Sei sulla pagina 1di 7

Data: 05/03/2019

Ora: 1/2
Materia: Ortopedia
Professore: Maccauro
Sbobinatore: Daniele Ingusci
Controllore: Antongiulio Lentini
Argomenti trattati: Patologia traumatica dell’arto inferiore, fratture di bacino, femore,
ginocchio e gamba

FRATTURE DEL FEMORE


Passando alla traumatologia del femore,
una delle problematiche maggiori è la
frattura dell’estremo prossimale del
femore, con epidemiologia prettamente
geriatrica; mentre, infatti, per le fatture
del bacino e della pelvi sono necessari
traumi ad alta energia come gli incidenti
stradali (es. diastasi della sinfisi pubica
tipica del motociclista che, venendo
sbalzato in avanti, va ad urtare a gambe
divaricate contro il proprio serbatoio
serbatoio o contro l’auto che l’ha colpito;
questo provoca la diastasi della sinfisi
pubica e può causare danni a vescica ed uretra), per le fratture dell’estremo prossimale del femore
nell’anziano sono sufficienti traumi a bassa energia, di modesta entità. L’anatomia dell’estremo prossimale
del femore è caratterizzata da archi (trabecole) che identificano dei punti di minore resistenza; l’osteoporosi,
tipica dell’anziano, riduce lo spessore delle trabecole che sostengono il femore prossimale e determina una
ancora minore resistenza e una maggiore suscettibilità alle fratture.
Le fratture dell’estremo prossimale del collo del femore si distinguono in fratture del collo del femore e
fratture della regione trocanterica e in mediali e laterali, in base all’inserzione della capsula che contiene
i vasi che irrorano la testa del femore. La prognosi è molto diversa in base al tipo di frattura.
Le fratture sottocapitate, al di sotto della testa del femore, o transcervicali (mediocervicali), attraverso il
collo del femore, hanno un rischio molto elevato di danneggiare i vasi della capsula, poiché questi vengono
stirati e/o tranciati, e di dare, quindi, necrosi ischemica secondaria della testa del femore; prognosticamente,
perciò, sono molto più gravi.
Le fratture alla base del collo (basocervicali), pertrocanterica (attraverso i trocanteri, dal grande al piccolo)
o sottotrocanterica sono le cosiddette fratture laterali o extracapsulari (quelle appena sopra descritte sono,
invece, mediali o intracapsulari) che non danneggiano la capsula articolare e i vasi in essa contenuti e non
hanno rischio di necrosi della testa del femore, con prognosi più favorevole.
La lesione dei vasi della capsula sono il fattore principale che permette di decidere il tipo di approccio da
adottare: nella maggior parte dei casi le fratture sottocapitate e transcervicali vengono trattate con la
sostituzione completa della testa del femore con una protesi poiché si dà per scontato, non essendoci esami

Pag. 1 di 7
che possano dimostrarlo o meno, che ci sia una lesione dei vasi della capsula; vice versa le fratture
basocervicali, pertrocanteriche e sottotrocanteriche, avendo un basso rischio di necrosi secondaria della testa
del femore, vengono trattate con la OSTEOSINTESI, dando per scontato che, non essendoci un danno
ischemico, la frattura può guarire.
Le fratture laterali sono spesso le più scomposte a causa dell’azione di grosse masse muscolari, dei glutei che
si inseriscono sul trocantere, per azione dei quali abbiamo un arto accorciato, perché i glutei trazionano in
alto diafisi ormai svincolata dal resto, ed extrarotato, a causa degli extrarotatori che si inseriscono allo stesso

