindrome di Peutz-Jeghers è una malattia ereditaria a trasmissione
autosomica dominante che si caratterizza per la presenza di polipi
amartomatosi multipli e iperpigmentazione mucocutanea. Quest’ultima si
manifesta con la presenza di macule di colore blu e marrone disposte sul
volto, mucosa orale, narici, genitali, superficie palmare delle mani ed in
regione perineale. Lo patogenesi della malattia segue il modello dei due hit di
Knudson con una prima mutazione in eterozigosi del gene LKB1/STK11
nella linea germinale e la seconda acquisita come mutazione somatica. La
malattia è una condizione precancerosa associata ad un aumentato rischio di
sviluppo di cancro del colon, pancreas, polmone, mammella ed altre
neoplasia. Gli adenocarcinomi insorgono indipendentemente dalla presenza
di lesioni amartomatose, questo indica che gli amartomi non sono lesioni
precancerose.

Figura 35, sindrome di Peutz–Jeghers, si noti la presenza di lesioni di colore bluastro disposte sul
volto, mucosa orale e narici. Per gentile concessione di Abdullah Sarhan (CC BY-SA 4.0).

I polipi giovanili sono lesioni malformative della mucosa, insorgono


tipicamente nei bambini di età inferiore cinque anni e si localizzano a livello
del retto. Le lesioni possono andare incontro ad ulcerazione e manifestarsi
con rettorragia. I polipi amartomatosi possono insorgere in maniera sporadica
o sindromica. Nella forma sporadica si presentano in maniera solitaria e non
possiedono potenziale maligno, mentre nella sindrome a trasmissione
autosomico dominante della poliposi giovanile si presentano anche fino a
cento polipi amartomatosi e predispongono ad un aumento rischio di sviluppo
dell’adenocarcinoma del colon.
POLIPI NEOPLASTICI
Un polipo neoplastico è una qualunque neoplasia, adenoma,
adenocarcinoma, carcinoide, GIST, linfomi, metastasi, che si sviluppa
protrudendo nel lume intestinale. I polipi neoplastici più benigni sono i polipi
adenomatosi, lesioni benigne che possono evolvere ad adenocarcinoma del
colon-retto.
POLIPI ADENOMATOSI
I polipi adenomatosi sono lesioni displastiche intraepiteliali, sessili o
peduncolate, presenti in circa la metà degli adulti occidentali intorno ai 50
anni. Insorgono tipicamente a livello dell'intestino crasso, del duodeno e
dell'ampolla di Vater. I polipi adenomatosi costituiscono lesioni precancerose
e possono potenzialmente evolvere in adenocarcinoma del colon-retto e per
questo è consigliato come test di screening l’esecuzione di una colonscopia
con rimozione dei polipi adenomatosi, soprattutto nei soggetti che hanno una
storia familiare di malattia e di conseguenza maggiormente a rischio di
sviluppare la neoplasia maligna. Nonostante la concreta possibilità
dell’evoluzione in senso maligno, la maggior parte degli adenomi non
progredisce ad adenocarcinoma del colon-retto. Tuttavia attualmente non
esistono metodiche per discriminare quali polipi o meno evolveranno in
senso maligno. Nel complesso il rischio di evoluzione in senso neoplastico si
attesta attorno al 5% e varia in relazione a:
1. Grado di displasia, che può essere a basso grado (displasia lieve e
moderata) o ad alto grado (displasia grave).
2. Caratteristiche macroscopiche, in quanto i polipi sessili si associano ad
un maggior rischio di evoluzione in senso neoplastico rispetto ai
peduncolati.
3. Caratteristiche microscopiche, in quanto i polipi villosi si associano ad
un maggior rischio di evoluzione in senso neoplastico.
4. Dimensioni, poiché tanto più grande è la lesione, tanto maggiore è il
rischio di evoluzione in senso neoplastico (il cut-off è stimato attorno ai
3 cm).
Dal punto di vista clinico, la maggiore parte degli adenomi risulta
asintomatico, tuttavia quelli di maggiori dimensioni possono andare incontro
a sanguinamento. La presentazione clinica differisce anche a seconda della
morfologia del polipo. I polipi peduncolati, protrudendo nel lume, possono
determinare occlusione o subocclusione intestinale, possono andare incontro
ad erosione della superficie mucosa con stillicidio ematico oppure andare
incontro a fenomeni di torsione lungo l'asse longitudinale del peduncolo ed
esitare in decapitazione del polipo con sanguinamento massivo e melena. I
polipi sessili sono di più difficile identificazione perché decorrono
solitamente in maniera asintomatica. Dal punto di vista terapeutico, i polipi
intestinali possono essere rimossi in maniera non invasiva in colonscopia,
microinvasiva in laparoscopia ed invasiva tramite chirurgia. L'intervento può
avvenire in maniera conservativa, ovvero limitarsi alla rimozione della
lesione, oppure, qualora si renda necessario in relazione alle caratteristiche
del polipo, in maniera non conservativa, ovvero seguito da un intervento di
resezione dell’intestino.
Dal punto di vista macroscopico, i polipi adenomatosi possono essere
peduncolati o sessili, con una superficie solitamente vellutata. Dal punto di
vista microscopico, le cellule epiteliali possono presentare diverso grado di
displasia con atipie più o meno marcate, quali ipercromasia, presenza di
grossi nucleoli e riduzione delle cellule caliciformi. Gli adenomi si
distinguono in base all’organizzazione strutturale in tubulari, villosi o tubulo-
villosi. Gli adenomi tubulari sono solitamente piccoli e peduncolati costituiti
da piccole ghiandole tonde o tubulari, mentre quelli villosi sono grossi e
sessili coperti da villi sottili. La condizione di carcinoma intramucoso si ha
quando le cellule displastiche oltrepassano la membrana basale ed invadano
la lamina propria e la muscolaris mucosae, esso tuttavia possiede scarso
potenziale metastatico essendo i canali linfatici assenti. La condizione di
adenocarcinoma invasivo si sviluppa nel momento in cui le cellule
neoplastiche epiteliali oltrepassano la muscolaris mucosae ed invadono la
sottomucosa, potendo a questo disseminare nel resto dell’organismo.
P OLIPOSI ADENOMATOSA FAMILIARE (FAP)
La poliposi adenomatosa familiare (FAP) è una malattia ereditaria, a
trasmissione autosomica dominante, che si caratterizza per la comparsa nella
seconda decade di vita di centinaia o migliaia di polipi intestinali a livello del
colon e del retto. La malattia è legata ad una mutazione del gene APC che
determina una aberrante proliferazione delle cellule epiteliali, con sviluppo di
polipi sessili e peduncolati isolati o fusi tra di loro. L’adenocarcinoma del
colon-retto si sviluppa nella totalità dei soggetti FAP non trattati e perciò
spesso si rende necessario l'intervento di colectomia profilattica attorno ai 20
anni. Dal punto di vista clinico, oltre alla presenza di centinaia o migliaia di
polipi del colon-retto, si manifesta con ipertrofia dell’epitelio pigmentato
della retina. La FAP può inoltre presentarsi nel contesto di quadri sindromici
ben più ampi, come la sindrome di Gardner e Turcot. La sindrome di Gardner
si caratterizza per la presenza di polipi intestinali multipli, osteomi cranici,
mandibolari e nella ossa lunghe, tumori tiroidei, cisti epidermiche, tumori
desmoidi ed anomalie della dentatura. La sindrome di Turcot si caratterizza
per la presenza di polipi intestinali multipli e tumori del sistema nervoso
centrale, soprattutto medulloblastomi e glioblastomi.
Pur essendo questa condizione responsabile di un esiguo numero di
carcinomi intestinali ad instabilità cromosomica (si veda più avanti in
Adenocarcinoma del colon-retto) rispetto al totale, la poliposi adenomatosa
familiare costituisce un importante modello di studio per la comprensione
dello sviluppo del carcinoma intestinale legato ad instabilità cromosomica
(CIN) secondo la via APC/β-Catenina. La patogenesi dell’adenocarcinoma
intestinale CIN segue il modello dei due hit di Knudson, con la differenza che
nei casi di CIN sporadici la mutazione in eterozigosi di APC viene acquisita a
carico di una cellula somatica e non germinale come nel caso della FAP. Alla
perdita dello status di eterozigote per APC seguono altre mutazioni geniche
che concorrono alla trasformazione in senso neoplastico, all'incirca nel 50%
dei casi si verifica una mutazione attivante del proto-oncogene k-RAS.
Essendo un evento relativamente precoce nella cancerogenesi, le mutazioni di
k-RAS si ritrovano sia livello della lesione primitiva che nelle metastasi. Tale
aspetto ha un ruolo importante sia dal punto di vista prognostico che
terapeutico, in quanto si associa ad una prognosi più infausta e rende il
paziente non è eleggibile alla terapia con farmaci biologici.
C ANCRO EREDITARIO DEL COLON - RETTO NON
POLIPOSICO (HNPCC)
Il cancro ereditario del colon-retto non poliposico (HNPCC) o sindrome
di Lynch è una malattia ereditarie, a trasmissione autosomica dominante, che
si associa ad un aumentato rischio per lo sviluppo di adenocarcinoma
intestinale legato ad instabilità dei microsatelliti (si veda più avanti in
Adenocarcinoma del colon-retto). La malattia è legata a mutazioni dei geni
che codificano per proteine coinvolte nei meccanismi di riparazione dei
mismatch repair, in particolare MSH2 ed MLH1. Gli adenocarcinomi
intestinali MSI si sviluppano in età più precoce rispetto alle forme sporadiche
ed interessano prevalentemente il colon destro, sono tipicamente dei tumori
mucosecernenti.
Pur essendo questa condizione responsabile di un esiguo numero di
carcinomi intestinali da instabilità dei microsatelliti (MSI) rispetto al totale, la
sindrome di Lynch costituisce un importante modello di studio per la
comprensione dello sviluppo nel carcinoma intestinale legato ad instabilità
dei microsatelliti (MSI). La patogenesi dell'adenocarcinoma MSI segue il
modello dei due hit di Knudson, con la sola differenza che nelle forme
sporadiche la mutazione in eterozigosi avviene in una cellula somatica e non
germinale come nel caso della HNPCC. Le mutazioni a carico di questi geni
coinvolti nei meccanismi di riparazione del DNA determinano una alterata
riparazione delle sequenze microsatelliti durante le mitosi.
Gli adenocarcinomi intestinali MSI insorgono su aree di mucosa
apparentemente indenni da lesioni e di conseguenza vengono identificati
spesso in stadi già avanzati. Il patologo può inoltre suggerire ai genetisti
ulteriori analisi per chiarire la reale natura della lesione, ovvero sporadica o
acquisita nel contesto di una sindrome ereditaria. In quest'ultimo caso risulta
molto importante una accurata anamnesi familiare ed un controllo
approfondito del paziente e dei familiari, volto all’individuazione di eventuali
altre lesioni. La presenza di instabilità dei microsatelliti può essere effettuata
confrontando le sequenze microsatelliti delle cellule tumorali e di quelle sane;
oppure valutando aspetti quantitativi e qualitativi di alcuni enzimi coinvolti
nei meccanismi di riparazione dei mismatch repair.
A DENOCARCINOMA DEL COLON - RETTO
L’adenocarcinoma del colon-retto è la neoplasia maligna più comune del
tratto gastrointestinale e costituisce una importante causa di mortalità in tutto
il mondo. La neoplasia può insorgere a livello del colon o del retto, ma in
entrambi i casi vi sono numerosi aspetti patogenetici e caratteristiche comuni.
La malattia è più frequente nei soggetti di sesso maschile, tra i 60 ed i 70 anni
e nei Paesi occidentali rispetto a quelli asiatici. La diversa distribuzione
geografica della malattia è probabilmente legata a stili di vita ed abitudini
alimentari differenti e ciò è inoltre confermato dal fatto che l’incidenza della
malattia sta aumentato progressivamente in tutti quei paesi asiatici, come il
Giappone, che si stanno occidentalizzando. L’associazione tra tipo di dieta e
sviluppo del carcinoma è oramai abbastanza evidente, sebbene i meccanismi
patogenetici non siano stati ancora del tutto compresi. Probabilmente una
dieta ricca di grassi e carboidrati raffinati e povera di fibre vegetali determina
una riduzione della massa fecale con alterazioni del microbiota intestinale. La
produzione di metaboliti ossidativi da parte dei batteri intestinali in
associazione alla ridotta velocità di transito del materiale fecale potrebbe
determinare esposizione della mucosa a sostanze potenzialmente nocive. Altri
fattori di rischio sono l’abitudine tabagica e la scarsa attività fisica. Dal punto
di vista clinico, la malattia si manifesta con sintomi di carattere locale, come
occlusione intestinale, alterazioni dell’alvo, e sanguinamento, e di carattere
sistemico, come astenia, calo ponderale ed anemia sideropenica. Una delle
complicanze più gravi è la perforazione intestinale. Gli adenocarcinomi del
colon di sinistra si manifestano in genere in una fase più precoce rispetto a
quelli del colon destro, il motivo risiede nel minore calibro del colon di
sinistra che risulta di conseguenza più suscettibile a fenomeni occlusivi o
subocclusivi. Le sedi più frequentemente interessate sono retto-sigma (50%
dei casi), cieco e colon ascendente (30% dei casi) ed il resto del crasso (20%
dei casi). La metastatizzazione può avvenire per via ematica, soprattutto a
fegato per il drenaggio nel circolo portale, ai polmoni ed alle ossa; per via
linfatica ai linfonodi loco-regionali; e per contiguità. L'approccio terapeutico
è prevalentemente di tipo chirurgico e prevede la resezione del tratto di colon
interessato e dei linfonodi loco-regionali. Vi può essere anche terapia
neoadiuvante, volta alla riduzione della massa tumorale prima dell’intervento
chirurgico, ed adiuvante, in seguito all’operazione. Le terapie sistemiche
vengono somministrate a tutti pazienti con presenza di metastasi e a quelli
con malattia locale ma interessamento linfonodale.
La maggior parte dei carcinomi intestinali insorge in forma sporadica, ma un
numero di casi non trascurabile si manifesta nel contesto di malattie ereditarie
rare, come la poliposi adenomatosa familiare (FAP) e il cancro ereditario del
colon-retto non poliposico (HNPCC), il cui studio è risultato fondamentale
nel chiarire le alterazioni molecolari alla base della malattia. Le forme di
carcinoma intestinale associate ad instabilità dei microsatelliti (MSI)
presentano uno sviluppo patogenetico simile a quello delle neoplasie che
insorgono nel contesto della sindrome di Lynch o HNPCC, mentre quelle
associate ad instabilità cromosomica (CIN) presentano uno sviluppo
patogenetico simile a quello delle neoplasie che insorgono nel contesto della
FAP. La differenza fondamentale tra i carcinomi CIN e MSI risiede nel fatto
che i primi insorgono su lesioni polipoidi mentre i secondi su aree di mucosa
piatta (apparentemente indenne da lesioni). Questo aspetto naturalmente
influenza sia la prognosi che la terapia, in quanto i carcinomi MSI vengono
identificati con più difficoltà e generalmente in stadi avanzati del loro
sviluppo e di conseguenza trattati tardivamente. La FAP e la HNPCC, come
già accennato, costituiscono due importantissimi modelli di studio per la
comprensione dei meccanismi patogenetici che sottendono lo sviluppo
rispettivamente degli adenocarcinomi del colon-retto da instabilità
cromosomica, secondo la via APC/β-Catenina, e da instabilità dei
microsatelliti. Nello sviluppo dei adenocarcinomi da instabilità
cromosomica l’evento chiave è legato alla perdita dello status di eterozigote
per APC, un gene che codifica per una proteina che si occupa di regolare
negativamente β-Catenina. La perdita di funzionalità di APC determina un
aumento dell’attività di β-Catenina che trasloca nel nucleo e promuove
l’espressione di proto-oncogeni come MYC. A questo primo evento
molecolare segue l’accumulo di ulteriori mutazioni che contribuiscono
all’evoluzione in senso neoplastico. Una mutazione importante e
relativamente precoce nella storia del tumore riguarda il proto-oncogene k-
RAS, che è mutato in almeno il 50% delle neoplasie. Seguono mutazioni di
altri geni oncosoppressori, quali SMAD2 e SMAD4 ed infine, come evento
relativamente tardivo, in circa il 70-80% dei casi si verifica perdita di
funzionalità della proteina p53, spesso dovuta ad eventi di delezione
cromosomica. Nello sviluppo degli adenocarcinomi da instabilità da
microsatelliti un ruolo fondamentale hanno le mutazioni a carico dei genici
coinvolti nella riparazione dei mismatch di DNA, soprattutto MSH2 ed
MLH1. La perdita dello status di eterozigote determina un progressivo
accumulo di sequenza microsatelliti. Nella maggior parte dei casi ciò si
verifica in regioni non codificanti e le mutazioni decorrono in maniera
silente. Tuttavia alcune sequenza microsatelliti sono presenti a livello delle
regioni codificanti o nei promotori, nella fattispecie sono interessati TGFBR2
e BAX, rispettivamente coinvolti nel controllo della proliferazione e della
sopravvivenza cellulare. Le alterazioni di TGFBR2 determinano una
incontrollata proliferazione mentre quelli di BAX un aumento della
sopravvivenza cellulare. Seguono mutazioni dell’oncogene BRAF, mentre
tendenzialmente non sono interessati p53 e k-RAS. Ogni evento molecolare
si associa ad una specifica controparte istologica, cosicché l’accumularsi
delle mutazioni la mucosa del colon-retto sana evolve ad adenoma precoce,
adenoma intermedio, tardivo ed infine il vero proprio carcinoma intramucoso,
che potrà successivamente invadere la tonaca sottomucosa e metastatizzare
nello stadio di adenocarcinoma invasivo.
Dal punto di vista macroscopico, il carcinoma del colon-retto può apparire
come una massa polipoide esofitica vegetante nel lume intestinale, come una
lesione a crescita circonferenziale anulare od ancora come una lesione
infiltrante ed ulcerata. L’infiltrazione della parete origina una risposta
stromale desmoplastica che conferisce alla lesione una consistenza dura,
tant’è che alla palpazione sono spesso apprezzabili come masse dure. Dal
punto di vista microscopico, le cellule neoplastiche appaiono come cellule
cilindriche atipiche, con nuclei allungati ed ipercromatici e nucleoli
soprannumerari. Inoltre si possono identificare varietà differenti: a cellule ad
anello con castone, a piccole cellule (ovvero con aspetti tipici delle cellule
neuroendocrine), papillari, squamosi e mucosecernenti.
L’adenocarcinoma del colon-retto può essere classificato in base all’aspetto
istologico in diversi istotipi (a cellule con anello a castone, mucosecernente,
papillare, squamoso), tuttavia dal punto di vista patogenetico, prognostico e
clinico risulta ben più utile la classificazione molecolare, che suddivide le
neoplasie sulla base degli eventi molecolari da cui hanno avuto origine. I due
gruppi più importanti sono i carcinomi da instabilità cromosomica (CIN) ed i
carcinomi da instabilità dei microsatelliti (MSI). Gli adenocarcinomi più
frequenti sono i CIN e rappresentano all’incirca l’85% di tutti i casi di tumore
del colon-retto.
La stadiazione del carcinoma del colon-retto viene effettuata secondo il
sistema TNM della American Joint Commitee on Cancer (AJCC), basato sue
tre elementi chiave fondamentali:
Dimensione del tumore (T), ovvero quanto la neoplasia è cresciuta
all'interno della parete intestinale e le tonache che ha interessato. Lo
stadio Tis è il più precoce ed identifica la condizione di carcinoma in
situ o carcinoma intramucoso; T1 è caratterizzato da invasione della
sottomucosa; T2 da invasione della muscolare propria; T3 da invasione
della sottosierosa; T4 da invasione della tonaca sierosa, suddiviso a sua
volta in T4a e T4b rispettivamente con e senza interessamento degli
organi adiacenti al sito primitivo di malattia.
Interessamento di linfonodi loco-regionali (N), ovvero se la malattia
interessa i linfonodi loco-regionali. Per una corretta stadiazione è
necessario che la sezione di colon asportato contenga almeno 12
linfonodi, se questo non accade allora I linfonodi non sono valutabili (si
indica con la sigla Nx).
Metastasi a distanza (M), ovvero se è presente disseminazione delle
cellule neoplastiche in siti diversi dalla sede primitiva.
La prognosi del carcinoma del colon-retto è progressivamente migliorata nel
corso degli anni ed attualmente la sopravvivenza cinque anni si attesta attorno
al 40-60%, in relazione al grading e alla stadiazione. Il miglioramento della
sopravvivenza è legato soprattutto ai regimi di screening, all’asportazione
delle metastasi a distanza (con mantenimento della funzionalità epatica), alla
maggiore efficacia della terapia neoadiuvante ed adiuvante ed
all’introduzione di farmaci di nuova generazione.
T UMORI DELL ’ APPENDICE
CARCINOIDE APPENDICOLARE
I più frequenti tumori dell'appendice sono i carcinoidi, tumori
neuroendocrini responsabili di circa il 50% di tutti tumori appendicolari. La
lesione insorge tipicamente a livello del fondo appendicolare e si sviluppa
progressivamente decorrendo in maniera asintomatica, motivo per il quale è
solitamente riscontrata in maniera accidentale. Generalmente sono lesioni a
basso grado di malignità e possono dare origine a sindromi paraneoplastiche.
Sebbene possa essere evidente una diffusione intramurale e transmurale,
l’interessamento dei linfonodi loco-regionali e le metastasi a distanza sono
eventi alquanto rari, se ciò avviene il sito più soggetto a metastatizzazione è il
fegato.
ADENOCARCINOMA APPENDICOLARE
Gli adenocarcinomi appendicolari rappresentano all'incirca il 10% di tutti i
casi di tumore dell'appendice. Insorgono tipicamente a livello della base
dell'appendice e nel loro processo di accrescimento possono determinare
occlusione intestinale, presentarsi come masse palpabili in addome e simulare
una condizione di appendicite acuta. Difatti spesso il riscontro della neoplasia
avviene in maniera occasionale in seguito ad intervento di appendicectomia
eseguito per una presunta appendicite acuta. In analogia con quanto avviene
per l’adenocarcinoma del colon-retto, la neoplasia può svilupparsi a partire da
una lesione polipoide secondo il modello descritto nel paragrafo
Adenocarcinoma del colon-retto. L'adenocarcinoma dell’appendice con
cellule ad anello con castone è una variante rara ed aggressiva che presenta
aspetti simili alla controparte gastrica. Una variante ancora più rara ed
aggressiva è l’adenocarcinoide (o carcinoide mucinoso o globet cell
carcinoid) dell’appendice, che presenta aspetti comuni all’adenocarcinoma ed
al carcinoide. Questa variante presenta maggiori possibilità di metastasi e
richiede un approccio più radicale, talora di completa emicolectomia destra.
TUMORI MUCINOSI DELL’APPENDICE
I tumori mucinosi dell’appendice sono lesioni relativamente frequenti che si
caratterizzano per l’abbondante produzione di muco. Il tumore viene definito
come mucinoso se più del 50% della lesione consiste in mucina
extracellulare. La componente cellulare risulta difatti nettamente inferiore
rispetto a quella epiteliale. La complicanza più comune dei tumori mucinosi è
il cosiddetto mucocele, ovvero la distensione dell’organo, in questo contesto
l’appendice, causata dall’accumulo di secreto mucoso nel lume. Il mucocele
si sviluppa gradatamente e nei casi più gravi può esitare nella dissecazione
della parete appendicolare con passaggio di muco in peritoneo. In
quest’ultimo caso si parla più correttamente di mucocele peritoneale.
Secondo la classificazione WHO più recente, i tumori mucinosi
dell’appendice si distinguono in: adenoma appendicolare mucinoso,
neoplasia appendicolare mucinosa di basso grado (LAMN) ed
adenocarcinoma appendicolare mucinoso.
ADENOMA APPENDICOLARE MUCINOSO
L'adenoma appendicolare mucinoso è una lesione benigna dell’appendice
che non invade la muscolaris mucosae (in maniera analoga a quanto descritto
per i Polipi neoplastici del colon). Insorge solitamente nella quinta decade di
vita e può decorrere in maniera asintomatica o causare ostruzione luminale.
Sulla superficie sierosa non si riscontra mai la presenza di muco e non sono
responsabili di pseudomixoma del peritoneo. Rappresentano una comune
causa di mucocele appendicolare. Dal punto di vista istologico, le lesioni
appaiono come proliferazioni sessili e piatte, a vario grado di displasia. Nella
stragrande maggioranza dei casi si tratta di adenomi a basso grado di
displasia, ovvero caratterizzati da una scarsa componente cellulare
organizzata in strutture villose, tubulari o tubulo-villose, con presenza di
granuli di mucina intracellulari. Gli adenomi ad alto grado di displasia sono
caratterizzati da cellule atipiche, talora con scarsa presenza di granuli di
mucina intracellulari, apparentemente pseudostratificate, con un alto indice
mitotico ed una organizzazione strutturale sovvertita, ma che comunque non
invadano la muscolaris mucosae.
NEOPLASIA MUCINOSA APPENDICOLARE DI BASSO GRADO (LAMN)
Le neoplasie mucinose appendicolari di basso grado (LAMN) raccolgo
tutti i tumori a potenziale di malignità incerto, generalmente crescono
lentamente e presentano una architettura (villosa, serrata, ondulata) ed aspetti
simili agli adenomi. Sono lesioni che infiltrano la parete secondo un fronte
ampio, crescono in maniera espansiva (in inglese pushing pattern) e si
caratterizzano per fibrosi ed atrofia della sottostante sottomucosa e muscolare
propria, senza tuttavia desmoplasia. Sono in genere lesioni a basso grado di
displasia, con un basso indice mitotico e con cellule cuboidali o cilindriche
dai nuclei piccoli e regolari e presenza di granuli di mucina intracellulari
organizzate in un singolo strato. Possono potenzialmente disseminare in altri
siti ed essere causa di pseudomixoma del peritoneo di basso grado: ciò rende
inappropriato il semplice termine di “adenoma”. Sulla superficie sierosa si
può talora apprezzare la presenza di muco con o senza cellule epiteliali
neoplastiche. Nei casi più gravi di mucocele, la parete appendicolare può
andare incontro a dissecazione con riversamento di muco in cavo peritoneale
ADENOCARCINOMA APPENDICOLARE MUCINOSO
L'adenocarcinoma appendicolare mucinoso è una neoplasia rara che
colpisce generalmente soggetti in età avanzata. Generalmente mimano una
condizione di appendicite acuta legata all’occlusione del lume appendicolare,
più raramente possono essere apprezzabili come masse palpabili in addome.
Sono lesioni che, a differenza del LAMN, infiltrano la parete in maniera
solitaria (a singola cellula) o in piccoli di gruppi di cellule (a singola
ghiandola), evocando una risposta desmoplastica. Sono lesioni ad alto grado
di displasia, con cellule atipiche, talora con scarsa presenza di granuli di
mucina intracellulare, un alto indice mitotico ed un’architettura sovvertita.
Possono determinare psudomixoma del peritoneo ma tendenzialmente
invandono i tessuti adiacenti e disseminano per via ematica e linfatica.
PSEUDOMIXOMA P E R I TO N E A L E
Lo pseudomixoma peritoneale è una condizione clinica caratterizzata da
crescita di cellule neoplastiche mucosecernenti all’interno del cavo
peritoneale, con progressivo sviluppo di ascite mucinosa nell’addome e nel
bacino. Il tumore primitivo è localizzato nella stragrande maggioranza dei
casi a livello dell’appendice e meno frequentemente nell’ovaio, colon-retto,
pancreas, stomaco, cistifellea, uraco ed altri organi. Lo pseudomixoma del
peritoneo può essere classificato in basso grado, solitamente associato alla
presenza di LAMN, oppure ad alto grado, associato alla presenza di
adenocarcinoma mucinoso. A causa dell’abbondante muco e della scarsa
componente cellulare, non raramente i patologi si avvalgono a scopo
diagnostico dell’immunoistochimica.
T UMORI DEL CANALE ANALE
CARCINOMA A CELLULE SQUAMOSE DEL CANALE ANALE
Il carcinoma a cellule squamose del canale anale è un tumore
relativamente raro e rappresenta l’80% di tutti i casi di tumori del canale
anale, interessa soprattutto soggetti di sesso femminile nella sesta e settima
decade d’età, tuttavia nella popolazione immunodepressa può presentarsi
ancora più precocemente. L’evoluzione delle abitudini sessuali, le infezioni
da HPV e gli ormoni sessuali giocano un ruolo importante nella maggiora
incidenza della malattia nei soggetti di sesso femminile. Le manifestazioni
cliniche del carcinoma a cellule squamose del canale anale sono solitamente
tardive e comprendono prurito, fastidio, sanguinamento, disturbo del transito
delle feci, dolore, incontinenza e sensazione di presenza di una massa pelvica.
Il carcinoma a cellule squamose del canale anale può metastatizzare per
contiguità agli organi adiacenti (prostata, vescica, uretra posteriore, retto
terminale), per via linfatica ed ematica. Data la particolare vascolarizzazione
del canale anale (si veda Vascolarizzazione dell’intestino crasso e del canale
anale), le metastasi linfonodali e a distanza variano in relazione al sito
primitivo di malattia. I carcinomi che insorgono prossimamente alla linea
dentata possono metastatizzare ai linfonodi perirettali ed al fegato, in quanto
drenati dal plesso emorroidario superiore tributario della porta. I carcinomi
che insorgono distalmente alla linea dentata possono metastatizzare ai
linfonodi inguinali e femorali ed ai polmoni, in quanto drenati dal plesso
emorroidario inferiore tributario della cava inferiore. Dal punto di vista
terapeutico, il trattamento è di tipo conservativo ed include radioterapia,
chemioterapia e chirurgia; la sola chirurgia radicale non è più applicata se
non in casi eccezionali. La terapia combinata, principalmente radioterapia e
chemioterapia con fluorouracile, è dimostrata essere uguale o migliora
rispetto alla sola chirurgia e nella maggior parte dei casi è risolutiva.
Dal punto di vista macroscopico, il carcinoma a cellule squamose del canale
anale può presentarsi come una piccola escrescenza tissutale, una lesione
ulcerata od ancora come un’area di fissurazione a margini leggermente
esofitici. All’esame istologico appare soventemente eterogeneo, con cellule
immature o differenziante parzialmente e a vario grado di cheratinizzazione,
organizzate secondo un’architettura tubulare piuttosto che vorticoide. Le
cellule neoplastiche originano frequentemente dalla zona di transizione e
possono differenziare in senso squamoso (variante a cellule squamose) o
proliferare rimanendo immature (variante basaloide). Quando tutto il tumore
presenta un aspetto basaloide viene definito carcinoma cloacogenico. Più
frequentemente il carcinoma squamoso del canale anale è una commistione di
cellule neoplastiche con caratteristiche eterogenee. La terminologia utilizzata
per definire le diverse varianti, squamoso e basaloide, è in relazione alla
controparte cutanea. Il carcinoma a cellule squamose si riteneva un tempo
originasse dalle cellule epiteliali della cute che riveste l’ano. Il carcinoma
anale basaloide si caratterizza per la presenza di cellule di tipo basale o
transizionale di piccole dimensioni, con un nucleo ben evidente e poco
citoplasma, talora disposte a palizzata.
Nel processo di cancerogenesi ha un ruolo fondamentale il virus del
papilloma umano (HPV), ritenuto responsabile del 90% circa di tutti i casi
di carcinoma anale e più nello specifico sono coinvolti i ceppi ad alto rischio,
HPV-16 ed HPV-18. Di tutte le persone infette da ceppi ad alto rischio
solamente una quota minoritaria, attorno al 13%, sviluppa realmente il
carcinoma, poiché la maggior parte delle persone è in grado di eliminare
spontaneamente il virus. Questo dato suggerisce come l'infezione virale abbia
un ruolo certamente importante ma non sufficiente a determinare lo sviluppo
del carcinoma anale. L’infezione di HPV risulta di conseguenza un fattore di
rischio che si associa alla presenza di altro cofattori, quali una
predisposizione genetica, l’immunodepressione, le abitudini sessuali e
l’abitudine tabagica. Il virus del papilloma umano è un virus oncogeno,
ovvero caratterizzato da potenzialità cancerogenetiche. Il genoma di HPV
codifica per delle oncoproteine, principalmente E6 ed E7, che vengono
espresse, in tempi diversi, in seguito all’integrazione casuale del genoma
virale nella cellula ospite. Le proteine E6 ed E7 inibiscono rispettivamente le
proteine p53 e p110RB con conseguente alterazioni dei meccanismi di
sopravvivenza e proliferazione cellulare. La perdita di funzionalità di p53
avviene frequentemente a livello proteico attraverso la formazione di
complessi con E6 e la successiva degradazione via proteasoma, meno
frequentemente è dovuta a mutazione puntiforme o delezione di regioni del
cromosoma 17p. Il ruolo patogenetico delle oncoproteine di HPV si esplica
soprattutto nella popolazione immunodepressa dove il virus non viene
eliminato e l’infezione è duratura e persistente nel tempo. Dato che la
popolazione non immunodepressa è in grado di risolvere spontaneamente
l’infezione virale, il ruolo cancerogenetico di HPV è più che altro attribuito
all'instabilità cromosomica conseguente all'integrazione del genoma virale
nella cellula ospite. Soventemente ciò causa la delezione del cromosoma 11q
o del 17p a cui può seguire la perdita di status di eterozigote.
Come per la cervice uterina, anche a livello del canale anale possono essere
individuate delle lesioni precancerose displastiche, definite neoplasia
intraepiteliale anale (AIN, Anal Intraepithelial Neoplasia) o lesione
squamosa intraepiteliale anale (ASIL, Anal Squamous Intraepithelial Lesion).
Il grado AIN si riferisce all’estensione della lesione: le lesioni AIN1 si
caratterizzano per la presenza di cellule displastiche che interessano
all’incirca 1/3 dello spessore di cute che riveste l’ano; le AIN2 per la
presenza di cellule displastiche che interessano all’incirca 2/3 dello spessore
di cute che riveste l’ano; le AIN3 per la presenza di cellule displastiche che
interessano l’intero spessore della cute. Le lesioni AIN di basso grado (AIN1
ed AIN2) si caratterizzano per la presenza di cellule che presentano aspetti
simili alla controparte sana e con buone possibilità di scomparire senza
lasciare traccia. Le lesioni AIN di alto grado (AIN3) si caratterizzano invece
per la presenza di cellule atipiche che possono potenzialmente evolvere in
carcinoma squamoso dell’ano. Di tutti i soggetti che presentano lesioni AIN1
solamente il 13% sviluppa effettivamente un carcinoma squamoso dell’ano.
La prognosi varia relazione allo stadio, secondo il sistema TNM (si veda
Stadiazione e grado di un tumore), al grado del tumore e alla sensibilità alla
terapia. La sopravvivenza a 5 anni di pazienti affetti da carcinomi squamosi il
canale anale ben differenziati E all'incirca dell’85%. Un'altra lesione
precancerosa HPV-correlata è costituita dal condiloma acuminato.
Grado lesione Descrizione
(AIN)
Cellule simili
Basso grado
alla controparte
sana. Buone
possibilità di
regressione.
Cellule atipiche.
Possibile
Alto grado evoluzione a
carcinoma
squamoso del
canale anale.
Tabella 7, classificazione delle lesioni precancerose (AIN) del canale anale.

