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Ex Lezione 2 del 18/03/19

Sbobinatore: V.S.
Docente: Prof. Giuseppe Milano
Argomenti: Artrosi, Gonartrosi, Osteonecrosi

0. INTRODUZIONE
Il corso di “Malattie dell’apparato locomotore” si articola in due branche principali: ortopedia e traumatologia, la
prima riguardante patologie di natura degenerativa, tumorale, da sovraccarico, la seconda patologie di natura
traumatica. Nello studio dell’ortopedia sono necessarie conoscenze di fisica meccanica: gran parte delle conoscenze
dei razionali dei trattamenti, oltre alla spiegazione dei meccanismi patogenetici, nasce in termini di fisica e in
particolare di meccanica, tant’è che la maggior parte delle teorie e della spiegazione del funzionamento del sistema
locomotore fa riferimento a una branca specifica della fisica, ovvero la biomeccanica. L’ortopedia è una branca
chirurgica, benché in realtà la soluzione chirurgica molto spesso venga attuata solo quando altre strategie non hanno
funzionato.

Modelli cinematici e modelli cinetici


I modelli cinematici sono modelli di movimento dei due capi di un’articolazione in assenza di carico o “forza
applicata”: rappresentano come i due capi articolari si possono muovere l’uno rispetto all’altro indipendentemente
dalle forze applicate.
I modelli cinetici invece tengono in considerazione i “motori”, ovvero le componenti che determinano l’applicazione
di forze attive che, nel caso delle articolazioni, sono rappresentate dai muscoli.

0.1 Artrosi
Per artrosi si intende una patologia degenerativa che colpisce la cartilagine articolare e che si estende a tutte
le strutture coinvolte nell’articolazione: capsula, legamenti, membrana sinoviale e, in particolare, l’osso
subcondrale, porzione di osso che si trova immediatamente al di sotto della cartilagine articolare. Questa è
la regione dove la patologia ha un caratteristico esordio e ha un ruolo molto importante dal punto di vista
sintomatico.

È una patologia che riguarda la popolazione adulta-anziana ma non solo, può infatti colpire anche il giovane
adulto o fasce di età ancora più precoci, ciò dipende dalla causa che ha determinato la malattia.

0.1.1 Cartilagine articolare


È composta prevalentemente da:
• Acqua
• Condrociti
• Matrice extracellulare: formata da acqua, glicosamminoglicani (aggregati sottoforma di
proteoglicani) e il collagene (di tipo II solo nella cartilagine articolare, di tipo I negli altri tessuti
connettivi fibrosi)

La sua funzione principale è quella di garantire lubrificazione al movimento, favorendo lo scorrimento privo
di attriti tra le superfici articolari. I capi articolari sono tra di loro in contatto, al massimo sono presenti pochi
cc di liquido sinoviale o sinovia (non deve essere confusa con la membrana sinoviale che produce il liquido)
che incrementa la lubrificazione naturale.

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Grazie alla sua struttura e ai suoi costituenti la cartilagine presenta comunque una capacità di resistenza:
essa è formata da una catena di acido ialuronico posizionata al centro con ramificazioni glucidiche di
glicosamminoglicani cariche negativamente (OH-).

Tali catene se sottoposte ad un carico fisiologico si aprono, in questo modo le molecole d’acqua si
allontanano, senza però mai perdere il contatto con le catene glucidiche, e la cartilagine si assottiglia. Quando
il carico viene tolto l’acqua ritorna al suo posto, le ramificazioni laterali si richiudono e la cartilagine torna
come prima (viene riportato l’esempio della borsa dell’acqua calda, già citato nella lezione precedente).
Questo avviene quando c’è una perfetta distribuzione di un carico fisiologico, pari cioè a quello che la
struttura è in grado di sopportare.

Un’altra peculiarità della cartilagine è che le sue cellule non sono in grado di riparare il danno; infatti le
cellule cartilaginee sono in grado di proliferare ma non di produrre matrice che vada a colmare la zona di un
eventuale difetto. Quando c’è una lesione in un tessuto cartilagineo le cellule si affollano lungo il bordo della
lesione formando dei cluster, ma in realtà il buco rimane tale; sostanzialmente il danno a un tessuto
cartilagineo non si ripara mai.

Rottura della cartilagine articolare


La rottura della cartilagine ha come primo passaggio la perdita delle molecole d’acqua che si staccano dalle
molecole del proteoglicano e vengono perse per sempre nel momento in cui trasudano in superficie. A quel
punto la cartilagine progressivamente si disidrata, perde le sue capacità di resistenza e elasticità e forma delle
fessure, che non possono essere riparate, che si approfondano fino all’osso subcondrale che a quel punto
comincia a sfaldarsi completamente.

La capacità di sopportare un carico non è la caratteristica meccanica più importante della cartilagine
articolare, non nasce infatti per questo, ed è molto facile che questo tessuto si danneggi.
La cartilagine possiede una capacità di resistenza visco-elastica tempo dipendente, ovvero la capacità di
adattarsi al carico cambia in base alla velocità con cui il carico viene applicato e alla sua durata di applicazione;
nel momento in cui si supera la capacità di resistenza il tessuto si rompe.

Più precisamente si parla di “carico di rottura”: si considera rottura il carico massimo che un tessuto può
sopportare oltre il quale c’è una drastica caduta della resistenza. In fisica e scienza dei materiali il carico di
rottura (detto anche forza di rottura) è il limite, in termini di forza o sollecitazione esterna applicata, oltre il
quale un materiale risulta definitivamente inservibile dal punto di vista della resistenza.

In alcune strutture (non nella cartilagine) si parla di “tensione di snervamento”, il punto cioè in cui si supera la
resistenza elastica e la resistenza diventa plastica e c’è deformazione permanente. La tensione di
snervamento o punto di snervamento di un materiale duttile è definita in scienza dei materiali come il valore
della tensione in corrispondenza della quale il materiale inizia a deformarsi plasticamente, passando da
un comportamento elastico reversibile ad un comportamento plastico caratterizzato dallo sviluppo di deformazioni
irreversibili che non rientrano al venir meno della causa sollecitante.

Come già detto la capacità di resistenza è piuttosto limitata, ecco perché esistono tutta una serie di
meccanismi che tendono a compensare questo fenomeno, cioè delle strutture che permettono di migliorare
la congruenza delle superfici articolari e di distribuire il carico su una superficie più ampia e quindi di ridurre
i picchi di carico. Questo è importante per la patologia artrosica perché dove si determinano dei picchi di
carico per unità di superficie si avrà più facilmente una distruzione della cartilagine.

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0.1.2 Cinematica articolare e artrosi nell’articolazione del ginocchio
L’articolazione del ginocchio è piuttosto complessa dal punto di vista della cinematica articolare: i legamenti
crociati e collaterali, il manicotto capsulare e i menischi sono le strutture che garantiscono la normale
cinematica articolare, cioè un movimento che avviene in assenza di carico e permette una distribuzione del
peso corporeo su tutta la superficie articolare senza picchi di carico.
Qualsiasi evento che provoca un’alterazione della distribuzione del carico può portare progressivamente
ad un’usura. Ecco perché l’artrosi non colpisce solo l’anziano: una lesione legamentosa si può verificare a 16
anni e la conseguente artrosi a 25.
In alcuni casi il ginocchio funziona in maniera normale, non ci sono lesioni legamentose, non c’è nessun fattore
predisponente, ma a causa di over use (sovraccarico da eccessivo utilizzo per attività sportive) è spappolato anche
intorno ai 30-40 anni.

Vengono chiamati knees abusers le persone che utilizzano il ginocchio molto e male. Si tratta spesso di atleti non
professionisti, senza un team deputato alla cura dell’esecuzione del gesto atletico per cercare di renderlo più efficace
ed ergonomico.

Ci sono poi i weekend warriors che durante il fine settimana si massacrano le ginocchia giocando a calcetto con gli
amici o facendo la settimana bianca senza un minimo di preparazione. Sono tutte situazioni che possono provocare
progressivamente un danno.

Le alterazioni che più frequentemente portano ad un’alterazione della cinematica articolare (e dunque
all’innesco del processo artrosico) sono a carico delle strutture sopracitate.

➢ Lesione del legamento crociato


Se femore e tibia fossero svincolati l’uno dall’altra:
• ad ogni flessione del ginocchio, i condili femorali rotolerebbero in avanti,
• viceversa, durante l’estensione, il femore rotolerebbe all’indietro, come una sfera che rotola su un
piano.

Ovviamente questo non accade perché il centro di rotazione del ginocchio rimane sempre nello stesso punto,
grazie al sistema legamentoso intrarticolare. Il contributo principale è dato dai legamenti crociati anteriore e
posteriore che formano un sistema a croce in cui le distanze tra i due punti di inserzione ossea non cambiano
mai. I legamenti, infatti, teoricamente sono elastici, ma le modificazioni spaziali che si verificano durante la
flesso-estensione avvengono mantenendo costante la lunghezza delle loro fibre (fenomeno chiamato
isometria).
Questo sistema legamentoso consente un movimento di rotolamento e scivolamento (rolling and sliding)
per cui durante il rotolamento in avanti contemporaneamente i legamenti tirano il femore all’indietro, in
modo che il condilo femorale rotoli sempre sullo stesso punto (l’immagine spiega alla perfezione questo
complesso movimento). Questo spiega perché quando si estende il ginocchio si muove la tibia rispetto al
femore ma i limiti di contatto rimangono sempre gli stessi.

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Se si verifica una rottura di un legamento crociato, la biomeccanica dell’articolazione risulterà alterata: si
avrà uno spostamento del centro di rotazione in avanti durante l’estensione e indietro durante la flessione,
generando dei picchi di carico in alcune zone del ginocchio e zone di usura in posizioni diverse della tibia
secondo l’attività che si svolge. Ecco come una lesione legamentosa può determinare un fenomeno artrosico.

➢ Lesione del legamento collaterale


Una lesione a carico di un l. collaterale (laterale o mediale) determina varismo o valgismo patologico. Per
esempio se si ha una lesione dei legamenti mediale del ginocchio ad ogni passo il ginocchio si apre. Ci sono
lesioni legamentose talmente gravi da essere incompatibili con una deambulazione normale: i pazienti
necessitano di un’ortesi di sostegno (ginocchiera)1 o di una ricostruzione chirurgica del legamento.

➢ Rottura di un menisco
Se un menisco si rompe o viene asportato chirurgicamente si formerà un picco di carico nella zona in cui non
c’è più il menisco e da lì partirà il danno artrosico.

➢ Alterazioni congenite
Un’altra condizione di stress potrebbe essere il ginocchio conformato in maniera anomala a causa di una
deviazione assiale costituzionale, come in caso di valgismo o varismo:
• ginocchio valgo: il carico si concentra soprattutto sulla parte esterna, che quindi si usura prima;
• ginocchio varo: la concentrazione del carico è soprattutto sulla parte interna.

Similmente può avvenire sotto la rotula. L’articolazione tra femore e rotula, invece di essere perfettamente
congruente, può essere displasica2 e determinare così un’alterazione della geometria articolare.
Normalmente, durante il movimento di flesso-estensione, la rotula scorre dall’alto verso il basso rispetto al
femore e si impegna dentro il suo solco; in alcune forme di displasia questo solco si appiattisce: si avrà col
tempo un incremento di carico e usura che determina artrosi.

1 Va indossata sempre, altrimenti il ginocchio si apre come un’anguria.


2 Oltre alla displasia d’anca esistono infatti displasie di altre articolazioni.

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0.1.3 Dolore artrosico
L’artrosi è una malattia degenerativa che può evolvere più o meno rapidamente, inizia con un danno
degenerativo della cartilagine articolare dove c’è una componente infiammatoria importante.

La cartilagine articolare non è innervata; le terminazioni nervose sono presenti nel periostio (che non è
presente nell’osso subcondrale), nell’endostio e in tutte le altre strutture dell’articolazione a eccezione della
cartilagine. Il dolore è provocato dalla reazione infiammatoria che non coincide completamente con il
danno, l’articolazione diventa dolorosa nella fase infiammatoria acuta. Il processo infiammatorio si
autoalimenta attivando una serie di enzimi che degradano la cartilagine stessa i cui prodotti di degradazione
rimangono nel liquido sinoviale attivando la cascata infiammatoria.

Le persone anziane che soffrono di artrosi si lamentano per il dolore a fasi alterne (a poussée). Ci sono
pazienti che hanno un quadro radiografico drammatico e una sintomatologia dolorosa banale rispetto
all’entità del danno, altri pazienti hanno un danno radiografico modestissimo e un dolore molto intenso.

0.1.4 Epidemiologia
L’artrosi è molto frequente nel sesso femminile al di sopra dei 40 anni e può coinvolgere una sola
articolazione o più articolazioni.

I distretti più colpiti sono:


• Colonna vertebrale
• Anca sono strutture sotto carico
• Ginocchio
• Interfalangee distali della mano, nelle quali si formano deformità nodulari chiamate noduli di
Heberden
• Articolazione trapezio metacarpale del pollice che prende il nome di rizoartrosi

Le più colpite sono le articolazioni sotto carico oppure articolazioni specifiche in caso di trauma o in certi tipi
di attività lavorativa o sportiva. Si può avere asimmetria, cioè un ginocchio artrosico e l’altro no, dipende da
come viene utilizzato.

0.1.5 Eziopatogenesi
Dal punto di vista eziologico si distinguono artrosi primitive e secondarie:

Le artrosi primitive sono principalmente legate all’invecchiamento (età correlate) e sono patologie
multifattoriali (viene ereditato un pool di fattori predisponenti o una particolare morfologia articolare, ma è
l’interazione con i fattori ambientali a determinare l’insorgenza della patologia). I principali fattori di rischio
sono, dunque:
• età
• familiarità
• peso
• sovraccarico funzionale (over use)
• fattori ormonali
• fattori vascolari

Si definiscono artrosi secondarie quelle forme legate a condizioni specifiche dell’articolazione, quali:
• deviazioni assiali: varismo e valgismo;

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• artrosi post traumatiche: oltre alle lesioni legamentose prima descritte, anche le fratture che hanno
coinvolto un capo articolare, modificandone la geometria, possono alterare la superficie articolare in
modo da ostacolare lo scorrimento sull’altra causando usura;
• infezioni locali: possono provocare un’artrosi perché la malattia infettiva distrugge la superficie
articolare;
• artriti settiche e artriti reumatiche: possono provocare una disfunzione a partire dalla membrana
sinoviale;
• artropatie da deposito di sali di pirofosfato di calcio, la condrocalcinosi, la gotta e altre condizioni che
determinano un danno della cartilagine che esita in una lesione di tipo cronico

Le artrosi secondarie possono colpire qualsiasi articolazione a qualsiasi età.

0.1.6 Anatomia Patologica


Il danno cellulare inizia con una perdita e rarefazione degli elementi cellulari maturi. Si ricorda che i condrociti
sono cellule perenni ed incapaci di riprodursi. Gradualmente da un danno cellulare microscopico si giunge al
danno macroscopico, con una progressiva perdita della superficie della cartilagine articolare.
Si possono distinguere quattro stadi progressivi:
1. Rammollimento
2. Abrasione superficiale
3. Abrasione/ulcere profonde
4. Esposizione di osso subcondrale

Da un punto di vista anatomo-patologico possiamo riconoscere una serie di fenomeni, di cui alcuni sono ben
visibili alla radiografia:

• sclerosi subcondrale: l’osso posto sotto alla cartilagine articolare danneggiata subisce un carico
maggiore e tende a rispondere con un ispessimento. In qualsiasi distretto anatomico quando l’osso
è sottoposto a un eccessivo carico aumenta l’attività produttiva di matrice ossea e l’osso diventa più
spesso e radiograficamente più radiopaco;
• osteofiti, deformità marginali ai bordi delle superfici articolari. Si presentano come escrescenze,
causate da un’eccessiva produzione di osso (aumento della densità + aumento della superficie
articolare + formazione di speroni);
• geodi: la parte di osso posta sotto l’osso subcondrale ispessito subisce una deprivazione di carico che
viene supportato dall’osso subcondrale; questo comporta una rarefazione e si formano delle cavità
da riassorbimento chiamate geodi. L’osso in tale sede apparirà più radiotrasparente;
• ipertrofia della membrana sinoviale: similmente alle malattie infiammatorie croniche di tipo
reumatico, l’ipertrofia si manifesta con un incremento della superficie della membrana sinoviale. Il
conseguente aumento della capacità produttiva di liquido sinoviale supera la capacità di
riassorbimento, causandone l’accumulo intrarticolare. Il versamento di una articolazione, anche se
preoccupa molto il paziente, non è la patologia ma semplicemente una conseguenza;
• stimolo proliferativo iperplastico anche sui legamenti e sulla capsula, causato dall’infiammazione
cronica: con il tempo questo determinerà un progressivo irrigidimento articolare; ecco perché tra le
strategie di cura dell’artrosi precoce c’è soprattutto quella di favorire la mobilità dell’articolazione.
La rigidità provoca una perdita di movimento, perdita di funzione e assunzione di una posizione non
fisiologica che favorisce disomogeneità delle forze con aggravamento della patologia artrosica.

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Riassumendo le caratteristiche dell’articolazione artrosica sono: versamento, dolore da infiammazione,
rigidità progressiva e perdita di funzione.

N.B.: La cartilagine articolare è un tessuto radiotrasparente quindi non è visibile alla radiografia. Dove la
cartilagine è conservata lo spazio tra le due ossa è radiotrasparente, non perché vuoto ma per la presenza di
cartilagine, mentre la sua assenza è resa visibile dalle due ossa che si toccano. La cartilagine articolare ha
circa 3 mm di spessore quindi la rima articolare, cioè la striscia nera alla radiografia, dovrebbe essere
mediamente di 6 mm.

0.1.7 Clinica
Dal punto di vista clinico la patologia si manifesta con:
• dolore
• tumefazione
• limitazione funzionale
• rigidità
• deformità determinata sia dalla rigidità sia dall’usura progressiva della cartilagine e dell’osso sub-
condrale.

0.1.8 Diagnosi
La diagnosi di artrosi è semplice: clinica e radiografica. Normalmente la clinica appare palese, tuttavia
esistono forme di dolore articolare che possono nascondere altre patologie, per cui non basta una semplice
diagnosi clinica, ma c’è bisogno del supporto di esami strumentali.

L’esame strumentale di elezione è l’esame radiografico standard. L’esame radiografico mostra quanto
descritto precedentemente: deformità, rima articolare assente, geodi, becchi osteofitari, addensamento
dell’osso sub condrale. Qualora servisse un esame di secondo livello3 quello indicato è la risonanza
magnetica.

Per valutare lo stadio della malattia si usa una classificazione radiografica.

0.1.9 Trattamento
Riguardo al trattamento dell’artrosi riconosciamo approcci che si sono dimostrati efficaci e per i quali ci sono
raccomandazioni forti. In ordine di priorità sono:
1. Riposo funzionale: ridurre cioè il livello di attività in caso di un atleta o di un lavoratore
2. Perdita di peso.

3 Il Consiglio Superiore di Sanità e del Ministero della Salute indicano l’ecografia come esame di secondo livello; nonostante ciò
l’ecografia non è utile per fare diagnosi di artrosi.

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Questi due approcci, nell’artrosi precoce, sono sicuramente gli interventi più efficaci sul dolore e sulla
progressione della malattia.

3. Terapia medica: i farmaci hanno efficacia esclusivamente sul sintomo e servono soprattutto a gestire
il dolore. Si usano
a. antinfiammatori solo nella fase infiammatoria acuta;
b. antidolorifici nella terapia di mantenimento cronica.
Questo perché gli antiinfiammatori non possono essere assunti per tempi prolungati ed è preferibile
scegliere dei farmaci che hanno effetti collaterali minori rispetto agli antinfiammatori. Normalmente
il farmaco di prima scelta è il paracetamolo associato o meno a derivati della morfina.
4. Terapia fisica: l’esercizio fisico migliora la performance muscolare aumentando la capacità di
assorbimento e distribuzione dei carichi e mantiene la mobilità evitando che l’articolazione diventi
progressivamente rigida.
5. Chirurgia: il trattamento chirurgico non è la prima scelta ma si considera quando tutto il resto non
ha funzionato o quando il paziente arriva ad uno stadio avanzato di malattia.

I trattamenti che invece sono stati dimostrati inefficaci sono:


• plantari per correggere un difetto di allineamento assiale. In presenza di un ginocchio varo o di un
ginocchio valgo non ha senso prescrivere un plantare per correggere la posizione del piede e quindi
quella del ginocchio;
• rimedi posturali (ad esempio bite): esistono tante teorie sulla postura per correggere l’artrosi ma
non sono misure efficaci.
• integratori per la cartilagine: proteoglicani, collagene, cartilagine di squalo.

Una terza misura terapeutica integrativa è l’acido ialuronico per uso locale sul quale non c’è un’evidenza
molto chiara: sembra che attraverso un effetto di visco-supplementazione favorisca una migliore
lubrificazione dell’articolazione e quindi minore attrito e minore usura.

0.1.10 Chirurgia
Quando l’articolazione ha già raggiunto un danno molto avanzato e le misure terapeutiche conservative non
funzionano, si opta per la chirurgia, che nella maggior parte dei casi è di tipo sostitutivo. Prima di procedere,
è necessario fare un’accurata valutazione costi/benefici, perché (soprattutto in pazienti giovani) la protesi
potrebbe non resistere al paziente4 (vedi dopo).

La superficie articolare viene sostituita con una superficie metallica; naturalmente non si può sostituire solo
la superficie, perché non avrebbe stabilità, ecco perché le sostituzioni sono molto più ampie della zona affetta
da malattia.

Nel caso dell’anca, ad esempio, se si sostituisce solo la testa del femore, dopo un po’ si stacca, quindi si utilizza un
grosso fittone che viene inserito nel canale diafisario e che ne mantiene la stabilità per lungo tempo. Le superfici delle
protesi sono di metallo, la maggior parte sono fatte di una lega di cromo, cobalto e molibdeno, sono specchiate per
ridurre l’attrito e si interfacciano con un'altra superficie che non è di metallo perché viene rivestita da una superficie
di polietilene. Questo accoppiamento tra un materiale metallico e un materiale plastico, o tra un materiale ceramico
e un materiale plastico, garantisce il minor attrito possibile.

Le protesi non durano per sempre, il rischio è che si vada progressivamente verso un’usura o uno scollamento
della protesi. Gli impianti hanno una sopravvivenza variabile. Si calcola una sopravvivenza a 20 anni elevata

4 Simpatico modo per esprimere che se si impianta una protesi a cinquant’anni è molto probabile dover eseguire un nuovo intervento
per sostituirla con una nuova di zecca.

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nel caso di protesi a livello degli arti inferiori (95-98% nel caso di protesi d’anca; 90-92% per il ginocchio);
sulle protesi di spalla è necessario calcolarla a 15 anni per avere percentuali così alte, in quanto queste protesi
non sono così all’avanguardia.

Si utilizzano due metodi per fissare la protesi:


• protesi non cementate: si utilizza una superficie porosa nell’interfaccia tra la protesi e l’osso
spongioso; la superficie porosa è tale per cui l’osso gli cresce attraverso, formando delle
interdigitazioni tra la superficie della protesi e quella dell’osso;
• protesi cementata: si utilizzano delle superfici lisce “incollate” alla superficie ossea spongiosa
attraverso l’utilizzo di una resina di polimetilmetacrilato, volgarmente detta cemento.
Domanda di uno studente sulla eventualità che la protesi non duri.
Nel caso la protesi non duri va sostituita con un’altra protesi. Tuttavia, ogni intervento è più invasivo e determina una
perdita di osso maggiore, per questo è preferibile arrivare alla protesi il più tardi possibile

Domanda di uno studente: in base a quale criterio si sceglie tra una protesi cementata e una non cementata?
Non c’è una grossa differenza nel risultato per la stabilità dell’impianto, quello che cambia in modo sostanziale è la
gestione dell’esito nel caso in cui la protesi si dovesse mobilizzare: infatti rimuovere una protesi cementata è
decisamente più difficile, non è tanto difficile rimuovere la protesi quanto rimuovere il cemento quando entra nel
canale. In linea di massima oggi si tende a non cementare le componenti protesiche che hanno uno stelo, mentre dove
la protesi ha più componente di superficie (come nel caso della protesi del ginocchio) dove il rischio di micromovimento
è maggiore allora si preferisce cementare. L’altro vantaggio sono i materiali più moderni soprattutto la struttura della
superficie non cementata; un tempo bisognava aspettare che l’osso ricrescesse dentro quindi il paziente con protesi
non cementata poteva essere messo in piedi molto tardi o comunque con un carico protetto. Oggi si va verso un
percorso veloce, il paziente viene messo in piedi la sera stessa dell’intervento al massimo la mattina successiva perciò
si cerca di avere l’impianto più stabile possibile. Le protesi non cementate si usano ma devono essere molto stabili,
questo significa che l’incastro deve essere perfetto; se il canale è troppo grande la protesi si muove e diventa dolorosa
allora è preferibile cementare. In linea di massima si cementano le superfici e non si cementano i canali.

0.2 Gonartrosi – artrosi del ginocchio

I fattori coinvolti nell’insorgenza della gonartrosi (artrosi del ginocchio) sono:


• età
• sesso femminile
• obesità
• difetti di allineamento: nel ginocchio sono molto più frequenti rispetto a quelli riscontrati a livello
dell’anca, in particolare il ginocchio varo. Questa alterazione predispone più facilmente ad artrosi
rispetto al ginocchio valgo in quanto il ginocchio appare più flesso.
Inoltre: l’artrosi che comincia sul compartimento mediale interno determina varismo mentre l’artrosi
che comincia nel compartimento esterno determina valgismo.

Viene mostrata la foto di un ginocchio varo che ha determinato un’artrosi


mono-compartimentale nella porzione mediale.

La stessa immagine vista in proiezione sagittale mostra anche un’artrosi sotto


la rotula con una sublussazione anteriore della tibia rispetto al femore. Dal
tipo di sublussazione che si osserva si deduce che si tratta di una artrosi
secondaria ad una lesione inveterata del legamento crociato anteriore.

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Un tempo non si conosceva l’importanza delle strutture legamentose nel prevenire l’artrosi e fino agli anni
’70 -‘80 le ricostruzioni legamentose del ginocchio erano un fatto eccezionale, si facevano delle plastiche di
rinforzo extra articolare ma non si ricostruivano i legamenti e non si ripristinava l’anatomia normale del
ginocchio. Si può vivere senza crociato anteriore a condizione che accettiamo il rischio dell’artrosi. Non si
può, invece, fare sport con il crociato anteriore rotto.

È importante comunicare al paziente che l’artrosi può cominciare in un compartimento ma poi coinvolgere
progressivamente tutto il ginocchio, quindi un ginocchio varo artrosico progressivamente coinvolgerà tutta
l’articolazione.

0.2.1 Classificazione
Da un punto di vista strumentale si distinguono quadri diversi di gravità ed esistono diverse classificazioni
per definirli. La più conosciuta è quella di Kellgren-Ahlback, esclusivamente radiografica:

• Grado 1: rima articolare ridotta (usura inferiore del 50%)


• Grado 2: scomparsa dell’interlinea
• Grado 3: usura ossea minore di 5 mm
• Grado 4: usura ossea 5-10 mm
• Grado 5: usura ossea maggiore di 10 mm, spesso con sub-lussazione

Con l’avanzare dell’artrosi si va verso la scomparsa progressiva della rima articolare.


In alcuni casi la tibia comincia a sub lussarsi lateralmente rispetto al femore, per cui il piatto tibiale sporge rispetto al
femore; tale fenomeno in parte può essere mascherato dalla presenza di osteofiti che formano una piccola “mensola”
che sembra far parte integrante del ginocchio; in realtà se non fossero presenti tali osteofiti si noterebbe in modo
evidente come il piatto tibiale sia decentrato rispetto al femore.

La situazione degenera quando la deformità diventa a sua volta causa di lesioni. Un ginocchio varo o valgo,
per via dell’usura e della disomogeneità ossea, tende a peggiorare progressivamente il proprio difetto,
stirando le strutture legamentose al punto tale da cedere. Una lesione legamentosa è causa di instabilità, che
a sua volta è causa di artrosi.
Si innesca un circolo vizioso che porta rapidamente ad un peggioramento delle condizioni radiografiche, fino
ad arrivare a situazioni tali per cui il paziente non è più in grado di stare in piedi e di camminare in quanto il
ginocchio si apre; è, dunque, costretto a stare in sedia a rotelle o a vivere con un tutore di protezione.

0.2.2 Trattamento dell’artrosi del ginocchio


Come già detto precedentemente la chirurgia sostitutiva è l’ultima chance terapeutica.

I danni cartilaginei riscontrati nella fase più precoce possono essere trattati con delle tecniche più
conservative utilizzando degli innesti osteocondrali da altre sedi o membrane di collagene che rivestono la
zona del danno (approfondite nella lezione che tratta l’osteocondrosi).

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In caso di artrosi, però, si verifica un danno distrettuale che coinvolge tutta l’articolazione, non un danno
focale della cartilagine: se si trattasse solo il danno focale della cartilagine, l’intervento sarebbe destinato a
fallire.

Se il danno è stato provocato da una condizione predisponente all’artrosi (ginocchio varo, valgo, lesione
legamentosa oppure asportazione di un menisco) è necessario correggere la causa scatenante l’artrosi,
altrimenti la semplice correzione del danno cartilagineo si tradurrà in un fallimento. Quindi le lesioni
legamentose vanno ricostruite e in presenza di un difetto di allineamento va fatta una correzione dell’asse
meccanico.

Esistono 3 tecniche di chirurgiche.

➢ Correzione dell’asse meccanico


Si procede con un intervento di osteotomia: si taglia la tibia o il femore (in rari casi entrambi) così da
modificare l’asse meccanico del ginocchio.

In condizioni ideali una linea passante per il centro della testa del femore e
per il centro della caviglia deve passare per il centro del ginocchio; più
precisamente per un punto che sta al 62,3% rispetto alla tangente al piatto
tibiale. Di fronte ad un ginocchio varo o valgo, il centro del ginocchio sarà
spostato: con l’intervento si corregge l’asse della tibia o del femore per
riportare l’asse anatomico parallelo all’asse meccanico.

Inizia la descrizione della procedura chirurgica, è consigliato guardare le immagini.

Trattamento di un ginocchio varo


Figura A: osteotomia in sottrazione laterale. Si crea un cuneo (in figura è colorato di rosso), lo si rimuove
e si chiude la rima, ottenendo una valgizazzione della tibia. Eseguire solo questa procedura
comporterebbe un accorciamento della gamba operata: è necessario intervenire anche sul femore.
Agendo sia su tibia sia su femore i rischi operatori sono aumentati (nella zona di intervento passa lo
sciatico obliquo esterno che può essere facilmente danneggiato); allo stesso tempo, però, l’osteotomia in
chiusura permette di contrapporre le superfici ossee le quali, essendo in compressione l’una sull’altra, la
guarigione dell’osteotomia avviene più facilmente.

Figura B: osteotomia in addizione mediale. Si crea un’apertura nella tibia e si divarica la linea di
osteotomia, formando un cuneo in apertura vuoto: questo spazio viene riempito di osso oppure viene
lasciato vuoto e si attende che ricresca da solo; anche in questo caso il risultato è una valgizazzione della
tibia, ma non viene toccato il femore. Sarà necessario aspettare che l’osso in sede si rigeneri e per un
periodo prolungato deve essere evitato il carico (almeno due mesi), perché questa zona diventa a ridotta
resistenza come se fosse una frattura. Inoltre verranno applicati anche dei mezzi di sintesi, come una
cambra oppure una placca con delle viti, per stabilizzare l’osteotomia e aspettare che l’osso guarisca.

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Trattamento di un ginocchio valgo
Nel ginocchio valgo la deformità è prevalentemente femorale, quindi il ragionamento si
ribalta. Operando sul femore si esegue un’osteotomia di addizione laterale oppure
un’osteotomia di sottrazione mediale.

La correzione dell’asse sarebbe idealmente da fare in una fase di artrosi precoce o ancora prima, in presenza
di sindrome da sovraccarico in un ginocchio ancora sano. Il paziente ideale è un paziente giovane, 30 anni
con varismo o valgismo sintomatico dove l’artrosi non ha ancora provocato danni, in questo modo si
prevengono i danni da mal allineamento. Se i danni sono già iniziati, l’intervento di osteotomia può solo
evitare che peggiorino; la lesione e la sintomatologia persisteranno tanto quanto maggiore è il danno.

L’osteotomia è una tecnica chirurgica che si utilizzava prima dell’introduzione delle protesi; nonostante ciò,
oggi l’osteotomia rimane un intervento valido per prevenire la necessità di posizionare una protesi al
ginocchio. Se il paziente è giovane e il rischio di fare un secondo intervento dopo il posizionamento della
protesi è alto, è preferibile l’osteotomia. Con questa indicazione, la maggior parte dei pazienti che si
sottopone ad un intervento di osteotomia non farà mai la protesi.

Se, però, ci sono più fattori predisponenti all’evoluzione dell’artrosi, è necessario correggerli; pertanto il
paziente dovrà subire più di un intervento chirurgico. Per esempio, se un paziente oltre al ginocchio varo ha
anche una lesione legamentosa, si esegue la ricostruzione legamentosa e l’osteotomia. Se si fa una
ricostruzione legamentosa in un ginocchio varo senza correggere il varismo, il rischio di una nuova lesione del
legamento è molto alto e quindi fallisce la plastica legamentosa. Se viceversa in un ginocchio varo con una
lesione legamentosa associata si fa solo l’osteotomia, l’evoluzione artrosica rallenta ma non si arresta, quindi
il rischio di conversione in protesi è molto più alto.

➢ Protesi monocompartimentale
Una soluzione chirurgica sostitutiva poco invasiva è la protesi monocompartimentale: si
tratta di una protesi di rivestimento dove viene sostituito solo il compartimento in cui c’è
stato un danno. I pazienti la chiamano “mini-protesi”.

In caso di ginocchio varo si mette una protesi nel compartimento mediale e si sostituiscono
solo il piatto tibiale mediale e il condilo femorale mediale.

In caso di ginocchio valgo si sostituiscono il piatto tibiale laterale e il condilo laterale.

Esistono poi delle protesi che sostituiscono solo la femoro-rotulea per le artrosi isolate.

Questo tipo di chirurgia ha una popolarità in crescita perché si è visto che, se l’artrosi è veramente
monocompartimentale, è in grado di avere una sopravvivenza simile a quella della protesi totale; quindi la
conversione in protesi totale è bassissima.

Le controindicazioni a questo approccio sono:


• artrosi diffusa (non mono-compartimentale);
• paziente con osso porotico (in quanto la stabilità di questo impianto è minore di quella di un impianto
totale).

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➢ Protesi totale
La protesi di rivestimento totale comporta un sacrificio della componente ossea decisamente maggiore. Ciò
che impatta maggiormente sul paziente è che nel momento in cui si posiziona un piatto di metallo che ricopre
tutto il piatto tibiale l’inserzione del legamento crociato anteriore viene inevitabilmente sacrificata. Molte
volte viene sacrificata anche l’inserzione del crociato posteriore. Si distinguono:
• protesi totale a conservazione: conserva inserzione crociato posteriore
• protesi totale a sostituzione: sostituisce anche il crociato posteriore

La biomeccanica del ginocchio si basa, come descritto all’inizio di questa lezione, su un


movimento di rolling and sliding garantito dalla presenza dei legamenti crociati: se questi
vengono sacrificati bisogna disegnare una protesi in grado di sostituirli. La protesi che ha
questo tipo di meccanica utilizza un disegno a “post in cam” dove il piatto tibiale ha un post
centrale in polietilene, cioè un perno che si va a ingaggiare all’interno di una camma (cavità
che viene creata nella fossa intercondiloidea): in questo modo il femore ha un vincolo
posteriore che impedisce la sublussazione posteriore della tibia durante il movimento di flessione.
La stabilità anteriore è garantita solo dall’estensione5, pertanto permane un minimo di “cassetto”: è
comunque un compromesso che funziona abbastanza bene.

Se la stabilità dell’impianto è a rischio perché l’osso è troppo usurato e/o la componente legamentosa è stata
consumata, serviranno dei sistemi protesici più vincolati, a stabilità maggiore.

Nel caso si debba procedere con un intervento di revisione (posizionamento


di un secondo impianto), è necessario rimuovere altro osso sano6,
peggiorando inevitabilmente la stabilità. Per far fronte a questo problema
si aumenta la lunghezza del fittone di entrambe le componenti (femorale e
tibiale) e al centro della protesi si posiziona un perno meccanico. Questo
genere di protesi garantisce una stabilità molto elevata a spese di una
mobilità parzialmente compromessa, in quanto il perno centrale permette
solo la flesso-estensione.

5 Esistono numerosissime tipologie di protesi al ginocchio e non tutte concordano sui metodi di stabilizzazione: questa frase è poco
chiara, tuttavia non sono riuscito a trovare informazioni esaustive a riguardo (se solo avessimo le slide…………)
6 Il tessuto osseo attorno alla protesi preesistente, solitamente di scarsa qualità, sarà modellato fino ad ottenere un piano di osso

sano per il fissaggio della nuova protesi.

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0.3 Osteonecrosi
Per osteonecrosi si intende un fenomeno di morte del tessuto osseo; gran parte delle cause derivano da
fenomeni ischemici. Il quadro risulta differente in base all’età del paziente:
• necrosi in età infanto-giovanile: la probabilità di successo di una riparazione è molto alta, soprattutto
se la necrosi è di natura settica;
• quando la necrosi avviene in età adulta vi è un aumentato rischio di formazione del “vallo
connettivale7” che isola la zona necrotica da quella sana, pertanto sarà difficile intervenire attraverso
un intervento di riparazione.

Se l’evento ischemico colpisce l’osso epifisario8 la frammentazione dell’osso necrotico potrebbe determinare
la distruzione della superficie articolare, condannando il paziente ad un’artrosi post necrosi.

Il periodo che intercorre tra lo sviluppo di necrosi e il successivo recupero osseo si caratterizza per una
compromissione significativa della funzionalità del tessuto: si tratta della fase più delicata della malattia in
cui l’osso, essendo fragile, si può frantumare.

0.3.1 Anatomia patologica


L’anatomia patologica della necrosi ossea mostra:
• morte cellulare di osteociti e osteoblasti;
• distruzione della trama connettivale della matrice extracellulare;
• residuo dell’impalcatura minerale non organica dell’osso: questa è formata da trifosfato di calcio in
forma amorfa e da idrossiapatite (forma cristallina del trifosfato di calcio);
• riassorbimento del tessuto necrotico: avviene con un normale processo di turnover degli osteoblasti.
Tale fenomeno progredisce dalle zone periferiche verso le zone centrali con deposizione di tessuto
osseo e connettivale. Tanto meno il tessuto necrotico è isolato dalla circolazione sanguigna e dal
tessuto circostante sano, tanto più alta è la probabilità che possa guarire. In alcune forme di necrosi
si forma un vallo connettivale* attorno alla zona necrotica che impedisce la formazione di nuovo
tessuto osseo; in tal caso si creano zone di “sequestro osseo” irraggiungibili dal circolo sistemico e
quindi non più ricostituibili;
• tessuto connettivale di riparazione alla periferia della lesione (ricco di cellule e vasi)

A sinistra è possibile osservare una struttura lamellare di un osso maturo (secondario), a destra la struttura
scompaginata di un osso necrotico sia nella parte corticale che midollare.

7 Spiegato meglio nel paragrafo successivo dedicato all’anatomia patologica (*)


8 Il rischio in particolare riguarda la testa del femore (vedi file 1. ARTROSI E COXARTROSI)

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0.3.2 Patogenesi
La patogenesi della necrosi è fondamentalmente di origine ischemica; anche se le cause possono essere
diverse:
• vascolarizzazione distrettuale;
• fattori meccanici: dipendenti da come il carico viene trasmesso in una determinata zona, dove lo
stress può provocare un’alterazione del microcircolo;
• condizioni patologiche: plastiche o infettive in grado di ostruire il circolo in un determinato distretto
e provocare ischemie.

0.3.3 Classificazione e clinica


Si distinguono:
- necrosi idiopatica: non siamo in grado di riconoscere una causa determinante;
- necrosi secondarie asettiche;
- necrosi secondarie settiche: da piogeni, necrosi caseosa da micobatteri.

➢ Necrosi idiopatica
La necrosi idiopatica ha una patogenesi non nota, ma è sempre correlata ad un disturbo del microcircolo ed
è sempre di origine ischemica. Può essere collegata ad altre condizioni predisponenti, anche se il meccanismo
causa effetto non è stato mai dimostrato. Più frequentemente è associata a una storia di etilismo o ad una
condizione di aterosclerosi, dislipidemie, iperuricemia, microtraumi ripetuti da lavoro o alterazioni della
coagulazione che possono provocare occlusione e piccole necrosi localizzate.

La malattia colpisce l’adulto tra i 40-60 anni.

Sedi preferenziali: testa del femore, condilo femorale, osso semilunare (a livello della mano) ed epifisi
prossimale (testa) di omero e radio.

È piuttosto difficile da riconoscere sul piano clinico; si caratterizza, infatti, per:


- esordio subdolo;
- sintomatologia tardiva con dolore acuto;
- impotenza funzionale: per esempio il paziente non riesce a camminare se è coinvolto l’arto inferiore;
- esami di laboratorio negativi;
- artrosi, in caso di necrosi non trattata.

Di fronte a un dolore ingravescente, che evolve in dolore acuto e violento spesso notturno, bisogna sempre
pensare alla necrosi ischemica, qualunque sia il distretto anatomico.

Il quadro radiografico può essere valutato e definito in due fasi:

- Nella fase iniziale è negativo sia nella forma idiopatica che in quella secondaria: pertanto, davanti a
una radiografia negativa correlata a forte sospetto clinico, è sempre opportuno associare un esame
di secondo livello, in particolare la risonanza magnetica. La risonanza magnetica è in grado di
mostrare l’edema della spongiosa ossea, nella zona della necrosi, che è patognomonica di una
osteonecrosi in fase precoce.
- Nella fase tardiva la radiografia assume un aspetto abbastanza caratteristico:
o area radiopaca circondata da osso porotico: rappresenta tessuto necrotico addensato;
o linea di demarcazione radiotrasparente rispetto all’osso circostante (vallo connettivale);
o chiazze radiotrasparenti visibili solo nella fase di riabilitazione: rappresentano aree rarefatte
e porotiche in cui è presente rivascolarizzazione
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Nell’immagine è riportata una necrosi del semilunare, definito morbo di Kienböck (ho aggiunto sulla destra
un reperto RM, in cui appare chiara l’area di sequestro osseo).

➢ Necrosi secondarie asettiche


Tra le forme secondarie asettiche si distinguono necrosi da: decompressione atmosferica, trauma, cortisone,
malattia di Gaucher, anemia falciforme, terapia radiante;

Necrosi da decompressione atmosferica


Questa patologia è chiamata anche “malattia dei cassoni9” ed è tipica di palombari e subacquei. Alle
pressioni elevate a cui si trova il sub sott’acqua, l’azoto in eccesso viene depositato in forma liquida nel
sangue e nei vari tessuti, ma man mano che si effettua una risalita, in particolare se troppo rapida, esso
può liberarsi in forma gassosa e provocare micro-embolie causando ischemia ossea (o in altri distretti).

Sedi preferenziali: il tessuto osseo è uno dei tanti tessuti coinvolti in questi fenomeni ischemici da embolia;
generalmente i tessuti più colpiti sono quelli con la componente lipidica più elevata: SNC, mesentere e
midollo osseo. Le zone epifisarie colpite sono prevalentemente la testa del femore e la testa dell’omero.

Clinica: la sintomatologia è acuta, sistemica e tardiva. Se il paziente sopravvive all’evento, a distanza di 1-


2 anni può manifestare la sintomatologia della necrosi ossea. In alcuni casi, se non colpisce l’epifisi,
decorre in modo del tutto asintomatico o con dolori ossei vaghi.
I sintomi sono:
o dolori epigastrici
o dispnea
o acufeni
o emoftoe
o dolori alle grandi articolazioni
o edema polmonare
o paraplegia se c’è un coinvolgimento del SNC

Spesso c’è una concordanza di tempi tra l’esordio clinico della malattia e la manifestazione all’imaging. Il
quadro radiologico mostra:
o aree di addensamento midollare: segno di depositi calcifici attorno all’area necrotica. Tali segni
possono anche comparire dopo 2-3 anni dall’episodio, trattandosi delle uniche forme che
compaiono a distanza di così tanto tempo dall’evento;
o immagine a “voluta di fumo”: distribuzione abbastanza irregolare lungo tutto il decorso della
diafisi.

9 Questo nome deriva dai numerosi incidenti da decompressione a cui andavano incontro gli operai che operavano nella fondazione
di moli od altre opere subacquee avvalendosi per l'appunto dei cassoni pneumatici; una sorta di enormi contenitori metallici o in
cemento armato di solito a forma di cubo, aperti nel lato inferiore (tipo la campana subacquea), dotati di un cilindro con scala interna
denominato camino che permette l'entrata e l'uscita del personale operativo ed il passaggio dei materiali di costruzione nel cassone
stesso e di una camera di equilibrio. Questo viene calato sul fondo (mare, lago, fiume ecc.) e riempito con aria compressa, la quale
espellendo l'acqua in esso contenuta, permette agli operai di scendere attraverso il camino nel cassone e svolgere i vari lavori
all'asciutto sul fondo. [Wikipedia]

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Necrosi post traumatica
Queste forme si verificano quando un evento (come una frattura) interrompe il circolo arterioso in una
circolazione terminale dove non c’è una rete anastomotica in grado di supplire. Il sangue non arriva più e
l’osso distalmente alla frattura va in necrosi.

La frattura deve avere una localizzazione topografica specifica, ovvero in un punto tale da provocare una
lacerazione delle strutture che garantiscono apporto ematico: periostio, capsula articolare e legamenti
articolari. Un esempio sono le fratture intracapsulari del collo del femore e le lussazioni dell’anca che
causano una lacerazione della capsula e dei vasi che portano il sangue alle strutture ossee.

Le sedi preferenziali sono:


o testa del femore, sede della frattura più frequente nell’anziano. In questo caso la sostituzione
protesica viene fatta a priori, in quanto si sa che l’esito necrotico è quasi certo; è inutile
aspettare e sottoporre il paziente a un periodo lungo di allettamento per poi portarlo a un
intervento protesico tardivo; inoltre la mortalità di questi pazienti è elevatissima per
complicanze sistemiche di tipo respiratorio, urinario o piaghe da decubito, pertanto si preferisce
effettuare direttamente una sostituzione protesica;
o lussazione d’anca: evento spesso secondario a un trauma ad alta velocità, come un trauma
stradale; nella maggior parte dei casi si tratta di soggetti giovani, per cui si preferisce adottare
un approccio conservativo e valutarne l’esito; qualora iniziasse il processo di necrosi (dopo un
periodo variabile da qualche mese a qualche anno) si opterebbe per l’intervento di protesi;
o testa dell’omero: il meccanismo è sovrapponibile a quanto descritto sopra e si verifica
soprattutto quando viene interrotta l’arteria circonflessa posteriore del collo dell’omero;
o scafoide e semilunare, in quanto si tratta di ossa caratterizzate da circolazione terminale;
o fisi (cartilagine di accrescimento) nel bambino e nell’adolescente: fratture in questa delicata
sede determinano distacchi epifisari, ovvero fratture che separano le metafisi dalle epifisi. Ciò
comporta un’interruzione della cartilagine di accrescimento e quindi del circolo che porta il
sangue dalla metadiafisi alla epifisi;
o epifisi, in caso di fratture comminute o pluriframmentarie: la comminuzione è tale che l’osso
ha perso l’apporto vascolare, soprattutto quello periostale; in tale sede si verifica un
riassorbimento della zona frammentata e progressivamente si assiste alla scomparsa completa
di tutti i frammenti.

Necrosi da cortisone
Si tratta di una condizione non rara. Il meccanismo non è noto, forse dovuta a una trombosi ostruttiva di
piccoli vasi arteriosi su base non dose dipendente (a quanto sembra). Sicuramente i soggetti che sono
stati sottoposti a dosaggi elevati di cortisone (in caso patologie mieloproliferative o linfoproliferative, o
traumi cranici in cui è necessario ridurre l’edema cerebrale) possono sviluppare a distanza di tempo questo
tipo di complicanza asettica.

Sedi preferenziali: testa del femore o della testa dell’omero. Purtroppo, queste forme sono multi-
distrettuali e non è raro vedere soggetti che sviluppano osteonecrosi a livello di entrambe le anche e di
entrambe le spalle.

La manifestazione clinica può essere tardiva. I pazienti a rischio sono giovani adulti, soprattutto maschi.

Necrosi da morbo di Gaucher10


Il morbo di Gaucher è una malattia congenita a carattere familiare, contraddistinta da un deficit
dell’enzima glucocerebrosidasi, responsabile della degradazione degli sfingolipidi. L’abnorme presenza di

10È una tesaurismosi (gruppo di processi morbosi, classificabili fra le malattie lisosomiali, caratterizzati dall’abnorme accumulo di
determinate sostanze nelle cellule dei tessuti).

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sfingolipidi conseguente determina un loro incontrollato deposito anche a livello intravascolare,
provocando occlusione del microcircolo che si manifesta soprattutto a livello splenico, epatico e osseo.
La malattia si manifesta soprattutto in età infantile, con manifestazioni quali, ecchimosi e tendenza allo
sviluppo di emorragie, spossatezza, dolore alle ossa o, più frequentemente, una combinazione di questi
sintomi.

Sedi preferenziali: femore, soprattutto a livello della testa o della diafisi (dove compare una
“deformazione a fascia”).

Necrosi da anemia falciforme


La necrosi è frequentemente associata all’anemia falciforme. La presenza di emoglobina S determina una
“forma a falce” del globulo rosso che tenderà ad incastrarsi nel vaso del microcircolo provocando trombosi;
questo provoca manifestazioni a livello splenico ma può anche possono determinare necrosi di tipo
osseo11. Il rischio in questi pazienti è molto elevato e chi soffre di anemia falciforme ha spesso questa
complicanza.

La manifestazione clinica non è correlata all’età, può colpire soprattutto epifisi e metafisi inoltre non è
raro avere una sovra infezione di queste forme ostruttive. In questi pazienti bisogna sempre sospettare
che le necrosi siano accompagnate da una ulteriore complicanza osteomielitica.

Necrosi da terapia radiante


La necrosi da terapia radiante non ha una base ischemica; bensì causata da mezzi fisici che distrugge il
tessuto osseo e le cellule metabolicamente attive: osteoblasti, osteociti ed elementi emopoietici midollari.
La radiografia è abbastanza caratteristica ma soprattutto nella storia del paziente c’è un episodio che non
lascia molti dubbi, il paziente è stato sottoposto a terapia radiante nei mesi precedenti.

➢ Necrosi settiche
Le necrosi settiche si manifestano a seguito di una colonizzazione batterica avvenuta quasi sempre per via
ematogena. Si distinguono due fasi:
- fase iniziale, caratterizzata da iperemia, essudazione e nidi ascessuali nel connettivo midollare;
- fase florida: gli ascessi confluiscono negli spazi midollari (canali di Havers), in sede subperiostale ed
endostale.

L'osteomielite tende a occludere i vasi sanguigni locali, causando necrosi ossea e diffusione locale
dell'infezione, la quale si può espandere attraverso la corticale ossea e diffondere sotto il periostio, con
formazione di ascessi sottocutanei che possono drenare spontaneamente attraverso la cute.

L’organismo reagisce all’evento settico circoscrivendo l’infezione creando un vallo fibroso: la zona morta non
è più riparabile dal tessuto circostante e, trattandosi di tessuto fibroso cicatriziale non vascolarizzato, la
terapia antibiotica somministrata per via sistemica è poco efficace. Queste osteomieliti devono essere
necessariamente trattate attraverso terapie chirurgiche molto aggressive e demolitive di asportazione
dell’intera zona necrotica, in quanto la probabilità che possa guarire spontaneamente è minima.

La necrosi tubercolare caseosa presenta una patogenesi pressoché identica:


- nel bambino ha più frequentemente un carattere essudativo, con maggior rischio di diffusione verso
le epifisi; pertanto può evolversi in artrite settica e, successivamente, provocare un quadro di artrosi
tardiva post infettiva;
- nell’adulto, invece, è più frequente la necrosi di tipo caseoso e tende a essere più circoscritta.

11 Unortopedico che spiega la fisiopatologia dell’anemia falciforme farebbe rabbrividire il mio amico Rizzo. [Non correggo perché non
vorrei mai tarpare le ali ad una poesia]

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0.3.4 Trattamento
- Antibiotico sistemico quando c’è una componente infettiva-settica.

- Scarico e mobilizzazione per le fasi precoci della malattia ischemica.

- Sono disponibili anche mezzi fisici come la magnetoterapia, la camera iperbarica, le onde d’urto:
questi possono creare uno stimolo alla rivascolarizzazione e alla produzione ossea da parte delle zone
circostanti per riabilitare la zona malata.

- Se le tecniche precedenti non danno risultati oppure ci sono segni radiografici tipici di zona necrotica
e di frammentazione è preferibile intervenire subito per via chirurgica, attraverso interventi di:
• rivitalizzazione ossea: si possono effettuare
o perforazioni a livello del vallo, in modo da creare un canale di neovascolarizzazione.
o “core decompression”, tipicamente a livello del collo del femore: si fa un foro con un
carotatore che va fino all’interno della lesione; attraverso questo canale si dovrebbe
formare un nuovo canale di rivascolarizzazione capace di arrivare fino alla testa. A
volte, per dare un sostegno a questo sistema, si possono inserire dei chiodi di
materiale biologico come idrossiapatite e trifosfato di calcio arricchiti con qualche
fattore di crescita, per favorire la chemiotassi delle cellule multi-potenti dalla zona
sana verso la zona malata.
Dove ci sono delle zone più piccole (come nel caso delle necrosi del condilo femorale) il
trattamento è molto simile a quello delle osteocondrosi dissecanti ma meno invasivo: si
praticano micro-perforazioni con fili metallici molto sottili;
• osteotomia.
Durante la fase di riabilitazione e di recupero il paziente va protetto dal carico, in quanto il rischio
principale è che la zona necrotica si fratturi a causa della sua spiccata fragilità. Il protocollo post-
trattamento prevede, infatti, un mese di scarico completo seguito da un altro mese di carico parziale.

- Chirurgia protesica: necessaria quando si interviene troppo tardi e c’è già necrosi avanzata o
deformità osteonecrotica con la testa del femore appiattito.

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Lezione 5 del giorno 12/04/19 MODERATAX
Docente: Guido Zarattini
Argomenti: Coxartrosi, patologie della colonna vertebrale

1. ARTROSI
L’artrosi è una malattia degenerativa delle articolazioni che colpisce la cartilagine articolare e
successivamente l’osso subcondrale, la sinovia e l’apparato capsulo legamentoso.

I capi articolari delle articolazioni mobili (diartrosi) sono ricoperti da cartilagine ialina (cartilagine articolare),
le cui funzioni rispecchiano l’istologia del tessuto:
- favorire lo scorrimento tra i capi articolari, riducendo l’attrito: la porzione più superficiale (strato
tangenziale) è molto levigata in superficie in quanto priva di pericondrio ed è costituita da cellule
allungate (ovoidali, con asse maggiore tangenziale alla superficie libera);
- ammortizzazione: la porzione più profonda è costituita da condrociti con organizzazione colonnare
tale riportare i microtraumi e gli urti all’osso subcondrale. Procedendo in profondità assumono una
forma globosa sono dapprima disposti ad arco (strato intermedio), poi riuniti in gruppi isogeni
allungati e orientati perpendicolarmente all’osso subcondrale (strato radiale).

Con l’avanzare dell’età la distribuzione dei condrociti si fa più irregolare negli strati tangenziale e intermedio e la
matrice della parte più profonda dello strato radiale è mineralizzata (strato calcificato)1.

La cartilagine è una struttura polarizzata composta per lo più da acqua e presenta una componente cellulare
compresa tra il 3% ed il 5%, tra le sue componenti più importanti abbiamo i proteoglicani, che la rendono
particolarmente idrofila. I proteoglicani vengono definiti anche ‘spugna molecolare’ in quanto grazie alle loro
cariche negative permettono la scissione e il legame con le molecole d’acqua. Esaminando la deambulazione
si osserva che:
1. durante la fase di appoggio, la pressione esercitata sull’articolazione (ginocchio ,tibio- tarsica, coxo-
femorale) fa fuoriuscire l’acqua dalla cartilagine articolare;
2. durante la fase di “ristoro” (in cui si solleva l’arto) i proteoglicani vengono reidratati.

In questa immagine vengono mostrate la cartilagine articolare e la cartilagine metafisaria

1 Le parti in corsivo sono tratte da Istologia (P. ROSATI), che mi ero giurato di non riaprire più, ma per voi questo ed altro, ndm

1/14
Poiché trovo assurdo parlare di artrosi senza affrontare la sua fisiopatologia, qui trovate un riassunto tratto dal sito osmosis.org e
da msdmanuals. Il prof non ha detto nulla a riguardo, quindi se non avete voglia saltate pure alla prossima pagina, ndm.

Fisiopatologia
L’artrosi è un processo degenerativo che colpisce le articolazioni
mobili (diartrosi). Esse sono fisiologicamente costituite da due
superfici articolari ricoperte da cartilagine ialina (cartilagine
articolare), racchiuse all’interno di una struttura connettivale
fibrosa a forma di manicotto (capsula articolare) che ha il compito
di mantenerle in sede. La capsula articolare esternamente è formata
da una membrana fibrosa , mentre all’interno presenta la
membrana sinoviale, costituita da due ordini di cellule:
- tipo A: svolgono la funzione di rimuovere i detriti;
- tipo B: secernono e riassorbono il liquido sinoviale,
sostanza incolore e vischiosa il cui ruolo è quello di
mantenere lubrificata l’articolazione.

Fisiologicamente, dunque, le superfici articolari scivolano dolcemente l’una sull’altra e non si usurano.

La cartilagine ialina è priva di vasi sanguigni e linfatici e di nervi: è costituita per il 95% da
acqua e da matrice cartilaginea extracellulare e solo per il 5% da condrociti, i quali hanno
il ciclo cellulare più lungo dell'organismo (simile al sistema nervoso centrale e alle cellule
muscolari).

La salute e la funzione della cartilagine dipendono dalla sua compressione, dalla riduzione del carico e dal suo utilizzo: la compressione
provoca lo spostamento del liquido dalla cartilagine allo spazio articolare e all'interno di capillari e venule, mentre la riduzione del
carico consente alla cartilagine di espandersi nuovamente, iper-idratarsi e assorbire i nutrienti e gli elettroliti necessari.

I condrociti sono deputati a mantenere un equilibrio tra la produzione di enzimi anabolici e di enzimi catabolici: una rottura di questo
delicato equilibrio innesca il processo artrosico. Nella maggior parte dei casi si tratta di un danno tissutale da lesione meccanica (come
una lesione meniscale). I condrociti, attivati dal danno, si attivano in senso riparativo e iniziano a produrre proteoglicani e collagene
(in particolare collagene di tipo I, il quale fa perdere progressivamente l’elasticità caratteristica della cartilagine).

Se il processo di mantiene nel tempo, i condrociti vanno progressivamente incontro ad apoptosi e la cartilagine diviene sempre più
debole e meno elastica. La cartilagine si fissura e piccoli frammenti, definiti artrofiti (joint mice) invadono lo spazio articolare: questi
vengono fagocitati dalle cellule sinoviali di tipo A, le quali richiamano cellule dell’immunità secernenti citochine infiammatorie. Il
risultato è l’infiammazione anche della membrana sinoviale (sinovite).

La progressiva distruzione della cartilagine articolare porta al contatto tra le ossa subcondrali: l'osso esposto diviene eburneo e
sclerotico, sviluppa cisti subcondrali. e osteofiti ai margini articolari (forse nel tentativo di stabilizzare l’articolazione).
Tendini e legamenti periarticolari sono sottoposti a sollecitazioni, portando a tendiniti e retrazioni. Con la riduzione della mobilità
articolare, i muscoli circostanti si assottigliano e divengono meno atti al sostegno.

2/14
L’artrosi viene distinta in:
1) Primitiva, dovuta a:
a. forme idiopatiche,
b. fattori vascolari, meccanici (responsabili dell’artrosi della coxo-femorale), immunologici e
genetici predisponenti,
c. invecchiamento.
2) Secondaria a traumi, displasia congenita dell’anca, artrite, osteonecrosi, morbo di Paget,
osteocondrite.

L’artrosi può essere classificata in lieve, moderata e severa secondo la classificazione di Kellgren-Lawrence.

Clinicamente l’artrosi si presenta con dolore a cui segue limitazione funzionale ed infine anchilosi, ovvero
annullamento dei movimenti dell’articolazione coinvolta.

Può succedere che durante la fase artrosica ci siano acuzie di malattia che sono artriti su base infiammatoria.

1.1 COXARTROSI

1.1.1 Cenni anatomici (non trattata dal docente, se volete saltate)


L’articolazione coxofemorale è costituita dalla testa del femore e dalla concavità dell’acetabolo (in termini
meccanici si tratta di un giunto sferico). La sua funzione è quella di garantire il movimento relativo tra coscia
e bacino, oltre a sostenere il carico corporeo durante la postura statica e attività dinamiche come cammino,
corsa ecc.

I movimenti consentiti sono: flesso-estensione (120-140°),


abduzione-adduzione (60-80°) e intra-/extra-rotazione (60-90°). I
movimenti di rotazione, resi possibili grazie alla forma sferica delle
superfici, sono limitati dalla presenza di strutture legamentose e
muscolari e dall’acetabolo, il quale presenta una struttura a labbra
(cercine cotiloideo) che garantisce la stabilità articolare.

L’ampia testa del femore (diametro 40-60 mm) è rivestita da uno spessore di 2 mm di cartilagine ialina, ad
eccezione della «fovea», sede di inserzione del legamento intracapsulare (legamento rotondo del femore) che
collega direttamente l’acetabolo alla testa del femore. Questo legamento, per quanto resistente, non ha
rilevanti funzioni meccaniche, ma è essenziale per la vascolarizzazione della testa del femore, specialmente
durante l’accrescimento: al suo interno transita un ramo dell’arteria otturatoria, spesso obliterata nell’adulto.

Durante l’appoggio bipodalico il peso corporeo risulta distribuito sulle due articolazioni. Tuttavia esistono
condizioni limite di appoggio monopodalico nelle quali la forza applicata può raggiungere valori superiori a 7
volte il peso corporeo. In ogni caso si tratta di sollecitazioni di presso-flessione che interessano le strutture
ossee ma anche di forze d’attrito che si generano sulle superfici articolari a contatto
Anche una persona che conduca una vita sedentaria applica il proprio peso su ciascuna gamba 5-10*103 volte
al giorno2, il che vuol dire più di 106 volte all'anno.

2Se si considerano gli studenti di medicina in sessione, questo valore scende spaventosamente. Se aggiungiamo la quarantena
andiamo sotto zero.

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1.1.2 Classificazione
Può essere:
➢ Primitiva
➢ Secondaria a:
o patologie dell’infanzia quali:
▪ LCA (lussazione congenita dell’anca)
▪ DCA (displasia congenita dell’anca)3, dovuta ad un difetto
anatomico a carico dell’articolazione dell’anca (in
particolare dell’’acetabolo). Si è compreso rapidamente
che una diagnosi precoce poteva portare ad una
risoluzione agevole di questo problema, pertanto già a
partire dagli anni ’60 a tutti i neonati veniva eseguita la
manovra di Ortolani e dal ’78 in poi hanno iniziato con le
ecografie. Purtroppo nei paesi più poveri non è una pratica comune fare prevenzione per
questa patologia: capita di visitare pazienti extracomunitari con i femori che si articolano
a livello delle are e iliache, e questa condizione, essendo meccanicamente ed
anatomicamente sbagliata, necessita di un intervento che è piuttosto complesso.

o Coxa vara/coxa valga: deformità dell'anca in cui l'angolo


esistente tra il complesso testa-collo del femore e il corpo
del femore è alterato:
▪ Coxa vara: α < 120°
▪ Coxa valga: α > 135°

o Osteonecrosi della testa del femore (necrosi asettica o avascolare): per via della sua peculiare
anatomia, la testa del femore è il sito osseo che più facilmente va incontro ad osteonecrosi (si
stima che circa vi siano circa 15.000 casi ogni anno solo negli Stati Uniti). Questo fenomeno si
verifica per interruzione dell’apporto ematico, in seguito ad eventi traumatici, quali:
▪ frattura del collo del femore, specialmente in soggetti anziani: poiché il rischio di
sviluppare osteonecrosi a seguito del trattamento è estremamente elevato (80%), si
preferisce sempre intervenire direttamente con un artroprotesi chirurgica. Nel paziente
giovane (20-40 anni) il rischio post trattamento è decisamente più basso (20%);
▪ lussazioni posteriori dell’anca: il trattamento prevede una riduzione, pratica che può
portare a lesione dei vasi circonflessi mediale e laterale, data la loro spiccata fragilità.

Esistono anche fattori di rischio vascolare:


▪ assunzione di terapia cortisonica cronica;
▪ tossicodipendenza: il talco, utilizzato per tagliare l’eroina, può indurre trombosi nei vasi
periferici;
▪ microangiopatie (come l’anemia falciforme);
▪ fattori genetici (mutazioni del collagene di tipo II);
▪ alcolismo.