livello. L’accorciamento e
l’extrarotazione provocano un dolore
molto intenso e a danno impotenza
funzionale assoluta.; questo tipo di
complicanze è molto meno frequente nel
caso di fratture sottocapitate e
transcervicali poiché in questa zona non
ci sono masse muscolari che agiscono e
la capsula, benché danneggiata, in
qualche modo ancora contiene le
componenti ossee, impedendo un grosso
spostamento lungo l’asse verticale e
l’extrarotazione.
Le fratture mediali o intracapsulari vengono ordinate mediante la Classificazione di Garden che
prevede:
- Tipo 1: in cui la testa del femore, lateralmente, va leggermente in valgo, tende ad andare leggermente
verso l’esterno accorciandosi, mentre la parte mediale è perfettamente composta; la testa del femore si
incastra nel collo leggermente in vagismo rispetto alla sua posizione naturale; nelle fratture mediali di
tipo 1 la prognosi è molto favorevole poiché risulta improbabile che vi sia una compromissione dei
vasi della capsula che irrorano la testa del femore; in questo caso, l’intervento di elezione è la sintesi
ossea con 3 viti che danno un effetto di compressione alla frattura che si pensa possa guarire senza
ulteriori interventi, vista la non compromissione dei vasi;
- Tipo 2: la frattura è completamente composta e non ha tendenza al varismo o al valgismo quindi si
preferisce anche in questo caso la sintesi, supponendo un’ottima probabilità di guarigione per gli
stessi motivi della Tipo 1;
- Tipo 3: in cui abbiamo varismo della testa che si abbassa rispetto al collo e si ha un molto probabile,
quasi certo, danno ischemico della testa del femore per la quale si procede con la sostituzione con
protesi, dando per scontata una impossibilità di guarigione naturale;
- Tipo 4: in cui la testa risulta ruotata rispetto al collo e sono su due piani diversi; in questo caso i danni
sono certamente danneggiati e si procede, quindi, con la chirurgia protesica.
Le fratture mediali di tipo 3 e tipo 4 di Garden sono le più frequenti.

Pag. 2 di 7
Vice versa, per le fratture laterali, poiché si dà per scontato che non vi sia stato un coinvolgimento della
capsula e dei vasi in essa contenuti, si procede con la sintesi.
Questi sono dati statistici poiché, come detto, non c’è modo certo, un esame utile alla diagnosi di
compromissione dei vasi della capsula (nemmeno un’angiografia risulta utile) e quindi bisogna sfruttare al
massimo questi dati e la propria esperienza per scegliere il giusto approccio.
Domanda: “Sarebbe possibile utilizzare le protesi in ogni caso?”
Risposta: “Le protesi, per definizione, hanno una durata (15-20 anni) quindi se la testa del femore può guarire
non vi è motivo di utilizzare una protesi; ci sono poi motivi tecnici che rendono molto complicata
l’introduzione della protesi nei casi, per esempio, di frattura della regione trocanterica, oltre a minarne la
stabilità e la tenuta. Pertanto non è giustificato l’utilizzo di protesi né biologicamente, in quanto la testa del
femore può guarire da sola, né tecnicamente, viste le maggiori difficoltà e problemi”.
Fratture diafisiare del femore

Le fratture diafisiare del femore


possono essere chiuse o aperte,
composte o scomposte, a due o
più frammenti, unifocali o
bifocali, con scomposizione
laterale o rotatoria completa,
trasversale o obliqua/spiroide
(casi più frequenti).
Siccome a questo livello la
componente muscolare è molto
importante, nei casi di traumi ad
alta energia che interessino
soggetti maschi giovani e
muscolosi, la probabilità di shock emorragico è molto elevata (si può arrivare a perdere anche 1,5 L di sangue
sui 5 L totali di patrimonio sanguigno).