ADENOCARCINOMA DEL CANALE ANALE


L’adenocarcinoma del canale anale è un tumore che ha origine dalla
mucosa del canale anale o dalle ghiandole anili ed interessa generalmente
terzo superiore. Dal punto di vista clinico, si presenta generalmente come il
carcinoma squamoso del canale anale, sebbene molto più raro rispetto a
quest’ultimo. In genere la maggior parte degli adenocarcinomi del canale
anale originano come disseminazione di una lesione primitiva a livello del
retto o originati a partire dalla mucosa presente appena al di sopra della linea
dentata. Dal punto di vista macroscopico ed istologico sono identici
all’adenocarcinoma del colon-retto (si veda per questo motivo
Adenocarcinoma del colon-retto).
A LT R E NEOPLASIE DEL CANALE ANALE
Il carcinoma verrucoso è una neoplasia che insorge dall'epitelio squamoso e
cresce in maniera esofitica, similmente ai condilomi ma di dimensioni
maggiori, e presenta un aspetto “a cavolfiore”. La prognosi è decisamente
buona.
Il melanoma anale è un tumore raro che rientra nella categoria dei melanomi
della mucosa. Può presentarsi sotto forma di lesione polipoide o sessile ed
infiltrante, con aree più o meno marcate di pigmentazione. Alla diagnosi
spesso sono presenti già metastasi ai infondi loco-regionali, epatiche e ad altri
organi. La prognosi è infausta con un tasso di sopravvivenza a 5 anni
inferiore al 20%.
Il morbo di Paget extramammario è una rara malattia neoplastica che
interessa le regioni ad alta densità di ghiandole apocrine, come la regione
anogenitale. Si manifesta come una dermatite eczematosa a crescita lenta ed
insidiosa che si può estendere fino alla linea pettinata. All’esame istologico lo
strato basale o l’intero spessore dell’epitelio squamoso risulta infiltrato da
cellule neoplastiche con abbondante citoplasma chiaro e grandi nuclei,
definite cellule di Paget.
.
PATOLOGIE DEL FEGATO E DELLE VIE
BILIARI

CENNI DI ANATOMIA, ISTOLOGIA E FISIOLOGIA


LESIONI ELEMENTARI EPATOCITARIE
APOPTOSI
NECROSI LITICA
STEATOSI EPATICA
GROUND GLASS HEPATOCYTE (GGH)
CORPI DI MALLORY
LESIONI ELEMENTARI DEL TESSUTO EPATICO
FIBROSI EPATICA
INFIAMMAZIONE
INSUFFICIENZA EPATICA
SINDROME EPATOPOLMONARE
ENCEFALOPATIA EPATICA
SINDROME EPATORENALE
IPERTENSIONE PORTALE
ASCITE
SHUNT PORTO-SISTEMICI
SPLENOMEGALIA
CIRROSI EPATICA
EPATITE ACUTA
EPATITE ACUTA VIRALE
EPATITE ACUTA DA FARMACI
EPATITE FULMINANTE
EPATITE CRONICA
EPATITE CRONICA VIRALE
EPATITE CRONICA AUTOIMMUNE
EPATOPATIE CRONICHE METABOLICHE
Epatopatia alcolica
Steatosi epatica non alcolica (NAFLD)
Malattia di Wilson
Emocromatosi
LESIONI NODULARI BENIGNE
IPERPLASIA NODULARE
ADENOMA EPATICO
EPATOCARCINOMA (HCC)
MALATTIE DELLE VIE BILIARI INTRAEPATICHE
COLANGITE BILIARE PRIMITIVA
COLANGITE SCLEROSANTE PRIMITIVA
COLESTASI EXTRAEPATICA
COLANGIOCARCINOMA (CAA)
CARCINOMA DELLA COLECISTI
C ENNI DI ANATOMIA , ISTOLOGIA E FISIOLOGIA
Il fegato è un organo parenchimatoso addominale di peso nell’adulto di circa
1500 g e rivestito da una capsula di tessuto connettivo fibroso (capsula di
Glisson) e da una tonaca sierosa (peritoneo viscerale) ad eccezione di alcune
aree. Il suo aspetto peculiare riguarda la duplice vascolarizzazione: il 70%
circa del flusso ematico deriva dalla vena porta ed il 30% circa dall'arteria
epatica. Per questi motivi il fegato è un organo che presenta già di per sé
fisiologicamente uno scarso apporto di sangue ossigenato, comunque
sufficiente nelle normali condizioni fisiologiche a sostenerne l'intensa attività
metabolica. Il sangue derivante dalla porta è di micronutrienti e tossine
assorbite nel tratto gastrointestinale che vengono metabolizzati a livello
epatico. In corrispondenza dell’ilo epatico penetrano i grossi vasi e fuoriesce
il dotto epatico comune che confluisce nella cistifellea e si continua nel
coledoco. La microarchitettura del fegato può essere descritta secondo il
concetto di lobulo e di acino epatico. Il obulo epatico è una regione esagonale
caratterizzata dalla presenza al suo centro di una vena centrolobulare (o vena
epatica terminale) e delimitata in periferia dalla presenza dei tratti portali.
L'acino epatico (di Rappaport) è una regione triangolare la cui base è
costituita dal setto (e dalle venule settali derivanti della porta) che congiunge
due tratti portali adiacenti e l'apice della vena epatica terminale. L'acino
epatico evidenzia maggiormente gli aspetti di vascolarizzazione del fegato e
viene suddiviso in tre zone (1,2 e 3): la zona 3 ed 1 si trovano rispettivamente
in prossimità della vena centrolobulare e alla periferia del lobulo epatico.
Poiché i rami terminali dell’arteria epatica si gettano nei sinusoidi epatici ed
il sangue fluisce dalla periferia del lobulo verso la vena epatica terminale, la
zona 1 sarà perfusa da sangue maggiormente ossigenato mentre la zona 3 da
sangue poco ossigenato. Per questi motivi la zona 3 dell’acino epatico è
maggiormente soggetta a fenomeni di ipossia ed è la prima ad andare
incontro a necrosi.
Nel contesto del parenchima epatico, gli epatociti si organizzano in travate
monofilari anastomizzate e dirette dalla periferia verso il centro del lobulo
epatico. Tra le travate epatocitarie si insinuano i cosiddetti sinusoidi epatici,
ovvero delle strutture vascolari rivestite da cellule endoteliali fenestrate
discontinue al di sotto delle quali si ritrova lo spazio di Disse, nel quale
giacciono le cellule stellate di Ito. Le cellule di Kupffer del sistema
monocito-macrofagico si ritrovano tra le cellule endoteliali. Nei sinusoidi
epatici il sangue arterioso si mescola con quello venoso della porta e fluisce
in direzione della vena epatica terminale. Dalle estroflessioni della membrana
degli epatociti hanno origine i canalicoli biliari che drenano nei canali di
Hering ed infine nei duttuli biliari della regione portale.

Figura 36, microarchitettura del fegato secondo il modello lobulare ed acinare. La struttura dell’acino
è delimitata dalla vena centro lobulare (VC) e dai due tratti portali (TP), mentre il lobulo epatico
corrisponde alla struttura di forma esagonale delimitata in periferia dai tratti portali e caratterizzata
dalla presenza della vena epatica terminale. Il tratto portale è costituito dai rami terminali dell’arteria
epatica (AE), vena porta (VP) e dotto biliare (DB). La frecce di colore eguale alla struttura vascolare
o duttale evidenziano il flusso: il sangue arterioso e venoso è diretto in direzione della vena epatica
terminale mentre il flusso biliare in direzione opposta.

I duttuli biliari confluiscono in dotti di calibro maggiore fino al dotto epatico


di destra e sinistra che si uniscono nel dotto epatico comune. Il dotto epatico
comune successivamente si unisce al dotto cistico, che collega la cistifellea,
per formare il dotto biliare comune che prosegue in sede intrapancreatica fino
ad unirsi al dotto pancreatico principale di Wirsung. Il dotto biliare comune
ed il pancreatico principale sboccano nell’ampolla epato-pancreatica ed infine
nel bulbo duodenale per mezzo dello sfintere di Oddi.
La colecisti o cistifellea è un organo cavo, piriforme, che risiede sulla faccia
inferiore del fegato, e preposto all'accumulo della bile prodotta dagli
epatociti. Dal punto di vista istologico, è caratterizzato dalla presenza di una
tonaca mucosa, una muscolare propria ed una tonaca sierosa ed è invece
privo di sottomucosa e muscolaris mucosae. L'assenza di questi due strati
facilita l'infiltrazione e la diffusione per contiguità delle lesioni neoplastiche
primitive di questa sede. Si riscontrano soventemente profondi diverticoli
della mucosa, detti seni di Rokitansky-Ashoff, che si estendono fino alla
muscolare propria. La loro origine è probabilmente legata alla presenza di
calcoli che determinano un aumento della pressione endoluminale con
conseguente erniazione dell’epitelio attraverso la muscolare propria.
L ESIONI ELEMENTARI EPATOCITARIE
Il fegato può essere interessato da numerose patologie primitive di varia
natura (metaboliche, microbiche, neoplastiche, circolatorie) o secondarie ad
altre condizioni patologiche, come lo scompenso cardiaco, la presenza di
neoplasie ed infezioni in sedi extraepatiche. Il fegato è un organo
dell'incredibile riserva funzionale e ciò, soventemente, maschera la presenza
del danno epatico lieve, spesso rilevato in maniera del tutto occasionale in
seguito all'esecuzione di test di laboratorio. L’evoluzione della malattia
epatica è per questo motivo un processo alquanto insidioso e protratto nel
tempo, talora i primi segni e sintomi possono presentarsi addirittura dopo
anni dall’inizio del danno. In generale, il danno epatico determina una serie
limitata di risposte cellulari che costituiscono lesioni elementari, specifiche o
non di una determinata malattia.
A P O P TO S I
Gli epatociti che vanno incontro ad apoptosi, detti anche corpi di
Councilman, vanno incontro a retrazione cellulare, il citoplasma è addensato
con presenza di corpuscoli eosinofili (costituiti da cromatolisi nucleare) ed il
nucleo picnotico e raggrinzito in periferia. L’area retratta appare come un
alone chiaro circondante la cellula morente. I residui degli epatociti sono
rimossi dalle cellule di Kupferr. L’apoptosi si riscontra in diverse situazioni
patologiche e non specifiche e costituisce sempre la spia di un danno
epatocitario.
NECROSI LITICA
La necrosi litica degli epatociti si manifesta con degenerazione palloniforme,
le cellule appaiono rigonfie e vacuolizzate, il citoplasma rigonfiamento e
chiaro. Questo tipo di danno epatico si riscontra nel contesto delle epatopatie
acute (tossiche, virali, da farmaci). Dal punto di vista laboratoristico, la
necrosi litica si accompagna ad un rialzo degli enzimi di danno epatico,
ovvero ALT ed AST.
Figura 37, sezione istologica di fegato colorata in EE. La lettera A indica un epatocita in cui è in atto
un processo di degenerazione balloniforme, si notino le dimensioni cellulari e l’aspetto chiaro del
citoplasma. La lettera B si riferisce ad un epatocita in apoptosi (corpo di Councilman), si notino lo
strato di retrazione, il citoplasma eosinofilo ed il nucleo picnotico e confinato alla periferia cellulare.
Per gentile concessione di Nephron (CC BY 3.0) [Modificato da Ballooning degeneration high mag
cropped.jpg].