3 Diversi siti riportano che “lussazione congenita dell’anca” e “displasia congenita dell’anca” sono due espressioni diverse per
descrivere la stessa patologia, sebbene il professore le consideri distinte.

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La diagnosi di necrosi viene fatta solitamente con RMN: si tratta di una metodica fondamentale,
specialmente nei primi stadi. È, infatti, in grado di evidenziare aree di necrosi ancor prima che
si manifesti la sintomatologia dolorosa (ad esempio nell’anca controlaterale).

1.1.3 Clinica
Il segno dirimente è il dolore inguinale, irradiato lungo la porzione interna della coscia fino al ginocchio (area
innervata dai rami sensitivi dei nervi femorale ed otturatorio che si distribuiscono anche alla capsula articolare
dell'anca). Spesso il dolore si localizza in regione trocanterica (punto di inserzione del medio gluteo) o glutea
con irradiazioni alla regione lombare; non mancano casi in cui è avvertito unicamente al ginocchio.
Il paziente, inoltre, non riesce più a svolgere movimenti di flessione (mettersi le scarpe, mettersi i calzini,
allacciarsi le scarpe). Talvolta può capitare che un paziente si presenti con artrosi dell’anca e anche del
ginocchio (che solitamente si presenta con un dolore irradiato all’anca), in questo caso va trattata prima la
malattia più prossimale, quindi l’artrosi dell’anca. Altro segno comune è il dolore provato quando si sta molto
tempo in piedi o nelle fasi iniziali di un movimento, chiamato ‘start up’: se si sta seduti e poi ci si alza dalla
sedia si prova dolore ai primi passi, ma nei movimenti successivi il dolore viene meno.
Questa condizione dolorosa porta il paziente a muoversi di meno, generando atrofia muscolare e deficit di
forza; secondo alcune teorie (non accreditate da studi scientifici) per questa ragione, specialmente nel
paziente anziano, è necessario mettere subito una protesi all’anca per evitare una possibile metaplasia del
muscolo in tessuto fibroso non più contrattile.

Il paziente presenta il segno di Trendelenburg, causato da ipostenia e/o deficit


di controllo degli abduttori d'anca (principalmente medio gluteo). La diretta
conseguenza di questa debolezza è un aumento del pelvic drop (di circa 4
gradi), che si traduce in una caduta dell'emibacino controlaterale al deficit. Si
tratta di un reperto piuttosto comune.
Il Trendelenburg compensato (o Trendelenburg inverso o segno di Duchenne)
consiste, invece, in uno spostamento laterale del tronco verso il lato della
debolezza, dislocando il centro di gravità in modo da far bilanciare il corpo
sull'arto con un sostegno muscolare minimo a livello dell'anca. Ciò riduce il
momento adduttorio, annullando anche il braccio della forza del medio gluteo.

Oggi, grazie alla precocità degli interventi di sostituzione protesica, è raro


osservare pazienti con forme avanzate (presentanti l’arto inferiore flesso,
addotto ed extraruotato).

Dunque, il deficit del muscolo medio gluteo associato a dolore all’anca è indice di una patologia di pertinenza
coxo-femorale (piuttosto che della colonna vertebrale).

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Drop leg test4
Si tratta di un test clinico per valutare il deficit del medio gluteo.
Viene eseguito con il paziente in decubito laterale. Il terapista
abduce passivamente la gamba sovrastante portandola al massimo
range articolare in abduzione e successivamente in estensione di
20°. Viene chiesto al paziente di mantenere la posizione di
estensione-abduzione una volta che il terapista toglierà il proprio
supporto manuale. Ponendo l’arto in estensione (oltre che in
abduzione) viene aumentata la sensibilità del test nell’identificare
deficit muscolari non individuati invece valutando il muscolo con
l’anca in posizione neutra o addirittura flessa!
Con una debolezza delle fibre posteriori del medio gluteo si noterà un’incapacità del paziente nel mantenere la gamba
nella posizione abdotta-estesa, con una caduta (drop) della stessa di qualche grado/centimetro.

1.1.4 Esame obiettivo


L’esame obiettivo è finalizzato alla valutazione della funzionalità dell’articolazione.
Innanzitutto, viene fatta una misurazione degli arti inferiori per vedere che non ci siano dismetrie,
responsabili di un maggior consumo dell’articolazione. Come punti di repere vengono presi il malleolo
mediale e la spina iliaca anterosuperiore.

Bisogna inoltre valutare la mobilità dell’articolazione, normalmente abbiamo una flessione di 135°,
un’estensione di 20°/30°, un’adduzione di 30° e abduzione circa di 50°, un’extra rotazione di 45° e
un’intrarotazione di 35°.

4 Tratto da https://www.ilcoach.net/fattori-contribuenti-il-medio-gluteo/

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La rotazione interna e la rotazione esterna possono essere anche valutate con il femore
in flessione.
Il blocco del movimento non è solo di natura antalgica ma anche meccanica, a causa della
formazione di un osteofita anteriore a livello dell’acetabolo che blocca i movimenti della
testa e del collo del femore.
È importante valutare anche la forza perché il paziente tenderà ad utilizzare meno la muscolatura dello psoas
e del quadricipite. Deficit di forza sono presenti in alcune malattie come l’ernia del disco L3-L4, accompagnata
da cruralgia.
quindi viene fatta una flessione contro resistenza, un’abduzione contro resistenza e infine un’adduzione
contro resistenza.

1.1.5 Indagini strumentali

La radiografia è l’esame di prima scelta per fare diagnosi di artrosi, raramente servono esami radiologici di
secondo livello. In essa si può notare:
1) Restringimento della rima articolare: la cartilagine appare nera all’RX e, dal momento che in questi
casi si consuma, vedremo che le due parti bianche si avvicinano talmente tanto che sembrano un
tutt’uno

2) Sclerosi subcondrale: Quando l’osso inizia a scontrarsi contro l’altro osso, inizia un processo di
rimodellamento con attivazione di osteoclasti e osteoblasti, non particolarmente organizzato, tale per
cui l’osso per non “rovinarsi” ulteriormente diventa più duro, più sclerotico. Diventa molto difficile da
scalfire, è appare molto bianco nella RX.

3) Osteofiti: dovuti all’attività non organizzata degli osteoblasti (responsabili della


produzione della matrice extracellulare), sono detti anche becchi osteofitici a
causa della loro forma. Sono delle escrescenze di tessuto osseo.

4) Cavità geoidiche: zone di osteolisi in sede periarticolare.

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A sx è presente un’anca (abbastanza) sana, a dx patologica.

1.1.6 Trattamento conservativo: norme igieniche, terapia fisica e farmacologica


Gli obiettivi del trattamento conservativo mirano a:
• Rallentare l'evoluzione
• Prevenire le deformazioni e l'invalidità
• Diminuire il dolore
• Eliminare i fattori di rischio e di aggravamento
• Salvaguardare e migliorare la qualità di vita

Per quanto riguarda le norme igieniche, è necessario:


• Abolire il sovrappeso. Questo è molto importante, in quanto i pazienti operati per posizionamento
di artroprotesi sono prevalentemente pazienti in sovrappeso. Il professore afferma che in America a
pazienti con un BMI molto elevato non viene messa la protesi in quanto in queste persone la protesi
si usura di più, e quindi le assicurazioni non pagano.
• Evitare posture scorrette
• Eliminare attività fisiche eccessive o incongrue (es. corsa)
• Proteggere le articolazioni esposte

La terapia fisica prevede:


• Mobilizzazione attiva e passiva preferibilmente fuori carico (ideale in acqua)
• Prevenzione delle limitazioni articolari
• Contrasto atrofia muscolare
• Allungamento della muscolatura periarticolare (soprattutto flessori)
• rieducazione propriocettiva

Il professore racconta di uno studio fatto in Svezia di anni fa, dove pazienti in nota operatoria per interventi
di protesi stati sottoposti a sedute di stretching intensivo hanno avuto uno spostamento dell’intervento di
18 mesi
Domanda di uno studente: “Maratoneti, o in generale, persone sportive, hanno più o meno rischio di
sviluppare artrosi?” Non esistono ancora studi che diano risposte certe a riguardo. Gli americani hanno fatto
studi sui giocatori di football professionisti, e forse lo sport ad alto impatto potrebbe non essere un fattore
protettivo. In generale gli sportivi hanno più rischio di sviluppare anche altre patologie, per esempio su 36
giocatori della Juventus under 14 ben 7 si sono fratturati il crociato

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Terapia fisica sintomatica
• Controllo della sintomatologia dolorosa (diatermia, elettroterapia antalgica)
• Trattamento della eventuale sovrapposizione flogistica articolare o periarticolare

Provvedimenti ortesici
• Calzature con fondo morbido che possano ammortizzare il carico
• Evitare tacchi alti
• Compenso delle dismetrie (parziale)

Terapia farmacologica
È impiegata per controllare il dolore. Nelle fasi acute si utilizzano FANS (es. in caso di artrite su artrosi), per il
dolore subclinico, invece, si usa il paracetamolo. Negli ultimi anni, soprattutto in America, si usano gli
oppiacei che, però, generano dipendenza.
Esistono anche alcuni integratori come la glucosamina solfato e l’acido ialuronico (che agiscono come
condroprotettori) che, assunti per via orale, danno dei benefici.
Inoltre, nei casi lievi e moderati, esiste la possibilità di fare infiltrazioni a livello dell’anca con acido ialuronico.
Tale iniezione è più difficile rispetto a un’infiltrazione a livello del ginocchio, perché l’anca è un’articolazione
profonda. Sarebbe, dunque, preferibile avvalersi di strumenti di imaging (il gol standard è rappresentato da
un’esecuzione ecoguidata). In passato si credeva che, dal momento che l’articolazione dell’anca è molto
serrata, iniettando acido ialuronico all’interno della capsula, si potesse determinare un aumento della
pressione tale da portare alla trombizzazione dei vasi e, quindi, alla necrosi della testa del femore. In realtà
non ci sono dati che supportino questa tesi. In ogni caso, l’infiltrazione, viene comunque effettuata raramente
perché non ci sono punti di repere precisi.
L’acido ialuronico si comporta semplicemente come un lubrificante a livello articolare, non ha altri effetti.
Per quanto riguarda l’utilizzo di plantari non esistono evidenze di classe 1 a favore, in alcuni casi sono
addirittura deleteri, solitamente i pazienti stanno meglio con scarpe da ginnastica ben ammortizzate.

1.1.7 Trattamento chirurgico


I trattamenti possibili sono due:
• Osteotomia
• Artroprotesi

L’osteotomia è una pratica chirurgica praticata molto in passato, che


consiste nella rimozione di una parte d’osso associata al rimodellamento
dell’architettura dell’articolazione. Oggi è meno praticata in quanto,
creando una frattura, è necessario attendere i tempi fisiologici necessari
all’osteosintesi, la quale può aver bisogno di un periodo di 6-8 mesi per
avvenire con successo. Al contrario, con una protesi, già in seconda
giornata il paziente può muoversi. Di fronte ad una coxa valga si eseguirà
un’osteotomia varizzante, al contrario con una coxa vara si farà
un’osteotomia valgizzante.

L’artroprotesi deve essere presa in considerazione nei pazienti con evidenza radiografica di OA dell’anca e
che presentano dolore e disabilità refrattari ad altre terapie da tempo.

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Ad oggi la chirurgia protesica rappresenta la migliore terapia
chirurgica e viene impiegata quando i trattamenti conservativi
ormai non sono più efficaci. È stata inventata negli anni 60’ dal
chirurgo inglese John Charnley, e ancora oggi le protesi che si
utilizzano non sono troppo diverse da quelle inventate dall’english
boy. La protesi è composta da:
- una componente femorale, detta stelo: questa viene
inserita all’interno del canale midollare del femore (può
essere cementato o meno); sullo stelo viene fissata una
testina, che mimerà la testa del femore;
- una componente cotiloidea, costituita da un acetabolo
metallico (coppa o metal back) e un inserto, che può essere di diverso materiale.

La procedura coinvolge, dunque, sia l’acetabolo sia il femore: sezionate testa e collo del femore,
1. si fresa il canale femorale, all’interno del quale si inserisce lo stelo.
2. L’acetabolo viene fresato e modellato in modo da poter accogliere la coppa.
Fresando l’acetabolo e il canale femorale il paziente può perdere fino ad 1 L di sangue durante l’intervento.

Gli steli protesici possono essere cementati o non cementati definiti a ‘press fit’ ovvero ad incastro.

La protesi cementata costa circa la metà di quella a press fit, e secondo i dati hanno la stessa longevità.
Nonostante ciò, probabilmente per motivi commerciali, in paesi come l’America non sono molto diffuse le
protesi cementate, al contrario in nord Europa la tendenza è quella di usare quasi sempre il cemento.

Processo fondamentale per la buona riuscita dell’intervento è la fissazione: la fissazione primaria è ottenuta
durante l’impianto, mentre la fissazione secondaria è il risultato della riparazione e del rimodellamento osseo
che avvengono durante il processo di “guarigione. Pertanto, se la forma della protesi garantisce una buona
stabilità primaria, il successo a lungo termine di un impianto protesico è legato all’ottenimento della stabilità
biologica secondaria, possibilmente con integrazione ossea (riducendo al minimo lo spazio tra protesi ed
osso).

In entrambi i tipi di protesi la stabilità primaria e la stabilità secondaria sono differenti.

➢ Uno stelo non cementato ottiene la stabilità primaria a incastro nel canale midollare. Nella versione
a press fit c’è bisogno di almeno 1 mese per ottenere la formazione di callo osseo a livello protesico
ottenendo così una stabilizzazione secondaria.

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➢ Diversamente, nello stelo cementato la stabilità primaria e secondaria avvengono nello stesso
momento: il cemento ingloba lo stelo protesico e si incastra nel tessuto nel tessuto osseo. In
particolare, il cemento ha il compito di fissare le protesi articolari alla struttura ossea e possiede una
funzione riempitiva (non forma legami chimici né con l’osso, né con la protesi)
Chimicamente il cemento acrilico appartiene alla categoria delle resine acriliche autoindurenti che in
fase di polimerizzazione sono dotate di proprietà plastiche (in grado di riempire adeguatamente lo
spazio tra osso e protesi), mentre terminata la polimerizzazione induriscono aumentando le loro
caratteristiche meccaniche (rigidezza e resistenza). Il cemento che viene utilizzato è il poli-metil-
meta-acrinato (PMMA), un materiale che non dà reazioni infiammatorie da rigetto o altre condizioni
patologiche. Il suo tempo di catalizzazione dura dai 7 ai 12 minuti, successivamente la protesi rimane
stabile per anni.

In linea generale nel paziente anziano si preferisce cementare e nel giovane si preferisce la protesi a press fit.

Il problema della cementazione è che se in un secondo momento dobbiamo operare nuovamente il paziente
diventa difficile rimuovere la protesi. Nel paziente osteoporotico (e quindi tendenzialmente anziano) non
conviene mettere una protesi a press fit in quanto richiede una fresatura generosa, la protesi si deve dunque
impiantare sul tessuto osseo corticale che in questi pazienti risulta più sottile e fragile, aumentando il rischio
di fratture intraoperatorie.
È importante stabilire il grado di osteoporosi: uno dei metodi indiretti è osservare la misura dello spessore
corticale; esiste un indice che mette in correlazione la misura dello spessore corticale con la misura della parte
interna del canale midollare. Se è inferiore 1,25 si opta per una protesi non cementata, se superiore di 1,25
per quella cementata.

I criteri di scelta del tipo di protesi dipendono dunque da:


• Età del paziente
• Grado di osteoporosi
• Forma del femore: per verificare quale protesi sia più
adatta all’anatomia del paziente è possibile andare a
sovrapporre dei lucidi con diversi tipi di protesi alle
radiografie, oppure utilizzare dei programmi automatizzati
specifici.
• Richiesta funzionale del paziente.

Esistono protesi composte con diversi materiali in continuo miglioramento (attualmente vengono arricchiti
con vitamina E5, potente antiossidante naturale). Il gold standard è rappresentato da una protesi con testina

5 L’uso del polietilene ad altissimo peso molecolare e altamente reticolato ha il vantaggio dell’elevata resistenza all’usura. Tuttavia,
il processo di produzione di tali materiali prevede uno stadio di fusione (il cui scopo è ridurre la formazione di radicali liberi in seguito

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di metallo che si articola con un inserto in polietilene che viene incastrato nel metal head. Esistono anche
protesi inventate successivamente con una testina in ceramica che si articola con un inserto in polietilene
oppure protesi con la testina in ceramica che si articola con un inserto in ceramica. Ognuno di questi
accoppiamenti protesici ha vantaggi e svantaggi: ad esempio le componenti in ceramica sono fragili, e nel
caso in cui il paziente inciampi si rompono, ma in compenso sono meno soggette all’usura, mentre il
polietilene nel tempo si usura e rilascia molecole che sono tossiche.
Sono state inventate anche delle protesi con accoppiamento metallo-metallo, ma sono state un fallimento
in quanto creavano una reazione ionica generando uno pseudotumor, simil tubercolare, a livello del nostro
organismo.
Recentemente sono state studiate delle nuove ceramiche più resistenti, che per ora sembrerebbero essere
l’alternativa migliore, ma non abbiamo ancora dati a riguardo visto che il follow up di questi pazienti è
piuttosto lungo, tenendo conto che una protesi dura circa 20-25 anni.

Durata e usura
La durata di una protesi dipende dalle richieste funzionali e da altri fattori meccanici e biologici.
I fattori che determinano un fallimento sono:
• Lussazione
• Mobilizzazione correlata all’usura delle componenti
• Malposizionamento
• Frattura
• Rottura dei capi protesici
• Formazione di calcificazioni periprotesiche
• Usura

Come si evince dal grafico, dopo circa 10 anni appaiono i primi problemi.

Secondo i dati, la durata media di una protesi è di circa 18 anni, questo perché ogni persona ha abitudini
diverse. In generale la protesi funziona come una macchina, se facciamo 500000 km in tre anni è da buttare,
se facciamo solo 10000km ci durerà di più. I motivi per cui una protesi può fallire sono la lussazione e la
mobilizzazione6.

all’irraggiamento di reticolazione), che diminuisce però la cristallinità del materiale e con essa la resistenza alla fatica del costrutto
finale, specie sotto carichi ineguali. In anni recenti è stato proposto l’uso della vitamina E, un potente antiossidante naturale, subito
dopo il passaggio di reticolazione del polietilene e al posto della fusione del materiale. La vitamina E fungerebbe da scavanger di
radicali liberi, neutralizzandone gli effetti nocivi sulla struttura polimerica del polietilene responsabili della riduzione delle proprietà
meccaniche.
6 Negli anni è stata migliorata anche la fissazione all’osso della protesi con l’utilizzo di metalli rivestiti di idrossiapatite o titanio

trabecolare, ovviamente gli ingegneri svolgono un ruolo fondamentale nella ricerca e sviluppo di nuovi materiali e protesi.

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L’usura, in particolare della componente in polietilene, è una delle cause principali di mobilizzazione. Nel
tempo, il polietilene che si sta usurando, inizia a rilasciare delle molecole con forma appuntita, dette “spire”,
che vengono riconosciute come non-self dal nostro organismo. Segue un’attivazione dei macrofagi che
fagocitano queste molecole e tentano di digerirle con gli enzimi lisosomiali senza successo. Successivamente
le spire fagocitate bucano i macrofagi facendo uscire gli enzimi lisosomiali che digeriscono la componente
ossea intorno allo stelo e superiormente: si ha riassorbimento osseo, con conseguente mobilitazione
asettica. Anche lo scorretto posizionamento della protesi favorisce un’usura più precoce.
In una condizione del genere non vi è un “bone stock” sufficiente per martellare un’altra protesi press fit: si
utilizzano delle protesi dette ‘di revisione’ che si inseriscono distalmente, ovvero a livello del ginocchio. Per
questo motivo, specialmente per quanto riguarda le protesi in polietilene, è necessario controllare
periodicamente il grado di usura, per evitare il fenomeno di osteolisi e mobilizzazione della protesi. Si
consiglia di fare una radiografia all’anno dopo 5-6 anni dall’intervento. Se si riscontra usura prima che
avvenga l’osteolisi basterà semplicemente cambiare l’inserto in polietilene (stelo e cotile vengono
mantenuti): si tratta di un’operazione poco invasiva che dura 30 minuti circa, che permette di evitare gli
interventi di revisione (molto invasivi e complessi).

Vie d’accesso chirurgiche


Esistono diverse vie d’accesso per la chirurgia d’anca: la sfida negli anni è stata quella di trovare l’accesso
che garantisse il minor traumatismo possibile e, allo stesso modo, permettesse una buona gestione
operatoria.
Una via di accesso classica è la via antero-laterale detta di Watson-Jones che
sfrutta l’intervallo tra il muscolo medio gluteo e il tensore della fascia lata, ma
spesso porta a traumi del muscolo medio gluteo.

Altri accessi sono:

- l’accesso laterale (Hardinge),

- l’accesso anteriore (Smith-Petersen)

- e due vie di accesso posteriore (immagini sottoi)

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Abbiamo anche un accesso anteriore mini-invasivo (incisura di 8cm contro i 20 cm di un acceso standard). I
vantaggi sono:
• Risparmio dei tessuti
• Cicatrice ridotta
• Minore perdita ematica
• Minore dolore post-operatorio
• Riduzione dei tempi di allettamento
• Minore necessità di riabilitazione post-operatoria

Questa tipologia di accesso è preclusa ad alcune categorie di pazienti, quali gli obesi, i displasici e i pazienti
con morfologie particolari del femore, per i quali altri accessi restano meno rischiosi.

Ogni accesso ha le sue caratteristiche, vantaggi e svantaggi (ad esempio l’accesso posteriore ha più
probabilità di andare incontro a lussazione, l’accesso laterale allo sviluppo di calcificazioni). Il Chirurgo decide
sulla base della sua esperienza e delle caratteristiche del paziente.

Riabilitazione del paziente dopo chirurgia di anca


Al giorno d’oggi il paziente operato rimane pochi giorni in ospedale e in genere può andare già a casa 3-4
giorni dopo l’intervento, con fisioterapia domiciliare che permette di evitare il trattamento in una casa di
cura riabilitativa. Il programma riabilitativo post-intervento è legato al tipo di protesi e alla modalità di
accesso chirurgico e alle eventuali complicanze/comorbidità del paziente.

L’obiettivo primario è la ripresa della deambulazione in sicurezza. A breve termine è importante


raggiungere un adeguato controllo di edema e dolore, ricercare l’articolarità evitando le manovre lussanti,
riattivare la muscolatura e impostare il cammino con ausilio a di due stampelle. A medio termine si pongono
altri obiettivi: incremento dei ROM7, autonomia nel cammino, nell’esecuzione delle scale e nelle attività di
vita quotidiana. Fondamentale dare i giusti consigli ai pazienti per preservare adeguatamente il loro impianto
protesico, specialmente nel periodo subito dopo l’intervento.

Un buon programma prevede:


• Miglioramento della forza muscolare dell’arto inferiore e mantenimento del ROM articolare, senza
provocare riacutizzazioni
• Controllo del dolore anche con terapia fisica
• Training equilibrio e propriocezione
• Istruzione alla prevenzione delle complicanze e manovre lussanti ed all’utilizzo di ausili
• Idrokinesiterapia (buon lavoro di rinforzo muscolare in scarico)

7 Non è quello che state pensando.

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2. PATOLOGIE DELLA COLONNA VERTEBRALE

In questa lezione verranno affrontate le principali patologie della colonna vertebrale e nello specifico di
ernie dei dischi vertebrali, stenosi vertebrale e traumi.

Anche per quanto riguarda queste patologie una semplice radiografia ci permette di fare diagnosi senza
ulteriori esami strumentali. Il docente mostra delle radiografie (immagini originali non pervenute):

- Nella prima radiografia possiamo osservare una frattura (in questo caso da compressione), che può
essere data da un trauma, generalmente accompagnata da un dolore acuto, o da osteoporosi, e in
questo secondo caso non avremo una sintomatologia acuta.
- La seconda radiografia è di un ragazzo di 32 anni che ha fatto quattro accessi in pronto soccorso, ed
ogni volta è stato mandato a casa, poiché la lombalgia acuta in pazienti giovani, secondo la
letteratura, regredisce in 3-4 settimane. Nella RX notiamo un buco in una vertebra con una crescita
anomala laterale, probabilmente un tumore.
- In una terza radiografia possiamo notare una stenosi del canale, data un osteofita che chiude il
forame di coniugazione.
- Nell’immagine successiva notiamo una spondilolistesi, ovvero lo scivolamento di una vertebra su
un’altra, colpisce principalmente L5-S1 (L5 scivola su S1),
- infine ci viene mostrata una radiografia di una scoliosi.

In seconda battuta, per approfondire, si può fare una TC, la quale permette di classificare una possibile
frattura e osservare meglio masse o lesioni varie.

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Per quanto riguarda l’ernia del disco invece l’esame radiologico da utilizzare è l’RM, da effettuare in funzione
di un esame clinico che dia il sospetto della patologia.

In un’immagine che ci viene mostrata notiamo “una pallona gigante”. Questo esame
appartiene ad un paziente giovane, che pratica culturismo, e si presenta con una
sindrome della cauda equina, una condizione in cui il paziente ha rilascio sfinterico
con perdita di feci ed incontinenza urinaria. Il paziente, dopo aver sollevato un peso
di 140 kg, avverte dolore ed una scossa a livello lombare e a gli arti inferiori, perde
urine e feci, e spaventato si presenta (probabilmente non è arrivato con le sue
gambe) in pronto soccorso. Dopo la RMN, in due ore di tempo, il paziente è già in
sala per essere operato. È una patologia trattata sia dall’ortopedico che dal
neurochirurgo.

Il professore cita due medici famosi per i loro studi sulle patologie della colonna vertebrale. Il primo nel 2014,
durante una lettura, esordì dicendo che non conosciamo la causa dell’80% delle lombalgie. Il secondo medico,
il prof. Negrini, afferma che la lombalgia cronica è un disturbo bio-psico-sociale.

Non è semplice comprendere la causa di un dolore a livello della colonna vertebrale, conoscendo tutte le
strutture presenti a livello del dorso. Ciascuna vertebra è coinvolta in tre articolazioni (le articolazioni
intervertebrali e l’articolazione interapofisaria), il muscolo trapezio si estende dalla nuca fino a T12,
ricoprendo numerosi altri muscoli e legamenti e vi sono delle strutture nervose assai importanti.

2.1 Richiami anatomici


A livello cervicale le radici nervose superiori danno origine al plesso brachiale, da cui originano poi i nervi
mediano, radiale, ulnare, l’ascellare (o circonflesso, che innerva il deltoide). Una lesione a carico del nervo
ascellare si può verificare anche in caso di:
1) sindrome di Parsonage Turner: detta anche amiotrofia nevralgica, si caratterizza per la comparsa
improvvisa di dolore acuto agli arti superiori, seguita da rapida debolezza, atrofia motoria
multifocale; si tratta di un quadro a lenta remissione
2) lussazione della spalla: può dare lesione del nervo ascellare anch’essa in grado di provocare quindi
una sintomatologia dolorosa e paralisi transitoria.
Viene fatto un rapido accenno alla funzionalità del plesso brachiale. Poiché si consiglia un ripasso
dell’anatomia, riporto un estratto schematico delle lezioni del mitico prof. Lonati.

Il plesso brachiale origina dalle radici nervose che vanno da C5 a T1, a cui si aggiungono alcune fibre provenienti da
C4 e da T2, dando origine a tre tronchi primari (sovraclaveari):
- tronco superiore (costituito da fibre provenienti da C4, C5 e C6);
- tronco medio (costituito da fibre di C7);
- tronco inferiore (costituito da fibre provenienti da C8, T1 e T2);

Da questi prendono origine i tronchi secondari (sottoclaveari):


1. Tronco secondario posteriore, da cui nascono:
a. il n. ascellare (C5, C6): innerva il m. deltoide e il m. piccolo rotondo;
b. il n. radiale (C5, C6, C7, C8 e T1): innerva muscoli e cute della loggia posteriore di braccio (m. tricipite)
e avambraccio (m. estensori). Un danno a questo livello determina la “mano cadente”.

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2. Tronco secondario laterale, da cui si dipartono fibre che vanno a costituire:
a. il n. muscolocutaneo (C5, C6, C7): nervo misto che innerva i muscoli della loggia anteriore del braccio
(bicipite brachiale, coraco-brachiale e brachiale, ovvero i flessori);
b. il n. mediano (C6, C7, C8, T1): nervo misto che innerva i muscoli della loggia anteriore dell’avambraccio,
i muscoli dell’eminenza tenar e i flessori di secondo, terzo e metà quarto dito della mano.

3. Tronco secondario mediale, da cui si staccano fibre che costituiscono:


a. il n. mediano (il quale risulta, dunque, originato da una radice mediale e da una laterale);
b. il n. ulnare (C7, C8, T1), il nervo bastardo che fa bestemmiare quando sbattiamo il gomito e sentiamo
la scossa: nervo misto che innerva due muscoli della loggia anteriore dell’avambraccio (flessore ulnare
del carpo + porzione mediale del flessore profondo delle dita) e gran parte della muscolatura intrinseca
della mano;
c. i n. cutaneo mediale del braccio (T1) e dell’avambraccio (C8, T1).

In generale problematiche a questo livello sono facilmente approcciabili dal punto di vista clinico, poiché si
può valutare la funzionalità dei muscoli e quindi indirettamente dei nervi in maniera precisa.

A livello toracico dal midollo spinale originano i nervi intercostali, assai difficoltosi da valutare clinicamente
poiché poco obiettivabili.

A livello lombosacrale, regione più facile da


valutare clinicamente rispetto alla regione
dorsale (toracica), l’omonimo plesso dà origine
a due nervi importanti: il n. sciatico (che innerva
soprattutto i muscoli della loggia posteriore) e il
n. femorale (che innerva soprattutto i muscoli
della loggia anteriore).

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Le vertebre presentano delle caratteristiche costanti lungo tutta la colonna e delle peculiarità legate alla loro
localizzazione. Una vertebra “classica” presenta le seguenti strutture:
- corpo vertebrale (o soma): localizzato anteriormente, ha uno spessore progressivamente crescente
in senso cranio caudale;
- peduncoli: localizzati a lato del corpo vertebrale, uniscono il coro alla parte postero-laterale delle
vertebre;
- canale vertebrale: localizzato al centro dei due peduncoli, contiene il midollo spinale, da cui si
staccano le corna anteriori (motorie) e dorsali (sensitive);
- tra due vertebre si viene a creare il foro di coniugazione, attraverso cui passa la radice spinale;
- processi trasversi, localizzati postero-lateralmente al canale vertebrale;
- processo spinoso: processo singolo lungo il piano sagittale mediano, localizzato posteriormente;
- lamina vertebrale;
- processi articolari (faccette articolari): due superiori e due inferiori, permettono l’articolazione tra le
vertebre.
Il professore prende in considerazione una vertebra toracica e sottolinea la presenza delle faccette articolari
per le coste, localizzate sia a livello dei processi trasversi sia a livello del corpo vertebrale. T11 e T12 non
presentano faccette articolari per le coste sui processi trasversi. T4, invece, presenta un corpo vertebrale
romantico: è a forma di cuore.

Tra i corpi vertebrali si trova il disco intervertebrale, che può essere considerato come una sorta di cartilagine
articolare. Una sua degenerazione è chiamata spondiloartrosi.

Il segmento di moto è costituito, dunque, da soma-disco-soma.

Il nervo seno-vertebrale di Luschka è un piccolo nervo sensitivo e propriocettivo che,


distaccandosi bilateralmente da ciascun nervo spinale subito al di fuori del foro di
coniugazione, penetra in esso e si distribuisce alle strutture del canale vertebrale (in
particolare al legamento longitudinale posteriore, alla superficie del disco e alla
capsula delle articolazioni apofisarie). Il dolore prodotto dalla stimolazione meccanica
nervosa e dalla conseguente flogosi locale è causa di spasmo muscolare riflesso, per
impulsi che giungono ai muscoli paravertebrali attraverso la branca laterale dei rami
spinali posteriori. Ogni qualvolta che è interessato uno di questi nervi, si ha lombalgia.

È chiaro quindi che qualunque elemento che va ad interessare le radici nervose, determina una
sintomatologia dolorosa (lombosciatalgia o crurosciatalgia, a seconda delle radici interessate).

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2.2 Lombalgia

Per lombalgia si intende quella “sintomatologia dolorosa limitata alla regione lombare espressione di un
qualsiasi processo morboso che colpisce le strutture osteofibrose del rachide lombare”.

2.2.1 Clinica
La lombalgia si presenta con:
➢ dolore spontaneo o provocato
➢ contrattura delle masse muscolari paravertebrali
➢ rigidità del tronco

Si dividono in:
• forme acute: si verificano dopo uno sforzo fisico e il dolore è esacerbato da starnuti o colpi di tosse.
Generalmente durano meno di 6 mesi;
• forme croniche: possono o meno derivare dalle acute e durano più di 6 mesi.

2.2.2 Fisiopatologia
Il dolore è espressione clinica dell’irritazione o compressione dei filuzzi nervosi del nervo seno-ricorrente di
Luschka.
Fino agli anni ’80, questi nervi sono stati attentamente considerati e relazionati alla lombalgia: l’utilizzo di
anestetici locali a questo livello, effettivamente, determina una regressione del dolore. Tuttavia, oggi la
teoria che vede il coinvolgimento di questi nervi come primum movens della lombalgia sembra essere meno
accreditata.

2.2.3 Eziologia
Sebbene nell’80% dei casi si tratti di forme idiopatiche, in generale le cause più comuni sono:

● protrusione distale dell’anello fibroso (facilmente valutabile all’imaging);


● artrosi (caratterizzata a livello radiografico dal restringimento della rima
articolare, osteofiti, sclerosi sottocondrale e cavità geodiche): in particolare la
presenza di osteofiti può chiudere parzialmente il forame di coniugazione,
comprimendo la radice spinale;
● ernia del disco;
● anomalie congenite (patologie di nicchia), come gli
emispondili, determinati da agenesia di metà vertebra
(trasversale o sagittale) che causano curvature
anomale o di compenso e quindi i relativi problemi per
aumento tensione di alcuni muscoli e rilassamento
eccessivo di altri;

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● Patologie acquisite che danno problemi nelle curvature1:
- gravidanza (l’86% delle gravide ha lombalgia): i legamenti (longitudinale anteriore e
posteriore, interspinoso e sopraspinoso), secondariamente ad alterazioni degli equilibri
ormonali, divengono più lassi in preparazione al parto, generando un’instabilità della
colonna. In preparazione al parto si ha anche un aumento del diametro a livello del bacino,
minor resistenza dei legamenti a livello della sinfisi pubica e sacroiliaca;
- obesità;
- scoliosi;
- ipocinesie;
● Processi infettivi come la TBC ossea, poiché la TBC ha spiccato tropismo per le vertebre. Gli Spedali
Civili accolgono circa 20 pazienti a settimana nell’ambulatorio apposito.
Il professore racconta di un’operazione di ernia discale ad un ragazzo, in cui ha trovato materiale
verde all’interno dell’ernia: si trattava di discite tubercolare. In reparto si verificano almeno 10 casi
all’anno di spondilodiscite tubercolare.
● Osteopatie metaboliche (osteodistrofie renali, morbo di Paget);
● Tumori, a volte benigni ma più spesso maligni: si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di
metastasi (rapporto 100:1) provenienti da carcinomi primari localizzati alla mammella, al polmone,
al colon e alla prostata).

Nel caso in cui la causa sia evidenziabile, l’obiettivo non è focalizzato a trattare la lombalgia in sé, ma
piuttosto a cercare di risolvere la causa che l’ha determinata.

In caso di TBC ossea si imposta una terapia medica contro TBC associata ad un drenaggio intracanalare ed
eventuale laminectomia.
In caso di processo tumorale, la terapia varia in base all’origine del tumore:
➢ per i primitivi si opta per un approccio abbastanza aggressivo consistente in una vertebrectomia
totale. L’operazione dura circa 10h con approcci combinati anteriori e posteriori in cui il paziente ha
perdite ematiche importanti (anche 8L di sangue). Si esegue in pochi centri (in Italia al Rizzoli di
Bologna);
➢ per tumori secondari dipende dal numero di localizzazioni:
- se vi sono più localizzazioni si fa radioterapia, a volte associata a vertebro/cifoplastica, con
iniezione di cemento per stabilizzare la vertebra fratturata;
- se invece è interessata solo una vertebra e null’altro, l’approccio è ancora di vertebrectomia.

2.3 Lombosciatalgia

Sindrome dolorosa che dalla regione lombo-sacrale si irradia con distribuzione radicolare all’arto inferiore,
nel territorio del nervo sciatico, i cui fasci nervosi derivano dalle radici di L5,S1,S2,S3,S4.
Le cause possono essere:
● Ernia del disco;
● Artrosi, di solito intersomatica (fra due somi vertebrali) e spesso associata ad un’artrosi dei forami
di coniugazione con stenosi canalare del lume vertebrale. Si ha ipertrofia delle apofisi articolari e dei
somi a causa della presenza degli osteofiti;

1
Fisiologicamente la colonna vertebrale presenta una lordosi a livello cervicale e lombare ed una cifosi a livello
toracico. Le alterazioni di queste curve possono essere transitorie

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● Spondilolisi/spondilolistesi2: lo scivolamento di una vertebra sull’altra determina un sovvertimento
anatomico del forame di coniugazione, causando una compressione delle fibre nervose. Si tratta di
patologie comuni (3% della popolazione) e spesso congenite:
a. Forme congenite: non si ha completa fusione fra la parte posteriore e anteriore di una
vertebra determinando uno scivolamento della vertebra.
b. Forme acquisite: si tratta solitamente di eventi cronici che si sviluppano in pazienti
predisposti, secondariamente a microtraumi. È il caso di tuffatori e ginnasti, i quali
presentano un rischio del 20% di sviluppare questa patologie. Si viene a costituire lisi da
stress dell’istmo, a causa di stress ripetuti in iperestensione.

In base all’entità dello scivolamento vertebrale possiamo avere o una compressione della cauda
equina o delle radici nervose e stiramento delle radici stesse, contribuendo all’insorgenza di una
sintomatologia dolorosa periferica.

● Tumori, fra cui il gigantocellulare (di per sé benigno) o la ciste aneurismatica (tumore primitivo
trattato con svuotamento della cisti).

2.4 Lombocruralgia

Quando si ha compressione di L3-L4, si ha lombocruralgia caratterizzata da un dolore localizzato nella parte


anteriore della coscia (a differenza della lombosciatalgia che è caratterizzata da un dolore posteriore).
Si possono avere problemi nella diagnosi differenziale della lombocruralgia/cruralgia, perché il dolore
all’inguine può essere dato molto più spesso da:
● patologie dell’anca, più comune nei pazienti anziani;
● ernia inguinale in professionisti sportivi di alto livello; si tratta di ernie “subdole” di difficile diagnosi
a cui ci si dovrebbe approcciare con un’ecografia in ortostasi con ponzamento poiché in clinostatismo
l’ernia non è spesso visibile. Questi pazienti di solito hanno ernie piccole ma, dal momento che sono
molto attivi, possono essere più soggetti a dolore/fastidio. Con un intervento abbastanza banale, si
ha la risoluzione del problema;
● Pubalgia.

2
La spondilolistesi è la sublussazione delle vertebre lombari, che si verifica di solito nell'adolescenza. Deriva
generalmente da un difetto congenito nella pars interarticularis (spondilolisi). Generalmente coinvolge le vertebre L3-
L4, L4-L5 e L5-S1. (da msdmanuals.com)

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2.5 Ernia del disco

L’ernia del disco rappresenta, insieme alla stenosi lombare su base artrosica, la causa più comune di
lombosciatalgia e/o lombocruralgia.
È una patologia del giovane (30-50 anni), di solito si presenta in forma acuta dovuta al sollevamento di carichi
molto elevati oppure a posizioni non adeguate quando si sollevano dei carichi.

Riporto la definizione di msdmanuals, decisamente più esaustiva della spiegazione impacciata del prof.:
L'ernia del nucleo polposo consiste nel prolasso dell'area centrale di un disco intervertebrale attraverso una
lacerazione dell'anulus fibroso circostante. La lacerazione provoca dolore; quando il disco spinge contro una radice
nervosa adiacente, si produce una radicolopatia segmentaria con parestesie e ipostenia nel territorio di distribuzione
delle radici coinvolte.

2.5.1 Fisiopatologia
Il disco intervertebrale è costituito da un nucleo polposo che ha una struttura molto simile a quella della
cartilagine articolare (molto idratata) ed esternamente da un anello
fibroso (anulus) di consistenza più dura. Il disco intervertebrale, oltre a
permettere l’articolazione tra i corpi vertebrali, assorbe e distribuisce in
maniera uniforme le forze applicare sulla colonna vertebrale e aumenta i
gradi di libertà della colonna.
Nel momento in cui il nucleo polposo vince la resistenza offerta dall’anulus,
fuoriesce e prende contatto con le radici nervose (L5 e S1 in csdo fi
lombosciatalgia, L4 in caso di lombocruralgia). Questo può verificarsi per
un processo degenerativo-fibrotico a carico dell’anulus (che diviene più
rigifo) oppure in caso di pressione eccessiva a livello del nucleo polposo.

2.5.2 Red flags e clinica


Esistono dei criteri, definiti “semafori rossi o red flags”, che permettono di capire l’entità dell’ernia e,
dunque, l’eventuale necessità di ricovero. Questi sono:
1) sindrome della cauda equina: paziente con incontinenza urinaria e fecale, anestesia a sella a livello
perineale, ipostenia bilaterale degli arti inferiori. È un’urgenza medica che richiede trattamento
rapido, entro le 24/48 h. Si tratta molto spesso di quadri drammatici, in quanto coinvolgono pazienti
giovani che si presentano in pronto soccorso terrorizzati.
2) deficit neurologico motorio esteso e/o progressivo: è importante trattare questi pazienti perché il
deficit nervoso nel cronico si riflette in ipotrofia muscolare, a causa del mancato utilizzo della
muscolatura. Se il paziente ha una compressione che dà paralisi, è importante intervenire il prima
possibile: si ha un recupero ottimale se la decompressione viene fatta entro un mese dall’evento,
altrimenti il recupero sarà più difficoltoso.

Il paziente si presenta molto sofferente con una curvatura anomala del busto, lamentando lombalgia e
impotenza/limitazione funzionale. Si associano anche i sintomi di radicolopatia sciatica o crurale.

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Il dolore è aggravato da:
• attività generiche e specifiche
• piegarsi lateralmente, chinarsi
• tossire, starnutire, manovre di torchio addominale
• sedersi poltrona, auto (sciatalgia)

Al contrario, il dolore è alleviato da:


• riposo, posizione supina con anche e ginocchia flesse;
• dormire in posizione supina con cuscino sotto ginocchia o in decubito laterale in posizione fetale;
• stare in piedi e camminare.

Il dolore in queste patologie ha una doppia genesi, una meccanica ed una biochimica (dovuta alla presenza
di citochine e cellule dell’infiammazione in corrispondenza dei nervi coinvolti nella patologia). Alcune
terapie, infatti, non migliorano la sintomatologia del paziente proprio perché non curano anche la
componente biochimica.

2.5.3 Esame obiettivo


L’esame obiettivo è molto importante, in pronto soccorso viene svolto rapidamente.
Per valutare L5 e S1 si eseguono le manovre di:

● Lasegue: flessione dell’anca con ginocchio esteso che evoca un dolore


posteriore, lungo il decorso del nervo sciatico. Si quantifica in base ai gradi
(per esempio: Lasegue positivo a 20°) e si considera negativo sopra i 60°.
Più è basso il grado di Lasegue più è grave la patologia.

● White-Panjabi: Lasegue con flessione dorsale del piede; questa manovra


provoca un maggior stiramento dello sciatico.

● Lasegue crociato: sollevando l’arto controlaterale rispetto a quello


malato, si evoca dolore. La positività di questo test testimonia una gravità
maggiore del quadro clinico.

Per valutare L4:

● Test o segno di Wasserman, detto anche Lasegue inverso: paziente


prono a cui si estende l’anca. Il paziente manifesterà dolore
anteriormente (si quantifica in gradi, di solito 5°/10°), con stiramento
del nervo crurale o femorale.

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Si possono valutare i riflessi osteo-tendinei:
- Per indagare la radice di S1 si evocano l’achilleo e il medio-plantare;
- Per indagare la radice di L5 esistono i riflessi adduttori; tuttavia, essendo molto difficili da
evocare, non vengono valutati;
- Per indagare la radice di L4 viene valutato il riflesso rotuleo.

I riflessi possono essere aumentati, diminuiti, assenti oppure possono provocare delle scosse cloniche.

Infine, si valutano possibili deficit motori periferici chiedendo al paziente di:


- camminare sulle punte dei piedi, osservando la forza dei muscoli della loggia posteriore del
polpaccio (tricipite surale); in questo modo si ricercano problemi a livello della radice di S1;
- camminare sui talloni in questo modo si osservano eventuali deficit dei muscoli della loggia
anteriore della gamba (L5). In alcuni casi è possibile valutare anche il muscolo estensore
dell’alluce (paziente supino): si può presentare un deficit anche in quei pazienti che prima erano
riusciti a camminare sui talloni, in quanto in caso di deficit delle radici nervose il muscolo
estensore dell’alluce è uno dei primi a risentirne.

- fare qualche passo con le gambe leggermente flesse, in quanto L4 innerva il muscolo quadricipite
(importante nei pazienti che soffrono di cruralgia).

L’esame obiettivo per queste patologie è molto sensibile ed è in grado di dare informazioni diagnostiche
molto precise. È difficile sbagliare.

È importante valutare anche l’eventuale compromissione sensitiva, generata dalla compressione radicolare
(si consiglia di osservare i dermatomeri evidenziati nell’immagine).

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Per fare diagnosi differenziale con problemi a livello dell’articolazione sacro-iliaca e coxo-femorale, si utilizza
il test di Patrick (o test di Faber).

Il Faber Test per la valutazione dell’anca, è evocativo del dolore a livello


dell’articolazione sacro-iliaca o della sinfisi pubica, quando è presente una
problematica muscolare, capsuo-legamentosa o ossea dell’articolazione
dell’anca. Il Test si esegue portando l’articolazione dell’anca in Flessione,
Abduzione ed ExtraRotazione (da cui il nome del Test F. AB. ER.)].
Se si ha un dolore dal lato opposto si può sospettare un problema di tipo infiammatorio (come una sacro-
ileite)

2.5.4 Esami strumentali, classificazione morfologica e topografica


Il gold standard per la diagnosi di ernia del disco è la RM (TC e RX possono essere usati per la DD), in quanto
permette di studiare i vari tipi di ernia.

In base alle immagini è possibile classificare le ernie dal punto di vista morfologico in:
1) protrusione: il nucleo polposo è ancora in sede e spinge l’anello fibroso che, erniando, può
comprimere le radici nervose;
2) ernia contenuta: il nucleo polposo ernia nel canale;
3) Ernia espulsa: si ha una vera e propria fuoriuscita del frammento erniario, che frammenta il
legamento longitudinale posteriore;
4) Ernia migrata: in cui il frammento si porta verso l’alto o verso il basso.

In caso di assenza di deficit motori o neurologici (red flags), le tipologie di ernia con prognosi migliore sono
l’ernia espulsa e migrata (specialmente quest’ultima). Perdendo contatto con l’anulus, infatti, vengono
riassorbite nell’arco di 5 mesi circa, in quanto perdono l’apporto di sostanze nutritive.
La presenza/assenza di deficit neurologici dipende principalmente dalla direzione dell’ernia e da motivi
anatomici: un peduncolo breve a livello del canale vertebrale predispone a sintomi importanti anche in
presenza di piccole ernie.

Esiste anche una classificazione topografica in cui si osserva:


1) ernie postero-laterali (80%): l’ernia si porta postero-lateralmente e comprime la radice nervosa della
vertebra inferiore interessata (es. ernia L5-S1 compressione di S1);
2) ernie intraforaminali: erniano nel canale vertebrale, che è un posto stretto; anche piccole ernie
danno compressioni importanti. Solitamente comprimono il nervo della vertebra superiore (es. ernia
L5-S1 comprime L5);
3) ernie mediane: sono più tollerate; per esempio, quando spingono sulla cauda equina, non
comprimono le radici dei nervi (le quali si trovano in posizione laterale), dando una sintomatologia
più blanda;

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4) extraforaminali (5%): sono rare e piuttosto fastidiose. Sono ernie molto laterali, colpiscono la radice
superiore.

[il professore mostra delle RM con i vari tipi di ernie appena spiegate]

2.5.5 Trattamento dell’ernia


La presenza di red flags rende necessario il ricovero del paziente. Viene successivamente impostata una
terapia cortisonica per un paio di giorni ed eseguita una RM. Lo stato del deficit neurologico determina la
linea d’intervento:
- Se ci sono miglioramenti, si può pensare ad un trattamento conservativo;
- se il paziente non migliora si pensa ad un trattamento chirurgico.

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Il trattamento chirurgico consiste in una discectomia, un
trattamento con evidenza di classe I. Si scheletrizzano i
legamenti sovrastanti e sottostanti l’ernia, si rimuove il
legamento giallo e, in base al segmento interessato, si valuta se
eliminare una porzione di osso (su L5-S1 normalmente non
serve). Individuate la dura madre e le radici nervose compresse,
si rimuove l’ernia e si richiude. Questo intervento può essere
fatto anche in microdiscectomia (si attuano incisioni di 2 cm
circa, grazie a microscopi intraoperatori o occhialini
ingranditori), intervento con la medesima classe di evidenza (I).
La tecnica mini-invasiva offre un post-operatorio migliore: si torna a casa in seconda giornata senza busto.
Esiste, inoltre, la possibilità di fare discectomia per via endoscopica con incisioni di circa 5 mm (una sorta di
artroscopia). I costi sono decisamente maggiori e in Italia, dove siamo tutti t-rex, è ancora poco usata.

Altri approcci mini invasivi esistono ma non hanno alcun livello di evidenza. Si usavano per i pazienti che
avevano protrusioni sintomatiche con guida fluoroscopica e anestesia locale. Usando radiofrequenze e delle
piccole pinze, si asportavano piccoli frammenti di materiale discale.
Rivalutando 60 casi operati mediante la seguente procedura, il professore dice di aver ottenuto una riduzione
sulla scala del dolore di circa 4 punti di media, risultato che definisce non essere molto soddisfacente (con
l’approccio classico di solito il paziente sta molto meglio, il risultato è immediato e significativo). Si parla
quindi di evidenza di classe IV: solo alcuni studi “case series”, non randomizzati né controllati.
Per creare un danno a livello della protrusione si utilizzano:

1. Sostanze chimiche:
a. Chimopapaina: enzima digestivo che digerisce il disco vertebrale. Usata negli anni ’70, era l’unica
che aveva dato evidenze (classe II). Ora non si usa più a causa del riscontro di alcuni casi di
aracnoiditi chimiche (oltre a digerire il disco intervertebrale, si era verificata un’irritazione
meningea: NOT STONKS);
b. Ozono;
c. Etanolo (effetto disidratante);
d. Steroidi (effetto antiedemigeno);
e. Pozioni magiche, cioè di tutto (gel, oli, cellule staminali…).

2. Approccio meccanico:
a. Discectomia percutanea automatizzata: fatta in anestesia locale, consiste in una
frammentazione e aspirazione del nucleo polposo e delle ernie contenute, attraverso minime
incisioni cutanee (<3-5 mm), che consentono di inserire cannule e strumenti sotto controllo
radioscopico. Il difetto di questa pratica è che interviene solo in senso meccanico, senza quindi
ripulire dall’infiammazione la lesione. Tutti gli approcci di natura meccanica hanno dato evidenze
solamente di classe IV.

3. Stimoli elettrici (EDET, coablazione, laser, radiofrequenze, risonanza quantica molecolare)

Dai dati di Cochraine Library emerge che l’evidenza dell’efficacia della chirurgia mininvasiva per il trattamento
lombare è poco chiara, non è una cura da raccomandare. Le linee guida sono quindi basate su discectomia
standard o microdiscectomia con divaricatore.

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Secondo le linee guida i pz da non operare necessitano di una terapia che può consistere in:
● Cortisone, che ha effetto anti-edemigeno sulla radice nervosa (essendo irritata/compressa, tende a
dare edema). È il trattamento per eccellenza per una radicolopatia che non ha deficit neurologici
periferici;
● Riposo (massimo 48h, non di più perché l’allettamento prolungato è causa di rallentamento nel
recupero);
● FANS o altri antalgici;
● Farmaci decontratturanti (ciclicamente richiamati come farmaci importanti, va un po’ a discrezione
del medico);
● Manipolazioni vertebrali secondo Maigne (presenti nelle linee guida del 2009), che devono essere
fatte esclusivamente da personale medico. Nemmeno i fisioterapisti o gli osteopati (o qualsiasi altro
mago, cit.) sono abilitati a farle, pena il rischio di complicanze (soprattutto trombosi a livello cervicali
o dissecazioni delle carotidi). La scuola di Maigne prevede che le manipolazioni possano essere
eseguite esclusivamente da un medico o da uno specialista laureato in Medicina e Chirurgia per
evitare complicanze;
Es: se uno è affetto da artrite reumatoide, il medico sa che avrà instabilità a livello dell’atlante; i maghi
e gli osteopati no.
● Massaggi;
● Rieducazione muscolare (Vuol dire tutto e nulla. Ci sono due grosse scuole: protocollo Mesier e
Mackenzie. Uno lavora in estensione e uno in flessione, ma entrambi sembrano portare benefici di
fronte ad un quadro di sofferenza). Non è però chiaro come funzioni di preciso;
● L’attività fisica aerobica, che ha grossi benefici sulla componente antalgica per una questione di
endorfine.

Tutto questo in pz che ovviamente non hanno deficit neurologici periferici.

2.6 Stenosi vertebrale

È una patologia del paziente di età compresa tra i 50 ed i 70 anni in cui i ha un’abnorme ristrettezza del canale
vertebrale (dovuta alla presenza di osteofiti sia sul corpo vertebrale che sulle faccette articolari) responsabile
della compressione del sacco o delle radici nervose. Il professore mostra un’immagine in cui si evidenzia una
stenosi definita ‘molle’ poiché si vede un’ipertrofia del legamento giallo che occupa il canale; si possono avere
anche stenosi ‘dure’ quando c’è ipertrofia ossea.

2.6.1 Epidemiologia
La stenosi è la patologia che più comunemente colpisce il rachide cervicale dopo i 55 anni ed è la causa più
frequente di chirurgia sul rachide dopo i 65 anni. Nel complesso costituisce il 10-12% di tutte le lombalgie.
Il tratto più comunemente colpito è quello compreso tra C4 e C8.

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2.6.2 Fisiopatologia
La disidratazione del disco, il quale perde la sua funzione di ammortizzazione, e la
degenerazione dell’articolazione posteriore porta alla degenerazione del complesso delle
tre articolazioni presenti a livello vertebrale. L’instabilità che ne deriva, associata alla
deformazione morfologica delle faccette articolari, può generare una spondilolistesi
degenerativa.
La stenosi del canale midollare non va confusa con l’ernia, in quanto il disco si sposta posteriormente
schiacciato dalle vertebre superiormente e inferiormente.

Il nostro organismo mette in atto dei meccanismi di compenso per far fronte all’instabilità instauratasi,
innescando un processo di fibrosi del complesso nucleo-anulus e la formazione di osteofiti. La stabilità
meccanica viene raggiunta, dunque, a spese del canale midollare, il quale diviene stenotico.

Il professore sottolinea come l’età sia un criterio anamnestico fondamentale per la diagnosi differenziale con
l’ernia: generalmente l’ernia del disco interessa i pazienti giovani, mentre la stenosi pazienti ultrasessantenni.

2.6.3 Classificazione
Dal punto di vista eziologico si distinguono forme congenite, forme acquisite e forme miste:
- La stenosi congenita è caratterizzata dalla presenza di peduncoli più brevi: anche una piccola
componente degenerativa può innescare la patologia. Può essere presente in un contesto
sindromico, come nell’acondroplasia
- Nella maggior parte dei casi le stenosi lombari sono forme di tipo acquisito di tipo misto
costituzionale evolutivo (ovvero pazienti che già di loro presentano dei peduncoli vertebrali più
brevi).

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Le stenosi possono essere classificate anche dal punto di vista anatomico in stenosi centrali e periferiche:
- la stenosi centrale comunemente avviene a livello del disco intervertebrale, è determinata da
ipertrofia del legamento giallo, osteofitosi del piatto vertebrale, ipertrofia delle faccette
articolari, protrusioni /ernie discali;
- la stenosi laterale è definita come il restringimento (meno di 3-4 mm) dello spazio tra il processo
articolare superiore (SAP) e il margine vertebrale posteriore. È determinata dall’ipertrofia e
osteofitosi delle faccette articolari, protrusione / ernia discale.

Un esempio particolare di stenosi è la stenosi laterale dinamica: è una stenosi che si


verifica nella parte laterale (parte foraminale) soltanto quando si va in iperestensione.
Tali forme vengono trattate con space devicer.

2.6.4 Clinica
Si hanno differenti quadri clinici in base alla localizzazione e all’entità della stenosi:
➢ A livello cervicale e toracico determina una mielopatia per compressione del midollo spinale, che
può irradiarsi e dare una sintomatologia diffusa anche agli arti inferiori.
➢ A livello lombosacrale determina la presenza di una claudicatio neurogena e/o dolore radicolare.

L’insorgenza della sintomatologia radicolare è per lo più graduale: la durata dei sintomi periferici al momento
della diagnosi è superiore ai 6 mesi nel 90% dei casi
Le monoradicolopatie continue sono simili a quelle che si osservano per ernia discale, tuttavia l’insorgenza è
lenta, le manovre da stiramento radicolare sono negative o debolmente positive ed il dolore è esacerbato
dalla estensione del rachide piuttosto che dalla flessione (da slide).

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➢ Mielopatia cervicale (da slide)
La mielopatia si definisce come una sindrome clinica, riconducibile ad una lesione del midollo spinale, che
presenta segni quali la paralisi spastica, l’assenza di sensibilità al di sotto della lesione e segni di lesione di
tipo periferico (per interessamento delle corna anteriori) definiti come segni “sottolesionali di tipo centrale”.
La sintomatologia varia in base alla sede della lesione midollare

A livello degli arti superiori si ha:


• Perdita di forza agli arti superiori
• Riduzione della destrezza nell’uso delle mani
• Iporeflessia delle radici interessate
• Ipereflessia delle radici sottostanti la stenosi
• Parestesie mono/bilatrali degli arti superiori
• Lhermitte's sign +

A livello degli arti Inferiori:


• Alterazioni della deambulazione-atassia
• Iperreflessia
• Parestesie agli arti inferiori
• Spasmi muscolari

➢ Claudicatio neurogena
Il paziente lamenta un dolore simile a quello della claudicatio intermittens di origine vascolare: la
sintomatologia compare dopo un tratto di cammino (100, 200 m…), il paziente deve arrestarsi per far passare
il dolore e poi può riprendere a camminare. Si tratta, dunque, di un dolore che compare solo durante il
movimento, pertanto prima di fare l’esame obiettivo a questi pazienti bisogna chiedere loro di fare qualche
passo.

La claudicatio è dovuta alla compressione sia nervosa (che rende difficoltosa la propagazione dell’impulso)
sia venosa midollare (che favorisce un aumento di pressione all’interno del canale).

A riposo infatti viene comunque garantita l’irrorazione arteriosa delle strutture nervose; al contrario
l’esercizio fisico determina vasodilatazione che porta la pressione ad un livello critico impedendo un’adeguata
supplementazione di ossigeno e nutrienti: è qui che la stenosi si manifesta clinicamente.

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L’esame neurologico a riposo è assolutamente negativo.

Altro segno tipico è lo “shopping cart sign”: il paziente ha un miglioramento della sintomatologia quando è
flesso in avanti, in quanto questa posizione permette un’apertura del forame di coniugazione con una
compressione minore a livello delle radici nervose. Condizione analoga è andare in bicicletta, il paziente deve
mantenere una posizione flessa in avanti.

2.6.5 Diagnosi differenziale


Fondamentale distinguere una claudicatio neurogena da una claudicatio intermittens da arteriopatia
obliterante.

2.6.6 Trattamento
Il trattamento chirurgico consiste nella laminectomia (cioè rimozione delle lamine). Questa può essere
isolata o, se è presente anche stenosi serrata nel forame di coniugazione, sarà necessario cruentare le
faccette articolari (artrectomia). Poiché un’artrectomia produce un’instabilità della colonna, si utilizzano
barre e viti per creare stabilità.

In casi particolari si può procedere con una discectomia con successiva apposizione di una cage piena di osso
(gabbia anteriore) che va a ricreare l’altezza del disco. In questo modo anche il forame di coniugazione tende
a allargarsi, migliorando l’outcome.

Esempi di posizionamento delle gabbie

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Per le stenosi centrali si può fare un intervento di allargamento delle lamine, oggi poco utilizzato perché
troppo indaginoso. Qualora fosse presente un disturbo di angolazione della colonna (cifosi/lordosi), si
posiziona una gabbia anteriore al posto del disco.

Il professore tratta (molto velocemente, e inoltre gli audio non si sentono) l’artrosi cervicale.
Riporto le slides.

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Lezione 2 – parte 2 (Deformità della colonna vertebrale: scoliosi e cifosi)
Sbobinatore: S.G.
“Docente”: Zarattini

2.7 Scoliosi
[nds: le integrazioni, dove non segnalato, provengono dalla lezione del 2018, dato che l’anno scorso l’argomento non
è stato trattato. La sbobina è stata ottenuta a partire dalla slide fornite, commentate fino a circa un terzo delle stesse.
La restante parte della lezione è stata estrapolata dalle slide, opportunamente integrate. Segnalo comunque che il
professore si limita perlopiù a leggere le slide, spesso non soffermandosi neanche troppo e solo talvolta
commentandone il contenuto]

2.7.1 Definizioni
La scoliosi, in quanto deformità, è una delle principali patologie di interesse
dell’ortopedia, che è per definizione la correzione delle deformità. Vi sono
diverse definizioni di scoliosi, tra cui deviazione permanente, laterale e
rotatoria a carattere evolutivo del rachide. Consiste in una curvatura
vertebrale strutturata che non sparisce con movimenti come l’inclinazione
del bacino nè quando il soggetto si flette in avanti ed è sempre presente
una componente rotatoria. Questi dati fondamentali differenziano una
scoliosi da atteggiamento scoliotico.

La deformità della scoliosi è di tipo tridimensionale e coinvolge in diverso modo i tre


piani :
• Piano sagittale: iperestensione con alterazione delle curve fisiologiche e
avvicinamento delle apofisi spinose;
• Piano coronale: flessione laterale con avvicinamento dei processi trasversi
di alcune vertebre e formazione di curve;
• Piano assiale: rotazione dei metameri vertebrali.

Tutto ciò determina la deformazione sui tre piani dello spazio della conformazione
delle singole vertebre, dell’assetto del rachide, della morfologia del tronco (scapole,
coste, bacino…). Per spiegare l’alterata conformazione assunta dalla vertebra
ruotata viene utilizzata l’immagine del carretto del gelataio: dal lato della convessità
il peduncolo e la lamina sono allungati, viceversa dal lato della concavità sono
accorciati. La rotazione della vertebra toracica provoca inoltre lo spostamento
posteriore della costa inserita su di essa, con formazione di una prominenza
chiamata gibbo costale, conosciuto volgarmente come gobba.

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Con una seconda definizione, la scoliosi idiopatica è descritta come una deformità del rachide caratterizzata
da una o più deviazioni della colonna sul piano frontale con torsione vertebrale più accentuata a livello
dell’apice/i della curva/e e conseguente formazione di uno o più gibbi dalla parte della convessità di tali
deviazioni. Tale deformazione non reversibile è quasi sempre contraddistinta sul piano sagittale da
rettilineizzazione del rachide dorsale e da iperlordosizzazione o
rettilineizzazione del rachide lombare. Non esiste causa
conosciuta e certa di questa affezione. La scoliosi evolve in
peggioramento durante tutto il periodo della crescita e oltre un
certo grado di curvatura il peggioramento continua anche dopo
la maturità ossea, sia pure in maniera ridotta, da 0,5 a 2° Cobb
(vedi di seguito) ogni 5 anni.

Una terza definizione può essere estrapolata dai segni maggiori della scoliosi:
• Deviazione rachidea sul piano frontale;
• Torsione con rotazione vertebrale sul piano assiale e conseguente formazione di gibbosità;
• Tendenza al raddrizzamento delle fisiologiche curve sagittali a livello dorsale e lombare;
• Rigidità.

Una quarta definizione afferma che la scoliosi è una malattia della colonna vertebrale che dura tutta la vita.

2.7.2 Atteggiamento scoliotico


La scoliosi è da differenziare dall’atteggiamento scoliotico, che è una deviazione reversibile del rachide sul
piano frontale con scarsa o nulla componente di torsione sul piano assiale, con assenza di gibbosità, assenza
di rettilineizzazione delle curve sagittali e dove la causa può essere evidenziata.