L’azione di tutte le masse muscolari (glutei,


flessori, adduttori, tensore della fascia lata etc.)
provoca più facilmente una scomposizione
importante della frattura; per questo motivo, la
trazione longitudinale dell’arto è la regola: la
trazione longitudinale è trans-scheletrica con un
Pag. 3 di 7
filo molto grosso che passa attraverso condili o appena al di sopra di essi al quale si aggancia una cupola che
esercita una trazione longitudinale che permette di riallineare il femore molto accorciato con una forza peso
pari ad 1/7 del peso corporeo del paziente, per controbilanciare l’effetto delle grosse masse muscolari.
Esercita, quindi, un compito meccanico, di riallineamento delle strutture ossee, e un compito biologico,
facilitando il riassorbimento dell’edema.
Una volta che l’arto è stato ridotto e l’ematoma si è riassorbito (nell’arco di qualche giorno) si può procedere
con l’introduzione di mezzi di sintesi, in questo caso un chiodo. Questo chiodo viene bloccato con delle viti
sia sopra che sotto (osso-chiodo-osso) poiché, in assenza di queste, non controllerebbe né la rotazione
dell’osso sul chiodo, né l’accorciamento del femore sul chiodo o lo scorrimento, in caso di chiodo piccolo,
del femore sul chiodo.
Fratture del ginocchio
Le fratture del ginocchio possono localizzarsi
sopra i condili, attraverso i condili, colpire le
spine tibiali, le propaggini sulle quali si
inseriscono i legamenti crociati, il piatto
tibiale e la rotula. Sono tutte fratture
articolari. Meno frequenti sono le fratture
sopra condiloidee che hanno un meccanismo
traumatico piuttosto particolare e raro.
Più frequenti sono le fratture dei condili che
possono interessare un condilo o entrambi i
condili e sono causate da traumi ad alta
energia.

Molto più frequenti sono le fratture


del piatto tibiale e delle spine; nella
slide si può vedere una frattura del
piatto tibiale sia anterolateralmente che
posteromedialmente; fratture così
complesse possono provocare la
sindrome compartimentale (ricorda la
Sindrome di Volkmann, tipica del
bambino), in cui il muscolo
danneggiato per la frattura si gonfia e
l’inestensibilità della fascia, unita
all’aumento di pressione causato dal
muscolo gonfio e dall’ematoma,
portano ad una riduzione della
perfusione e alla necrosi del muscolo
Pag. 4 di 7
se non si interviene. I sintomi sono il dolore violentissimo, la non sensibilità agli anestetici e la durezza
dell’arto. La soluzione chirurgica è la fasciotomia: la fascia viene aperta, il muscolo può espandersi e, una
volta che la situazione è risolta e l’edema si è ritratto, si procede con la chiusura della fascia.
Le sono più frequenti nell’anziano in cui un trauma ad energia più bassa può causare questo genere di
fratture che, nel soggetto giovane, richiederebbero un trauma più serio.
Il principio di trattamento delle fratture è la riduzione anatomica, per portare le strutture ossee e
legamentose ad una situazione di normalità, seguita dalla sintesi stabile della frattura, che può essere
effettuata con la chirurgia o con apparecchio gessato, per permettere al naturale processo di rimodellamento e
riparazione di potersi attivare.
Nella frattura della rotula si ha intensa dolorabilità ed emartro, ovvero il versamento di sangue all’interno
dell’articolazione.
Un evento raro, tipico dei traumi ad alta energia, è la lussazione del ginocchio, perlopiù posteriore, che ha
un’altissima probabilità di complicanze poiché si ha la rottura di tutti i legamenti del ginocchio ed il femore,
dislocandosi indietro, può danneggiare i nervi e dislocare l’arteria poplitea: la trombosi di questa arteria è una
complicanza comune di questo tipo di lesioni. La metodologia da seguire è la riduzione della lussazione
seguita dalla stabilizzazione con fissatore esterno per evitare che il femore si muova e l’immediata
esecuzione di un bypass se c’è danno arterioso. Se il danno arterioso non è presente si procede con la
riduzione e il posizionamento di un tutore; terminata la fase acuta si procede con la ricostruzione della
componente legamentosa del ginocchio.