S T E ATO S I E PAT I C A
La steatosi epatica si caratterizza per l'accumulo di lipidi all’interno degli
epatociti con danno cellulare che può esitare in necrosi. La steatosi può essere
settoriale, confinata a determinate aree del lobulo, oppure interessare l’intero
lobulo epatico. Dal punto di vista microscopico, si distingue la steatosi
microvescicolare da quella macrovescicolare. La microvescicolare si
caratterizza per la presenza di numerose vescicole citoplasmatiche contenenti
materiale lipidico; sono steatosi irreversibili che progrediscono verso la
cirrosi. La macrovescicolare si caratterizza per la presenza di un’unica e
grossa vescicola citoplasmatica lipidica derivante dalla confluenza di vacuoli
più piccoli; si tratta di una steatosi reversibile che, se non curata, progredisce
fino alla cirrosi. Inoltre possono essere presenti granulomi prevalentemente
macrofagici e presenza di infiltrato infiammatorio. La steatosi epatica
espressione di un danno tossico, epatitico (soprattutto da HCV), da diabete e
da steatoepatite non alcolica (NASH).
Figura 38, sezione istologica di fegato steatosico. Si noti la presenza di grandi vacuoli intracellulari
biancastri, contenenti materiale lipidico perso durante l'allestimento del vetrino. Per gentile
concessione di Nephron (CC BY 3.0) [Modificato da Periportal hepatosteatosis intermed mag.jpg].

GROUND G L A S S H E PATO C Y T E (GGH)


Il Ground Glass Hepatocyte (GGH) è un pattern istologico di comune
riscontro in corso di epatite cronica da HBV. È legato alla presenza
dell’antigene HBsAg nel reticolo endoplasmatico degli epatociti, dove il virus
prolifera. Si caratterizza per la presenza di un aspetto granulare del
citoplasma con un rinforzo della membrana plasmatica. L’analisi
immunoistochimica con anticorpi anti-HBsAg permette di evidenziare le
cellule infette dal virus. La lesione, sebbene indirizzi fortemente verso un
quadro di epatite B, può essere riscontrata anche nel contesto di altre
epatopatia, come quelle indotte da farmaci o da malattie da accumulo
(glicogenosi).
CORPI D I M A L L O RY
I corpi di Mallory sono inclusioni citoplasmatiche eosinofile legate ad
alterazioni delle proteine citoscheletriche e di comune riscontro in corso di
epatite alcolica. Il citoplasma attorno al corpo di Mallory risulta più chiaro e
talora l’epatocita può essere circondato da elementi infiammatori. Questo tipo
di lesione non è patognomonica dell'epatite alcolica e può essere riscontrata
in altre epatopatie (NASH, colestasi, morbo di Wilson).
L ESIONI ELEMENTARI DEL TESSUTO EPATICO
FIBROSI E PAT I C A
La fibrosi epatica è una condizione patologica del parenchima epatico che
può essere riscontrata in corso di numerose epatopatie croniche, come
infezione da HCV e HBV, NASH, patologie delle vie biliari e sovraccarico di
ferro. La fibrosi epatica costituisce uno dei meccanismi patologici e delle
caratteristiche morfologiche riscontrabili nella progressione della malattia
epatica cronica verso il suo stadio finale: la cirrosi epatica. La fibrosi può
presentarsi dal punto di vista morfologico sotto diversi aspetti: (1) fibrosi
portale, consiste in una sclerosi dello spazio portale con formazione di setti
fibrosi porto-portali che connettono gli spazi portali di un lobulo senza
interessamento della vena centrolobulare; (2) fibrosi centrolobulare, consiste
in una sclerosi della vena centrolobulare con estensione del processo fibrotico
nello spazio di Disse con un pattern tipicamente aracniforme, è di riscontro in
corso di epatopatia alcolica o di congestione del circolo venoso (es.
insufficienza cardiaca); (3) fibrosi a ponte, consiste in una sclerosi cicatriziale
conseguente a necrosi epatocitaria con formazione di setti fibrosi porto-
portali, precedentemente descritti, o porto-centrali, che connettono spazio
portale e vena centrolubulare. Quest’ultimo tipo di fibrosi è indice di danno
epatico in stadio avanzato ed in progressione verso la cirrosi, in quanto i
tralci fibrosi attraversati da vasi e circondati da tessuto di granulazione
costituiscono uno shunt tra il sistema portale e della cava inferiore con
conseguente mancata detossificazione del sangue portale nei sinusoidi
epatici. (4) fibrosi periintrasinusoidale (o sinusoidale), consiste in una fibrosi
dello spazio di Disse, ovvero di deposizione di tessuto fibroso nello spazio tra
epatociti e cellule endoteliali dei sinusoidi, di conseguenza questi risultano
circondati da tessuto fibroso. E’ una condizione tipica delle epatiti alcoliche e
della NASH.
Dal punto di vista patogenetico, la fibrosi è legata alla presenza di cronici
insulti al tessuto con morte degli epatociti, deposizione di matrice
extracellulare e riorganizzazione vascolare. Il meccanismo predominante
dell'evoluzione fibrotica è costituito dalla proliferazione e dall'attivazione
delle cellule stellate di Ito in cellule altamente fibrogeniche a fenotipo
tipicamente miofibroblastico. Le citochine e le chemochine rilasciate dai
linfociti e dalle cellule di Kupffer modulano l'attività delle cellule di Ito
attraverso la regolazione dell'espressione di fattori di crescita, recettori per i
fattori di crescita e di metalloproteasi; tutti elementi coinvolti nel
rimodellamento tissutale e nell'evoluzione fibrotica del fegato. Le cellule di
Ito risiedono nello spazio di Disse, compreso tra le travate di epatociti e le
cellule endoteliali in corrispondenza dei sinusoidi epatici. In questa sede si
ritrova normalmente collagene di tipo IV, tuttavia in corso di fibrosi epatica
le cellule di Ito, differenziate in senso miofibroblastico, depositano collagene
di tipo I e III, determinando la formazione di veri e propri setti fibrosi. Ciò
determina un sovvertimento dell'architettura vascolare del lobulo epatico con
capillarizzazione dei sinusoidi epatici, ovvero formazione di capillari nei
tralci fibrosi con perdita delle fenestrazione delle cellule endoteliali
sinusoidale alla base della detossificazione epatica del sangue. La formazione
di capillari all'interno dei setti fibrosi determina la formazione di shunt
vascolari porto-portali e porto-centrali, i primi costituiscono lo stesso sistema
e di conseguenza non hanno grande rilevanza patologica, mentre i secondi
determinano un passaggio diretto del sangue proveniente dal sistema della
vena porta nel sistema della cava inferiore. La mancata detossificazione
epatica del sangue costituisce il meccanismo patogenetico alla base
dell'encefalopatia epatica. In tutto questo contesto di danno epatico, fibrosi e
sovvertimento dell’architettura vascolare, gli epatociti proliferano nel
tentativo di rigenerare il tessuto, risultando tuttavia confinati a noduli
delimitati da setti fibrosi. I noduli di rigenerazione si classificano a seconda
delle dimensioni, inferiori o superiori ai 3 mm di diametro, in (1)
macronodulari, presenti soprattutto nella cirrosi post-epatitica, e (2)
micronodulari, presenti soprattutto nella cirrosi alcolica e post-epatitica. I
macronoduli di rigenerazione epatica sono quelli più rilevanti dal punto di
vista clinico, in quanto possono degenerare in senso neoplastico. Il proporsi
di ciclici fenomeni di infiammazione e rigenerazione con deposizione di
tessuto fibroso determinano uno scompaginamento ingravescente
dell'architettura epatica, l’organizzazione tipica del lobulo può risultare
completamente sovvertita con perdita della vena centrolobulare e formazione
di vere e proprie isole di epatociti. Tutto ciò esita nella formazione di un
fegato nodulare e fibrotico dalla funzionalità compromessa.
Figura 39, schema riassuntivo ed esemplificativo di alcuni tipi di fibrosi epatica. A: lobulo epatico
normale; B: fibrosi portale (in verde i setti fibrosi porto-portali che connettono gli spazi portali); C:
fibrosi centrolobulare (in rosso la fibrosi periintrasinusoidale); D: fibrosi a ponte porto-portale e
porto-centrale (in verde i setti fibrosi porto-portale ed in rosso i porto-centrali). Si noti che la
capillarizzazione dei setti fibrosi, evento più accuratamente descritto nel testo, determina la formazione
di veri e propri shunt che possono connettere lo stesso sistema venoso, nel caso della fibrosi porto-
portale, o due sistemi differenti, nel caso della fibrosi centro-portale.

La valutazione della fibrosi epatica può essere effettuata tramite una metodica
non invasiva, nota come elastografia epatica (FibroScan), che fornisce una
valutazione semiquantitativa della quantità di tessuto fibroso presente; oppure
tramite biopsia epatica che fornisce informazioni circa la quantità di tessuto
fibroso presente e la distribuzione dello stesso all'interno nel contesto del
parenchima epatico, aspetto fondamentale per l'interpretazione e la diagnosi.
All’esame istologico, la fibrosi epatica può essere apprezzata tramite
l'utilizzo di particolari colorazioni, come l'impregnazione argentica e la
tricromica di Masson, che colorano rispettivamente le fibre reticolari in
grigio-nerastro ed il connettivo in verde. In alternativa alla tricromica di
Masson si può utilizzare la tricromica di Mallory che colora il connettivo in
blu. Il grado di fibrosi viene quantificato in base a degli score (si veda più
avanti l’indice di Knodell e di Ishak).
INFIAMMAZIONE
L’infiammazione del parenchima epatico può interessare compartimenti
differenti del parenchima epatico e può differire a seconda degli elementi
infiammatori coinvolti, sebbene solitamente l’infiltrato infiammatorio sia
costituito da linfociti. L’infiammazione può insorgere nello (1) spazio
portale, tipico delle situazioni croniche; (2) in sede intralobulare, in sede peri-
portale o peri-centrale, tipico dell’epatite acuta ed associato a degerazione
palloniforme ed apoptosi epatocitaria; (3) a livello epatociti della lamina
limitante, la cosiddetta flogosi da interfaccia (in inglese piecemeal necrosis),
caratterizzata da distruzione del tessuto epatico circostante lo spazio portale
interessato. L’infiltrato infiammatorio determina distruzione degli epatociti
della lamina limitante, ovvero gli epatociti posti ai confini dei lobuli, con
diffusione dell’infiammazione nelle zone circostanti lo spazio portale
interessato. (4) nei dotti biliari intraepatici, tipico delle epatite autoimmuni.
La conoscenza della sede in cui è in atto il processo flogistico è molto
importante in quanto discrimina un quadro acuto, infiammazione
intralobulare, da uno cronico, infiammazione portale, o da uno cronico in fase
di acuzie, flogosi della lamina limitante (origina dallo spazio portale e si
propaga ai lobuli adiacenti).
L’infiammazione può inoltre essere prevalentemente di tipo neutrofila, in
caso di infezione batteria (es. una colangite acuta suppurativa ascendente
conseguente a calcolosi), od eosinofila, in caso di epatite da farmaci o nel
rigetto acuto di trapianto epatico. In quest’ultimo caso, i granulociti eosinofili
si ritrovano nello spazio di Disse e causano in aggiunta obliterazione dei
duttuli biliari. La presenza di un infiltrato prevalentemente plasmacellulare
suggerisce la presenza di un processo di autoimmunitario. Infine si può
osservare la formazione di granulomi epiteliodi in corso di epatopatie
tossiche, da farmaci, tubercolosi, micobatteriosi, sarcoidosi e colangite biliare
primitiva. Il grado di infiammazione viene quantificato in base a degli score.
I NSUFFICIENZA EPATICA
L’insufficienza epatica è la più temibile conseguenza di una malattia epatica
e si caratterizza per l'incapacità del fegato di svolgere le funzioni metaboliche
a cui è preposto. Ciò determina un sovvertimento dell'omeostasi dell'intero
organismo, con complicanze molto rilevanti e talora fatali. L’insufficienza
epatica può verificarsi in seguito ad un danno acuto (es. un'epatite
fulminante) oppure come conseguenza finale di un insulto cronico ripetuto
nel tempo (es. un'epatite virale cronica). Il fegato è, fortunatamente, un
organo dall'incredibile riserva funzionale e di conseguenza l’insufficienza si
manifesta solamente in presenza di un’importante compromissione
(all’incirca l’80%) del parenchima epatico. In questo contesto l'unico
intervento salvavita possibile è il trapianto d'organo. Dal punto di vista
clinico la malattia si manifesta con ittero, ipoalbuminemia con
predisposizione allo sviluppo di edema periferico, iperammonemia con
conseguente tossicità cerebrale, eritema palmare, angiomi stellati,
ginecomastia, ipogonadismo e fetor hepaticus, un caratteristico odore dovuto
alla presenza di ipertensione portale e shunt porto-sistemici. Vi possono
essere forme di coagulopatia legate alla ridotta sintesi epatica dei fattori della
coagulazione con conseguente tendenza all'emorragia. L’insufficienza epatica
è una condizione che predispone allo sviluppo di insufficienza multiorgano,
un evento che determina frequentemente exitus del paziente. Le complicanze
più gravi associate all’insufficienza epatica sono: sindrome epatorenale,
sindrome epatopolmonare ed encefalopatia epatica.
SINDROME E PATO P O L M O N A R E
La sindrome epatopolmonare si caratterizza per la presenza di ipossia e
vasodilatazione del circolo polmonare associate ad epatopatia. Si presenta
clinicamente con una riduzione della saturazione del sangue arterioso,
dispnea, facile faticabilità ed astenia. La malattia è legata alla presenza di
shunt artero-venosi a livello del circolo polmonare, alterazioni del rapporto
ventilazione-perfusione (V/Q ratio) e della diffusione dell’ossigeno attraverso
la membrana alveolo-capillare.
E N C E FA L O PAT I A E PAT I C A
L’encefalopatia epatica è una condizione caratterizzata da edema cerebrale
generalizzato con disturbo della trasmissione nervosa e neuromuscolare
legato all’aumento della concentrazione di ammoniaca nel sangue, con
conseguente effetto tossico a carico del tessuto nervoso. Dal punto di vista
clinico, si presenta con alterazioni del comportamento e della deambulazione,
disturbi della coscienza, confusione e stupore. I segni neurologici associati
alla malattia, comunque non sempre presenti, sono flapping tremor
(asterixis), un tipico tremore grossonolano a scosse ampie delle mani che
ricorda il battito d’ali di una farfalla, rigidità muscolare ed iperreflessia.
SINDROME E PATO R E N A L E
La sindrome epatorenale è una condizione di insufficienza renale, non
legata ad alterazioni intrinseche dei reni, che si verifica in pazienti con
insufficienza epatica. Dal punto di vista clinico, si presenta con alterata
escrezione di acqua, ritenzione di sodio e riduzione della velocità di
filtrazione glomerulare. Le cause sottostanti l’insufficienza renale sono
diverse: la diminuzione della pressione di perfusione renale, la
vasodilatazione sistemica, l’attivazione del sistema nervoso simpatico con
conseguente vasocostrizione dell’arteriola afferente e produzione di mediatori
vasoattivi che determinano un’ulteriore riduzione della perfusione renale.
I PERTENSIONE PORTALE
L’ipertensione portale è una condizione che si caratterizza per la presenza di
un aumento delle resistenze nel circolo portale. Le cause alla base di questa
condizione possono essere pre-epatiche (es. trombosi occlusiva della porta,
sindrome di Banti e sepsi intra-addominale), intraepatiche (es. cirrosi epatica)
e post-epatiche (es. insufficienza cardiaca destra e sindrome di Budd-Chiari).
L'aumento delle resistenze è legato a diversi fattori: (1) deposizione di tessuto
fibroso, (2) contrazione delle cellule miofibroblastiche, (3) ridotta secrezione
di NO ed aumentata secrezione di endotelina-1 da parte delle cellule
endoteliali, (4) formazione di shunt artero-venosi che impongono dei regimi
pressori più elevati al circolo portale e (5) aumento dell’afflusso di sangue
venoso attraverso il sistema portale in seguito alla vasodilatazione arteriosa
della circolazione splancnica. Il contributo delle cellule endoteliali nel
determinare vasocostrizione intraepatica è legata almeno in parte al contesto
infiammatorio, che modula l’attività delle cellule endoteliali dei sinusoidi
epatici. L’aumentato afflusso di sangue al sistema venoso portale sembra
avere origina da un aumento della secrezione di NO a livello del circolo
gastrointestinale, legato alla ridotta clearance del DNA batterico assorbito nel
tratto GI causata dalla riduzione della funzionalità del sistema monocito-
macrofagico, ed alla presenza di shunt vascolari intraepatici che bypassano il
“controllo” operato dalle cellule di Kupffer. Tra le manifestazioni
dell’ipertensione portale vi sono l’ascite, la formazione di shunt vascolari
porto-sistemici e la splenomegalia.
ASCITE
L’ascite si manifesta tipicamente in fase di cirrosi, in quanto è legata sia
all’ipertensione portale, che determina un aumento della pressione idrostatica
con fuoriuscita di acqua, che all’insufficienza epatica, che determina
ipoalbuminemia con riduzione della pressione oncotica e minor richiamo di
liquidi dai tessuti periferici. L’ascite consiste in una raccolta nel cavo
peritoneale di liquido, generalmente sieroso, che si caratterizza per la
presenza di un rapporto tra albumina sierica ed ascitica >1.1 mg/dL. Dal
punto di vista clinico, diviene manifesta quando sono presenti almeno 500mL
di liquido. Sebbene una delle principali cause dell’ascite sia la cirrosi epatica,
essa può manifestarsi anche nel contesto di infezioni, con raccolta di liquido
essudatizio, e neoplasie, con raccolta di sangue.
SHUNT P O RTO - S I S T E M I C I
Gli shunt porto-sistemici consistono in una deviazione della circolazione
portale in quella sistemica, tramite circoli collaterali e vasi neoformati. Nelle
normali condizioni fisiologiche, sono presenti dei circoli collaterali che
collegano il sistema venoso sistemico con quello portale, con un flusso
sanguigno diretto dalla circolazione sistemica verso quella portale. I più
importanti sono il circolo esofageo, il plesso emorroidario, il circolo
periombelicale ed il circolo retroperitoneale di Retzius. L’aumentata
pressione portale determina vasodilatazione dei collaterali con inversione del
flusso sanguigno, cosicché a livello esofageo si formano le varici esofagee, a
livello del retto le emorroidi e a livello dell’addome il cosiddetto caput
medusae, legato all’ectasia del circolo periombelicale superficiale. Di tutti
questi shunt, il più pericolo è rappresentato dalle varici esofagee che possono
andare incontro a rottura con importante sanguinamento ed ematemesi
massiva. Anche le emorroidi possono andare incontro a rottura con
conseguente rettorragia.
SPLENOMEGALIA
La splenomegalia è una possibile conseguenza dell’ipertensione polmonare.
La vena splenica drena difatti nella porta: in presenza di ipertensione portale
vi è una ostacolo al deflusso del sangue venoso, responsabile della
splenomegalia congestizia. A questa condizione si possono associare
alterazioni ematologiche secondarie, come la trombocitopenia.
C IRROSI EPATICA
La cirrosi epatica è tra le cause di morte più comuni nei Paesi occidentali, in
particolare di quelle correlate ad epatopatie, e costituisce lo stadio evolutivo
finale della malattia epatica cronica. La cirrosi è legata alla presenza di insulti
cronici a carico del parenchima epatico, determinati da fattori eziologici
diversi, principalmente (1) abuso cronico di alcol, (2) epatiti virali, (3)
steatoepatite non alcolica (NASH), (4) patologie delle vie biliari, (5)
sovraccarico di ferro e rame e (6) criptogenica (ovvero senza causa nota). Dal
punto di vista clinico, le manifestazioni di epatopatia tendono a comparire in
una fase avanzata della storia della malattia, essendo il fegato dotato di una
grande riserva funzionale. Le manifestazioni cliniche comprendono
anoressia, astenia, calo ponderale e solo nelle fasi più tardive o in relazione
alla presenza di eventi precipitanti (es. infezioni o sovraccarichi metabolici)
compaiono sintomi e segni dell'insufficienza epatica. Il progredire della
malattia determina l'instaurarsi di insufficienza epatica progressiva e di
ipertensione portale, con ascite, stato anasarcatico e shunt porto-sistemici.
La cirrosi epatica è inoltre una condizione predisponente allo sviluppo di
epatocarcinoma, indipendentemente dai fattori eziologici che hanno
condotto a questo stadio di malattia, sebbene più frequentemente tale
complicanza si presenta nel contesto della cirrosi post-epatitica.
La patogenesi della malattia è legata alla presenza di cronici insulti al tessuto
con morte degli epatociti, deposizione di matrice extracellulare e
riorganizzazione vascolare. Il danno epatocitario è di tipo ischemico ed è
legato alla presenza di (1) di un fisiologico ridotto afflusso di sangue
ossigenato all'organo, (2) alla presenza di shunt vascolari artero-venosi e (3)
all'isolamento degli epatociti mediato dal tessuto fibroso depositato. Ciò
determina necrosi litica degli epatociti con rilascio di DAMPs che evocano il
processo flogistico che tipicamente si accompagna alla cirrosi. In relazione
alla presenza e all’attività dell'infiltrato infiammatorio, la cirrosi viene
definita attiva o inattiva: nell’inattiva il processo necro-infiammatorio è
concluso e l'organo risulta irreversibilmente danneggiato; nell’attiva il
processo necro-infiammatorio è in atto ed è possibile intervenire riducendo o
contenendo l’infiammazione, limitando di conseguenza il danno strutturale e
funzionale. Gli eventi che conducono alla fibrosi epatica e all’evoluzione
cirrotica sono ampiamente spiegati nella sezione “Fibrosi epatica”.
Il fegato cirrotico appare dal punto di vista macroscopico ipotrofico o
atrofico, di consistenza soda e di colore giallastro se è associato steatosi. La
superficie appare granulare per la presenza di noduli di rigenerazione.
Inizialmente il volume è aumentato ma diminuisce progressivamente con il
perpetrarsi del danno. All'esame istologico appare evidente la presenza di
fibrosi diffusa su tutto il parenchima epatico, con compresenza di setti fibrosi
porto-portali e porto-centrali; si riscontra un diffuso sovvertimento
dell'architettura vascolare, con capillarizzazione sinusoidale, formazione di
shunt vascolari artero-venosi, porto-portali e porto-centrali e processi di
neoangiogenesi in atto; caratteristica è inoltre la presenza di noduli di
rigenerazione, costituiti da isole di epatociti proliferanti delimitati da tralci di
tessuto fibroso. Questi ultimi consistono in delle isole dalle dimensioni
variabili di epatociti in attiva proliferazione delimitate da tralci fibrosi. Gli
epatociti in replicazione appaiono binucleati, le travate di epatociti risultano
aberranti, costituite da più file di epatociti, e separate da tessuto fibroso
reticolare o da setti di fibrosi a ponte. Si ricorda che nel fegato normale i
sinusoidi sono costituiti da una singola fila di epatociti. La vena
centrolobulare non è apprezzabile e si osserva proliferazione dei dotti biliari,
quest'ultimo un importante aspetto per quanto riguarda la diagnosi. Nelle
forme di cirrosi alcolica spesso si riscontra la presenza di depositi di
emosiderina con scarso infiltrato infiammatorio. L'aspetto micronodulare o
macronodulare (a seconda che il diametro del nodulo sia maggiore o inferiore
ai 3 mm di diametro) viene definito macroscopicamente in sede autoptica o
tramite metodiche di imaging, poiché l'agobiopsia percutanea permette
ottenere un frustolo di tessuto di dimensioni troppo piccole per questo tipo di
valutazione. La presenza di macronoduli rigenerativi all'imaging con aspetti
di vascolarizzazione e morfologici dubbi deve porre il sospetto di lesione
neoplastica.
Figura 40, sezione istologica di fegato cirrotico colora in tricromica di Mallory. Si noti l’entità e la
diffusione del tessuto fibroso. Per gentile concessione di Nephron (CC BY 3.0).
E PATITE ACUTA
Con il termine epatite acuta si identifica un processo infiammatorio acuto a
carico del parenchima epatico. Le epatiti acute sono definite su base clinica,
poiché raramente si manifestano clinicamente in misura tale da richiedere una
biopsia epatica. Il processo infiammatorio può avere eziologia diversa: da
sostanze tossiche, farmaci e virus. Dal punto di vista clinico, le epatiti acute si
manifestano in misura variabile con astenia, subittero ed ittero, in
associazione ad un rialzo delle transaminasi. Affinché una epatite acuta possa
essere definita come tale è necessario che il rialzo degli enzimi di danno
epatico non si protragga oltre i 3-6 mesi, altrimenti il danno epatico assume le
caratteristiche delle epatiti croniche.
Dal punto di vista morfologico, il parenchima epatico in corso di epatite acuta
si presenta con tutta una serie di alterazioni aspecifiche e comuni diversi
agenti. La necrosi litica determina lisi degli epatociti con immissione in
circolo delle transaminasi, l'area di parenchima epatico interessata può essere
più o meno ampia seconda dell'agente eziologico scatenante e ciò
naturalmente si correla con l'andamento clinico della malattia. Può insorgere
in maniera focale o multifocale con aree di confluenza che determinano un
collasso stromale, ovvero necrosi delle travate epatocitarie con confluenza
delle fibre reticolari di supporto (necrosi litica confluente). Talora la necrosi
può interessare anche gli epatociti lungo il tratto porto-centrale e porto-
portale, precedendo la deposizione di tessuto fibroso. Alla necrosi si
aggiunge la presenza di infiltrato infiammatorio cronico, prevalentemente
linfociti, plasmacellulare e rari granulociti, nello spazio portale ed in sede
intralobulare. Nei casi di epatite acuta da farmaci l’infiltrato è tipicamente
eosinofilo, un aspetto peculiare da tenere in considerazione. La rigenerazione
epatocitaria è un aspetto che si contrappone alla necrosi litica, le travate
epatocitarie, normalmente costituite da una singola fila di cellule, appaiono
costituite da più file cellulari con formazione di rosette. La colestasi epatica è
un aspetto morfologico che può manifestarsi nel contesto delle epatiti acute,
si caratterizza per la presenza di lacune ripiene di bile, un pigmento giallo
verdastro che deve essere differenziato da altre sostanze pigmentate (es.
depositi di emosiderina, formalina). A livello clinico quest’ultima si
manifesta a livello clinico con comparsa di ittero, prevalentemente di tipo
epatico in quanto non avviene la coniugazione della bilirubina.