Vengono mostrati numerosi esempi in cui


obiettivamente e radiograficamente vengono
osservati quadri con slivellamento di spalle o
scapole, curvatura della colonna vertebrale,
slivellamento del bacino, asimmetria dei triangoli
della taglia (triangolo formato tra braccio e fianco),
che non sono sufficienti per effettuare diagnosi di
scoliosi, che è essenzialmente clinica. Infatti,
facendo assumere ai pazienti una posizione di
bending, con tronco flesso, le deformità
scompaiono, evidenziando l’assenza di
strutturazione e il loro carattere reversibile, escludendo quindi la scoliosi. Questi soggetti hanno, infatti, un
atteggiamento scoliotico.

L’atteggiamento scoliotico può essere determinato da fattori statici e fattori posturali. Tra i fattori statici si
individuano:
• Asimmetria di lunghezza degli arti inferiori: esiti di trauma, deformità congenite (ipoplasia femorale
o tibiale, coxa vara), poliomielite, ecc. Una minima dismetria tra un arto e l’altro è fisiologica,
considerata normale fino ai 2 cm. Superati i 3 cm è considerata patologica in quanto può provocare
altre alterazioni;
• Emiipertrofia congenita;
• Bacino slivellato per cause muscolari: retrazioni o paresi asimmetriche (sedi più frequenti: ileopsoas,
quadrato dei lombi, flessori di ginocchio, tensore della fascia lata, glutei);

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• Retrazioni o paresi asimmetriche della muscolatura del rachide, a tutti i livelli (torcicollo miogeno);
• Asimmetria di peso o di funzione degli arti superiori (apparecchio gessato, paralisi ostetrica,
amputazione).

La postura è la posizione che il corpo assume per contrastare la forza di gravità in una situazione di riposo,
cioè alla fine di un movimento volontario o prima del suo inizio. È regolata principalmente dal sistema
extrapiramidale, che include nuclei e parti di varie strutture tra cui la corteccia cerebrale, i gangli della base,
il bulbo, la sostanza reticolare, integrati a vari livelli. Il mantenimento dell’equilibrio del corpo è affidato ad
una serie di riflessi, detti posturali, che mantengono la posizione eretta e provvedono ai continui
aggiustamenti necessari per la creazione di un solido sfondo posturale all’attività della muscolatura
volontaria. La postura è solo apparentemente una condizione statica, in quanto il suo mantenimento
comporta un lavoro neuromuscolare incessante, a seconda delle variazioni dell’ambiente esterno.
I fattori posturali possono contribuire allo sviluppo di un atteggiamento scoliotico, che risulta però riducibile
in decubito, in particolare in bending anteriore. Nell’atteggiamento scoliotico, radiograficamente si
evidenziano curve lunghe, ad ampio raggio, in assenza di rotazione vertebrale.

2.7.3 Classificazione scoliosi


Esistono diverse classificazioni per le scoliosi. Dal pinto di vista eziologico, le scoliosi vengono suddivise in
scoliosi strutturali e scoliosi non strutturali:

➢ Scoliosi strutturali:
o Idiopatica: sono multifattoriali e sicuramente hanno un substrato genetico. Sono stati
identificati geni che codificano per proteine della cartilagine metafisaria di accrescimento che
potrebbero essere correlati a queste forme di scoliosi, ma questa è ancora una teoria e non
si hanno ancora informazioni precise sull’alterazione del nucleo di ossificazione vertebrale a
livello della cartilagine dei piatti vertebrali;
o Neuro-muscolare;
o Congenita;
o Neurofibromatosi;
o Disordini mesenchimali;
o Malattia reumatica;
o Traumatismi;
o Contratture extra-vertebrali;
o Osteocondrodistrofie;
o Infezioni ossee;
o Disturbi metabolici;
o Correlate al passaggio lombo-sacrale;
o Tumori.

➢ Scoliosi non strutturali:


o Fattori psichici (scoliosi isterica);
o Scoliosi radicolari (ernia discale, tumori);
o Scoliosi antalgica (scoliosi riflessa, in caso di disturbo doloroso di organi interni);
o Scoliosi antalgica da dolore localizzato a strutture muscoloscheletriche.

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Altre classificazioni vengono utilizzate in base al tipo trattamento che si intende effettuare. La classificazione
di Ponseti, utilizzata al fine di un trattamento conservativo, prevede la distinzione in scoliosi lombare, dorso
lombare, combinata e dorsale.

In passato veniva utilizzata, in previsione di chirurgia, la classificazione di KING. Ha il limite di valutare solo la
proiezione anteroposteriore e non quella sagittale. Si distinguono 5 forme:
- KING 1: Curva doppia con predominanza lombare sinistra.
- KING 2: Curva doppia maggiore simmetrica.
- KING 3: Curva unica dorsale destra.
- KING 4: Curva lunga dorsolombare.
- KING 5: Curva toracica doppia di Moe.

Attualmente il gold standard per stabilire quale trattamento chirurgico eseguire è la classificazione di Lenke,
che considera anche il piano sagittale. La classificazione di Lenke in base alla tipologia di curva prevede 6 tipi
di curve (gss.it):
• LENKE 1: curva toracica singola, in cui esistono i sottotipi 1A-1B-1C;
• LENKE 2: doppia curva toracica, in cui esistono i sottotipi 2A-2B-2C;
• LENKE 3 : due curve principali strutturate;
• LENKE 4 : tre curve principali;
• LENKE 5: curva toracolombare/lombare;
• LENKE 6: curva toracolombare/lombare/toracica principale.

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La scoliosi può essere inoltre classificata a seconda dell’età di insorgenza. Scoliosi ad insorgenza più precoce
sono a prognosi peggiore in quanto la malattia ha più tempo per evolvere. Si distinguono:
• Scoliosi del neonato: 0-1 anno;
• Scoliosi infantile: da 1 a 3 anni;
• Scoliosi giovanile: da 4 anni al menarca o nel maschio, alla pubertà;
• Scoliosi dell’adolescenza: tra menarca o pubertà e la maturità ossea.

2.7.4 Epidemiologia
La scoliosi idiopatica interessa dal 2% al 10% della popolazione giovanile con una predilezione per il sesso
femminile che viene colpito in un rapporto 4-6:1 rispetto al maschile. Tale rapporto è in realtà falsato dal
fatto che nei maschi le curve sono spesso di lieve entità e quindi misconosciute a livello clinico perché
mascherate da masse muscolari più sviluppate rispetto alla controparte femminile.

2.7.5 Evolutività
La scoliosi è una malattia evolutiva che, soprattutto nei gradi non elevati, progredisce fino all’età dello
sviluppo, in genere 16 anni per le femmine, 18 per i maschi. In realtà la scoliosi ha un minimo peggioramento
progressivo anche durante l’età adulta, a causa di artrosi delle faccette articolari, discopatia, deformità
artrosica e osteoporotica della vertebra, con evolutività di tipo degenerativo soprattutto dopo i 65 anni.

L’evolutività in età pediatrica decresce passando dalle curve doppie maggiori (in riferimento alla
classificazione di Lenke) alle toraciche, alle toracolombari ed alle lombari. La stabilità in età adulta segue
l’ordine inverso: le forme doppie maggiori, che sono le più evolutive in età pediatrica, sono le più stabili in
età adulta, mentre le lombari, meno evolutive nell’infanzia, sono le più instabili in età adulta.

2.7.6 Diagnosi
È stata promossa dagli anni passati, al fine di effettuare una diagnosi precoce, la diffusione di depliant
informativi ai genitori in modo che quest’ultimi possano effettuare un’“autodiagnosi” e indirizzare al medico
il bambino potenzialmente affetto da scoliosi. Questi depliant invitano all’osservazione dell’eventuale
presenza di slivellamento di spalle e scapole, asimmetria dei triangoli della taglia, obliquità del bacino,

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gibbosità con tronco flesso, alterazione delle curve sul piano sagittale [nds: da qui le slide non sono più
commentate]. Inoltre essi promuovono comportamenti corretti riguardo la posizione seduta a scuola o
mentre si svolgono i compiti, l’uso dello zaino, il sollevamento dei pesi e il sonno.

Valutare un rachide deviato vuol dire innanzitutto saper distinguere una scoliosi strutturata da un
atteggiamento scoliotico. Se la scoliosi risulta vera, cioè strutturata, occorre distinguere tra scoliosi idiopatica
e scoliosi da causa nota. Qualora si riconosca una precisa eziologia, bisogna rivolgere l’attenzione alla malattia
che ne è la causa. In tutti i casi si pone il problema della prognosi.

Occorre inquadrare una scoliosi attraverso tutti i dati e i segni e stabilire


il livello di sorveglianza secondo i seguenti elementi di valutazione e
relativo punteggio (P. Viganò).

- Fino a 5 punti: non necessità di controlli a breve termine;


- 5-12 punti: controllo entro 12 mesi;
- 12-19 punti: situazione a rischio, quindi visita specialistica presso
ortopedico o fisiatra;
- Oltre 19 punti: invio pesso centro specializzato nel trattamento
delle scoliosi.

➢ Esame clinico
Nella maggior parte dei casi, un buon esame clinico, che consenta valutazioni qualitative e quantitative, può
validamente sostituire un eccesso di esami radiografici.

Il quadro clinico standard è subdolo, il paziente non presenta né dolore né compromissione delle condizioni
generali. Da qui l’importanza delle visite mediche in età prepubere, anche tenendo conto dell’evolutività tipica
della patologia. Il bambino è quindi asintomatico e solitamente non sono i genitori ad accorgersi che il figlio
ha una scoliosi, in quanto l’evoluzione è lenta, ma più tipicamente parenti, amici o allenatori.

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L’esame obiettivo di un paziente con scoliosi prevede:

• Sul piano frontale, valutazione dello slivellamento delle spalle e delle scapole, dell’asimmetria dei
triangoli della taglia (con il braccio addotto si nota che la parte dalla convessità della curvatura tende
ad essere più piccola, mentre controlateralmente il triangolo è più grande);

• Orizzontalità pelvica: si valuta anteriormente in base al


livello delle spine iliache antero-superiori e posteriormente
con l’uso degli indici o con una livella. L’antepulsione di un
emibacino è indicativa per torsione del bacino e si valuta in
posizione eretta. Il bacino, sul piano sagittale, viene
esaminato in posizione eretta per stabilire inoltre se sia
normoverso, antiverso o retroverso. Nel bacino
normoverso (figura 1) la linea tracciata dalle spine iliache
postero superiori è equidistante dalle linee orizzontali
tracciate dall’ombelico e dalle spine iliache antero
superiori. Nel bacino antiverso (figura 2) la prima distanza
diminuisce e la seconda aumenta, viceversa accade nel bacino retroverso (figura 3);

• Strapiombo (sbandamento laterale del tronco rispetto al piano del bacino dovuto ad una mancata
compensazione della colonna, nds): va valutato con filo a piombo fissato a C7 (paziente in stazione
eretta), misurando la distanza espressa in mm dal filo alla linea di simmetria (solco gluteo). Il gibbo
viene misurato con una livella da falegname ed un righello millimetrato. La misura della cifosi dorsale
si esegue con filo a piombo e righello per misurare la distanza da determinati processi spinosi;

• Valutazione strutturazione scoliosi: per valutare quanto una scoliosi sia


strutturata è opportuno far assumere al paziente la posizione di bending
anteriore diretto, che mette in evidenza il gibbo dorsale, e bending
anteriore+laterale verso la convessità della curva. Se il gibbo è invertito,
cioè si manifesta controlateralmente, il caso è poco strutturato; se il gibbo
scompare, ci si trova in una condizione intermedia; se il gibbo permane, il
caso è molto strutturato, con prognosi negativa;

• Asimmetria arti inferiori: misurazione diretta o indiretta con uso di rialzi


(tavolette) di compenso;

• Altezza del soggetto: misurata in piedi e in posizione seduta;

• Valutazione lassità legamentosa secondo Harrington;

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• Esame neurologico;

• Negli stadi molto avanzati ci possono essere problemi di insufficienza respiratoria (si effettua la
spirometria) o di insufficienza cardiaca per alterato ritorno venoso.

➢ Valutazione radiografica
Si effettua una teleradiografia, ossia una lastra unica del rachide dall’occipite al sacro in proiezione antero-
posteriore e latero-laterale. Generalmente la teleradiografia si effettua in carico con il paziente in piedi. Se si
prospetta la chirurgia, si effettuano proiezioni dinamiche in bending anteriore e bending laterale per vedere
se annullando la forza di alcuni muscoli la curvatura cambia.
La valutazione radiografica include:
• Misurazione del valore angolare di curve scoliotiche secondo Cobb: si tracciano due linee passanti
per il piatto superiore ed inferiore delle vertebre limitanti la curva e a queste le rispettive
perpendicolari. L'angolo che viene a formarsi è detto angolo di curvatura o angolo di Cobb (da
ilfisistra.it). Se l’angolo di Cobb è < 20° la scoliosi è lieve, se compreso tra 20° e 40° la scoliosi è
moderata, oltre i 40°-50° la scoliosi è grave.
• Misurazione dell’angolo ileolombare: angolo tra piatto inferiore di L4 e linea bisiliaca (nds);

• Valutazione della maturità scheletrica con il segno di Risser (nucleo di ossificazione della cresta iliaca).
Il risultato può variare da Risser 0 (non esiste nucleo di ossificazione) a Risser 5 (ossificazione completa
che si manifesta, in genere, 2-3 anni dopo la pubertà). I gradi sono così suddivisi:
• 1+ quando l'ossificazione è intorno al 25%;
• 2+ quando è intorno al 50%;
• 3+ intorno al 75%;
• 4+ per una ossificazione completa del tratto;
• 5+ per la completa fusione con l'ileo.
Fino a Risser 2 il rischio di peggioramento di una scoliosi idiopatica è del 50%, dopo Risser 2 Il rischio
si riduce al 20% (fisistriasicilia.it);

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• Valutazione radiografica della maturità scheletrica mediante l’ossificazione delle “ring apophysis”
(nuclei di ossificazione epifisari della vertebra, nds);

• Valutazione della rotazione osservando i peduncoli e il processo spinoso;


• Misurazione della rotazione vertebrale con il “torsiometro” di Perdriolle: consiste in un righello
trasparente su cui è stampata una griglia di riferimento che viene posizionata sulla radiografia. La
rotazione è individuata a partire dallo spostamento del peduncolo della vertebra apicale (vertebra
posta all’apice della curva dal lato della convessità, airpg.it);

• Curve sagittali:
o Cifosi dorsale: dal piatto superiore di D1 al piatto inferiore di D12 (valore medio circa 35°);
o Lordosi lombare: dal piatto superiore di L1 al piatto inferiore di L5 (valore medio circa 40°);
o L’angolo della tangente al piatto sacrale sull’orizzontale varia mediamente da 15° a 30°.

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2.7.7 Prognosi
Occorre evitare sia l’accanimento terapeutico sia l’astensione da ogni terapia, entrambi spesso alla base di
errori. Un buon indice prognostico è il punteggio calcolato per stabilire il livello di sorveglianza (vedi tabella
precedente). L’entità del gibbo sembra essere il maggiore indicatore negativo di prognosi, così come la
presenza di una gibbosità rigida strutturata.

Fattori prognostici negativi:


• Valore angolare Cobb elevato, >20°, alla prima osservazione (indice di progressione rapida);
• Gibbosità: valore assoluto, rigidità e persistenza;
• Gibbosità dorsale: valore in mm > valore angolo Cobb;
• Gibbosità lombare: valore in mm > metà valore angolo Cobb;
• Differenza < 10% nel valore angolare Cobb di una curva tra radiografia in ortostasi e radiografia in
posizione supina;
• Rigidità, strutturazione;
• Angolo ileo-lombare elevato;
• Strapiombo del tronco;
• Sesso femminile;
• Le scoliosi quanto prima appaiono tanto più si aggravano (V. Pirola);
• Valutare la crescita residua: età anagrafica (per JC. De Mauroy <11 a. nelle femmine e <13 a. nei
maschi);
• Valutare la crescita residua secondo i gradi di maturità di Tanner. La scala di Tanner è una scala di
sviluppo fisico nei bambini, negli adolescenti e negli adulti. Essa definisce le misure fisiche di sviluppo
basate sulle caratteristiche esterne sessuali primarie e secondarie, quali le dimensioni dei seni, dei
genitali, del volume testicolare e dello sviluppo dei peli pubici (wikipedia);

• Valutare la crescita residua: età ossea (atlante di Greulich e Pyle: mostra l’ossificazione delle ossa del
carpo in funzione dell’età, per poter effettuare una datazione. Chi si occupa della scoliosi però utilizza
tendenzialmente il test di Risser, in quanto non c’è una corrispondenza precisa con l’atlante di
Greulich e Pyle, che è più riferito alle ossa piccole);

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• Elementi clinici paradisplasici: asimmetrie e dismorfie del viso, plagiocefalia, iperlassità, astenia,
alterazioni del trofismo generale (De Mauroy);
• Alterazioni delle curvature sagittali fisiologiche del rachide: dorso piatto, dorso cavo, rigidità e
disarmonia in flessoestensione (tendenza lordosica).

Fattori prognostici positivi:


• Insorgenza >13 anni nelle femmine e >15 anni nei maschi;
• Appiombo corretto occipite-linea interglutea;
• Gibbosità paradossa dal lato della concavità;
• Mantenimento delle curve sagittali fisiologiche.

2.7.8 Trattamento
L’obiettivo della terapia della scoliosi è rallentare la progressione della curvatura o quanto meno arrivare
all’età dello sviluppo con una situazione tale per cui non si debba ricorrere a chirurgia.

➢ Kinesiterapia
Introducendo accanto ai concetti di efficacia ed efficienza quello di accettabilità della terapie, le famiglie
hanno dimostrato di preferire l’effettuazione di esercizi specifici a scopo preventivo nell’attesa di una
eventuale evoluzione da trattare in seguito con corsetto.

“In conclusione, attualmente non vi è evidenza sufficiente per raccomandare o sconsigliare l’utilizzo della
kinesiterapia. Inoltre, l’esame della letteratura a disposizione permette di ipotizzare un’efficacia di esercizi
specifici nel rallentare l’evoluzione delle scoliosi minori. Non esistono pubblicazioni scientifiche rigorose
sull’efficacia terapeutica dell’uso di manipolazioni, plantari, byte, medicinali convenzionali ed omeopatici,
agopuntura, accorgimenti alimentari per la correzione della scoliosi idiopatica”.

“Si raccomanda che una curvatura scoliotica non strutturata e la scoliosi inferiore a 10+/-5° Cobb non
vengano trattate in modo specifico, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali. Si
raccomandano, nelle curve minori, gli esercizi specifici come primo gradino di approccio terapeutico alla
scoliosi idiopatica per prevenirne l’evolutività” (linee guida nazionali Simfer, 2006).

Nelle fasi più avanzate della scoliosi può essere indicata la fisioterapia respiratoria.

➢ Attività sportiva
“L’attività sportiva consente un riequilibrio psico-motorio che è consigliabile per tutti e che deve trovare
spazio nell’adolescente scoliotico con le dovute modalità a seconda del tipo di paziente e della gravità ed
evolutività della curva”.
“Il nuoto non è la panacea della scoliosi e ci sono studi che tendono ad evidenziarne limiti o addirittura
controindicazioni. Uno studio recente ha poi documentato nelle ragazze praticanti ginnastica ritmica ad alto
livello una incidenza della scoliosi del 12% rispetto all’1,1% dei soggetti di controllo. L’intensa mobilizzazione
ed estensione del rachide in soggetti a rischio potrebbe essere uno dei fattori determinanti” (linee guida
nazionali Simfer, 2006).

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➢ Busto ortopedico
Si consiglia di non adottare il trattamento ortesico per pazienti con curve al di sotto di 15+/-5° Cobb, salvo
parere contrario di un medico specializzato nel trattamento conservativo delle deformità vertebrali. Il
trattamento ortesico è raccomandato per pazienti con curve superiori a 20+/-5° Cobb ancora in crescita con
progressione della deformità o rischio elevato di peggioramento.
Approccio conservativo, che in ordine cronologico (ossia in base all’età del bambino) consiste in:

1. letto di Cotrel: con una serie di tiranti si cerca di annullare le curvature, in quanto nel bambino la
scoliosi è strutturata ma presenta comunque una certa elasticità. Ovviamente la correzione non sarà
totale se la curvatura è >50°, ma si riesce ad ottenere un miglioramento.

2. busto gessato: per portare ai minimi gradi. Viene indossato indicativamente per circa 2-3 mesi,
generalmente viene rifatto una volta al mese per questioni igieniche e di crescita.

3. Busti, di due tipi:


a. Busto di tipo lionese (in quanto la scuola di Lione è una delle principali
ad occuparsi di scoliosi): sono presenti dei pressori, dette pelote, che
schiacciano le coste con il razionale che, spingendo la costa dal lato
opposto alla rotazione, si riesca ad effettuare una derotazione. Tali busti
non sono facili da confezionare e devono essere indossati finché non si
raggiunge l’ossificazione e per almeno 14-18 ore al giorno. È quindi un
trattamento invalidante.
b. Busto di tipo Milwaukee: si basa sul concetto di autoallungamento. È
presente un appoggio mentoniero in modo che, quando il bambino
indossa il busto, l’appoggio dia fastidio e il bambino tenda ad allungarsi:
il razionale è che con questo stimolo la curvatura si corregga. Funziona,
ma causa problemi a livello della mandibola e della masticazione, quindi
è stato utilizzato di meno rispetto ai busti lionesi. Inoltre, il busto
Milwaukee provoca dorso piatto, senza cifosi toracica.

Nelle slide sono nominati anche il busto Cheneau e Art Brace.

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Corsetto cheneau
Allo stato attuale il corsetto più diffusamente utilizzato. Si basa su un principio di correzione asimmetrica con
espansione controlaterale della gabbia costale. Indicato per le curve toraco-lombari, può essere realizzato su calco
gessato o mediante scansione computerizzata. Generalmente ben tollerato. (ospedalebambinogesu.it)

Corsetto Art Brace


Agisce lavorando sulla colonna con trazione, detorsione e traslazione, ossia su tutti i piani dello spazio, come se si
trattasse di una colonna torta da de-torcere. (ortopediaforesti.it)

➢ Indicazioni chirurgiche

“Nella scoliosi idiopatica si ricorre alla chirurgia quando una curva supera i 45°. Ma la sola entità angolare
non è sufficiente per decidere l’intervento. La decisione dipende anche dalla sede e strutturazione della curva
(gibbosità, disassamento), dall’età del paziente (scoliosi idiopatiche infantili e giovanili “maligne”), dal profilo
del rachide sul piano sagittale (lordo-scoliosi), e da molti altri fattori.” (G. Stella, 2002)

Approccio chirurgico: sono interventi con una mortalità del 2-3%. Si ricorre alla chirurgia qualora il
trattamento non chirurgico non dovesse essere sufficiente; consiste in interventi cruenti, in quanto bisogna
scheletrizzare la colonna (ossia mettere a nudo l’osso) per poi correggere la curvatura tramiti viti e barre.
L’intervento può essere eseguito con due approcci differenti: la metodica di Harrington e la metodica di Dwyer
(nds: cita solo i nomi senza specificare ulteriormente). Le problematiche di questi interventi sono le lesioni
midollari, radicolari e nervose in generale. Il momento più delicato è la derotazione e il raddrizzamento, tanto
che nei centri specializzati in chirurgia della scoliosi si utilizza il monitoraggio con l’elettromiografia in sala
operatoria per valutare danni nervosi.

In genere lo scopo sarebbe quello di derotare di 50°, ma spesso ci si accontenta di arrivare a 20°, in quanto
l’elettromiografia mostra potenziali in discesa all’aumentare della correzione. In Italia l’utilizzo
dell’elettromiografia in sala è dibattuta, ma nei centri specializzati di fatto si utilizza sempre.

Si mettono le viti, si montano le barre e, avvitando, la colonna


tende ad andare nella posizione corretta. Tutto questo però non
basta: come nelle osteosintesi di frattura di gamba, se la frattura
non guarisce, prima o poi i mezzi di sintesi si rompono. La stessa
cosa accade alla colonna: bisogna effettuare una artrodesi
vertebrale, ossia effettuare una “colata ossea” fondendo tra di
loro le articolazioni. Consiste nel cruentare le superfici articolari,
farle sanguinare e metterle in compressione. Per creare una
artrodesi vertebrale è necessario scheletrizzare la colonna e poi con lo scalpello si fa la petalizzazione, ossia
si ricavano petali da ogni singola lamina per farla sanguinare. In passato, successivamente, si facevano grossi

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innesti di osso dal bacino; oggi non è più necessario in quanto i mezzi di sintesi offrono una stabilità maggiore
e quindi permettono di raggiungere l’artrodesi in un tempo abbastanza limitato. Successivamente si
cruentano le superfici articolari tre le vertebre con la pinza mangiaossa facilitando la fusione.

È un intervento impegnativo della durata di 7-8 ore con le nuove metodiche, che utilizzano viti peduncolari
che offrono una maggiore stabilità, ma espongono a più rischi operatori. In passato i mezzi erano meno stabili,
ma l’intervento durava meno.

Una volta che l’artrodesi è stata eseguita, il mezzo di sintesi non serve più, ma non si toglie. Il paziente ha una
parte di colonna completamente bloccata, ma può condurre una vita normale.

2.8 Cifosi

L’ipercifosi è una deviazione della colonna vertebrale sul piano sagittale con convessità posteriore,
generalmente localizzata nel tratto dorsale con accentuazione, in tal caso, della normale cifosi dorsale.

2.8.1 Eziologia
Si distinguono forme:
• Congenita: da emispondilo, in cui una vertebra non si è formata completamente per quanto riguarda
l’ossificazione nella sua metà anteriore e, avendo solamente la parte posteriore, assume un’inclinazione
anteriore determinando cifosi;
• Idiopatica: malattia di Scheuermann (forma più frequente e rilevante);
• Secondaria ad altre patologie (spondilite anchilosante, osteoporosi [nds: il professore specifica che
saranno trattate in un secondo momento]).

2.8.A Cifosi della malattia di Scheuermann


La malattia di Scheuermann si caratterizza per un’alterazione dello sviluppo delle vertebre toraciche che
progressivamente si deformano a cuneo ad apice anteriore, provocando un aumento della fisiologica cifosi
(ipercifosi strutturata) nel periodo precedente la pubertà.

Le immagini mostrano un caso eclatante di un’ipercifosi, con evidente protuberanza a livello delle apofisi
spinose e quadro radiografico con vertebre da T9 a T1 cuneizzate anteriormente e con struttura piuttosto
disomogenea.

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2.8.A.1 Epidemiologia
La malattia di Scheuermann ha una prevalenza dello 0,5-8% nella popolazione generale, colpisce più
frequentemente i maschi con M:F=4:1, tra i 10 e i 16 anni. È spesso associata ad endocrinopatie con habitus
adiposo genitale ed è più diffusa nei soggetti longilinei astenici nel periodo del picco di crescita.

2.8.A.2 Eziopatogenesi
La malattia è causata dalla necrosi dei nuclei di accrescimento delle vertebre toraciche, di cui le più colpite
sono T7, T8, T9. Si tratta quindi di un’osteocondrosi1, similmente alla malattia di Perthes che riguarda l’anca.

2.8.A.3 Anatomia patologica


Dal punto di vista anatomo-patologico si evidenzia che i piatti limitanti superiore e
inferiore delle vertebre toraciche sono degenerati. Dal punto di vista istologico, il
disco intervertebrale tende a compenetrare a livello delle limitanti somatiche
come conseguenza della necrosi di queste ultime: ciò prende il nome di ernia o
nodulo di Schmorl, ernia benigna che non ha niente a che vedere con le ernie
discali e che costituisce un segno caratteristico di questa patologia. Sia
istologicamente che radiograficamente si rileva un sovvertimento della normale
architettura e presenza di zone necrotiche, soprattutto a livello anteriore
vertebrale.
I nuclei di ossificazione cartilaginei, disposti tra la limitante del corpo vertebrale ed il disco intervertebrale, a
causa di eccessive sollecitazioni meccaniche o per ischemia vanno in necrosi provocando una diminuzione
della crescita della regione anteriore del corpo vertebrale, che progressivamente assume un aspetto
trapezoidale ad apice anteriore.

2.8.A.4 Clinica
Lo sviluppo della malattia è subdolo, con esordio progressivo: nelle fasi iniziali vi è un aumento della
fisiologica cifosi toracica, non particolarmente evidente, fino ad uno sbilanciamento in avanti della testa e
del collo. A fini compensatori, le normali lordosi cervicale e lombare tendono a scomparire.

Il dolore è in relazione con la deformità toracica, è variabile e non sempre presente. Spesso i soggetti non si
presentano all’attenzione del medico per il dolore in sé, ma per la deformità e la maggiore evidenza delle
apofisi spinose. Il dolore può comparire nell’adolescenza o in età adultà. È esacerbato dalla stazione eretta,
dalla posizione seduta, dall’attività fisica e può scomparire con la maturità scheletrica. La maggior emergenza
delle apofisi spinose, soprattutto in soggetti magri, può creare dolore per il contatto con lo schienale della
sedia.

2.8.A.5 Esame clinico


Ci sono dei test, analoghi a quelli per la scoliosi, che prevedono il posizionamento di un filo a piombo che
dall’occipite dovrebbe localizzarsi a livello della piega interglutea: viene misurata la distanza tra il filo stesso
e la lordosi cervicale (C7) e lombare (L3), con valori normali di 25-40 mm. In presenza di ipercifosi la distanza
tende ad aumentare.

1 Si veda il file 5. PATOLOGIE PEDIATRICHE e DELL’ACCRESCIMENTO

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Per meglio evidenziare la cifosi, spesso già evidente durante l’ortostatismo, si può chiedere al paziente di
assumere una posizione di bending anteriore, con tronco flesso.

2.8.A.6 Imaging
I criteri radiografici sono:
 Cifosi > 40°- 45°;
 Cuneizzazione > 5° di almeno 3 vertebre adiacenti all’apice della cifosi (T7-T9);
 Piatti vertebrali irregolari;
 Un restringimento degli spazi discali intervertebrali nella regione cifotica.

Viene misurato l’angolo di Cobb in proiezione laterale con la


stessa metodica della scoliosi.

Può essere misurato l’angolo di cifosi di un intero tratto e della


singola vertebra, stabilendo quanto quest’ultima incide nella
cifosi. Ciò permette di stabilire la prognosi e l’approccio
terapeutico più opportuno.

L’Rx del rachide può rilevare scalfiture a livello dei margini delle vertebre, segno indiretto di osteocondrosi,
e cuneizzazione delle vertebre. Noduli ed ernie di Schmorl possono essere messi in evidenza, oltre che alla
radiografia standard, anche ad un esame TC, che può mostrare degenerazione nel margine anteriore della
vertebra con presenza di osteofiti.

L’indagine RM mostra le medesime alterazioni, con la possibilità di evidenziare inoltre infiammazione a carico
dell’osso, soprattutto nelle sequenze T2 e STIR.

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2.8.A.7 Trattamento
Il trattamento può essere conservativo o chirurgico.
Per deformità < 50° in adolescenti scheletricamente immaturi e senza segni di progressione si effettua
osservazione ripetendo Rx laterale in posizione eretta dopo 4-6 mesi. È possibile effettuare esercizi
fisioterapici di estensione toracica, addominali, allungamento ischiocurale ed esercizi aerobici, che hanno
però solo valenza sintomatica, di riduzione del dolore, ma non correggono le deformità.

➢ Trattamento conservativo
Con deformità progressiva in un adolescente scheletricamente immaturo o con deformità dolorosa, che
tipicamente misura 65° o più, è indicato il trattamento ortesico, con l’utilizzo di tutori, i quali però danno
scarsi risultati se la cifosi è > 75°, la cuneizzazione > 10°, se l’età del paziente è prossima alla maturità
scheletrica o se questa è già acquisita.

Tra i tutori vi è il corsetto di Milwaukee, utilizzato anche nell’osteoporosi, che consiste in un’ortesi dinamica
a tre punti: anello del collo, per l’estensione del rachide cervicale, montanti posteriori imbottiti, che
esercitano pressione sull’apice della cifosi, e anello pelvico, che stabilizza il rachide lombare. L’utilizzo di
questi presidi non è finalizzato alla correzione della deformità, ma alla prevenzione del suo peggioramento:
vengono utilizzati in pazienti giovani che hanno sofferenza ischemica vertebrale che poi andrà a risolversi,
con lo scopo di alleggerire il carico a quel livello. Vi è miglioramento della lordosi lombare nel 35% e della
cifosi toracica nel 49% dei casi in adolescenti trattati con Milwaukee a tempo pieno per 14 mesi e part-time
per 18 mesi.

In caso di patologia più grave o aggressiva il busto gessato, confezionato sul letto di Cotrel, è generalmente
da preferire all’ortesi per i migliori risultati ottenibili. I busti gessati non sono solitamente ben tollerati, si
opta quindi spesso all’applicazione di 2-3 busti gessati rinnovati ogni 2-3 mesi e dopo i 6-9 mesi si mantiene
la correzione con busto Milwaukee fino alla maturità scheletrica. Per agevolare il paziente si può applicare il
busto gessato nella stagione invernale e i tutori nella stagione più calda.

➢ Trattamento chirurgico
Le indicazioni al trattamento chirurgico sono:
• Deformità cifotica >75° che non ha risposto al trattamento ortesico;
• Rachialgia refrattaria invalidante con una curva > 60° in paziente scheletricamente maturo;
• Alterazioni neurologiche;
• Alterazioni respiratorie.

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Il trattamento chirurgico non viene eseguito per sole finalità estetiche: ha come obiettivi arrestare la
progressione, alleviare i sintomi, migliorare la curvatura e ottenere una buona artrodesi. L’intervento è
piuttosto aggressivo e demolitivo, con osteotomie peduncolari correttive lordosizzanti, che possono
determinare notevoli perdite ematiche.

2.8.B Cifosi senile


La cifosi senile, sempre più frequente per l’invecchiamento della popolazione, ha eziopatogenesi diversa, ma
prevalentemente si verifica per crolli vertebrali su base osteoporotica e/o componente degenenerativa a
livello discale.

L’immagine mostra ciò che avviene parafisiologicamente con l’invecchiamento, fino ad arrivare in alcuni casi
a quadri eclatanti. È emblematico il caso di questa signora, diventata ormai famosa per le seguenti fotografie
scattate all’età di 50 e 75 anni che ricorrono ai congressi sull’osteoporosi.

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Lezione 2 – parte 3 (Lesioni traumatiche della colonna vertebrale)
Sbobinatore: M.T.
Docente: Zarattino

2.9 Lesioni traumatiche della colonna vertebrale

La colonna vertebrale è costituita da:


- 7 vertebre cervicali;
- 12 vertebre dorsali (o toraciche);
- 5 vertebre lombari;
- 5 vertebre sacrali;
- 4 vertebre coccigee.
Poiché all’interno del canale vertebrale è contenuto il midollo spinale, si possono distinguere due grandi
tipologie di fratture vertebrali, caratterizzate da gravità decisamente diversa, a seconda che sia coinvolto o
meno il midollo spinale:
- Fratture mieliche;
- Fratture amieliche.

2.9.1 Epidemiologia ed eziologia


La maggior parte delle fratture vertebrali si verifica in seguito ad un trauma, avvenuto sul lavoro o durante
l’attività sportiva1; in particolare:
- le fratture del distretto cervicale sono più frequenti in sport come football americano, ginnastica
artistica, rugby, surf, wrestling oppure facendo cretinate (tipo tuffarsi nell’acqua bassa);
- le fratture del rachide toraco-lombare si verificano spesso in incidenti occorsi durante gare
automobilistiche, paracadutismo, arrampicate, sollevamento pesi oppure mentre si va a cavallo.

1 Le lesioni traumatiche cervicali costituiscono il 2-3% di tutte le lesioni traumatiche sportive.

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2.9.2 Diagnosi
Di fronte ad una sospetta frattura vertebrale è buona norma cercare di muovere il paziente il meno possibile,
onde evitare di trasformare un’eventuale frattura amielica in una frattura mielica (con danni irreversibili),
specialmente se si tratta di una frattura instabile.

➢ Valutazione clinica
È importante eseguire un’attenta ispezione, volta a ricercare tumefazioni, abrasioni o ecchimosi, seguita dalla
palpazione della zona traumatizzata per evidenziare contratture, mobilità di tratti ossei (come nel caso di
frattura delle apofisi spinose) o “gradini” indici di lussazione.
Nei traumi della colonna assume rilevanza specifica la valutazione neurologica (qualora il paziente sia
cosciente2).
Lo studio NEXUS3 definisce dei criteri di basso rischio per lesioni gravi:
- assenza di dolenza e dolorabilità alla palpazione della linea mediana
- assenza di deficit neurologici focali
- normale livello di coscienza (GCC ≥ 14)
- non evidenza di intossicazioni (dall’esame obiettivo o eventuale studio sulle urine secondario al
rilievo obiettivo di segni di intossicazione)
- non lesioni di altri distretti corporei che possono distrarre il paziente dal dolore cervicale (es: frattura
di un osso lungo, grave ustione, dolore viscerale…).

➢ Indagini strumentali
Di norma si esegue una RX (in proiezione AP, LL e odontoide), anche se alcune fratture possono sfuggire ad
uno studio RX tradizionale. Nei pazienti politraumatizzati, invece, si passa direttamente ad esami di secondo
livello (TC e RMN).
Secondo la classificazione di Denis4, una frattura si definisce instabile quando sono coinvolte almeno due
colonne. Esistono anche dei criteri anatomici di instabilità:
- lesione del muro posteriore;
- lesioni disco-legamentose;
- frattura associata a lussazione interapofisaria.

2 Le fratture vertebrali, infatti, possono verificarsi anche a seguito di politraumi (vedi lezione 8: POLITRAUMI & EMERGENZE
ORTOPEDICHE)
3 Studio prospettico osservazionale condotto nel 1992 e coinvolgente 21 PS americani per un totale di 34.000 pazienti traumatizzati

(sensibilità 99,6%, specificità 12,9, valore predittivo negativo 99,8%)


4 La classificazione di Denis è stata affrontata nella lezione 8: lo so che è dopo, perdonatemi, ma penso che un alpaca sarebbe più

organizzato di Zarattini.

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2.9.A Fratture del RACHIDE CERVICALE
Quando ci si trova di fronte a fratture cervicali, il quadro si fa più complesso soprattutto per il possibile rischio
di paralisi. In realtà le fratture più delicate sono quelle localizzate da T4 a T12, in quanto in questa sede, il
canale vertebrale è più stretto e quindi una minima retropulsione del muro posteriore, anche di soli 2 mm,
può dare un quadro molto grave fino alla paralisi.
Le fratture cervicali, in particolare quella di C2 (epistrofeo) e C1 (atlante), non sono così gravi come si pensa
(tanto che una buona percentuale delle fratture di C2 addirittura una volta non venivano neanche
riconosciute). Inoltre, se le fratture vertebrali toraco-dorsali si manifestano generalmente in pazienti
politraumatizzati, le fratture cervicali possono anche emergere come fratture isolate.
Le dinamiche possono essere varie; sicuramente molto colpiti sono quei geni che si tuffano in acque basse e
sbattono con la testa sul fondale.

Esistono dei criteri di instabilità cervicale valutabili all’RX:

2.9.A.1 Fratture dell’epistrofeo (C2)


L’epistrofeo può fratturarsi a livello del dente (anteriormente) o dei peduncoli (posteriormente).

➢ Fratture del dente dell’epistrofeo


Le fratture del dente dell’epistrofeo costituiscono il 50% delle fratture a carico di C2 e vengono suddivise in
3 tipologie, in base alla classificazione di Anderson - D’Alonzo:

• Tipo I (< 5%): frattura obliqua che interessa solo la parte apicale del dente
dell’epistrofeo, sopra il legamento trasverso.

• Tipo II (> 60%): frattura alla base del dente (sono le fratture tipiche
dell’impiccato); hanno una prognosi peggiore perché, qualora non
vengano identificate, possono andare incontro a pseudoartrosi.
• Tipo III (30%): rima di frattura attraverso il corpo di C2; presenta prognosi
favorevole, in quanto l’ampia superficie di contatto tra i due frammenti
consente una buona probabilità di guarigione.

Diagnosi
Quello che si può vedere generalmente a livello di C2, sia tramite TC che RX (in quest’ultimo caso, si ricorda,
va fatta chiedendo al paziente di mantenere la bocca aperta), è una asimmetria tra il dente dell’epistrofeo
e le masse laterali dell’atlante.

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Trattamento
Per eseguire un trattamento adeguato, è necessario distinguere le fratture in:
• Composte: dopo 1 settimana di immobilizzazione, si eseguono delle RX dinamiche che servono per
identificare la stabilità o l’instabilità della frattura:
o in caso di stabilità si procede con un’immobilizzazione per 12-15 settimane con delle protesi;
o in caso di instabilità si procede con la riduzione (chirurgica o ibrida, come la Halo-Vest5).
• Scomposte: si procede immediatamente con la riduzione chirurgica

La riduzione chirurgica prevede, per via anteriore trans-orale, un’incisione (di circa 3 cm) della faringe a
livello dell’ugola, per accedere al dente dell’epistrofeo: si inserisce una vite al suo interno per ridare
stabilità alla struttura.

➢ Frattura dei peduncoli: frattura di Hangman o spondilolisi traumatica di C2


La frattura di entrambi i peduncoli viene definita anche frattura di Hangman (frattura dell’impiccato), in
quanto è tradizionalmente associata al meccanismo dell’impiccagione: quando il malcapitato precipita nel
vuoto, il cappio attorno al collo frena la caduta determinando un’iperestensione del rachide cervicale tale da
causare la frattura.
Tuttavia, nonostante questa storica associazione, studi recenti hanno dimostrato che solo in una piccola frazione di
impiccagioni si registra la spondilolisi traumatica di C2.

5 È un sistema di contenzione esterno temporaneo (generalmente dai 2 ai 4 mesi) costituito da una parte metallica (titanio, per cui è
possibile eseguire qualsiasi radiografia o esami di risonanza magnetica) ed una parte in plastica dura rivestita di un materiale soffice
anallergico. Le parti metalliche consistono in un’ areola che viene fissata con delle viti alla testa (osso) e da dei tubi del diametro di
circa 7-8 mm (barre) che permettono di fissare l’areola al corsetto. L’Halo Vest viene posizionato sul paziente a pelle (cioè senza
nessun indumento sotto) da uno o più medici, in anestesia locale, in reparto o in sala radiologica. L’Halo-Vest non può essere utilizzato
per le fratture instabile scomposte. In questo caso si ricorre alla terapia chirurgica.[http://www.aots.sanita.fvg.it]

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Si verifica soprattutto a seguito di cadute (tipicamente in soggetti anziani) e incidenti automobilistici
responsabili di iperestensione del collo.
La frattura è quasi sempre letale poiché determina la compromissione di nuclei vitali a livello del bulbo.
La classificazione maggiormente utilizzata è quella di Levine e Edwards (non approfondita dal prof.)

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2.9.A.2 Tear-drop fracture (frattura a goccia)
Si tratta di una frattura in compressione scomposta spigolo-antero-inferiore del corpo vertebrale, risultante
da un grave trauma in flessione (tipico caso del pirla che si tuffa di testa in acqua bassa). Si associa a:
- arretramento del muro posteriore;
- lesione del disco;
- lesione del legamento IVCP;
- retrolistesi.

Essendo una frattura instabile, è necessario eseguire un intervento chirurgico di stabilizzazione.

2.9.A.3 Lussazione delle faccette articolari


Le lussazioni delle faccette articolari si verificano tipicamente a seguito di un importante trauma in flessione
o assiale; possono essere:
- monolaterali: bassa probabilità di avere deficit neurologici (30%), localizzate soprattutto a livello di
C4-C6;
- bilaterali: associate a listesi significativa del corpo vertebrale, con frequente interessamento
midollare (rischio di quadriplegia).

In alcuni casi si assiste a lussazioni monoarticolari


rotatorie (nell’esempio in figura: lussazione rotatoria
anteriore di C5 su C6)

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Trattamento
Si esegue una riduzione sotto anestesia generale (trazione nel senso dell’inclinazione della testa), seguita da
un’RX per confermare l’avvenuta riduzione e dal posizionamento di un collare cervicale per 6-8 settimane.
Ogni 15 giorni si fanno delle RX di controllo e dopo 6 settimane di immobilizzazione queste vengono eseguite
in flessione (RX dinamiche).
In caso di sublussazione secondaria/tardiva o in caso di instabilità evidenziata alle RX dinamiche, si considera
la possibilità di un’artrodesi.

2.9.B Fratture TORACO-LOMBARI


“... la frattura vertebrale deve essere ridotta, ma deve essere anche immobilizzata. Anzi se vi è una frattura che lo
deve essere di più è proprio quella di un osso quale è la vertebra che è piccolo e che si trova inserito in una catena
articolare che si muove in ogni senso sotto i minimi stimoli e che quindi, più di qualsiasi elemento scheletrico, si sottrae
e sfugge all'azione dei mezzi rivolti a dargli, quando è rotto, quella quiete, quella stabilità, che sono condizioni
indispensabili al ripristino della forma e della funzione...”
Vittorio Putti

La classificazione più utilizzata è la classificazione AO6, la quale distingue 3 gruppi (A, B, C) a seconda del
meccanismo di frattura e in base alla gravità.

Si tratta delle fratture più frequenti a livello del rachide. Più dei 2/3 delle fratture si concentra tra T12 e L3 e
più dei 2/3 di tutte le fratture è di tipo A (fr. in compressione)

6 Vedi Lezione 8

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2.9.B.1 Fratture di tipo A – lesioni da compressione
Le fratture di tipo A1 sono il risultato del fallimento del tentativo da parte della colonna anteriore di resistere
ad una compressione: ne deriva una frattura isolata (anteriore) del corpo vertebrale con accorciamento della
colonna anteriore.

Le fratture di tipo A2, definite anche split fractures, si caratterizzano per una separazione del corpo
vertebrale sul piano sagittale (A2.1) o frontale (A2.2), comprendendo anche le fratture di tipo pincer (A2.3),
in cui vi è maggior rischio di pseudoartrosi a causa della frequente presenza di materiale discale tra i
frammenti di corpo vertebrale.

Le fratture da scoppio vengono classificate come A3. Sono caratterizzate da una comminuzione (più o meno)
importante del corpo vertebrale, con possibile coinvolgimento del muro posteriore: nelle fratture di tipo
A3.3, definite “complete”, c’è un alto rischio di dislocazione posteriore dei frammenti ossei nel canale
vertebrale con possibile danno neurologico (fratture mieliche).

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Trattamento delle fratture di tipo A
Le fratture A1, essendo in gran parte stabili, vengono trattate in modo conservativo:
- riposo a letto per 25 giorni;
- ortesi (in grado di limitare i movimenti di flesso estensione e di bending laterale) per 4 mesi.

Il prof lascia nelle note una sorpresina a tradimento: un approfondimento riguardante le ortesi utilizzate nei
traumi vertebrali. Lo riporto integralmente.

ORTESI SPINALE A 3 PUNTI IN IPERESTENSIONE. Il suo utilizzo è frequente


soprattutto nelle persone anziane con frattura del corpo vertebrale di modesta
entità senza lesione midollare. In queste circostanza non è necessario utilizzare
un mal tollerato e pesante busto gessato, ma si usa da subito una ortesi a tre punti
che in genere viene mantenuta per 3-4 mesi. Tale presidio è indicato nel
trattamento di fratture traumatiche e patologiche delle vertebre dorsali basse e
lombari, e naturalmente in caso dei ricordati crolli vertebrali da osteoporosi.
Questo busto ortopedico viene utilizzato anche in presenza di cedimenti
vertebrali da lesioni osteolitiche a livello dorsale basso e lombare. La durata del
trattamento con queste ortesi spinali è in media di tre-quattro mesi, ma dipende
da caso a caso; sarà lo specialista, in base al tipo di frattura (entità dello
schiacciamento, presenza di eventuali frammenti ossei) a stabilire la durata del periodo di immobilizzazione. L’ortesi
deve infatti essere portata fino alla completa risoluzione della patologia.

BUSTO TIPO TAYLOR. Nei casi in cui la presa sternale venga mal tollerata dal
paziente a causa della elevata pressione esercitata su tessuti molli o a causa della
conformazione ipercifotica del torace, dobbiamo ricorrere a busti che esercitano
la loro azione non per spinta ma per trazione: quello maggiormente utilizzato è il
Taylor. Si tratta di un busto rigido costituito da parte in tela e parte in lega di
alluminio. La parte in tela è costituita da un bustino che ha il compito di fissare la
parte posteriore di alluminio. Al supporto posteriore in alluminio sono fissati due
spallacci che passando sulle spalle e sotto le ascelle e incrociandosi
posteriormente esercitano una trazione con effetto estensorio della colonna
vertebrale e relativa riduzione della cifosi dorsale. L'utilizzo di questa ortesi è particolarmente indicato nei pazienti
molto anziani e con scarsa compliance, ha una discreta azione di immobilizzazione e, se ben modellato, un buon
effetto correttivo.

CROCERA MODULARE. E’ un tipo di dispositivo ampiamente usato nel campo


dell’ortopedia, presenta ottime caratteristiche di tollerabilità, correzione e
immobilizzazione. Il suo effetto e la sua azione correttiva si basano sull'immobilizzazione
pressoché completa del bacino che determina una deflessione sul piano sagittale del
rachide dorsale con una conseguente riduzione delle cifosi; si determina, in tal modo, una
migliore distribuzione dei carichi e delle forze che agiscono a livello del focolaio di frattura.
L’applicazione di questo dispositivo necessita di alcune importanti raccomandazioni:
- La presa pelvica deve essere molto calzante;
- la struttura posteriore ben modellata in modo da adattarsi perfettamente
all'apice della convessità della curva cifotica;
- l’ascellare che si aggancia posteriormente alla struttura deve terminare in
precisi appoggi a livello sottoclaveare;
- l'ortesi deve essere opportunamente imbottita nei punti maggiormente a
rischio, con un bustino anteriore che garantisce una perfetta chiusura e
immobilizzazione del paziente.

Nei casi in cui, per una particolare morfologia del paziente o per la necessità di ottenere specifiche azioni correttive,
i dispositivi standard non trovano un’adeguata corrispondenza, dobbiamo far ricorso a dispositivi che vengono
modellati appositamente sul paziente.

9/13
Le fratture di tipo A2 vengono di norma trattate in modo conservativo. Tuttavia, poiché sussiste il rischio di
evoluzione in pseudoartrosi, alcuni autori prediligono il trattamento chirurgico che prevede in prima battuta,
una fissazione posteriore; qualora la frattura non si consolidasse, si esegue un secondo intervento (più
invasivo) di corpectomia (asportazione del soma e sua sostituzione con una cage ad espansione).

Il trattamento delle fratture di tipo A3 dipende dal grado di severità:


- conservativo: riduzione + corsetto in iperestensione per 12 settimane;
- chirurgico: decompressione del canale midollare (laminectomia) + fissazione con artrodesi (per
generare una fusione postero-laterale); si esegue in caso di:
- invasione del canale midollare da parte dei frammenti ossei > 50%
- rischio di cifosi residua > 15°
- comminuzione severa;
- perdita di altezza del soma > 50%;
- fallimento della riduzione incruenta;
- impossibilità di trattamento conservativo (obesità, lesioni toraciche, politrauma)

2.9.B.2 Fratture di tipo B – lesioni da iperflessione-distrazione


Le fratture di tipo B sono dovute al fallimento da parte della colonna di resistere alle forze in distrazione: il
risultato è la possibile interruzione dell’integrità anatomica degli elementi posteriori. Si tratta di fratture
intrinsecamente instabili, in quanto si ha il coinvolgimento di almeno due colonne (tipicamente quella
posteriore e quella media) associato a lesioni legamentose.
Si verificano spesso a seguito di traumi automobilistici (seat belt injuries).

Come si può facilmente osservare dall’immagine sopra:


- le fratture di tipo B1 si caratterizzano per una interruzione dei legamenti posteriori, senza
coinvolgimento degli elementi ossei;

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- nelle fratture di tipo B2 si evidenzia sempre un “gap” osseo significativo a livello degli elementi
posteriori, associato a diversi gradi di coinvolgimento della colonna anteriore;
- una lesione molto particolare è la frattura di B3 che coinvolge anche la colonna anteriore con lesione
in estensione del disco vertebrale: si tratta di una lesione altamente instabile ad elevato rischio di
danno neurologico.

Alcune fratture di diverso tipo possono presentare radiologicamente un soma simile7. Per distinguere una
lesione legamentosa (instabile), nell’immagine B1, da una lesione da compressione (stabile), A1
nell’immagine, è necessario andare a tracciare le tangenti al corpo vertebrale interessato e a quelli vicini:
- le lesioni stabili presentano tangenti parallele (o quasi), poiché l’apparato legamentoso è conservato;
- nelle lesioni instabili, invece, le tangenti tracciate hanno una pendenza significativamente diversa
(angolo determinato dalle due tangenti > 25°).

2.9.B.3 Fratture di tipo C – lesioni da rotazione


Le fratture di tipo C sono sempre associate a danni neurologici e richiedono, pertanto, un trattamento
esclusivamente chirurgico, spesso molto invasivo: corpectomia + ricostruzione somatica con accesso
anteriore, posteriore o duplice (ovvero sia anteriore che posteriore). Sono provocate da traumi ad elevata
energia di impatto: si tratta di lesioni estremamente instabili, a causa della lesione contemporanea delle
strutture anteriori e posteriori con rotazione o traslazione della colonna vertebrale. In particolare:
- Fratture di tipo C1: lesione di tipo A + rotazione;
- Fratture di tipo C2: lesione di tipo B + rotazione;
- Fratture di tipo C3: lesioni da taglio + rotazione;

7 Questa parte non è un’integrazione, il prof ne ha parlato (però mi sembrava proprio da mettere in corsivo )

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2.9.C Spondilolisi
La spondilolisi consiste nell’interruzione dell’istmo (lisi istmica), cioè di quella parte ristretta dell’arco
posteriore delle vertebre lombari che è compresa tra le apofisi superiori e le faccette articolari inferiori. La
spondilolisi può scatenare una lombalgia e delle sciatalgie.

Si verifica tipicamente per effetto combinato di fattori scatenanti (trauma nella zona lombare8 o
sollecitazioni meccaniche eccessive) e fattori costituzionali (iperlordosi lombare). Le vertebre maggiormente
interessate sono: L5 (81%), L4 (14%) e L3 (2%); in alcuni casi vi può essere una spondilolisi combinata di L4 e
L5 (3%).

2.9.C.1 Diagnosi
È fondamentale il supporto dell’imaging. Alle RX tradizionali (AP e LL) non si vede un cazzo; è necessario
effettuare una proiezione obliqua attraverso la quale si evidenzia il “cagnolino” (o “cagnolina” per rispettare
la parità dei sessi) che ha come collo l’istmo vertebrale. In caso di spondilolisi:
- alcuni autori la descrivono come una “collanina” indossata dal cagnolino;
- altri, decisamente più fighi, dipingono questa frattura come il “cagnolino decapitato”.

Anche la TC descrive bene questo tipo di frattura.

8 Ho letto un articolo un po’ datato, ma molto interessante riguardo la frattura di Neymar occorsa durante il mondiale 2014 (foto
tratta dalle slide del docente), che fa emergere alcuni dubbi circa l’effettiva lesione del campione brasiliano. Lascio il link:
https://www.medicitalia.it/news/ortopedia/4843-se-la-frattura-vertebrale-di-neymar-e-un-fake.html

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2.9.C.2 Trattamento
Quando la frattura è “fresca”, il trattamento prevede una ricostruzione chirurgica dell’istmo che garantisce
restitutio ad integrum della pars interarticolaris.

In caso di significativo ritardo diagnostico (> 5-6 mesi), data l’alta probabilità di pseudoartrosi, l’intervento di
scelta è l’artrodesi.

2.9.D Lesioni midollari


Alcuni tipi di frattura determinano un danno midollare con compromissione dell’area innervata sottostante
al livello di lesione. Il prof finisce le parole a riguardo con un “e…”9 che lascia intendere la volontà di dire
qualcosa, ma cosa? Non lo sapremo mai. Riporto il contenuto delle slide.
In alcuni casi il midollo spinale può riportare delle lesioni a seguito di un trauma senza alterazioni della
morfologia del rachide. Si parla in questo caso di S.C.I.W.O.R.A. (Spinal Cord Injury Without Radiographic
Abnormality). Costituisce il 12% delle lesioni midollari e viene definito come “l’insieme di segni obiettivi di
mielopatia a seguito di un trauma, senza evidenza di fratture o instabilità legamentose all’RX o alla TC”.
Si verifica soprattutto nei bambini; grazie alla loro spiccata elasticità, le vertebre possono dislocarsi e
riallinearsi molto rapidamente a seguito di un trauma: il midollo spinale si danneggia (sezionamento o
compressione), ma l’RX mostra un corretto allineamento della colonna.

L’edema midollare è evidenziabile in RM

La prognosi è correlata alla severità della lesione midollare:


- lesione completa: deficit permanenti (recupero stimabile tra lo 0% e il 10%);
- lesione incompleta: prognosi eccellente.

9 Secondo me le ultime due slide in inglese hanno spiazzato il povero Zarattino

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Ex Lezione 6 del giorno 03/05/19 DEVASTATA
Docente: Guido Zarattini
Argomenti: rizoartrosi, sindrome del tunnel carpale, morbo di dupuytren, tenosinoviti stenosanti della
mano, dito a scatto

3. PATOLOGIE DI MANO e POLSO

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Il professore non riprende l’anatomia della mano, per cui ho aggiunto solo un breve riassunto delle ossa della
mano, tratto da Wikipedia. Mi sarebbe piaciuto aggiungere anche qualche informazione circa la lettura della
mano, ma lascio il link per i più mistici: https://www.wikihow.it/Leggere-la-Mano

La mano contiene almeno 27 ossa:


- Il carpo, che compone il polso, si compone di 8 ossa disposte in due file, una prossimale ed una distale:
o la fila prossimale comprende: scafoide, semilunare, piramidale e pisiforme;
o la fila distale comprende invece: trapezio, trapezoide, capitato e uncinato.
Il carpo entra in articolazione diretta con l'epifisi distale del radio (articolazione radio-carpale). L'ulna, invece,
non si articola in modo diretto col carpo ma ne è separato mediante un disco articolare detto legamento
triangolare (o cartilagine triangolare) dell'articolazione radio-ulnare distale;
- il metacarpo comprende 5 ossa lunghe, cave, ricche di midollo osseo. Si articolano prossimalmente con il carpo
e distalmente con le falangi.
- le falangi compongono le dita e sono costituite da 14 ossa. In particolare, ciascun dito risulta formato da tre
falangi, distinte in falange prossimale o prima falange, che si articola col corrispondente osso metacarpale,
falange media o seconda falange, che si articola con la precedente e falange distale o terza falange o falange
ungueale. Fa eccezione il pollice, nel quale sono presenti due sole falangi distinte in una falange prossimale (o
prima falange del pollice) e falange distale (o seconda falange o falange ungueale del pollice).

Si possono aggiungere a queste altre quattro ossa sesamoidi presenti nei tendini del muscolo flessore breve del
pollice, del muscolo flessore proprio dell'indice e del muscolo flessore proprio del mignolo.

3.1 Rizoartrosi

La rizoartrosi è una patologia degenerativa della cartilagine articolare (artrosi) dell’articolazione tra
trapezio e primo metacarpale (TM), caratterizzata da una progressione verso la deformità e la rigidità
dolorosa. Presenta un elevato impatto sociale: interessa, infatti, circa il 5% della popolazione italiana (3
milioni di persone), colpendo con maggior frequenza il sesso femminile soprattutto in epoca
perimenopausale (affligge il 10% delle donne dopo i 60 anni). I pazienti tendono a sottovalutare ed accettare
questo problema con una sorta di rassegnazione “ancestrale”.
I costi sociali della patologia non sono da sottovalutare, anche in termini di giorni di assenza dal lavoro, in
particolar modo per i lavori manuali.

3.1.1 Anatomia dell’articolazione carpo-metacarpica


La prima articolazione carpo-metacarpica (articolazione della base del pollice) è un’articolazione a sella,
l’unica del corpo umano, che consente l’opposizione del pollice ed è alla base dell’abilità di tenere e
manipolare gli oggetti (afferrare, stringere, pizzicare…). Si distingue dalle altre carpo-metacarpiche per le
ingenti forze che la attraversano e comprimono. Si tratta di un’articolazione piuttosto instabile.

Le articolazioni carpo-metacarpiche dalla seconda alla quinta mostrano un’escursione motoria crescente in
senso radio-ulnare (il che consente più agevolmente di far assumere al palmo della mano la forma di “coppa”).

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3.1.2 Patogenesi
Vi sono due condizioni principali che predispongono alla rizo-artrosi:
- over-use: un carico eccessivo a carico dell’articolazione predispone allo sviluppo di artrosi. La
rizoartrosi veniva anche chiamata (oggi non più) “malattia delle sarte”, essendo riscontrata
soprattutto in questa categoria lavorativa; le prese fini determinano, infatti, un grosso scarico di forza
sull’articolazione metacarpo-falangea (MF);
- anomala inserzione dell’abduttore lungo1 del pollice; da studi basati su reperti intraoperatori è
emerso che vi sono 14 varianti di inserzione di questo tendine: metà di queste varianti rendono
meccanicamente sfavorevole il funzionamento dell’articolazione, avendo un effetto destabilizzante
e determinando quindi sublussazione e usura precoce.
Normalmente l’abduttore lungo si divide in due fasci: uno si inserisce a livello del primo osso
metacarpale, l’altro a livello del trapezio. Come si può osservare dalla figura B, la contrazione di
questo muscolo determina l’abduzione corretta dell’articolazione trapezio-metacarpale.
Qualora mancasse l’inserzione a livello del trapezio (condizione comune, si verifica nel 30% dei casi),
tutta la forza in abduzione verrebbe esercitata a carico del primo metacarpo, favorendo l’instabilità
dell’articolazione trapezio-metacarpale e, dunque, la sua degenerazione (fig. C). Questo tipo di
artrosi è più frequente in individui giovani (30-40 anni).

Si tratta di alterazioni molto fini, difficilmente riscontrabili tramite indagini radiologiche; tuttavia, il
riscontro di una rizoartrosi in un paziente giovane deve subito indurre il sospetto di un’alterazione
dell’inserzione dell’abduttore lungo del pollice, anche in assenza di una conferma radiologica. Il
trattamento, comunque, non prevede quasi mai la trasposizione dell’inserzione del tendine, quindi
non vi è una reale necessità di dimostrare il difetto anatomico con indagini radiologiche2.

3.1.3 Eziologia
Si distinguono quadri di:
- artrosi primaria, che può essere:
o associata ad artrosi multi-distrettuale, soprattutto ad artrosi delle dita;
o isolata: l’artrosi si localizza alla mano, portando allo sviluppo di rizoartrosi.

1 Il docente (o lo sbobinatore dell’anno scorso) parla di abduttore breve del pollice. Tuttavia, poiché l’abduttore breve del pollice è
un muscolo intrinseco della mano (origina, infatti, in larga misura dal retinacolo dei muscoli flessori e presenta alcuni fasci di fibre
originanti dai tubercoli di scafoide e trapezio e dal muscolo abduttore lungo del pollice) che si inserisce a livello della falange
prossimale del pollice, è evidente che non possa trattarsi dell’abduttore breve (come si evince anche dall’immagine).
2 In pratica quello che avete appena letto prima è totalmente inutile.

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- Artrosi secondaria:
o post-traumatica, conseguente a:
▪ frattura di Bennet (immagine a fianco): frattura della base del primo
metacarpale; tale frattura, se non trattata in modo adeguato3, rende
suscettibile l’articolazione alla degenerazione precoce;
▪ frattura del trapezio, lussazione/sublussazione della trapezio-
metacarpale (in realtà molto rare, quasi anedottiche)
o a malformazioni tendinee/muscolari

3.1.4 Quadro radiologico


Indipendentemente dal distretto interessato, patogenesi, clinica e imaging radiologico dell’artrosi sono
sempre le stesse. Il quadro radiologico si caratterizzata, dunque, per la presenza di:
- osteofiti;
- geodi;
- sclerosi subcondrale.

3.1.5 Clinica
Il quadro clinico è caratterizzato da:
- dolore: si tratta del sintomo che spinge il paziente dal medico. Compare inizialmente solo sotto
sforzo e localizzato (volare ai muscoli dell’eminenza tenar a livello dell’articolazione TM), per poi
manifestarsi anche a riposo e di notte, in maniera diffusa.
- tumefazione (determinata dalla sinovite conseguente alla condropatia degenerativa, che può
giungere fino a quadri di esostosi);

- instabilità articolare;
- rumore: essendo un’articolazione superficiale è possibile udire uno scroscio articolare. Il rumore è
evocabile palpando con una certa energia l’articolazione;

3Una frattura non riconosciuta o mal trattata non si consolida adeguatamente e la conseguente perdita della congruenza tra i capi
articolari favorisce l’usura.

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- ridotta articolarità fino all’anchilosi: in realtà la rizoartrosi non è quasi mai invalidante e il pz non si
accorge della ridotta articolarità (che può però essere evidenziata con dei test specifici) in quanto le
articolazioni a monte (soprattutto l’articolazione scafo-trapezoidale) sono in grado di compensare la
perdita di movimento normalmente eseguito dalla trapezio-metacarpale. Proprio per questo motivo
è possibile intervenire con l’artrodesi, ovvero la fusione dell’articolazione tra trapezio e primo
metacarpale. Un intervento di questo tipo non può chiaramente essere eseguito a livello del ginocchio
(è invece possibile a livello delle vertebre, si possono quindi fondere 2 vertebre tra di loro e la perdita
di movimento articolare viene compensata dalle altre vertebre);
- riduzione della forza: le pazienti tipicamente riferiscono di non riuscire a svitare o avvitare la
caffettiera o a girare la chiave nella serratura della porta.