Fratture dell’arto inferiore hanno una necessità di


trattamento molto maggiore rispetto a quelle
dell’arto superiore poiché, anche se è vero che tutti i
sintomi tipici delle fratture (dolore, infiammazione,
impotenza funzionale etc.) sono comuni ad entrambe
le coppie di arti, la cosa veramente importante è
togliere dal letto il malato, mobilizzarlo al più
presto, per evitare quelle complicanze, presenti
maggiormente nel paziente anziano, dovute
all’allettamento, quali le piaghe da decubito,
l’insufficienza respiratoria, la trombosi venosa
profonda e l’embolia polmonare. Intervenire al più
presto, per esempio nella frattura della testa del
femore nei pazienti anziani, molte volte ultracentenari, è fondamentale per poter ridurre al minimo sia le
complicanze dovute al trauma sia quelle dovute all’allettamento. È necessario essere tempestivi nel
trattamento, senza aspettare di capire se la testa del femore tenderà alla guarigione oppure andrà in necrosi,
evitando di effettuare una sintesi su una frattura che statisticamente tende a non guarire naturalmente ed
aumentare il tempo di degenza e le relative complicanze.

Pag. 5 di 7
Oggi, grazie alla notevole spinta della
chirurgia, pazienti anziani con frattura
della testa del femore, che prima era una
condanna a morte per le complicanze
dell’allettamento, ora ricevono un
trattamento chirurgico la cui tempestività
impatta significativamente sulla prognosi
(la sopravvivenza ad 1 anno di pazienti
operati prima è molto maggiore rispetto a
quella dei pazienti operati tardivamente);
per la Legge italiana, almeno il 60% dei
pazienti anziani devono essere operati
entro 48 ore (in altri paesi il termine è 24
ore).
Le fratture dell’arto inferiore hanno una necessità terapeutica chirurgica finalizzata alla mobilizzazione del
paziente nel minor tempo possibile.
FRATTURE ALLA GAMBA
Le fratture della gamba, di tibia e perone, sono meno frequenti nell’anziano e più frequenti nei giovani e nei
bambini. I traumi che provocano queste fratture possono essere diretti o indiretti e le fratture possono essere
chiuse oppure esposte.
Nelle fratture esposte una complicanza può essere l’infezione, l’osteomielite, identificabile nelle radiografie
da aree di sequestro osseo, ovvero aree devitalizzate di osso infetto, oppure dalla presenza di ascessi.
Nelle fratture della gamba sono implicate minori masse muscolari rispetto a quelle del femore.
Il principio terapeutico rimane lo stesso, riduzione e riallineamento dell’osso con una trazione longitudinale e
sintesi.
Mentre nel femore si applica la trazione a livello dei condili o a livello sopracondilare, per quanto riguarda la
tibia la trazione longitudinale progressiva, con forza peso fino ad 1/10 del peso del paziente (per il femore era
1/7), viene effettuata a livello del calcagno con un filo metallico.
La trazione, oltre a riallineare i capi ossei, è utile per vincere le contratture muscolari causate dal trauma: i
muscoli, non avendo più il supporto osseo, si contraggono e si accorciano non naturalmente, spostando l’osso
in base a come esercitano la loro azione attraverso i loro tendini.
Ultimo passaggio è la sintesi, abitualmente effettuata con l’utilizzo di una placca o di un chiodo metallico,
oppure, più raramente oggi rispetto al passato, con apparecchio gessato.
L’approccio chirurgico permette un miglior trattamento, una stabilità maggiore della sintesi e una più veloce
mobilitazione del paziente con più veloce tempo di recupero rispetto all’apparecchio gessato che, comunque,
dall’esterno, difficilmente riesce a dare la stessa stabilità all’osso rispetto alla sintesi chirurgica perché risulta
difficile la riduzione perfetta della frattura manualmente e la tenuta del gesso dall’esterno è molto scarsa;
questo può portare a scomposizioni secondarie della frattura poiché il gesso non riesce a vincere le forze
muscolari allo stesso modo di una sintesi chirurgica.
Pag. 6 di 7
Pag. 7 di 7

Potrebbero piacerti anche