Figura 41, colestasi epatica, si noti la presenza tra gli epatociti di lacune ripiene di bile di colore
giallo-verdastro. Per gentile concessione di Nephron (CC BY 3.0).

E PAT I T E A C U TA V I R A L E
Le epatiti acute virali sono legate ad infezioni virali sistemiche da agenti
(CMV, EBV, Paramyxovirus e Parvovirus B19) che possono interessare il
fegato, pur non presentando per esso un tropismo specifico. I virus epatotropi
(HBV, HCV, HDV, HAV ed HEV) sono invece virus a tropismo specifico
per il fegato e possono determinare malattie acute autolimitanti (HAV) od
evolvere in infezioni persistenti alla base di forse di epatite cronica (HCV,
HBV). Il virus dell'epatite A (HAV) è responsabile di affezioni autolimitanti,
benigne e a risoluzione spontanea, con un periodo di incubazione che varia
dalle 3 alle 6 settimane. HAV non provoca epatite cronica, stato di portatore e
sole rarissimi casi è responsabile di epatite fulminante. Il virus è responsabile
di focolai infettivi in tutto il mondo e risulta endemico nei paesi con standard
igienico-sanitari relativamente scarsi. Dal punto di vista clinico, la malattia si
manifesta con sintomi aspecifici come astenia, perdita dell'appetito e spesso
con comparsa di ittero. La modalità di trasmissione e di tipo oro-fecale e vede
come vettori acqua e cibo contaminati.
E PAT I T E A C U TA D A FA R M A C I
Numerosi farmaci e sostanze vengono metabolizzate a livello epatico e per
questo motivo si rendono spesso responsabili di epatiti acute e di un numero
importante di epatiti fulminanti. Il fegato è un organo estremamente
suscettibili al danno tossico perpetrato da queste sostanze: si stima che
all'incirca il 10% di tutte le reazioni avverse da farmaci coinvolgano il fegato.
Risulta evidente come risulti estremamente importante raccogliere
un'accurata anamnesi farmacologica, che non riguarda solamente i farmaci
propriamente detti ma anche i rimedi tradizionali (erbe, tisane, medicine
orientali).
I meccanismi patogenetici alla base del danno epatico possono essere legati a
(1) tossicità diretta per gli epatociti e colangiociti, (2) conversione in
metaboliti tossici e (3) autoimmunità. Il danno epatico può perpetrarsi in
maniera imprevedibile (idiosincrasica) o prevedibile, in relazione alla
quantità di farmaco somministrata.
Dal punto di vista istologico, il danno epatocitario si esprime con necrosi
litica, steatosi microvescicolare o macrovescicolare e colestasi epatica. Il
processo flogistico si caratterizza per la presenza di un infiltrato
prevalentemente eosinofilo in sede intralobulare e/o nello spazio portale e
presenza di granulomi epiteliodi non necrotizzante.
E PAT I T E FULMINANTE
Con il termine epatite fulminante si intende una rara manifestazione
iperacuta che conduce all’insufficienza epatica nell’arco di 2-3 settimane. Le
cause più comuni di epatite fulminante sono infezioni virali (in particolare da
HBV, HDV e talora anche HCV), abuso di alcol, morbo di Wilson ed ancora
in seguito all’assunzione di agenti tossici, in particolare di cibi contaminati da
Amanita Phalloides, e farmaci, principalmente il paracetamolo. Dal punto di
vista clinico, si associa al rilascio in circolo di elevanti livelli di LDH e
transaminasi, riduzione dei fattori della coagulazione circolanti con aumento
di INR e aPTT, alterazione del metabolismo della bilirubina con conseguente
comparsa di ittero. L’arresto della funzione detossificante del fegato
determina la mancata depurazione del sangue da tossine e metaboliti tossici
con comparsa di encefalopatia epatica. Dal punto di vista terapeutico, il
trattamento consiste nell’eliminazione della causa che sottende l’epatite
fulminante ed in una terapia. Nei pazienti in cui la malattia non si risolve
precocemente l’unica opzione terapeutica possibile è il trapianto di fegato,
che deve essere effettuato prima che si sviluppino infezioni o insufficienze
d’organo concomitanti.
Dal punto di vista macroscopico, il parenchima epatico collassa e risulta
atrofico, a causa della necrosi massiva, la colestasi massiva conferisce un
colore giallastro e la capsula di Glisson si raggrinzisce. All’esame istologico,
le aree necrotiche appaiono di colore rosso scuro, flaccide ed emorragiche, la
necrosi litica degli epatociti determina collasso e confluenza delle fibre
reticolari di sostegno e rende maggiormente evidenti i dotto biliari.
L’infiltrato infiammatorio è scarso nelle fasi iniziali ed aumenta con il
passare dei giorni. Le cellule di Kupffer vanno incontro ad iperplasia per
eliminare di detriti necrotici degli epatociti. Se l’evento non determina exitus
del soggetto, la popolazione epatocitaria sopravvissuta prolifera nel tentativo
di rigenerare il parenchima epatico. Le cellule staminali presenti nel canale di
Hering, note come cellule ovali, proliferazione e differenziano, in epatociti o
colangiociti, originando la cosiddetta reazione duttulare. Se l’architettura del
parenchima non è eccessivamente compromessa, la proliferazione degli
epatociti può ripristinare completamente la normale architettura del
parenchima. Nei casi di necrosi più importanti, la rigenerazione può avvenire
in maniera più irregolare e talora si può accompagnare ad esiti cicatriziali che
possono condurre alla cirrosi epatica.
E PATITE CRONICA
L’epatite cronica è una condizione patologica che si caratterizza per la
presenza di infiammazione e di danno epatico che si protrae per un periodo
maggiore di 6 mesi, in associazione al dato laboratoristico di rialzo delle
transaminasi. Dal punto di vista clinico, la malattia ha spesso un decorso
asintomatico o paucisintomatico e viene di conseguenza identificata in
maniera accidentale, in seguito ad un rialzo degli enzimi di danno epatico
persistente nel tempo. Questa indicazione suggerisce l'esecuzione di una
biopsia epatica funzionale (si veda Biopsia funzionale epatica) che, a
differenza delle epatiti acute, fornisce importanti informazioni circa l'entità
dell'infiammazione, della fibrosi e del grado di evoluzione della patologia.
Naturalmente la biopsia medica è una manovra non esente da rischi e
complicanze, la più comune delle quali è l'emoperitoneo, che si verifica
nell'1-2% dei casi, soprattutto in relazione a pazienti cirrotici e che per questo
motivo presentano alterazione della coagulazione. Le epatiti croniche
possono avere eziologia virale, autoimmunitaria, da abuso di alcol, tossica,
farmacologica, da deficit di α-1-antitripsina ed insorgere nel contesto della
malattia di Wilson. Tutte queste condizioni si caratterizzano per la presenza
di elementi comuni e manifestazioni morfologiche specifiche, anche nel
contesto delle epatiti croniche virali vi sono aspetti morfologici specifici
proprio del virus responsabile di malattia.
E PAT I T E CRONICA VIRALE
Le epatiti croniche virali sono legate ad infezione da parte dei virus
epatotropi HBV ed HCV, più raramente da HDV.
Dal punto di vista morfologico, la malattia si presenta con aspetti comuni e
lesioni specifiche a seconda del virus responsabile. L'infiltrato infiammatorio
in corso di epatite cronica virale è prevalentemente di tipo linfocitario,
soprattutto CD4+, con scarsa presenza di monociti e granulociti. Il processo
flogistico può dar luogo ad una forma di epatite silente, definita epatite
cronica lieve, quando il processo flogistico è limitato allo spazio portale, in
questo caso non si osserva necrosi litica e non vengono rilasciati in circolo
enzimi di danno epatico. L'epatite cronica lieve può andare incontro ad una
fase di riacutizzazione, definita epatite cronica riacutizzata, che risulta ben
più evidente e precoce nell'epatite di tipo C, per la maggiore tendenza
all'evoluzione in senso cirrotico. Questa fase si caratterizza per la presenza di
flogosi da interfaccia (in inglese piecemeal necrosis), ovvero un processo di
necrosi che coinvolge gli epatociti della lamina limitante all'interfaccia tra lo
spazio portale di un lobulo epatico ed uno adiacente. Con il progredire del
tempo il processo necrotico si estende agli epatociti dei lobuli sani. Nel
decorso della malattia, i processi flogistici assieme a quelli di guarigione si
ripropongono ciclicamente, tuttavia, nonostante la grande capacità
rigenerativa del fegato, non si giunge ad una completa restitutio ad integrum
del parenchima epatico, bensì si progredisce gradualmente verso un sempre
più alto grado di fibrosi epatica. Inizialmente si potrà osservare fibrosi
portale, con allargamento dello spazio portale, che progredisce in una fibrosi
porto-portale ed infine in una porto-centrale. Per i meccanismi patogenetici
alla base della fibrosi epatica si veda la sezione relativa a “Fibrosi epatica”.
Le alterazioni morfologiche specifiche legate all'infezione da HBV sono
caratterizzate dal cosiddetto aspetto a Ground Glass Hepatocytes (GGH), che
si caratterizza per la presenza di epatociti con un citoplasma "a vetro
smerigliato"e nuclei pallidi. L'infiammazione e la necrosi litica sono legati
alla risposta immunitaria dell'ospite evocata dalla presenza del virus, di
conseguenza l'entità della componente flogistica è meno importante nei
soggetto immunocompromessi, nei quali tuttavia la malattia evolve più
rapidamente verso lo stadio terminale, ovvero la cirrosi epatica.
All'immunoistochimica gli epatociti vengono marcati con anticorpi diretti
contro l'antigene HBsAg ed HBcAg, mentre i nuclei si colorano in marrone
con la diaminobenzidina in relazione all'entità della replicazione virale.

Figura 42, sezione istologica di fegato colorata in EE. Si noti la presenza dell'aspetto definito come
Ground Glass Hepatocytes (GHH), di comune riscontro nelle biopsie in corso di epatite cronica di tipo
B. Per gentile concessione di Nephron (CC BY 3.0).