I due sintomi più comuni sono, comunque, il dolore e la tumefazione.

Esempio di rizoartrosi destra con sublussazione della TM: il deficit in adduzione è patognomonico.
All’RX si osserva lassità della metacarpo-falangea, che si traduce nell’iperestensione del pollice evidenziabile clinicamente.

La diagnosi differenziale può essere difficoltosa in fase iniziale, quando la sintomatologia è sfumata e
mascherata da altre patologie frequenti nelle donne nella stessa fascia d’età, come:
- sindrome del tunnel carpale (in realtà è abbastanza facile da differenziare, però la riduzione della
forza è un fattore comune ad entrambe patologie)
- morbo di De Quervain
- pollice a scatto, o tenosinovite stenosante dei flessori delle dita
- pseudoartrosi dello scafoide

3.1.6 Classificazione
La classificazione utilizzata è quella di Eaton-Littler, che individua 4 gradi sulla base delle alterazioni
artrosiche radiografiche:
- Grado I: riduzione dello spazio articolare
- Grado II: presenza di sclerosi subcondrale + piccoli osteofiti (< 2 mm)
- Grado III: riduzione della rima articolare, presenza di osteofiti ben visibili (> 2 mm)
- Grado IV: sclerosi subcondrale della scafo-trapezoidale

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3.1.7 Trattamento
Nelle prime fasi si può adottare un approccio di tipo conservativo, mediante:
- immobilizzazione: a differenza dell’artrosi dell’anca e del ginocchio, in cui si incoraggia
il paziente a mantenere un movimento più ampio possibile dell’articolazione, nella
rizoartrosi è consigliata l’immobilizzazione. L’immobilizzazione riduce infatti il dolore
articolare (se l’articolazione non si muove, non dà dolore) ed è ottenuta tramite splint
o ortesi. I tutori impediscono il movimento della TM: ricentrano il primo osso
metacarpale sul trapezio, contrastando le sollecitazioni sublussanti sull’articolazione da parte dei
gesti quotidiani. L’interfalangea rimane libera, consentendo lo svolgimento di attività manuali;
- infiltrazione cortisonica intra-articolare: per riuscire ad eseguire l’infiltrazione è necessario distrarre
l’articolazione, risulta quindi una manovra abbastanza dolorosa. Non è un trattamento risolutivo,
tuttavia consente di attenuare i sintomi per diversi mesi.
- terapia fisica: si esegue normalmente dopo l’infiltrazione, utilizzando laser, ultrasuoni etc…

Nessuna delle terapie fisiche elettromedicali è supportata da evidenze scientifiche di classe I, mentre
l’infiltrazione di cortisone ha delle evidenze chiare riguardo al suo ruolo antalgico.

Quando il trattamento conservativo non ha dato gli effetti sperati e la patologia inficia la qualità di vita del
paziente, si opta per la chirurgia. La scuola di Brescia esegue solitamente la trapeziectomia con
tenosospensione o interposiziione biologica come intervento di scelta.

➢ Artroscopia
Prevede la sinovectomia e lo shaving degli osteofiti; viene eseguito solo nelle rizo-artrosi iniziali e per fare
diagnosi di certezza, nelle fasi tardive l’articolazione è talmente alterata che non si riesce nemmeno a entrare
nell’articolazione con gli strumenti. Attualmente l’uso di questa tecnica tratta solo una piccola quota di
pazienti (3%).
L’intervento prevede l’esecuzione di un taglio di pochi cm per permettere l’ingresso dell’ottica lateralmente
e del palpatore medialmente; si valuta lo stato della cartilagine e si esegue il trattamento (piuttosto
complesso, infatti le ottiche sono molto piccole e può capitare che si rompano durante l’intervento).

➢ Legamentoplastica
Si tratta di un intervento attuabile in quel 30% di pazienti che presenta un’anomala inserzione dell’abduttore
lungo del pollice: l’obiettivo è risolvere il difetto anatomico per donare stabilità all’articolazione; anche in
questo caso viene riservato alle fasi inziali della patologia.

➢ Osteotomia di Wilson
Si esegue un’osteotomia di sottrazione a livello del primo osso metacarpale, con effetto ricentrante sul
trapezio. È indicata negli stadi inziali, nel caso sia presente una sublussazione del primo raggio.

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➢ Artroplastica (intervento di scelta)
Lo scopo dell’intervento è asportare il trapezio parzialmente (emitrapezectomia) o totalmente
(trapezectomia) e, al fine di mantenere una adeguata lunghezza del primo raggio conservandone stabilità e
mobilità, colmare lo spazio residuo con tessuto biologico.
Esistono diversi tipi di artroplastica, quest’anno il professore cita l’utilizzo di una bandelletta ricavata dal
flessore radiale del carpo oppure di una porzione del tendine del palmare gracile arrotolato (come
un’acciuga, si chiama infatti intervento di anchovy). L’anno scorso, invece, ha citato gli interventi riportati di
seguito.

L’intervento proposto da Brunelli 4 prevedeva il posizionamento dell’abduttore lungo del pollice,


adeguatamente arrotolato su se stesso, all’interno della cavità residua. I risultati furono ottimi, tanto che
ancora oggi è considerato uno degli interventi migliori al mondo per la TM.

L’artroplastica di Ceruso è un po’ più semplice rispetto all’intervento precedente. Questa tecnica prevede
la trapeziectomia, prendere un pezzo del tendine dell’abduttore lungo del pollice e farlo arrotolare
attorno al flessore radiale del carpo e bloccarlo alla base del secondo metacarpale.

Esistono innumerevoli interventi di artroplastica, che si differenziano tra di loro per piccoli dettagli: in
questo modo è possibile personalizzare il trattamento in base all’anatomia del singolo pz; in linea
generale, comunque, i dati di letteratura confermano l’efficacia dell’artroplastica biologica nella rizo-
artrosi.

Infine, alcuni propongono addirittura di togliere il trapezio e mettere il gesso per un mese senza eseguire
nessun’altra manovra. In questo modo si formerà tessuto cicatriziale che funziona come l’interposizione
biologica.

4Il prof. Giorgio Brunelli (1925-2018) è nato a Parma ma ha lasciato il proprio cuore a Brescia, dove si è trasferito prima di compiere
20 anni: la sua storia personale coincide con la storia della microchirurgia italiana. È stato maestro di intere generazioni di
microchirurghi, pioniere della microchirurgia in Italia e nel mondo. Ha cominciato la sua avventura di microchirurgo presso gli Spedali
Civili di Brescia, dove ha eseguito il primo reimpianto in Europa di arto superiore nel 1973. In poco tempo il suo reparto è diventato
centro di riferimento nazionale per il trattamento microchirurgico delle lesioni neurovascolari periferiche. Era un drago, geniale sotto
moltissimi punti di vista. Se volete leggere qualcosa in più, lascio il link di un bellissimo articolo che lo racconta: http://www.il-
galileo.eu/n72/Brunelli.html

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➢ Artrodesi
L’artrodesi può essere eseguita in diversi modi, anche se il trattamento in linea generale prevede l’unione di
trapezio e primo metacarpale eliminando l’articolazione: viene resecata la cartilagine articolare per
permettere ai due capi ossei di fondere tra di loro, poichè l’apposizione delle due ossa sub-condrali favorisce
la formazione del callo osseo. Il tutto è poi fissato internamente attraverso:
- cambre a memoria di forma, tenute in freezer e impiantate con un martelletto tra trapezio e
metacarpo; con il calore corporeo si compattano e tendono a compattare l’articolazione dando una
fusione dopo 2 mesi, periodo durante il quale il paziente tiene un gesso
(l’immobilizzazione favorisce la formazione del callo).
- viti di Herbert, che, tramite un sistema particolare, sono in grado di esercitare un
effetto di compressione sui capi ossei man mano che vengono avvitate.
- fili di Kirschner: l’esecuzione è molto più semplice, ma la stabilità ottenuta è
minore.

Una volta il dogma per questo intervento era il seguente: eseguire l’artrodesi nel lavoratore manuale
(specialmente se ha bisogno di tanta forza) ed eseguire, invece, l’artroplastica nelle casalinghe. Oggi, invece,
è stato praticamente abbandonato grazie al miglioramento dello tecniche che conservano l’articolarità (come
quelle prima descritte).

Il problema di questo intervento è lo sviluppo di artrosi nell’articolazione a monte (l’articolazione scafo-


trapezoidale), la quale tenta di compensare la perdita di movimento.

Va comunque detto che l’artrodesi nel suo complesso è un ottimo intervento; nel caso in cui si sviluppi artrosi
nell’articolazione scafo-trapezoidale, dopo circa 25 anni dall’intervento, è possibile eseguire un’ulteriore
artrodesi sull’articolazione che ha sviluppato artrosi (con il rischio di sviluppare artrosi all’articolazione a
monte dopo altri 25 anni). In questo modo, quindi, si è comunque riusciti a tenere sotto controllo il problema
per un periodo di 50 anni.

➢ Protesi
Nonostante siano stati provati numerosi materiali e diverse strutture protesiche, nessuna ha dato risultato
soddisfacente.

Nel file power point caricato sulla comunità didattica vengono mostrate numerose protesi, senza un
commento da parte del docente. Trovo, pertanto, inutile riportare le immagini e i nomi di queste: se siete
appassionati di protesi sapete dove andare a cercare. L’anno scorso ha parlato delle seguenti protesi.

La protesi di Swanson (spaziatore in silicone) si articola con lo scafoide. Tale protesi viene utilizzata
normalmente per il trattamento delle interfalangee prossimali e metacarpo-falangee nell’artrite
reumatoide. Nei pazienti con artrite reumatoide questi interventi hanno avuto successo, mentre sono
state fallimentari nei pazienti con rizoartrosi. Con l’intervento si rischia usura e osteolisi delle ossa attorno
alla protesi.
Talvolta, successivamente alla mobilizzazione della protesi, è richiesto un intervento di revisione; il rischio
operatorio di una revisione è sempre maggiore del primo intervento. Dunque, si preferisce non
protesizzare.

L’unica protesi che ha avuto un discreto successo è stata la Pyrodisk: uno spaziatore in pirocarbonio;
tuttavia, ad oggi non ci sono reali dati a suo favore, in quanto il monitoraggio dei pz impiantati è ancora
in corso; inoltre i costi sono estremamente elevati.

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Per quanto riguarda il trattamento della rizoartrosi il professore non aggiunge altro, quello che segue è quanto trattato nella
sbobina dell’anno scorso.

➢ Interventi di stabilizzazione
Gli interventi di stabilizzazione vengono eseguiti in presenza di un’articolazione non ancora artrosica ma
intrinsecamente instabile, pertanto trovano indicazione principalmente in pazienti giovani. Trattandosi di
tecniche molto complesse, seppur progressivamente semplificate, vengono eseguite solo in centri di
riferimento: richiedono, infatti, una certa curva di apprendimento e quindi una casistica adeguata.
La stabilizzazione secondo Brunelli è un intervento molto complesso (vedi immagine), che prevede la
ricostruzione del legamento inter-metacarpale con bandelletta prelevata dall’abduttore lungo del pollice
(ALP). Questo intervento è praticabile anche in caso di lussazione della trapezio-metacarpale, ma solo in
centri di chirurgia della mano5.

➢ Intervento di denervazione6
Quando il trattamento conservativo risulta inefficace è preferibile, piuttosto che ricorrere all’uso di cortisone,
procedere alla denervazione selettiva articolare, intervento chirurgico minimamente invasivo mirato
unicamente al controllo del dolore. Consiste nel praticare tre piccole incisioni cutanee che permettono di
eseguire, con tecnica microchirurgica, l’ablazione selettiva dei rami nervosi deputati alla conduzione delle
sensibilità dolorifica articolare. L’intervento viene eseguito in anestesia loco regionale, con ricovero
giornaliero e porta ad ottimi risultati con scomparsa del dolore oppure a una sua riduzione variabile dal 50%
al 80%. In molti casi, questo intervento è sufficiente per consentire un miglioramento funzionale soddisfacente
pur lasciando invariata la situazione artrosica.
I risultati sembrano buoni, ma l’efficacia dell’intervento viene ancora oggi messa in discussione da molti
specialisti.

3.1.8 Conclusioni
Vi sono forme gravi senza dolore e forme lievi molto dolorose. La decisione terapeutica dipende
esclusivamente da quanto la patologia interferisce con la qualità della vita di tutti i giorni.

5 Nei centri non di riferimento la lussazione della trapezio-metacarpale viene trattata stabilizzandola con due fili di Kirschner. Tutti
questi pazienti poi si lussano di nuovo e vengono trattati con la stabilizzazione secondo Brunelli.
6 Visto che quanto scritto dallo sbobinatore dell’anno scorso era completamente incomprensibile, ho riportato quanto scritto sul sito

https://ortopedicocarotenuto.it/arti-superiori/rizoartrosi/ (parte in corsivo)

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3.2 Sindrome del tunnel carpale

3.2.1 Canale carpale


Il tunnel carpale è un canale anatomico il cui pavimento è costituito dalle ossa del carpo e il tetto dal
legamento trasverso del carpo. La rigidità di queste strutture rende il canale inestensibile.
Al suo interno sono contenuti 9 tendini (flessori delle dita) e il nervo mediano. Qualsiasi fenomeno determini
un aumento della pressione all’interno del canale causa una sofferenza a carico delle strutture in esso
contenute: la prima che risente di questa compressione è il nervo mediano.

3.2.2 Sindromi canalicolari


Le sindromi canalicolari sono delle patologie caratterizzate da un’alterazione della funzione motrice e/o
sensitiva di un nervo, in seguito alla sua compressione da parte di una struttura anatomica vicina, tipicamente
in un territorio dove il nervo è anatomicamente più vulnerabile. Generalmente si manifestano in seguito ad
eventi infiammatori, traumatici o degenerativi che coinvolgono il canale o le strutture in esso contenute.
La sindrome del tunnel carpale è la più comune delle sindromi canalicolari.

Le sindromi canalicolari più frequenti nella mano sono:


- Sindrome del tunnel carpale: la sintomatologia riguarda le prime tre dita della mano (talvolta anche
un pezzo del quarto dito, in base alle varianti anatomiche di innervazione)
- Sindrome del canale cubitale: è determinata dalla compressione del nervo ulnare lungo il suo decorso
nel canale cubitale; la sintomatologia coinvolge il quarto e il quinto dito.
- Sindrome di Wartenberg: è una rarissima sindrome da intrappolamento del nervo radiale, la
sintomatologia riguarda la faccia dorsale delle prime tre dita della mano.

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La sindrome del tunnel carpale è molto frequente e un medico deve essere in grado di riconoscerla. In alcuni
casi, la sintomatologia dolorosa che coinvolge il braccio può far pensare ad un infarto; altre volte, invece, la
sindrome viene misconosciuta e diagnosticata come mielopatia o stenosi foraminale con compressione delle
radici di C5-C6.

3.2.3 Fattori di rischio


Si tratta di una patologia molto frequente in gravidanza, specialmente dopo il primo trimestre,
probabilmente per ritenzione idrica e per questioni ormonali. Si tratta di una forma che si risolve
autonomamente dopo il parto, anche per questo il trattamento nelle gravide è quasi sempre di tipo
conservativo, tramite l’utilizzo di tutori (vedi dopo).
Attività occupazionali che richiedono movimenti ripetitivi (maschietti furbetti 😏) costituiscono un altro
importante fattore di rischio.
Altri sono:
- sesso femminile;
- invecchiamento;
- familiarità;
- problemi ormonali: ipotiroidismo, diabete, malattie autoimmuni, problemi reumatologici, artrosi,
obesità, insufficienza renale, traumi-fratture di polso;
- infezioni;
- abuso di sostanze tossiche, alcol;
- predisposizione anatomica.

3.2.3 Quadro clinico: stadi della malattia


La sindrome del tunnel carpale (come qualsiasi altra sindrome da compressione nervosa) presenta diversi
stadi:
1. Stadio iniziale (fase irritativa o infiammatoria): i sintomi si presentano durante la notte7 (dolore +
parestesie) e possono essere evocati attraverso test provocatori. I pazienti riferiscono parestesie alle
mani, spesso così intense da rendere difficoltoso il riposo notturno (i pazienti si svegliano perché
avvertono la necessità di scuotere con forza le mani: questa manovra porta beneficio, ma i risvegli
tendono ad essere numerosi durante la stessa notte).

2. Stadio avanzato: i sintomi si manifestano anche durante il giorno con comparsa, inoltre, di deficit di
sensibilità; il paziente lamenta, infatti, che spesso gli cadono gli oggetti dalle mani (non per mancanza
di forza, ma proprio a causa del deficit di sensibilità8)

3. Stadio grave – denervazione: il dolore scompare, tuttavia si manifestano disturbi gravi della
sensibilità (fino all’anestesia e alla paralisi) + ipotrofia muscolare dovuti a degenerazione delle fibre
sensitive e motorie.

È importante riconoscere la malattia nello stadio infiammatorio; con il passare del tempo, quando ormai si è
presentato un deficit della sensibilità e della muscolatura tenare, il danno può anche essere irreversibile. Non
si tratta di un deficit molto esteso, tuttavia risulta invalidante per i pazienti che svolgono un lavoro manuale,
in cui è richiesta una certa precisione dei movimenti.

7I disturbi sono soprattutto notturni a causa della riduzione della cortisolemia e delle posizioni assunte durante il sonno.
8 Per questo motivo la patologia entra in diagnosi differenziale con la rizoartrosi. Tuttavia, nella sindrome del tunnel carpale non sono
presenti né il dolore alla TM né gli scrosci articolari.

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3.2.4 Diagnosi
La diagnosi viene eseguita attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo. L’esame elettromiografico viene
utilizzato come conferma.

Anamnesi
- Attività lavorativa/sportiva del paziente: la causa principale dell’insorgenza della sindrome è la
tenosinovite9 di uno dei 9 tendini contenuti nel canale carpale (per questo spesso i pz presentano
un rigonfiamento volare in corrispondenza della guaina dei flessori), in larga parte determinata da
over-use da attività lavorativa o sportiva.
- Sintomi riferiti dal pz:
o risveglio notturno con formicolio e intorpidimento della mano,
bruciore (più raro), dolore, gonfiore delle prime tre dita
o gonfiore al mattino della mano
o caduta degli oggetti
o perdita di sensibilità
o perdita di forza
o dolore all’arto superiore (il dolore tende a progredire prossimalmente lungo il decorso del
nervo, anche se in realtà questo meccanismo di irradiazione ed estensione prossimale è più
tipico delle sindromi compressive a carico del nervo ulnare)
o parestesie in posizioni statiche

Domanda di uno studente: la sintomatologia può insorgere anche in modo acuto?


Risposta: Sì, tipicamente questo è il caso di chi utilizza per troppo tempo il martello penumatico o va in mountain bike.
Sono però casi più rari.

Esame clinico
Attraverso un esame neurologico si valutano la sensibilità e la muscolatura:
- Valutazione della sensibilità: si evidenzia un deficit di sensibilità nella zona di innervazione del nervo
mediano. Può essere eseguita tramite strumentazione particolare come il diapason o il
monofilamento di semmes-weinstein: si cerca di capire quale sia la minima distanza a cui il pz
percepisce due stimoli come distinti (nei soggetti sani questa distanza è 5 mm).
- Valutazione della muscolatura: si evidenzia atrofia dei muscoli dell’eminenza tenar (innervati dal
nervo mediano). Il trofismo di questi muscoli viene valutato chiedendo al pz di schiacciare tra di loro
il primo e il quinto dito, palpando in corrispondenza dell’eminenza tenar: in stadi molto avanzati al
paziente risulterà quasi impossibile eseguire questo movimento; negli stadi meno avanzati, invece, il
paziente riesce, ma si percepisce una riduzione del trofismo dei muscoli. La valutazione del trofismo
muscolare può anche essere fatta mentre il medico esercita una pressione sul primo dito (come
mostrato nell’immagine).

9 La tenosinovite è l’infiammazione a carico della guaina che riveste i tendini

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Si eseguono test provocativi specifici:
- Segno di Tinel: si esegue una percussione a livello del tunnel carpale (plica
flessoria, localizzata sul versante volare del polso); è positivo quando la
manovra induce delle parestesie alle dita. Il test può essere quantificato
misurando la distanza (in senso prossimale) dalla linea trasversa cutanea
volare del polso: se il test è positivo anche quando eseguito molto lontano dal
carpo, significa che la sofferenza del nervo è molto importante.

- Test di Phalen: si domanda al paziente di flettere i polsi (come nell’immagine


a fianco) e di mantenere la posizione per circa un minuto; questo test risulta
positivo se compaiono parestesie a livello delle prime tre dita;

Diagnosi ex juvantibus
Qualora siano presenti particolari dubbi si può ricorrere alla diagnosi ex juvantibus (diagnosi supportata da
un tempo di remissione della patologia in seguito ad un dato trattamento) se il paziente trae beneficio da un
trattamento specifico, allora è probabile che il problema sia a carico del nervo mediano. I trattamenti che si
adottano in questo caso sono:
- l’utilizzo di un tutore notturno in grado di mantenere il polso in estensione di 15° (posizione che
riduce al minimo le pressioni vigenti a livello del tunnel carpale):
- infiltrazione di cortisone a livello del canale carpale (la sintomatologia dovrebbe regredire per oltre
un mese).

Esami strumentali
L’esame principe nella conferma della diagnosi di sindrome del tunnel carpale è l’elettromiografia10 (EMG),
che permette di stimare il grado di sofferenza dei rami nervosi da un punto di vista motorio e sensitivo.

Il prof. non aggiunge nulla di più a riguardo. Quello che segue è un estratto del contenuto delle slide.

I parametri che vengono valutati sono la velocità di conduzione e le latenze (sensitiva e motoria).
A causa della sensibilità non sempre eccezionale (56-85%), vi sono un alto numero di falsi negativi (circa 1/3 dei pazienti).

Gli studi elettrodiagnostici devono essere ottenuti prima dell’intervento chirurgico per due motivi:
- per confermare la diagnosi;
- per stimare la prognosi (i pazienti più gravi hanno meno probabilità di avere un completo recupero
dopo l’intervento chirurgico).

10 Il prof. parla solo di elettromiografia, tuttavia le slide riportano anche l’elettroneurografia (ENG)

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L’RX veniva utilizzata in passato attraverso proiezioni particolari, specifiche per lo studio
del tunnel carpale (come quella mostrata nell’immagine a lato), finalizzate ad evidenziare
eventuali osteofiti post frattura che occupano il canale.
Oggi serve principalmente ad escludere altre patologie, come un tumore del terzo distale
del radio che può determinare la sindrome del tunnel carpale.

L’ecografia, benché bullizzata, rappresenta un’utilissima metodica di supporto per:


- confermare la sinovite dei flessori (la storia di un recente sforzo e l’esame obbiettivo sono già
abbastanza indicativi, tuttavia nei quadri non classici di sinovite, l’ecografia risulta molto utile)
- escludere cisto-tenosinoviti, sinovite reumatoide, sinovite amiloide;
- evidenziare fibromi nel pavimento del tunnel (anche se il trattamento rimane sostanzialmente
identico);
- valutare le dimensioni del nervo;
- evidenziare varianti anatomiche dell’innervazione, al fine di evitare
l’eventuale lesione dei rami motori del nervo mediano durante
l’intervento di sezione del legamento trasverso. La branca motoria del
nervo, infatti, presenta diverse varianti anatomiche (illustrate
nell’immagine) e il loro sezionamento accidentale, con conseguente
paralisi, costituisce la complicanza neurologica più frequente dell’intervento (anche per questo
motivo si preferisce l’intervento a cielo aperto piuttosto che in endoscopia). In realtà per evitare di
tagliare il nervo è sufficiente eseguire la resezione stando sempre dal lato in cui non ci sono le
terminazioni nervose.

3.2.5 Diagnosi differenziale (in grassetto quelle citate quest’anno, in quanto ritenute le più significative)
➢ Compressioni alte del nervo mediano: esistono altre sindromi da compressione del nervo mediano,
in cui la compressione è più prossimale (molto più rare)
➢ Tumore giganto-cellulare sul radio
➢ Radicolopatia cervicale: in questo caso, talvolta, la diagnosi differenziale è molto difficile; infatti, una
compressione radicolare a livello C5-C6 determina alterazioni della sensibilità molto simili a quelle
che si hanno nella sindrome del tunnel carpale; inoltre, esistono molti casi di ernie o stenosi del
canale vertebrale totalmente asintomatiche (il riscontro di ernie/stenosi vertebrali si ha nel 75% delle
RM eseguite a soggetti asintomatici). Non è, quindi, infrequente che un paziente si presenti con una
sintomatologia da radicolopatia cervicale C5-C6, con una RM positiva per ernia/stenosi vertebrale,
anche se il responsabile della sintomatologia è la sindrome del tunnel carpale.
Per distinguere le due patologie si deve richiedere all’elettrofisiologo che esegue l’EMG se la genesi
del disturbo è centrale o periferica.
➢ Sindrome dell’outlet toracico: è una sindrome da compressione su base vascolare (es. aneurismi) o
ossea (es. costa sovra-numeraria; ipertrofia del processo trasverso di C7) a carico del plesso

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brachiale. Anche in questo caso l’irritazione nervosa periferica può essere messa in evidenza tramite
la manovra di Tinel (eseguita a livello cervicale).
➢ Neuropatia dell’ulnare: il territorio in cui compare la sintomatologia è differente.
➢ Neuropatie periferiche metaboliche: può essere presente in pazienti diabetici; l’elettrofisiologo è in
grado di discriminarla dalla compressione del nervo
➢ Tenosinovite di de Quervein

3.2.6 Trattamento
Trattamento conservativo
Pressoché sovrapponibile a quanto detto nel paragrafo relativo alla diagnosi ex juvantibus. Si utilizzano,
infatti:
- tutore, utilizzato soprattutto nelle donne gravide, in cui nella maggioranza dei casi la sindrome è
transitoria;
- infiltrazione di steroidi nel canale carpale: serve per ridurre la sinovite; veniva utilizzata molto di più
qualche anno fa, poi si sono verificati casi di irritazione del nervo mediano per la puntura con l’ago.

Esistono, tuttavia, dei fattori (suggeriti da Kaplan) che predicono un risultato peggiore con il trattamento
conservativo:
- Età maggiore di 50 anni
- Durata dei sintomi > 10 mesi
- Parestesie costanti
- Tenosinovite stenosante dei flessori
- Phalen test positivo in tempo < 30 secondi

In tutti questi casi è preferibile l’intervento chirurgico, che comunque è poco invasivo.

Trattamento chirurgico
Viene intrapreso quando il trattamento conservativo fallisce oppure direttamente in pazienti che presentano
sintomi più severi.

L’intervento dura pochi minuti. La chirurgia open prevede un’incisione di 2-2,5 cm, per individuare al meglio
le possibili varianti anatomiche e coagulare i vasi. Esiste anche una tecnica endoscopica, che prevede
un’incisione di circa 1 cm. La scuola di Brescia predilige, tuttavia, l’approccio a cielo aperto in quanto, a fronte
di un outcome simile, l’intervento endoscopico presenta un rischio intraoperatorio maggiore (lesione del
ramo motore del nervo mediano in caso di varianti anatomiche prima descritte).
I risultati della chirurgia sono duraturi e positivi nel 70-90% dei casi.

La sindrome del tunnel carpale può recidivare dopo l’intervento, specialmente a causa della formazione di
aderenze tra i monconi del legamento sezionato e il nervo mediano. In questi casi è necessario intervenire
nuovamente, isolando il nervo per un tratto maggiore ed operando un intervento di neurolisi esterna
(separazione dell’epinevrio del n. mediano dal tessuto cicatriziale) proporzionale all’estensione delle
aderenze. In ogni caso la breccia cutanea risulterà più ampia di quella precedente.

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3.3 Morbo di Dupuytren

Il morbo di Dupuytren è una malattia della mano caratterizzata da un ispessimento patologico e da una
retrazione dell'aponeurosi palmare (che fa seguito al tendine del muscolo palmare gracile, assente nel 20%
della popolazione), una struttura fibrosa, normalmente sottile, situata a livello del palmo della mano e delle
dita, appena al di sotto della cute.

Questa malattia si presenta inizialmente con dei piccoli noduli duri sottocutanei alla base dei metacarpi;
successivamente progredisce con la formazione di 'corde' aponeurotiche che passano sopra al nodulo e
convergono verso il centro del polso. Queste corde sono anelastiche e, accorciandosi, provocano una
graduale contrattura in flessione delle dita con conseguente limitazione al movimento delle stesse in
estensione. La retrazione delle dita appare evidente soprattutto a livello del quarto e del quinto dito, molto
raramente si estende fino al primo dito (ma non è impossibile). Molto frequentemente colpisce entrambe le
mani (65%).

L’organizzazione delle corde può assumere diverse conformazioni, come si può osservare dall’immagine.
Particolare attenzione va posta a livello del quinto dito, dove la corda ha la tendenza ad inglobare il suo fascio
vascolo-nervoso (retrovascular cord).

Le dita possono apparire ingrossate, perché la fibrosi si può estendere fino a coinvolgere anche la parte
dorsale dell’IF.

Il tessuto patologico risulta molto simile a quello presente nelle ferite guarite con cicatrice ipertrofica. Nei
noduli e nelle corde si trovano, infatti, fibroblasti e miofibroblasti; questi ultimi hanno proprietà contrattili e
capacità di produrre collagene ed elastina.

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In alcuni pazienti la stessa malattia può colpire anche altre parti del corpo:
- pianta dei piedi (10% dei casi): malattia di Ledderhose, si caratterizza per la presenza di noduli
plantari e retrazione plantare, dovuti a un’ipertrofia del palmare gracile del piede;
- nocche delle dita (22%);
- pene (2%): malattia di Peyronie o induratio penis; la patogenesi in questo caso è diversa rispetto al
quadro palmare e quello plantare, tuttavia anche in questo caso si assiste ad una retrazione dovuta
alla presenza di una placca fibrosa-cicatriziale.

3.3.1 Eziologia
La patologia, più frequente nel sesso maschile, non ha un’eziologia nota, anche se è stata riscontrata una
certa predisposizione familiare su base genetica nel 27% dei casi. Poiché tutte le volte i cui si dice che non si
conosce l’eziologia di una patologia vi sono 27674 fattori di rischio, anche in questo caso sembrano essere
implicati nell’insorgenza del morbo di Dupuytren:
- microtraumi ripetuti o uso eccessivo della mano
- abuso di alcol
- uso di antiepilettici (Gardenale)
- diabete
- età avanzata

Domanda di uno studente: “L’uso eccessivo della mano è un fattore di rischio anche per l’insorgenza della
malattia di Peyronie?” Il professore sghignazza, ma non risponde.

3.3.2 Classificazione
La classificazione di Tubiana-Michon divide la malattia in 4 stadi in base alla presenza di noduli sottocutanei
e all’angolo formato dalla seconda falange del dito interessato:

- Stadio N: presenza di noduli sottocutanei isolati


- Stadio I: retrazione con flessione di una o più dita con
angolo < 45°
- Stadio II: retrazione con flessione di una o più dita con
angolo tra 45° e 90°
- Stadio III: retrazione con flessione di una o più dita con
angolo tra 90° e 135°
- Stadio IV: retrazione con flessione di una o più dita con
angolo tra 135° e 180°.

3.3.3 Diagnosi
La diagnosi è clinica.

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3.3.4 Trattamento chirurgico
La malattia ha un decorso progressivo, anche se molto lento. È possibile avvalersi della fisioterapia e del
posizionamento di splint e tutori per rallentare la deformità delle dita, ma la terapia è stata finora
esclusivamente chirurgica.

È possibile eseguire l’intervento qualora si riscontri clinicamente uno stadio II, III o IV. La presenza di un
nodulo al palmo non costituisce, dunque, indicazione all’intervento.

Il trattamento chirurgico prevede l’asportazione del tessuto patologico per permettere la distensione delle
dita: risulta, perciò, indicato quando la funzione della mano è compromessa (non è possibile l’estensione
completa del dito interessato).

Il rischio principale dell’intervento è rappresentato dalle possibili lesioni vascolari (così come a livello di
capsula e tendini): la progressione dell’intervento causa una retrazione anche delle strutture vascolari, che
rischiano di essere stirate durante l’intervento. Per questo motivo, durante l’intervento, un tempo si utilizzava
un piccolo doppler che avvisava quando i vasi erano a rischio, a questo punto l’intervento si fermava e
proseguiva con retrattori esterni.
Quando la patologia avanza, le corde hanno la tendenza a coinvolgere le strutture vascolo-nervose,
specialmente a livello del quinto dito: il trattamento ha una durata maggiore perché si fatica a distinguere i
nervi dall’aponeurosi. Per la complessità di questo tipo di intervento e per i risultati spesso poco
soddisfacenti, quando si deve trattare un grado avanzato a livello del quinto dito, la soluzione migliore è
l’amputazione. Un quinto dito sempre flesso si impiglia ovunque e fa sporconare: anche se sembra eccessivo,
la soluzione migliore per il paziente è proprio l’amputazione.

Procedure chirurgiche11
1. Fasciotomia (o aponeurotomia) semplice
La fasciotomia prevede la sola interruzione dell’aponeurosi (non viene escissa); per questo motivo si tratta di
un intervento palliativo per motivi igienici in soggetti defedati oppure come tempo preparatorio alla
aponeurectomia (per favorire la distensione di cute e fasci vascolo-nervosi). Si distingue in:

a. Percutanea (Dupuytren, 1834): in casi molto selezionati si può eseguire la sezione del cordone
usando un bisturi ad ago, senza pertanto incidere la cute (cordotomia percutanea ad ago).
L'intervento di norma richiede tra i 15 e i 30 minuti, è di tipo ambulatoriale (senza ricovero
preventivo) e in anestesia locale.

Essendo un trattamento per via percutanea, il rischio è connesso al fatto che non si vede un cacchio.
Poiché le corde inglobano spesso le terminazioni nervose, un’eventuale lesione porta a
complicazioni neurologiche di stiramento o strappamento di nervi sensitivi digitali.

11Ci è voluta una laurea per capire cosa intendesse il prof: quello che leggete è un condensato tra le informazioni confuse dell’anno
scorso + le parole e slide contradditorie del prof + le informazioni (spero) illuminanti tratte dalla “Rivista Italiana di chirurgia della
mano” (https://www.sicm.it/storage-file/pubblicazioni/2015/vol53_n1_marzo.pdf)

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Esempio di paziente trattato con fasciotomia percutanea con ottimo risultato clinico.

b. Con piccole incisioni

2. Fasciectomia (o aponeurectomia)
L’aponeurectomia consiste nell’escissione dell’aponeurosi; si tratta del trattamento più diffuso e consolidato
e si divide a sua volta in:
a. parziale: rimozione delle sole aree di tessuto malato;
b. radicale o totale

L'intervento viene eseguito in anestesia generale o locoregionale, con iniezione di anestetico sotto l'ascella
da parte dell'anestesista (blocco ascellare). La procedura di norma richiede tra i 45 e i 70 minuti e viene
praticata in regime di day-surgery.
Il paziente viene medicato dopo sette giorni dall'intervento ed i punti vengono rimossi dopo 15-20 giorni dallo
stesso. L'intervento è seguito da una breve immobilizzazione e dalla riabilitazione della mano (convalescenza
di almeno 1 mese).

3. Dermofasciectomia
Si pratica l’asportazione in blocco dell’aponeurosi con la cute; indicata nelle recidive e nei giovani con diatesi
marcata, utilizza preferibilmente innesti di cute totale e si applica prevalentemente nelle dita

Tecniche d’incisione e chiusura cutanea


La tecnica d’incisione varia in base al coinvolgimento del palmo della mano e, soprattutto, allo stadio della
patologia. Negli stadi avanzati la cute tende a ritirarsi parallelamente alla deformazione dell’articolazione,
pertanto è possibile eseguire delle plastiche “a zeta” che permettono un allungamento della cute. Con questo
tipo di intervento si guadagna fino a 2 cm di cute con 4 zeta.

La chiusura cutanea può avvenire per sutura diretta dei lembi delle plastiche o delle incisioni, mediante
l’applicazione di innesti di cute o l’impiego di lembi locali oppure per epitelizzazione spontanea di parti di

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incisioni lasciate aperte. Quest’ultima tecnica viene definita “open palm”: la breccia cutanea lasciata aperta
viene coperta solo con una garza grassa e si lascia guarire per seconda intenzione. I risultati, anche quelli
estetici, sono molto buoni, nonostante possa apparire molto cruento.

Nonostante lo strumento nell’immagine possa sembrare correlato a pratiche di


tortura vietnamita, in realtà serve per tenere in estensione costante le dita
favorendo lo scollamento delle corde.

Complicanze e recidive
Le possibili complicanze dell'intervento chirurgico sono le infezioni (viene praticata terapia antibiotica un'ora
prima della procedura), danni ai nervi e vasi della mano, spesso legati alla corda patologica, ematomi o
necrosi del tessuto cutaneo.
In casi estremamente rari si possono verificare delle crisi ischemiche tali da portare a necrosi il dito
interessato. Il recupero solo parziale della motilità del dito, frequente negli stadi 3 avanzati e 4, è causato
dalla prolungata rigidità delle dita coinvolte.

Possono comparire recidive della malattia. Queste sono rare con un intervento di aponeurectomia, più
frequenti con la tecnica di cordotomia ad aghi.
Il trattamento della recidiva è molto complesso.

3.3.5 Trattamento non chirurgico: utilizzo di collagenasi


Rappresenta la più recente proposta di terapia della malattia di
Dupuytren con un trattamento invasivo minimo, anche se al momento
non si può più eseguire per cavilli ministeriali. Viene eseguita una
infiltrazione di collagenasi (enzima in grado di digerire localmente il
collagene, la maggiore componente del tessuto cicatriziale, presente a
livello dei cordoni fibrosi del Dupuytren) nella sede di malattia: dopo 24
ore, previa anestesia, si porta il dito in estensione fino a che la corda tendina non si spezza.
L’intervento è molto meno cruento dei precedenti, ma non tutti i pazienti possono trarne beneficio (vengono
esclusi gli stadi iniziali e troppo avanzati). Inoltre, i tassi di recidiva sono maggiori e i costi sono elevati (una
fiala costa 700 euro).

3.3.6 Conclusioni
Benché le opzioni terapeutiche siano in continua evoluzione, non esiste una terapie eziologica. Le recidive,
infatti, sono molto elevate (indipendentemente dal tipo d’intervento il tasso medio di recidiva è del 20% a 5
anni).

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3.4 Tenosinoviti stenosanti e sindromi da sovraccarico

Le tenosinoviti sono processi infiammatori a carico delle guaine tendinee: si instaurano a seguito di
microtraumi ripetuti che avvengono quando i tessuti coinvolti non sono in grado di contrastare la tensione
loro applicata. Le fibre collagene sopportano un potenziale di elongazione solo del 4%, oltre il quale si verifica
la rottura dei ponti molecolari delle fibre collagene.

3.4.1 Fisiopatologia
Si riconoscono divere fasi successive comuni a queste patologie:
- Fase 1: stadio infiammatorio con “ingroth” vascolare ed infiltrazione di cellule infiammatorie.
Clinicamente si manifesta con eritema, dolore, gonfiore e debolezza; se trattato in modo adeguato
(con riposo, ghiaccio, ortesi, elevazione e FANS) si ha una risoluzione rapida (2 settimane).
- Fase 2: stadio proliferativo con produzione di fibre collagene immature e matrice collagenica da
parte dei fibroblasti (suscettibili di rottura con un sovraccarico ulteriore). La terapia è sovrapponibile
ma va associata a riduzione dei movimenti (per prevenire la rottura delle fibre di collagene immature)
e protratta per un periodo più lungo.
- Fase 3: stadio di maturazione con organizzazione delle fibre collagene immature, le quali tornano ad
avere una resistenza pari a quella delle fibre fisiologiche;
- Fase 4 - stadio fibrotico: la ripetuta attivazione della risposta infiammatoria con successiva
proliferazione porta a fibrosi dei tendini, delle guaine tendinee o del retinacolo coinvolti.

3.4.2 Eziologia
Si distinguono:
- fattori determinanti: microtraumatismi ripetuti o sollecitazioni funzionali quotidiane;
- fattori favorenti: anomalie anatomiche o scorretta esecuzione di manovre/gesti durante l’attività
lavorativa e sportiva.

3.4.3 Diagnosi
La diagnosi è essenzialmente clinica. Tuttavia, quando la clinica non è dirimente, l’esame strumentale
prescelto da Zeus è l’ecografia, la quale permette di differenziare i diversi tipi di tenosinovite:

- sierosa: abbondante liquido sinoviale intorno al tendine iperecogeno, ben visibile nell’immagine a
fianco;
- infettiva: contenuto della guaina ipoeogeno con eventuali detriti; utile eventuale aspirazione
ecoguidata;
- ipertrofica, tipica manifestazione di patologie reumatiche (AR, LES): si osservano villi iperecogeni
dentro la guaina tendinea. Clinicamente si evidenziano deformità tipiche, come il versamento a
bisaccia (visibile nell’immagine). Il versamento assume una conformazione a “gobbe di cammello”, in
quanto la presenza del retinacolo degli estensori (struttura inestensibile) impedisce l’accumulo di
liquido in quella zona.

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3.4.A Tenosinovite di De Quervain

La tenosinovite di De Quervain, un tempo chiamata “malattia delle balie”, è un’infiammazione cronica della
guaina che avvolge i tendini che estendono ed allontanano il pollice dalla mano: il tendine abduttore lungo
del pollice ed estensore breve del pollice.

Dal Gray12
Profondamente al retinacolo dei tendini dei muscoli estensori, si trovano sei tunnel (o canali) che permettono il
passaggio dei tendini dei muscoli estensori, ciascuno con una guaina sinoviale. I tendini dei muscoli abduttore lungo
del pollice ed estensore breve del pollice si trovano in un tunnel (detto puleggia) a livello della faccia laterale del
processo stiloideo del radio (1° comparto degli estensori) che ha lo scopo di mantenerli adesi al piano osseo. La
tenosinovite stenosante di De Quervain interessa la guaina di questi due tendini, i quali fanno fatica a scorrere
all’interno del tunnel, innescando la tipica sintomatologia dolorosa.

È una patologia molto frequente: questa patologia e la tenosinovite stenosante dei flessori del carpo (dito a
scatto) costituiscono le due principali problematiche infiammatorie delle dita della mano.

3.4.A.1 Eziologia
Fattori determinanti: attività manuale con microtraumi ripetuti o utilizzo intensivo della mano in caso di:
- attività lavorative: quando venne descritta (nel lontano 1895) era spesso presente nelle sarte, nelle
balie (favorita dalla postura del polso necessaria a tenere in braccio i neonati) e nelle lavandaie (per
il continuo strizzare i panni). Altri lavori interessati sono il giardinaggio, la falegnameria e la
carpenteria, ma anche lavori meno pesanti (dattilografia o banalmente l’uso scorretto del mouse)
- pratica di strumenti musicali (pianoforte e i violino), in presenza di un gesto tecnico non perfetto13;
- attività sportive, come il golf, la pesca a mosca, lo squash, il badminton;
- uso eccessivo del telefonino, che ha portato a coniare14 il “pollice da BlackBerry” (il prof tradisce un
animo Apple, affermando che oggi questa patologia dovrebbe chiamarsi “pollice da Iphone”)

Fattori favorenti:
a. Anomalie anatomiche (di solito, si tratta di pazienti con frattura del polso con eccessiva correzione
dell’angolo radiale)

3.4.A.2 Clinica
L’infiammazione della guaina tendinea causa dolore o contrattura localizzata alla regione radiale del polso,
che può irradiarsi prossimamente all’avambraccio o distalmente al primo dito. La sintomatologia dolorosa si

12 Ho usato 5 volte questo libro costato un rene e adesso si è pure scollata la copertina
13 Alla Scala di Milano esistono dei medici specializzati nel correggere eventuali gesti scorretti dei musicisti per prevenire l’insorgenza
di questa patologia
14 In epoca preistorica a quanto pare

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accompagna a sensazione di disagio e difficoltà nel compiere alcuni movimenti
(ruotare il polso, fare il pugno, pinza con il pollice, presa di oggetti)
Compare una tumefazione palpabile e ben visibile (quindi la diagnosi è
semplice) alla base del pollice, in corrispondenza della zona di maggior dolore.
In alcuni casi emerge anche l’ispessimento del tetto del canale degli estensori
del primo dito sotto forma di nodulo doloroso.

Può andare in diagnosi differenziale con la rizoartrosi, essendo le zone interessate adiacenti (la rizoartrosi è
solo 2 cm distale rispetto alla sede del de Quervain); tuttavia, la patogenesi e l’età di insorgenza sono molto
diverse (la rizoartrosi è negli anziani, la de Quervain nei giovani).

3.4.A.3 Diagnosi
La diagnosi nella maggior parte dei casi è clinica. Si possono eseguire dei test:
- test di Eichhoff (erroneamente attribuito a Finklestein): l’operatore fa chiudere il pollice del paziente
nel pugno, e muove il polso in deviazione ulnare. Questo movimento provoca un dolore forte a livello
della guaina.
- test di Brunelli: con il polso è mantenuto in deviazione radiale, si domanda al paziente di abdurre il
pollice, provocando un attrito doloroso del tendine contro la puleggia.

La diagnosi può essere completata con un'ecografia.

3.4.A.4 Trattamento
In un paziente in stadio inziale al primo episodio si consiglia un trattamento conservativo che prevede:
- riposo;
- ortesi che favoriscono lo scarico dei due tendini;
- antinfiammatori + ghiaccio per togliere l’infiammazione;
- terapia fisica;
- infiltrazione con farmaci corticosteroidei.

Nelle fasi avanzate è necessari cambiare approccio ed eseguire un trattamento


chirurgico: si incide la guaina del primo compartimento degli estensori per liberare i
tendini ed eventualmente si pratica una tenosiviectomia per “pulire” i tendini
infiammati. La complicanza più frequente è la lesione alla porzione sensitiva del nervo
radiale (per questo motivo, dopo la piccola incisione di 2 cm, è fondamentale isolare il
nervo prima di proseguire). In assenza di complicanze la prognosi è eccellente.

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3.4.B Tenosinovite stenosante dei flessori delle dita o “dito a scatto”

Il «dito a scatto» o, più correttamente, tenosinovite stenosante è un’infiammazione che interessa le pulegge
(in particolare la puleggia A1, situata un cm alla MF) ed i tendini flessori delle dita. Riguarda soprattutto le
dita lunghe, solo raramente coinvolge il primo dito (nei bambini) e colpisce tipicamente i lavoratori con
intensa attività manuale.

3.4.B.1 Patogenesi
La patogenesi è praticamente sovrapponibile a quella del morbo di De Quervain, da cui differisce solo per la
sede coinvolta. Una condizione infiammatoria a livello tendineo ne aumenta il volume, rendendo difficoltoso
il suo passaggio attraverso la puleggia. Il perdurare dell’attrito tra tendine e puleggia contribuisce ad
alimentare l’infiammazione dolorosa che, a sua volta, favorisce un ispessimento della puleggia stessa ed un
impedimento allo scorrimento del tendine.

In questa situazione, nel tentativo di estendere il dito, il tendine rimane bloccato all'ingresso della puleggia.
Incrementando lo sforzo, il tendine riesce a superare l'ostacolo, provocando lo scatto che il paziente avverte
spesso come doloroso.

La patologia può progredire fino a rendere impossibile l’estensione del dito.

3.4.B.2 Clinica
I sintomi più frequenti sono:
1. dolore al palmo della mano alla base del dito (ma spesso il paziente lo percepisce più distale)
2. lieve gonfiore alla base del dito e rigidità̀ dello stesso;
3. il tipico scatto doloroso al compimento del movimento di estensione (i pazienti riferiscono di
svegliarsi al mattino con il dito chiuso e poi lo riaprono con questo scatto doloroso);
4. deficit motorio, quando lo “scatto” non è più possibile.

3.4.B.3 Trattamento
Fino a quando non si ha un vero blocco del dito si possono fare terapie conservative (es. antinfiammatori o
infiltrazioni). Se il problema persiste si passa alla chirurgia: consiste in un’incisione di 1 cm a livello cutaneo
e nella sezione della puleggia per liberare il tendine. Il risultato dell’intervento, anche da un punto di vista
estetico, è molto buono.

3.4.B.4 Prognosi
Dopo l’intervento, bisogna mobilizzare subito il dito e la ripresa delle usuali attività avviene nell’arco di alcune
settimane.

I risultati a lungo termine sono molto buoni, ed è davvero raro che si verifichi una recidiva. Questa avviene
più frequentemente in concomitanza di patologie generalizzate.

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3.5 Fratture

3.5.A FRATTURE DI POLSO

Le fratture di polso o fratture del terzo distale di radio rappresentano in assoluto la frattura più frequente.
L’incidenza è più elevata nei bambini e, soprattutto, nelle donne anziane (a causa dell’osteoporosi). Sono
fratture frequenti anche in seguito a traumi dovuti a diversi tipi di sport.
In particolare, nella maggioranza dei casi si ha frattura in seguito a caduta ed appoggio protettivo sulla mano,
con conseguente leva e forza che supera la capacità di deformazione elastica dell’osso a cui segue una
ritardata reazione posturale protettiva e ridotta sincronizzazione nell’anziano.

La frattura è spesso causata, quindi, da un’iperestensione del polso con


conseguente scomposizione dorsale. Altri meccanismi (meno rari ma
comunque frequenti) sono la frattura in seguito a :
- iper-flessione (scomposizione volare);
- inclinazione radiale;
- inclinazione ulnare.

La frattura di polso può avvenire anche a seguito di traumi stradali, seguendo le linee di forza descritte prima.

3.5.A.1 Diagnosi
La diagnosi è clinicamente molto facile. In proiezione laterale è evidente una deformazione a “dorso di
forchetta” mentre in proiezione antero-posteriore un’inclinazione radiale.

Viene di norma eseguita una radiografia, per ricercare un’alterazione dei parametri di normalità:
• in proiezione laterale si valuta l’angolo dorsale: fisiologicamente è compreso tra 0° e 18°.
• In proeizione antero-posteriore si valuta l’angolo radiale che ha un valore tra i 16° e i 28°.
• Sempre in proiezione antero-posteriore si deve valutare la varianza ulnare (quanto l’ulna è più o
meno lunga rispetto al radio): fisiologicamente essa varia da -2mm a +3mm.

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Queste fratture sono caratterizzate da una tipica dorsalizzazione del frammento distale del radio e furono
studiate in particolare dal vetusto Colles . La frattura classica di polso prende infatti il nome di “frattura di
Colles” ed è una frattura extra-articolare.

Nel lontano 1814 il povero Colles non aveva a disposizione RX, pertanto non trattava in modo adeguato i suoi pazienti
(su dottori.it, infatti, aveva una pessima valutazione), anche se non ne sembrava troppo insoddisfatto:

“…resta una consolazione: che l’arto, dopo un certo periodo di tempo, recupera nuovamente la libertà in tutti i suoi
movimenti e ritorna ad essere completamente privo di dolore; la deformità rimane invariata durante tutta la vita…”.

3.5.A.2 Classificazioni
Per scegliere la terapia più adeguata è importante classificare la frattura in modo corretto, in relazione a:
- instabilità;
- riducibilità;
- meccanismo traumatico di frattura;
- lesioni associate;
- condizioni generali del paziente (nei pazienti più anziani si può accettare la deformità per evitare la
chirurgia, che potrebbe avere più malefici che benefici).

Essendo la frattura di polso la più frequente in


assoluto si hanno tantissime classificazioni. La più
utilizzata (anche in altri distretti) è la
classificazione AO che suddivide le fratture in A B
e C in base alla gravità e alla comminuzione.

3.5.A.2 Trattamento
Fratture non trattate possono causare deformità extraarticolari ed intraarticolari. Quindi trattare is better.

Negli anni si è assistito ad un’evoluzione: da trattamenti conservativi con apparecchio gessato si è passati a
tecniche a cavallo tra un trattamento conservativo e un trattamento chirurgico (osteosintesi con fili di
Kirschner supportata da gessi chiusi), fino ad arrivare all’utilizzo di fissatori esterni e osteosintesi con placche
e viti.

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Il trattamento differisce in base al tipo di frattura

Fratture extraarticolari ed articolari composte ⇒ GESSO (BRACHIO)-ANTIBRACHIO-METACARPALE

Fratture extraarticolari ed articolari scomposte o riducibili e/o (modicamente) instabili ⇒ OSTEOSINTESI


PERCUTANEA

Fratture extraarticolari ed articolari scomposte significativamente, irriducibili e/o instabili ⇒ FISSAZIONE


ESTERNA e FISSAZIONE ESTERNA ASSOCIATA A OSTEOSINTESI PERCUTANEA

È importante ricordare che un paziente anziano ha minori esigenze nella forza, nel ROM e nella cosmesi.

Riduzione manuale + gessatura


In anestesia locale si esercita una trazione a livello del gomito
e delle dita per “sgranare15” la frattura, si spinge il frammento
dorsale e si confeziona un apparecchio gessato chiuso
(solitamente un gesso antibracio-metacarpale).
Per una frattura di Colles (extraarticolare con frammento
dorsale) si confeziona un gesso con flessione di 30° e
ulnarizzazione di circa 15°: questa posizione sfrutta la ligamentotassi, tecnica che consiste nell’applicazione
di una forza di distrazione che, agendo sui legamenti intatti, allinea i frammenti della frattura. Questo viene
mantenuto per 35 giorni circa e la sua rimozione viene decisa in base all’esito dell’RX di controllo. Se la
frattura non è ancora consolidata si consiglia al paziente di utilizzare un tutore per altri 20 giorni.

Tecniche di trattamento percutaneo


Trattamento al limite tra chirurgia e trattamento conservativo. Si posizionano fili di K all’interno dell’osso
senza fare incisioni (trattamento percutaneo) in seguito ad anestesie maggiori. Si posiziona una stecca o un
tutore per 35 giorni, e si decide sulla sostituzione della stecca con un gesso dopo RX di controllo.
Tecnica di Lambotte: sintesi della sola stiloide radiale
Tecnica di Stein e Katz: sintesi della stiloide radiale e radiale dorsale
Tecnica di Kapandji: doppia e tripla sintesi intrafocale. I fili K vengono inseriti all’interno del focolaio di
frattura.

15Nonostante l’anestesia locale il paziente avverte un male cane: non ho idea di cosa intenda il prof con “sgranare”, ma già avere un
osso rotto fa piangere dal male, figuriamoci se qualcuno lo “sgrana”

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Trattamento con fissazione esterna
Trattamento chirurgico con fissatore usato da solo o associato ad altre tecniche (trattamento misto). Il
fissatore esterno permette di mantenere un allineamento e una trazione molto stabili. Frequente è anche
l’associazione del fissatore esterno con l’osteosintesi percutanea.

Trattamento con fissazione interna


Trattamento chirurgico vero e proprio con incisione volare o dorsale in base al tipo di frattura ed utilizzo di
placche e viti. Si utilizza per fratture marginali e comminute.
Le placche possono essere applicate attraverso un accesso volare, dorsale e in casi particolari attraverso un
accesso combinato dorsale e volare. Le placche a stabilità angolare sono i mezzi di sintesi più utilizzati, perché
permettono la precoce mobilizzazione e garantiscono una stabilità della frattura.

Rieducazione funzionale
La rieducazione funzionale è fondamentale dopo una frattura del polso, in particolare dopo un trattamento
conservativo: dopo 35 giorni (minimo) di immobilizzazione ci sono importanti problemi di tipo muscolare ed
articolare. Un intervento di osteosintesi con placche a stabilità angolare, invece, non richiede più una
immobilizzazione: già dal giorno successivo si può iniziare una cauta mobilizzazione.

In un primo momento gli obiettivi sono ridurre l’edema e la rigidità delle dita e recuperare la sensibilità ed il
trofismo muscolare. È importante evitare che il paziente assuma la « guarding posture » (gomito flesso, spalla
addotta ed intraruotata, rachide cervicale in antepulsione medio-inferiore ed iperestensione occipito-
cervicale), in quanto predispone allo sviluppo di ulteriori problematiche (come sindromi miofasciali).

Successivamente si passa a trattamenti specifici (massoterapia, mobilizzazione passiva, posture passive,


mobilizzazione attiva) per ripristinare l’elasticità capsulare e i movimenti globali. Attraverso esercizi di carico
in trazione, compressione, flessione sul piano, torsione a coppie, compressione massimale di pallina da tennis
si favorisce il recupero di massa ossea.

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3.5.B Fratture del carpo

Tra le fratture delle ossa carpa16, quella di scafoide è piuttosto problematica.


Si verifica in situazioni simili a quella che può causare una frattura di polso
(caduta sul polso esteso), tipicamente in pazienti giovani: questi soggetti,
presentando una normale densità ossea, si fratturano l’osso meno
resistente, ovvero lo scafoide (a differenza delle signorone osteoporotiche
che cadendo si sbriciolano il radio).

Il paziente lamenta dolore e tumefazione a livello della tabacchiera antomica, zona anatomica distale allo
stiloide radiale che individuamo portando il primo dito in iperestensione ed abduzione. Non ci sono le
deformità tipiche della frattura di polso.

La frattura dello scafoide carpale è una frattura piuttosto


insidiosa perchè si tratta di un osso poco vascolarizzato. La
slide a fianco riporta una grossolana suddivisione delle fratture
che permette di differenziare il trattamento da eseguire.

La classificazione più utilizzata nella pratica clinica è la classificazione di


Herbert, che distingue le fratture in:
- TIPO A: fratture stabili
- TIPO B: fratture instabili
- TIPO C: fratture con ritardo di consolidazione
- TIPO D: pseudoartrosi

Diagnosi: l’RX è utile, ma ormai è mandatorio inquadrare le fratture di scafoide tramite


indagine TAC. La RM può essere utile per datare la frattura sulla base dell’edema osseo.

Trattamento: apparecchio gessato brachio-antibrachio-radiale che dopo 35 giorni viene


accorciato liberando il gomito. In alcuni casi si possono utilizzare tutori più corti,
fondamentale è mantenere l’immobilità del carpo (fino a 3 mesi). Nelle fratture più gravi
si esegue un intervento chirurgico di osteosintesi con fili di K oppure con vite di Herbert
(nell’immagine).

Complicanze: pseudoartrosi (frattura che non guarisce), necrosi (morte per insufficiente apporto vascolare)
e artrosi (con conseguente collasso carpale).

16 Le fratture delle altre ossa del carpo sono decisamente più rare e meno problematiche nel trattamento

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3.5.C Fratture delle dita

3.5.C.1 Fratture di ossa metacarpali (e falangi)


Il prof non accenna nulla oltre al trattamento. Rompersi le dita è un attimo, mentre per rompere un osso metacarpale
ci vuole più impegno anche se, opportunatamente stimolati, si fa presto anche in questo caso. Per esempio, se il prof.
Caruso ti chiede la sifilide e tu gliela spieghi per filo e per segno (visto che è la quarta volta che te la chiede) ma lui ti
boccia per la quinta volta dicendo che le spirochete non sono batteri anaerobi, tu esci e, per evitare di implodere,
condensi la tua rabbia sferrando un pugno contro una colonna e TRAC: ti sei rotto 4 metacarpi. (E non hai nemmeno
passato micro)

Trattamento
In base al tipo di frattura si sceglie il trattamento più adatto.

Fratture composte e stabili ⇒ immobilizzazione (25 gg)


Fratture scomposte stabili ⇒ riduzione incruenta + immobilizzazione (25 gg)
Fratture scomposte instabili/irriducibili ⇒ trattamento chirurgico

In caso di fratture metacarpali, l’immobilizzazione deve essere eseguita con la mano in posizione
“funzionale” o “acamatica” (articolazione metacarpo-falangea a 70°, come in figura): in questo modo i
legamenti metacarpo-falangei sono in massima estensione, per minimizzare la rigidità post immobilizzazione.
Le falangi, invece, devono essere sempre estese.

La riduzione delle fratture metacarpali viene eseguita con una mano sul
metacarpo (mano A) e l’altra che afferra e flette la falange del raggio
interessato (mano B): spingendo contemporaneamente la mano A verso il
basso e la mano B verso l’alto dovreste aver avvicinato i due monconi ossei.

Per le fratture scomposte instabili (a livello sia di metacarpo sia di falangi) è necessario l’intervento
chirurgico. Si esegue un’anestesia tronculare a livello:
- del polso, per bloccare il nervo ulnare/radiale/mediano a seconda del territorio interessato;
- dello spazio interdigitale, per bloccare solo i nervi sensitivi delle dita

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Viene praticato un intervento di osteosintesi percutaneo con fili di Kirschner, posizionati eventualmente con
un fissatore esterno. In casi più complessi si utilizzano placche e viti (similmente a quanto visto per il polso).

Le complicanze delle fratture delle dita sono problemi di mal-rotazione (vedi immagine sotto), rigidità,
pseudoartrosi, infezioni (quasi esclusivamente in caso di fratture esposte). In caso di mal-rotazioni, il paziente
dovrà sottoporsi ad un intervento specifico di osteotomia derotativa per correggere la deformità.

3.5.C.2 Frattura di Bennet (solo citata nella slide)


Frattura della superficie articolare volare del 1°metacarpo. Può essere considerata una delle, se non la più
grave delle fratture dei metacarpi poiché se non trattata diligentemente può evolvere in una grave
degenerazione artrosica dell’articolazione trapezio-metacarpale (vedi rizoartrosi).

La base del 1° metacarpo è lussato in direzione dorso-radiale, mentre il frammento appartenente alla
porzione mediale della base del metacarpo resta connesso con il Trapezio.

3.5.C.3 Frattura di Segond (dito a martello17)


Si tratta di uno strappo del tendine estensore a livello della falange
distale. Si evidenza clinicamente come dito cadente ed è necessaria
una radiografia per valutare se lo strappo del tendine ha causato
l’avulsione di un frammento osseo.

Il trattamento è in prima battuta conservativo e prevede l’immobilizzazione dell’interfalangea distale in


leggera iperestensione, attraverso l’uso di un tutore specifico (ortesi di Stack). Qualora l’esito di questo
trattamento non fosse soddisfacente18 è possibile eseguire un intervento di osteosintesi percutanea tramite
fili di K.

17 Parlando di “dito a martello” in senso generico solitamente si intende una patologia del piede. Pertanto è preferibile specificare
(dito a martello della mano) per evitare di incorrere in spiacevoli equivoci.
18 Il trattamento di questa patologia dipende dal tempo che intercorre tra l’evento traumatico e il consulto medico: qualora fosse

trascorso diverso tempo si può provare a suturare chirurgicamente il tendine staccato e procedere con l’immobilizzazione con fili di
K, ma più spesso è preferibile eseguire direttamente un’artrodesi e bloccare il dito in estensione. Un dito della mano a martello,
infatti, tipicamente rompe le palle al paziente (perché si impiglia ovunque).

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3.6 Traumi distorsivi

3.6.A Traumi distorsivi del polso

Un trauma a livello del polso non causa sempre una frattura radiale o scafoidea (grazie al cazzo): si può,
infatti, incorrere anche in traumi distorsivi che possono portare a lesioni capsulo-legamentose (in particolare
del legamento scafo-lunato), a lesioni della fibrocartilagine triangolare (una sorta di menisco localizzato tra
l’ulna e la prima filiera carpale) o a lesioni cartilaginee.

3.6.A.1 Lesioni capsulo-legamentose


Una distorsione con rottura del legamento scafo-lunato necessita di una conferma diagnostica con RX, TAC
o RM. In proiezione laterale è visibile una rotazione del semilunare, segno indiretto di una lesione
legamentosa importante.
In merito alla posizione del semilunare distinguiamo:
• DISI (deformità dorsale)
• VISI (deformità volare)
• Scivolamento dorsale del carpo
• Scivolamento ulnare del carpo (in caso di lesioni più complesse)

Trattamento: si cerca di ridurre lo spazio che si è creato tra scafoide e


semilunare e stabilizzare l’articolazione con fili di K per via percutanea. In
caso di lesioni legamentose complesse si ricorre ad un intervento di plastica
di ricostruzione legamentosa (a cielo aperto).

Complicanze: capita spesso che alcune lesioni arrivino all’attenzione


dell’ortopedico dopo lunghi periodi di sintomatologia dolorosa, con quadri
di collasso vero e proprio del carpo. In questi casi la prima filiera delle ossa
carpali tende ad assottigliarsi progressivamente, favorendo l’insorgenza di
un quadro artrosico diffuso del carpo, da trattare con interventi di artrodesi
di salvataggio.

3.6.A.2 Lesioni della fibrocartilagine triangolare


La fibrocartilagine triangolare del polso è una formazione fibrosa (in passato definita “menisco della mano”)
presente tra l’ulna e la prima filiera carpale. Si definisce triangolare in quanto è tesa tra l’estremità distale
del radio, il versante ulnare del carpo e l’estremità distale dell’ulna. Stabilizza le articolazioni ulno-carpica e
radio-ulnare distale, trasmette e redistribuisce il carico dal carpo all’ulna.

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Lesioni a carico di questa struttura possono avvenire sia a seguito di traumi sia a seguito di microtraumi
ripetuti (attività sportive e/o lavorative) e vengono evidenziate normalmente tramite RM con mezzo di
contrasto.