L'infezione da HCV si caratterizza per la presenza di steatosi focale


microvescicolare e macrovescicolare e presenza di follicoli linfoidi confinati
negli spazi portali, dei quali è talora apprezzabile il centro germinativo ed il
tipico mantello. Questi due aspetti quando presenti assieme sono
patognomonici di epatite C. L'infiammazione e la necrosi litica risultano
solitamente di blanda entità. Più frequente invece è il riscontro di epatociti
andati incontro ad apoptosi in un contesto non infiammatorio per effetto
citopatico diretto del virus. Può inoltre essere anche deposizione di pigmento
e emosiderinico. Talora di possono essere anche quadri piuttosto insoliti di
epatite C caratterizzati dalla presenza di una spiccata componente
plasmacellulare, soprattutto nei casi in cui l'epatite C si complica con
un'epatite autoimmune. Non raramente difatti l'infezione da HCV evoca
processi autoimmunitari. In questi casi l'approccio terapeutico è notevolmente
più complicato, essendo il danno tissutale esplicato sia dall'effetto citopatico
del virus che dallo stesso sistema immunitario che aggredisce gli epatociti in
maniera aberrante. In aggiunta si verifica steatosi epatica diffusa e danno ai
dotti biliari.
E PAT I T E C R O N I C A A U TO I M M U N E
L’epatite autoimmune è una forma di epatite cronica e progressiva ad
eziologia sconosciuta, che si caratterizza per la presenza di un danno
immunologico prevalentemente cellulo-mediato ed in misura minore
umorale. Dal punto di vista epidemiologico, sono maggiormente interessate
le giovani donne e l’incidenza è più alta nei Paesi dell’Europa del Nord.
L’autoimmunità si manifesta in soggetti geneticamente predisposti in seguito
all’esposizione a fattori ambientali (sostanze chimiche, ambientali, farmaci ed
infezioni virali) e spesso in associazione ad altre malattie autoimmunitarie,
come la sindrome di Sjögren, il lupus eritematoso sistemico, l’artrite
reumatoide e la celiachia. L'infezione da HCV non raramente si associa a
manifestazioni autoimmunitarie. L'epatite autoimmune viene classificata in
tipo 1 e 2 in relazione al quadro degli anticorpi circolanti. Il tipo 1 è la forma
più comune di epatite autoimmune e si caratterizza per la presenza di
anticorpi anti-nucleo (ANA), anti-actina (AAA), anti-muscolo liscio (SMA) o
anti-antigene epatico solubile/antigene del fegato-pancreas (SLA/LP). Il tipo
2 si caratterizza per la presenza di anticorpi anti-microsomi epato-renali
(LKM1). In entrambi i casi si riscontra negatività per gli anticorpi anti-
mitocondri (AMA) invece fortemente associati alla colangite biliare
primitiva.
Dal punto di vista morfologico, la malattia si caratterizza per la presenza di
aspetti peculiari che costituiscono dei criteri diagnostici. All'esame
microscopico e evidente una spiccata risposta immunitaria con un'importante
attività infiammatoria e di necrosi, che presenta un aspetto confluente a
ponte. A ciò si aggiunge la presenza di un infiltrato plasmacellulare
policlonale, spesso a livello dello spazio portale, evidenziabile sia dal punto
di vista morfologico che all'immunoistochimica per la positività al CD138.
Inoltre vi può essere necrosi focale delle cellule epiteliali dei dotti biliari con
passaggio delle plasmacellule e dei linfociti negli stessi.
Ai fini della diagnosi, è necessario che vi sia positività per almeno uno di
questi anticorpi e negatività per gli anticorpi anti-mitocondrio (AMA). Inoltre
spesso in questi pazienti si osserva ipergammaglobulinemia, conseguenza
della compartecipazione dei meccanismi umorali al danno immunologico.
E PATO PAT I E C R O N I C H E M E TA B O L I C H E
EPATOPATIA ALCOLICA
L'epatopatia alcolica è la più comune forma di epatopatia nei Paesi
occidentali ed è legata ad un eccessivo consumo di alcol. L'evoluzione della
malattia procede attraverso l'iniziale comparsa di fenomeni di danno epatico
reversibili ed aspecifici aspecifici, steatosi e/o steatoepatite alcolica, e può
potenzialmente progredire verso una condizione irreversibile: la cirrosi
alcolica. I fattori che determinano l'entità del danno epatico riguardano
principalmente la quantità di alcol consumata quotidianamente ed il tempo
(settimane, mesi o anni) per il quale il soggetto è stato esposto a sostanze
alcoliche. Tuttavia solamente il 10-15% degli alcolisti sviluppa cirrosi, cioè
evidenzia la presenza di altri fattori nel determinare il progredire della
malattia. Gli altri fattori apparentemente coinvolti riguardano (1) il sesso
femminile, maggiormente propenso allo sviluppo di cirrosi; (2) l'etnia,
soprattutto asiatici ed afroamericani; (3) fattori genetici di esponenti e (4)
comorbidità, come la presenza di epatiti croniche o altre epatopatie. La cirrosi
alcolica è una cirrosi di tipo micronodulare, ovvero caratterizzata dalla
presenza di noduli di rigenerazione inferiori ai 3 mm di diametro.
La steatosi epatica è il primo tipo di lesione osservabile in seguito
all'assunzione di alcol (si veda anche Steatosi epatica) e si caratterizza
macroscopicamente per un aumento delle dimensioni e del volume del fegato
e per la caratteristica pigmentazione giallastra. Tuttavia è bene precisare che
questa lesione non è specifica ed esclusiva della epatopatia alcolica. Dal
punto di vista microscopico, il danno iniziale ha origina a partire dalla zona 3
dell’acino epatico di Rappaport, ovvero la regione più vicina alla vena
centrolobulare, con un quadro di steatosi microvescicolare, caratterizzato
dalla presenza di numerose piccole gocce lipidiche, che evolve a
macrovescicolare, in seguito alla confluenza delle vescicole lipidiche. La
rottura della membrana plasmatica degli epatociti steatosici con fuoriuscita di
materiale lipidico determina una reazione infiammatoria granulomatosa, i
cosiddetti granulomi da danno alcolico o lipogranulomi. La steatosi epatica è
un processo completamente reversibile, se viene interrotta l'assunzione di
alcol, e nelle fasi iniziali la deposizione di tessuto fibroso è assente o scarsa.
La continua assunzione di alcol determina la deposizione di tessuto fibroso
attorno alla vena centrolobulare con formazioni setti fibrosi che si estendono
attraverso i sinusoidi epatici adiacenti, un quadro noto come fibrosi
aracniforme, caratteristico e patognomonico di danno alcolico.
La steatoepatite alcolica può conseguire alla steatosi o manifestarsi come
fenomeno a sé stante. Si caratterizza per la presenza di steatosi alcolica,
necrosi litica, fibrosi sinusoidale, infiltrato granulocitario, e corpi di Mallory.
Gruppi di epatociti singoli o disseminati nel parenchima vanno incontro a
rigonfiamento e necrosi litica (degenerazione balloniforme), alcuni
divengono steatosici, si osserva la presenza di colestasi epatica e formazione
di depositi di emosiderina epatocitari o nelle cellule di Kupffer. L’intenso
metabolismo epatocitario determina un aumento delle dimensioni dei
mitocondri (mega-mitocondri) che divengono apprezzabili in microscopia
ottica, una manifestazioni aspecifica e caratteristica delle cause tossiche di
danno epatico. Si osserva comparsa dei cosiddetti corpi di Mallory, ovvero
epatociti con caratteristiche inclusioni eosinofile derivanti da alterazioni delle
citocheratine. Il danno tossico promuove la deposizione di tessuto fibroso
mediato dalle cellule stellate di Ito, risiedendo queste cellule nello spazio di
Disse la fibrosi è tipicamente sinusoidale e pericellulare a pattern aracniforme
(si veda Fibrosi epatica). Il processo infiammatorio e la liberazione di
DAMPs in seguito ai processi necrotici determinano il richiamo di cellule
dell’immunità innata, tipicamente granulociti neutrofili ed elementi
mononucleati (linfociti e macrofagi), che infiltrano il tessuto e si dispongono
attorno agli epatociti in degenerazione (fenomeno della satellitosi).
L’infiltrato neutrofilo è abbastanza caratteristico dell’epatopatia alcolica. Lo
stadio ed il grado della steatoepatite alcolica (si veda Biopsia epatica) si
basano sulla valutazione di entità ed estensione della necrosi e
dell’infiammazione, della fibrosi e del grado di steatosi.
La cirrosi alcolica è il quadro finale comune sia della steatosi che della
steatoepatite alcolica. Il fegato appare inizialmente ingrandito di colore
giallo-brunastro, ma con l’avanzare della malattia si raggrinzisce e diviene
più scuro, con una consistenza soda ed un aspetto superficiale finemente
granulare per la presenza di noduli di rigenerazione e fibrotici di più elevate
dimensioni. Il danno fibrotico ha origine nella zona 3 dell’acino di
Rappaport, in corrispondenza della vena centrolobulare, e si estende
attraverso i sinusoidi epatici in periferia verso lo spazio portale e da questo
agli altri tratti portali. Di conseguenza si osserva più frequentemente fibrosi
centrolobulare e sinusoidale. In questa maniera si formano isole di epatociti
proliferanti delimitate da tessuto fibroso che si accresce progressivamente. La
necrosi e l’obliterazione dei noduli di rigenerazione determinano infine la
formazione di vere e proprie isole fibrotiche. La cirrosi è prevalentemente
micronodulare, ovvero caratterizzata dalla presenza di noduli rigenerativi di
dimensioni pari o inferiore ai 3 mm di diametro. Nelle forme di cirrosi
alcolica spesso si riscontra la presenza di depositi di emosiderina con scarso
infiltrato infiammatorio e di colestasi. Per una trattazione più estesa della
cirrosi si rimanda il lettore al paragrafo relativo alla “Cirrosi epatica”.
STEATOSI EPATICA NON ALCOLICA (NAFLD)
La steatosi epatica non alcolica (NAFLD) comprende un ampio spettro di
malattie del fegato che si caratterizzano per la presenza di steatosi epatica in
soggetti che non consumano alcol. Vi può essere presenza di sola steatosi
epatica, steatosi epatica con minima infiammazione aspecifica e
steatoepatite non alcolica (NASH). La NAFDL è una condizione alquanto
diffusa nei Paesi occidentali e si stima abbia una prevalenza attorno al 20-
30% della popolazione generale, sicuramente sottostimata in quanto può
decorrere assolutamente in maniera asintomatica. La sola presenza di steatosi
epatica risulta clinicamente stabile ed asintomatica, mentre la NASH si
associa a danno epatico e può evolvere, fortunatamente in un ristretto numero
di casi, in cirrosi epatica. La malattia è fortemente associata a condizioni
dismetaboliche, principalmente obesità e diabete mellito di tipo 2. Il quadro
morfologico, descritto più avanti, è estremamente simile a quello presente
nell’epatopatia alcolica e di conseguenza la diagnosi differenziale è sostenuta
principalmente da una accurata anamnesi, sebbene possano presentarsi anche
dei casi miti (es. pazienti obesi che abusano di sostanze alcoliche). Il grado e
lo stadio vengono determinati anche in questo caso secondo i criteri di Brunt,
l’indice di Knodell e di Ishak.
La patogenesi della malattia sembra essere legata a fattori genetici ed
ambientali. In particolare il danno epatico, soprattutto nel contesto della
NASH, viene perpetrato attraverso l’accumulo di lipidi e la loro
perossidazione mediata dalle specie reattive dell’ossigeno, creando una serie
di segnali pro-infiammatori che richiamano le cellule infiammatorie, le quali
contribuiscono allo stress ossidativo.
Dal punto di vista morfologico, la NAFLD si presenta in maniera
estremamente simile alla epatopatia alcolica. La steatosi epatica non alcolica
si manifesta solamente con steatosi epatocitaria microvescicolare e
macrovescicolare, con assenza di necrosi e fibrosi e scarsa o del tutto assente
infiammazione. La NASH si caratterizza invece per la presenza di necrosi
litica con degenerazione balloniforme, formazione dei corpi di Mallory,
steatosi e fibrosi epatica e presenza di infiltrato granulocitario. La fibrosi, a
differenza dell’epatopatia alcolica, solitamente non presenta il tipico pattern
aracniforme.
MALATTIA DI WILSON
La malattia di Wilson è una malattia ereditaria, a trasmissione autosomica
recessiva, che si caratterizza per la presenza di accumuli di rame in diversi
organi, quali fegato, encefalo e cornea. L’età d’insorgenza è estremamente
variabile, in genere le manifestazioni cliniche si presentano tra i 5 e 40 anni.
La malattia è legata ad una mutazione del gene ATP7B che codifica per una
ATPasi di membrana coinvolta nel trasporto del rame ed espressa a livello
membrana canicolare dell’epatocita. La proteina mutata determina (1)
riduzione della secrezione di rame nella bile, (2) mancata incorporazione del
rame nella ceruloplasmina e (3) mancata secrezione della ceruloplasmina nel
sangue. Dal punto di vista clinico, la malattia si manifesta comunemente con
un quadro di epatite acuta o cronica, talora già in evoluzione cirrotica, oppure
con manifestazioni neuropsichiatriche, come difficoltà nel parlare, nella
deambulazione, modificazione del comportamento e psicosi.
Dal punto di vista morfologico, la malattia si caratterizza per la presenza di
steatosi epatica associato ad un quadro di epatite cronica, con infiammazione
di grado moderato od elevato, lipogranulomi, necrosi litica e corpi di
Mallory. Nel cervello il rame tende ad accumularsi a livello dei nuclei della
base, in particolare nel putamen. Nei pazienti con interessamento encefalico
si osservano spesso depositi corneali di rame che costituiscono delle
caratteristiche lesioni note come anelli di Kayser-Fleischer.
La diagnosi si basa sulle alterazioni della ceruloplasmina ematica e
sull’evidenza della presenza di depositi di rame negli organi. Il campione
bioptico di fegato può essere esaminato in microscopia elettronica oppure
colorato con rodamina che permette di evidenziare la presenza di depositi di
rame. L’esecuzione di una TC cranio o di una risonanza magnetica cerebrale
può evidenziare la presenza di lesioni encefaliche, in particolare in
corrispondenza dei nuclei della base. A ciò si aggiunge anche la
dimostrazione degli anelli di Kayser-Fleischer.
EMOCROMATOSI
L’emocromatosi è una malattia sistemica che si caratterizza per l’accumulo
di ferro negli organi parenchimatosi (es. fegato, pancreas e cuore), nelle
articolazioni e nelle ghiandole endocrine. La malattia è più frequente nel
sesso maschile e si manifesta generalmente dopo i 40 anni di età.
L'emocromatosi primaria è una malattia ereditaria, a trasmissione autosomica
recessiva, caratterizzata da un eccessivo assorbimento di ferro. Si differenzia
dall'emocromatosi secondaria, o acquisita, che è invece legata all'accumulo di
ferro in seguito a somministrazione esterna, solitamente per via parenterale,
ad esempio nei soggetti politrasfusi. Questa condizione è più propriamente
detta emosiderosi. Dal punto di vista clinico, la malattia si manifesta in
maniera differente a seconda dell'organo prevalentemente interessato:
epatomegalia, dolore addominale, pigmentazione cutanea, alterazioni
dell'omeostasi del glucosio (legate alla distruzione delle isole pancreatiche),
diabete mellito di tipo 1, insufficienza cardiaca, aritmie, cardiomiopatia
dilatativa, artriti, dismenorrea, ipogonadismo ed ipofunzionalità ipofisaria e
corticosurrenalica. Con il progredire della malattia, si sviluppa lentamente
fibrosi epatica che, nei casi più gravi, può evolvere in cirrosi. La cirrosi
emocromatosica si caratterizza tipicamente per la presenza di
iperpigmentazione cutanea, epatomegalia e diabete mellito e si associa ad un
rischio di circa 200 volte superiore rispetto alla popolazione generale di
sviluppare epatocarcinoma. La terapia classica si basa sull’esecuzione di
salassi a frequenza variabile a seconda della gravità della malattia,
accompagnata da una terapia medica che limita l’assorbimento intestinale di
ferro.
La regolazione della quantità di ferro contenuto nell'organismo riguarda
principalmente il processo di assorbimento, essendo le possibilità di
escrezione drammaticamente scarse. L'accumulo di ferro si protrae nel corso
degli anni la malattia si rende sintomatica generalmente in seguito ad un
accumulo pari o superiore ai 20 g. Il danno dovuto all'accumulo di ferro si
manifesta attraverso diversi meccanismi patogenetici: (1) perossidazione
lipidica dovuta alla formazione ferro-mediata di radicali liberi, (2) stimolo
profibrotico del ferro nei confronti delle cellule stellate e (3) danno ossidativo
nei confronti del DNA. In particolare quest'ultimo meccanismo sembra essere
coinvolto nello sviluppo di epatocarcinoma legato a cirrosi emocromatosica.
Il danno, a differenza di altre epatopatie, è mediato direttamente dal ferro che
esplica la sua azione tossica all’interno degli epatociti. L’emocromatosi
dell’adulto è solitamente causata da mutazioni del gene HFE, il quale codifica
per una proteina espressa a livello degli enterociti digiunali coinvolta nella
regolazione dell’assorbimento di ferro alimentare. La mutazione del gene
determina la sintesi di una proteina non funzionale con conseguente
accumulo di ferro negli organi parenchimatosi. Le mutazioni più comuni
sono la C282Y, una sostituzione cisteina-tirosina dell’amminoacido 282, e
H63D, sostituzione di istidina-aspartato dell’amminoacido 63.
Nelle fasi iniziali della malattia, il ferro si accumula nel citoplasma degli
epatociti sotto forma di depositi emosiderinici. Tuttavia l’azione epatotossica
diretta del metallo in relazione al progressivo accumularsi di ferro determina
necrosi cellulare in assenza di infiammazione. Il ferro rilasciato nell’ambiente
circostante dagli epatociti morti si accumula progressivamente nelle cellule di
Kupffer e nelle cellule endoteliali dei dotti biliari, depositandosi diffusamente
nel parenchima epatico ed interessando l’intero lobulo epatico. L’insulto
necrotico inoltre costituisce uno stimolo profibrotico che favorisce i processi
di cicatrizzazione a carico delle cellule stellato di Ito con conseguente
progressiva fibrosi epatica ed evoluzione, nei casi più gravi, in senso
cirrotico. Nell’emosiderosi invece il ferro si accumula primariamente nelle
cellule di Kupffer e di conseguenza la valutazione circa il compartimento di
localizzazione dei depositi emosidericini può fornire importanti informazioni
per una diagnosi conclusiva. Col passare del tempo il grado di fibrosi
aumenta e si formano micronoduli di rigenerazione nel contesto di un fegato
iperpigmentato. Nel pancreas si osserva la presenza di depositi di
emosiderina sia nelle cellula acinari che nelle insulari con una diffusa fibrosi
interstiziale. Nel cuore si osserva la presenza di depositi di emosiderina nei
cardiomiociti con un lieve grado di fibrosi interstiziale. Nella cute si apprezza
la presenza di depositi emosidericini nel derma, in particolare nei macrofagi e
nei fibroblasti, con accumulo di melanina.
La diagnosi è soventemente clinica nelle forme di emocromatosi manifeste,
soprattutto in relazione alla comparsa del cosiddetto diabete bronzino, ovvero
una forma di diabete legata alla distruzione delle insule pancreatiche ed
associata alla caratteristica pigmentazione ocracea della cute. La presenza di
un quadro clinico dubbio associato ad un persistente rialzo delle transaminasi,
della ferritina e del ferro sierico, dopo aver escluso altre cause di sovraccarico
di ferro, suggerisce l'esecuzione di una biopsia epatica. Sul campione
bioptico vengono effettuate delle valutazioni di carattere istopatologico e
biochimico: (1) si valuta la concentrazione epatica di ferro, utilizzando
l'indice di ferro epatico (HIX, Hepatic Iron Index), che consiste nel rapporto
della massa di ferro estratto dal campione bioptico rispetto alla massa totale
della biopsia normalizzato per l’età; (2) microanalisi ai raggi X, si valuta la
percentuale di tessuto epatico in cui è presente ferro; (3) colorazione di Pearls
(blu di Prussia) è il gold standard nella diagnosi di emocromatosi, essa
permette di evidenziare la distribuzione, la dimensione e le caratteristiche
(isolati o confluenti) dei depositi emosiderinici, permettendo di discriminare
di conseguenza tra una emocromatosi primaria ed una emosiderosi.
Nell’emocromatosi primaria i depositi di emosiderina si ritrovano negli
epatociti, mentre nella emosiderosi nelle cellule di Kupffer. Nelle forme più
gravi di emocromatosi primaria ed emosiderosi tuttavia il ferro può essere
presente in maniera diffusa in entrambi i compartimenti e risulta di
conseguenza assai difficile discriminare, solo sulla base dell’analisi
istopatologica, le due condizioni morbose. In questo contesto, la diagnosi è di
tipo multidisciplinare. Poiché l’emocromatosi è una condizione associata ad
un aumentato rischio di sviluppo di epatocarcinoma, nel contesto di una
cirrosi emocromatosica, nella valutazione di una biopsia epatica è necessario
ricercare la presenza dei cosiddetti Iron-Free Foci (IFF). Le IFF sono
micronoduli di rigenerazione che si caratterizzano per l’assenza di ferro nel
contesto di un parenchima iperpigmentato, sono lesioni proliferative a
significato preneoplastico che devono porre il sospetto di un’evoluzione in
senso tumorale. Inoltre nell’iter diagnostico si ricerca la mutazione di HFE o
di altri geni responsabili di malattia.
L ESIONI NODULARI BENIGNE
IPERPLASIA NODULARE
L'iperplasia nodulare consiste nella presenza di noduli epatici, singoli o
multipli, che si sviluppano nel contesto di un fegato non cirrotico. E’ più
frequente nei soggetti di sesso femminile ed in giovane età.
I meccanismi alla base della formazione dei noduli epatici sembrano essere
legati alla presenza di squilibri ormonali ed alterazioni focali o diffuse della
vascolarizzazione. Nell'ultimo caso sembra avere un ruolo importante
l'obliterazione della radice della vena porta che determina un aumento
compensatorio dell'afflusso di sangue arterioso al fegato.
Dal punto di vista morfologico, l'iperplasia nodulare focale appare come una
massa solida, nodulare, ben circoscritta e scarsamente o per nulla capsulata.
Nella porzione centrale si può apprezzare la presenza di una cicatrice stellata,
depressa, di colore grigio-biancastro che contiene strutture vascolari
proliferanti. Dal punto di vista microscopico, in corrispondenza della
cicatrice centrale, si possono osservare setti fibrosi che si dipartono
radialmente verso la periferia, presentano un importante infiltrato linfocitario
e duttuli biliari in proliferazione in corrispondenza dei margini. Gli epatociti
tra i setti sono sostanzialmente normali, ma si organizzano in travate ispessite
caratteristiche dei noduli di rigenerazione.
La presenza di travate epatocitarie ispessite con aspetti di rigenerazione
possono costituire un elemento confondente nella diagnosi differenziale tra
noduli iperplastici e cirrotici. Tuttavia, a differenze di quanto accade nella
cirrosi, tutte le strutture epatiche e gli elementi cellulari sono normalmente
rappresentati. A ciò si aggiunge anche la storia anamnestica del paziente,
essendo solitamente soggetti giovani e senza comorbidità.
ADENOMA E PAT I C O
Gli adenomi epatici sono neoplasie benigne del fegato che possono
presentarsi singolarmente o in maniera multipla. Dal punto di vista
epidemiologico, l'incidenza è maggiore nei soggetti di sesso femminile,
probabilmente in relazione all'uso di contraccettivi orali, la cui sospensione
può determinare una completa regressione della lesione neoplastica. Le forme
multifocali si riscontrano prevalentemente nei soggetti diabetici e presentano
caratteristiche morfologiche diverse rispetto agli adenomi epatici focali,
essendo soventemente caratterizzati dalla presenza di epatociti steatosici. Le
principali complicanze riguardano (1) la rottura della lesione neoplastica con
conseguente emoperitoneo, soprattutto in corso di gravidanza; (2)
l'evoluzione della lesione in senso neoplastico, sebbene questo sia un evento
alquanto raro ed associato soprattutto alla presenza di pattern mutazionale
caratteristici (es. mutazioni di beta catenina ed alterazioni di geni coinvolti
nella via di Ras).
Dal punto di vista macroscopico, gli adenomi epatici si presentano come
masse nodulari ben demarcate, di colore giallo-brunastro per la sovente
presenza di bile, privi di rivestimento capsulate ed a localizzazione
prevalentemente al di sotto della capsula di Glisson. Dal punto di vista
microscopico, gli epatociti proliferano in maniera disordinata, possono talora
presentare variazioni nelle dimensioni cellulari o nucleari e si dispongono
comunque in travate normali. A differenza dei noduli iperplastici, gli
adenomi epatici si caratterizzano per l'assenza degli spazi portali. Nel
complesso il quadro morfologico può rassomigliare a quello
dell'epatocarcinoma ben differenziato, anche in virtù della possibile presenza
di atipie epatocellulari.
E PATOCARCINOMA (HCC)
L’epatocarcinoma (HCC) o carcinoma epatocellulare è la neoplasia epatica
maligna primitiva più frequente e costituisce la terza causa di morte per
cancro. Dal punto di vista epidemiologico, HCC presenta una distribuzione
geografica sovrapponibile a quella delle epatiti croniche da HCV ed HBV, i
quali costituiscono importanti fattori di rischio per lo sviluppo della malattia
con o senza cirrosi epatica. La cirrosi alcolica, l'emocromatosi, la
contaminazione degli alimenti da aflatossine, la displasia epatocellulare,
l'iperplasia adenomatosa e l'utilizzo di steroidi anabolizzanti costituiscono
altre condizioni predisponenti per lo sviluppo di epatocarcinoma. In generale,
è possibile affermare che la presenza di cirrosi epatica, indipendentemente
dagli agenti eziologici che hanno condotto a questo stadio, costituisce un
fattori di rischio per lo sviluppo di HCC, essendo l'incidenza della malattia in
questa popolazione molto più elevata rispetto a quella normale. Dal punto di
vista clinico, la maggior parte dei pazienti presenta sintomi legati alla
sottostante epatopatia e manifestazioni aspecifiche, tra le quali dolore
addominale, astenia, calo ponderale, nausea e vomito. Il fegato può essere
ingrossato e di conseguenza apprezzabile alla palpazione ed inoltre vi può
essere ascite e febbre. Talora possono manifestarsi sindromi paraneoplastiche
(es. eritrocitosi, ipoglicemia, ipercalcemia) correlata alla produzione di
ormoni ectopici. L'alfafetoproteina sierica è un marcatore di HCC, che
comunque risulta poco sensibile e specifico, in quanto all'incirca solo il 50%
dei casi di HCC si associa ad un rialzo dei valori di alfafetoproteina e non
tutte alterazioni dei valori sierici di alfafetoproteina sono legati a HCC. Un
rialzo dei valori ematici di alfafetoproteina si può verificare in condizioni
parafisiologiche (es. gravidanza, sofferenza e morte fetale), neoplastiche (es.
HCC e tumori germinali, come il tumore del sacco vitellino ed carcinoma
embrionale del testicolo) e non neoplastiche (es. epatite cronica e cirrosi). Il
monitoraggio di alfafetoproteina viene utilizzato come test di screening e
nella prevenzione tumorale in pazienti cirrotici, nei quali è utile effettuare
delle valutazioni periodiche del marcatore che può aumentare soprattutto in
relazione alla presenza di alcune varianti tumorali, come HCC fibrolamellare.
Tutte le forme di epatocarcinoma possiedono una spiccata propensione a
invadere le strutture vascolari ed a diffondere per contiguità all'interno del
parenchima epatico circostante, ne consegue soventemente la presenza di
metastasi intraepatiche che possono essere identificate come noduli satelliti di
una lesione primitiva attraverso metodiche di biologia molecolare. Talora si
possono formare veri e propri cordoni di cellule neoplastiche all'interno delle
vene portali o nella cava inferiore con estensione fino alla cavità destra del
cuore. La metastatizzazione per via ematogena è la via di disseminazione a
distanza più importante perché il fegato è un organo molto vascolarizzato.
All'incirca nella metà dei casi di epatocarcinoma si possono osservare
metastasi ai linfonodi peri-ilari, paraortici, peripancreatici e sopra e
sottodiaframmatici. Le cellule neoplastiche possono inoltre esfoliare nel cavo
peritoneale. Dal punto di vista terapeutico, l’epatocarcinoma viene trattato
chirurgicamente, tramite radiofrequenza o alcolizzazione, inducendo una
necrosi coagulativa delle cellule neoplastiche, od ancora tramite
chemioembolizzazione (TACE), metodica basata sull’iniezione di
chemioterapici che determino la formazione di emboli nei vasi che servono la
neoplasia.
Dal punto di vista patogenetico, i principali fattori eziologici associati allo
sviluppo di epatocarcinoma sono (1) infezione virale cronica da HBV ed
HCV, (2) alcolismo cronico, (3) NASH e (4) contaminazione alimentare da
aflatossine. Lo sviluppo di epatocarcinoma nel fegato cirrotico è un tipo di
evoluzione notevolmente differente rispetto ad altre situazioni cliniche più
tipiche, in cui gli eventi molecolari si accompagnano ad alterazioni
morfologiche con quadri displastici significativi. Nel contesto del fegato
cirrotico, la displasia epatocitaria non è considerata di per sé una lesione
precancerosa, se non una particolare forma nota come “displasia epatica a
piccole cellule”. Per questi motivi, il concetto di displasia nel fegato è più
sfumato e poco si adatta a predire una possibile evoluzione maligna, mentre
gli eventi molecolari risultano maggiormente suggestivi e predittivi di
malattia. I meccanismi patogenetici che sottendono la cancerogenesi non
sono ancora del tutto chiari, tuttavia le mutazioni che si accumulano durante i
cicli di morte cellulare e rigenerazione, che si verificano nelle epatiti croniche
di qualsiasi origine, sembrano essere responsabili della trasformazione in
senso neoplastico degli epatociti.
Dal punto di vista macroscopico, l'epatocarcinoma si può presentare sotto
forma di (1) noduli singoli o multipli, pseudocapsulati, omogenei e con
diffuse aree di necrosi; (2) cancrocirrosi, quando i nodi neoplastici insorgono
in un fegato cirrotico atrofico; e (3) una grande massa neoplastica che
rimpiazza la maggior parte del parenchima epatico (variante massiva).
Numerose neoplasie metastatizzano a livello epatico, tuttavia i nodi
metastatici differiscono dai nodi di HCC per la presenza di una tipica regione
centrale depressa in seguito a necrosi nota come "ombelicatura centrale".
L'aspetto multinodulare può originare da lesioni primitive epatiche
multicentriche che si sviluppano come tumori indipendenti, sincroni o
metacroni, od ancora come noduli satelliti metastatici intraorgano, originati
da un singolo tumore primitivo. L’epatocarcinoma appare solitamente più
chiaro rispetto al parenchima epatico sano circostante e talora può assumere
un colorito verdastro per la presenza di epatociti ben differenziati in grado di
secernere bile. Dal punto di vista microscopico, l'epatocarcinoma può
presentarsi come una lesione ben differenziata, moderatamente differenziata
o completamente anaplastica. Le lesioni ben differenziate sono solitamente di
difficile diagnosi poiché simili al tessuto sano o ad adenomi epatici, mentre le
lesioni moderatamente differenziate o anaplastiche presentano atipie
suggestive di malattia. I tumori moderatamente o ben differenziati presentano
cellule neoplastiche di chiara origine epatocitaria disposte secondo un pattern
trabecolare, acinare o compatto. Le travate di cellule neoplastiche sono
circondante da spazi vascolari rivestiti da una singolo strato di cellule
endoteliali, che si differenziano rispetto alle cellule endoteliali dei sinusoidi
epatici per la presenza aspetti di capillarizzazione, tra i quali positività
all’immunoistochimica per il CD34, la presenza dell’antigene per il fattore
VIII, di una membrana basale sottoendoteliale e di collagene di tipo IV. Lo
stroma connettivale circostante le cellule neoplastiche può essere scarso o del
tutto assente, una importante differenza rispetto al quadro morfologico della
cirrosi e dell'adenoma epatico. Il pattern trabecolare è quello di più comune
riscontro e si caratterizza per la presenza di cellule neoplastiche disposte in
cordoni variamente ispessiti, costituiti da file multiple di cellule, e separati
dagli spazi vascolari. Il pattern acinare o pseudoghiandolare e così definito
per l'aspetto simile a quello di una ghiandola e si caratterizza per la presenza
di cellule tumorali disposte in un singolo strato attorno a canalicoli biliari
anormali. Il pattern compatto si caratterizza per la presenza di spazi
vascolari poco visibili e ad aspetto di fessure che conferiscono al tumore un
aspetto solido, risulta più frequentemente nei tumori poco differenziati. Gli
HCC scarsamente differenziati possono presentare cellule neoplastiche con
franche atipie, come cellule giganti, cellule piccole completamente
indifferenziate e cellule fusiformi rassomiglianti a quelle di un sarcoma.
Possono essere presenti anche vacuoli contenenti rame, alfa-1-antitripsina e
corpi di Mallory. Il grado del tumore viene definito sulla base dei criteri di
Edmondson in quattro possibili gradi, a seconda delle caratteristiche
morfologiche delle cellule neoplastiche e della loro organizzazione. Gli
epatocarcinoma di grado 1 sono neoplasie ben differenziate che presentano
elementi cellulari ed organizzazione tipica del parenchima epatico normale,
mentre quelli di grado 4 presentano uno spiccato pleomorfismo e spesso
cellule giganti anaplastiche. Un altro aspetto importante che permette di
valutare il grado di differenziazione della lesione riguarda la capacità delle
cellule di produrre bile: gli epatocarcinoma ben differenziati presentano
difatti cellule neoplastiche in grado di secernere bile. Tale aspetto è molto
importante in quanto permette di discriminare ad esempio l’origine di una
metastasi linfonodale. Nell’agoaspirato linfonodale saranno evidenti cellule
neoplastiche secernenti bile ed all'analisi istologica si potranno in aggiunta
apprezzare i laghi di bile organizzati nel contesto della lesione. La presenza
di questi elementi permette di diagnosticare con certezza la presenza di una
neoplasia di origine epatica.
Figura 43, sezione di epatocarcinoma (HCC) insorto in un fegato cirrotico in stadio terminale colorato
in tricromica. Si noti la presenza di cellule neoplastiche con atipie nucleare in un’architettura
completamente sovvertita. Possono essere apprezzati inoltre i corpi di Mallory, l’area di fibrosi e
l’importante infiltrato infiammatorio. Per gentile concessione di Nephron (CC BY 3.0).