Esistono diverse tecniche di riparazione per via artroscopica, ma in generale il trattamento consiste nella
sutura diretta della lesione con ottimi risultati funzionali.

3.6.A.3 Lesioni cartilaginee


Il prof non si dilunga troppo: si tratta di lesioni che possono verificarsi a seguito di un trauma e vengono
normalmente “cruentate” con tecnica artroscopica.

3.6.B Traumi distorsivi/lussazioni delle dita: lesioni capsulo-legamentose

Le lesioni che più frequentemente si osservano sono a carico di:


• legamenti collaterali (legamento collaterale ulnare del pollice, “da racchetta da sci”);
• placca volare (struttura osteofibrosa che impedisce l’iperestensione di una falange): vedi immagine
• tendini.

Il trattamento dipende dalla stabilità della lesione:


• lesione stabile ⇒ stecca 15 gg, poi mobilizzazione protetta
• lesione instabile ⇒ re-inserzione chirurgica capsulo-legamentosa mediante l’uso di ancorette
intraossee (vedi immagine sotto)

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3.7 Lesioni tendinee
3.7.1 Anatomia topografica
Topograficamente la regione flessoria della mano viene suddivisa secondo la classificazione di Eaton-Weilby.
Si distinguono cinque diverse regioni (I → V) per le dita lunghe; il primo dito segue una classificazione a sé
(regioni TI, TII e TIII).
Il prof propone uno dei suoi splendidi (e ormai tipici) audio muti, in cui si intuisce solo qualche parola. Riporto
un riassunto (tratto dal web) circa quello che sono riuscito ad intuire:

- Zona 1: una lesione in questa zona normalmente non provoca complicanze funzionali poiché il tendine è unico
e ben vascolarizzato.
- Zona 2 viene anche definita dagli anglosassoni la “terra di nessuno”. È quella zona dove il flessore superficiale
e il flessore profondo decorrono intimamente in un canale osteo-fibroso: qui si verificano il maggior numero
di insuccessi dopo le riparazioni a causa delle aderenze che si creano e che impediscono lo scorrimento
tendineo. Comprende l’articolazione metacarpofalangea e la prima falange delle dita viene divisa in tre
porzioni: D,M,P.
- Zona 3: i tendini sono molto vascolarizzati, lo spazio è maggiore e le complicanze funzionali, se presenti, sono
ben tollerate.
- Zone 4 e 5: lesioni in questa zona potrebbero portare ad aderenze tra i tendini e i tessuti circostanti o tra i
tendini stessi, causando l’effetto quadriga.

Per quanto riguarda le dita lunghe, si distinguono due ordini di tendini flessori:
- flessori superficiali: si inseriscono a livello della seconda falange
- flessore profondo: si inserisce a livello della falange distale

L’apparato estensore viene diviso in 8 zone; quelle contrassegnate da un numero dispari sono in
corrispondenza di articolazioni:
- ZONA I: articolazione interfalangea distale
- ZONA III: articolazione interfalangea prossimale
- ZONA V: articolazione metacarpo-falangea
- ZONA VII: articolazione radio-carpica

3.7.2 Classificazione
Le lesioni tendinee vengono suddivise in base alla regione colpita (flessoria o estensoria) e, ulteriormente, in
lesioni aperte e chiuse. Follow the schema che sta sotto.

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3.7.A Lesioni dei tendini FLESSORI

3.7.A.1 Anamnesi
Nel momento in cui si approccia una lesione tendinea, oltre a valutare se si tratta di una lesione chiusa o di
una lesione aperta, è fondamentale considerare:
• la posizione del dito;
• la forza muscolare applicata al momento della lesione, che può provocare anche un danno ischemico
al tendine qualora sia colpito il suo asse vascolare;
• la natura dell’agente traumatico e le circostanze in cui è avvenuto il trauma;
• il grado di contaminazione
• le modalità di lesione: non so se lo sapevate, ma pare che un taglio da coltello non produca le stesse
lesioni di un taglio da moto-sega.

3.7.A.2 Eziologia
Le cause più frequenti di danno alla regione flessoria riguardano:
1. traumi diretti accidentali o sportivi come la jersey lesion: quando i giocatori di rugby diventano
malandrini e cercano di afferrare i calzoncini dell’avversario trazionando con energia, è frequente il
distacco tendine flessore profondo dalla sua inserzione nella terza falange (anche associato ad
avulsione tendinea);
2. sinovite da Artrite Reumatoide
3. esiti di trauma (frattura di polso, pseudoartrosi di scafoide, morbo di Kiembock – necrosi del
semilunare): gli osteofiti creati possono determinare un impingement tendineo;
4. infezioni (TBC, altre infezioni)
5. microtraumi ripetuti (drummers thumb, free climbers, wind surf)

3.7.A.3 Esame obiettivo


Fisiologicamente la postura della mano rilassata è determinata dall’equilibrio tra il tono dei muscoli flessori
ed estensori:
- in supinazione sarà nella posizione della “cascata digitale”: il primo dito appare in leggera estensione,
mentre le altre dita progressivamente sono sempre più flesse. Questo perché in supinazione c’è una
maggior forza dei flessori rispetto agli estensori;
- viceversa, in pronazione, si ha una flessione di 80° del carpo e le dita tendono ad essere in estensione.

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Per valutare globalmente la funzionalità dei muscoli flessori si esegue un test molto semplice: a mano supina,
si comprimono i ventri dei muscoli flessori per determinare una flessione delle dita. Se un dito (o più dita)
non si flettesse(ro), sarebbe ragionevole pensare ad una lesione tendinea.

Esistono poi test specifici per le dita lunghe.


- Per valutare la funzionalità del tendine flessore profondo, che si
inserisce distalmente a livello della terza falange, è possibile bloccare
la seconda falange e chiedere al paziente di flettere la terza falange
dello stesso dito. Problematiche nell’esecuzione di questo test sono
dovute a lesione del tendine flessore profondo.
- Per valutare la funzionalità del flessore superficiale si tengono
vincolate tutte le dita della mano, tranne quella da indagare, e si chiede
al paziente di flettere quello stesso dito.

3.7.A.4 Quadri clinici


In base al tipo di lesione si distinguon diversi quadri clinici.

- Lesione completa dei tendini flessori al polso (“spaghetti lesion”): estensione flaccida di tutte le
dita a causa di una lesione completa di tutto l’apparato flessore (tutti i 9 tendini che decorrono
volarmente al polso).

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- Lesione completa dei tendini flessori di un dito (zona II):
estensione di un solo dito rispetto agli adiacenti, in
seguito alla lesione esclusiva di quell’apparato flessore.

- Lesione in zona III: a mano rilassata in posizione supina il dito leso è


iperesteso e, anche flettendo le dita, quel dito resterà in iperestensione

- Lesione del flessore profondo (Jersey lesion): si ha la perdita della flessione dell’interfalangea distale
che rimane iperestesa. Il dito più colpito è l’anulare, in quanto è quello che offre la minor resistenza
alla trazione. Come prima accennato, sono lesioni molto frequenti nel rugby, in cui si cerca la presa
dell’avversario.

- Lesione del flessore profondo del pollice: estensione o


iperestensione della interfalangea del pollice. In
posizione fisiologica di riposo in supinazione, il dito sarà
in iperestensione.

3.7.A.4 Diagnosi
Le lesioni chiuse necessitano di uno studio ecografico dei tendini (oggi con transduttori con frequenza di 10
o più MHz) in longitudinale e in trasversale.

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3.7.A.5 Trattamento
Nel 1928 il celeberrimo Sterling Bunnell affermava:

“… Se i tendini flessori vengono sezionati nelle dita, nella sede abituale a livello della falange prossimale,
non li si può ricostruire con successo mediante punti di sutura, poiché la giunzione diventa aderente allo
stretto canale e non scorrono. E’ preferibile rimuovere interamente i tendini stessi dal dito ed innestare
nuovi tendini lisci per la loro intera lunghezza …”.

Solo dopo 40 anni sono stati ottenuti i primi risultati positivi nella riparazione dei tendini flessori in zona II,
grazie allo sviluppo di tecniche chirurgiche riparative in grado di consentire il movimento precoce senza
provocare rotture durante la guarigione.

Le tecniche di sutura si dividono in:


• sutura centrale (core suture) Il punto dato in modo semplice viene sfilato facilmente con la minima
forza longitudinale, perciò il filo di sutura deve agganciare le fibre tendinee in modo che una forza
longitudinale si trasformi in una forza trasversale che aggancia le fibre tendinee e ne previene lo
sfilamento alle trazioni ripetute.
Nelle tecniche convenzionali i punti di sutura vengono
applicati sul lato volare (in quanto l’irrorazione ematica del
tendine proviene dai vincula dorsali), tuttavia studi recenti
affermano che l’applicazione dei punti di sutura alla faccia
dorsale sia la sede migliore dal punto di vista meccanico,
perché è qui che si verifica la maggior tensione durante la
flessione del dito.

Sutura centrale con pull-out: il filo di sutura viene fatto passare attraverso i
monconi tendinei e viene legato esternamente all’apice del dito (sul polpastrello)
tramite un bottone.

• sutura epitendinea: Inizialmente la sutura serviva solo per


migliorare il profilo della zona riparata. Studi successivi
hanno evidenziato che questa procedura aumenta
sensibilmente la resistenza della riparazione alla
formazione di gap.

3.7.A.6 Riabilitazione
Il terapista deve eseguire un trattamento:

- abbastanza aggressivo da produrre uno


scivolamento del tendine muovendo il dito, al fine di
ridurre al minimo le aderenze tendinee,
- abbastanza sicuro da evitare la rottura del tendine
stesso.

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Per questo motivo sono stati sviluppati diversi protocolli riabilitativi, che possono essere schematicamente
raggruppati in due gruppi principali:

1. protocollo di riabilitazione passiva precoce


2. protocollo di riabilitazione attiva precoce

Protocollo di Kleinert
Il tutore di Kleinert è molto importante nelle lesioni ai flessori della zona II.
Viene costruito un bendaggio tale da:
- mantenere il tendine riparato in contrazione passiva grazie ad un
elastico (che viene fissato al bendaggio) ⇒ il dito è flesso come in
figura;
- permettere l’estensione attiva del dito

Il tendine è, dunque, libero di scorrere, evitando la creazione di aderenze cicatriziali.

Dopo 4 settimane è possibile rimuovere l’ortesi, mentre il bottone viene mantenuto in sede per altri 15 giorni:
il filo viene dunque sfilato senza anestesia (anche se il prof. assicura che si tratta di una procedura ben
tollerata, bah…).

Protocollo di Duran
Indossando una protezione dorsale per 3-6 settimane (come in figura) si esegue una
mobilizzazione passiva in flessione (flessione passiva completa) associata ad estensione
passiva o attiva.

Programma di Belfast
Indossando una protezione dorsale per 3-6 settimane, si esegue:
- mobilizzazione attiva assistita in flessione (flessione passiva completa,
mantenimento attivo)
- estensione attiva

3.7.A.7 Guarigione vs fallimento della chirurgia riparatrice primaria


La chirurgia riparatrice primaria dei tendini flessori ha ottimi e buoni risultati nel 70/80% dei casi circa.

Esiste la possibilità che si verifichino delle complicanze post-intervento:


- nuova rottura del tendine (5% dei casi): sarà necessario un approccio chirurgico con nuovo innesto
tendineo (prelevato tra i cosiddetti “tendini banca” fisiologicamente presenti nell’organismo, come
il palmare gracile);
- formazione di aderenze (5% dei casi): viene eseguito un intervento di tenolisi volto a rimuovere tutte
le aderenze seguito da un protocollo di intensa riabilitazione per mantenere lo scorrimento dei
tendini.

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3.7.B Lesioni dei tendini ESTENSORI

Si tratta di lesioni generalmente meno gravi e meno visibili rispetto a quelle dei muscoli flessori. Questo
perché i muscoli intrinseci, responsabili dell’equilibrio dell’articolazione interfalangea prossimale,
suppliscono le eventuali lesioni tendinee. Inoltre i tendini estensori presentano interconnessioni tra loro: il
tendine leso può essere compensato dal dito a fianco.

3.7.B.1 Esame obiettivo


Similmente a quanto visto per il compartimento flessorio, si eseguono specifici test.

- Per valutare l’estensore proprio del secondo e del quinto dito della mano si domanda al paziente di
eseguire il “gesto delle corna”.
- Per valutare l’estensione comune delle dita, è necessario eseguire test contro resistenza sia sulla
prima che sulla seconda falange.
- Esistono anche test per valutare l’estensore lungo del pollice (si fa aprire la mano al paziente
iperestendendo il pollice) e l’estensore breve del pollice (movimento contro resistenza). L’estensore
lungo del pollice si inserisce sulla base della falange distale del pollice, l’estensore breve, invece, a
livello della falnge prossimale.

3.7.B.2 Quadri clinici


Si possono osservare lesioni diverse a seconda della localizzazione del trauma.

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In particolare:

- Lesione al dorso della mano: lieve incremento della flessione


dell’articolazione metacarpofalangea

- Lesione in zona V - rottura della cuffia estensoria alla metacarpofalangea:


sublussazione dell’apparato estensorio nella depressione intermetacarpale.

- Lesione in zona III – IFP (Inter-Falangea Prossimale): lesione in


boutonniere traumatica. La bandelletta centrale dell’estensore è
lesionata, mentre quelle laterali sono integre: la testa della falange
distale si infila all’interno di queste due bandellette le quali
portano in estensione l’interfalangea distale (facendo assumere al
dito la caratteristica conformazionein figura).

- Lesione in zona I – IFD: dito a martello acuto che si manifesta con flessione forzata della
interfalangea distale iperestesa (vedi frattura di Segond)

- Lesione in zona VII – ELP (Estensore Lungo del Pollice): deficit


di estensione a carico della falange distale del pollice.

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3.7.C Lesioni splatter

È opportuno fare un bilancio delle eventuali lesioni associate: una frattura articolare, iuxtaarticolare o
diafisaria, una lesione nervosa, una lesione vascolare o una lesione del “mantello cutaneo” compromettono
la prognosi funzionale della miglior riparazione tendinea. Allego qualche immagini per gli amanti del genere.

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Lezione 4
Sbobinatore: F.C.
Docente: dott. Paderno
Argomenti: classificazione dei tumori dello scheletro, stadiazione, diagnosi, trattamento.

4. TUMORI DELLO SCHELETRO


I tumori che interessano l’apparato osteomuscolare sono delle patologie rare non sempre individuabili.
Spesso, infatti, ci si confronta con diagnosi errate e una lesione neoplastica può essere valutata come un
ematoma (ad esempio a seguito di un trauma, soprattutto nei soggetti anziani).

I tumori dello scheletro vengono classificati in:

Tumori primitivi:
 Tumori dei tessuti molli (muscoli, tessuto adiposo o connettivo, strutture articolari, nervose o
vascolari);
 Tumori dell’osso: benigni e maligni (sarcomi).

Tumori secondari (metastasi)


Lo scheletro, dopo il fegato e il polmone, è la sede di metastasi da carcinoma più frequente per incidenza.
I carcinomi che danno metastasi a livello osseo sono: carcinoma della prostata, della mammella, del rene,
del polmone e della tiroide.

Neoplasie di origine ematologica


Le neoplasie di origine ematologica, originando dal midollo osseo, rientrano in questa classificazione.
Interessano soprattutto le ossa corte e piatte, rispettivamente vertebre e bacino, e si tratta di
plasmocitoma 1 (Mieloma Multiplo) e di linfomi. Prevalentemente sono patologie che riguardano gli
anziani.

1 Il plasmocitoma è un tumore maligno delle plasmacellule. Si riconoscono due forme: Plasmocitoma solitario dell’osso e
Plasmocitoma extraosseo. Nel primo, il tumore cresce all’interno dello scheletro e, frequentemente, può evolvere a mieloma
multiplo. Nel secondo, il tumore si instaura nei tessuti molli (principalmente a livello respiratorio).
Fonti: Wikipedia

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Ciascuna cellula dei tessuti che caratterizzano l’apparato osteomuscolare può dare origine ad un tumore (ad
es. tessuto adiposo, cartilagine, nervoso, fibroso…), che può avere caratteristiche:
- benigne (desinenza -oma);
- maligne (desinenza -sarcoma).
Ovviamente ogni tumore avrà una prognosi diversa e diverso sarà anche l’approccio terapeutico che il medico
dovrà attuare.

4.1 Tumori primitivi

4.1.1 Osteocondroma
L’osteocondroma è un tumore benigno, solitario o multiplo, tipico dei soggetti giovani, che coinvolge il
femore distale. In buona parte dei casi è asintomatico, ad esclusione delle forme che causano borsiti, fratture
o compressioni.

4.1.2 Osteoma osteoide


L’osteoma osteoide è un tumore benigno di piccole dimensioni, frequente in età giovanile, più frequente nei
maschi, che colpisce la parte corticale delle ossa lunghe o le vertebre. Si presenta come una lesione a margini
netti tondeggiante o ovalare di diametro inferiore ai 2 cm che presenta:
- una parte centrale densa e omogenea (nidus);
- un cercine periferico radiotrasparente di 1-2 mm.
Esso è caratterizzato, dal punto di vista clinico, da un dolore costante, soprattutto notturno, che tende ad
acuirsi con l’alcool2 ed a ridursi dopo l’assunzione di aspirina (dopo circa 20-30 min).

2 L’attività fisica e le sostanze che determinano vasodilatazione sembrano favorire l’apporto ematico al tumore, esacerbando il
sintomo dolorifico. Con tutto quello che sbevazzate penso che vi sareste accorti, eventualmente, di avere un osteoma.

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4.1.3 Condroma
Il condroma è un tumore benigno che origina dalle cellule di cartilagine ialina e che predilige le piccole ossa
di mani e piedi e le metadiafisi delle ossa lunghe (femore e omero), a livello del canale midollare. Può essere
solitario o multiplo. Nelle localizzazioni alle piccole ossa di mani e piedi può causare deformità o ripetute
fratture patologiche.
È una lesione asintomatica che viene scoperta solitamente per caso attraverso un’RX eseguita per altri motivi.
All’imaging si presenta con osteolisi, orletto sclerotico, noduli calcificati e corticale assottigliata.

Durante la fase di crescita e di sviluppo il condroma appare come un'area osteolitica ovalare a contorno irregolare con
spesso alcuni noduli satelliti intorno alla lesione principale; all'interno sono presenti piccole calcificazioni tipiche del
tessuto cartilagineo.

Si tratta di una lesione tipicamente giovanile, che cresce fintanto che il paziente non raggiunge la maturità
scheletrica. Poi il condroma tende a guarire spontaneamente ossificandosi lentamente. L'ossificazione inizia
progressivamente dalla periferia creando un orsetto di sclerosi attorno alla lesione. In età adulta, seppur
raramente, può andare incontro a trasformazione maligna (condrosarcoma). Questa forma si manifesta con
dolore, interessa la zona della pelvi e, con l’avanzare dell’età, peggiora il quadro clinico.

4.1.4 Tumore gigantocellulare


Il tumore a cellule giganti è una lesione benigna, ma può avere un andamento variabile: alcune volte rimane
latente, ma la maggior parte delle volte si presenta come lesione attiva e, più raramente, come lesione
aggressiva (in questo caso tende ad invadere i tessuti molli adiacenti). Molto rara è la sua degenerazione
maligna, spesso causata da un trattamento radioterapico.

Istologicamente è caratterizzato da cellule istio-fibroblastiche che si fondono insieme a formare grandi cellule
multinucleate. Esso è tipico dei soggetti di età compresa tra i 20-40 anni e, sebbene sia ubiquitario, predilige
le epifisi delle ossa lunghe, determinando dolore e tumefazione.

4.1.5 Lipoma
I lipomi sono le classiche raccolte di grasso nel tessuto sottocutaneo, ma le forme più considerate in
ortopedia sono quelle in sede intramuscolare. Essi possono raggiungere grandi dimensioni poiché possono
crescere, infiltrandosi tra le fasce e le guaine, senza dare disturbi. La variante maligna del lipoma è il
liposarcoma.

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Uomo di 54 anni con un lipoma cervicale di 7303 g cresciuto nell’arco di oltre 5 anni.

4.2 Tumori secondari


L’osso rappresenta la terza sede di metastasi, dopo il fegato ed il polmone.

La maggior parte delle forme, dal punto di vista clinico, sono asintomatiche o paucisintomatiche. Qualora,
invece, il paziente sia sintomatico, presenta dolore, che può essere:
• Somatico o neuropatico;
• Costante o esacerbato dal movimento;
• Improvviso e severo (fratture patologiche).

Studi recenti evidenziano 5 fattori prognostici nel paziente metastatico:


• Tumore primitivo
• Frattura patologica
• Metastasi viscerale (solitaria o multipla)
• Hb preoperatoria < 7g/dl
• Condizoni generali del paziente4

4.2.1 Rischio di frattura – impending fracture


Un segmento osseo colpito da metastasi si considera a rischio di frattura patologica in caso di:
▪ lesione di dimensioni maggiori di 25 mm;
▪ lesione interessante più del 50% della circonferenza o del diametro dell’osso;
▪ aspetto osteolitico;
▪ dolore ingravescente, in particolare se successivo anche al trattamento radioterapico.

3 Lascio il link per chi volesse vedere un lipoma scrotale di 22 kg http://www.rbcp.org.br/details/1596/giant-lipomas--a-14-case-


series
4 Le condizioni del pz vengono valutate secondo l’indice di Karnofsky, la quale considera: limitazione dell’attività, cura di se stessi,

autodeterminazione. È sostanzialmente una scala di valutazione della performance del paziente e valuta le sue condizioni generali.
Metto il link della pagina web in cui trovare dettagli in più: https://www.nursetimes.org/lindice-di-karnofsky-valutazione-sanitaria-
sulla-qualita-di-vita/77554

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L’esame più utile nella valutazione del rischio di frattura è sicuramente la TC.

Nell’immagine è possibile evidenziare una lesione litica localizzata a livello del collo del femore, con parziale
interessamento corticale, che va necessariamente trattata in modo chirurgico per l’elevato rischio di frattura.

4.2.2 Diagnosi
Dal punto di vista diagnostico, si agisce diversamente in caso di:
- tumore primitivo noto, si esegue:
o Rx del segmento scheletrico coinvolto
o Scintigrafia globale per valutare il numero di lesioni
o TC con mdc per la determinanzione delle metastasi viscerali
o RMN con mdc per valutare i rapporti
o TAC del segmento scheletrico coinvolto per studiare l’entità del danno corticale
- tumore primitivo non noto, si fa la biopsia.

4.2.3 Trattamento
Il trattamento differisce sulla base della localizzazione:
- le metastasi a livello della colonna vertebrale rispondono bene alla radioterapia;
- le metastasi a livello dello scheletro degli arti e della pelvi, invece, vengono trattate
preferenzialmente in modo chirurgico (soprattutto quelle degli arti inferiori, in quanto ad elevato
rischio di frattura).

Nel 2001 il prof. Capanna, uno dei pionieri dell’oncologia ortopedica, ha sviluppato un protocollo di
trattamento valido ancora oggi, che prende in considerazione i principali fattori prognostici della malattia
metastatica e le sue caratteristiche biologiche e meccaniche. In particolare:
- le caratteristiche biologiche sono:
o aspettativa di sopravvivenza (tipo di tumore primitivo):
▪ < 1 anno: melanoma, carcinoma del pancreas, del polmone, della tiroide e dello
stomaco;
▪ 1-2 anni: carcinoma della mammella, del colon, dell’utero;
▪ > 2 anni: mieloma, linfoma e carcinomi prostatico, renale.
o Estensione della malattia (lesione unica vs multipla);
o Condizioni generali del paziente (performance status);
o Intervallo libero da malattia;

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- le caratteristiche biomeccaniche, invece, sono:
o presenza/rischio di frattura patologica nelle ossa lunghe principali (sede e dimensioni della
lesione, tipo di lesione litica/addensante);
o sensibilità prevista alle terapie non chirurgiche.

I pazienti con metastasi ossee da carcinoma degli arti e dei cingoli pelvico o scapolare sono assegnati ad una
delle seguenti quattro classi:

Il paziente di classe 1 va trattato in maniera radicale, in quanto la metastasi viene considerata come un
nuovo tumore: la prognosi è buona solo se viene eradicata la malattia.

I pazienti di classe 2-3 possono beneficiare di un trattamento più o meno radicale.

I pazienti di classe 4 vengono trattati in prima istanza con terapie non chirurgiche (chemioterapia,
radioterapia, terapia ormonale, etc.); in caso di fallimento meccanico (frattura patologica o progressione
di malattia con lesione a rischio di frattura) o di dolore persistente dopo le terapie, vengono trattati
chirurgicamente. In alcuni di questi pazienti possono essere adottate tecniche mini-invasive.

Da questo momento gli audio smettono di funzionare.

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➢ Trattamento chirurgico
Il trattamento chirurgico dei pazienti di classe 2-3 prevede un approccio diverso sulla base del segmento di
osso coinvolto (metafisi o diafisi).

Chi volesse approfondire il trattamento, si rimanda alle slide seguenti.

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➢ Trattamenti adiuvanti la chirurgia
In alcuni casi è possibile utilizzare dei trattamenti adiuvanti per trattare al meglio la lesione.
I primi adiuvanti locali vennero usati all’inizio degli anni Settanta e furono: la crioterapia con azoto liquido,
sviluppata da Marcove (1973) al Memorial Sloan-Kettering di New York e la cementazione con PMMA
descritta per la prima volta da Persson e Wouters.
A queste esperienze si sono aggiunti con il tempo altri adiuvanti locali:
o chimici come il fenolo, l’etanolo e H2O2;
o fisici come la termocoagulazione con elettrobisturi, soprattutto ad Argon e la crioterapia con
Cryoprobes.
È importante sottolineare che, in ogni caso, qualsiasi agente fisico o chimico usato come adiuvante non
può correggere o risolvere un curettage mal eseguito, a dimostrazione che la resezione costituisce il
cardine principale del trattamento chirurgico.

Gli adiuvanti locali più diffusamente utilizzati oggi sono:


▪ fenolo;
▪ azoto liquido;
▪ laser.

Crioterapia con azoto liquido


La crioterapia sfrutta le basse temperature per indurre la necrosi tissutale, che si verifica secondo vari
step:
1. shock termico;
2. disidratazione e squilibrio elettrico tossico intracellulare;
3. formazione di cristalli di ghiaccio (che avvengono a velocità elevate di raffreddamento e che
sono responsabili della morte cellulare diretta);
4. rottura delle membrane cellulari;
5. alterazioni micro-vascolari (che avvengono a velocità di raffreddamento lente e che sono
responsabili della morte cellulare secondaria e progressiva).
6. Anche il disgelo che segue l’applicazione del freddo determina la coalescenza dei cristalli e la
rottura meccanica della membrana cellulare, causandone la morte.

La crioterapia presenta un alto tasso di efficacia: oltre a preservare le articolazioni adiacenti alla zona
trattata (raggio di azione di 7-12 mm), evita al chirurgo di dover intervenire con sostituzioni protesiche o
trapianti. Permangono, comunque, dei rischi connessi al potere distruttivo di questa sostanza che si
traduce in:
o possibile necrosi dei tessuti molli circostanti;
o neuroaprassia delle strutture nervose vicine;
o rischio di frattura.

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4.3 Stadiazione
Parlando di oncologia ortopedica, diventa fondamentale stabilire una classificazione che sia utile per
determinare la natura della neoplasia, la sua prognosi e per capire come intervenire.
Prima degli anni ‘80, l’unica possibilità terapeutica che si aveva nei confronti di lesioni neoplastiche maligne
a livello osseo, era l’amputazione. Tuttavia, successivi studi hanno stabilito che un certo tipo di chirurgia con
dei canoni precisi, a seconda della lesione, poteva avere la stessa prognosi di sopravvivenza di
un’amputazione, con la possibilità di salvare l’arto del paziente.
Oggi, infatti, grazie a chemioterapia e chirurgia oncologica (che segue le caratteristiche della lesione e i canoni
della standardizzazione), la sopravvivenza (anche per tumori maligni) è aumentata notevolmente,
rispettando dell’anatomia del paziente. È bene però precisare che, qualora il chirurgo si trovasse di fronte ad
una lesione di grado elevato, aggressiva ed extracompartimentale (concetto che si spiegherà in seguito)
spesso l’amputazione resta ancora l’unica possibilità.

4.3.1 Surgical Staging System (SSS)


L’oncologo ortopedico William Enneking fu il primo che, a partire dal 1983, stabilì i canoni della stadiazione
dei tumori dello scheletro, attraverso il Surgical Staging System (SSS).
Il Surgical Staging System, un concetto simile ai criteri TNM (che non vengono utilizzati in ambito osseo),
costituisce un sistema di classificazione dei vari tumori dello scheletro che ha permesso di codificare i canoni
della chirurgia oncologica. Si basa su tre parametri fondamentali:
1. grading tumorale;
2. estensione locale del tumore: è molto importante per capire quanto tessuto asportare e per
analizzare i rapporti che la lesione ha con le strutture circostanti;
3. presenza di metastasi: è indicativa di quanto il tumore sia in uno stadio avanzato e aggressivo.

➢ Grading
Considera, dal punto di vista citologico l’aggressività del tumore. Più un tumore è indifferenziato e con molte
atipie cellulari, più è maligno e aggressivo. Si distinguono lesioni a:
• basso grado (I): grado istologico 1 e 2 (probabilità di metastasi inferiore al 25%)
• alto grado (II): grado istologico 3 e 4 (osteosarcoma classico, sarcoma di paget, condrosarcoma
primario, fibrosarcoma, angiosarcoma, ecc)

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➢ Estensione locale del tumore
Per quanto concerne l’estensione locale del tumore è importante introdurre il concetto di “compartimento
anatomico”.
Per compartimento anatomico si intende una qualsiasi regione anatomica delimitata da una barriera, che
può essere rappresentata da una cartilagine, dall’ osso corticale, dal periostio, o dalla fascia muscolare.

Questo consente di distinguere tumori intracompartimentali ed extracompartimentali.


Ad esempio un tumore primitivo dell’osso viene definito intracompartimentale se non invade e supera il
periostio, mentre è definito extracompartimentale un tumore delle parti molli che rimane confinato nella
loggia anteriore della coscia e non si diffonde in quella posteriore.
In particolare:
- Se un tumore osseo “esce” dalla corticale ma rimane all’interno del periostio, si può eseguire una
resezione ampia per togliere il compartimento, rimuovendo ciò che è all’interno del periostio.
- Se un tumore resta nel compartimento (condizione che comunque a volte richiede una chirurgia
ampia) l’operazione chirurgica è agevolata, la prognosi è sicuramente migliore e minori sono le
recidive o le probabilità di metastasi.
- Se il tumore, invece, va oltre il compartimento e si vuole evitare che possano persistere focolai
neoplastici, si dovrà intervenire su due o più compartimenti, optando per una chirurgia definita
radicale, che spesso esita nell’amputazione (a causa dell’arto non più funzionante).

➢ Metastasi
La presenza di metastasi determina, indipendentemente dal grado e dall’estensione locale, uno stadio III.

➢ Definizione dello stadio


Il Surgical Staging System, quindi, sulla base dei classifica i tumori in 3 stadi (vedi tabella sotto).

L’anatomopatologo stabilisce il grado della lesione e poi il chirurgo, in base al surgical grade, saprà come
intervenire con l’obiettivo di avere la miglior prognosi possibile.

➢ Stadiazione dei tumori benigni


Nello specifico si riconoscono:
• Tumori benigni di stadio I: tumore scoperto per lo più casualmente, che rimane immodificato nel
tempo, o che talvolta guarisce spontaneamente. Ha decorso clinico silente ed è ben delimitato da
una capsula. (Es: Condroma)
• Tumori benigni di Stadio II: stadio attivo, con crescita progressiva, può essere asintomatico o
sintomatico. È capsulato ma con aggressività locale e tende a crescere, anche se rimane sempre
intracompartimentale. Clinicamente può deformare le strutture per compressione. (Es: lipoma, che
è asintomatico ma se aumenta le sue dimensioni può comprimere vasi e nervi causando sintomi).
• Tumori benigni di Stadio III: è aggressivo localmente e non delimitato da capsula o da barriera
anatomica (la oltrepassa). Può quindi infiltrare la corticale o i limiti del compartimento, con recidive
frequenti. Per fortuna sono rari. Sono trattati come tumori maligni, con una resezione ad hoc. (Es:
tumore a cellule giganti, anche chiamato osteoclastoma).

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4.4 Diagnosi
Il corretto iter diagnostico di una lesione dell’apparato osteomuscolare prevede, innanzitutto, un’ecografia
per i tumori dei tessuti molli e una radiografia per i tumori ossei. Successivamente vengono eseguite TC con
mdc (il mezzo di contrasto è fondamentale per valutare la neoangiogenesi, caratteristica di malignità e
aggressività) e/o una Risonanza Magnetica per una miglior definizione diagnostica e localizzazione
topografica della lesione. La scintigrafia ossea e la PET si utilizzano, in seguito, per valutare l’eventuale
interessamento dello scheletro sia in contiguità della lesione che a distanza (eventuali metastasi).
In follow-up è necessario sempre eseguire anche una TC torace, in quanto il polmone è la prima sede di
eventuali metastasi da sarcoma.
Alcune volte, masse sospette sono scoperte nel contesto di indagini di altra natura (incidentalomi).
È bene precisare che le manovre mininvasive, quali punture esplorative e/o aspirazioni che possono
disseminare le cellule tumorali in tessuti sani circostanti, sono vivamente sconsigliate.
La biopsia, infine, è l’ultimo step da effettuare ed è ciò che permette di fare diagnosi di certezza. Deve essere
eseguita da un chirurgo esperto in oncologia muscoloscheletrica, poiché è fondamentale sapere in che zona
del tumore effettuarla ed è inoltre un procedimento soggetto a rischi (soprattutto se il tumore è maligno,
per rischio di disseminazione di cellule neoplastiche). Anche all’interno di una lesione che è ben riconoscibile
e delimitata, è importante stabilire in quale zona effettuare la biopsia, in modo tale che essa sia
rappresentativa di tutta la massa neoplastica, sia fenotipicamente che geneticamente. Proprio per i rischi che
la biopsia presenta, è l’ultimo step da effettuare nell’iter diagnostico di questi tumori.

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4.4.1 Aspetti radiografici peculiari
➢ Sede
I tumori dello scheletro tendenzialmente presentano delle peculiarità caratteristiche, come la “sede”
preferenziale all’interno dell’osso o dei tessuti molli. Questo permette di avere un’idea di quale tipo di
tumore possa essere una lesione che si viene a localizzare in una particolare regione corporea (che sia un
osso specifico o una porzione in particolare di esso). Ci sono infatti tumori che hanno caratteristiche
radiografiche e di sede che sono patognomoniche e questo, in alcuni casi, può esulare dall’effettuare una
biopsia.
Una tra le lesioni più importanti da conoscere in questo senso è l’osteosarcoma, il quale può essere
ubiquitario, ma in una grande percentuale di casi si riscontra nel femore, in zona diafisaria distale, e nella
metafisi prossimale della tibia, oltre che nell'omero prossimale.

➢ Caratteristiche dell’area di osteolisi


Qualora si evidenzi un’area di osteolisi è necessario valutarne i caratteri. L’osteolisi neoplastica può essere:
- A “carta geografica” (tipo I): i margini di osteolisi sono netti e ben definiti; si riscontra in genere in
tumori benigni a lenta crescita;
- A “morso di tarma” (tipo II): è caratterizzata dalla presenza di multiple aree osteolitiche, di qualche
millimetro di diametro, che tendono a confluire tra loro;
- Infiltrativa (tipo III): tipica dei tumori maligni, si presenta con multiple aree di osteolisi a margini mal
definiti.

➢ Zona di transizione e margini di lesione


La zona di transizione è il confine tra la lesione tumorale l’osso normale.
Una lesione poco aggressiva presenta una zona di transizione stretta e a margini ben definiti: la lenta crescita
consente all’osso circostante di “reagire” e circoscrivere la lesione attraverso l’apposizione di osso. Si forma,
così, un orletto sclerotico, più bianco

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Nel caso di lesioni aggressive, al contrario, si rileva una zona di transizione ampia e mal definita, poiché non
l’osso sano non ha fatto in tempo a mettere in moto il meccanismo prima descritto. Lesioni con pattern
infiltrativo, con margini non netti, sono di norma maligne. In caso di osteosarcoma abbiamo infatti una
lesione infiltrante, che sovverte la normale architettura ossea.

➢ Reazione periostale
In genere la comparsa di un sottile strado di nuovo osso a livello del periostio è indicativa di una lesione a
rapida crescita, ma non necessariamente maligna (fenomeno riscontrabile anche nell’osteomielite). A
seconda della benignità o della malignità della lesione il pattern assunto dalla crescita periostale sarà
differente.
Per esempio, il sarcoma di Ewing, tumore maligno tipico dell’età pediatrica, si caratterizza per una reazione periostale
“a guscio di cipolla”, così definita per la sovrapposizione periodica di strati paralleli di periostio.

4.4.2 Tecniche bioptiche


Esistono diverse tecniche di biopsia:
• Biopsia escissionale: si asporta l’intera lesione. È una procedura da evitare nel sospetto di un tumore
maligno, perché si ha il rischio di portare cellule maligne in altre zone.
• Biopsia incisionale: consiste nel prelevare operativamente un frammento di lesione.
• Trochar biopsy: il nome corretto sarebbe Thru-cut (Trochar è il nome dello strumento). Si utilizzano
aghi molto grandi in metallo, cannulati e con una camicia che poi viene estratta. Si ricava il materiale
per effettuare indagini non solo citologiche ma anche istologiche.
• Agobiopsia: (FNAC/FNAB) per esame citologico o mini-istologico

Nel sospetto di tumore maligno, i tipi di biopsia da effettuare sono la biopsia incisionale o la trochar biopsy.
L’esame istologico, infatti, è importante per capire il grado di infiltrazione del tumore e i suoi rapporti con i
tessuti circostanti, il che è fondamentale per capirne l’aggressività. Perciò non è sufficiente il grading cellulare
(che indica il grado di malignità ma non l’aggressività), ma l’anatomopatologo deve avere a disposizione
anche il frustolo.
Per molte lesioni benigne, invece, può essere sufficiente l’indagine citologica.

➢ Trochar biopsy
Attraverso un solo punto d’ingresso, si eseguono multipli
campionamenti della lesione. Il foro deve essere unico poiché,
in seguito ai prelievi, essendo venuto a contatto con il
materiale tumorale, lo si considera “contaminato”.
Questo è vantaggioso dal punto di vista chirurgico in quanto
non si dovranno asportare porzioni troppo grandi di tessuto
inizialmente sano.
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➢ Biopsia incisionale
Si esegue per i tumori dei tessuti molli anche se, attualmente, si opta per biopsie eco-guidate o tac-guidate.
Si tende ad effettuare una biopsia incisionale, ad esempio, quando l’anatomopatologo riferisce che il
campione giunto per l’esame non è sufficiente per una valutazione istologica.
Questo tipo di biopsia richiede alcuni accorgimenti:
• È necessario evitare le incisioni trasverse: tutto ciò che è stato a contatto con il tumore può essere
contaminato e se si effettuano incisioni trasverse o ad “s” , è necessario asportare molta cute.
• È necessario evitare le incisioni fuori dal decorso della resezione (non bisogna passare, quindi, tra i
ventri muscolari contigui): se infatti si deve asportare tessuto sano intorno alla lesione, ledendo più
muscoli si causerebbe un danno più aggressivo. Se si passa da un solo ventre muscolare, questo viene
evitato.
• È necessario evitare di scollare e divaricare ampiamente per fare una piccola incisione o raccogliere
modeste quantità di tessuto a piccoli frammenti con curette5 o pinze, dal centro della lesione.
• È necessario evitare il posizionamento di drenaggi con “uscita” distale rispetto alla ferita: questo
perché, dovendo poi asportare il foro del drenaggio, si dovrebbe rimuovere una grande quantità di
tessuto sano. I drenaggi, pertanto, vanno posizionati sempre “in linea” con l’incisione.

Infatti, la biopsia incisionale è caratterizzata da:


• Incisione longitudinale lungo l’asse maggiore dell’arto
• Passaggio attraverso i ventri muscolari soprastanti
• Scollamento e divaricamento minimi
• Prelievo di un cuneo di tessuto, partendo dalla periferia della lesione
• Drenaggi con uscita prossimale alle estremità della ferita

4.5 Trattamento
Il trattamento dei tumori muscoloscheletrici prevede la chirurgia, la chemioterapia e la radioterapia. La
chemioterapia è l’approccio che ha drasticamente migliorato la prognosi dei tumori maligni.

➢ Chirurgia
Nel trattamento di neoplasie dello scheletro, un altro concetto fondamentale introdotto da Enneking è quello
di margine chirurgico, che può essere:
• Intralesionale: si entra nella lesione e la si asporta. Non è un approccio possibile con i tumori maligni;
• Marginale: nei tumori benigni, capsulati, in cui si vede il tumore ben delimitato, lo si può rimuovere
senza asportare tessuto sano, essendo certi che non vi sia possibilità di recidiva o di
metastatizzazione. È il caso del lipoma6.
• Ampio: la resezione ampia consiste nella rimozione del tumore completamente avvolto da uno strato
di tessuto sano, senza mai vedere né la pseudo-capsula né la neoplasia stessa;
• Radicale: La resezione radicale prevede l’asportazione dell’intero compartimento, della loggia.

Gli ultimi due sono i margini di riferimento per i tumori maligni.

5 Una curette (pronunciato: kyʀεt; dal francese cureter [grattare, raschiare]) o cucchiaio tagliente è uno strumento chirurgico, di
diverse fogge, utilizzato per asportare, scarificare, raschiare o pulire. Fonte: Wikipedia
6 In realtà il lipoma, anche quando adeguatamente rimosso, può recidivare.

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Ciò che è importante nel trattamento è avere una “distanza di sicurezza” dal tumore, ma il problema è
quantificare questa distanza. In letteratura, infatti, almeno nell’ambito dell’oncologia ortopedica, non è
descritto un margine ben definito e standard7. Durante l’ultimo convegno in merito un chirurgo inglese, che
ha guidato una revisione della letteratura dei “margini ampi”, ha affermato che esiste molta variabilità, da
alcuni millimetri dei chirurghi giapponesi, fino a casi in cui si arrivava a 2 cm (è noto, infatti, che i jappa,
insieme ai china, siano abituati a misure più brevi).
Non esiste, in realtà, un margine sicuro e sta nello studio dell’anatomia, dell’aspetto dell’imaging, del
responso anatomopatologico, capire la distanza corretta dalla lesione. Solitamente, per essere sicuri, si
“lasciano” 2 cm di margine, il quale è molto ampio.
Per capire se la resezione è stata effettuata correttamente, bisogna aspettare il referto del patologo, che
analizza la lesione asportata e studia il margine. Nel caso in cui la resezione non sia completa (margine
positivo) è necessario reintervenire con una “radicalizzazione” o fare radioterapia.

Esempio con caso clinico:


Quando un paziente si presenta all’attenzione di un chirurgo, è possibile procedere con una resezione iniziale e poi,
in seguito all’esame istologico, eseguire un successivo intervento. Questo procedimento però deve essere ben
valutato prima di essere messo in atto.

La signora in foto presentava un piccolo nodulo sottocutaneo ed il rapporto che esso aveva con la fascia, non era
chiaro (cosa che invece è fondamentale sapere, perché le lesioni soprafasciali, di norma, non sono aggressive e,
qualora lo fossero, la sede permetterebbe un intervento chirurgico intracompartimentale, ovviamente più semplice).
Il chirurgo in questione ha rimosso il nodulo chirurgicamente con incisione trasversa (vedi foto). Il referto
anatomopatologico ha evidenziato una lesione maligna aggressiva, che può dare metastasi ed essere letale. Il chirurgo
è, quindi, intervenuto in maniera inopportuna e, successivamente, è stato costretto ad asportare molto più tessuto a
causa del tipo di incisione effettuata.

È stata, infatti, eseguita una radicalizzazione (il che significa asportare tessuto dopo che si è già intervenuti
precedentemente, con l’obiettivo di massimizzare la probabilità di eradicare le cellule neoplastiche) la quale, però, è
risultata difficoltosa a causa del tipo di incisione precedentemente eseguita. Infatti sono state asportate grandi
quantità di tessuto e la donna si è guadagnata una bella cicatrice che, probabilmente, coprirà con un tatuaggio degno
di Just Tattoo of Us su Mtv.

7 Söm a post

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4.A Tumori maligni primitivi dello scheletro

I tumori maligni primitivi dello scheletro costituiscono circa il 28% di tutte le lesioni ossee. Tra i tumori
maligni, come si evince dal grafico sulla destra, quelli più frequenti sono:
- l’osteosarcoma (OS);
- il condrosarcoma (CS);
- il sarcoma di Ewing.

4.A.1 OSTEOSARCOMA
L’osteosarcoma è un tumore ad elevata malignità, costituito da cellule mesenchimali maligne che producono
matrice osteoide ed ossea. Colpisce prevalentemente le ossa lunghe ed è il tumore maligno primitivo dello
scheletro più frequente nei bambini e nei giovani adulti.
L’OS comprende diverse varianti, anche a basso grado di malignità. Tuttavia, quella che ricorre più
frequentemente (80% dei casi) è la forma centrale ad alto grado di malignità.

4.A.1.1 Classificazione
Come prima accennato, esistono diverse forme di OS:
- OS classico intramidollare o centrale (osteo-, condro- o fibroblastico): forma largamente più
frequente;
- OS teleangectasico;
- OS centrale a basso grado di malignità;

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- OS della superficie (parostale, periosteo, di superficie ad
alto grado);
- Osteosarcoma su malattia di Paget;
- Osteosarcoma secondario a lesioni preesistenti;
- Osteosarcoma della mandibola;
- Osteosarcoma in condrosarcoma dedifferenziato;
- Osteosarcoma multicentrico;
- Osteosarcoma post-irradiazione.

Osteosarcoma classico
Esordisce attorno ai 20 anni, a livello delle metafisi delle ossa lunghe. Le localizzazioni più frequenti sono
quelle attorno al ginocchio e all'omero prossimale. Molto raramente si può presentare contempo-
raneamente in più sedi (osteosarcoma multicentrico).

L'osteosarcoma classico è un tumore estremamente aggressivo a crescita rapida; si caratterizza per


l’elevata presenza sia di precoci metastasi a distanza che delle cosiddette "skip lesions" (localizzazioni del
tumore nello stesso segmento osseo a breve distanza dalla localizzazione principale) per la definizione
delle quali risulta indispensabile la scintigrafia ossea e la PET.

Il tumore si presenta quasi sempre Stadio II-B (90% dei casi) o III se le metastasi (a livello polmonare) sono
già presenti al momento della diagnosi (nel 10-15% dei casi). Il tumore risponde bene alla chemioterapia
preoperatoria e, soprattutto in caso di buona risposta, le percentuali di sopravvivenza ormai si attestano
attorno al 70%.

La varietà centrale, a sua volta, può essere:


o Osteolitica (immagine di sinistra): provoca la distruzione del tessuto osseo circostante e,
all'esame radiografico, dà un'immagine di osso “scoppiato”;
o Osteoblastica (immagine di destra): determina la produzione di osso, spesso sotto forma di
lamelle perpendicolari alla superficie dell'osso: all'esame ai raggi X può risultare un'immagine
a pettine o a raggi di sole.

Osteosarcoma classico a basso grado


L'OS centrale dell'osso a basso grado di malignità è una rara varietà dell'osteosarcoma classico (< 1%); si
localizza solitamente al centro della metafisi di un osso lungo ed ha cellule ben differenziate a basso grado
(G1).
Può presentare diverse varianti:
o Periostale (1,5%): insorge tipicamente a 16-18 anni e colpisce le ossa lunghe. Questa variante
non viene trattata con chemioterapia8, ma solo con approccio chirurgico.

8 Il docente inserisce addirittura 3 punti esclamativi. Deduco sia importante.

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o Parostale (2,5%): l’età media di insorgenza è 27 anni; si tratta di una variante a lenta crescita,
che si localizza quasi sempre a livello del femore distale posteriore: cresce come una nuvola
ossea (molto densa ed omogenea) sulla superficie dell’osso.
Spesso poco dolorosa, può dare lieve dolenzia ma mai dolore importante.
Si può eseguire una resezione tangenziale; se i margini non sono adeguati, recidiva localmente
oppure con delle skip lesion nelle parti molli.

A sx si osserva la variante periostale dell’OS a basso grado, localizzato al terzo medio di femore; a dx, invece, è
apprezzabile la “nuvola ossea” data dalla variante parostale localizzato (come sua tendenza) posteriormente a
livello del femore distale.

4.A.1.2 Trattamento
L’approccio terapeutico dell’OS classico segue tipicamente 3 step:
1. chemioterapia neoadiuvante: con metotrexate ad alte dosi (HDMTX), adriamicina (ADM), cisplatino
(CDDP) e/o ifosfamide (IFO);
2. chirurgia;
3. chemioterapia.
Esiste un nuovo farmaco ad azione di immunomodulazione (MEPACT©), utilizzabile in pazienti di età inferiore
a 31 anni con OS localizzato dopo trattamento chirurgico. Sembra garantire un aumento di probabilità di
sopravvivenza dell’8%.
Il ruolo della radioterapia è dibattuto e dipende dalla localizzazione del tumore (pelvi, rachide), dalle
dimensioni del tumore e dall’età del pz.

4.A.2 CONDROSARCOMA
Il condrosarcoma (CS) è un tumore maligno di origine mesenchimale le cui cellule producono matrice
condroide priva di osteoide (cartilagine). La classificazione del CS include diverse varietà:
- CS centrale;
- CS periferico;
- Altre: CS periosteo, CS a cellule chiare, CS mesenchimale, CS dedifferenziato.

Condrosarcoma centrale
Il CS centrale origina all’interno dell’osso in sede intramidollare e può essere definito primario o
secondario. Il CS centrale primario insorge in un segmento osseo precedentemente sano mentre il CS
centrale secondario insorge su una lesione cartilaginea benigna preesistente (encondroma; m. di Ollier9;

9la trasformazione di un condroma in condrosarcoma è evento estremamente raro nei condromi solitari, mentre è più frequente nei
portatori di malattia di Ollier dato che hanno molti condromi nello scheletro.

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s. di Maffucci). Per incidenza, è il secondo tumore maligno primitivo dell’osso dopo l’osteosarcoma,
predilige il sesso maschile ed è tipico dell’età adulta avanzata, essendo raro prima dei trent’anni e
rarissimo prima della pubertà.

Le sedi più colpite sono il cingolo pelvico (femore prossimale e bacino) e scapolare (omero prossimale e
scapola) ed il ginocchio (femore distale e tibia prossimale), specialmente a livello metafisario, mentre è
estremamente raro nelle ossa della mano e del piede.

La crescita è molto lenta, con scarso dolore (lieve, mal riferito e discontinuo); può essere presente una
lieve tumefazione. Nel tempo tende a progredire di malignità e in fase tardiva spesso dà metastasi a
distanza, soprattutto al polmone.

Le indagini strumentali devono iniziare da una radiografia standard del


segmento interessato. L’aspetto radiografico di una lesione cartilaginea
dello scheletro può variare da un quadro simile all’encondroma benigno ad
una lesione con marcato comportamento aggressivo e destruente che può
determinare una frattura patologica. L’aspetto radiografico tipico del CS
centrale dimostra un’osteolisi con calcificazioni “a pop corn” ed
ossificazioni “ad anello”, a carattere ben definito nel CS a basso grado e di
aspetto più confuso ed irregolare nel CS ad alto grado di malignità.
Alle volte il CS centrale insorge su un preesistente encondroma (CS centrale
secondario) ed in questo caso le calcificazioni ben definite vengono
progressivamente sostituite dall’osteolisi e diventano sfumate e irregolari.

Il trattamento del CS centrale è basato sull’asportazione chirurgica avendo dimostrato una scarsa
sensibilità alla chemioterapia ed alla radioterapia.

Condrosarcoma periferico (secondario)


Deriva dalla degenerazione del cappuccio cartilagineo di una preesistente esostosi.

Come nel CSC è molto rara la degenerazione di un'esostosi solitaria, mentre l'evenienza è più frequente
(10% circa) nei portatori di malattia delle esostosi multiple che hanno moltissime esostosi sparse nello
scheletro. La trasformazione maligna avviene solo in età adulta: nei bambini in accrescimento l'esostosi
cresce consensualmente alla crescita ossea e tale evenienza non è quindi patologica.
Il segno principale della trasformazione maligna di un’esostosi è il suo progressivo e lento aumento di
volume.

4.A.3 SARCOMA DI EWING


Questo tumore fu descritto per la prima volta nel 1920 da James Ewing (da cui prende il nome), il quale
riteneva che derivasse da cellule endoteliali midollari. Studi recenti alla microscopia elettronica e con
tecniche immunoistochimiche hanno riscontrato, invece, un’origine neuroepiteliale delle cellule del Sarcoma
di Ewing tanto da considerarlo attualmente come il membro più differenziato di un intero gruppo di tumori,
i cosiddetti tumori neuroepiteliali primitivi (PNET, tumori ad alto grado a piccole cellule rotonde).
Il Sarcoma di Ewing presenta inoltre una specifica alterazione cromosomica (traslocazione 11-2210: EWSR1-
FLI1).

10Il gene del cromosoma 22 codifica il gene del sarcoma di Ewing (EWS) la cui funzione non è nota (Delattre 1992, May 1993). Il gene
del cromosoma 11, chiamato FLI1, è coinvolto nell’attivazione/ inattivazione di altri geni. Il nuovo gene derivante dalla fusione dei
due, chiamato EWS/FLI, codifica una proteina di fusione alterata che regola altri geni che può dare origine a tumori quando espressa
impropriamente.

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4.A.3.1 Epidemiologia
È più frequente nel sesso maschile (65%) e la fascia d’età più colpita è quella compresa tra i 10 e i 19 anni. È
molto raro in alcune etnie (afroamericana e cinesue).

4.A.3.2 Aspetti caratteristici


Il Sarcoma di Ewing può colpire qualsiasi osso; con maggiore frequenza è stato osservato nelle vertebre, nel
bacino e nelle diafisi delle ossa lunghe, soprattutto dell'arto inferiore.
Ha sviluppo e crescita assai rapidi iniziando a livello del midollo osseo e poi infiltrando e distruggendo le
trabecole ossee; la corticale viene ben presto interrotta con il periostio che tenta invano di arginare la
crescita esplosiva del tumore (reazione periostale tipica "a bulbo di cipolla"). In breve il tumore raggiunge
i tessuti molli circostanti dove può raggiungere anche notevoli dimensioni.

Il Sarcoma di Ewing è generalmente una lesione Stadio II-B. Spesso al momento della diagnosi possono essere
presenti metastasi (20-25% dei casi) polmonari, linfonodali o interessamento di altre ossa (Stadio III). Il
tumore, se non trattato, ha andamento rapido e mortale con metastatizzazione soprattutto polmonare.

4.A.3.3 Presentazione clinica


Il dolore (intermittente o acuto) e la tumefazione rapidamente ingravescente sono i segni locali della
presenza del tumore; possono essere associati anche febbre, malessere e perdita di peso. Il decorso è rapido
con aumento di dimensioni della tumefazione e decadimento fisico. Agli esami di laboratorio è spesso
presente un notevole innalzamento della LDH.

4.A.3.4 Diagnosi
La clinica pone il sospetto, ma la conferma arriva dall’imaging. La PET è spesso richiesta per visualizzare anche
i linfonodi.
Questa lesione entra in diagnosi differenziale con il granuloma eosinofilo (reazione periostale simile) e con
l’osteomielite.

Sarcoma di Ewing del femore. Lesione osteolitica (cerchio blu) con bordi non ben individuabili nella diafisi dell'osso. Si osserva due
reazioni periostali tipiche: con aspetto a “sole radiante”11 (cerchio rosso) e con aspetto a “bulbo di cipolla” (frecce bianche).

11 Si tratta di un pattern aggressivo tipico dell’osteosarcoma, ma può essere presente anche in altri casi (Sarcoma di Ewing, per
l’appunto, e in alcune metastasi osteoblastiche derivanti da tumori di prostata, mammella o polmone)

20/22
4.A.3.5 Trattamento
Similmente a quanto detto per le altre forme maligne, il trattamento prevede l’utilizzo di:
- chemioterapia neoadiuvante + chirurgia;
- radioterapia;
- proton-terapia: si tratta di una particolare forma di radioterapia oncologica che utilizza particelle
dotate di massa e carica, i protoni, al posto dei raggi X (fotoni) adottati nella radioterapia
tradizionale. I protoni rilasciano la loro energia nei tessuti irradiati in modo caratteristico: la dose
viene depositata quasi interamente e con estrema precisione nello spazio di pochi millimetri. Questa
proprietà consente di somministrare dosi elevate di radiazioni al tumore, risparmiando i tessuti sani
in prossimità della lesione.

4.A.3.6 Prognosi
L’impiego della chemioterapia ha rivoluzionato la prognosi di questa patologia, soprattutto nelle forme
localizzate. La presenza di metastasi, invece, si correla ad un abbassamento netto del tasso di sopravvivenza
a 5 anni (come si evince dalla tabella seguente.

4.B Tumori maligni primitivi dei tessuti molli

I tumori maligni o sarcomi dei tessuti molli derivano da tessuti di origine mesenchimale, quali tessuto
adiposo, muscolare, nervoso, fibroso, vascolare.
Possono svilupparsi in qualsiasi parte del corpo, ma si riscontrano prevalentemente a livello degli arti.
Altre localizzazioni sono a livello di tronco, collo, testa, organi viscerali, retroperitoneo.

Come si può osservare dall’immagine, esistono circa 50 diversi tipi istologici.

L’incidenza annuale è circa di 3/100.000 persone.


Pur costituendo meno dell’1% di tutti i tumori maligni, sono causa del 2% circa delle morti per tumore.

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Di fronte ad una massa di un tessuto molle, i criteri per sospettarne una natura maligna sono:
- grandi dimensioni (> 3-5 cm);
- localizzazione profonda/sottofasciale;
- localizzazione nella porzione prossimale di un arto (braccio, coscia, cingoli);
- crescita progressiva nel tempo
- età > 40 anni;

4.B.1 LIPOSARCOMA
Il liposarcoma rappresenta la forma più frequente di tumore dei tessuti molli. Si tratta della forma maligna
del lipoma, a differenza del quale, però, compare più in profondità.
Insorge raramente prima dei 20 anni e si localizza frequentemente alle radici degli arti (ma anche a livello
retroperitoneale, nel collo, nel subendocardio o nel subpericardio). Ha una crescita lenta e dà origine ad una
sintomatologia subdola: il pazienta lamenta gonfiore e dolore mal definito.

Esistono varietà differenti:


- ben differenziato (lipoma-like/TLA)
- mixoide;
- pleomorfico;
- dediff.

La diagnosi viene effettuata attraverso un esame RM, che evidenzia una massa ipointensa in T1 ed iperintensa
in T2.

Il trattamento si basa sui capisaldi della terapia antineoplastica, ma dipende dallo stadio del tumore:
- stadio IA e IB: resezione ampia o radicale;
- stadi IIA e IIB: chirurgia preceduta da chemioterapia (ifofosfamide) associata o meno a radioterapia.

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Ex Lezione 1 del 04/03/19
Sbobinatore: F.B; Revisionata da LD
Docente: Prof. Giuseppe Milano

5. PATOLOGIE PEDIATRICHE E DELL’ACCRESCIMENTO

5.1 Osteocondrosi

Le osteocondrosi sono patologie benigne dell’accrescimento ad eziologia incerta, di natura non


infiammatoria (per questo motivo in Italia non si parla di “osteocondrite”, termine erroneamente utilizzato
invece nel mondo anglosassone) e di tipo degenerativo.
Interessano le epifisi, ovvero le regioni dove avviene la crescita prevalentemente in lunghezza delle ossa, le
apofisi e le ossa corte dello scheletro. Hanno breve durata, colpiscono soltanto il soggetto in accrescimento,
nella maggior parte dei casi verso la fine di tale fase e si auto-risolvono al termine dello sviluppo; sarebbe
perciò errato parlare di “osteocondrosi dell’adulto”.
Dal punto di vista radiografico l’osteocondrosi è caratterizzata dalla rarefazione del nucleo di accrescimento
epifisario o apofisario con esito benigno; se non diagnosticata o in caso di diagnosi ritardata, la situazione
può variare in maniera sensibile: specialmente se colpisse gli arti inferiori, dove viene applicata la maggior
parte del carico rappresentata dal peso corporeo, si potrebbe determinare una deformazione permanente
dell’osso.

5.1.1 Epidemiologia
È una patologia piuttosto frequente nel bambino, colpisce l’1,7% della popolazione pediatrica,
prevalentemente i maschi e interessa quasi esclusivamente gli arti inferiori. Sono rare le localizzazioni
multiple: sebbene sia possibile l’interessamento bilaterale, colpisce più frequentemente un solo distretto.
Prima di essere stata inquadrata da un punto di vista eziopatogenetico, l’osteocondrosi è stata descritta
come una serie di diversi epifenomeni in differenti sedi, solo successivamente si capì che erano in realtà
l’espressione dello stesso quadro clinico. In base alla localizzazione della malattia e al nome dell’autore che
la descrive vengono ancor oggi utilizzati differenti eponimi, creando spesso confusione nello studente:
• Osteocondrosi della testa del femore: malattia o morbo di Legg-Calvé-Perthes;
È la più frequente (29.75%)

• Osteocondrosi dell’apofisi tibiale anteriore: malattia o morbo di Osgodd-Schlatter;


È la seconda più frequente (21.45%)
L’apofisi tibiale è una protuberanza ossea posizionata inferiormente alla rotula dove di inserisce il
tendine rotuleo

• Osteocondrosi delle epifisi vertebrali (definite comunemente “limitanti somatiche delle vertebre”):
morbo di Scheuermann
È la terza più frequente (17.7%)
Può determinare deformità permanenti a cuneo del corpo vertebrale, con conseguente dorso curvo
cifotico strutturato

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Esistono altre localizzazioni meno frequenti, come:

• Scafoide tarsale: morbo di Kohler I

• Teste di II-III-IV metatarso: morbo di Kohler II

• Corpo vertebrale: diversa dal morbo di Scheuermann, in quanto riguarda il corpo della vertebra
dove c’è un altro nucleo di accrescimento e viene definita morbo di Calvé

• Semilunare, apofisi calcaneare, tibiale, corpo e apice della rotula. (n.d.s. il professore li cita senza
approfondirli).

Una localizzazione particolare, non epifisaria in senso puro (dal momento che non coinvolge tutta l’epifisi),
è l’osteocondrosi dissecante – o morbo di Konig – caratterizzata da una lesione ischemica dell’osso
subcondrale, cioè la regione subito al di sotto della cartilagine articolare. Questa patologia verrà trattata
più avanti nella lezione.

L’evoluzione della malattia porta ad un appiattimento dell’osso con perdita di forma e morfologia e
progressiva sclerosi (l’osso diventa più radiopaco nella regione interessata).
Il periodo di insorgenza dell’osteocondrosi varia a seconda della localizzazione della patologia, questo
significa che ad ogni fascia di età corrisponde una prevalenza per una specifica forma di osteocondrosi:
• Prima infanzia: scafoide tarsale
• Seconda infanzia: testa del femore (m. di Perthes), apofisi calcaneare
• Terza infanzia: tibiale anteriore
• Seconda decade di età: semilunare del polso.

5.1.2. Eziopatogenesi
L’osteocondrosi è un’alterazione degenerativa che colpisce le cartilagini di accrescimento.
Tra l’epifisi e la diafisi di un osso lungo vi è una zona di accrescimento chiamata metafisi: in questa zona si
trovano cellule cartilaginee distribuite in modo colonnare che gradualmente ossificano, permettendo la
crescita in lunghezza dell’osso lungo.
Il danno iniziale strutturale avviene a livello di
questa regione ed è legato ad un’alterazione di
tipo metabolico-biochimico; nello specifico si
assiste ad una modificazione del pattern dei
proteoglicani e della composizione dei GAG,
che determina un’alterazione delle proprietà
meccaniche della zona interessata. I GAG
possiedono delle cariche negative e sono, per
questo, in grado di trattenere le molecole
d’acqua e di modificare l’elasticità e quindi la
resistenza meccanica al carico, permettendo la
compressione, la torsione e la flessione del tessuto. In tutti i tessuti connettivi l’acqua svolge un ruolo
fondamentale, garantendo la capacità di assorbire e distribuire i carichi; le molecole d’acqua non si
staccano mai dal proteoglicano: sotto l’effetto del peso del corpo, la ramificazione del proteoglicano si
apre, le molecole d’acqua si allontanano e, quando il carico viene sottratto, la struttura riprende la sua
forma originale e le ramificazioni si riavvicinano (il professore paragona la situazione al comportamento

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della borsa dell’acqua calda quando viene schiacciata nel mezzo: l’acqua si sposta dal punto di applicazione
della forza ma non fuoriesce). Questo fenomeno avviene in tutti i tessuti connettivi, ma in modo differente
in base al quantitativo di acqua contenuto: nella cartilagine si manifesta in maniera particolare; al contrario
l’osso, essendo associato ad una minore quota d’acqua, ha una minore capacità di deformarsi senza
rompersi ( si parla di “deformazione elastica”: la situazione si ripristina una volta rimosso il carico; l’osso più
spesso va incontro a delle rotture).
Un’altra componente importante di tutti i tessuti connettivi sono le fibre collagene che possono variare in
quantità, nel tipo di collagene e soprattutto in diametro. Anche il collagene conferisce al tessuto la capacità
di resistenza meccanica che varia da distretto a distretto, ma soprattutto varia in maniera patologica
nell’osso, in questo caso.
Parlando di resistenza meccanica della cartilagine o di qualsiasi altro tessuto in generale, (se ne parlerà
anche quando verranno trattate le fratture) va immaginato che tutte le strutture del nostro apparato di
sostegno, in particolare l’osso, siano fatte per sopportare carichi in compressione ed abbiano un proprio
“carico massimo”, cioè la capacità di resistenza al carico, e una propria “rigidezza”, cioè la capacità di
deformarsi in relazione all’applicazione del carico. L’atteggiamento dell’osso è definito “viscoelastico” e
rappresentando la resistenza al carico con una curva in un grafico N/mm si può vedere che:
o la curva carico-deformazione cresce fino a un certo
punto in modo quasi lineare; questa fase è detta
elastica: il carico applicato determina una deformazione
ma una volta rimosso, il quadro ritorna esattamente alla
sua forma originale.
o la curva si allontana dalla tangente, si sposta verso l’alto
e comincia una fase di deformazione plastica
permanente: nel momento in cui il carico viene tolto, la
deformazione rimane nell’ultima forma assunta; a questo punto si può già parlare di danno
strutturale.
o la curva continua infine a salire fino a un punto di plateau oltre il quale avviene la rottura: da
questo punto in poi c’è un calo della capacità di resistenza al carico.

Il concetto di “Rottura” è una definizione convenzionale, non esiste una definizione standard; si potrebbe
dire infatti che il tessuto si sia rotto nella fase di deformazione plastica (“snervamento”), dove c’è già una
perdita delle capacità meccaniche; altrimenti si potrebbe considerare “rottura” il carico massimo che riesce
a sopportare, oltre il quale si registra un crollo della curva di carico che corrisponde al punto in cui avviene
la rottura. Si può parlare di carico alla deformazione plastica (carico di snervamento) o carico di rottura
(carico massimo).
Normalmente un tessuto è strutturato, si è modellato e rimodellato per obbedire al carico fisiologico che la
struttura può sopportare: il carico in compressione che l’osso sopporta è proprio il nostro peso corporeo.
Siccome il nostro peso cambia, cambierà anche il limite di carico massimo, perché l’osso si rimodella
continuamente e si adatta alla nuova richiesta. Questa nuova richiesta obbedisce a una curva analoga alla
precedente: nel momento in cui viene applicato un carico superiore alla capacità di resistenza di quella
struttura, avviene la rottura. Quest’ultima può avvenire in un tessuto qualsiasi quando il carico applicato
supera la capacità di resistenza dello stesso, ciò può accadere in due circostanze:
• per l’applicazione di un carico sovra-massimale (n.d.s. il professore dice sub-massimale) molto
violento;

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• per la progressiva perdita delle capacità meccaniche dovuta a un processo patologico intrinseco
che porta al superamento della capacità di resistenza al carico. In questo caso il carico non è
cambiato (il peso del paziente è sempre il medesimo) ma l’osso si rompe perché è più fragile.
Queste fratture vengono chiamate “patologiche” in quanto esiste una patologia di base dell’osso
che ne determina la rottura.

L’osteocondrosi ricalca un quadro del secondo tipo: esiste una situazione patologica a livello della
cartilagine di accrescimento tale per cui, sotto l’effetto del peso del corpo e a fronte di una causa
scatenante, più o meno identificabile, essa va incontro a rottura; le cause possono essere ricercate in:

• macrotrauma, un evento singolo, violento, ad alta velocità ed energia, (es. incidente stradale,
caduta dagli sci ecc.) facile da identificare in quanto riferito dal paziente e con evidenza clinica;
• microtraumi ripetuti, sono i più rilevanti e difficili da riconoscere in quanto spesso non vengono
percepiti dal paziente come una condizione di stress o di patologia. Si sviluppano spesso durante
l’attività sportiva, quando alcuni gesti vengono ripetuti più volte al giorno per diversi giorni alla
settimana.

In entrambe le condizioni il trauma (micro o macro), agendo su una struttura già patologica, ne provoca
un’alterazione e i vasi che passano all’interno della cartilagine di accrescimento si rompono o si occludono,
determinando un fenomeno ischemico a livello del nucleo di accrescimento epifisario. Dentro la cartilagine
di accrescimento passano infatti piccoli vasi che portano il nutrimento all’epifisi. Non necessariamente
questo trauma provoca una frattura, cioè uno spostamento dei due frammenti, più spesso le lesioni sono
inapparenti dal punto di vista macroscopico, sono invisibili perciò ad una radiografia.
In conclusione, esiste un substrato anatomico predisposto a sviluppare la malattia e nello stesso tempo
esiste una concausa rappresentata da un evento scatenante.

5.1.3 Quadro clinico


Il vero problema dell’osteocondrosi è che molte volte non manifesta nessuna caratteristica specifica.
Il bambino riferisce soltanto il dolore, spesso giustificato dai familiari come “dolore di crescita”; se lasciata a
se stessa la patologia potrebbe, però, produrre degli esiti invalidanti e permanenti.
Nel caso l’osteocondrosi avesse una localizzazione superficiale, come nel morbo di Osgodd-Schlatter
(apofisi tibiale anteriore), si potrebbe presentare un quadro clinico con minimi segni evidenti: essendo
appunto molto superficiale, sottopelle, può essere presente un fenomeno infiammatorio secondario che si
manifesta con la cute sovrastante arrossata e dolore alla palpazione.
Alla valutazione di una sede profonda come l’anca e la vertebra, invece, non c’è modo di evocare nessun
segno clinico, il paziente riferisce solo dolore. Altra caratteristica evidente nel caso dell’interessamento
d’anca, però, è il comportamento posturale che il soggetto modifica in relazione al dolore: cambia il modo
con cui cammina, perché ha dolore ogni volta che applica il carico, di conseguenza comincia a zoppicare.
Allo stesso tempo si sviluppa una contrattura di tutti i muscoli satelliti della regione dolorante, con
progressiva perdita di tono muscolare e atteggiamento viziato in posizione di difesa.

L’osteocondrosi non solo decorre in maniera quasi asintomatica, ma decorre anche in modo subdolo dal
punto di vista dell’imaging: alla radiografia non si identificano alterazioni prima di un certo tempo, il quadro
diventa evidente solo in fasi troppo tardive quando si instaura una sindrome ischemica ossea e sono già

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presenti danni secondari all’ischemia, talvolta con necrosi ossea; si evidenziano caratteristiche simili a
quelle di un’osteonecrosi nell’adulto, ovvero segni di rarefazione, poi di frammentazione del nucleo di
accrescimento, addensamenti (l’osso si vede più bianco) e progressivamente si instaura una fase riparativa
(l’osso muore ma poi viene riabilitato dalle cellule circostanti). Tuttavia, ciò che si è deformato non
riacquisterà mai la forma precedente e questo è il problema principale dell’osteocondrosi.

Viene mostrato l’esito progressivo della malattia di Perthes (Legg-Calvé-Perthes), con un’alterazione a
macchia di leopardo, a chiazze, del nucleo di accrescimento della testa del femore. La cartilagine di
accrescimento normalmente è radiotrasparente e la si può vedere come una linea, da non identificare come
una frattura. Progressivamente la testa del femore tende a frantumarsi, poi inizia ad assumere l’aspetto di
addensamento eburneo e l’esito riparativo è deformante, molto invalidante.

Le superfici articolari obbediscono a una cinematica perfetta per la loro funzione, la congruenza fra le
superfici articolari è ciò che garantisce il movimento. I raggi di curvatura tra una superficie articolare e
l’altra (composte da una parte ossea, una cartilaginea e una capsulo-legamentosa) hanno una congruenza
di superficie tale che la distribuzione del carico per unità di superficie è omogenea in tutta l’area di
contatto. Quando una superficie è diversa per raggio di curvatura o come forma rispetto a un’altra, si
presentano dei picchi di carico: in alcune zone c’è tutto il carico, in altre non ce n’è.

Quindi se la testa del femore, ad esempio, è degenerata e non congrua alla concavità dell’acetabolo si
hanno:
• perdita di articolarità, di movimento
• dolore
• artrosi, con il consumo anche della cartilagine dell’altra superficie, con progressiva perdita della
funzione

5.1.4 Diagnosi differenziale


Davanti a un quadro clinico-radiografico già abbastanza avanzato, evidente, si pone il problema della
diagnosi con altre malattie che possono mimare questa situazione, anche se oggi tendenzialmente molto
rare:
• necrosi ossee da ipotiroidismo: diagnosticate raramente in alcune regioni dell’entroterra dei paesi
del Sudamerica;

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• tubercolosi ossee: più frequenti un tempo; è avvenuto un lieve ritorno di queste patologie per
l’aumento dei flussi migratori, ma ad ogni modo raramente si riesce a vedere una TBC ossea nei
bambini;
• malattie sistemiche di tipo genetico come la displasia condroepifisaria.

Sostanzialmente, quando un bambino lamenta dolore ad un’articolazione come l’anca, ma anche mano,
piede, anca, caviglia, soprattutto se fa attività sportiva, il primo sospetto è che si tratti di un’osteocondrosi.

5.1.5 Prognosi
Se riconosciuta e approcciata togliendo il carico o
eliminando quanto più possibile gli stimoli meccanici che
potrebbero continuare ad alimentarla, la malattia è
benigna ed ha un’evoluzione spontanea positiva.
Generalmente la malattia si risolve nell’arco di un anno
anche se in alcuni casi i tempi si allungano: per la
malattia di Perthes ci vogliono anche 2-3 anni, per la
malattia di Calvé della vertebra fino a 4 anni.
La guarigione ha invece un esito invalidante se non
riconosciuta in fase precoce così da evitare dei carichi
continui. L’esito caratteristico della malattia di Perthes è
la coxa plana, ovvero l’appiattimento della testa del
femore, mentre nel caso della malattia di Scheuermann
si può arrivare ad una deformità a cuneo della vertebra
che determina una cifosi strutturata. Molte persone
hanno una postura cifotica che provoca un dorso curvo astenico, spesso anche per una insufficienza della
parete addominale: si tratta di un atteggiamento correggibile; al contrario il dorso curvo strutturato
prodotto dalla malattia di Scheuermann non si può correggere. Il modo migliore per discriminare la
tipologia del dorso curvo è quello di far appoggiare il tronco del paziente su un lettino in posizione prona,
lasciandolo in piedi: un dorso astenico (cioè un’alterazione posturale) si riduce perfettamente, mentre una
curva strutturata può essere apprezzata anche in posizione prona.

5.1.A Malattia di Perthes


È un’osteocondrosi frequente nell’anca del giovane, soprattutto nei maschi che svolgono attività fisica.
Lavorando con squadre giovanili, bisogna fare molta attenzione al ragazzino che lamenta dolore all’anca.
Quasi sempre interessa soltanto una sede, raramente si presenta con una localizzazione bilaterale. In
quest’ultimo caso ci può essere un intervallo anche di qualche anno tra la comparsa di una lesione e la
controlaterale.
Importante da valutare nei giovani pazienti è la crescita ossea in relazione alla crescita staturale: molto
spesso si assiste ad una crescita staturale abnorme rispetto alla crescita ossea e questo spiega in parte la
patogenesi; l’osso, infatti, non è ancora sufficientemente maturo dal punto di vista strutturale e meccanico
per sopportare tutto quel peso (spesso si vedono ragazzini che sembrano già adulti con un peso superiore a
100 Kg ed un’altezza di 1,80 m a 14 anni: queste condizioni fisiche sono predisponenti). Inoltre, in
associazione a crescita staturale importante, si assiste spesso ad un fenomeno congenito di inibizione della
crescita delle cartilagini di accrescimento: si ha una crescita eccessiva della statura associata ad

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un’alterazione del metabolismo del collagene con alterazioni strutturali sia dei proteoglicani che delle fibre
collagene. I soggetti che hanno queste malattie spesso hanno una quota maggiore di collagene di tipo 4 che
forma le fibre elastiche, ne consegue una lassità legamentosa eccessiva come accade in soggetti con
collagenopatie ereditarie, ad esempio la malattia di Marfan.
Le manifestazioni cliniche precedono sempre quelle radiografiche.
Come già detto l’RX diventa positivo solo in una fase molto tardiva; in caso di quadro clinico suggestivo o
quantomeno sospetto ma radiograficamente negativo, è consigliabile eseguire un’ecografia dell’anca.
Questa può aiutare a evidenziare la presenza di un versamento che, quando presente in un bambino nella
seconda o terza infanzia, aggiunge valore al sospetto diagnostico.
Molto importante è indagare il tipo di dolore poiché questo ha una localizzazione specifica a livello
inguinale, segue la faccia interna della coscia, quindi il decorso del nervo otturatorio, e si ferma al ginocchio
(caratteristica tipica di tutti i dolori dell’anca). Il dolore è ingravescente ed associato a claudicatio, cioè la
zoppia; tipicamente la zoppia del bambino con malattia Perthes è definita di fuga, essendo causata dal
dolore, diversa dalla zoppia della displasia d’anca che è invece da caduta. In una zoppia dovuta al dolore,
nel momento in cui il paziente poggia il piede a terra tende a sollevarlo e quindi a caricare di meno,
pertanto il bacino si inclina dalla parte sana in modo tale da ridurre il carico sul lato dolorante durante
l’appoggio monopodalico. Nel bambino con claudicatio dovuta a un’insufficienza dei glutei, ad esempio
proprio per una displasia d’anca, il bacino si obliqua invece dal lato affetto.
Nelle forme dove non si è intervenuti in tempo, l’evoluzione progressiva porta a perdita di funzione fino ad
una artrosi franca.

5.1.B Osteocondrosi dissecante


Fa parte della famiglia delle osteocondrosi ma ha delle caratteristiche peculiari: la necrosi ischemica non
interessa il nucleo di accrescimento epifisario ma l’osso subcondrale. L’osso subcondrale si trova subito al di
sotto della superficie articolare la quale è rivestita da uno strato di cartilagine articolare con funzione
principale di lubrificare la superficie articolare così da ridurre gli attriti e favorire quindi il movimento. Nel
momento in cui l’osso subcondrale va in necrosi, questo “frammento osteocondrale” si stacca e porta con
sé anche una porzione di cartilagine diventando un corpo mobile all’interno dell’articolazione e potendo
provocare dei “blocchi articolari”.

5.1.B.1 Epidemiologia
Essendo una patologia dell’accrescimento, colpisce bambini nella seconda/terza infanzia e di solito
interessa prevalentemente il condilo mediale del femore distale; sono possibili però anche altre
localizzazioni:
• al ginocchio: condili femorali, raramente il piatto tibiale, ancora più raramente la rotula;
• testa dell’omero;
• capitello radiale.

5.1.B.2 Storia clinica


È caratterizzata da un trauma maggiore, e quindi una distorsione di ginocchio che ha provocato un violento
distacco di un frammento osteocondrale, oppure, più frequentemente da microtraumi ripetuti e quindi
sport, soprattutto quelli che prevedono intense forze di taglio come cambi di direzione, ripartenze,

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rotazioni a piede fisso (un esempio è il calcio, soprattutto se giocato su superfici ad alto attrito come l’erba
sintetica).
La malattia si sviluppa attraverso diversi stadi (riconoscibili mediante scintigrafia).
1. C’è soltanto necrosi ossea, la cartilagine rimane del tutto integra, quindi è la fase in cui è possibile il
riconoscimento, con demarcazione della sola parte ossea, non di quella cartilaginea.
2. Si demarca anche la parte cartilaginea, che rimane ancora in sede.
3. Il frammento tende a muoversi e a diventare più instabile.
4. Il frammento si stacca completamente ed è possibile trovarlo libero nell’articolazione; la
cartilagine può cominciare a crescere e si può perciò trovare un frammento d’osso completamente
avvolto da cartilagine, tale per cui diventa a volte impossibile riconoscere la superficie originaria.

I vari stadi hanno una prognosi e una modalità di trattamento diversa.

5.1.B.3 Quadro clinico


È abbastanza sfumato, difficile da definire; generalmente il paziente riferisce dolore e pseudo-blocchi (“mi
si incastra il ginocchio” o “mi si gonfia il ginocchio facendo attività sportiva”).

5.1.B.4 Esami strumentali


Nella maggior parte dei casi l’RX diventa positivo soltanto nella fase molto tardiva della malattia, cioè
quando il frammento è già demarcato o addirittura completamente staccato.
Si può ricorrere a RM che può essere eseguita in fase molto precoce e mettere in evidenza un edema osseo
e quindi consente di mettere in atto un trattamento quando ancora la malattia è del tutto reversibile, in
stadio 1 o 2.
Per alcuni anni si è utilizzata anche la scintigrafia, utile in passato per stadiare la malattia ma, essendo un
esame piuttosto invasivo, oggi viene tendenzialmente abbandonata.
Non si esegue mai TC perché in una fase precoce non permette di vedere niente.

5.1.B.5 Trattamento
Varia a seconda dello stadio della malattia.
In fase iniziale è sufficiente mettere in scarico il ginocchio, quindi evitare di caricarlo.

In una fase più avanzata si realizzano delle “perforazioni” (brinding) per far arrivare il sangue al frammento
ischemico, necrotizzato; si fanno cioè dei fori nell’osso sotto guida radiografica che attraversano la parte
sana e creano dei canali di rivascolarizzazione.
Questi canali vengono fatti banalmente con un trapano e un filo metallico e si possono creare per via:
- anterograda: sono più facili, con lo svantaggio che si buca anche la cartilagine; si possono usare
come compromesso dei fili molto sottili.

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- Retrograda: passando da sopra e bucando l’osso fino a raggiungere la regione ischemica. È un
intervento più conservativo perché viene risparmiata la cartilagine, ma meno preciso perché non si
vede dove va a finire la punta del filo, la si può seguire alla RX ma non sempre con precisione.

Se il frammento si è staccato ed è instabile (stadio 3) viene tolto, ripulito e riattaccato sul fondo della
lesione mediante delle viti (oggi si utilizzano delle viti riassorbibili che passano attraverso la cartilagine e
“sintetizzano” l’osso del frammento dell’osso sano).

Nei casi più avanzati – stadio 4 – dove il frammento è completamente mobile, non si può riattaccare perché
non attecchirebbe, si riassorbirebbe andando incontro a morte. L’unica possibilità è sostituire la cartilagine,
quindi fare dei trapianti di osso e di cartilagine.
Poiché l’osteocondrosi non è una malattia della cartilagine ma dell’osso subcondrale, l’osso va ricostruito
esattamente come era prima, per questo motivo si utilizza una tecnica chiamata “mosaicoplastica” dove si
prendono dei cilindri di osso e cartilagine da altre zone del ginocchio, nello specifico dalla gola
intercondiloidea o dalla troclea laterale, e li si utilizza per riempire la zona del danno; le regioni da cui sono
presi questi cilindretti sono zone non sottoposte al carico, quindi il ginocchio non ne soffre da un punto di
vista del rischio di evoluzione artrosica; è una procedura inoltre del tutto asintomatica.

Queste regioni sono state scelte sulla base di studi di mappatura del carico, attraverso “l’analisi agli
elementi finiti”, grazie alla quale si studiano le zone del ginocchio dove viene applicato il carico; sono
modelli matematici usati per costruire le protesi, i mezzi di sintesi, sono cioè dei sistemi che decidono quale
densità del materiale è necessaria per evitare che si possano rompere sotto effetto del peso, con l’obiettivo
di creare una struttura che sia quantomeno simile all’originale. Attraverso questo tipo di analisi si può fare
anche una mappatura del carico, quindi si può decidere qual è la zona del ginocchio dove non c’è l’effetto
del peso; è appunto grazie a questi modelli che si sa che le zone al centro del ginocchio e nella parte
superiore laterale (troclea) sono zone fuori-carico.
Oltre all’autotrapianto oggi esistono anche delle nuove tecniche, con risultati non ancora del tutto
soddisfacenti, che prevedono la possibilità di utilizzare delle cartilagini ingegnerizzate, degli scaffold bifasici
costituiti da una parte di fosfato di calcio (matrice di cui è fatto l’osso), e da una parte di fibre collagene,
perciò una struttura sintetica che simula l’osso e la cartilagine. Questi scaffold si trapiantano “nudi”, così
come sono, dentro il ginocchio, aspettando che le cellule circostanti vadano a ripopolarlo, oppure pre-
coltivati; in quest’ultimo caso si prendono delle cellule del paziente, si mette uno scaffold in coltura con
queste cellule, si aspetta che lo colonizzino e poi si procede al trapianto.

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5.2 Displasia congenita dell’anca

È una delle patologie più conosciute nell’ambito delle osteopatie pediatriche. C’è differenza fra displasia
congenita, lussazione, sublussazione, anche se a volte si usano erroneamente questi termini in maniera
intercambiabile.
In generale si parla di displasia dell’anca per definire una condizione in cui, a causa dell’alterazione del
processo di accrescimento, non c’è una congruenza perfetta tra le superfici articolari di un’anca per cui la
testa del femore tende a uscire dalla cavità acetabolare, andando col tempo incontro a sublussazione.
Displasia, quindi, non è sinonimo di sublussazione, ma la sublussazione è secondaria a una displasia.

5.2.1 Classificazione
• Pre-lussazione o displasia pura: la testa del femore è ancora nella cavità acetabolare.
• Sublussazione: la testa del femore è parzialmente fuoriuscita dalla cavità acetabolare; è definita
come perdita parziale della congruenza articolare potendo essere:
o transitoria, a seguito di un trauma (il paziente riferisce “ho sentito l’anca che mi stava per
uscire, poi è rientrata”),
o oppure statica, cioè la testa del femore sta sempre parzialmente fuori dall’acetabolo.
• Lussazione: perdita completa della congruenza articolare; la testa del femore è completamente
fuori posto e non si riesce a riportare in posizione fisiologica, se non con una manovra di riduzione.
• Lussazione inveterata: lussazione verificatasi in un tempo passato rispetto al momento
dell’osservazione da parte del medico.

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5.2.2 Epidemiologia
La malattia è più frequente nei neonati ed ha una certa familiarità, colpisce soprattutto le femmine
caucasiche.
Un tempo si pensava ci fosse una distribuzione geografica anche sul territorio nazionale e la malattia era
ritenuta più frequente in Emilia-Romagna, solo successivamente si è scoperto che questa prevalenza era
legata al centro di riferimento dove la malattia veniva curata (a capo del quale era posto il dott. Rizzoli): lì la
malattia è stata per la prima volta descritta, diagnosticata, curata.

5.2.3 Eziopatogenesi
Le svariate teorie sulla patogenesi di questa malattia tendono a confluire inquadrando una situazione nota
come displasia “bipolare”: da una parte c’è una displasia del tetto acetabolare, dall’altra c’è la tendenza
della testa del femore ad uscire dall’acetabolo, indipendentemente dalla forma di questo, a causa di una
lassità capsulo-legamentosa tale per cui la stabilità dell’articolazione non è più mantenuta.

Stabilizzazione delle articolazioni


In tutte le patologie articolari, comprese quelle traumatiche, la stabilità di un’articolazione è
determinata da tanti fattori. Si distinguono stabilizzatori attivi, cioè i muscoli, che contraendosi
mantengono una corretta posizione e un corretto movimento dei capi articolari l’uno rispetto all’altro, e
soprattutto stabilizzatori passivi, rappresentati dalla geometria ossea (quindi la geometria delle superfici
e delle cartilagini articolari) e dalle strutture capsulo-legamentose. Il rapporto di curvatura tra i capi
articolari dell’anca è quasi uguale a 1 e ciò implica che la curvatura dell’acetabolo e quella della testa del
femore sono quasi uguali, con una congruenza della geometria articolare altissima. Se si considera
l’articolazione del ginocchio o della spalla, la congruenza articolare è minore: nell’articolazione del
ginocchio si trovano una superficie completamente convessa (condili del femore) e un’altra superficie
quasi piatta, ossia il piatto tibiale, per cui non c’è congruenza e c’è il rischio che venga persa la stabilità
geometrica intrinseca; nella spalla, la testa dell’omero, che è una sfera perfetta, si articola con una
superficie quasi completamente piatta che è la scapola ed anche in questo caso la congruenza articolare
è prossima allo 0. È necessario aggiungere qualcosa per fare in modo che queste articolazioni funzionino
correttamente.

Fondamentale struttura di stabilizzazione che si aggiunge è la cartilagine la cui superficie è diversa dalla
superficie ossea circostante. Nel caso della spalla, la cartilagine al di sopra della superficie ossea è più
spessa in periferia e più sottile al centro, al contrario la cartilagine in prossimità della testa dell’omero è
più spessa al centro e più sottile in periferia. La spalla, così come altre articolazioni, ad esempio il
ginocchio e l’anca, ha un menisco cioè una struttura fibrocartilaginea molle a sezione triangolare che
serve a migliorare il rapporto di congruenza tra le superfici articolari, facendo diventare i raggi di
curvatura dei capi articolari quasi uguali. Alla cartilagine ed ai menischi si aggiungono i legamenti,
componenti fibrose rigide che uniscono i capi articolari l’uno all’altro e ne migliorano la stabilità.

Queste strutture sono il vero cardine dell’articolazione tanto che se per un motivo congenito o
acquisito, cioè per una lassità congenita costituzionale o per un trauma, si rompono, l’articolazione
perde la stabilità intrinseca.

Lassità legamentose
Non tutte le lassità legamentose sono necessariamente considerate patologiche: ci sono soggetti che
possiedono una maggiore lassità legamentosa rispetto ad altri e fisiologicamente sono in grado, ad
esempio, di stendere il gomito superando l’angolo piatto o toccare con i palmi delle mani il pavimento
restando in posizione eretta senza piegare le ginocchia. Tali parametri contribuiscono a definire la scala
di Beighton, che misura la lassità legamentosa generalizzata con un punteggio totale che va da 0 a 9;

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oltre i 4 punti si è considerati iperlassi. Il punteggio totale è definito attribuendo 1 punto in presenza dei
seguenti segni:
o Opposizione del pollice contro la superficie volare dell’avambraccio (destra e sinistra)
o Iperestensione superiore a 90° della V metacarpofalangea (n.d.s. il professore dice
interfalangea distale; destra e sinistra)
o Iperestensione del gomito (destra e sinistra)
o Iperestensione delle ginocchia (destra e sinistra)
o Flessibilità del tronco

L’iperlassità non è una malattia, ma comporta una predisposizione allo sviluppo di patologie da
iperlassità legamentosa, su base soprattutto traumatica. Soggetti con displasia dell’anca, instabilità
atraumatica della spalla, lussazione spontanea della rotula, spesso hanno una lassità legamentosa
generalizzata.

Nel caso specifico della displasia congenita dell’anca, il soggetto costituzionalmente più lasso ha una
maggiore predisposizione allo sviluppo della patologia e in generale ad una displasia della componente
ossea poiché ha una malformazione congenita del distretto articolare, per cui, oltre ad avere
un’insufficienza della componente capsulo-legamentosa (stabilizzatore statico), ha anche un’alterazione
della geometria ossea e quindi un’instabilità legata a un’insufficiente congruenza articolare; solitamente si
ha un problema di “sfuggenza” del tetto acetabolare, cioè il fondo dell’acetabolo è meno curvo, tende a
essere più verticale.
La lassità legamentosa può essere dovuta a fattori ormonali, per alterazioni del pathway ormonale
estroprogestinico; alcune forme sono legate a collagenopatie congenite (in questo caso rientrano nel
campo della patologia vera e propria che oltre alla lassità legamentosa comporta anche una disfunzione
della valvola mitrale, ptosi renale ecc.); una lassità legamentosa distrettuale (solo dell’anca) può essere
determinata dalla posizione che il feto ha assunto durante la gestazione, che ha prodotto la
maturazione dei legamenti in allungamento; di solito si ha quando lo sviluppo avviene in posizione
podalica, quando c’è un oligoidramnios (quantità di liquido amniotico inferiore al normale) o quando c’è
una sproporzione feto-pelvica, ovvero le dimensioni del bambino sono troppo grandi rispetto a quelle
della cavità pelvica della madre: l’ecografia uterina permette di capire se la posizione del feto sia
consona o meno.
A ciò si vanno a sommare una serie di rilievi antropometrici (n.d.s. non ci è richiesto di saperlo). Sia le
strutture capsulo-legamentose che le componenti ossee contribuiscono alla perdita della stabilità
primaria (statica, passiva) dell’articolazione e quindi a favorire la sfuggenza della testa del femore
nell’articolazione.

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5.2.4 Evoluzione del quadro clinico
Nella maggior parte dei casi si identifica una displasia, cioè una prelussazione: la malattia viene, dunque,
fortunatamente riconosciuta in una condizione ancora subclinica. In questo caso, la testa femorale spinge il
“cercine” o “limbus” in direzione postero-superiore; uscendo lateralmente all’acetabolo, spinge questo
menisco e lo estroflette. La fuoriuscita tuttavia è ancora impedita dalle strutture di contenzione passive.
Progressivamente questa spinta continua della testa del femore verso l’esterno e l’alto provocando una
deformità della cavità acetabolare (si parla di cartilagini, il tessuto osseo è ancora in formazione, quindi può
essere estremamente deformabile), la appiattisce, il tetto dell’acetabolo diventa più verticale; diventando
progressivamente più verticale ricopre in misura minore la testa del femore e questa tende a uscire perché
non ha più contenimento.
Gradualmente l’estroflessione del cercine e l’appiattimento della cavità provocano una perdita di
“residenza” della testa del femore all’interno della cavità acetabolare. Esiste un legamento sottile che lega
il fondo dell’acetabolo con la testa del
femore, chiamato legamento rotondo (o
legamento della testa del femore): in
condizione fisiologica ha un ruolo quasi
virtuale, vestigiale, perché la testa del
femore lo tiene sempre schiacciato al fondo
dell’acetabolo; quando la testa del femore
esce progressivamente dalla sua cavità, il
legamento rimane beante, si ipertrofizza e
diventa talmente grande che impedisce la
riduzione. Sul fondo dell’acetabolo c’è
inoltre un piccolo batuffolo di tessuto adiposo, chiamato pulvinar, anch’esso in condizioni normali è
schiacciato dalla testa del femore, ma quando questa esce si ipertrofizza. L’ipertrofia di queste due
strutture può rendere la sublussazione irriducibile.
In situazioni di questo genere, anche il nucleo di accrescimento della testa del femore comincia a cambiare
forma, così come il tetto dell’acetabolo, perché si trova in una posizione anomala. Durante la crescita
intrauterina, nella fase di “modellamento” in cui l’osso primario è ancora modellabile, esso può cambiare
forma. La congruenza tra le due superfici, l’impegno che hanno una verso l’altra, ne determina la forma
finale; venendo separate completamente, non ricevono nessun signalling meccanico a crescere con una
determinata forma e cominciano ad assumerne una anomala: il fondo dell’acetabolo si appiattisce e la testa
del femore si ipertrofizza.
Il nucleo cefalico (nucleo di accrescimento della testa del femore)
tende a lateralizzarsi progressivamente e si porta sempre più verso
l’alto. In fase post natale, nel momento in cui il bambino assume la
posizione ortostatica, la testa del femore trova quindi alloggiamento
sull’ala iliaca, impegnandosi contro di essa per permettere al bambino
di camminare; in tale condizione di lussazione franca si forma così un
“neocotile”, cioè un secondo cotile dentro l’ala iliaca: quello originale
rimane disabitato, quello nuovo è più cefalico, cioè più alto, quindi
complessivamente la gamba interessata risulta più corta rispetto alla
controlaterale perché risalita (è un accorciamento relativo) e,
pertanto, il bambino presenta zoppia.

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La capsula articolare assume una deformazione “a clessidra”, cioè rimane larga in corrispondenza sia
dell’acetabolo che della testa del femore, mentre la parte di capsula che unisce il fondo dell’acetabolo con
la testa del femore si restringe a tal punto da impedire al femore di rientrare. Aprire la capsula per
riposizionare la testa del femore non è possibile poiché il nutrimento della testa stessa è fornito dalla
capsula e, sezionandola, si genererebbe necrosi, rendendo la condizione irreversibile (nds: l’argomento sarà
ripreso affrontando le fratture).
Non essendo impegnato nella cavità acetabolare, anche il collo del
femore si deforma progressivamente tendendo a diventare sempre più
“valgo1” ossia con un’angolatura che si apre ulteriormente,
avvicinandosi alla linea mediana del corpo; esso diventa quasi una
colonna che si appoggia contro l’ala iliaca permettendo al bambino di
camminare, come se si creasse una sorta di stampella.

Con la formazione del neocotile, la cavità acetabolare disabitata si chiude, si rimodella, e tutto l’emibacino
si rimpicciolisce, tendendo a svilupparsi meno rispetto al controlaterale.

5.2.5 Diagnosi
La diagnosi è solitamente precoce, esistono dei segni clinici di displasia o di prelussazione che possono
essere valutati anche con un banale esame clinico. Si ricorre per certezza ad esami strumentali in fase
neonatale, soprattutto sulle bambine, che permettono di riconoscere attraverso dei segni ecografici una
eventuale displasia e di correggerla con misure contenitive, quindi non chirurgiche. Tutto ciò va fatto prima
che il bambino inizi a camminare: in quest’ultimo caso la risoluzione sarebbe complessa.

Fra i test clinici si identificano manovre che permettono di valutare la presenza di sublussazione (sono
quindi positive quando l’anca è già sublussata, una situazione clinica più avanzata rispetto alla displasia
pura); nello specifico:

• Test di Ortolani: viene ridotta una sublussazione già esistente, si riporta la testa del femore in sede.
Si tirano le cosce del bambino e nello stesso tempo si abducono, spingendo la testa del femore
anteriormente. La testa del femore rientra in tal modo nell’acetabolo e si sente un click. Questa
manovra riconosce un’anca sublussata ancora riducibile.
• Test di Barlow: opposto al precedente, si adducono le anche e si spingono posteriormente, in
questo modo in un’anca instabile si produce una sublussazione, si sente anche in questo caso un
click. Questa manovra permette di riconoscere una prelussazione, cioè un’anca che potrebbe
diventare sublussata, ma che in condizioni di riposo non ha problemi.

1 Valgismo è il termine ortopedico che comprende tutte quelle deformità degli arti, in cui, a causa di anomalo rapporto tra due
segmenti scheletrici adiacenti, il più distale di questi due presenta una deviazione laterale, ossia tende ad allontanarsi in modo
atipico dal piano sagittale.
Varismo è al contrario il termine che comprende tutte quelle deformità degli arti, in cui, a causa di un anomalo rapporto tra due
segmenti scheletrici adiacenti, il più distale di questi due presenta una deviazione mediale, ossia tende ad avvicinarsi in modo
atipico al piano sagittale. [My Personal Trainer]

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Altri segni clinici sospetti caratteristici che richiamano l’attenzione dei genitori e del pediatra sono:

• Asimmetria delle pliche cutanee: a livello inguinale e della coscia (i bambini hanno pliche cutanee
accentuate, solitamente presenti bilateralmente in maniera simmetrica). Se presente, è
consigliabile un’ecografia (più spesso viene fatta alle femmine);
• Ipotrofia e lieve accorciamento dell’arto: nei primi mesi di vita, si può notare che l’arto interessato
cresce meno dell’altro, visibilmente la coscia è più corta e più piccola di diametro/volume
• Extrarotazione del femore: come in una frattura del collo del femore.
• Appiattimento della natica: causato dalla dislocazione del trocantere che quindi non è più in sede
ma è risalito lievemente.
• Limitazione dell’abduzione dell’arto prelussato: quando la mamma cambia il pannolino può notare
che l’anca coinvolta fatica ad aprirsi, non si riesce ad abdurre (per aprirla bisognerebbe ridurla con
la manovra di Ortolani). Questi sono elementi clinici che la mamma stessa può portare
all’attenzione del pediatra. L’abduzione ridotta è visibile fin dai primi giorni di vita.

Se il bambino in una condizione di sublussazione non diagnosticata comincia a camminare, si manifestano


segni clinici maggiori ma è già stato superato il punto di non ritorno: il grande trocantere è risalito perché la
sfuggenza del cotile e la perdita di domicilio completa fanno sì che la testa del femore trovi appoggio contro
l’ala iliaca. Il bambino tende a deambulare con l’arto extraruotato e non riesce ad abdurlo, la gamba è più
corta (accorciamento relativo), ipotrofica, e questa asimmetria determina una zoppia di Trendelenburg
cioè un’andatura anserina, come una papera, perché il bacino “cade” dal lato affetto. Specialmente nelle
forme bilaterali questa andatura è particolarmente evidente, mentre nella forma unilaterale si presenta più
come una zoppia da caduta. Nel bambino in posizione supina con le ginocchia flesse è facilmente visibile
l’asimmetria dell’altezza delle ginocchia.

Esami strumentali
Attualmente in prima linea si preferisce utilizzare l’ecografia che viene infatti svolta nei primi mesi di vita
come screening su tutta la popolazione in quella fascia d’età, in modo tale da abbattere completamente le
sequele tardive di questa malattia che portavano spesso a un’artrosi dell’anca e quindi ad una condizione
grave.

L’RX, che permette di identificare le asimmetrie del nucleo di accrescimento, sia in termini di posizione che
di grandezza, ossia ipoplasia e spostamento supero-laterale, si esegue dopo 6 mesi, sia nel follow-up del
bambino trattato nei primi mesi di vita, che nel caso di una diagnosi tardiva per la prima volta. È possibile
calcolare alcuni angoli raffrontandoli con valori standardizzati che indicano gli angoli di sfuggenza del tetto
acetabolare: tanto più il tetto è verticale, tanto maggiore è il rischio che l’anca sia displasica.
La manifestazione radiografica più conosciuta, oggi più difficile da riscontrare grazie allo screening
ecografico, è la triade di Putti2 costituita da:

1. sfuggenza/inclinazione del tetto acetabolare (indice acetabolare > 35°);


2. ipoplasia o ritardo nella comparsa del nucleo di accrescimento (nucleo cefalico femorale che
compare normalmente intorno al sesto mese di vita);
3. migrazione supero-laterale dell’anca.

Esistono dei parametri radiografici per valutare quanto sia progredita la malattia e quanto si sia ridotta
grazie ai trattamenti contenitivi.

2 Vittorio Putti è stato uno dei fondatori dell’istituto Rizzoli di Bologna

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Altro segno radiografico caratteristico è la discontinuità dell’arco di Shenton, formato dalla superficie
mediale del collo del femore in continuità con la superficie inferiore dell’osso pubico: nel caso di una
migrazione dell’anca in senso supero-laterale queste due porzioni di arco sono molto distanti fra loro. Si
tratta di modi diversi radiografici per valutare la posizione del nucleo di accrescimento della testa del
femore rispetto alla cavità acetabolare.

Alcuni metodi si avvalgono della misura quantitativa e della localizzazione dell’epifisi quando questa è già
ossificata, come nella triade di Putti2, mentre questo secondo metodo è invece utile quando il nucleo di
accrescimento è tutto cartilagineo e quindi non visibile alla RX, e si devono valutare segni indiretti di
sublussazione legati alla presenza di questa alterazione.

Nel quadro di una lussazione inveterata si vedono il cotile originario quasi chiuso, la testa del femore è
deformata, appiattita, il collo si è accorciato, deformato in valgo, ma soprattutto c’è un neocotile sull’ala
iliaca per permettere al bambino di camminare.

5.2.6 Trattamento
In prima istanza si attua un trattamento incruento; poiché
l’obiettivo è quello di prevenire una sublussazione, tutte le
forme di prelussazione vanno trattate con dei mezzi di
contenimento che permettono di mantenere l’anca in una
posizione di riduzione così da ripristinare i rapporti articolari
e fare in modo che le superfici continuino a crescere
affacciate l’una all’altra: l’acetabolo diventa più profondo e
la testa del femore, mantenendo la suo posizione, cresce con una forma sferica. Per assicurare ciò va
mantenuta l’immobilizzazione perché molte di queste forme sono instabili e soprattutto i neonati non sono
collaboranti3. Si passa da sistemi molto semplici come il cuscino divaricatore da mettere fra le gambe o il
“triplo pannolino” che mantiene le cosce abdotte ed extra-ruotate, fino a mezzi di contenimento più
complessi, come divaricatore gessato, che devono però essere mantenuti per due settimane. Si consiglia di
ripetere l’ecografia a distanza di 2 mesi per valutare il decorso del quadro. Il contenimento permette di
centrare la testa del femore nella cavità acetabolare, finché non si è sviluppata; quando il bambino inizierà
a camminare, il problema si risolverà spontaneamente.

3 Non lo avrei mai detto

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Nel caso in cui la sublussazione fosse presente già alla nascita, andrebbe ridotta con una trazione a cerotto
(non trans-scheletrica, la quale non è attuabile nel neonato) o con un apparecchio gessato, perché sono già
delle piccole fratture. La prima cosa da ottenere è la riduzione, ma non basta una manovra di Ortolani in
quanto sono già presenti ipertrofia del legamento rotondo e del pulvinar che occupano l’acetabolo.
Servono giorni e giorni di trazione, lenta ma costante, in modo che questi tessuti si possano deformare.
Siccome i tessuti connettivi sono dotati di proprietà viscoelastiche, dove la capacità di deformazione
dipende dal tempo e dalla velocità di applicazione del carico, tanto più è veloce l’applicazione del carico,
tanto più il tessuto si irrigidisce: tentare di ridurlo con una manovra unica risulta impossibile. Bisogna
ottenere la cosiddetta stress relaxation, facendo in modo che nel tempo, sotto l’influenza costante del
carico, il tessuto si deformi. Una volta ottenuta la riduzione si cerca di mantenere l’immobilizzazione, ad
esempio tramite un apparecchio gessato pelvi-podalico bilaterale, dall’addome fino ai piedi, tenendo le
cosce in abduzione ed extrarotazione. Al posto del gesso si possono usare anche dei piccoli tutori (Pavlik,
Von Rosen, Milgran).

In caso diagnosi post-deambulazione, saranno purtroppo già presenti delle deformità (collo del femore
valgo, testa del femore superiorizzata, tetto dell’acetabolo verticalizzato e sfuggente, con il labbro
acetabolare introflesso), non è dunque più possibile la riduzione per trazione e il trattamento è chirurgico
(cruento): non è possibile aprire la capsula, tagliare il collo del femore, raddrizzarlo, estrarre il pulvinar,
reinserire la testa del femore nell’acetabolo, come si potrebbe pensare. In questi casi le soluzioni sono
interventi extracapsulari in cui, senza toccare l’articolazione, si seziona l’acetabolo in modo tale da
rimetterlo in una posizione di contenimento.

Si distinguono diverte tipologie di intervento:

• acetaboloplastica o “tettoplastica”: si va ad abbassare il tetto dell’acetabolo al di fuori


dell’articolazione per eliminare la sfuggenza. Bisogna tagliare l’acetabolo, inserire un cuneo di osso
preso dalla cresta iliaca e sintetizzare il tutto con delle viti.
• osteotomie sovracetabolari, quando l’osso è già formato e plastico: poiché questo non si piega,
non essendo più elastico, è necessaria un’osteotomia cuneiforme completa, dove si va ad aprire
completamente la cartilagine più irradiata, abbassare tutto il bacino, mettere sempre un cuneo e
fissarlo con mezzi di sintesi.
• osteotomie di affondamento (di Chiari): siccome la testa del femore tende ad uscire, si
approfondisce il cotile, lo si taglia e lo si medializza, lo si affonda nel bacino, così la testa del
femore si ricentra: qui si formerà un nuovo tetto del cotile, la sopravvivenza della testa del femore
è garantita dalla capsula intatta e ci sarà un progressivo rimodellamento con la riformazione della
cartilagine.
• osteotomie di varizzazione e derotazione in sede estracapsulare del femore: dal momento che il
collo del femore si è valgizzato e portato supero-posteriormente, anziché agire sul bacino,
agiscono sul femore. La testa del femore separata dalla diafisi viene ricentrata; una volta avvenuto
il rimodellamento dell’articolazione, si riporta in asse il moncone distale e lo si blocca con un
sistema di sintesi costituito da una placca con delle viti.

A volte bisogna intervenire sia sul bacino, sia sul femore risultando molto demolitivi.

Oggi non capita in occidente quasi più di operare di protesi d’anca un paziente di 30 anni, grazie alla
diagnosi ecografica precoce.

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5.2.7 Esiti di malattia e interventi tardivi
Il professore mostra alcuni esiti della patologia, come il neocotile, la coxa valga con insufficienza
dell’acetabolo (quadro iniziale) e quadri tardivi (sublussazione dell’anca).
In realtà sono quadri sfumati, dove il dato clinico della sublussazione,
prima della diagnosi ecografica, non era rappresentato da una zoppia
come nel caso della lussazione franca. Il bambino poteva avere qualche
difetto di deambulazione che, però, passando inosservato, evolveva in
artrosi d’anca su base displasica molto precoce. L’evoluzione tipica di
un’anca displasica è la coxa plana, dove la testa del femore è molto
allargata, si forma un neocotile, il cotile originale è vuoto e il collo è corto
e valgo.
Il trattamento dell’esito è un’artroprotesi totale, quindi una sostituzione sia del cotile che della
componente femorale. È un intervento difficile, perché si ha a che fare con un femore ipoplasico, ci sono
dei canali diafisari stretti, nei quali non tutti i modelli protesici si adattano; esistono dei modelli protesici ad
hoc che si possono utilizzare con più facilità nelle anche displasiche ma sono sempre interventi piuttosto
impegnativi. In questi casi è inoltre necessario ricostruire parte del tetto dell’acetabolo in fase di
protesizzazione, altrimenti si rischia che non ci sia osso sufficiente per la tenuta del cotile, che non può
essere scavato all’infinito per medializzarlo: è necessario riportarlo alla sua posizione originale dove però
non c’è tetto, per questo motivo bisogna fare un innesto osseo sul tetto e su questo innesto montare la
protesi.

INTEGRAZIONI [tratte da Wikipedia]


Per il giudizio quantitativo (misura dell'anca) devono essere considerate tre linee e gli angoli che formano tra loro:

1. la prima linea va dal punto di inserzione della capsula fino al margine cotiloideo
("linea di base");
2. la seconda linea è la tangente al margine ileale inferiore e al margine cotiloideo
("linea acetabolare");
3. la terza linea è quella tra il margine cotiloideo ed il centro degli echi del labbro
acetabolare ("linea dell'asse cartilagineo").

▪ L'angolo osseo alfa è quello compreso tra linea di base e linea acetabolare: i suoi
valori rispecchiano la situazione dell'acetabolo osseo, cioè il grado di maturazione
scheletrica dell'anca.
▪ L'angolo cartilagineo beta è compreso tra la linea di base e la linea dell'asse
cartilagineo e dà un'idea quantitativa della situazione dell'acetabolo cartilagineo,
che, nel processo displasico, presenta delle variazioni di spessore, per compensare
l'eventuale difetto di maturazione scheletrica dell'anca.

In base all'angolo alfa si possono definire quattro gruppi principali:


o Anche normali (stadio 1A, 1B), con angolo alfa maggiore di 60°;
o Anche displasiche (stadio 2A+,2A-,2B), con angolo alfa tra 50° e 60°;
o Anche critiche e "decentering hips" (stadio 2C, D), con angolo alfa tra 43° e 49°;
o Anche decentrate (stadio 3A, 3B), con angolo alfa minore di 43°.
o Molto rare sono le anche di stadio 4 ("femore calvo"), in cui non è possibile effettuare una misurazione,
poiché i punti di repere non sono più rilevabili per la marcata lussazione e deformazione del margine
cotiloideo e del labbro acetabolare.

In base all'angolo beta, le anche si possono ancora suddividere in "centrate" e "decentrate". Il valore critico è quello
di 77° (passaggio tra anca critica 2C e anca che sta per decentrare D).

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5.3 Torcicollo

Il torcicollo può essere:


• congenito: patologia già presente alla nascita, distinta a sua volta distinto in:
o torcicollo muscolare;
o torcicollo osseo;
• acquisito: secondario a patologie oculari, osteo-articolari, nervose od a condizioni varie.

5.3.1 Torcicollo muscolare


Il torcicollo muscolare è causato da un traumatismo del muscolo sternocleidomastoideo avvenuto durante
il parto. La riparazione della lesione viene effettuata con tessuto fibroso senza capacità contrattile.
Il capo si presenta inclinato lateralmente dal lato della lesione e ruotato controlateralmente. Alla
palpazione si identifica, a livello del muscolo, una massa che progressivamente scompare in quanto viene
sostituita dalla banda fibrosa. Il tutto potrà essere confermato con l’ecografia.

Il primo trattamento che si svolge è di tipo ginnico-fisioterapico (conservativo) tramite esercizi di stretching
che, generalmente, hanno un buon successo. Quando il bambino diventa più grande, invece, si
utilizzeranno collari/tutori. Nei casi invece più severi (in cui il Range of Motion è inferiore ai 30 gradi) è
necessario svolgere un intervento di tenotomia a circa 3-4 anni di età, con una alta probabilità di successo.
Questo intervento chirurgico prevede la sezione dello sternocleidomastoideo a livello del capo claveare.
Se non trattato, il torcicollo porta a deformazione del volto associata a compromissione di alcune funzioni,
come la masticazione.

5.3.2 Torcicollo osseo


Si definisce “osseo” in quanto è causato dalla presenza di emispondili, malformazioni congenite tali per cui
le vertebre si conformano in modo corretto solo per metà: metà vertebra ha altezza normale, l’altra metà
avrà un’altezza del 30-50% rispetto al normale. Si tratta di una patologia rara e non facilmente riconoscibile
(è difficile discriminare se il bambino stia così semplicemente per postura o se alla base vi sia appunto un
torcicollo). Esso può essere in genere associato al metatarso varo, displasia dell’anca ed a plagiocefalia
(molto raro)
Il trattamento è chirurgico: si eseguono artrodesi con osteotomie in cui vengono fatte delle correzioni a
livello dei peduncoli della colonna vertebrale. Non sono molti i centri che eseguono questi interventi e la
bassissima frequenza di questa condizione si rileva da una media di circa 30 interventi all’anno in tutta
Italia.

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5.4 Paralisi ostetriche

Le paralisi ostetriche sono delle lesioni nervose che colpiscono il plesso brachiale e che si manifestano in
conseguenza ad un trauma subito durante il parto. Durante quest’ultimo, infatti, è necessario disimpegnare
le spalle del bambino con una manovra di inclinazione e rotazione forzate della testa. Tali movimenti
possono determinare uno stiramento del plesso brachiale e, quindi, una lesione.
L’incidenza di questa patologia è di circa 1/1000 nati vivi e riguarda principalmente il sesso maschile. Si
evidenziano diversi fattori predisponenti riconducibili sia a carico del feto (macrosomia) che della madre
(travaglio prolungato, vizi strutturali del cingolo pelvico) che dell’ostetrico (estrazione forzata del feto).
Il lato principalmente coinvolto è il destro, sulla base della posizione tipica del feto nel canale del parto.

Il plesso brachiale è l’insieme di nervi che originano a livello di C5,


fino a T1, che si uniscono a formare tronchi primari, poi secondari,
fino a formare i principali nervi che innervano l’arto superiore
(n.ascellare, n.muscolocutaneo, n. radiale, n.ulnare, n. mediano).
Vedi file sulle patologie di mano e polso.

A seconda della gravità, progressivamente crescente, vengono distinti tre tipi di lesioni delle formazioni
nervose del plesso brachiale (lesioni che però, in acuto, non possono essere riconosciute):
• neuroaprassia: lesione in cui il danno anatomico è specificatamente a carico del rivestimento
mielinico delle cellule di Schwann, mentre viene preservata la continuità dell'assone e delle altre
guaine del nervo. Sono lesioni reversibili;
• assonotmesi: lesione parziale degli assoni che sono all’interno del perinervio. In questo caso è
possibile il recupero funzionale del nervo;
• Neurotmesi: lesione completa degli assoni che sono all’interno del perinervio che ne impedisce il
recupero funzionale.

Dal punto di vista anatomo-patologico si evidenziano:


• retrazioni cicatriziali del plesso;
• retrazione dei muscoli colpiti, con sostituzione fibrosa;
• retrazione ed ispessimento della capsula articolare;
• ipoplasia e deformità degli elementi ossei ed articolari.

A seconda della localizzazione delle lesioni nervose, si distinguono vari tipi di paralisi ostetrica dell’arto
superiore:

• Paralisi di Erb-Duchenne: rappresenta la lesione più frequente


(71%). È causata dalla paralisi dei muscoli innervati da C5-C6: si ha
un interessamento totale dei nervi circonflesso, muscolo cutaneo,
con conseguente paralisi del deltoide e del sovra spinoso. Saranno
presenti, dunque:
o abolizione dell’abduzione e dell’elevazione del braccio.
o abolizione dell’extra-rotazione del braccio per
interessamento dei muscoli sottospinoso e piccolo rotondo;

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o abolizione della flessione e della supinazione dell’avambraccio per interessamento del
bicipite brachiale.
Il bambino viene, infatti, descritto con “la mano del cameriere che prende la mancia”, in quanto si
ha una pronazione dell’avambraccio.
La diagnosi viene eseguita in epoca post-natale.

• Paralisi di Dejerine-Klumpke: si ha la paralisi dei flesso-estensori di mano e polso e dei muscoli


intrinseci della mano. La presentazione caratteristica è data dalla “claw hand”. Le radici nervose
interessate originano da C7.
La prognosi può essere peggiore nel caso in cui si abbia un coinvolgimento del sistema simpatico
con la sindrome di Bernard-Horner.

• Il 25% delle paralisi è rappresentato dalla paralisi radicolare totale, in cui tutte le radici del plesso
sono lese e quindi l’arto non è funzionale.

5.4.1 Prognosi e trattamento


La prognosi dipende dalla gravità della lesione ed il tempo di recupero può variare da 1 a 18 mesi.

Prima del 1970, il 20% dei pazienti poteva avere una paralisi ostetrica ma, in questi anni, si sta riducendo
grazie alla diagnostica prenatale ed alle tecniche ostetrico-ginecologiche.

Il trattamento prevede una fase iniziale fisioterapica che mantiene in movimento le articolazioni seguita,
successivamente, dall’utilizzo di tutori che determinano una posizione funzionale (Es. l’iperestensione del
polso in caso di paralisi di Dejerine-Klumpke).

La terapia chirurgica è ancora oggi dibattuta perché i risultati non sono molto favorevoli. Per tale motivo si
preferisce eseguire un intervento palliativo con artrodesi oppure si utilizzano dei transfert muscolari
(prelievo di muscoli funzionali in un arto e spostamento nella sede della lesione).

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Ex Lezione 3 del 25/03/19
Docente: Prof. Giuseppe Milano
Argomenti: fratture (classificazione, processo riparativo, complicanze, trattamento); lussazioni;

6. EVENTI TRAUMATICI: FRATTURE e LUSSAZIONI


Con il termine “frattura” si indica l’interruzione della continuità di un osso, che si verifica quando una solle-
citazione meccanica supera i limiti di deformabilità di un segmento scheletrico. Due variabili entrano in gioco
nella determinazione di una frattura: l’entità della forza lesiva (fattore estrinseco) e la resistenza dell’osso
(fattore intrinseco). Un indebolimento del tessuto osseo di qualsiasi natura rende lo scheletro più suscettibile
agli effetti di un trauma.
Una frattura avviene quando un carico supera la capacità di resistenza di un distretto, nello specifico, l’osso. Il carico
che determina la frattura è di solito un evento traumatico, da cui può insorgere una frattura secondo due scenari: un
trauma può superare la capacità di resistenza al carico di un osso che è sano (caso più frequente), oppure può avvenire
un trauma minore a carico di un osso ha perso la capacità di resistenza perché più fragile, alterato da patologie.

I fattori che determinano la frattura sono essenzialmente il carico applicato, cioè l’entità, la dimensione e la
direzione del vettore forza, e le proprietà meccaniche dell’osso, che variano in base alle condizioni del pa-
ziente, ma anche in base alle caratteristiche intrinseche dell’osso. Le condizioni in cui un osso non è in grado
di sopportare un carico normale possono essere condizioni sistemiche che determinano una diminuzione
della densità ossea (osteoporosi) oppure uno stato patologico (per esempio di tipo neoplastico). Nella neo-
plasia si può avere un punto di minor resistenza per la presenza di metastasi che alterano le proprietà mec-
caniche dell’osso: possono essere osteolitiche, quando la densità ossea è ridotta, ma anche osteoaddensanti,
quando la densità ossea è aumentata.
A seconda della causa, dal momento che le proprietà meccaniche dell’osso dipendono dalla sua geometria e
dalla sua composizione, viene a formarsi all’interno dell’osso un sistema composto da materiali diversi e l’in-
terfaccia tra un materiale e l’altro rappresenta un punto di minore resistenza; è proprio nel punto di passag-
gio tra l’osso normale e l’osso patologico che avviene la frattura (L’esatto punto di interruzione del segmento
scheletrico viene definito “rima di frattura”). Ciò si verifica anche nelle lesioni tendinee e nelle lesioni musco-
lari.

6.1 Classificazione delle fratture


6.1.1 Classificazione secondo il meccanismo di insorgenza
Le forze agenti sull’osso possono essere dirette, quando l’osso si frantuma nel punto di applicazione della
forza lesiva (tra cui si distinguono le fratture da urto, da schiacciamento, le fratture penetranti o da arma da
fuoco) o indirette, quando la forza lesiva agisce a distanza dal focolaio di frattura. Tra le fratture indirette si
distinguono fratture per flessione, trazione, torsione, compressione e per azione combinata.

La frattura da trazione ha alla base un meccanismo piuttosto insolito: una forza violenta va ad agire sul
segmento osseo a livello delle inserzioni dei tendini (per esempio sulla tuberosità calcaneare dove si inse-
risce il tendine achilleo oppure comprende le fratture della base del 5° metatarso del piede per azione del
tendine peroneo breve). In quel punto la forza determinata dalla contrazione violenta del tendine deter-
mina la formazione di una frattura trasversa con rottura netta degli osteoni, più o meno tutti nello stesso
punto. E’ una frattura a rima orizzontale.

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Le fratture da compressione si verificano tipicamente a seguito di una caduta o di una precipitazione
dall’alto (quando il paziente cade in piedi, come nell’immagine sotto); la frattura in questo caso è obliqua.
Il meccanismo fisiopatologico è diverso rispetto a quello osservato nelle fratture da trazione e la forza
necessaria per determinare la frattura è maggiore, perché la struttura ossea di un osso corticale maturo 1
è progettata per sostenere il peso corporeo (e, quindi, una forza “verticale”).
La frattura in compressione, poiché il carico massimo che un osso può sopportare in compressione è de-
cisamente maggiore rispetto al carico massimo sopportabile in trazione, è causata da una forza notevole,
ben maggiore di quella sopportata con l’assunzione della posizione eretta, come appunto una caduta
dall’alto.

Nelle fratture da compressione a livello del rachide, il corpo di una vertebra collassa, solitamente a causa
di un’eccessiva pressione. Queste fratture si verificano solitamente nella parte centrale o inferiore della
schiena. Esse sono più frequenti nelle persone anziane, generalmente in quelle affette da osteoporosi.
Talvolta queste fratture si verificano nelle persone affette da un tumore che si è diffuso alla colonna ver-
tebrale, indebolendola (fratture patologiche). Quando l’osso è indebolito, le fratture da compressione pos-
sono verificarsi con l’applicazione di una forza minima, come accade quando si solleva un oggetto, ci si
piega in avanti, ci si alza dal letto o si inciampa. L’interessato può non ricordare l’evento che ha causato
la frattura.
In rari casi, le fratture da compressione o altri tipi di fratture vertebrali sono causate da una forza lesiva
intensa, come quella che si produce in un incidente stradale, una caduta da una certa altezza o una ferita
d’arma da fuoco. In tali casi, può esservi anche una lesione del midollo spinale e la colonna vertebrale può
essere fratturata in più punti. Se la causa è stata una caduta da un’altezza elevata e la persona è atterrata
su uno o entrambi i talloni, possono essere presenti anche fratture del calcagno. [da manuale MSD]

Molto spesso questi due meccanismi si associano: è difficile avere una frattura completamente in trazione
e una frattura completamente in compressione. La maggior parte delle fratture, infatti, sono una combi-
nazione dei due tipi, perché la causa è quasi sempre un trauma diretto, che induce una forza in flessione
dell’osso.

1 L’osso corticale maturo si compone di una serie di osteoni secondari che sono “in compressione” per la forza di gravità che de-
vono contrastare ogni giorno; quindi la forza di gravità si oppone alla forza derivata dall’incolonnamento degli osteoni.

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Ad esempio, prendendo in considerazione un osso lungo con struttura tubulare, è più facile che questo si
rompa non tanto tirandolo o comprimendolo, ma cercando piuttosto di piegarlo (frattura per flessione:
il trauma provoca una variazione della normale curvatura dell’osso fino alla rottura).

Discorso diverso deve essere applicato per ossa dalla struttura spongiosa, come può essere una vertebra,
la quale si romperà più facilmente in compressione.

Il meccanismo fisico che determina, invece, la rottura di un osso lungo sottoposto allo scarico di tensione
in tre punti è più articolato: sulla superficie dove il carico viene applicato si ha una deformità in concavità,
il che significa che questa superficie si allunga e subisce un carico in trazione, mentre la superficie opposta
si comprime e subisce un carico in compressione, con il risultato di avere due rime di frattura che si pro-
pagano una da una parte e una da un’altra. Le due rime di frattura non sono coassiali, in quanto la rima
risultante dal carico in compressione sarà obliqua e la rima risultante dal carico in trazione sarà trasversa;
di conseguenza, si avranno due rime di frattura e un terzo frammento, detto volgarmente “a farfalla2”
per la forma triangolare caratteristica. Il meccanismo più comune è quello del trauma diretto, il quale
applica una forza pressoria sull’osso causando una frattura pluriframmentaria, dovuta alla combinazione
di vettori di forza che insistono nello stesso punto.
Il problema di queste fratture è che spesso trattandosi di un trauma diretto, oltre alla frattura si verifica
una lesione dei tessuti molli.

Il meccanismo di torsione invece determina una frattura spiroide. Una linea di frattura obliqua o spiroide
è il risultato di traumi indiretti con componente torsionale predominante. La rima di frattura avvolge a
spirale il segmento scheletrico lungo il decorso longitudinale dell’osso.
Questo tipo di frattura si ha quando un osso viene sottoposto ad una forza di tipo rotatorio: un segmento
di osso ruota rispetto al suo piano trasverso, mentre l’altro resta fermo (ad esempio nei traumi da sci,
dove il piede è ancorato allo sci e resta fermo, mentre la gamba ruota). Il problema di questa frattura è
che l’estremità è una lama tagliente e molte volte la punta diventa a sua volta oggetto di contusione per
i tessuti molli circostanti: la forza che si scarica sul segmento osseo, essendo troia fino alla fine, non si
esaurisce soltanto con la frattura, ma provoca anche la scomposizione di frammenti ossei taglienti (che
possono provocare un danno ai muscoli, vasi o nervi adiacenti). Perciò la lesione dei tessuti molli può
avvenire secondo due meccanismi:
- ab estrinseco: quando dall’esterno il trauma causa la lesione dei tessuti molli;
- ab intrinseco: le schegge della frattura si comportano da taglienti lesionando i tessuti molli circo-
stanti;

2 Le fratture comminute si caratterizzano per il fatto che sono presenti più di due frammenti ossei e a volte un grande numero di
frammenti. Spesso c’è un frammento intermedio ad "ala di farfalla": si tratta della forma più semplice di frattura comminuta.

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Tuttavia, i traumi sono sempre molto più complessi di questi modelli meccanici, a volte ci si trova di fronte a
fratture semplici, monofocali, cioè con una sola rima di frattura, altre volte ci si trova di fronte a fratture
pluriframmentarie o fratture da scoppio, cosiddette “comminute”, soprattutto se si tratta di traumi ad alta
velocità o alta energia (come traumi stradali da motoveicoli). Queste ultime sono fratture con frammenti
difficilmente ricomponibili e conseguentemente si verificano lesioni dei tessuti molli.

6.1.2 Classificazione in base alla configurazione della rima di frattura


In rapporto alla configurazione della rima di frattura le fratture sono denominate:
- trasversali;
- oblique;
- spiroidi;
- pluriframmentarie;
- comminute.

6.1.3 Classificazione in base al numero di focolai


In base al numero di focolai osservabili in un singolo osso lungo si distinguono fratture:
- unifocali, di gran lunga le più frequenti;
- bifocali, osservate soprattutto nel femore e nella tibia;
- trifocali o plurifocali, di riscontro eccezionale.

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6.1.4 Classificazione sulla base della deformità (anatomia patologica)
Sulla base dell’anatomia patologica si può parlare di frattura ingranata (composta) o scomposta.

➢ Si definisce ingranata o composta una frattura i cui due capi, per azione di una contrazione in com-
pressione, invece di scomporsi, si incastrano l’uno nell’altro; ciò accade quando i due monconi non
sono tubulari, tipici di una lesione diafisaria, ma si trovano in regione meta-epifisaria e il frammento
più grande è in grado di ospitare il più sottile. Questa conformazione di frattura è estremamente
stabile dal punto di vista funzionale, in quanto l’articolazione funziona bene, ma presenta una defor-
mità causata dal possibile accorciamento dell’osso.
In questi casi il trattamento può essere di tipo non chirurgico.
Fratture di questo tipo sono per esempio la frattura del collo dell’omero, collo del femore e del polso,
soprattutto dell’epifisi distale del radio.