Alcune varianti istotipiche distintive di epatocarcinoma sono il carcinoma


fibrolamellare e l'epatocarcinoma sclerotico. Il carcinoma fibrolamellare
rappresenta una quota minoritaria di tutti gli HCC ed interessa solitamente i
giovani adulti. La prognosi è migliore rispetto all'epatocarcinoma
convenzionale in quanto i soggetti interessati non presentano solitamente una
storia sottostante di epatopatia cronica. L'eziologia del carcinoma
fibrolamellare non è nota. La lesione si presenta in genere come una massa
isolata, grande e dura, con cellule neoplastiche poligonali di chiara origine
epatocitaria organizzate in lamelle o nidi separati da bande fibrose. La
componente sclerotica è molto abbondante e soventemente le cellule
neoplastiche esprimono marcatori biliari. Questi aspetti devono essere tenuti
in condizione nel processo di diagnosi differenziale con il colangiocarcinoma,
un tumore primitivo delle vie biliari caratterizzato dalla presenza di cellule
neoplastiche secernenti fattori profibrotici che inducono sclerosi tissutale.
Nella diagnosi deve essere tenuta in stretta considerazione la storia del
paziente in quanto la sola valutazione di aspetti morfologici e
immunoistochimici potrebbe trarre in inganno. L'epatocarcinoma sclerotico
è una variante di epatocarcinoma che si caratterizza per la presenza di una
marcata fibrosi lungo gli spazi vascolari, con differenti gradi di atrofia delle
trabecole tumorali. La variante sclerotica non deve essere confusa con il
colangiocarcinoma e con i cambiamenti fibrotici che possono insorgere in
seguito a chemioterapia e radioterapia.
La diagnosi di basa sulla presenza di una storia clinica suggestiva di malattia,
l’esecuzione di esami strumentali ed un quadro clinico appropriato. L’analisi
istologica conferma la diagnosi e fornisce ulteriori informazioni sia dal punto
di vista terapeutico che prognostico, tuttavia da linee guida l’esecuzione della
biopsia epatica non è fondamentale ai fini diagnostici, se non nei casi dubbi.
La diagnosi differenziale, come già accennato, si pone principalmente nei
confronti del colangiocarcinoma (CCA). Tuttavia è necessario sottolineare
come entrambe le neoplasie (HCC e CAA) presentino aspetti comuni
riguardo sia l’organo primitivo d’insorgenza che caratteristiche fenotipiche
degli elementi neoplastici. Si ritiene difatti che i colangiociti, ovvero le
cellule dei dotti biliari, e gli epatociti originino da una cellula progenitrice
comune, ciò giustificherebbe (1) la presenza di neoplasie epatiche che
presentano aspetti fenotipici misti tra HCC e CAA, (2) la presenza di alcuni
marcatori comuni (es. CK8 e CK18) e (3) la capacità delle cellule
neoplastiche o degli epatociti metaplastici di esprimere marcatori
normalmente non espressi dalla cellula di derivazione, come ad esempio il
caso della CK7 descritto più avanti nel testo. In presenza di epatocarcinoma
possono verificarsi all’incirca nel 50% dei casi alterazioni dei valori sierici di
alfafetoproteina (AFP), evento legato all’espressione della proteina da parte
delle cellule neoplastiche. L'alfafetoproteina è una marcatore non sensibile e
solo relativamente specifico di HCC e viene espresso dalle cellule
neoplastiche di HCC e non da quelle di CAA, mentre l’antigene carcino-
embrionale (CEA), un altro marcatore tumorale, è espresso dalle cellule
neoplastiche di CAA e non da quelle di HCC. L’utilizzo di anticorpi anti-
CEA ed anti-AFP in immunoistochimica permette di differenziare le due
neoplasie. In presenza di epatocarcinoma di conseguenza si potrà osservare
positività per AFP e negatività per CEA. Inoltre l’espressione di AFP
costituisce fattore predittivo negativo di malattia. Le citocheratine biliari CK7
e CK19, solitamente espresse nel CCA e non nell’HCC, costituiscono altri
due marcatori utilizzati nella diagnosi differenziale. Tuttavia un nodo di HCC
può determinare ostruzione biliare con conseguenza cirrosi biliare secondaria
(si veda “Colestasi extraepatica”) e positività per CK7. Infatti il persistere di
una ostruzione delle vie biliari determina una metaplasia biliare degli
epatociti che si organizzano a formare rosette rassomiglianti canalicoli biliari
ed esprimono CK7. Hep Par1 è un marcatore specifico degli epatociti
espresso anche dagli HCC ben differenziati che di conseguenza può essere
utilizzato nella diagnosi di questo gruppo di neoplasie. La prognosi è
influenzata (1) dallo stadio del tumore; (2) dal numero di lesioni neoplastiche,
in quanto ciò determina la possibilità o meno di un trattamento chirurgico; (3)
la condizione dell’incapsulamento; (4) interessamento della vena porta e/o
delle sovraepatiche; (5) la presenza della variante fibrolamellare, che si
associa ad una prognosi migliore; (6) una sottostante condizione cirrotica; (7)
alterazioni sierologiche dei valori di AFP, con significato prognostico
negativo ed infine (8) grado del tumore, invasione vascolare ed attività
mitotica.
M ALATTIE DELLE VIE BILIARI INTRAEPATICHE
Le malattia delle vie biliari intraepatiche costituiscono un capitolo
alquanto complicato sia dal punto di vista dell’eziopatogenesi che della
diagnostica istopatologica. Sono malattia più frequenti nel sesso femminile e
vedono la compartecipazione di fattori genetici ed ambientali. In genere sono
malattie che vedono una predominante componente autoimmunitaria e si
caratterizzano per la presenza di lesioni comuni, tra le quali (1) danno duttale
con presenza di infiltrato infiammatorio periduttale ed intraduttale; (2)
fenomeni di rigenerazione dei dotti alla periferia dello spazio portale; (3)
sindrome da scomparsa dei dotti biliari intraepatici (VBDS, dall’inglese
Vanishing Bile Duct Syndrome), che si caratterizza per la scomparsa delle vie
biliari intraepatiche e (4) colestasi cronica, con formazione di laghi e trombi
di bile nel parenchima epatico.
COLANGITE B I L I A R E P R I M I T I VA
La colangite biliare primitiva (CBP), un tempo nota come cirrosi biliare
primitiva, è una malattia colestatica cronica a carattere progressivo che si
caratterizza per una distruzione infiammatoria non suppurativa dei dotti
biliare intraepatici di media grandezza con successiva riparazione cicatriziale.
La malattia colpisce prevalentemente i soggetti di sesso femminile, in
particolare tra i 40 ed i 50 anni, solitamente affette da altre patologie
autoimmunitarie, tra le quali artrite reumatoide, sindrome di Sjögren, tiroidite
di Hashimoto, celiachia e sclerodermia. Dal punto di vista clinico, si
manifesta con astenia, prurito e talvolta ittero, i segni e sintomi di epatopatia
cronica compaiono tardivamente. La cirrosi e le complicanze epatiche più
gravi, quali insufficienza ed ipertensione portale, sopraggiungono all’incirca
dopo 10-20 anni dall’esordio se non viene opportunamente trattata. Agli
esami di laboratorio, si riscontro nel 90-95% dei casi presenza di anticorpi
anti-mitocondrio (AMA), che costituiscono un elemento molto importante dal
punto di vista diagnostico, sebbene una piccolissima quota di soggetti non
risulti positiva; rialzo degli indici di colestasi (fosfatasi alcalina, GGT e più
tardivamente la bilirubina) ed aumento del colesterolo sierico. La terapia si
basa prevalentemente sulla somministrazione di acido ursodesossicolico che,
se avviato precocemente, può determinare la completa regressione della
malattia; in aggiunta è possibile attuare una terapia antinfiammatoria
steroidea.
Nelle fasi iniziali della malattia (stadio 1), il danno è sostanzialmente focale e
può non essere rilevato alla biopsia. Nello spazio portale si osserva
infiltrazione di linfociti, plasmacellule, macrofagi e scarsi eosinofili che
aggrediscono le cellule endoteliali dei dotti biliari, con fuoriuscita di bile dai
dotti biliari e talora organizzazione dell’infiammazione in granulomi
epiteliodi non caseosi. La presenza di un infiltrato infiammatorio cronico
eosinofilo associato alla presenza di granulomi è patognomonico di colangite
biliare primitiva. Con il progredire della malattia (stadio 2), l’ostruzione al
flusso biliare determina un danno epatico secondario, si osserva
proliferazione dei piccoli dotti biliari alla periferia dello spazio portale,
colestasi epatica e flogosi da interfaccia. L’infiammazione e la fibrosi si
estende nel parenchima periportale. Lo spazio portale appare allargato con
tuttavia una scomparsa dei dotti biliari e sostituzione con tessuto cicatriziale
fibroso. La progressiva deposizione di tessuto fibroso determina la
formazione di setti fibrosi (stadio 3) che possono andare incontro a
capillarizzazione con formazione di shunt vascolari porto-portali e porto-
sistemici. Dopo anni o decenni, insorge il quadro terminale (stadio 4) di
cirrosi franca, con presenza di fibrosi diffusa e noduli di rigenerazione. Dal
punto di vista macroscopico, nella fase terminale il fegato appare giallo-
verdastro per l’accumulo di bile con superficie granulare dovuta alla presenza
di cirrosi micronodulare.
COLANGITE S C L E R O S A N T E P R I M I T I VA
La colangite sclerosante primitiva (CSP) è una patologia caratterizzata da
infiammazione e fibrosi obliterante dei dotti biliari intra ed extraepatici.
Interessa soprattutto i soggetti di sesso maschile, nella terza e quarta decade
di vita, e si presenta in particolare in associazione ad altre malattie
infiammatorie intestinali croniche, soprattutto la rettocolite ulcerosa.
L'infiammazione e la fibrosi periduttale interessano le vie biliari in maniera
"saltatoria", ovvero si alternano tratti di stenosi e di dilatazione, un
caratteristico pattern definito "a corona di rosario". L'esordio della malattia è
alquanto insidioso poiché pazienti possono risultare asintomatici per lunghi
periodi di tempo oppure possono presentare solamente lievi alterazioni del
quadro sierologico, come un persistente innalzamento della fosfatasi alcalina.
Con il progredire della malattia compaiono astenia, prurito ed ittero e nelle
fasi più avanzate segni e sintomi di epatopatia. La colangite sclerosante
primitiva è una condizione precancerosa ed una quota non indifferente dei
soggetti affetti sviluppa colangiocarcinoma.
Dal punto di vista morfologico, la malattia si caratterizza per la presenza di
fibrosi periduttale "a bulbo di cipolla", infiltrato infiammatorio
prevalentemente linfocitario, atrofia delle cellule duttali ed obliterazione del
lume. A differenza della colangite biliare primitiva, non vi è un processo
necrotico seguito da fibrosi come esito cicatriziale bensì è la stessa fibrosi a
costituire il primum movens del danno tissutale. Un aspetto caratteristico
riguarda la presenza di lesioni saltatorie con un caratteristico pattern "a
corona di rosario", ben evidenti alla ERCP. La sclerosi dei dotti biliari si
differenzia da quella della colangite biliare primitiva per l’assenza di
infiltrato intraduttale degli elementi infiammatori. Col progredire della
malattia, il fegato diviene colestatico e va incontro a cirrosi, indistinguibile da
quella che si manifesta nel contesto della CBP.
La diagnosi è alquanto insidiosa in quanto non sono presenti marcatori
sierologici specifici o comunque suggestivi di malattia: gli anticorpi anti-
mitocondrio (AMA) sono negativi e solo in una piccola quota di soggetti vi è
positività per gli ANCA, ANA o anti-SMA. In ogni caso, devono essere
primariamente indagate ed escluse le cause esterne di ostruzione biliare (es.
calcolosi o esiti cicatriziali post-chirurgici).
CSP CBP
Inter. delle vie X X
biliari intra-
epatiche
Inter. delle vie X
biliari extra-
epatiche
Necrosi X
Infiammazione X
intraduttale
Infiammazione X X
periduttale
Fibrosi X X
AMA X
Tabella 8, differenze tra CSP e CBP.

C O L E S TA S I E X T R A E PAT I C A
La colestasi extraepatica (o cirrosi biliare secondaria) è una condizione
clinica che si caratterizza per la presenza di una ostruzione esterna del circolo
biliare. Tra le cause più comuni di ostruzione al flusso biliare vi sono:
calcolosi biliare, stenosi da esiti cicatriziali post-chirurgici, pancreatite
cronica, neoplasie delle vie biliari e carcinoma della testa del pancreas. Il
quadro ostruttivo può inoltre essere legato alla presenza di malattie congenite
come la fibrosi cistica, l'atresia biliare, le cisti del coledoco e la sindrome con
dotti biliari intraepatici insufficienti. Nelle fasi iniziali il danno dovuto
all'ostruzione biliare è completamente reversibile se viene rimossa la causa
ostruente. Il persistere dell'ostruzione biliare innesca tuttavia un processo di
infiammazione periportale con conseguente deposizione di tessuto fibroso
cicatriziale e sviluppo di cirrosi biliare secondaria. Dal punto di vista clinico,
la malattia si presenta come la colangite biliare primitiva. La terapia consiste
nella rimozione della gente ostruente.
Dal punto di vista morfologico, si osserva colestasi epatica, proliferazione dei
piccoli dotti biliari con presenza di infiltrato infiammatorio granulocitario in
sede periduttale ed edema dello spazio portale. Il persistere dell’ostruzione
delle vie biliari determina in seguito al danno infiammatorio deposizione di
tessuto fibroso con sviluppo di un quadro morfologico estremamente simile
alla cirrosi biliare primitiva. Nelle fasi finali della malattia, il fegato appare di
colorito giallo-verdastro per la colestasi epatica con superficie granulare per
la presenza di noduli di rigenerazione.
C OLANGIOCARCINOMA (CAA)
ll colangiocarcinoma (CCA) è una neoplasia maligna dell'albero biliare che
può originare dai dotti biliari intraepatici ed extraepatici. La sede in cui si
sviluppa la neoplasia condiziona la possibilità di effettuare una diagnosi
precoce, la terapia e di conseguenza la prognosi, per questi motivi dal punto
di vista patologico la classificazione più importante dei colangiocarcinomi
riguarda il sito d'insorgenza, distinguendo colangiocarcinoma intraepatici
(10-20% dei casi) ed extraepatici (80-90% dei casi). In relazione al sito
d'insorgenza, i colangiocarcinomi extra-epatici vengono ulteriormente
suddivisi in: (1) peri-ilari (o tumore di Klatskin), che interessano il punto di
confluenza del dotto epatico di destra e di sinistra, e (2) distali, che
interessano la parte distale delle vie biliari. La colangite sclerosante primitiva
(CSP), la malattia congenita fibropolicistica del sistema biliare, l'infezione da
HCV e l'esposizione al Thorotrast (usato in passato per la colangiografia)
costituiscono fattori di rischio per lo sviluppo di un colangiocarcinoma. Le
manifestazioni cliniche del colangiocarcinoma variano in relazione alla sito
d'insorgenza e sono di carattere aspecifico, si riscontra astenia, dolore
addominale, calo ponderale, presenza di una massa palpabile, colestasi ed
ittero.
Dal punto di vista macroscopico, i CCA extra-epatici si presentano come
piccole lesioni nodulari e solide presenti all'interno della parete del dotto
biliare e talora infiltranti, solitamente si sviluppano più lentamente rispetto
alle forme extra-epatiche e raramente originano metastasi a distanza. I CCA
intraepatici si sviluppano nel fegato non cirrotico e possono organizzarsi in
masse tumorali nodulari oppure svilupparsi lungo gli spazi portali dando
origine a lesioni tumorali arboriformi, si caratterizzano per l’importante
infiltrazione vascolare e dei vasi linfatici portali con diffusa formazione di
metastasi intraepatiche, linfonodali e per via ematogene ai polmoni, alle ossa,
surrene e cervello. Dal punto di vista istologico, nella maggior parte dei casi i
colangiocarcinomi sono solitamente adenocarcinomi (papillare, di tipo
intestinale, mucinoso, cellule chiare e ad anello con castone) e più raramente
carcinomi (a cellule squamose, a piccole cellule, adenosquamoso). La
reazione desmoplastica, ovvero la deposizione di uno stroma fibroso indotta
dalla neoplasia, è un reperto istologico importante e talora risulta di entità tale
da rendere difficile la visualizzazione delle cellule neoplastiche nelle
metodiche citologiche, poiché risultano immerse in uno stroma attivo e ricco
di fibroblasti fusiformi. Inoltre la desmoplasia si correla soventemente alla
presenza di tumori più indifferenziati le cui cellule sono in grado di produrre
fattori di crescita pro-fibrotici e pro-angiogenetici.
La diagnosi differenziale di colangiocarcinoma è complessa ed articolata,
essendo le manifestazioni cliniche aspecifiche e sovrapponibili a quelle
presenti in altre patologie neoplastiche (es. epatocarcinoma) e non
neoplastiche (es. colangite ascendente da colestasi extrapetica e pancreatite
cronica). Per la diagnosi differenziale tra CCA e HCC si veda
“Epatocarcinoma (HCC)”. L'approccio diagnostico più utilizzato, soprattutto
in relazione al CCA extra-epatico, è di tipo citologico tramite (1) citologia
agoaspirativa, a partire da masse solide che occupano un determinato spazio;
(2) citologia esfoliativa diretta, a partire da un campione di bile prelevato
dalla papilla di Water o per via transepatica con successiva ricerca delle
cellule neoplastiche; (3) citologia esfoliativa indiretta tramite brushing in
colangiopancreatografia retrograda endoscopica (ERCP). La ERCP è una
tecnica invasiva che prevede l'inserimento di un endoscopio all'interno del
coledoco fino al punto di occlusione della via biliare con prelievo di un
campione di materiale citologico tramite spazzolamento del lume. Il
campione prelevato è destinato in parte all’analisi citologica ed in parte alla
citoinclusione. Non è una metodica esente da rischi essendo la pancreatite
acuta una temibile complicanza. Le metodiche citologiche possiedono
un'ottima specificità ed una scarsa sensibilità, di conseguenza non raramente
si ottengono falsi negativi, ovvero persone con esito negativo al test ma in
realtà affetta da malattia. Le cause dei falsi negativi possono essere legate (1)
alla sede della neoplasia, in quanto è più facile reperire materiale dei dotti
biliari di dimensioni maggiore (es. coledoco) rispetto a quelli più piccoli (es.
dotti epatici destro e sinistro); (2) errori tecnici di allestimento del campione,
come artefatti di fissazione legati all'essiccazione del campione all'aria
oppure alla presenza di pluristratificazione cellulare dovuto ad un incorretto
striscio del materiale sul vetrino; (3) errori di interpretazione del patologo,
legati alla presenza di scarso materiale e a difficoltà interpretative oggettive
(es. abbondante necrosi ed infiammazione). In supporto alla citologia
vengono utilizzate metodiche ancillari, come l’ibridazione in situ. Le
alterazioni molecolari che si riscontrano nei colangiocarcinoma differiscono
in relazione sito d'insorgenza ed in relazione al grado del tumore e allo
specifico istotipo. In aggiunta a ciò diverse di queste mutazioni sono
riscontrabili anche in condizioni non neoplastiche. Per questi motivi non tutti
i geni mutati possono essere utilizzati come marcatori di malattia.
Fortunatamente sono presenti degli elementi comuni a tutti i tipi di
colangiocarcinoma: (1) aneuploidia dei cromosomi 7 e 17 e (2) inattivazione
della proteina p16 sul cromosoma 9 (locus 9p21). L'utilizzo della FISH
risulta particolarmente importante in presenza di casi dubbi ed atipici, come
la differenziazione tra neoplasia e displasia reattiva, ovvero displasia cellulare
secondaria alla presenza di insulti tissutali. La tecnica dell'ibridazione in situ
è volta alla ricerca di alterazioni cromosomiche che caratterizzano la maggior
parte dei colangiocarcinoma, difatti all'incirca l'85% di questi tumori presenta
instabilità cromosomica. Tuttavia bisogna considerare che sono presenti
anche patologie non neoplastiche del fegato, come la cirrosi sclerosante
primitiva, che si associano ad un quadro di instabilità cromosomica e di
conseguenza la specificità della FISH per il colangiocarcinoma non è
assoluta. Il kit di ibridazione in situ utilizzato per la diagnosi di
colangiocarcinoma è lo stesso che viene utilizzato nel contesto dei carcinomi
transizionali della vescica (si veda “Citogenetica e FISH”). La prognosi è
alquanto sfavorevole per tutti i tipi di CCA, perché spesso la diagnosi è molto
tardiva e giunge solamente in uno stadio avanzato della malattia. In
particolare i colangiocarcinomi intraepatici sono di più difficile diagnosi sia
citopatologica che istopatologica.
C ARCINOMA DELLA COLECISTI
Il carcinoma della colecisti è la più comune neoplasia maligna delle vie
biliari extraepatiche e la quinta neoplasia più comune dell'apparato
gastrointestinale. Interessa soprattutto i soggetti di sesso femminile, di età
superiore ai 50 anni ed è maggiormente frequente in India e Bangladesh. La
prognosi è alquanto infausta e la sopravvivenza a 5 anni è appena dello 0-
10%. La diagnosi avviene spesso in maniera accidentale, in seguito a
colecistectomia eseguita per colelitiasi, ed in una fase tardiva della malattia,
nella quale il tumore ha già disseminato al fegato per contiguità o in siti
distanti per via ematogena. Solo nel 20% dei casi di malattia la neoplasia è
ancora confinata alla sola colecisti. Il principale fattore di rischio sembra
essere la calcolosi cronica, la quale si riscontra nel 95% dei casi, sebbene lo
sviluppo di una neoplasia nei soggetti con colelitiasi sia appena dello 0,3-3%.
Il rischio relativo sembra aumentare in relazione al perdurare dell'irritazione
della mucosa e alle dimensioni dei calcoli: calcoli di dimensioni maggiori,
spesso asintomatici, che persistono per lungo tempo si associano ad un
rischio relativamente aumentato di sviluppo della neoplasia. Altri fattori di
rischio associati sembrano essere le colecistiti (soprattutto da Salmonella ed
Helicobacter), malattie autoimmuni e genetiche e fattori dietetici. Dal punto
di vista clinico, si presenta con sintomi aspecifici ed indistinguibili dalla
colelitiasi: dolore addominale, anoressia, astenia, calo ponderale, nausea,
vomito, prurito e più raramente con ematemesi e melena. La disseminazione
può avvenire per (1) via linfatica, con interessamento iniziale dei linfonodi
posti lungo i dotti biliari, della regione pancreatico-duodenale ed infine i
para-aortici. (2) via ematogena, principalmente al fegato; (3) contiguità agli
organi adiacenti, come fegato, duodeno, colon, parete addominale anteriore,
dotto epatico comune; (4) esfoliazione nel cavo peritoneale; (5) invasione
intraduttale attraverso il dotto cistico. La stadiazione avviene secondo il
sistema TNM.
La patogenesi della malattia sembra essere legata alla presenza di insulti
persistente nel tempo con sviluppo di infiammazione cronica e conseguente
produzione specie reattive dell'ossigeno in soggetti geneticamente
predisposti. La colecisti a porcellana, una forma di colecistite cronica con
deposizione di sali di calcio, ed i polipi della colecisti costituiscono
rispettivamente una condizione ed una lesione precancerosa. I percorsi
patogenetici alla base dello sviluppo del carcinoma della colecisti sono
sostanzialmente due: (1) il pathway metaplasia-displasia-carcinoma in situ-
carcinoma invasivo; (2) il pathway adenoma-carcinoma. Nel primo caso, in
un ristretto numero di soggetti, è possibile che la metaplasia evolva displasia
con l’acquisizione progressiva di mutazioni geniche caratterizzanti: nelle fasi
iniziali si osserva una mutazione di p53 a cui seguono altri eventi molecolari
genetici ed epigenetici aberranti, come mutazioni di k-RAS nelle forme di
cancro invasivo. Le lesioni displastiche sono classificate secondo il sistema
BilIN (Biliary Intraepithelial Neoplasia) in tre gradi, a seconda delle
caratteristiche delle cellule (atipie, alterazione del rapporto nucleo-
citoplasma, ipercromasia, aumento del numero delle mitosi) e
dell'organizzazione tissutale (cribiforme, papillare e compatta). Nel secondo
caso, il carcinoma della colecisti si sviluppa a partire da un polipo,
peduncolato o sessile, con caratteristiche simili a quelle del carcinoma del
colon. Il passaggio da adenoma ad adenocarcinoma avviene in seguito
all'infiltrazione della tonaca muscolare.
Dal punto di vista macroscopico, il carcinoma della colecisti si può
sviluppare in maniera infiltrativa o esofitica. Più frequentemente si presenta
come una lesione infiltrativa, indistinguibile da una colecistite cronica, che
interessa da pochi centimetri fino all'intera colecisti e si caratterizza per la
presenza di ispessimento ed indurimento diffuso della parete. Talora la parete
della cistifellea può andare incontro ad ulcerazione o si possono formare tratti
fistolosi con i visceri adiacenti, dove il tumore si infiltra. I carcinomi che si
sviluppano come masse esofitica presentano un aspetto irregolare e si
accrescono sia nel lume del viscere che in profondità nella parete. La maggior
parte dei casi di carcinoma della colecisti è rappresentato da adenocarcinomi
con caratteristiche morfologiche e fenotipiche molto simili a quelle del
colangiocarcinoma, compresa la reazione desmoplastica. Più raramente si
osservano carcinomi adenosquamoso, squamosocellulare e di tipo intestinale.
PATOLOGIE DEL PANCREAS

CENNI DI ANATOMIA, ISTOLOGIA E FISIOLOGIA


PANCREATITE ACUTA
PANCREATITE CRONICA
CARCINOMA DEL PANCREAS
ADENOCARCINOMA DUTTALE INFILTRANTE
ADENOCARCINOMA CISTICO
Adenocarcinoma cistico sieroso
Adenocarcinoma cistico mucinoso
CARCINOMA DELLA REGIONE AMPOLLARE
TUMORI ENDOCRINI DEL PANCREAS
Insulinoma
Gastrinoma
C ENNI DI ANATOMIA , ISTOLOGIA E FISIOLOGIA
Il pancreas è una ghiandola esocrina ed endocrina addominale costituita da
una testa, un corpo ed una coda. La testa è una porzione espansa, talora
caratterizzata la presenza di un processo uncinato, che risiede nella concavità
della C duodenale ed adesa alla parete intestinale per mezzo tessuto
connettivo. Il dotto pancreatico principale di Wirsung si estende lungo tutta la
lunghezza del pancreas e si unisce al dotto biliare comune nell'ampolla epato-
pancreatica (di Vater) per sfociare successivamente nell'intestino tramite lo
sfintere di Oddi. Talora può essere presente un dotto pancreatico accessorio
(di Santorini). L'organo è rivestito da una sottile capsula costituita da
connettivo lasso. Il pancreas esocrino è una ghiandola sostanzialmente
sierosa, molto simile alla ghiandola parotide, organizzata in strutture acinose
o tubuloacinose. La componente endocrina è invece organizzata nelle
cosiddette isole di Langerhans, insule cellulari diffuse in tutto il parenchima
pancreatico. Le isole sono costituite da cellule α, β e δ che secernono
rispettivamente glucagone, insulina e somatostatina. A queste cellule si
aggiungono delle cellule insulari minori che sintetizzano e secernono altri
ormoni, tra i quali CCK, secretina, VIP e polipeptide pancreatico.
P ANCREATITE ACUTA
La pancreatite acuta è una condizione patologica reversibile legata alla
presenza di un processo flogistico acuto. La malattia è spesso autolimitante,
presenta un eziologia multifattoriale ed un'incidenza di 10-20 casi ogni
100.000 abitanti. Sono più frequentemente interessate i soggetti di sesso
femminile rispetto a quelli di sesso maschile. Le malattie del tratto biliare e
l'alcolismo rappresentano le principali cause di pancreatite acuta, essendo
responsabili all’incirca dell’80% dei casi di pancreatite acuta. Cause meno
comuni sono (1) ostruzione del sistema duttale pancreatico, in presenza ad
esempio di tumori dell'ampolla, parassitosi e coledococele; (2) disordini
metabolici, come ipercalcemia, ipertriglederidemia ed iperparatiroidismo; (3)
traumi addominali (es. conseguenti ad incidenti stradali) o come complicanza
della ERCP; (4) disordini vascolari, come trombosi, vasculiti, embolia e
shock; (5) infezione, come la parotite; (6) idiopatiche, che rappresentano
all'incirca il 20% di tutte le pancreatite acuta e sono spesso legate a mutazioni
germinali di geni proteolitici. Dal punto di vista clinico, la pancreatite acuta si
manifesta con un tipico dolore addominale, talora riferito nella regione
superiore del dorso e alla spalla sinistra, frequentemente accompagnato da
nausea e vomito. Il sospetto clinico di pancreatite acuta viene posta in
presenza di alterazioni dei livelli plasmatici degli enzimi di danno
pancreatico, amilasi e lipasi, e dall'esclusione di altre cause di dolore
addominale. Sebbene la maggior parte dei casi di pancreatite acuta risulti
autolimitante, nei casi più gravi, specie nella forma emorragica, si può
verificare exitus del soggetto per shock tossico e/o emorragico, sindrome da
distress respiratorio acuto (ARDS) e CID. L'insufficienza renale acuta è una
complicanza molto grave che può manifestarsi in corso di pancreatite ed
inoltre talora una pancreatite acuta necrotizzante può complicarsi per lo
sviluppo di ascessi pancreatici legati alla presenza di batteri provenienti
dall’intestino. Le sequele comprendono la formazione di ascessi pancreatici
sterili e la formazione di pseudocisti. Le cisti sono lesioni sferiche vuote
rivestite da epitelio mentre le pseudocisti mancano della componente
epiteliale. Le pseudocisti pancreatiche consistono in raccolte circoscritte di
materiale necrotico emorragico all'interno di una capsula fibrosa non
epitelializzata. Si formano come esito cicatriziale in seguito al
rimaneggiamento macrofagico che fibroblastico del parenchima pancreatico
non interessato dal processo necrotico-emorragico. In questa maniera il
tessuto danneggiato viene isolato da quello sano. Le pseudocisti possono
complicarsi in ascessi infetti o generare dei tratti fistolosi con gli organi
adiacenti (es. anse intestinali o tratti bilio-pancreatici). Per questi motivi, le
pseudocisti di grandi dimensioni possiedono una certa rilevanza clinica e
possono essere confuse con carcinomi pancreatici in esami di diagnostica per
immagini.
Gli enzimi pancreatici (tripsina, lipasi ed elastasi) sono responsabili del
danno tissutale. Normalmente sono confinati nei lisosomi, tuttavia in seguito
ad insulti tissutali possono essere liberati in sede extracellulare con
conseguente autodigestione del parenchima pancreatico e dei tessuti
circostanti.
Le pancreatite acute possono essere classificate sulla base dell'aspetto
macroscopico in sierose, suppurativa e ed emorragiche. La pancreatite acuta
sierosa è solitamente una forma di pancreatite autolimitante così definita
poiché associata ad un modesto infiltrato infiammatorio. Si riscontra
principalmente nei casi di infezione virale (es. virus della parotite e
Coxsackie virus) e meno frequentemente in forme esantematiche o legate a
stati settici. Si caratterizza per edema del parenchima e stiramento della
capsula con conseguente dolore a sbarra mesogastrico. La pancreatite acuta
suppurativa è una forma di pancreatite importante dovuta ad infezioni di
natura batterica. Il pancreas può essere interessato da un processo flogistico
primitivo dell'intestino (enterite batterica) che si estende per contiguità
all'organo, per diffusione duttale retrograda (colangite ascendente con
interessamento del dotto di Wirsung) od ancora in seguito alla presenza di
emboli settici giunti per via ematica. L'infiammazione potrà interessare
diffusamente il parenchima in maniera infiltrativa (flemmone) o dare origine
ad ascessi con cavità purulente di neoformazione. La pancreatite acuta
emorragica o necrotico-emorragica è la forma di pancreatite acuta più
temibile ed è associata ad un alto tasso di mortalità. Il pancreas appare
edematoso, tumefatto di aspetto variegato e talora emorragico. Si distinguono
aree di colore giallastro sede di steatonecrosi conseguente alla liberazione di
lipasi pancreatiche e di colore nero-grigiastro sede di necrosi coagulativa
conseguente alla liberazione di tripsina. La steatonecrosi si caratterizza per
una degenerazione definita "a gocce di cera" e può interessare anche organi
adiacenti o distanti in seguito all'immissione delle lipasi nel circolo ematico.
Infine nei casi più gravi si può osservare emorragia intraparenchimale dovuta
alla liberazione di elastasi che determinano degenerazione della parete
vascolare di vene e arterie. La pancreatite acuta emorragica costituisce
un'urgenza chirurgica e richiedi un repentino intervento di rimozione del
tessuto pancreatico necrotico in maniera tale da limitare la diffusione della
necrosi. Il quadro microscopico è un tipico quadro di infiammazione acuta
con infiltrato prevalentemente granulocitario con organizzazioni di
microascessi, danno vascolare e quadri di steatonecrosi.
P ANCREATITE CRONICA
La pancreatite cronica è una patologia caratterizzata da un processo
flogistico cronico di lieve entità ed una spiccata sclerosi del parenchima
pancreatico, prevalentemente a carico della componente esocrina, con
progressivo deterioramento della funzionalità dell'organo. L'infiammazione in
realtà è piuttosto blanda e si caratterizza per la presenza di un infiltrato
linfocitario in un contesto di sclerosi tissutale con atrofia della componente
acino-duttale. Le cause eziologico della base della malattia sono perlopiù
sovrapponibili a quelle della pancreatite acuta. La causa in assoluto più
frequente di pancreatite cronica è l'etilismo cronico, mentre altre cause meno
comuni comprendono (1) ostruzione croniche del tutto pancreatico, relazione
alla presenza di calcolosi, esiti cicatriziali, neoplasie della regione
pancreatico-duodenale (soprattutto a livello della testa del pancreas); (2)
malattie ereditarie, come la fibrosi cistica; (3) pancreatite tropicale, una
malattia eterogenea scarsamente definita che si osserva soprattutto in Africa
ed Asia; (4) idiopatiche, in relazione a causa non note ma verosimilmente
legate a mutazioni genetiche.
La causa più frequente di pancreatite cronica è l'etilismo cronico, tuttavia i
meccanismi patogenetici descritti sono relativamente comuni ai diversi fattori
eziologici. La patogenesi della malattia sembra essere legata sostanzialmente
a tre manifestazioni: ostruzione da concrezioni proteiche con successiva
calcificazione, effetto tossico diretto e stress ossidativo. I diversi agenti
eziologici, soprattutto l’alcol, si ritiene siano in grado di determinare un
aumento della concentrazione proteica nel succo pancreatico tale da
determinare precipitazione delle proteine con formazione di concrezioni. Le
proteine aggregate precipitate ostruiscono i dotti pancreatici e col tempo
possono andare incontro a calcificazione. L'ostruzione al deflusso del succo
pancreatico determina un aumento della pressione nel sistema escretore che si
trasmette in maniera retrograda alla componente acino-duttale, la quale
diviene atrofica per il continuo insulto meccanico. All’atrofia segue la
deposizione di stroma fibroso, dapprima in maniera interacinare e
successivamente panacinare, che determina sclerosi tissutale. La componente
endocrina risulta inalterata anche nelle forme più avanzate, poiché non fa
parte del sistema acino-duttale. Le tossine ed i prodotti derivati dal
metabolismo delle diverse sostanze possono danneggiare direttamente la
componente acino-duttale e/o instaurare una condizione di stress ossidativo
che contribuisce al danno cellulare. I metaboliti dell’alcol possono difatti
determinare la produzione all’interno delle cellule acinari di specie reattive
dell’ossigeno che (1) danneggiano direttamente la cellula, (2) favoriscono la
secrezione di chemochine e citochine pro-infiammatorie con reclutamento
dell’infiltrato infiammatorio, (3) promuovono i processi necrotici e (4)
inducono la deposizione di tessuto fibroso.
Dal punto di vista macroscopico, il pancreas si presenta come una massa dura
e sclerotica con presenza al taglio di calcoli e/o microcisti. All'esame
microscopico si osserva diffusa fibrosi parenchimale, infiammazione scarsa o
del tutto assente, atrofia della componente acino-duttale e dilatazione di entità
variabile dei dotti pancreatici a causa della presenza di concrezioni proteiche.
La sclerosi diffusa causa una distorsione dell'epitelio acino-duttale che
soventemente presenta falsi elementi di atipia, sia dal punto di vista
morfologico che dell’organizzazione tissutale, talora con presenza di
pseudoinfiltrazioni nervose. In particolare questa distorsione è apprezzabile
in sede di esame intra-operatorio, quando la biopsia è fissata al congelatore e
non trattata secondo la metodica di routine.
C ARCINOMA DEL PANCREAS
ADENOCARCINOMA D U T TA L E I N F I LT R A N T E
L’adenocarcinoma duttale infiltrante del pancreatico, o più
semplicemente carcinoma del pancreas, costituisce la quarta causa di morte
per carcinoma nei Paesi occidentali, preceduto dal cancro del polmone, del
colon e della mammella. Presenta un'incidenza di circa 9-10 su 100.000
persone ed interessa più frequentemente i soggetti in età avanzata. La malattia
è estremamente aggressiva, sia per le caratteristiche biologiche che per la
sovente diagnosi tardiva, e la prognosi a 5 anni è di appena il 2-5%. Il
carcinoma del pancreas decorre solitamente in maniera asintomatica fino a
quando non invade le strutture adiacenti, inoltre le manifestazioni
differiscono a seconda della sede primitiva d'insorgenza:
Le lesioni a carico di coda e corpo costituiscono il 50% circa di tutti i
carcinomi del pancreas, solitamente non determinano occlusione né del
coledoco né del dotto di Wirsung e di conseguenza possono
raggiungere dimensioni molto elevate prima di risultare sintomatiche.
Le manifestazioni cliniche aspecifiche, tra le quali astenia, calo
ponderale e febbricola, si presentano in uno stadio avanzato della storia
della neoplasia, ovvero quando oramai vi è un interessamento sistemico
della malattia. Meno frequentemente possono esservi forme
sintomatiche legate alla compressione degli organi retroperitoneali
circostanti (es. surrene sinistro, milza, colon trasverso e stomaco).
Le lesioni a carico della testa rappresentano il 50% circa di tutti i
carcinomi del pancreas, si manifestano soprattutto con dolore
addominale, dovuto alla compressione e/o infiltrazione della parete
duodenale e dei tronchi nervosi adiacenti, e con sintomi aspecifici
eguali a quelli di corpo e coda nelle fasi più avanzate della malattia. Il
segno clinico più frequente è l’ittero ostruttivo, sebbene generalmente
si manifesti in una fase già tardiva della malattia, dovuto all’ostruzione
del coledoco. La conseguente colestasi extraepatica può essere
responsabile di epatomegalia, colangiti ascendenti, cirrosi biliare
secondaria e dilatazione dolente della cistifellea con segno (aspecifico)
di Courvoisier. L’infiltrazione della parete duodenale può inoltre
determinare ulcerazione ed emorragia. Spesso al carcinoma della testa
del pancreas si associa una forma di pancreatite cronica legata
all’ostruzione del dotto di Wirsung.
Una manifestazione relativamente poco frequente di cancro al pancreas è la
tromboflebite migrante, nota come segno di Trousseau, verosimilmente legata
alla produzione di fattori procoagulanti e proaggreganti da parte delle cellule
neoplastiche. I carcinomi del pancreas spesso crescono lungo i nervi,
infiltrano il retroperitoneo, gli organi circostanti (milza, surrene, colonna
vertebrale, colon trasverso e stomaco), sono frequentemente interessati i
linfonodi peripancreatici, gastrici, omentali, periportali e mesenterici. La
metastatizzazione può avvenire per (1) via linfatica, soprattutto i carcinomi di
corpo e coda; (2) via ematica, principalmente a fegato, ossa e polmoni, e (3)
contiguità, soprattutto i carcinoma della testa. Le metastasi da carcinoma
pancreatico non sono semplici da definire poiché il tumore può decorrere in
maniera asintomatica e per l’indisponibilità di marcatori molecolari ed
immunoistochimici specifici. Talora vengono identificate metastasi senza
possibilità di risalire alla sede primitiva e si configura la cosiddetta diagnosi
di tumore a primitività occulta o sconosciuta. I livelli sierici di alcuni enzimi,
come il CA19-9, aumentano in corso di malattia, tuttavia nessuno di questi è
sufficientemente sensibile e specifico da costituire un valido test di screening.
I livelli sierici di CA19-9 possono risultare utili in corso di monitoraggio
terapeutico.
Il carcinoma del pancreas si sviluppa a partire da focolai displastici che
evolvono in lesioni neoplastiche. La malattia si sviluppa in maniera simile a
quella del carcinoma del colon-retto, ovvero con evoluzione dell'epitelio
displastico in lesioni non invasive a carico dei piccoli dotti fino al carcinoma
invasivo. Le lesioni precancerose sono definite "neoplasie pancreatiche
intraepiteliali" (Pancreatic Intraepithelial Neoplasias, PanIN), possono avere
grado diverso a seconda delle caratteristiche displastiche e si ritrovano spesso
nelle aree circostanti la neoplasia, motivo per cui anche in seguito a una
chirurgia radicale è possibile una recidiva di malattia si sviluppi da un focus
displastico non asportato. La cancerogenesi è un processo evolutivo basato
sul progressivo accumulo di alterazioni molecolari: nelle fasi iniziali si
osserva mutazione del proto-oncogene k-Ras, segue inattivazione
dell'oncosoppressore p16 ed infine di p53, SMAD4 e/o BRCA2. La
mutazione di k-Ras si riscontrano anche nelle lesioni displastiche, questo
costituisce un evento necessario ma non sufficiente all'evoluzione in senso
neoplastico: lo sviluppo di una neoplasia richiede che alla mutazione di k-Ras
si associno altri eventi molecolari, come l'inattivazione di p16, p53 e
SMAD4. Nel 90% dei casi di carcinoma del pancreas si osserva presenza di
mutazioni di k-Ras e nel 95% di p16.
I carcinomi del pancreas si presentano macroscopicamente come masse dure
di colore grigio-biancastro a forma varia. Il 90% circa delle lesioni consistono
in adenocarcinomi duttali che si organizzano in strutture ghiandolari a vario
grado di differenziazione, si caratterizzano per la presenza di secrezione
mucosa e di una importante reazione desmoplastica. La caratteristica saliente
del carcinoma del pancreas riguarda il pattern di crescita di tipo infiltrativo
che interessa in maniera estesa i tessuti peripancreatici, le strutture nervose, i
vasi linfatici e vascolari. Più raramente il carcinoma del pancreas consiste in
carcinomi adenosquamosi, a cellule acinari, midollari, epatoidi,
indifferenziati ed indifferenziati a cellule giganti simili agli osteoclasti.
L’iter diagnostico di carcinoma del pancreas è articolato lungo (1) dati
clinici, (2) tecniche di imaging, (3) ERCP e (4) indagine citologica. La clinica
è in realtà raramente utile in quanto la malattia decorre spesso in maniera
asintomatica o si manifesta con segni e sintomi aspecifici. Le metodiche di di
imaging (TC, HRTC e RMN) possono evidenziare la presenza di masse o di
ostruzioni dei dotti biliari senza tuttavia poter definire con esattezza la natura
della lesione. La colangiopancreatografia retrograda endoscopica (ERCP) è
utile nella sola misura in cui il tumore infiltra le vie biliari. L’ecoendoscopia
con agoaspirato (EUS-FNA) è una tecnica di endoscopia che consiste
nell’esecuzione di un agoaspirato sotto guida ecografica tramite endoscopia.
Una minuscola sonda ad ultrasuoni viene posizionato in corrispondenza della
C duodenale e, sfruttando la vicinanza di pancreas ed duodeno, si effettua
agoaspirato sotto guida ecografica in corrispondenza della lesione. L’unico
aspetto negativo della EUS-FNA riguarda la possibilità di contaminazione del
campione, poiché l'ago deve attraversare la parete duodenale per giungere nel
parenchima pancreatico. L'agobiopsia percutanea è raramente utilizzata e solo
in presenza di masse voluminose, si accede alla lesione attraverso le anse
intestinali. L’indagine citologica delle neoplasie pancreatiche può avere esito
(1) negativo, ad indicare la presenza di una lesione benigna (es. pancreatite
cronica e pseudocisti pancreatica); (2) positivo, ad indicare che la lesione è
certamente un adenocarcinoma duttale; (3) atipico o sospetto, se l'esito
orienta rispettivamente verso caratteri di benignità e malignità, è un risultato
“indeterminato” che richiede l'esecuzione di un nuovo agoaspirato. Le
indagini citologiche sono affiancate da tecniche ancillari, quali l'analisi
mutazionale di K-Ras e meno frequentemente di p16 e SMAD4 su
citoincluso tramite PCR real-time. L’esito finale deriva dall’integrazione dei
dati clinici, radiologici, citologici e molecolari. La prognosi varia in relazione
al sito d'insorgenza, alle dimensioni, ai rapporti con le strutture vascolari ed
gli organi contigui, allo stadio ed il grado e all'istotipo.
ADENOCARCINOMA CISTICO
I tumori cistici del pancreas sono neoplasie rare, a volte di grandi
dimensioni, a contenuto liquido. Si distinguono in due categorie principali: i
tumori cistici sierosi e quelli mucinosi. A differenza dell'adenocarcinoma
duttale infiltrante, spesso sono neoplasia trattabili chirurgicamente con
risoluzione completa della malattia. Dal punto di vista teorico queste lesioni
sono classificate i tumori dell'ovaio in: (1) cistoadenoma, caratterizzato da
cellule disposte in una singolo strato cellulare e senza atipie; (2) tumore
borderline (basso grado di malignità), caratterizzato da pseudostratificazione
cellulare e presenza di atipie cellulari; (3) cistoadenocarcinoma, caratterizzato
da infiltrazione dello stroma con presenza di franche atipie cellulari. Il
trattamento è generalmente di tipo chirurgico e consiste nella completa
escissione della massa tumorale ad un paio di cm dal margine della lesione.
La diagnosi viene condotta con metodiche istologiche, in maniera tale da
poter definire l'eventuale infiltrazione della parete, aspetto che non può essere
valutato tramite indagine citologica. Dal punto di vista del profilo molecolare,
anche i tumori cistici del pancreas e si caratterizzano spesso per mutazione di
k-Ras, tuttavia le neoplasie maligne sono meno aggressive rispetto
all’adenocarcinoma duttale infiltrante e le eventuali metastasi sono limitate
alla cavità addominale (peritoneali o addominali locali).
ADENOCARCINOMA CISTICO SIEROSO
L'adenocarcinoma cistico sieroso o cistoadenoma microcistico è una lesione
generalmente benigna che interessa soprattutto la testa del pancreas,
determinando colestasi extra-epatica con le relative manifestazioni. La massa
tumorale presenta un aspetto macroscopico traslucido "a spugna" e sono
apprezzabili numerose loculi contenenti liquido sieroso. All'esame
microscopico le cisti risultano rivestite da epitelio squamoso.
ADENOCARCINOMA CISTICO MUCINOSO
L’adenocarcinoma cistico mucinoso è la forma di aenocarcinoma cistici più
frequente, interessa soprattutto i soggetti di sesso femminile intorno alla
quinta decade di vita e insorge tipicamente a livello del pancras distale. La
massa tumorale appare traslucida e può presentare un aspetto macroscopico
cistico uniloculare o più frequentemente multiloculare. All'esame
microscopico i loculi sono separati da di setti fibrosi rivestiti da epitelio
colonnare mucosecernente e per la presenza di uno stroma connettivale simil-
ovarico.
CARCINOMA DELLA REGIONE AMPOLLARE
Il carcinoma della regione ampollare è una neoplasia pancreatica che
insorge a livello dell'ampolla di Vater. Dal punto di vista istogenetico, si
distinguono carcinomi ampollari di tipo intestinale, un adenocarcinoma
intestinale solitamente di tipo polipoide che presenta una prognosi migliore
rispetto all’adenocarcinoma duttale infiltrante; e carcinomi del segmento
intraepatico del dotto biliare comune, ovvero un colangiocarcinoma extra-
epatico che origina dalla porzione di coledoco in rapporto con la testa del
pancreas. Questa distinzione può essere effettuata solo in una storia
relativamente precoce della malattia, neoplasie in fasi avanzate risultano
spesso indistinguibili dal punto di vista istogenetico.
T UMORI ENDOCRINI DEL PANCREAS
I tumori endocrini del pancreas sono dei tumori rari, rappresentano
all’incirca il 2% di tutti i tumori pancreatici, si caratterizzano talvolta per
un'eccessiva produzione di alcuni ormoni, soprattutto insulina gastrina,
sebbene alcune forme tumorali producano ormoni completamente non
funzionanti. Le cellule neoplastiche possono originare direttamente da cellule
somatiche già differenziate in senso endocrino oppure da cellule
indifferenziate che sviluppano nel corso dell’evoluzione neoplastica caratteri
neuroendocrini. Questa differenza è alquanto importante: nel primo caso,
lesioni anche di piccole dimensioni danno origine a sindromi
paraneoplastiche legate all'eccessiva secrezione dell'ormone; mentre nel
secondo caso le lesioni possono non produrre ormoni (tumori non secernenti)
e raggiungere anche dimensioni molto rilevanti. Possono insorgere come
lesioni singole o multiple, benigne o maligne. La natura dei tumori endocrini
non è soventemente definibile dal punto di vista morfologico poiché le atipie
cellulari non costituiscono un criterio per definire la benignità o la malignità:
tumori francamente atipici possono essere benigni, mentre lesioni infiltranti
possono presentare aspetti di differenziazione simili alla controparte non
neoplastica. In generale un tumore endocrino infiltrante è maligno, tuttavia
questo aspetto può essere sfumato e non sempre evidente. I criteri di
malignità dei tumori neuroendocrini del pancreas comprendono:
(1) Criteri maggiori ed inequivocabili, ovvero la presenza di metastasi ai
linfonodi o a distanza e la tendenza ad invadere le strutture vascolari.
(2) Criteri minori, ovvero dimensioni, infiltrazione e superamento della
capsula con interessamento del parenchima pancreatico, elevato indice
mitotico (numero di mitosi per 10 o 50 HPF) e proliferativo (numero di
cellule non in fase G0 valutate con marcatore Ki-67, una proteina
strettamente associata alla proliferazione cellulare), necrosi, atipie
cellulari e tipo di ormone prodotto.
La componente neuroendocrina viene distinta attraverso diverse metodiche:
L’analisi istologica che si caratterizza per la presenza di cellule piccole
ed uniformi immerse in un'abbondante stroma fibrovascolare,
fondamentale per la crescita e la secrezione ormonale. Tuttavia alcune
lesioni non neuroendocrine presentano aspetti morfologici simili e di
conseguenza la diagnosi deve essere confermata tramite l’ausilio di
altre metodiche.
L’analisi immunoistochimica condotta nei confronti di marcatori di
differenziazione neuroendocrina generici, come sinaptofisina e
cromogranina, e specifici in relazione al tipo di ormone prodotto, come
insulina e glucagone. Tuttavia alcuni tumori neuroendocrini, specie le
forme più indifferenziate, non producono l’ormone o non lo producono
nella sua forma attiva e di conseguenza questo può complicare
ulteriormente la diagnosi.
L’analisi ultrastrutturale con evidenza della presenza dei grandi
secrezione.
INSULINOMA
L’insulinoma è la più frequente neoplasia endocrina del pancreas, origina
dalle cellule β del pancreas e nella maggior parte dei casi si tratta di un
tumore benigno. Dal punto di vista clinico si manifesta nella maggior parte
dei casi in maniera subclinica con una lieve ipoglicemia e solo nel 20% dei
casi con la crisi ipoglicemiche e sintomi correlati (confusione, stupore e
perdita di coscienza).
Dal punto di vista macroscopico, il tumore si può presentare come una
lesione di piccole dimensioni organizzata in noduli multipli oppure più
frequentemente come un singolo nodo. I tumori solitari sono solitamente più
voluminosi (<2 cm), di solito tondeggianti, incapsulati e di colore brunastro.
All'esame istologico sono presenti piccole cellule rotondeggianti, uniformi
organizzate in cordoni regolari disposte in uno stroma fibrovascolare. La
deposizione di amiloide nel tessuto è una caratteristica distintiva di molti
insulinomi. All'immunoistochimica e/o all'analisi ultrastrutturale sono
apprezzabili i granuli neurosecretori.
Il riscontro può essere occasionale, in seguito ad alterazioni di esami di
laboratorio, oppure in presenza di masse voluminose identificate tramite
diagnostica per immagine. In quest’ultimo caso si procede ad un’indagine
citologica. Nel processo diagnostico molto importanti sia l’immunistochimica
che il dosaggio sierico dell’insulina. L’insulinoma inoltre deve essere
differenziato dall’iperplasia delle isole di Langerhans, una forma congenita di
iperinsulinismo ed ipoglicemia non neoplastiche e transitoria che si riscontra
in alcuni lattanti in caso di diabete materno. Più raramente questa condizione
si presenta nell’adulto.
GASTRINOMA
Il gastrinoma è una neoplasia che può insorgere con eguale probabilità
livello di pancreas, duodeno e tessuti molli peripancreatici (il cosiddetto
triangolo del gastrinoma). L'origine della neoplasia non è ancora stata
completamente chiarita tuttavia si ritiene probabile che le cellule neoplastiche
originino da cellule endocrini intestinali o pancreatiche. Il gastrinoma si
caratterizza per l’ipersecrezione dell'ormone gastrina e si associa nella
maggior parte dei casi alla sindrome di Zollinger-Ellison, ovvero una forma
di ipersecrezione di acido gastrico con ulcere peptiche multiple.
Dal punto di vista morfologico, i gastrinomi possono manifestarsi come
lesioni solitarie a carico di pancreas, intestino e tessuti molli peripancreatici
oppure, più raramente, manifestarsi in maniera multifocale nel contesto delle
sindromi MEN (neoplasia endocrine multiple). L'aspetto morfologico e simile
a quello degli insulinoma e di rado mostrano un'anaplasia marcata, sebbene
nella maggior parte dei casi alla diagnosi il tumore presenta invasività locale
o già metastasi a distanza.
INDICE ANALITICO