➢ Le fratture scomposte si classificano sulla base della posizione che prende un moncone rispetto all’al-
tro e si distinguono in: angolate, ruotate, traslate e sovrapposte.

L’entità del danno scheletrico consente di differenziare:

- fratture incomplete, denominate anche infrazioni, in cui l’interruzione della continuità dell’osso è
parziale. Un tipo particolare è rappresentato dalle fratture “a legno verde” dei bambini, dove il ro-
busto periostio non si interrompe e viene così preservato il manicotto connettivale che riveste il ci-
lindro osseo diafisario;

- fratture complete, a loro volta suddivise in:


o composte, quando i frammenti di frattura conservano rapporti tali da non modificare la nor-
male configurazione dell’osso;
o scomposte, quando la forma del segmento scheletrico appare alterata dallo spostamento o
dalla compenetrazione dei frammenti. Per le diafisi delle ossa lunghe si descrivono classica-
mente quattro tipi di scomposizione, spesso combinati tra loro:
▪ ad latus, per spostamento trasversale dei frammenti;
▪ ad longitudem, con accorciamento dell’osso per sovrapposizione dei frammenti;
▪ ad axim, per angolazione dei frammenti;
▪ ad peripheriam, per rotazione del frammento sul suo asse longitudinale.

La scomposizione dipende dallo spostamento o meno dei monconi ossei coinvolti nella frattura. Anche in
questo caso, le variabili che intervengono sono diverse: da una parte c’è la forza determinante la frattura,
che continua a propagarsi finché si assiste alla sua completa dissipazione, dall’altra le inserzioni muscolo-
tendinee che provocano con la contrazione lo spostamento dei frammenti. Normalmente, gruppi di muscoli
con azione antagonista si inseriscono in punti dell’osso differenti e mai nello stesso punto, così che, in caso
di contrazione di agonisti e antagonisti, risulti un movimento neutro, ossia vi sia assenza di movimento. Nel
momento in cui ci si trova di fronte ad una frattura che separa le inserzioni dei gruppi muscolari agonisti e
antagonisti, ed essi si contraggono, l’effetto risultante sarà l’allontanamento dei due capi fratturati con de-
formazione.

6.1.5 Classificazione topografica


Questa classificazione si basa sulla localizzazione della frattura sull’osso. L’osso lungo si distingue in diafisi,
metafisi ed epifisi, perciò possiamo distinguere una frattura francamente epifisaria, francamente diafisaria o
francamente metafisaria; vi sono anche casi in cui la rima della frattura si propaga tra una regione e l’altra e

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in questo caso si definiscono come fratture meta-epifisarie o meta-diafisarie. Infine, esiste la frattura artico-
lare, la quale, se induce scomposizione, può provocare un’artrosi post-traumatica (perché la congruenza tra
le superfici articolari non è più conservata a causa della variazione geometrica dell’articolazione secondaria
alla frattura). Perciò, nel caso della frattura articolare, la riduzione della frattura deve essere anatomica e la
deformità non può essere superiore ai 2 mm, altrimenti l’articolazione andrà inevitabilmente incontro ad
artrosi post-traumatica.

6.2 La riparazione delle fratture


6.2.1 Fase riparativa precoce
Si tratta della fase infiammatoria, in cui si verifica il sanguinamento, in quanto l’osso è il tessuto più vascola-
rizzato in assoluto3.
Il grosso sanguinamento che si verifica risulta particolarmente utile ad innescare il processo di guarigione.
Ecco perché, nel caso di drenaggio chirurgico o traumatico dell’ematoma circostante la frattura, che può for-
marsi per discontinuità dei tessuti molli che permette al sangue di fuoriuscire, la probabilità di guarigione
della frattura si riduce molto. Gran parte delle potenzialità di guarigione dell’osso dipendono dalla compo-
nente cellulare multipotente in grado di differenziarsi in senso osteoblastico e favorire il meccanismo di ri-
modellamento osseo, oltre a richiamare altre cellule necessarie per la guarigione della frattura.
L’area intorno alla frattura si infiamma, è arrossata e gonfia ed il paziente lamenta dolore alla palpazione.
La fase infiammatoria raggiunge l’apice in un paio di giorni, ma richiede settimane per esaurirsi. Questo pro-
cesso causa la maggior parte del dolore che si avverte subito dopo una frattura. (Manuale MDS)

6.2.2 Fase riparativa intermedia (7-30 gg)


A seguito della fase infiammatoria si forma essudato con attivazione macrofagica e di cellule multipotenti: in
questa situazione si formano i primi gettoni vascolari e si assiste alla maturazione osteoblastica deputata alla
deposizione della matrice extracellulare, detta osteoide, che si differenzia dalle altre matrici extracellulari
per il contenuto calcifico dato dalla deposizione di idrossiapatite, che determina la mineralizzazione dell’osso.
Durante questa fase si comincia a formare, nella sede dell’ematoma, l’osso reticolare, osso primario non
organizzato in osteoni, con struttura non lamellare ma amorfa, in cui le fibre collagene sono disposte in ma-
niera casuale. Si tratta di un osso fragile, con capacità meccaniche ridotte a causa della ridotta mineralizza-
zione e dell’architettura primitiva.
Il periostio, strato fibroso che avvolge tutta la zona corticale delle ossa, contiene uno strato cambiale con
cellule ad alta capacità rigenerativa (le cellule multipotenti prima citate) in grado di determinare a loro volta
la formazione dell’osteoide. Il periostio e l’endostio sono caratterizzati da uno strato germinativo a contatto
con l’osso corticale che sovrintende, in condizioni normali, alla crescita dell’osso o al fisiologico rimodella-
mento dello stesso.
In questa fase, il callo osseo non è ancora ben mineralizzato e quindi non è visibile alle radiografie, se non
per alcuni spot calcifici, e supplisce alle sue caratteristiche intrinseche di fragilità aumentando l’area di se-
zione trasversa: in altre parole, l’osso che non è in grado di sopportare un carico in compressione a causa
della sua fragilità mette in atto un meccanismo che induce un esubero di dimensioni, aumentando la resi-
stenza meccanica rispetto a quella del materiale. Aumentando il volume, il carico si distribuisce su un’area
più ampia (esempio: se io ho un bastoncino e lo piego si rompe, ma se io ho la stessa massa sotto forma di

3 Fratture di ossa lunghe o multifocali possono essere facilmente causa di shock ipovolemico.

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sfera e provo a piegarla, essa non si rompe). Ecco perché si è in grado di camminare su una frattura dopo un
mese: sebbene il callo non sia ancora mineralizzato, le sue proprietà meccaniche sono sufficienti a sopportare
il peso grazie all’aumento dell’area. Più passa il tempo, più il fenomeno di mineralizzazione determinerà un
aumento delle capacità meccaniche.
Per callo osseo si intende dunque il tessuto osseo formato dall’organismo per riparare la frattura di un osso.
Esso costituisce un ponte che unisce i due monconi dell’osso fratturato, ed è formato da strutture che si mo-
dificano progressivamente diventando sempre più resistenti, fino a formare il tessuto osseo maturo. Questo,
anche se ormai capace di resistere alle sollecitazioni meccaniche come l’osso vicino, viene però continuamente
rimodellato fino a che non sia ripristinata del tutto l’architettura dell’osso. Inoltre, assume aspetti diversi se
la frattura interessa l’osso spongioso epifisario e metafisario oppure l’osso compatto corticale della diafisi, in
quanto sono diverse le condizioni locali di vascolarizzazione e la disponibilità di cellule differenziate per un’at-
tività di sintesi di tipo osteoblastico.

6.2.3 Fase riparativa tardiva (30-60 gg)


Si continua in questa fase la mineralizzazione del callo osseo che, essendo mineralizzato, comincia a essere
visibile alle radiografie; inoltre si osserva un ulteriore aumento della sezione trasversa.
Ciò significa che, a due mesi dell’evento scatenante, la sede della frattura è guarita e l’osso è persino più
resistente di quanto non fosse prima della frattura: in quel punto non si romperà di nuovo, se il processo di
riparazione è avvenuto fisiologicamente.
Quello che si forma è un osso lamellare (secondario). Il meccanismo di rimodellamento prevede, infatti, la
sostituzione dell’osso reticolare con tessuto osseo osteonale, con osteoni primari che progressivamente ven-
gono sostituiti dagli osteoni secondari. Se il processo di guarigione viene intaccato da un fattore che inibisce
la proliferazione cellulare e inibisce la formazione di matrice, le cellule multipotenti, invece di differenziarsi
verso la linea osteoblastica, virano verso una linea condroblastica. Il fattore scatenante la differenziazione in
condroblasti è una bassa tensione d’ossigeno: se la frattura non è sufficientemente vascolarizzata, le cellule
multipotenti captano una diminuita tensione di ossigeno e si differenziano nella linea condroblastica, classe
cellulare che sopravvive in assenza di ossigeno, essendo la cartilagine un tessuto non vascolarizzato.

Un altro tessuto osservato nelle fratture sperimentali, ma che probabilmente si forma anche nell’uomo, è la
cartilagine, prodotta dalle stesse cellule osteogeniche del periostio, in genere nella parte più periferica del
callo osseo periostale. Si pensa che le condizioni locali possano determinare il tipo di produzione osteobla-
stica o condroblastica delle cellule: tra queste sono state indicate la bassa tensione di ossigeno oppure la
presenza di movimento a livello della frattura.

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6.2.4 Fase di rimodellamento
La fase finale del processo di guarigione in realtà non si esaurisce mai, perché il rimodellamento osseo pro-
segue per tutta la vita del paziente (per esempio, l’osso spongioso viene cambiato completamente nell’arco
di 4-5 anni, l’osso corticale nell’arco di 20 anni). L’obiettivo in sede di frattura è quella di ripristinare una
morfologia simile a quella di un osso normale, anche se non sempre accade a causa di fattori come l’età:
tanto più anziano è il paziente, tanto meno è probabile che il processo di rimodellamento possa ripristinare
la morfologia ossea di partenza. Ciò vuol dire che in un soggetto già adulto una frattura guarisce, ma con una
deformità che resterà evidente, tanto più in caso di frattura scomposta, mentre in un bambino il fenomeno
di rimodellamento è tale che, quando poi sarà adulto non si noterà più la sede della frattura.

Il rimodellamento ha lo scopo di rendere progressiva-


mente più sottile il focolaio di frattura, il callo osseo, tra-
mite un progressivo riassorbimento alla periferia e defor-
mazione della parte interna, in modo tale da ripristinare
una morfologia uguale a quella dell’osso sano circostante.
Se, però, i monconi di frattura fossero molto scomposti,
la deformità sarebbe maggiore e il fenomeno di rimodel-
lamento nel tempo dovrà essere in grado di ripristinare
una morfologia quanto più simile a quella normale, con
progressivo riassorbimento lungo le linee di forza (gravi-
tarie) a cui l’osso sarà sottoposto.

Il meccanismo di deposizione e riassorbimento dell’osso viene chiamato ARF: Activation, Reabsorption, For-
mation, secondo un ciclo costante che continua durante tutta la vita, che non può essere modificato da nes-
sun evento meccanico. Ciò che cambia è l’intensità della deposizione di matrice, a livello sistemico o locale.
Laddove è necessario aumentare la matrice, l’azione di formazione sarà più intensa, mentre laddove è ne-
cessario ridurre la dimensione dell’osso si avrà una formazione di matrice meno intensa e il bilancio si spo-
sterà inevitabilmente verso il riassorbimento osseo (non perché è il processo di riassorbimento che risulta più
intenso, ma perché l’attività di formazione è ridotta). Su questo ciclo prevale anche l’effetto del carico: un
osso sottoposto a minor gravità tende ad avere osteoporosi sistemica, non perché aumenta il riassorbimento
osseo, ma perché vi è una ridotta attività osteoblastica conseguente alla minor forza gravitaria che insiste
sull’arto. L’allettamento prolungato agisce con lo stesso meccanismo, ecco perché le fratture vanno mobiliz-
zate il prima possibile, in quanto si stimola l’attività osteoblastica e si riduce anche il rischio di complicanze,
sia locali che sistemiche.

6.3 Complicanze delle fratture


Le complicanze delle fratture si distinguono in
- tardive e precoci, legate al trauma e che vanno gestite in urgenza-emergenza;
- locali e sistemiche, per le quali è importante mettere in atto delle strategie preventive.

6.3.1 Complicanze precoci sistemiche


➢ Shock: può essere ipovolemico, conseguente alla perdita di una notevole quantità di sangue (soprat-
tutto in caso di fratture esposte), ma può presentarsi anche nel caso di una sindrome da schiacchia-
mento in cui la liberazione massiccia di cataboliti muscolari per necrosi muscolare acuta, in partico-
lare azoto, può provocare un’insufficienza renale acuta. Ciò accade più tipicamente nei grandi traumi,
secondari a catastrofi o incidenti sul lavoro.

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➢ Embolie: soprattutto adipose per vicinanza della frattura con il midollo osseo, che può essere mobi-
lizzato e andare in circolo dando collasso cardiovascolare, stato confusionale e petecchie cutanee
associate, segno tipico dell’embolia adiposa.
➢ Trombosi venosa profonda: un trauma dell’intima può provocare una trombosi con conseguente oc-
clusione di un vaso, ma anche l’immobilità nelle prime ore può provocare uno stato di stasi ematica
che predispone allo sviluppo di TVP. Un altro meccanismo che può dare TVP è l’utilizzo del gesso
chiuso, ormai sostituito da altre tecniche di damage control: il gesso induce una compressione
dall’esterno (che impedisce l’aumento volumetrico) in una situazione in cui l’arto sta aumentando di
massa per sanguinamento, causando un aumento pressorio favorente la TVP e altre complicanze.

6.3.2 Complicanze precoci locali


➢ Frattura esposta: complicanza locale che può evolvere in complicanza sistemica. Una frattura esposta
è una frattura in cui si assiste ad una soluzione di continuo dei tessuti molli e i monconi ossei sono in
comunicazione con l’ambiente esterno. Esistono due modalità di esposizione della frattura:
o dall’interno all’esterno, come nel caso delle fratture spiroidi in cui un moncone tagliente le-
siona i tessuti molli fino in superficie;
o dall’esterno all’interno, quando un corpo estraneo (coltello, proiettile..) lacera i tessuti molli
fino all’osso.
Il problema delle fratture esposte è che sono ad elevato rischio infettivo, locale e sistemico.
Gli stadi di una frattura esposta secondo la classificazione di Gustilo, sulla base della grandezza e del
coinvolgimento dei tessuti molli, sono:
- Stadio I: tessuti molli danneggiati per meno di 1 cm in assenza di danni muscolari.
- Stadio II: tessuti molli danneggiati per più di 1 cm (ma meno di 10 cm) con danno muscolare.
- Stadio III: tessuti molli organizzati per più di 10 cm con perdita di sostanza (traumi da mac-
chine agricole). Ulteriormente diviso in:
▪ IIIA: trauma ad alta energia con ampia lacerazione dei tessuti molli ma sufficiente
copertura ossea;
▪ IIIB: ampia perdita di sostanza;
▪ IIIC: lesioni vascolari che necessitano la riparazione per la sopravvivenza dell’arto.

In linea generale, più grande è l’esposizione, più grave è la frattura perché più alto è il rischio di
contaminazione. Ciò non vale nel caso delle FAF (fratture d’arma da fuoco), in cui il proiettile, pur
essendo molto piccolo, penetra in profondità portando con se anche brandelli di vestiti con altissimo
rischio di contaminazione, per questo vengono classificate sempre come stadio III.

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➢ Lesioni neurovascolari: a loro volta possono avvenire con meccanismo ab intrincesco/ab estrinseco
e possono dare danno sistemico da shock o danno neurologico permanente. Le lesioni vascolari pos-
sono essere dirette o indirette da compressione (da gesso). Per lesioni dei nervi periferici invece, si
parla di:
o neuroaprassia quando avviene uno stiramento del nervo, ma la continuità anatomica viene
mantenuta (danno funzionale);
o assonotmesi quando si ha una lesione parziale di alcuni assoni del nervo, ma con struttura
del nervo ancora integra (lesione interstiziale a nervo integro);
o neurotmesi dove si ha danno funzionale e anatomico.
➢ Infezioni: soprattutto per fratture esposte di stadio II/III, infezioni da germi aerobi purulente o da
germi anaerobi più gravi e in grado di sviluppare gangrene gassose.
➢ Sindrome compartimentale: ad oggi rara perché non viene più utilizzato il gesso chiuso. Colpisce
spesso i bambini provocando un esito invalidante permanente. Fondamentalmente si tratta di una
sindrome ischemica che insorge con lo stesso meccanismo visto in pre-
cedenza (aumento di pressione dovuto alla compressione ab estrin-
seco di un compartimento chiuso con ematoma). È una complicanza
acuta, che si manifesta con un dolore estremamente intenso, violento,
ma il danno si ripercuote anche tardivamente con comparsa delle sin-
dromi post-ischemiche o sindrome di Volkmann (vedi dopo).
La diagnosi di sindrome compartimentale può essere difficile e deve
essere tempestiva, al fine di evitare danni anatomici irreversibili. Il so-
spetto deve insorgere in tutti i casi di tumefazione, dolore sproporzio-
nato e tensione cutanea, soprattutto se associati a iperestesie nel ter-
ritorio di distribuzione dei nervi. Il trattamento è essenzialmente legato
alla decompressione, rimuovendo eventuali compressioni esterne e/o
eseguendo in urgenza una fasciotomia4.

6.3.3 Complicanze tardive sistemiche


Prevalentemente associate all’allettamento, che provoca ristagno a livello respiratorio, urinario e lesioni cu-
tanee da compressione. In breve:
- Polmoniti
- Cistiti
- Piaghe da decubito

4L’intervento consiste nell’effettuazione di estese incisioni cutanee per aprire tutti i compartimenti fasciali nell’arto e quindi dimi-
nuire la pressione del compartimento stesso. Si tratta di quell’intervento eseguito praticamente in ogni puntata di Grey’s Anatomy:
possiamo negarlo o no, ma sono queste scene che ci ha fatto venire la vokazioneh e che ancora oggi ci strappano un’emozione. (Nelle
immagini ricordiamo il celebre caso del ragazzo finito nel cemento).

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6.3.4 Complicanze tardive locali
Si tratta di problemi legati al processo di guarigione della frattura, che può guarire tardivamente, non guarire
o dare luogo a deformità. In linea generale, le fratture guariscono in un paio di mesi, ma in alcune circostanze
le tempistiche si allungano:
- età avanzata: lenta velocità di formazione ossea;
- fratture delle diafisi delle ossa lunghe, come tibia e omero (non il femore perché è più vascolarizzato
ed è circondato da un gran numero di muscoli)
- drenaggio chirurgico che causa ipossia;
- esposizione che causa drenaggio di tipo traumatico;
- immobilizzazione insufficiente a livello dei monconi di frattura (micromovimento continuo);
- interposizioni di lembi muscolari dentro la frattura, come accade spesso nelle fratture spiroidi.
- infezioni che provocano formazione di tessuto reattivo, il quale blocca il processo di guarigione ossea.

Domanda: l’osteoporosi non ritarda il consolidamento di una frattura? No, si tratta di una malattia sistemica, tipica
degli anziani, caratterizzati anche da una riduzione della velocità di formazione ossea. Non sono una causa dell’altra.

Tra le complicanze tardive locali, la più comune è il ritardo di consolidazione: normalmente una frattura
ossea guarisce anche nel caso in cui i due monconi siano spostati l’uno rispetto all’altro, tranne nel caso in
cui la distanza sia così ampia da non permettere la formazione del callo, come si verifica in caso di interposi-
zione di lembi muscolari. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, una frattura, anche se lentamente, prima o
poi guarisce. Nei rari casi in cui invece la frattura non si ripara, non si parla più di ritardo di consolidazione,
ma di pseudoartrosi, così chiamata perché si tratta di una pseudo-articolazione: alla radiografia viene vista
come se i due capi ossei fossero due capi di un’articolazione. In alcuni casi si forma addirittura un manicotto
fibroso tra i due monconi ossei i quali, non essendo saldati, mantengono una mobilità l’uno rispetto all’altro
oppure si può assistere alla sinovializzazione all’interno della cavità formatasi. La distinzione tra ritardo di
consolidazione e pseudoartrosi si fa sulla base delle tempistiche: quando una frattura non si consolida per
un tempo che supera i 6 mesi viene considerata una pseudoartrosi. Il sintomo principale della pseudoartrosi
è il dolore.
Un’altra complicanza locale tardiva si verifica quando una frattura guarisce in una posizione “viziata”: si parla
di vizio di consolidazione. Questo disturbo si verifica quando i frammenti di frattura guariscono in posizione
non corretta, esitando in deformità con rilevanza clinico-funzionale e/o estetica. Le più frequenti deformità
sono l’angolazione (in valgo, varo, recurvato o procurvato), l’allungamento, l’accorciamento o la rotazione
dell’osso fratturato.
La terapia chirurgica è giustificata dalla presenza di disturbi clinicamente rilevanti e si basa sull’esecuzione di
osteotomie correttive. In questi interventi, volti a ripristinare una normale morfologia scheletrica, si pratica
una frattura chirurgica dell’osso malconsolidato con appositi strumenti, quindi si stabilizzano i frammenti
nella posizione desiderata con mezzi di osteosintesi diversi.
Nel caso di una frattura articolare, il rischio è l’insorgenza di un’artrosi post-traumatica per incongruenza
delle superfici articolari con mancata riduzione dei capi articolari, per presenza di frammenti comminuti in-
tra-articolari e per un lungo periodo di immobilizzazione. Quando la frattura interessa l’osso subcondrale, lo
stravaso sanguigno conseguente provoca un emartro a cui fa seguito una reazione fibrosa cicatriziale con
conseguente rigidità, aggravata dalla prolungata immobilizzazione richiesta per una frattura articolare.
Altro rischio è l’algodistrofia, cioè quel fenomeno di osteoporosi localizzata e transitoria che si ha a causa di
un trauma, molte volte a causa di allettamento prolungato e deprivazione di carico, per il meccanismo fisio-
patologico già visto in precedenza (in assenza di gravità l’osso si continua a riassorbire, ma non si forma alla
stessa velocità e quindi si ha osteoporosi). Non si tratta di osteoporosi sistemica, in quanto coinvolge un

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distretto limitato e comunque è transitoria (con la mobilizzazione l’osso riprende le caratteristiche architet-
turali fisiologiche). Il problema è che il paziente prova dolore con conseguente impotenza funzionale, che a
sua volta può essere causa di ritardo di consolidazione della frattura. Il termine atrofia o morbo di Sudek è
utilizzato per indicarne la localizzazione all’arto inferiore (piede e gamba).
Il trattamento è in genere fisioterapico, supportato dalla terapia medica a base di FANS, benzodiazepine e
difosfonati.

La sindrome di Sudeck (o atrofia di Sudeck) è una sindrome algodistrofica oggi più frequentemente considerata un
tipo di sindrome dolorosa regionale complessa, visibile nella maggior parte dei casi dopo la rimozione di un gesso
ortopedico; in altri casi invece sorge spontaneamente. Ancora non sono ben note le cause che determinano l'insor-
genza spontanea di questo tipo di algia. L'arto appare scuro, tumefatto, dolente alla minima mobilizzazione e pres-
sione, il tutto accompagnato da un quadro radiologico di marcata rarefazione osteoporotica. Le regioni interessate
maggiormente da questa patologia solo le articolazioni inferiori (caviglie e piedi, nello specifico il tallone).
Colpisce soprattutto i soggetti sotto i 50 anni, ed anche i bambini. Si riscontra anche un aumento della frequenza nel
sesso femminile, con un rapporto 4:1. Esistono alcuni fattori particolarmente predisponenti, come il diabete l’ipertri-
gliceridemia, l’ansietà e i disturbi neurodegenerativi, fattori legati all'età e al sesso o a pregresse alterazioni vasomo-
torie, come il fenomeno di Raynaud, infezioni (fratture infette, osteomieliti, osteoartriti), ustioni e congelamenti e
lesioni secondarie da agenti chimici o fisici (raggi X, elettricità).
Tuttavia, solitamente, il fattore scatenante è rappresentato da traumi (distorsioni o fratture), ai quali seguono mano-
vre riduttive ripetute o violente o immobilizzazione prolungata. (Wikipedia)

Altra complicanza è la sindrome post-ischemica o sindrome di Volkmann che non deve essere confusa con
la sindrome compartimentale, che è un fenomeno acuto. Costituisce l'esito tardivo della sindrome comparti-
mentale e si manifesta come deformità causata da una sofferenza ischemica a livello della loggia muscolare
che va incontro a necrosi. La conseguenza diretta è l’accor-
ciamento del tratto colpito: siccome le sedi più colpite dalla
sindrome compartimentale sono la loggia anteriore
dell’avambraccio (tipicamente conseguenza di una frattura
sovracondiloidea del gomito, da cui il sangue scende
nell’avambraccio, frequente nei bambini) e la loggia antero-
laterale della gamba, la sindrome post-ischemica determina
una retrazione dei flessori delle dita, quindi una retrazione
delle metacarpofalangee e una flessione fissa delle interfa-
langee.

Infine, la necrosi avascolare post-traumatica: va sospettata in tutti quei casi in cui il dolore e l’invalidità si
protraggono più del dovuto durante il periodo di convalescenza, cioè tra le 8 settimane e i 2 anni. Alcune sedi
scheletriche sono predisposte in modo particolare a questa complicanza post-traumatica, per la presenza di
una vascolarizzazione di tipo terminale: testa del femore, testa dell’omero, scafoide carpale e astragalo. Se
le misure adottate per prevenire la necrosi tissutale risultano inefficaci, l’evoluzione verso l’artrosi post-trau-
matica è pressoché inevitabile e il trattamento sarà rivolto alla correzione degli esiti (protesi articolari, artro-
desi ecc.).

6.4 Diagnosi e trattamento


Il sospetto clinico nasce nel momento in cui si presenta in pronto soccorso un paziente con storia clinica
suggestiva, sintomatologia dolorosa, tumefazione, deformità, andando a ricercare i segni e sintomi di una
lesione ossea.

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È necessario valutare la presenza di danni acuti neurovascolari, controllando eventuali sintomi neurologici,
polsi, calore della cute, discromie. Si indaga, inoltre, lo stato dei tessuti molli circostanti, se vi è lacerazione
o meno.
L’ipotesi diagnostica deve poi essere verificata con le indagini strumentali, in particolare una radiografia
standard permette di vedere morfologia, sede, presenza e numero di frammenti. Se dalla scomposizione
visibile alla Rx si sospetta una lesione vascolare è necessario effettuare un doppler artero-venoso o un’arte-
riografia. In caso di fratture scomposte (soprattutto fratture esposte) di stadio II/III bisogna scongiurare il
rischio infettivo dato dalla contaminazione dall’esterno, stabilizzando in primo luogo la frattura e nello stesso
tempo effettuando una toilette dei tessuti molli.
La stabilizzazione di una frattura si può eseguire in diversi modi.

6.4.1 Apparecchio gessato


Nel caso di una frattura chiusa, il trattamento prevede l’applicazione di una fissazione transitoria, che di
solito si attua tramite una doccia gessata, un apparecchio provvisorio aperto anteriormente, per evitare che
si abbia compressione dall’esterno, come avveniva per il gesso chiuso. La strategia efficace prevede sempre
l’immobilizzazione di un’articolazione a monte e di una a valle della frattura, per evitare che ci siano dei
movimenti di rotazione causati dalle articolazioni limitrofe (ad esempio, nel caso di frattura dell’ avambrac-
cio, è necessario immobilizzare gomito e polso; per la frattura di tibia, ginocchio e caviglia).
Se la frattura è scomposta, il trattamento prevede una riduzione manuale dei monconi con applicazione di
un apparecchio gessato. Si tratta della metodica che prevale nel trattamento delle fratture pediatriche, per
ridurre al minimo l’invasività; nell’adulto si procede in questo modo più raramente.
La riduzione consiste nel correggere la dislocazione dei frammenti di frattura, riportandoli nella posizione
che essi avevano prima della lesione (riduzione anatomica) o comunque nella posizione più favorevole pos-
sibile. La riduzione è detta manuale quando è ottenuta con una manovra attuata dalle mani dell’operatore,
strumentale se ottenuta con l’ausilio di appositi strumenti, pratica quest’ultima caduta ormai in disuso. Fino
a pochi anni fa si utilizzava la riduzione mediante trazione transcheletrica, in cui si applicava un filo di trazione
che poneva l’arto in trazione per ridurre i monconi di frattura e poi si immobilizza il tutto con un apparecchio
circolare.
Nell’adulto il trattamento deve permettere un nursing precoce, evitando situazioni di immobilità prolungata
e posizioni scomode di mantenimento, e deve permettere un recupero definitivo con guarigione stabile nel
tempo. Perciò, il trattamento definito damage control prevede il posizionamento immediato di un fissatore
esterno anche nelle fratture non esposte, consentendo di avere il tempo di preparare il paziente per l’inter-
vento chirurgico che prevedrà osteosintesi interna. Ad oggi il primo trattamento non è più conservativo ma
chirurgico, evitando il più possibile di ricorrere al gesso chiuso che, oltre a provocare una sindrome compar-
timentale, può dar luogo a TVP e flebiti. La prima cosa da fare con un paziente con gesso chiuso che presenta
dolore è rimuovere immediatamente il gesso.

Gesso e sindrome compartimentale


Se un paziente con gesso, adulto o bambino, presenta l’insorgenza tipica di un dolore indescrivibile, non
responsivo alla morfina, estremamente violento, prepara il bisturi: molto probabilmente si tratta di una sin-
drome compartimentale.
La sintomatologia dolorosa è così intensa perché il fenomeno ischemico colpisce in prima battuta le termi-
nazioni nervose, in particolare i vasa nervorum, il primo distretto a risentire della mancanza di ossigeno:
prima vengono coinvolte le terminazioni sensitive, secondariamente le fibre nervose motorie, con comparsa

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di parestesie e compromissione della funzione motoria. Quando il processo si estende anche alle fibre mu-
scolari si assiste a necrosi massiva, con sostituzione del tessuto muscolare con tessuto fibroso e anelastico,
provocando la sindrome post-ischemica.

Il trattamento della sindrome compartimentale consiste nella fasciotomia, come prima accennato. Si apre la
loggia sino alla fascia, permettendo al muscolo di erniare e alla massa in eccesso di fuoriuscire per ridurre la
pressione. La ferita viene suturata con delle fettucce elastiche, che mantengono accostati i lembi nel limite
del possibile e che si riaccostano progressivamente permettendo il mantenimento delle caratteristiche ela-
stiche cutanee, con chiusura della ferita per seconda intenzione.
Dopo la fasciotomia l’incisione non deve essere suturata. La sutura sarà eseguita successivamente, una volta risolto
l’edema, attraverso la chiusura per prima intenzione differita o mediante un innesto dermo-epidermico. I margini della
fasciotomia possono essere trattati con dermatorazione; questo permette la chiusura progressiva dell’incisione du-
rante le successive revisioni chirurgiche. Un’altra possibilità è quella di applicare sulla fasciotomia una VAC che con-
tribuisce alla riduzione dell’edema e favorisce la granulazione dei tessuti. La modalità di trattamento della fasciotomia
rimane un argomento controverso. La maggior parte degli autori ritiene necessario lasciare la ferita chirurgica aperta
per 7-10 giorni per chiuderla successivamente tramite sutura diretta o mediante innesto dermo-epidermico. È opinione
comune che un secondo intervento di pulizia chirurgica dovrebbe essere eseguito a distanza di 48-72 ore.

La fasciotomia può essere unica, in modo da aprire con un lungo taglio la fascia, oppure possono essere
eseguite fasciotomie multiple di 3-4 cm che hanno un effetto finale più estetico.

Il prof tratta in modo sbrigativo la fasciotomia: se siete interessati lascio nella cartella “approfondimenti coraggiosi” un articolo a
tal proposito (da cui è tratta la parte in corsivo sulla sutura).

6.4.2 Trattamento chirurgico


Se la frattura non è esposta, ma è instabile è meritevole di trattamento chirurgico, anche per ridurre l’allet-
tamento e andare incontro alle esigenze del paziente.
La riduzione deve essere associata a osteosintesi, meccanismo atto a mantenere ricongiunti i monconi della
frattura per il tempo necessario alla guarigione e che consente l’applicazione di un carico che viene soppor-
tato non più dalla frattura ma dal mezzo di sintesi.
Esistono diverse strategie di sintesi, a seconda della sede della frattura, della sua morfologia e soprattutto
della scomposizione.

➢ Chiodi
Le fratture che sono più stabili, cioè le medio-diafisarie, con stabilità intrinseca più elevata dell’osso lungo,
tendenzialmente si sintetizzano con un inchiodamento endomidollare: si utilizza un chiodo lungo inserito
nel canale midollare in modo da ripristinare la lunghezza e correggere la deformità. Nell’inchiodamento può
accadere che rimanga dello spazio e i due monconi potrebbero ruotare l’uno rispetto all’altro, in quanto la
stabilità rotatoria con questo tipo di trattamento non è così elevata: per questo motivo, ad oggi gli inchioda-
menti si fanno più frequentemente bloccati, cioè lungo il chiodo si introducono delle viti trasverse che impe-
discono la rotazione di un moncone rispetto all’altro. In questo modo si ha la frattura in asse, con lunghezza
e deformità angolare sotto controllo e con rotazione controllata.
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Tuttavia, se non si tiene conto della giustapposizione dei due monconi ossei e rimane spazio tra i due mon-
coni, poiché il chiodo e i frammenti ossei sono solidali e impediscono lo scivolamento e il compattamento
della frattura, lo spazio tra i due spazi non subisce alcun carico perché viene distribuito sulla struttura circo-
stante. Pertanto: se la frattura non è perfettamente ridotta, il chiodo non favorisce la guarigione. È per questo
che normalmente si utilizza un chiodo quando si ha una frattura monofocale, ma a condizione che la frattura
sia correttamente ridotta.
Nel caso in cui si abbia una frattura talmente frammentata che non si è in grado di ridurla in altro modo, si
devono garantire la lunghezza, la rotazione e la deformità angolare. Si fa in modo che tutti i frammenti in-
torno vadano a formare il callo osseo allineato a quello che era l’originale forma dell’osso grazie al chiodo
che agisce da colonna portante. In questo caso non si ricerca più una riduzione anatomica, ma solo di ripri-
stino della forma. Non importa che il callo sia deforme, l’importante è che siano conservate le caratteristiche
di lunghezza, assenza di deformità angolare e assenza di rotazione.
Quando tra un frammento osseo e l’altro si forma uno spazio che impedisce la guarigione della ferita si può
dinamizzare il chiodo, togliendo una delle viti in modo che un frammento possa scorrere rispetto all’altro e
quindi, sotto l’effetto del peso del corpo, impaccarsi all’altro frammento dato che uno dei due può scorrere
sul chiodo (di solito quello distale). Si mantiene l’asse e la rotazione, ma allo stesso tempo si mette in com-
pressione la frattura.

➢ Placche e viti
Un sistema di placche e viti è più stabile e consente di gestire anche fratture pluriframmentarie. Di solito si
utilizza quando la lesione è vicina alla regione meta-epifisaria, dove un chiodo non garantirebbe stabilità: il
chiodo garantisce stabilità metafisaria e diafisaria, ma se ci si avvicina molto all’articolazione, esso ha diffi-
coltà ad arrivare fino al punto della lesione. Le placche si fanno già sagomate in modo che seguano il profilo
dell’osso, oppure vengono create con materiali flessibili o prodotte da stampante 3D a seguito della TC preo-
peratoria. Ciò permette una consolidazione anatomica, fissata con le viti all’osso. Naturalmente è un sistema
più rigido, viene utilizzato nelle fratture articolari o vicine all’articolazione.

➢ Fili di Kisrschner
Inoltre ci sono delle osteosintesi dette “a minima” usate soprattutto nei bambini, dove un mezzo di osteo-
sintesi potrebbe violare la cartilagine di accrescimento, e quindi essere troppo invasive. In questo caso ven-
gono utilizzati dei fili molto sottili (fili di Kirschner o K-wire), da 1 mm-1.5 mm, posizionati con una tecnica a
shanghai per permettere una tenuta multidirezionale. Si usano soprattutto nelle fratture apofisarie dove ci
sono frammenti molto piccoli oppure nei distacchi epifisari dove il mezzo di sintesi ha attraversato la cartila-
gine di accrescimento.

➢ Fissatore esterno
Di fronte ad una frattura esposta è possibile utilizzare un sistema di fissazione esterna che,
attraverso chiodi, barre laterali e longitudinali e perni detti fiches, bypassa il focolaio di frat-
tura senza inserirvi materiali: viene creato un sistema a “quadrato” (due barre lunghe verti-
cali e due piccole orizzontali5) quanto più stabile possibile, che impedisca alla frattura di muo-
versi (senza mettere nulla nella sede di frattura per ridurre il rischio di infezione). Essendo le
fiches solidali ai frammenti di frattura, il sistema di connessione esterno non solo solidarizza
queste ultime, ma anche i frammenti.

5 Che è un rettangolo, ma lasciamo perdere

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Il fissatore permette la gestione delle parti molli e consente al paziente di applicare un carico, così da ridurre
drasticamente l’allettamento e mobilizzare il paziente il prima possibile. In caso di politraumi poter gestire le
fratture con un fissatore esterno è un vantaggio: nel politrauma, che siano fratture esposte o meno, il fissa-
tore esterno viene usato per fare damage control in modo da permettere la stabilizzazione emodinamica del
paziente e il nursing efficace. La figata di questo strumento è, infatti, la possibilità di diastasare, comprimere,
traslare o ruotare i frammenti di frattura agendo solo sul sistema esterno (per cui il fissatore può essere uti-
lizzato per la riduzione).
Di solito è il trattamento definitivo nelle fratture di stadio II/III, mentre si utilizza come trattamento tempo-
raneo nell’attesa di poter passare alla sintesi interna a seguito della guarigione della lesione cutanea nelle
fratture di stadio I. La conversione da fissatore esterno a osteosintesi interna, laddove vi sono perdite di
sostanza o esposizioni massive, è sconsigliabile perché il rischio infettivo aumenta notevolmente.

Impostato il trattamento della frattura esposta, se è possibile, si chiude la ferita, previa toilette della le-
sione. Si procede dunque alla profilassi antitetanica, alle vaccinazioni necessarie e si somministra terapia
antibiotica ad ampio spettro, considerando anche la necessità di un farmaco efficace contro ceppi anae-
robi in caso di frattura in ambito agricolo.

L’allungamento degli arti si basa su di un meccanismo di fissazione esterna circolare, cioè un particolare tipo di fissa-
tore esterno, così come nel trattamento delle fratture da scoppio dove si ha una perdita di sostanza in cui non si ha la
possibilità di ricongiungere i due capi ossei: si compie un’osteosintesi in accorciamento con riduzione della lunghezza
dell’osso, dopo la guarigione verrà tagliato di nuovo e si deve allungare progressivamente e lentamente ogni giorno
grazie al fissatore esterno che con un sistema ad ascensore allontana di poco i monconi, in modo che il rigenerato
cresca in allungamento senza mai interrompersi. Sono percorsi lunghi che possono durare anche più di un anno, non
è un procedimento semplice da sopportare per il paziente, sia per l’ingombro di un fissatore circolare, sia per le tem-
pistiche, ma anche per la continua penetrazione di corpi estranei che possono essere favorenti lo sviluppo di infezioni.

6.4.3 Trattamento e gestione delle complicanze


Nel trattamento delle fratture è bene ricordare di studiare gli eventuali segni e sintomi che possono far so-
spettare l’insorgenza di complicanze sistemiche, come shock, TVP, embolia. In particolare, il primo sintomo
che deve far insospettire è il dolore, la cui localizzazione orienta la diagnosi:
- se il paziente prova dolore nella loggia posteriore della gamba si sospetta TVP,
- se il dolore è localizzato nella loggia antero-laterale della gamba si sospetta sindrome compartimen-
tale.
La diagnosi differenziale si effettua con Ecocolordoppler e il trattamento, nel caso di TVP, prevede la sommi-
nistrazione di anticoagulanti (Warfarin sodico, NAO), anche se nelle fratture e traumi chiusi degli arti inferiori
è sempre consigliabile attuare una profilassi antitrombotica con eparina a basso peso molecolare.

6.5 Lussazioni
Quando si parla di lussazioni, si fa riferimento alla traumatologia delle articolazioni: un trauma a livello dell’articola-
zione può provocare una frattura ma anche un’alterazione della struttura legamentosa, andando ad interrompere le
strutture vincolanti i due capi ossei nella cavità articolare.

Per lussazione si intende la perdita di contiguità completa tra un capo articolare e l’altro, cioè quando il
rapporto anatomico tra un femore e una tibia viene perso completamente: lo spostamento dei due capi ar-
ticolari rende necessaria l’esecuzione di una manovra di riduzione.

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La sublussazione, invece, si verifica quando la perdita di contiguità è parziale e temporanea: si ha autoridu-
zione e autorisoluzione, tanto che il paziente fatica a descriverla, “pota è come se stesse per uscire fuori [la
spalla] ma poi figa è rientrata”.

Per definizione la direzione della lussazione dipende da come si sposta il capo distale rispetto a quello pros-
simale, quindi se si parla di una lussazione postero-laterale di gomito, si intende che l’avambraccio si è spo-
stato indietro rispetto all’omero. Di solito esistono delle direzioni preferenziali di via di fuga, data dalle carat-
teristiche anatomiche delle articolazioni stesse. Per esempio, la spalla si lussa frequentemente anterior-
mente, un’anca si lussa più frequentemente posteriormente, un ginocchio si lussa più facilmente anterior-
mente e una rotula si lussa solo lateralmente.

6.5.1 Classificazione
Viene definita acuta quando si tratta del primo episodio di lussazione, mentre una lussazione che capita più
volte è detta ricorrente o recidivante. Si parla di lussazione cronica o inveterata quando un’articolazione è
rimasta lussata e nessuno se ne è accorto per molto tempo.
Un altro sistema di classificazione si avvale del meccanismo di lesione:
- la maggior parte delle lussazioni avviene su base traumatica ed origina da un’articolazione fino a quel
momento sana,
- al contrario, si possono avere anche lussazioni atraumatiche che possono verificarsi:
o a seguito di traumi a bassissima velocità ed energia;
o in assenza di trauma in articolazioni dove è già presente un danno, come nel caso di una
spalla con lussazione recidivante che con il passare degli episodi facilita sempre di più la lus-
sazione anche durante attività quotidiane: nel corso del tempo i due capi articolari hanno
sviluppato un danno tale da allentare la capsula e facilitare l’uscita dell’osso;
o in un soggetto iperlasso, oppure in quelle articolazioni che hanno meno strutture filamen-
tose a stabilizzarle, prima fra tutte la spalla.
o su base volontaria: il paziente è in grado di lussarsi l’articolazione e rimetterla al suo posto
autonomamente; l’articolazione più soggetta è la spalla con predisposizione anatomica (di-
splasia della glena); il paziente, tipicamente pediatrico, sviluppa un controllo neuromotorio
tale da permettergli di fare dentro/fuori anche ad occhi chiusi. Il problema, come detto pre-
cedentemente, è che più accade, più si faciliterà la futura fuoriuscita dei capi articolari.

6.5.2 Diagnosi e terapia


L’approccio diagnostico- terapeutico di una lussazione traumatica acuta prevede:
1. la valutazione della deformità, cercando di capire se la lussazione sia ancora in atto o meno;
2. l’anamnesi, per distinguere se si tratta di un evento acuto o di una recidiva;
3. ricerca di eventuali lesioni neurovascolari, molto tipiche ad esempio nelle lussazioni del ginocchio,
per cui è necessario effettuare un’arteriografia;
4. radiografia standard per confermare e descrivere al meglio la diagnosi.
5. Infine, si attua la manovra risolutiva, evitando riduzioni manuali a favore di manovre di riduzione in
assenza di dolore, portando il paziente in sala operatoria e sedandolo.
6. Post-riduzione è necessario effettuare sempre un controllo radiografico per confermare il manteni-
mento della riduzione, in caso contrario è bene sospettare una frattura associata che impedisce il
corretto riposizionamento dell’articolazione, o anche un’introflessione di tessuti molli che si sono
frapposti ai capi articolari. È importante conoscere le varie possibilità per poter essere in grado di
riconoscerle nella pratica clinica.
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6.A Fratture del collo del femore

Il femore è l'osso più lungo, voluminoso e resistente dello scheletro umano. Su di esso si inseriscono nume-
rosi muscoli fondamentali per il movimento degli arti inferiori. Articolandosi nella sua estremità prossimale
con l'osso dell'anca dà origine all'articolazione coxofemorale, mentre la sua epifisi distale si articola con la ro-
tula e la tibia dando origine all'articolazione del ginocchio.

Il trattamento di una frattura del femore richiede quasi sempre l'intervento di sintesi chirurgica, fondamen-
tale per la sopravvivenza e la ripresa funzionale del paziente. L’intervento scelto dipende ovviamente dal tipo
di frattura.
Nell'anziano la frattura del femore si localizza tipicamente all'estremità superiore (testa o collo del femore),
limitando fortemente la mobilità dell'arto, peraltro già compromessa dall'età avanzata. Per questo motivo la
frattura del femore nell’anziano rappresenta un evento gravissimo.
Le fratture dell’estremo prossimale del femore risultano soggette a numerose complicanze che possono por-
tare alla morte, date dal fatto che spesso il paziente anziano presenta altre patologie invalidanti (come de-
menza senile, morbo di Parkinson…), tali per cui la sua capacità di collaborazione risulta ridotta. Anche chi
non ha mai manifestato queste patologie associate mostra disorientamento dopo l’episodio di frattura (a
causa del trauma, dall’intervento a cui deve essere sottoposto, dell’ospedalizzazione), che rende il paziente
meno collaborante.
Il sistema sanitario che tratta questa tipologia di pazienti deve tenere in considerazione i costi elevati del
trattamento e della gestione del post-operatorio.
Per questo motivo, alcuni sistemi sanitari (ma non quello italiano) hanno deciso di “ottimizzare” la gestione
di alcuni trattamenti, come quello della frattura del collo del femore, per cui oltre una certa età il paziente
anziano non viene trattato, perché la probabilità di recupero di un soggetto socialmente improduttivo è
minima e le risorse utilizzate andrebbero sprecate.
Inoltre anche l’allettamento prolungato produce costi nella gestione del paziente, per cui, sempre per un
discorso di ottimizzazione delle risorse, si è andati progressivamente ad ottimizzare il trattamento in fase
d’urgenza, sottoponendo il paziente all’intervento chirurgico entro le prime 48 ore dal trauma dimostrando

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come ciò migliori la sopravvivenza. Questo è un obiettivo primario che oggi deve essere perseguito da tutti
i sistemi sanitari.
Esistono degli indicatori per valutare l’efficienza di un ospedale (e in generale del sistema sanitario) e uno tra
questi risulta essere la valutazione della percentuale di pazienti con fratture del collo del femore che vengono
trattati entro la finestra terapeutica utile di 48 ore dal trauma.
Tutte le categorie di pazienti con frattura femorale vengono trattati in urgenza nonostante le possibili con-
troindicazioni date dalle condizioni precarie del paziente (ad esempio paziente cardiopatico, scoagulato, con
patologie respiratorie o urinarie croniche) perché si è visto che le eventuali complicanze del trattamento
risultano essere minori delle complicanze che il paziente potrebbe sviluppare se non si sottoponesse all’in-
tervento.

6.A.1 Classificazione
Le fratture del collo del femore possono essere classificate in vario modo. La classificazione topografica, a
seconda della sede in cui si sviluppa la frattura rispetto alla capsula articolare, distingue fratture:
- mediali: si trovano subito sotto la testa del femore o attraver-
sano il collo del femore e sono distinte in sottocapitate e trans-
cervicali
- laterali: basicervicali (base del collo del femore), pertrocanteri-
che (linea che congiunge il grande trocantere con il piccolo tro-
cantere), isolate dei trocanteri

6.A.2 Patogenesi
La patogenesi è strettamente legata all’invecchiamento e nella maggior parte dei casi la causa è da attribuire
all’osteoporosi; si tratta quindi di fratture patologiche.
La storia del trauma è spesso confusa: il paziente riferisce di essere caduto accidentalmente e, a causa di ciò,
di essersi fratturato il femore, in realtà spesso accade il contrario ovvero il paziente cade perché il femore è
fratturato (a causa dell’osteoporosi) e non è più in grado di reggere il peso del corpo. La caduta accidentale
quindi c’è sempre nella storia di frattura del femore, ma molte volte non ne è la causa.
I fattori di rischio che predispongono ad una frattura del collo del femore cambiano in relazione all’età del
paziente:
- in età senile (maggiormente colpita da questo tipo di frattura) sono rappresentati da:
o sesso femminile,
o osteoporosi,
o trauma modesto (caduta accidentale) diretto sulla faccia laterale dell’anca;
- in età giovanile è possibile ritrovare questo tipo di fratture, anche se più raramente, a seguito di
traumi più violenti come i traumi stradali.

La sede della frattura segue la topografia della struttura interna dell’osso. Le trabecole della parte spongiosa
del collo del femore hanno una distribuzione precisa: si orientano lungo linee di forza, in modo da resistere
meglio all’effetto del peso del corpo e all’effetto delle forze di taglio; il collo del femore infatti non è orientato
perfettamente lungo l’asse mediano del corpo.
Esiste una zona di minore resistenza, dove le trabecole sono meno orientate, chiamata triangolo di Ward,
zona fragile da dove solitamente origina la frattura.

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6.A.3 Quadro clinico
La frattura del collo del femore è facile da riconoscere: la storia anamnestica è tipica (il paziente riferisce una
caduta) e compare subito un’impotenza funzionale che nella maggior parte dei casi impedisce al paziente di
rialzarsi da terra.
L’esame obiettivo dell’arto è diagnostico e mostra:
• accorciamento, poiché i frammenti molte volte si accavallano l’un l’altro quindi l’osso diventa un po’
più corto e anche l’arto complessivamente appare più corto;
• extra-rotazione, perché i muscoli extra-rotatori che si inseriscono sul grande trocantere, solidale al
moncone distale, predominano sui muscoli intra-rotatori;
• tumefazione della regione inguinale, data dall’ematoma, non sempre apprezzabile, visibile più fa-
cilmente nel soggetto magro o defedato;
• dolorabilità ai movimenti passivi dell’anca.

6.A.4 Diagnosi strumentale


L’RX è l’esame di primo livello che permette di vedere la sede della frattura, se la frattura è scomposta e di
quanto.
Esiste una classificazione radiografica secondo Garden:
- Stadio I: frattura in coxa valga ingranata, che spesso riesce a sostenere il peso, per cui il paziente si
rialza, cammina per giorni e la diagnosi viene fatta tardivamente. È caratterizzata da trabecole verti-
calizzate ed elevata stabilità, ed è difficile da riconoscere radiograficamente.
La frattura ingranata è sempre in valgo, se fosse in varo l’effetto del peso del corpo la scomporrebbe.

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- Stadio II: frattura ingranata senza spostamento, con orientamento delle trabecole perfettamente
conservato e stabilità modesta (ancora più difficile da riconoscere radiograficamente rispetto alla
precedente ma visibile alla TC)
Quando c’è una storia che corrisponde a una possibile frattura del collo del femore e radiografica-
mente non si vede nulla bisogna fare una TC (indagine di secondo livello). Questa frattura composta
tende a scomporsi facilmente se il paziente ci cammina sopra (l’ideale è che non si scomponga). Se si
fa un intervento con mezzo di sintesi questa frattura non ha bisogno di essere ridotta.

- Stadio III: frattura scomposta in coxa vara, con trabecole cefaliche che tendono a diventare orizzon-
tali. È necessaria la riduzione della frattura prima di effettuare la terapia con osteosintesi.

- Stadio IV: frattura completamente scomposta, con trabecole parallele ma separate, caratterizzata
da elevata instabilità. Normalmente non viene trattata con osteosintesi.

Per stabilire quali fratture possono essere sottoposte ad osteosintesi bisogna guardare dove avviene la frat-
tura.

Le bellissime immagini radiologiche con e senza “aiuti” sono tratte da un sito che potrebbe estremamente didattico, che consiglio di
consultare perché merita (magari i colleghi radiologi lo hanno già segnalato, ma si sa che gli ortopedici arrivano dopo…):
https://www.startradiology.com/

L’osteosintesi è l’intervento chirurgico di contenzione che ha lo scopo di mantenere a contatto segmenti sche-
letrici interrotti nella loro continuità, fino alla formazione e alla consolidazione del callo osseo.

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6.A.5 Fratture e rischio di necrosi
La testa del femore ha una vascolarizzazione proveniente dai rami terminali delle arterie metafisarie che,
con un decorso dal femore all’acetabolo, giungono fino all’interno del manicotto capsulare. Se si lacera la
capsula si interrompe la circolazione. Non c’è una rete anastomotica che possa favorire il circolo in caso di
interruzione delle arterie principali.
L’unico ramo che proviene dal lato mediale è l’arteria otturatoria, che decorre nel legamento rotondo ma è
troppo piccola per supplire alla vascolarizzazione della testa del femore, perciò, se vengono interrotte le
strutture vascolari maggiori, la frattura non guarirà e la testa del femore andrà incontro a ischemia e succes-
sivamente a necrosi.

Tutte le fratture che coinvolgono la capsula articolare hanno quindi un rischio elevato di determinare necrosi:
- le sottocapitate e le transcervicali, essendo fratture mediali, sono a rischio e hanno bassa probabilità
di guarigione;
- le fratture laterali come le basicervicali e le pertrocanteriche non sono a rischio e hanno buona pro-
babilità di guarigione.

6.A.6 Trattamento
➢ delle fratture MEDIALI
In soggetti giovani con fratture mediali (a bassa probabilità di guarigione) di stadio I e II di Garden (non scom-
poste), è possibile utilizzare come prima scelta l’osteosintesi, che può avvenire tramite utilizzo di:
- viti percutanee (avvitamento): è un intervento in anestesia locale in cui si fanno delle piccole incisioni
di 1 cm e si introducono fili metallici che vengono posizionati attraverso la frattura, dalla parte late-
rale del femore fino alla testa, su cui si fanno scorrere 3 grosse viti che si dispongono in modo da
avere una configurazione divergente e stabile (in direzione elicoidale una rispetto all’altra): così si
impedisce che i frammenti possano ruotare tra di loro. È un intervento poco invasivo e si sceglie nel
paziente in cui si può evitare un intervento maggiore;
- chiodo-placca;
- vite-placca a compressione: una grossa vite a compressione viene posta sulla testa del femore e at-
traversa la frattura; si associa poi una placca che viene avvitata al femore. Questo sistema metallico
simula il sistema testa-collo-diafisi e bypassa il carico sulla frattura. Naturalmente prima va fatta la
riduzione a cielo chiuso (altrimenti aprendo la capsula ci sarebbe il danno alle arterie metatarsali)
con il paziente su un letto di trazione, in una posizione in cui si traziona e si ruota la gamba per ridurre
la frattura.
In un paziente giovane questo tipo di trattamento è usato come prima scelta, poiché ha il vantaggio di avere
una bassa morbilità e permette al paziente di non dover asportare tessuto osseo, ma allo stesso tempo ha il
grosso svantaggio di avere bassa probabilità di guarigione (perché la frattura è per definizione ad alto rischio

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di necrosi). Il rischio di fallimento dell’intervento è molto elevato e in questo caso è necessario ricorrere alla
protesi (piano B), che è un intervento di “non ritorno”.

Nel paziente anziano, data la probabilità di guarigione minima o assente, la protesi è il trattamento di prima
scelta, tranne nel caso in cui il paziente sia talmente defedato da non poter affrontare l’intervento e allora si
tenta l’osteosintesi (solo se la frattura non è scomposta). Per le fratture mediali e scomposte è inutile fare il
tentativo di riduzione e sintesi.
Oggi per i pazienti anziani si utilizzano endoprotesi. Si sostituisce con una componente metallica solo la por-
zione ossea femorale (non anche quella acetabolare come avviene nell’artroprotesi dove entrambe le super-
fici sono sintetiche, una di metallo e l’altra di plastica polietilene, e il contatto ha pochissimo attrito tale da
non determinare usura da contatto) e questa si articola con la cartilagine dell’acetabolo del paziente. Questa
interazione metallo-cartilagine con il tempo porta la cartilagine ad usurarsi, provocando dolore. Viene co-
munque effettuato questo tipo di intervento perché è rapido, con basse perdite ematiche, bassa morbilità:
il recupero funzionale è modesto ma comunque vantaggioso per un paziente anziano.
Una valida alternativa sviluppatasi negli ultimi anni per pazienti di
questa fascia di età è l’endoprotesi biarticolare: si tratta di un si-
stema formato da tre componenti: stelo (cementato), testina e cu-
pola mobile. Stelo e testina sono quelle utilizzate nella normale artro-
protesi, la cupola mobile è formata da una calotta in polietilene blin-
data con rivestimento metallico. Vi sono, dunque, due livelli di mobilità (per ridurre al minimo l’attrito):
- tra testina e polietilene;
- tra cupola metallica e osso acetabolare.
Poiché le due strutture sono entrambe metalliche, il concetto è il medesimo dell’artroprotesi con la diffe-
renza che, essendo un’endoprotesi, l’invasività dell’intervento è minore. Tuttavia la sopravvivenza della pro-
tesi è minore rispetto a quella di un’artroprotesi, ma poiché viene inserita in un soggetto anziano in cui
l’aspettativa di vita stimata è limitata, l’intervento è giustificato.

Nel soggetto giovane o nell’anziano in buone condizioni generali di salute e con elevate richieste funzionali
si usa l’artroprotesi totale, sostituendo sia la componente femorale che l’acetabolo. È un intervento alta-
mente invasivo ma permette un ottimo recupero funzionale e l’impianto ha una miglior sopravvivenza (a 20
anni il 98% delle artroprotesi è ancora in sede).

La chirurgia protesica è ricca di complicanze6 sia intraoperatorie che nel post-operatorio:


- può esserci una frattura dell’osso durante l’impianto della protesi, in quanto l’osso è fragile;
- la protesi si può poi mobilizzare nel tempo (mobilizzazione protesica settica o asettica): il paziente
lamenta dolore, l’osso si usura progressivamente e può fratturarsi (frattura periprotesica7 della com-
ponente acetabolare o femorale). Per minimizzare questo problema, in base al grado di osteoporosi
si decide che tipologia di protesi8 utilizzare:
o basso grado di osteoporosi ⇒ protesi non cementata (si integra direttamente con l’osso);
o alto grado di osteoporosi ⇒ protesi cementata

6 Per una trattazione più approfondita si rimanda alla lezione dedicata alla coxartrosi
7 Ovvero nel punto debole del sistema protesi-osso (punto di passaggio tra protesi e osso).
8 La protesi cementata ha una superficie liscia, quella non cementata ha una superficie reticolata e porosa, come se fosse formata

dalle trabecole dell’osso spongioso: l’osso cresce dentro la protesi e questa non è più rimovibile. Per rimuoverla bisogna aprire tutto
il femore nella sua lunghezza. Se la protesi non si è integrata basta sfilarla

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➢ delle fratture LATERALI
Si utilizza l’osteosintesi, che permette la guarigione completa, tramite l’utilizzo di:
- chiodo-placca;
- vite-placca a compressione;
- chiodo “gamma” (per la forma del chiodo a lettera
greca): si tratta di un inchiodamento intramidollare
applicato alle fratture metafisarie, con lo stesso risul-
tato che si ottiene quando è utilizzato nella frattura
diafisaria (tale metodica è infatti nata per risolvere
quest’ultimo tipo di fratture). L’intervento è a cielo
chiuso:
1. si fa una piccola incisione per via percutanea
per introdurre il chiodo endomidollare nella
diafisi,
2. su di esso si va a introdurre la vite cefalica che attraversa la frattura e fa presa sulla testa
del femore;
3. infine, per impedire le rotazioni, si applica una vite corticale trasversa che passa attraverso
l’imbuto del chiodo.

Domanda: “I chiodi si possono tenere o si devono togliere?”


Risposta: “I chiodi possono essere tenuti permanentemente, come normalmente avviene nel paziente anziano. Nell’in-
dividuo giovane, invece, è preferibile toglierli dopo circa 1 anno, perché i mezzi di sintesi utilizzati sono di titanio e
l’interfaccia tra le superfici genera uno scambio ionico che nel tempo porta a fondere le strutture impedendo di svitare
le viti. Nel paziente giovane il rischio di revisione rimane alto, dato che la distribuzione del carico può cambiare e
portare ad artrosi dell’anca nell’arco di 15-20 anni, dunque è preferibile toglierli.”

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Lezione 6 – parte 2 (fratture delle ossa lunghe)
Materia: Ortopedia e traumatologia
Appunti di: L.S.A.
Docente: G. Zarattini

6.B Fratture delle ossa lunghe

La frattura rappresenta la formazione di una soluzione di continuo, completa od incompleta, di un osso.


I meccanismi attraverso i quali si può creare una frattura sono:
- Traumi di tipo diretto (ad esempio un pedone investito che riporta una frattura di tibia). Queste fratture sono
tipicamente trasversali o comminute;
- Traumi di tipo indiretto (come il traumatismo torsionale, il quale si può verificare nello sciatore). Queste sono
di solito fratture spiroidi;
- Secondarismi di malattie dell’osso (osteoporosi, metastasi ossee da tumori primitivi di mammella, polmone e
prostata, i più coinvolti);
- Microtraumi ripetuti nel tempo: fratture da stress.

6.B.1 Classificazione
La classificazione delle fratture è essenziale sia per disporre di un “linguaggio comune” tra vari specialisti, che
per addentrarsi nella letteratura internazionale.

È importante distinguere tra:


o Fratture chiuse, nelle quali non vi è interruzione del mantello cutaneo;
o Fratture esposte, caratterizzate dalla fuoriuscita dell’osso dalla cute.

Il segmento osseo più suscettibile ad una frattura esposta è la tibia, dal momento che la stratigrafia della gamba a
quel livello consiste in cute e sottocute.
Per contro, molto più raro è avere fratture esposte a livello femorale, in virtù delle rappresentate masse muscolari;
in questa sede è possibile avere fratture esposte secondarie a traumi ad alta energia.

Esistono dei protocolli di trattamento delle fratture esposte, soprattutto dal punto di vista infettivologico, che spesso
non vengono applicati soprattutto in alcuni PS dove non è presente l’ortopedico. Una frattura esposta, infatti, non
deve essere ridotta, ma prima il paziente dovrebbe essere posto in anestesia generale e a quel punto si dovrebbe
spugnare l’osso.

Le fratture delle diafisi delle ossa lunghe sono classificate secondo la AO foundation, in tre tipologie:

• Tipo A, sono le fratture più semplici, suddivise nei 3 sottotipi A1, A2, A3.
Possono essere trasverse, oblique o spiroidi;
• Tipo B, anche loro ulteriormente divise in 3 sottotipi. Possono essere
composte o scomposte;
• Tipo C, caratterizzate dalla comminuzione dell’osso; sono fratture più
impegnative. Possono essere semplici, pluriframmentarie o comminute.

Una classe particolare di fratture, al limite della classificazione AO, è quella delle fratture-lussazioni, in cui
coesistono la frattura e la lussazione, ovvero la perdita dei rapporti articolari.

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6.B.2 Esame obiettivo
Può essere comune a più tipi di fratture diafisarie delle ossa lunghe; il corredo di segni e sintomi comprende:
- Dolore;
- Impotenza funzionale;
- Tumefazione;
- Variazione dei profili dell’osso;
- Sintomi secondari a complicanze.

Le complicanze più frequenti sono di carattere vascolo-nervoso (ad esempio, lesione del nervo radiale
secondaria a frattura diafisaria dell’omero).

Nel valutare un paziente affetto da frattura, ciò che costituisce la priorità è la valutazione delle lesioni
vascolo-nervose associate, in particolare quelle vascolari. Per fare ciò, è fondamentale valutare i polsi
arteriosi periferici (femorale, popliteo, tibiale posteriore e pedidio per l’arto inferiore) al fine di scongiurare
un potenziale danno ischemico irreversibile, il quale, se non trattato in emergenza, potrebbe esitare in
necrosi estesa con conseguente necessità di amputazione parziale o completa.
Bisogna altresì considerare le condizioni della cute, in quanto non è possibile attuare un trattamento
chirurgico e dunque un’incisione chirurgica in una zona cutanea lesionata.

6.B.3 Fratture dell’ARTO INFERIORE


Le fratture di gamba possono essere:
- Isolate (tibia o fibula);
- Biossee.
Questo è un aspetto importante da considerare quando si intende
eseguire una riduzione di frattura a cielo chiuso (mini-invasiva), la
quale può richiedere che venga effettuata un’osteotomia al fine di
rendere i segmenti ossei più maneggevoli e consentire così una
corretta riduzione.

Per quanto riguarda le fratture comminute, la letteratura è


controversa, in quanto sono fratture con una esposizione importante
e quindi ad elevato rischio infettivo, perciò alcuni autori suggeriscono
come opzione terapeutica l’amputazione, la quale permette di
ottenere una guarigione del moncone in 15-20 giorni; in caso
contrario, l’ipotetica guarigione della frattura necessiterebbe di
plurimi interventi chirurgici e di molto più tempo per restituire
autonomia al paziente, la quale non è affatto garantita, rendendosi
talvolta necessaria l’amputazione in un secondo momento.