AchE 55
acido cloridrico 38
acido periodico di Shiff 10
actina 24; 71
adenilato ciclasi 59
adenocarcinoma
appendicolare mucinoso 81
cistico
mucinoso 115
sieroso 115
del canale anale 83
del colon-retto 77
da instabilità cromosomica 76; 78
da instabilità dei microsatelliti 77; 78
invasivo 76
adenoma
appendicolare mucinoso 80
epatico 100
adipocita 20
AFP 104
agobiopsia 6
AIDS 26
AIN 82
AKT 70
Alcian Blu 13
alfafetoproteina 104
ALK 22
Amanita Phalloides 94
amebiasi 63
Anal Intraepithelial Neoplasia 82
Anal Squamous Intraepithelial Lesion 82
anatomopatologo 4
anelli di Kayser-Fleischer 98
anemia
perniciosa 41
angiosarcoma 27
anticorpo primario 14
anticorpo secondario 14
antigene
carcino-embrionale 104
APC 76; 78
arcata del Riolano 40
ascesso
criptico 51
ascesso foveolare 43
ascite 90
ASIL 82
asterixis 90
ATP7B 98
atrofia dei villi 48
autopsia 4
autopsia giudiziaria 5
autopsie fetali 5
barriera
mucosa gastrica 38
BAX 78
bicarbonato 38
BilIN 109
bilirubina 93
biopsia endoscopia 7
biopsia endoscopica
intestinale 7
biopsia escissionale 9
biopsia incisionale 9
BRAF 78
cAMP 59
Campylobacter Jejuni 58
cancro ereditario del colon-retto non poliposico 77
capsula
di Glisson 101
caput medusae 91
carcinoide 41; 43; 79
carcinoma
a cellule squamose
del canale anale 81
basocellulare 9
cloacogenico 82
del canale anale 81
del pancreas 113
del polmone 33
del rene 33
della colecisti 108
della mammella 33
della prostata 33
della regione ampollare 115
della tiroide 33
dell'appendice 79
gastrico 41; 65
di tipo intestinale 44; 67
diffuso 67
precoce 65
in situ 66
intramucoso 76
prostatico 27
renale 24
spinocellulare 9
verrucoso 83
cariotipo 15
CBP 105
CCA 106
CD31 27
CDH1 67
CEA 104
celiachia 46
cellule
caliciformi 43
colonnari 38
del Paneth 44; 66
di Ito 88
di Kupffer 94
di Langerhans 34
di Paneth 50; 51
di Schwann 23
enterocromaffini 38
enteroendocrine 38
epiteliodi 23
fisalifore 33
interstiziali di Cajal 70
M 60
mucosecernenti 38
ovali 94
parietali 38
principali 38
centromero 15
CFTR 59
circolo di Retzius 91
cirrosi
epatica 91
alcolica 97
cirrosi biliare primitiva 105
cisti
ossea aneurismatica 34
ossea solitaria 34
citocheratine 14
biliari 104
citofluorimetria 14
citogenetica 15
citologia
agoaspirativa 11
esfoliativa 11
CK18 104
CK19 104
CK7 104
CK8 104
c-KIT 70
classificazione
di Lauren 67
di Marsh 48
di Marsh-Oberhuber 48
Clostridium Difficile 56
CMV 93
colangiocarcinoma 106
colangite biliare primitiva 96; 105
colangite sclerosante primitiva 105
colera 59
colestasi extraepatica 106
colite ischemica 54
colite pseudomembranosa 56
colonociti 44; 61; 66
colorazione 10
di Giemsa 44
di Warthin-Starry 44
di Ziehl-Neelsen 10; 58
PicroSirius Red 55
colorazione di
Fontana-Tribondeau 10
colorazioni
istochimiche 13
istologiche 12
condiloma acuminato 82
condroblastoma 30
condroma 27; 30
iuxtacorticali 30
polmonare 70
condrosarcoma 31
cordoma 33
corpi
di Councilman 86
di Mallory 87; 97
corpi di
Verocay 23
cripte del Lieberkühn 38
criptosporidiosi 62
criteri
di Brunt 98
di Edmondson 103
cromatolisi 86
cromosoma 15
CSP 105
degenerazione
palloniforme 86
dermatite
eczematosa 83
dermatofibrosarcoma protuberans 21
desmina 24; 71
desmoplasia 80
desmosi colica 54
desmosi intestinale 55
desmosis coli 55
difensine 49; 51
digestione
intraluminale 46; 47
terminale 46; 47
displasia
fibrosa 28
displasia intestinale neuronale di tipo B 55
diverticolite 64
diverticolo 64
diverticolosi 64
EBV 93
E-caderina 67
elastografia epatica 88
ematossilina 10
ematossilina-eosina 12
emoangiopericitoma 22
emocromatosi
primaria 98
secondaria 98
emoperitoneo 8
emorroidi 91
emosiderina 34
emosiderosi 98
encefalopatia epatica 90
encondroma 30
Entamoeba histolytica 63
Enterobacteriaceae 61
enterocita 38
enterociti 38
enterocolite da Campylobacter 58
enterocoliti
batteriche 56
parassitarie 62
eosina 10; 12
epatite
acuta 92
da farmaci 93
virale 93
autoimmune 95
cronica 94
lieve 95
riacutizzata 95
virale 94
fulminante 93
epatocarcinoma 99; 101
fibrolamellare 103
sclerotico 104
epatopatia alcolica 96
epicrisi 6
ERCP 107
erosione 45
esame intraoperatorio 8
esofago di Barret 66
EWSR1 32
FANS 41
FAP 76
fattore intrinseco 38
febbre enterica 60
febbre tifoide 60
fegato 86
fenomeni tanatologici 5
fibrosarcoma 21
FibroScan 88
fibrosi
epatica 87
a ponte 87
aracniforme 97
centrolobulare 87
peri-intrasinusoidale 87
portale 87
fibrosi cistica 46
FISH 20; 32; 44; 108; Vedi ibridazione fluorescente in situ
fissazione 10
fistole 50
flapping tremor 90
flogosi da interfaccia 89
fluorocromo 14
FNAB 11
FNCLCC 20
formalina 10
gangrena
intestinale 54
gastrinoma 41; 117
gastrite
autoimmune 41
cronica 41
cronica di tipo A 41
cronica di tipo B 41; 66
gastrorragia 68
GFAP 14
GGH 87
ghiandola
apocrina 83
Giovanni Battista Morgagni 4
GIST 70
gliadina 47
glutine 46
grado di un tumore 16
granuloma
da danno alcolico 96
granuloma eosinofilo 34
granulomatosi di Wegener 53
granulomi
epiteliodi
non necrotizzanti 50
Ground Glass Hepatocyte 87
Ground Glass Hepatocytes 95
HAV 93
HBcAg 95
HBsAg 87; 95
HBV 87; 93; 94
HCC 101
HCV 93; 94
HDV 93; 94
Helicobacter Heilmannii 42
Helicobacter Pylori 41
Hep Par1 104
HER2 68
HEV 93
HFE 99; 100
HHV8 26
HIF-1 53
HLA-B27 58
HLA-DQ2 47
HLA-DQ8 47
HPV 82
HPV-16 82
HPV-18 82
HUS 61
IBD 48
ibridazione fluorescente in situ 15
IEL 7; 47
IFF 100
IL-10 51
IL-13 51
IL-15 47
IL-23 49
IL-8 61
Imatinib 72
immunofluorescenza 14
immunoistochimica 13
impregnazione argentica 12
incidentaloma 70
inclusione 10
indagine citologica 10
indice
di Ishak 8; 98
di Knodell 8; 98
infarto
emorragico 53
intestinale 52
intramurale 53
mucoso 53
transmurale 53
insufficienza
cardiaca destra 90
epatica 89
insulinoma 116
intestino tenue 38
intussuscezione 53
iperplasia
delle isole di Langerhans 117
nodulare 100
iperplasia criptica 48
ipertensione
portale 90
ipoganglianosi del colon 55
Iron-Free Foci 100
istiocitoma fibroso maligno 22
istiocitosi
a cellule di Langerhans 34
istoenzimatica 14; 56
k-RAS 76
K-Ras 115
KSHV 26
L’anatomia patologica 4
l’ematossilina 12
lamina
limitante 89
LAMN 80
LDH 55
legge di
Nysten 5
leiomioma 24
pilare 24
uterino 24
leiomiosarcoma 24
lesione
elementare 86
linfoepiteliale 73
osteolitica 32
precancerose 65
lesione pre-cancerosa 51
lesioni
osteoaddensanti 27; 29
osteolitiche 29; 34
sclerotiche 27
linfoma 41
a cellule B
del MALT 72
extranodale 72
primitivo dell’osso 32
linfoma a cellule T 72
linfonodo
di Virchow 68
linite plastica 67
lipoblasto 21
lipogranuloma 96
lipogranulomi 98
lipoma 20
liposarcoma 20
a cellule rotonde 21
ben differenziato 21
mixoide 21
pleomorfo 21
livor mortis 5
LKB1 74
malattia
da reflusso gastroesofageo 45; 66
di Hirschsprung 54
di Menetrier 66
di Paget
extramammario 83
di Whipple 57
di Wilson 98
diverticolare 64
Hirschsprung-simile 55
metastatica 33
peptica ulcerosa 44
malattia di
Paget 28
von Recklinghausen 23
malattie
infiammatorie intestinali 48
MALT 43; 72
MALToma 72
MAP chinasi 70
medici necroscopici 4
medico legale 4
megacolon
congenito agangliare 54
megacolon tossico 52
melanoma
anale 83
mesotelio 39
mesotelioma
benigno 22
metaplasia 66
a cellule di Paneth 52
a cellule di Paneth 50
pseudopilorica 52
metaplasia intestinale 41
completa 44; 66
incompleta 44; 66
metaplasia pseudopilorica 50; 52
metronidazolo 56
MIC-A 47
micobatteriosi 50
microbiota 77
microtomo 10
microvilli 38
miogenina 24
MLH1 77; 78
modello dei due hit di Knudson 74; 76; 77
morbo
di Chron 46; 48
di Wilson 87
MPNST Vedi tumore maligno delle guaine nervose periferiche
MSH2 77; 78
muco 38
mucocele 80
mucopolissacaridi 21
muscularis mucosae 38
mutazioni
secondarie 71
mutazioni di resistenza 71
MYOD1 24
NAFLD 97
NASH 88; 97
N-caderina 33
necrosi
litica 86
neoplasia mucinosa appendicolare di basso grado80
neu 68
neuroblastoma 33
neurofibromatosi
di tipo 1 23; 71
NF1 23
NF-κB 53
NID-B 55
NKG2D 47
N-myc 25
NOD2 49
noduli di rigenerazione epatici 88
noduli tifoidi 60
orceina 12
osteoblastoma 28
osteoclastoma 31
osteocondroma 30
osteocondromatosi 28
osteoma 33
osteoma osteoide 28
osteosarcoma 27; 28; 33
osteosarcomi 20
p16 15; 108; 115
p53 78
pancreas 111
pancreatite
acuta 46; 111
emorragica 112
sierosa 112
suppurativa 112
cronica 46; 112
paraganglioma 70
Paramyxovirus 93
paratifo 60
Parvovirus B19 93
PAS 10; 13; 32; 47; 58; 62
patologie con malassorbimento 46
pattern recognition receptor49
PAX3 25
PAX3-FKHR 25
PCR 16; 20; 32; 44
PDGF 70
PDGFR a 70
pepsina 38
perforazione
intestinale 54
perforazione intestinale 50
peritonite chimica 68
piecemeal necrosis 89; 95
plesso
nervoso mioenterico 39; 54
nervoso sottomucoso 39; 54
plesso venoso
di Batson 33
PNET 32
poliarterite nodosa 53
polipo 73
adenomatoso 75
amartomatoso 74
giovanili 75
infiammatorio 74
iperplastico 74
neoplastico 75
non neoplastico 74
peduncolato 73
sessile 73
poliposi adenomatosa familiare 76
porpora di Schönlein-Henoch 53
proteina
G stimolatoria 59
S100 23
PRR 49; 51
pseudocisti 34
pseudomembrane 57
pseudomixoma peritoneale 81
pseudopolipi 74
psudopolipi 51
rabdomioblasto 24
rabdomiosarcoma 24; 33
alveolare 25
embrionale 24
pleomorfo 25
reagenti di cattura 14
reazione a catena della polimerasi 16
reazione desmoplastica 67
reazione PAS 13
regione
antrale 38
fundica 38
RET 54
rettocolite ulcerosa 48; 51
rigor mortis 5
riscontro diagnostico 4
roseola tifosa 60
Salmonella Paratyphi 60
Salmonella Typhi 60
salmonellosi 59
sarcoma 20
botrioide 25
di Ewing 27; 32; 33
di Kaposi 26
pleomorfo 22
pleomorfo a cellule giganti 23
pleomorfo a pattern storiforme 23
sinoviale 25
SBRCT 25; 31; 32
SCF 70
schwannoma
benigno 23
maligno 20; 23
SDH 55
segno
di Courvoisier 114
di Trousseau 114
Shigella Dysenteriae 62
shunt porto-sistemici 91
sindrome
da scomparsa dei dotti biliari intraepatici 105
della leiomiomatosi ereditaria associata al carcinoma renale 24
della morte improvvisa del lattante 5
delle esostosi multiple ereditarie 30
di Banti 90
di Budd-Chiari 90
di Down 54
di Gardner 76
di Guillain-Barré 58
di Lynch 77
di Peutz-Jeghers 74
di Reiter 61
di Turcot 76
di Zollinger-Ellison 45; 117
emolitico-uremica 61
epatopolmonare 90
epatorenale 90
MEN 117
sistema linforeticolare 20
sistema TNM 17; 79
SK Vedi sarcoma di Kaposi
SMAD2 78
SMAD4 78; 115
small-blue-round-cell-tumor 25; 31; 32
spazio
di Disse 88; 89
spondiloartrite sieronegativa 61
stadio di un tumore 17
steatoepatite
alcolica 97
non alcolica 97
steatoepatite alcolica 96
steatonecrosi 112
steatorrea 46
steatosi 96
epatica 86
alcolica 96
non alcolica 97
STK11 74
stomaco 38
taenia coli 65
Taq polimerasi 16
TBC 50
tecnica chirurgica di Mohs 9; 21
telomero 15
tessuto
mixoide 21
TH1 49
TH17 49
TH2 51
Thorotrast 27; 107
tossina
CagA 42
Shiga 61
VacA 42
triade del Bichat 5
triade di Carney 70
tricromica di Mallory 12
tricromica di Masson 12
tromboflebite migrante, 114
Tropheryma whipplei 58
tumore
a cellule giganti 31
condrogenico 30
dei tessuti molli 20
del tessuto adiposo 20
del tessuto fibroistocitario 22
del tessuto fibroso 21
del tessuto muscolare liscio 24
del tessuto muscolare scheletrico 24
del tessuto osseo 27
del tessuto vascolare 26
delle guaine nervose periferiche 23
di incerta differenziazione 25
di Krukenberg 68
di natura neoplastica indefinita 33
di Wilms 33
fibroso solitario extrapleurico 22
maligno della guaina del nervo periferico 23
maligno delle guaine nervose periferiche 20
miofibroblastico infiammatorio 22
neuroectodermico primitivo 32
osteogenico 28
stromale gastrointestinale 70
tumori
cistici del pancreas 115
endocrini
del pancreas 116
ulcera
aftosa 50
ulcera peptica 41; 42
ureasi 42
UroVysion 15
vancomicina 56
varici esofagee 91
vasculiti 53
VEGF 26
Vibrio Cholerae 59
villi intestinali 38
vimentina 14
virus
del papilloma umano 82
epatotropi 93
oncogeno 82
volvolo 53
WNT 67
zona cloaco-genica 39
β-catenina 67
β-Catenina 76

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