Le fratture bifocali (a due livelli) hanno una prognosi peggiore, poiché


il tipo di lesione determina l’interruzione dell’apporto vascolare con
conseguente guarigione difficoltosa/inefficace.

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Le deformità sono causate dalle inserzioni muscolari. Ad esempio,
in una frattura del terzo prossimale del femore il muscolo medio
gluteo, che trova inserzione sul grande trocantere, piuttosto che
gli adduttori, aventi inserzione a vari livelli della linea aspra della
diafisi femorale, possono determinare un atteggiamento
patologico dell’arto inferiore.
Un altro fattore è rappresentato dalla posizione del paziente sul
letto, anch’essa in grado di generare deformità dell’arto.

Le fratture da stress sono un tipo di lesione riscontrata inizialmente nei Marines americani, quando in questi
soggetti, dopo ore di marcia, comparvero dolori insoliti che non si risolvevano.
Il docente racconta di avere visitato una giovane donna, insegnante di ginnastica aerobica, la quale lamentava
dolore persistente alla gamba. La radiografia era apparentemente negativa, mentre in seguito all’esecuzione
di una scintigrafia ossea si evidenziò una frattura da stress della tibia, successivamente confermata dalla
radiografia. Un altro caso riportato dal professore è quello di un giovane uomo di 30 anni, il quale riferiva
dolore importante a livello dell’avampiede. Esami RX e TC negativi, mentre alla RM si osservò una frattura da
stress.
Lesioni di questo tipo necessitano di riposo ed eventualmente immobilizzazione.

6.B.4 Principi di trattamento


Nel trattare una frattura, si deve ottenere una consolidazione della stessa, priva di deformità, mantenendo
una funzione articolare il più possibile simile a quella precedente il trauma.
Per quanto concerne la consolidazione, la frattura deve essere stabilizzata. Esistono due teorie in merito:
- Immobilizzazione completa;
- Immobilizzazione associata a sollecitazioni meccaniche, le quali favoriscono la formazione del callo
osseo.

Ciò che si tende a fare è dunque stabilizzare la frattura, concedendo sollecitazioni in rapporto alla solidità
della sintesi e/o al grado di evoluzione dei processi riparativi. Questi parametri dipendono dai seguenti
fattori:
- Età;
- Condizioni cliniche;
- Tipologia di frattura;
- Disponibilità di tecnologie per trattare la frattura.

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Le fratture possono subire due tipi di trattamento:
- Conservativo;
- Chirurgico.

➢ Trattamento conservativo
La prima fase consiste nella riduzione, finalizzata a riportare in sede i capi di
frattura. Può essere eseguita in due modalità principali:
- Manuale, tipica nel caso di frattura di polso dove si esercita una
trazione volta a riportare in sede il frammento;
- Strumentale, la quale a sua volta può essere estemporanea piuttosto
che progressiva.

La riduzione progressiva viene ottenuta attraverso la trazione trans-scheletrica.


Tale metodica è abbastanza datata, e permette di ottenere una riduzione graduale, nel giro di qualche giorno.
Ormai è raramente utilizzata, ma trova frequente applicazione in ambito pediatrico, dove si riesce ad
ottenere una riduzione anatomica corretta.
Può essere eseguita tramite filo trans-scheletrico oppure cerotto, soprattutto in bambini ed anziani.

La seconda fase è la contenzione, ottenuta attraverso l’apparecchio gessato. Quest’ultimo può includere o
meno anche la trazione.
Il confezionamento dell’apparecchio gessato è considerato a tutti gli effetti un atto medico, dunque è
fondamentale che vi sia la sorveglianza clinica dopo il posizionamento.
Dopo il confezionamento, il paziente viene posizionato in modo tale che il segmento interessato sia in
posizione anti-declive per almeno 48 h, onde evitare lo svilupparsi di una potenziale sindrome
compartimentale.

La terza fase è la rieducazione, tendenzialmente iniziata subito dopo la rimozione dell’apparecchio gessato.

➢ Trattamento chirurgico
Presenta gli stessi step, ma con sostanziali differenze.
La riduzione può essere effettuata:
- Manualmente, in modo simile al trattamento conservativo;
- A cielo aperto, con esposizione chirurgica del focolaio di frattura e successivo posizionamento di mezzi
di sintesi.

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La contenzione può consistere in:
- Fissazione interna, attraverso l’impianto di chiodo endomidollare piuttosto che di placca e viti;
- Fissazione esterna, indicata in particolare per le fratture esposte.

Considerando che in una frattura esposta il focolaio di frattura è potenzialmente infetto, il fissatore esterno
consente di bypassare la zona più a rischio di contaminazione per direzionare “a ponte” i mezzi di sintesi.
In particolari fratture esposte, si procede posizionando in urgenza il fissatore esterno, per poi procedere con
una sintesi definitiva solo se gli esami ematochimici escludono la presenza di infezione e se le condizioni
cliniche del paziente lo consentono.

Il grande vantaggio del trattamento chirurgico riguarda la rieducazione.


Infatti, la rieducazione in un paziente trattato con osteosintesi è
concomitante alla contenzione, e questo permette al paziente di mobilizzare
già il giorno successivo l’intervento le articolazioni a monte ed a valle del
segmento osseo fratturato, consentendo il mantenimento di una buona
escursione articolare.
Per contro, se si trattasse in modo conservativo una frattura di gamba,
sarebbe necessario immobilizzare l’articolazione del ginocchio e la tibio-
tarsica; considerando che una frattura di tibia richiede un tempo di guarigione
di circa 4-5 mesi, una volta rimosso l’apparecchio gessato si manifesterebbe
un grave deficit articolare e muscolare.

6.B.5 Fratture dell’OMERO


Considerando una frattura diafisaria dell’omero, all’esame obiettivo è evidente un’alterazione del profilo
osseo, con la porzione prossimale atteggiata in abduzione secondariamente all’attivazione dei muscoli della
cuffia dei rotatori, e la parte distale medializzata dall’attivazione del muscolo grande pettorale.

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In una frattura dell’omero è fondamentale valutare il livello di lesione, in quanto adeso all’omero decorre il
nervo radiale, e tipicamente nelle fratture del terzo medio distale dell’omero si riscontra una lesione di tale
struttura, che può avvenire a seguito di:
- Contusione diretta;
- Flessione;
- Torsione;
- Sezione (evenienza piuttosto rara);
- Stiramento o compressione da parte dell’ematoma che si risolvono spontaneamente in 4-6 mesi.
Il paziente con lesione del nervo radiale si presenta con la “mano cadente”, venendo meno l’innervazione dei
muscoli estensori del polso.

Il trattamento moderno è chirurgico, e differisce in base alla presenza/assenza di lesioni nervose:


- In assenza di lesioni nervose, il trattamento di scelta per una frattura trasversa dell’omero è
l’inchiodamento endomidollare, che consente di avere una minima esposizione chirurgica. Il chiodo
viene fissato sia a livello prossimale che distale con viti per garantire una maggiore stabilità;

- In presenza di lesioni nervose, è necessario effettuare un intervento più aggressivo, ovvero


un’osteosintesi con placca e viti. In questo caso infatti si deve procedere alla pulizia del nervo radiale,
il quale spesso è compromesso dalla presenza di un ematoma che ne determina la paralisi.

L’osteosintesi con placca ha alcuni inconvenienti rispetto al chiodo endomidollare:


- Accesso chirurgico largo;
- Devascolarizzazione dei frammenti;

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- Esposizione del nervo radiale;
- Ritardo di consolidazione.

L’obiettivo finale del trattamento è la formazione del callo osseo.

6.B.6 Complicanze delle fratture delle ossa lunghe


Le fratture non sempre guariscono. Ci sono fattori che possono interferire con la corretta guarigione:
- Età del paziente. I pazienti giovani (pediatrici) hanno generalmente una buona consolidazione,
mentre i pazienti di mezza età (50 anni) mostrano pressoché la medesima probabilità di guarigione
di un paziente 90enne;
- Esposizione cutanea, la quale determina la mancata persistenza dell’ematoma e quindi una maggiore
difficoltà di guarigione (l’ematoma infatti rappresenta un elemento chiave per la formazione del callo
osseo);
- Immobilizzazione insufficiente (mancata stabilizzazione della frattura);
- Interposizione di strutture muscolari;
- Infezioni.

Tutto ciò è particolarmente vero riguardo le fratture esposte, le quali appunto mostrano una prognosi di
guarigione piuttosto scarsa. Ovviamente, il grado di esposizione influenza in modo importante la prognosi.

Ad ogni modo, quando una frattura non guarisce si presentano due possibili scenari:
- Ritardo di consolidazione: in questo caso è possibile intervenire modificando i carichi, dinamizzando
determinati mezzi di sintesi oppure con la magnetoterapia;

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- Pseudoartrosi: l’OMS ha stabilito che si può parlare di questa condizione quando una frattura, dopo
essere stata sottoposta a tutti i possibili trattamenti, non sia arrivata a consolidazione nell’arco
temporale di 9 mesi.

La radiografia è la metodica che fornisce i dati più significativi, ed in caso di pseudoartrosi è possibile notare
la persistenza della rima di frattura, la quale può essere associata, a seconda dei diversi casi, a:
- Evidente attività metabolica dei segmenti a monte ed a valle della rima, indice del tentativo inefficace
di guarigione della lesione, quindi una pseudoartrosi ipertrofica;
- Assenza dei processi riparativi, definendo un quadro di pseudoartrosi atrofica.
Il gold standard del trattamento della pseudoartrosi consiste nella rimozione del tessuto fibroso dal focolaio,
nel prelievo di tessuto osseo dalla cresta iliaca, nel successivo innesto osseo e nell’esecuzione di una nuova
osteosintesi. Nel 95% circa dei casi i risultati sono positivi.

Le complicanze delle fratture di ossa lunghe possono essere di tipo:


- Ortopedico, come la formazione di un callo vizioso (vedi immagini a fine sbobina), la presenza di
deformità, l’insorgenza di algodistrofia (morbo di Sudek);
- Generale, le maggiormente temibili, sono rappresentate dalla trombosi venosa profonda, la quale
può evolvere in embolia polmonare, e lo sviluppo di embolia grassosa, soprattutto nel caso di fratture
della diafisi femorale, con conseguente potenziale deficit neurologico.
Possono esserci anche complicanze da errore chirurgico, che devono essere corrette. Tipicamente, si procede
con interventi di osteotomia di vario tipo (di addizione, di sottrazione, valgizzante, varizzante, ecc.) a seconda
della deformità da trattare.

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Ex Lezione 4 del 01/04/2019
Sbobinatore: R.C.
Docente: Prof. Giuseppe Milano
Argomenti: Lesioni capsulo-legamentose del ginocchio

7. TRAUMATOLOGIA ARTICOLARE
La gran parte delle articolazioni che presentano una grande stabilità intrinseca (data dalla congruenza delle
superfici articolari) a seguito di un trauma non subisce una vera lussazione, ma va incontro a lesioni
legamentose.
Il ginocchio, per esempio, presenta una grande quantità di strutture che impediscono una lussazione
completa, a meno che tutte vengano lesionate (molto raro). A seguito di eventi traumatici, infatti, si assiste
a lesioni solamente di alcune strutture, ma il ginocchio che rimane in sede. Tuttavia, poiché le strutture
subiscono una fase di deformazione plastica prima di rompersi, è possibile che durante il processo di
guarigione si venga a formare una cicatrice serrata che compensa la lassità che si era venuta a creare nel
legamento. Non si avrà mai una restitutio ad integrum ma il legamento riparato sarà costituito da tessuto
cicatriziale.
La spalla, invece, ha scarsa stabilità di posizione e può quindi lussarsi.

7.1 Lesioni capsulo-legamentose del GINOCCHIO

Il ginocchio è un’articolazione che possiede grande stabilità


intrinseca grazie alla presenza di stabilizzatori passivi, cioè
strutture che garantiscono la cinematica articolare in
assenza di carico (legamenti, capsula, menischi, geometria
articolare, cartilagini articolari), e di stabilizzatori attivi che
garantiscono la cinetica articolare (muscoli).
Nel ginocchio, differentemente da tutte le altre
articolazioni, è peculiare la presenza di due legamenti
all’interno dell’articolazione: i legamenti crociati anteriore
e posteriore.

I menischi hanno una struttura a sezione cuneiforme, più piatta sul versante tibiale e più concava sul versante
femorale, per compensare e aumentare la congruenza tra i raggi di curvatura delle superfici ossee di tibia e
femore, in modo che il carico si distribuisca su tutta la superficie.
Infatti, quando si fa un intervento di meniscectomia, si hanno
incrementi di carico nella zona di contatto tra tibia e femore di
300 volte. I menischi hanno quindi la funzione di assorbire e
distribuire i carichi, aumentare la congruenza articolare e
permettere la lubrificazione.

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Il menisco è composto, come tutti i tessuti connettivi, da acqua, proteoglicani e collagene; quest’ultimo però
a differenza di quello presente nel tessuto fibroso (capsulare e legamentoso), che è formato
prevalentemente da collagene di tipo I, e di quello presente nel tessuto cartilagineo, che è formato
prevalentemente da collagene di tipo II, è costituito in ugual misura sia da collagene di tipo I che di tipo II ed
è chiamato anche fibrocartilagine. Inoltre, ha la particolarità di essere vascolarizzato parzialmente, con i vasi
distribuiti solo in alcune zone, a differenza della cartilagine articolare che non è vascolarizzata.
Il menisco può essere suddiviso in tre zone: corno anteriore, corpo e corno posteriore.

È importante ricordare che i menischi sono presenti in ogni articolazione, sono particolarmente conosciuti quelli del ginocchio ma
non sono presenti solo in questa sede.

7.1.A Lesioni meniscali

Le lesioni meniscali del ginocchio avvengono per combinazione di forze di torsione e compressione e si
riscontrano frequentemente nei traumi sportivi. I meccanismi che causano la lesione sono:
- valgo rotazione esterna: lesione con piede fermo sul terreno di gioco e cambio di direzione dato dal
movimento del corpo verso l’interno: si parla di extrarotazione del piede. Causa danno soprattutto al
menisco interno e al legamento collaterale mediale;
- varo rotazione interna: lesione con piede fermo sul terreno di gioco e cambio di direzione dato dal
movimento del corpo verso l’esterno: si parla di intrarotazione del piede. Causa danno soprattutto al
menisco esterno e al legamento collaterale laterale;
- iperflessione;
- iperestensione.
Esistono anche lesioni degenerative patologiche, che sono la maggioranza, date da un movimento banale o
talvolta anche senza alcun tipo di causa scatenante: il menisco si è indebolito con il passare degli anni e si
rompe perché non sopporta più il peso del corpo. Non sono lesioni traumatiche perché non sono correlate
ad un evento.

Le lesioni meniscali hanno morfologia diversa:


- longitudinale: la lesione segue l’asse maggiore del
menisco, con creazione di una fessura; spesso interessa
il corno posteriore;
- a lembo: “flap" mobile che si crea normalmente a
seguito di una lesione longitudinale, con completo
distaccamento di una porzione;
- a manico di secchia (o secchio): la lesione coinvolge
tutto il menisco lungo il suo asse maggiore, la fessura si
apre e la parte più interna si ribalta, come a formare un
manico di un secchio
- radiale: la fessura si trova lungo l’asse minore
- orizzontale: divide il menisco in una porzione superiore
e una inferiore
- complessa: combinazioni di più lesioni, tipica delle
lesioni meniscali degenerative

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7.1.A.1 Diagnosi
La diagnosi è prevalentemente clinica.
All’anamnesi il paziente descrive il movimento che ha determinato il trauma distorsivo, con forte dolore
associato. Se non c’è stato dolore acuto è improbabile che la lesione sia di natura traumatica ed è possibile,
durante la visita, usare alcuni test dolorifici in grado di evocare il dolore da danno meniscale.
Il paziente riferisce inoltre episodi di blocco articolare, sensazione di cedimento del ginocchio, sensazione di
scroscio interna al ginocchio.
La lesione meniscale dà inoltre versamento articolare costituito solo da liquido sinoviale, chiamato idrarto,
rilevabile durante l’esame obiettivo.

I test clinici per evocare il dolore dato dal frammento mobile del menisco (cioè
che valutano la dolorabilità) consistono in movimenti di compressione,
rotazione e palpazione della rima articolare.
È possibile inoltre eseguire il test dell’iperflessione e il test di McMurray: il
paziente è supino, l’esaminatore ferma con una mano il tallone e con l’altra
mano sostiene la parte inferiore del ginocchio, cercando di far estendere
completamente il ginocchio mentre ruota la tibia prima verso l’interno poi
verso l’esterno. Se i test sono negativi la probabilità di lesione meniscale è
bassa.

Si ricorre poi alla diagnosi strumentale.


L’RX standard non è un esame di primo livello, ma serve più per escludere altre patologie come un’artrosi al
ginocchio, che può essere stata la causa scatenante della lesione meniscale.
Se la radiografia è negativa ma si ha sintomatologia acuta da trauma recente è necessario eseguire una RMN
(non si usa né l’ecografia, né la TC che non hanno utilità) ed eventualmente l’artroscopia, con un’accuratezza
diagnostica del 100%, che tuttavia non dovrebbe essere usata solo a scopo diagnostico ma, a seguito di un
tempo diagnostico iniziale, per il trattamento terapeutico.

7.1.A.2 Trattamento
L’evoluzione del danno e il tipo di trattamento cambiano a seconda della localizzazione della lesione.
Il menisco è parzialmente vascolarizzato a partire dalla capsula che è situata in periferia. I vasi entrano solo
nel terzo periferico. Perciò il menisco può essere diviso dal punto di vista della vascolarizzazione in tre zone:
1. una zona rossa vicino alla capsula con vasi ben rappresentati, che a seguito di una lesione ha alta
probabilità di cicatrizzazione;

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2. una zona rosso-bianca in cui la vascolarizzazione è esigua e contiene le porzioni terminali dei vasi;
3. una zona bianca più vicina al centro del ginocchio, non vascolarizzata e senza probabilità di
guarigione.

Il trattamento cambia anche a seconda della morfologia della lesione.


Nella lesione a flap, estremamente instabile, la guarigione è bassa. È meglio eliminare il frammento.
Nella lesione longitudinale bisogna fare un ragionamento anatomico meccanico: i legamenti e i tendini sono
sottoposti a forze di trazione, quindi le loro fibre collagene sono disposte tutte in senso longitudinale;
l’osso è sottoposto a forze di compressione quindi le fibre sono disposte in senso longitudinale. Anche la
struttura del menisco ha un’architettura che obbedisce alle forze a cui è sottoposto: è costituito da fibre
disposte in modo da rispondere a carichi di compressione e torsione che agiscono contemporaneamente su
di esso, perciò ha un network fibrillare costituito da un pattern di fibre longitudinali e un pattern di fibre
radiali.
Le fibre longitudinali sono le più importanti perché permettono di trasmettere il carico su una superficie più
ampia possibile, per evitare di avere picchi di forza e conseguentemente l’usura della cartilagine sottostante.
Nella lesione longitudinale vengono rotte le fibre radiali perciò la lesione è meno grave. Anche se si rimuove
una porzione di menisco tramite meniscectomia (ritagliandolo e dandogli la forma semilunare) non si
compromette la funzione della restante porzione del menisco.
Nella lesione radiale tutto il sistema delle fibre longitudinali viene interrotto e il menisco perde
completamente la sua funzione. Per questo motivo, in seguito a lesione radiale, più che eliminare la porzione
lesionata si deve cercare di riparare, anche se con basse probabilità di guarigione.
Tuttavia, se la lesione longitudinale o radiale è vicina alla capsula che è vascolarizzata, bisogna cercare di
ripararla (e non eliminarla) per evitare lo sviluppo di artrosi con una meniscectomia subtotale.

Nella storia dell’ortopedia ci sono stati tre eventi importanti: la scoperta della terapia antibiotica, la terapia anti TBC e l’artroscopia.

Tipologie di meniscectomia:
- meniscectomia totale, oggi non viene più eseguita perché causa sviluppo precoce di artrosi, e in
pazienti giovani questo non è accettabile
- meniscectomia selettiva quando il ginocchio è talmente danneggiato da non poter essere peggiorato
con l’intervento
- sutura meniscale utilizzata nel 20% dei casi (ma alcuni chirurghi riescono ad usarla nel 50% dei casi)

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- trapianto meniscale a cui si ricorre se non è possibile riparare il menisco tramite sutura e se la
meniscectomia ampia ha determinato l’insorgenza di una sintomatologia dolorosa che predispone
allo sviluppo di artrosi. Da un donatore si prende un menisco che viene congelato e che ha dimensioni
congruenti a quello del ricevente e si impianta tramite artroscopia. I risultati sono ottimi perché non
si hanno reazioni immunitarie, in quanto gli antigeni di istocompatibilità sono immersi nella matrice,
per cui non è necessaria la terapia immunosoppressiva, sono disponibili un gran numero di donatori
e potendo congelare il campione è possibile fare gli screening adeguati per evitare qualsiasi tipo di
complicanza intra e post-operatoria. L’intervento di trapianto meniscale deve essere fatto prima che
il compartimento abbia avuto un’evoluzione artrosica e dopo che tutte le concause di evoluzione
artrosica siano state escluse o trattate, ripristinando il compartimento e neutralizzando eventuali
sovraccarichi.

7.1.B Lesioni delle strutture legamentose

I legamenti collaterale mediale, collaterale laterale, crociato anteriore e crociato posteriore governano la
lassità e stabilizzano il ginocchio sul piano coronale e sagittale. La stabilizzazione della rotazione (sul piano
assiale) invece avviene a livello dei punti intermedi di queste strutture.
La stabilità totale del ginocchio è data quindi dalla stabilità posteriore, anteriore, laterale, mediale e dalle
loro combinazioni postero-laterale, postero-mediale, antero-laterale e antero-mediale (minima).

Ogni struttura legamentosa ha una duplice o triplice funzione e governa il movimento in una specifica
direzione, ma aiuta la stabilizzazione in minima parte anche nelle altre direzioni: ciascun legamento
governa prevalentemente come stabilizzatore primario la stabilità del ginocchio in una direzione, ma
agisce anche da stabilizzatore secondario, vicariante, in un’altra direzione e la sua azione si esplica solo
quando il primario si rompe.

Per esempio: il crociato anteriore è stabilizzatore primario del compartimento anteriore e stabilizzatore
secondario della stabilità mediale. Il collaterale mediale è stabilizzatore primario della stabilità mediale
del ginocchio e secondario della stabilità anteriore. Se ci dovesse essere una lesione del crociato anteriore,
la stabilità anteriore verrebbe garantita dal collaterale mediale e viceversa.
Lo stesso ragionamento si applica a tutte le altre strutture.

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7.1.B.1 Classificazione delle lesioni
Le lesioni legamentose si classificano in tre gradi:
- Lesione I grado: stiramento delle fibre che non perdono la loro continuità;
- Lesione II grado: parziale interruzione di alcune fibre del legamento;
- Lesione di III grado: rottura completa di un legamento.
Ad ognuno di questi gradi corrisponde un grado di lassità e un trattamento diverso. Lesioni di grado I e II
“guariscono” autonomamente con formazione di tessuto cicatriziale permanente, che è abbastanza rigido da
simulare il comportamento meccanico del legamento originale.

➢ Legamento collaterale mediale


Il legamento collaterale mediale decorre lungo la faccia mediale del
ginocchio con origine sull’epicondilo mediale del femore e termine sul
condilo mediale della tibia; controlla la stabilità dei movimenti in valgo,
in cui la parte mediale del ginocchio viene messa sotto tensione e li limita.
I traumi secondari a movimenti in valgo possono quindi provocare una
rottura del collaterale mediale.
La scelta del trattamento conservativo rispetto a quello chirurgico
dipende dal grado della lesione, ma è raro che le rotture isolate del legamento collaterale mediale necessitino
di un intervento; se però sono combinate con uno strappo del legamento crociato anteriore o posteriore,
allora diverrà necessaria la ricostruzione chirurgica.

➢ Legamento collaterale laterale


Il legamento collaterale laterale decorre lungo la faccia laterale del ginocchio con
origine sull’epicondilo laterale del femore e termine in corrispondenza della testa del
perone. Controlla la stabilità in varo, e la lesione è secondaria ad un trauma diretto in
varo (piede fermo e intrarotazione della tibia rispetto al femore – si indica il
movimento del segmento distale rispetto al prossimale).
A differenza delle lesioni del mediale, quelle del laterale hanno conseguenze più gravi
e non si riparano spontaneamente, perché il ginocchio ha un movimento di rotazione
spontaneo, che fa perno sul compartimento mediale che resta fisso; ruota solo la
parte esterna, quindi se c’è una lesione ogni volta che si fa un movimento questa viene sollecitata e non
guarisce.
Il trattamento è, quindi, solitamente chirurgico di tipo riparativo se si interviene dopo poche settimane dal
trauma, di tipo ricostruttivo se si agisce tardivamente, e si utilizzano tendini presi da altre parti del corpo che
sostituiscano il legamento lesionato.

➢ Legamento crociato anteriore


Il legamento crociato anteriore controlla la stabilità anteriore e limita la traslazione anteriore della tibia
rispetto al femore. Il LCA è collocato in sede intracapsulare ma extra-articolare, in quanto la membrana
sinoviale forma una doccia a concavità posteriore che accoglie entrambi i legamenti crociati (che sono quindi
a contatto con la superficie esterna della sinoviale ma al di fuori della cavità articolare). Origina dall'area
triangolare anteriore dinnanzi all'eminenza intercondiloidea della tibia e si inserisce postero-superiormente a
livello del condilo femorale laterale.

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Responsabili della lesione di questa struttura sono azioni combinate come:
• la valgo rotazione esterna, la più frequente perché è il movimento più
naturale che facciamo dopo che si è lesionato il collaterale mediale;
• la varo rotazione interna, più raro, dopo che si è lesionato il
collaterale laterale;
• l’iperestensione;
• l’iperflessione.

La lesione del crociato anteriore viene diagnosticata clinicamente.


Nella fase acuta il paziente riporta storia clinica di distorsione durante pratica
sportiva, con dolore violento, rumore di schiocco articolare, cedimento (il dolore provoca un’inibizione
riflessa del quadricipite e la persona cade a terra), deficit estensorio (il versamento tende a riempire il
ginocchio, facendo sì che il ginocchio assuma una posizione naturale a 20 gradi tale da accogliere più liquido
possibile, per evitare un aumento di pressione intrarticolare - e in questa posizione fa meno male), impotenza
funzionale.
All’esame obiettivo è possibile osservare una tumefazione del ginocchio con sanguinamento (emartro,
visibile in artroscopia e diagnostico) e lassità anteriore, difficile da valutare in acuto per impossibilità ad
eseguire esami valutativi nel paziente dolorante.
È importante eseguire l’artrocentesi quando arriva un paziente in PS con una clinica simile (ginocchio gonfio)
per poter fare rapidamente diagnosi grazie all’aspetto del versamento.
Altre due sono le lesioni del ginocchio che possono provocare emartro: una lesione meniscale periferica,
dove ci sono i vasi, e una frattura osteocondrale.

NB: la lassità è un segno obiettivo, valutabile tramite visita ortopedica. Non è sempre segno di patologia
perché esistono soggetti con lassità legamentosa generalizzata costituzionale.
L’instabilità è invece un sintomo riferito dal soggetto e non può essere oggettivata.

Il dolore in realtà non è legato alla lesione del crociato anteriore, ma molte volte è legato a quello che il
trauma ha provocato, quindi alle lesioni meniscali, alle contusioni ossee e all’edema.

Per completare la diagnosi vengono in aiuto vari test clinici, tra cui il più antico è il test del cassetto anteriore:
il paziente è in posizione supina con il ginocchio flesso a 70/90 gradi, si applica una trazione in avanti della
tibia. In presenza di una lesione del crociato anteriore si avverte lo spostamento in avanti della tibia, a causa
della mancanza della funzione di stabilizzazione del crociato, che normalmente si opporrebbe a questa
traslazione.
Non è diagnostico perché può essere negativo nonostante la presenza di lesione (soprattutto se recente) e
normalmente si positivizza quando c’è la rottura anche di altre strutture, soprattutto del corno posteriore
del menisco mediale.
Il test più attendibile per la lesione del crociato anteriore, con alta sensibilità e
specificità, è il test di Lachman (se il test è positivo il crociato anteriore è
sicuramente rotto e se il crociato anteriore è rotto il test è sicuramente positivo).
La procedura è la stessa del test del cassetto anteriore ma il ginocchio è messo a
20 gradi di flessione, posizione in cui il crociato anteriore esplica la maggiore forza
di opposizione alla traslazione anteriore della tibia. Si afferra con una mano il
femore e con l’altra la tibia e si tira la tibia in avanti.

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Poiché il crociato anteriore si comporta da stabilizzatore secondario dei movimenti mediali, la lesione
provoca anche un’eccessiva rotazione della tibia rispetto al femore. I test dinamici che valutano la rotazione
sono il Pivot Shift e il Jerk Test.
Pivot shift: Il paziente giace supino, l’esaminatore solleva l’arto da testare con la mano che impugna la caviglia, si
intraruota la tibia e con l’altra mano si forza dolcemente il ginocchio in valgo. Quando il ginocchio viene sollevato, per
la forza di gravità il femore si porterà posteriormente, l’assenza del LCA farà sub-lussare il piatto tibiale laterale
relativamente in avanti e in intrarotazione.

Jerk test: rappresenta il Pivot Shift rovesciato. Si esegue con il paziente e l’esaminatore nella stessa posizione del test
precedente, solo che questa volta si parte con il ginocchio flesso a 90° e lentamente si estende. Al momento del
passaggio della fascia lata sul condilo (30°) si assiste alla sub-lussazione del piatto tibiale.

Se sono positivi difficilmente la lesione è isolata e si devono ricercare altre alterazioni. Il Pivot shift positivo
è indicativo di lesione del crociato anteriore e del compartimento antero-laterale.

Per la diagnosi strumentale si utilizza, come esame di primo livello, la RMN che mostra il decorso del
legamento. La radiografia standard serve per evidenziare fratture associate, e l’artroscopia non viene quasi
mai usata solamente a scopo diagnostico, ma a scopo diagnostico-terapeutico.

Le prime due immagini mostrano il normale decorso del legamento crociato anteriore (in blu si vede anche parte del legamento
crociato posteriore); le due successive, invece, evidenziano come le fibre del ACL, normalmente parallele alla linea gialla (di
Blumensaat) sono completamente disomogenee e discontinue.

Il trattamento chirurgico è di tipo ricostruttivo perché il crociato anteriore non si può riparare
spontaneamente (a differenza delle lesioni del legamento collaterale mediale che possono cicatrizzare), dal
momento che la struttura è immersa nel liquido sinoviale che impedisce la formazione di cicatrici.

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Inoltre, quando il legamento si rompe, i due monconi del legamento si allontanano l’uno dall’altro ed è
difficile riavvicinarli.
La ricostruzione avviene in artroscopia, con l’utilizzo di strutture tendinee prelevate dal paziente stesso o da
donatore. La struttura tendinea utilizzata può essere:
- tendine rotuleo autologo: fino a 10 anni fa era il più utilizzato, ma oggi è usato solamente in atleti
che fanno sport da contatto con alto rischio di trauma. In questi atleti si preferisce usare il terzo
centrale del tendine rotuleo, che dalla rotula si porta alla tuberosità tibiale, perché si preleva anche
una porzione di osso (osso-tendine-osso). C’è un’integrazione osso-osso, più solida e che guarisce
prima. Tuttavia, si usa in una minoranza di casi perché, togliendo il tendine che governa l’apparato
estensore ed un pezzo di rotula, si può compromettere la superficie articolare, esponendola ad un
maggior rischio di frattura. La morbilità di questo intervento è superiore a quella osservata con
l’utilizzo del tendine semitendinoso e gracile. Si ha maggior stabilità, ma maggior rischio di dolore
post-operatorio soprattutto in pazienti che fanno sport di salto.
- tendine semitendinoso e gracile autologhi duplicati (il più utilizzato). Sono tendini flessori che si
trovano sul versante mediale della coscia, con inserzione prossimale sull’ischio e inserzione distale
sulla tibia. Vengono staccati dalla loro inserzione sulla tibia, viene fatto uno strip per sfilarli
dall’inserzione prossimale, vengono piegati in modo da formare quattro fasci e posizionati all’interno
di due tunnel nell’osso, lungo il decorso originale del legamento e vengono fissati con delle viti.
- allograft tendineo con trapianto da donatore, quando il paziente ha età avanzata e la qualità dei
tendini è bassa perché il tessuto si è irrigidito, oppure quando è necessaria una ricostruzione multi-
legamentosa per intervenire su più strutture lesionate.
- materiali sintetici molto più usati in passato, ma abbandonati perché si rompevano facilmente e
davano reazioni da corpo estraneo.

Questi trattamenti non devono essere fatti in fase acuta (prime 3 settimane) - perché aumenta il rischio di
rigidità post-operatoria in quanto si scatena una risposta infiammatoria inizialmente secondaria al trauma e
poi all’intervento, per cui la fase di riabilitazione è più complicata - ma non si deve aspettare oltre le 8
settimane. Infatti, quanto più si ritarda l’intervento tanto più il paziente svilupperà uno schema neuro-
motorio di instabilità e protezione del ginocchio che gli permette, nonostante la lesione, di evitare distorsioni
e cedimenti. Il paziente potrebbe non volersi sottoporre all’intervento per paura di un peggioramento della
condizione articolare a seguito della ricostruzione, e per l’incapacità di adattarsi al nuovo quadro.
Quando il paziente atleta professionista torna in campo dopo la ricostruzione si può avere il caso estremo di
paura del campo (kinesiofobia) o un quadro meno grave in cui però la performance si riduce.
L’intervento dovrebbe quindi essere fatto nella fase subacuta: dopo la fase acuta e prima della fase cronica,
che comincia dopo 8 settimane dalla lesione.
Dopo 2 anni dal trauma, il ginocchio sviluppa un danno cartilagineo artrosico di instabilità, per cui l’intervento
potrà essere comunque fatto per riportare la stabilità, ma l’artrosi non potrà essere corretta.
Le ginocchia ricostruite hanno un risultato migliore in termini di prevenzione dell’artrosi se insieme alla
ricostruzione legamentosa si associa anche la riparazione di tutte le altre strutture alterate (se il menisco è
alterato, se c’è un varo o un valgo questi vanno corretti).
Poiché le lesioni capsulo-legamentose del ginocchio sono estremamente frequenti, sarebbe meglio fare
prevenzione e, a tal riguardo, sono in corso numerosi studi epidemiologici con lo scopo di creare schemi
motori da seguire per evitare traumi, soprattutto per le atlete - che sono più a rischio degli atleti - e per chi
gioca su terreni ad alto attrito.

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➢ Legamento crociato posteriore
Il legamento crociato posteriore decorre dalla faccia mediale della gola intercondiloidea alla faccia posteriore
della tibia; controlla la stabilità posteriore limitando la traslazione posteriore della tibia rispetto al femore.

Una sua lesione (più subdola rispetto a quella del crociato anteriore, che
molte volte non causa emartro) è provocata da un trauma anteriore,
cioè dal davanti all’indietro, diretto, soprattutto quando il ginocchio è
flesso (trauma da cruscotto, tipico degli incidenti stradali), da
iperestensione o iperflessione, che è una lesione tipica dei portieri.

La diagnosi avviene tramite l’utilizzo di manovre semeiologiche come il test del cassetto posteriore, test
diagnostico per eccellenza, eseguito a 70-90 gradi di flessione, posizione in cui il crociato posteriore esplica
la maggiore forza di opposizione alla traslazione.
Altri test utilizzati sono il test di gravità e il reverse pivot shift.
La diagnosi strumentale avviene tramite RMN e RX sotto stress eseguendo il test del cassetto posteriore.
La radiografia viene ripetuta due volte: la prima volta si misura la distanza tra il bordo posteriore della tibia
e il condilo posteriore, poi si esegue il cassetto posteriore con spostamento posteriore della tibia e si fa di
nuovo la misurazione. La differenza tra le due distanze indica di quanti millimetri si sublussa indietro la tibia
rispetto al femore. Questa informazione è importante perché:
- una lesione isolata del crociato posteriore che determini una lassità posteriore minore di 10 mm non
necessita di trattamento chirurgico ma guarisce autonomamente;
- invece una lassità posteriore maggiore di 10 mm necessita di ricostruzione.

Il crociato posteriore, differentemente da quello anteriore, può guarire autonomamente per la posizione
anatomica in cui si trova. La membrana sinoviale riveste l’interno dell’articolazione ma lascia il crociato
posteriore in posizione retrosinoviale, che risulta quindi essere intrarticolare ma extrasinoviale e, non
essendo a contatto con il liquido sinoviale, può guarire se messo nelle condizioni adatte. Se il ginocchio viene
immobilizzato in cassetto anteriore in una posizione in cui il legamento crociato rimane lasso, ovvero tra 0 e
70 gradi, si può avere guarigione.
Esistono ginocchiere che permettono di mantenere questa posizione, creando una spinta sulla tibia da dietro
in avanti che, se portate per almeno sei mesi, determinano la guarigione della lesione isolata del crociato
posteriore.
Si crea una problematica quando la lesione non viene diagnosticata precocemente perché non dà
sintomatologia di instabilità e viene lasciata cronicizzare. Il paziente riprende l’attività sportiva senza che la
performance ne risenta, ma la storia naturale della malattia porta allo sviluppo di artrosi da perdita della
corretta cinematica articolare.
Se la lassità posteriore è superiore a 10 mm la lesione non è più isolata ma combinata con altre lesioni che
coinvolgono nella quasi totalità dei casi il compartimento postero-laterale. Il paziente presenta
sintomatologia evidente (non riesce a camminare perché il ginocchio si apre in varo) e instabilità articolare
per cui la diagnosi viene fatta precocemente. È necessaria una ricostruzione chirurgica di tutte le strutture
legamentose lesionate (collaterale, crociato posteriore e punto d’angolo postero-laterale), tramite l’utilizzo
di tendini autograft o allograft (vedere sopra).

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Per gli atleti professionisti che svolgono attività sportiva ad alto livello, i tempi di recupero dopo traumi del
crociato posteriore curati con trattamento conservativo sono in genere 6 mesi, i tempi di recupero dopo
traumi isolati del crociato anteriore con ricostruzione sono 8-9 mesi (in USA), 6 mesi (in Italia).
Per le lesioni complesse è necessario aspettare almeno 1 anno.

Domanda: “Per una persona non atleta professionista quanto sono invalidanti queste lesioni?”
Risposta: “Considerando pazienti di giovane età che svolgono attività ricreativa o sportiva di basso livello, le lesioni
legamentose del ginocchio possono creare due situazione distinte: in alcuni casi il ginocchio non dà segni di cedimento
e consente di fare un’attività sportiva normale, possibile se vi è un tono muscolare sviluppato, ma il ginocchio risulta
comunque debole e vulnerabile e nel breve periodo il rischio è che un’eventuale attività possa portare a distorsioni
creando ulteriori danni, mentre a lungo termine sicuramente andrà incontro ad artrosi. In altri casi il ginocchio può
dare fin da subito instabilità impedendo di fare attività sportiva e il paziente non deve forzare l’articolazione.
Considerando un paziente attivo sui 60 anni che si è rotto il crociato si può stare a vedere e magari mettere dei tutori
funzionali.”

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Lezione 7 – parte 2 (patologia traumatica e degenerativa del gomito)
Sbobinatore: LSA
Docente: dott. Marchi

7.2 Patologia traumatica e degenerativa del GOMITO

7.2.1 Richiami di anatomia e fisiologia


➢ Ossa
L’articolazione del gomito è formata da tre strutture ossee: superiormente, dall’epifisi distale dell’omero, ed
inferiormente dalle epifisi prossimali di radio ed ulna.

La porzione distale dell’omero è anche chiamata “paletta omerale”, è rivestita da cartilagine articolare e
presenta due faccette articolari:
- Capitulum humeri, che si articola con la testa del radio (lateralmente);
- Troclea, la quale si articola con l’incisura trocleare dell’ulna (medialmente).
Ai lati dell’epifisi distale dell’omero vi sono due protuberanze:
- Epicondilo, dà origine ai tendini dei muscoli estensori del polso (lateralmente);
- Epitroclea, dà origine ai tendini dei muscoli flessori del polso (medialmente).

L’epifisi prossimale del radio è formata da testa e collo. La testa presenta una superficie arrotondata, definita
capitello radiale, importante per formare l’articolazione omero-radiale, ma anche una superficie mediale,
destinata ad articolarsi a livello dell’insicura radiale dell’ulna, formando l’articolazione radio-ulnare
prossimale.

L’epifisi prossimale dell’ulna presenta una grande cavità, definita insicura trocleare, che avvolge la troclea
omerale tramite due strutture:
- Coronoide, anteriormente, alloggia nella fossa coronoidea dell’omero in massima flessione
dell’avambraccio sul braccio;
- Olecrano, posteriormente, alloggia nella fossa olecranica dell’omero in massima estensione
dell’avambraccio sul braccio.

L’insieme di queste strutture costituisce l’articolazione omero-ulnare.

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Il radio presenta la tuberosità radiale, inserzione del muscolo bicipite brachiale, mentre l’ulna mostra una
tuberosità per l’inserzione del muscolo brachiale anteriore.

➢ Legamenti
L’articolazione del gomito, vista la sua anatomia, è molto instabile, pertanto necessita di apparati
legamentosi complessi per renderla il più stabile possibile. Ciò determina un difficile approccio chirurgico.
Vi è la capsula articolare, rinforzata ai lati da strutture legamentose molto robuste:
- Legamento collaterale mediale (ulnare);
- Legamento collaterale laterale (radiale).
Questi legamenti consentono i movimenti di flesso-estensione e prono-supinazione, mentre bloccano le
forze valgizzanti/varizzanti rispetto all’asse dell’arto superiore.

Un altro importante legamento circonda il capitello radiale come un anello e si inserisce sull’ulna: si tratta
del legamento anulare. Questo è fondamentale per dare stabilità alla testa del radio nell’articolazione del
gomito.

➢ Muscoli
Sono 4 i gruppi muscolari di questa articolazione. I primi due gruppi originano dalle strutture ossee del
gomito, mentre gli ultimi due si inseriscono a livello del gomito:
- Epicondiloidei, originano dall’epicondilo dell’omero e permettono i movimenti di estensione del
polso e delle dita;
- Epitrocleari, originano dall’epitroclea dell’omero e permettono i movimenti di flessione del polso e
delle dita, oltre al movimento di pronazione;
- Bicipite brachiale e brachiale anteriore, anteriormente, consentono la flessione dell’avambraccio sul
braccio e la supinazione dell’avambraccio;
- Tricipite brachiale, posteriormente, consente l’estensione dell’avambraccio sul braccio.

➢ Vasi e nervi
Le principali strutture vascolo-nervose sono rappresentate da:
- Nervo mediano, anteriormente e centralmente;
- Nervo radiale, lateralmente;
- Nervo ulnare, medialmente;
- Arteria brachiale, centralmente.
Il coinvolgimento di queste strutture nella patologia traumatica del gomito è una complicanza estremamente
grave, seppur abbastanza rara.
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➢ Funzionalità del gomito
I movimenti permessi dall’articolazione del gomito sono i seguenti:
- Flessione, che consente un’escursione fino a 150°(influenzata dal volume delle masse muscolari);
- Estensione, 0° (può arrivare a -10° in pazienti con particolare lassità legamentosa);
- Prono-supinazione, di circa 80-90°.
Queste caratteristiche conferiscono la possibilità di svolgere numerose attività quotidiane. Tuttavia, il gomito
è molto propenso a perdere la propria stabilità in seguito ad un trauma, sviluppando di frequente e molto
precocemente una rigidità articolare. Questa è intesa come una reazione dell’organismo volta a compensare
l’instabilità. Pertanto, l’obiettivo del chirurgo ortopedico è certamente quella di ricostruire le strutture ossee
e legamentose lesionate, ma anche garantire una mobilizzazione dell’articolazione quanto più precoce
possibile, onde evitare l’insorgenza di rigidità articolare che inficerebbe la funzionalità dell’articolazione.

7.2.A Fratture
7.2.A.1 Fratture dell’OMERO DISTALE
Le fratture dell’omero distale sono classificate in 4 tipi (classificazione anatomica):
- Sovracondiliche;
- Trans-intercondiliche;
- Isolate del condili;
- Capitulum humeri e troclea.

Queste fratture rappresentano circa il 30% di tutte le fratture a carico del gomito, e possono generarsi a
causa di:
- Trauma diretto, ovvero forze che agiscono localmente a livello del gomito;
- Trauma indiretto, come durante una caduta in cui si protende la mano verso il suolo, con
trasferimento dell’energia dell’urto fino al gomito.

Queste fratture sono ulteriormente classificate in modo funzionale secondo la classificazione AO come:
- Extra-articolari (tipo A), ovvero in assenza di coinvolgimento delle cartilagini articolari; all’interno di
questo gruppo si ritrovano fratture da avulsione, semplici, a cuneo o multiframmentarie;
- Parzialmente articolari (tipo B), in cui la rima di frattura decorre anche lungo l’articolazione; tra
queste si distinguono fratture: laterali, mediali e frontali;
- Completamente articolari (tipo C), interessano la porzione più distale dell’omero; tra queste vi sono:
o semplice;
o comminuta metafisaria,
o multiframmentaria articolare e metafisaria

Le fratture da avulsione sono determinate dalla contrazione violenta dei muscoli epicondiloidei/epitrocleari
durante il trauma, inducendo così il distacco del frammento osseo da cui hanno origine i propri tendini.

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La classificazione funzionale è importante per la scelta del trattamento più idoneo al tipo di frattura
considerata.

➢ Fratture sovracondiliche
Sono fratture extra-articolari tipiche dell’età pediatrica, poiché i bambini presentano un osso meno rigido e
più elastico.
Sono determinate da un trauma in estensione (più frequente) oppure in flessione (Goyrand-Smith, molto
raro). Molto spesso si ha frattura per traumatismo indiretto dovuto ad una caduta a terra sul palmo della
mano con gomito in iperestensione, determinando una dislocazione dorsale della paletta omerale ed
anteriore della diafisi.
I pazienti tipicamente giungono in PS molto preoccupati poiché il profilo dell’articolazione è completamente
sovvertito, potendovi essere deformità in valgismo/varismo, e lamentano un intenso dolore, impotenza
funzionale e mostrano una tumefazione associata ad ecchimosi sulla faccia anteriore del gomito.

Le complicanze possono essere molto gravi, ma per fortuna altrettanto rare. Sono essenzialmente lesioni
vascolo- nervose:
- Lesione dell’arteria brachiale, molto rara, può determinare un quadro di shock emorragico;
- Lesione del nervo radiale, mediano ed ulnare (in ordine decrescente di frequenza);
- Esposizione cutanea, difatti sono solitamente fratture esposte;
- Sindrome compartimentale (sindrome ischemica di Volkmann), caratterizzata da un aumento
importante della pressione all’interno del distretto anatomico del gomito che può compromettere la
circolazione fisiologica e che, se non riconosciuta e trattata precocemente, può determinare lesioni
irreversibili. La causa può essere ricercata nella non corretta immobilizzazione post-riduzione. Per
tale motivo, una volta ottenuta la riduzione, l’immobilizzazione non deve essere mantenuta in
flessione eccessiva.

Il trattamento può essere:


- Conservativo, viene effettuata una riduzione della frattura in anestesia. La riduzione è svolta in
flessione, cui segue la contenzione in apparecchio gessato brachio-metacarpale a gomito flesso (non
oltre 90°) e pronato. Questo trattamento è tipico nelle fratture composte e lievemente scomposte
con contatto corticale;
- Chirurgico, riduzione e fissazione percutanea con fili di
Kirschner (nei bambini) o osteosointesi con placca e viti (negli
adulti), e contenzione in apparecchio gessato. Questo doppio
intervento è dedicato a fratture scomposte senza contatto
corticale, dove sia presente spostamento dei frammenti e
marcata instabilità.

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➢ Fratture sovra-intercondiliche
Sono più frequenti nell’adulto, poiché presenta un osso
meno elastico e dunque più rigido.
La rima di frattura è all’interno della capsula articolare
e decorre lungo le superfici articolari dei condili
coinvolgendo anche le fosse olecranica e coronoidea. In
queste lesioni si osserva la separazione dei condili l’uno
dall’altro e dalla diafisi, con configurazione tipica a T o
Y della rima.

Il trattamento di queste fratture è quasi esclusivamente chirurgico, ad eccezione di pazienti anziani con
comorbilità importanti. Infatti, sarebbe impossibile la ricostruzione corretta dell’anatomia del gomito
intervenendo in modo conservativo.
Il gold standard consiste nell’osteosintesi con placca e viti, mantenendo immobilizzate le strutture ossee in
attesa che si formi il callo osseo.

➢ Fratture isolate dei condili


Sono fratture tipiche dell’età pediatrica e coinvolgono con maggiore frequenza il condilo laterale (la lesione
del condilo mediale è più rara).
Non sono vere e proprie fratture, ma distacchi epifisari, dato che i bambini
presentano la cartilagine di accrescimento, assente negli adulti. E’ proprio
questa struttura ad essere interessata in queste lesioni. Si presentano due
varianti, secondo la classificazione di Milch:
- Tipo 1, interessante esclusivamente il nucleo di ossificazione
- Tipo 2, estesa più medialmente verso la troclea omerale

➢ Fratture del capitulum humeri


Lesione intra-articolare, abbastanza rara, può avvenire per cadute sull’arto superiore a gomito esteso, ma
soprattutto a gomito flesso, in quelle situazioni in cui il paziente non sia riuscito ad estendere l’arto come
meccanismo di difesa.
Sono difficili da osservare alla radiografia, poiché il capitulum humeri è rivestito da cartilagine articolare. In
caso di sospetto, è dunque consigliato richiedere la TC.
Il trattamento è chirurgico, e prevede la riduzione corretta del frammento e la successiva stabilizzazione con
viti.

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7.2.A.2 Fratture dell’ULNA PROSSIMALE
Sono tra le lesioni più frequenti in assoluto, e sono le seguenti:
- Fratture dell’olecrano;
- Fratture della coronoide.

Anche in questo caso vale la classificazione adottata per le fratture dell’omero distale (classificazione AO):
- Extra-articolari: avulsioni dell’inserzione del tricipite, semplici metafisarie, multiframmentarie
metafisarie.
- Parzialmente articolari: olecraniche, coronoidee.
- Completamente articolari: olecraniche e coronoidee.

➢ Fratture dell’olecrano
Sono lesioni tipiche dell’adulto e dell’anziano. Il meccanismo patogenetico può prevedere:
- Trauma diretto, in seguito ad urto violento (frequenti lesioni comminute);
- Trauma indiretto, in seguito a caduta sulla mano a gomito flesso con contrazione simultanea del
tricipite, con generazione di fratture semplici oblique o trasverse.
- Combinazione dei due meccanismi.

La diagnosi prevede:
- Esame clinico, caratterizzato da dolore, tumefazione, emartro,
impotenza funzionale completa del gomito (impossibile l’estensione
dell’avambraccio sul braccio, per distacco dell’inserzione ossea del
tricipite brachiale) ed una soluzione di continuo alla palpazione
dell’olecrano in caso di diastasi dei frammenti;
- Esame radiografico in due proiezioni, in particolare la proiezione
laterale che consente di apprezzare le caratteristiche della frattura
olecranica;
- Eventuale valutazione TC nei quadri di frattura-lussazione e/o fratture pluriframmentarie articolari.
A queste fratture, in seguito a traumi di notevole entità, si possono associare dislocazione anteriore del
frammento ulnare distale e del capitello radiale, configurandosi così un quadro di frattura-lussazione
anteriore di gomito.

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Il trattamento è quasi sempre chirurgico, è conservativo nei rari casi di fratture composte senza diastasi. La
chirurgia prevede due principali tecniche:
- Osteosintesi con placca e viti e/o viti libere;
- Tecnica di Hauban, prevede l’impianto di 2 fili di Kirschner tangenziali alla frattura e cerchiaggio a 8
che permette la compressione sul focolaio di frattura, essenziale alla formazione del callo osseo e
quindi al processo di guarigione.

➢ Fratture della coronoide


Sono lesioni decisamente meno frequenti rispetto alle fratture dell’olecrano; si verificano principalmente in
seguito a traumi maggiori con dislocazione posteriore dell’ulna e per trazione da parte della capsula
anteriore. Quando il frammento è scomposto può incunearsi
nell’articolazione interferendo con la fisiologica mobilità del
gomito, instaurando un quadro di instabilità posteriore
dell’articolazione. Pertanto, vanno riconosciute precocemente
per evitare l’insorgenza di una temibile rigidità articolare.
Il trattamento è chirurgico, mediante riduzione ed osteosintesi a cielo aperto: si tratta di un intervento molto
complesso in relazione alla sede anatomica, con potenziale rischio di lesione di nervo mediano ed arteria
brachiale.

7.2.A.3 Fratture del RADIO PROSSIMALE


Si tratta di lesioni che coinvolgono testa e collo del radio. Nello specifico, possono coinvolgere il capitello
radiale (testa) e la tuberosità bicipitale (collo).

Vengono classificate analogamente alle fratture di omero distale ed ulna prossimale in:
- Fratture extra-articolari (avulsioni della tuberosità bicipitale, semplici del collo, multiframmentarie
del collo);
- Fratture parzialmente articolari (semplici, frammentarie);
- Fratture completamente articolari (semplici, multiframmentarie).

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➢ Fratture del capitello radiale
Insieme alle fratture dell’olecrano, rappresentano il tipo di lesione più frequente, soprattutto nella
popolazione adulta.
Il trauma può essere:
- Diretto, come un impatto violento a livello del gomito laterale;
- Indiretto, nel caso di una forza in compressione, trasmessa longitudinalmente al gomito, in seguito a
cadute sulla mano.
Questi meccanismi traumatici producono fenomeni distorsivi (sollecitazioni) in valgo (talvolta anche in varo)
alle strutture legamentose, in particolare al legamento anulare che, se lesionato, può determinare la
dislocazione del capitello radiale, creando quadri di frattura-lussazione del gomito. In questi casi, è necessario
eseguire anche un’adeguata ricostruzione legamentosa, per ripristinare la stabilità dell’articolazione.

La diagnosi si basa su:


- Esame obiettivo, caratterizzato da dolore palpatorio in sede laterale, deficit funzionale soprattutto
alla prono-supinazione dell’avambraccio, spesso non vi è tumefazione evidente. Vi può essere un
blocco dell’articolazione, indotto da un meccanismo di contrazione muscolare a scopo antalgico;
- Esame radiografico in doppia proiezione, antero-posteriore (AP) e latero-laterale (LL);
- Eventuale studio TC con ricostruzione 3D nei quadri di frattura-lussazione e/o fratture
pluriframmentarie articolari.

Oltre alla classificazione AO-OTA, queste fratture possono essere classificate secondo la classificazione di
Mason in 4 stadi:
- Tipo 1, fissurazione o frattura marginale composta;
- Tipo 2, frattura marginale scomposta;
- Tipo 3, frattura comminuta dell’intera epifisi;
- Tipo 4, frattura-lussazione del capitello radiale.

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Il trattamento è influenzato dalla gravità del quadro clinico.
- Trattamento conservativo, riservato a fratture composte ed extra-articolari. Prevede
l’immobilizzazione con apparecchio gessato, di durata non superiore a 18-20 giorni, in quanto il
gomito va mobilizzato il più precocemente possibile, data la sua tendenza intrinseca a sviluppare
quadri di rigidità articolare. In quest’ottica, si opta per un compromesso, ovvero un’immobilizzazione
di breve durata che consenta la formazione di un principio di callo osseo, associata ad una
mobilizzazione precoce e molto cautela da parte del fisioterapista, per evitare l’insorgenza di rigidità
articolare;
- Trattamento chirurgico, differenziato sulla base del tipo di frattura:
o Per fratture semplici o marginali scomposte, si esegue riduzione e sintesi mediante placche
dedicate e/o viti libere;
o per contro, nel caso di fratture multiframmentarie articolari dove risulterebbe impossibile
una ricostruzione corretta, si opta per l’asportazione del capitello radiale, la quale garantisce
la scomparsa della sintomatologia dolorosa, ma determina l’insorgenza di instabilità in valgo
del gomito. Ad oggi, questa complicanza è ormai superata grazie all’introduzione della
sostituzione protesica di capitello radiale.

7.2.B Lussazioni di gomito


Le lussazioni di gomito sono spesso associate a fratture, configurando quadri di fratture-lussazioni. Ad ogni
modo, vi sono diversi tipi di lussazione:
- Lussazione anteriore;
- Lussazione posteriore;
- Sub-lussazione anteriore del capitello radiale;
- Lussazione del capitello radiale;
- Lussazione divergente (coinvolgente radio ed ulna).
Nonostante il gomito sia un’articolazione dotata di elevata stabilità intrinseca, le lussazioni rappresentano
traumi relativamente frequenti, tipici della popolazione giovanile, che vedono come principali eventi causali
gesti sportivi o lavorativi. Nell’anziano, invece, si verificano soprattutto in seguito a cadute.

7.2.B.1 Lussazioni POSTERIORI (o postero-esterne)


Sono le lussazioni più frequenti, e vengono definite posteriori in quanto, a seguito
del trauma, le ossa dell’avambraccio (soprattutto l’ulna) traslano posteriormente
rispetto all’omero, che rimane anteriore.
La patogenesi è riconducibile ad un trauma indiretto conseguente a caduta sulla
mano con gomito esteso (analogo a quello per le fratture sovracondiloidee
dell’omero). Questa dinamica genera una leva che forza l’olecrano al di fuori della
troclea omerale, come risultato del cedimento delle strutture capsulari e
legamentose.
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La diagnosi si basa su:
- Anamnesi, volta a ricercare la dinamica dell’evento traumatico;
- Esame obiettivo, che palesa una sintomatologia importante caratterizzata da dolore intenso,
impotenza funzionale completa, atteggiamento in flessione e pronazione (non modificabile),
accorciamento e deformità (sono palpabili la troclea omerale anteriormente, e l’olecrano
posteriormente che figura come uno scalino);
- Esame radiografico in due proiezioni (AP e LL), per valutare la perdita dei rapporti articolari ed
eventuali lesioni associate;
- Eventuale studio TC per valutare potenziali fratture associate e definire i quadri di instabilità
articolare.

Nel valutare una lussazione di gomito, la priorità è la ricerca di complicanze associate. Le principali possono
essere:
- Compressione vascolare, in particolare dell’arteria brachiale. È necessario valutare i polsi periferici
e la perfusione di avambraccio e mano (colore e calore);
- Compressione nervosa, soprattutto a carico di nervo mediano e nervo ulnare. Bisogna valutare
l’eventuale presenza di deficit sensitivi e/o motori;
- Lesioni cutanee (esposizioni), le quali sono molto rare nelle lussazioni isolate, poiché non vi sono
margini ossei taglienti, a differenza delle fratture nelle quali i margini ossei possono interrompere il
rivestimento cutaneo.
Queste complicanze possono manifestarsi in virtù della conformazione anatomica del gomito, una sede
piccola ma ricca di strutture nobili, per cui un’alterazione di tale regione può arrecare danno alle strutture in
essa contenute.
Queste lussazioni si associano frequentemente a fratture particolarmente instabili, con spiccata tendenza
alla perdita dei rapporti articolari:
- Fratture della coronoide;
- Fratture del capitello radiale.
Infatti, la dinamica della lussazione, che prevede la traslazione posteriore dell’ulna, determina la frattura
della coronoide (anteriore), mentre l’olecrano (posteriore) non viene lesionato. Lo stesso discorso vale nel
caso della traslazione posteriore del radio (frattura del capitello radiale).

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Altre condizioni spesso associate alle lussazioni posteriori sono a carico delle inserzioni ossee dei muscoli
epicondiloidei e/o epitrocleari, ovvero si possono verificare fratture da avulsione dell’epicondilo piuttosto
che dell’epitroclea. Queste lesioni si sviluppano in seguito alla violenta e repentina contrazione dei muscoli
estensori e/o flessori del polso in risposta al trauma, configurandosi come un meccanismo di difesa che
tuttavia risulta deleterio causando il distacco dell’epicondilo e/o dell’epitroclea, a seconda del
compartimento muscolo-tendineo coinvolto.
Si deve porre particolare attenzione alla possibile interposizione articolare del frammento distaccato e, nei
distacchi epitrocleari di notevole entità, valutare la possibile trazione sul nervo ulnare.

Il trattamento di una lussazione posteriore senza lesioni associate prevede una manovra di riduzione
manuale a cielo chiuso in anestesia generale (solo in pazienti giovani si può tentare di evitare l’anestesia, se
questi sopportano adeguatamente la percezione dolorifica). L’anestesia (o la sedazione) viene effettuata per
due motivi principali:
- annullare la percezione dolorifica del paziente, essendo una manovra molto dolorosa se svolta senza
anestesia;
- garantire un’efficace curarizzazione, in modo da consentire il rilassamento delle masse muscolari che
altrimenti si contrarrebbero a scopo antalgico.
La manovra di riduzione viene eseguita a gomito flesso, e consiste nella trazione anteriore dell’avambraccio
associata a contro-estensione del braccio, fino a percepire uno scatto indice dell’avvenuto ripristino dei
rapporti articolari. Può essere di supporto anche effettuare una pressione sull’olecrano. Una volta ricostituita
l’anatomia dell’articolazione, la conferma è data dalla possibilità di muovere fisiologicamente il gomito.

A seguito della riduzione, si procede con un’immobilizzazione in apparecchio gessato (o tutore) che non deve
durare più di 20 giorni, al fine di prevenire rigidità articolari post-traumatiche potenzialmente invalidanti (con
impatto negativo sullo svolgimento delle normali attività quotidiane).

Ragionevolmente, in presenza di fratture associate che rendano instabile


l’articolazione, il trattamento prevede anche un’osteosintesi chirurgica.

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7.2.B.2 Lussazioni ANTERIORI
Sono lesioni più rare rispetto alle posteriori, e sono conseguenti a traumi
ad alta energia agenti sul versante posteriore dell’avambraccio prossimale
(un meccanismo tipico può essere la caduta dalle scale con avambraccio
flesso sul braccio, dove l’urto violento del gomito contro lo scalino
determina la traslazione anteriore dell’ulna e/o del radio rispetto
all’omero). Si associano molto spesso a quadri complessi di fratture
dell’olecrano (fratture-lussazioni).

Sono lussazioni più frequentemente associate a lesioni vascolo-nervose rispetto alle posteriori, in accordo
con la dinamica del trauma che vede le ossa dell’avambraccio traslare anteriormente rispetto all’omero,
potendo causare lesioni all’arteria brachiale e/o al nervo mediano.
Per tale motivo risulta essere fondamentale, ancor più che nelle lussazioni posteriori, eseguire uno
scrupoloso esame obiettivo volto alla ricerca di eventuali deficit sensitivo-motori e/o alterazioni dei polsi
periferici.
Il trattamento è chirurgico (in urgenza) mediante osteosintesi dell’olecrano e delle fratture associate (quasi
sempre presenti).

7.2.B.3 Sub-lussazioni anteriori del capitello radiale


Si tratta di un evento raro nell’adulto-anziano, configurandosi infatti come un quadro tipico dell’età
pediatrica, con un picco di incidenza intorno ai 2-3 anni.
La patogenesi è riconducibile ad una forte trazione in senso longitudinale dell’arto superiore del bambino (ad
esempio quando si tira verso di sé il figlio rompicoglioni); si genera così una lesione parziale del legamento
anulare, che scivolando verso l’alto disloca anteriormente il capitello radiale. La lesione legamentosa guarisce
spontaneamente.

La diagnosi è clinica; si evidenzia:


- Impotenza funzionale completa dell’arto superiore;
- Atteggiamento in pronazione dell’avambraccio (alcuni autori definiscono questa condizione
pronazione dolorosa, per l’appunto);
- Dolore intenso al tentativo di mobilizzazione.
L’esame radiografico spesso non mostra segni patologici.

Il trattamento prevede la riduzione manuale della lussazione, la quale consiste nella supinazione associata a
flessione dell’avambraccio, seguita dalla sensazione palpatoria di scatto che indica il ripristino dei normali
rapporti articolari. Una volta rimesso in sede il capitello radiale, la sintomatologia dolorosa scompare
improvvisamente, ed il gomito riacquisisce la propria funzionalità.
Solitamente, non è richiesta l’immobilizzazione.

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7.2.B.3 Lussazioni del capitello radiale
La lussazione isolata del capitello radiale è abbastanza
rara, è più frequente l’associazione con una concomitante
frattura dell’ulna. Infatti, poiché si tratta della struttura di
maggiore stabilità del gomito, affinché il capitello radiale
possa uscire dalla propria sede anatomica è quasi sempre
necessaria la presenza di un contemporaneo
accorciamento dell’ulna, secondario ad una frattura
dell’ulna.
L’associazione della lussazione del capitello radiale e della frattura del terzo prossimale dell’ulna è definita
frattura-lussazione di Monteggia. Questa lesione viene trattata con riduzione della lussazione e sintesi
dell’ulna con placca e viti.

7.2.C Rigidità post-traumatica


Un’attenzione particolare va posta al fenomeno della rigidità articolare. Questa evenienza rappresenta una
tra le più temibili complicanze che possono insorgere nel periodo post-traumatico.
Le fratture del gomito, ed in particolare modo le fratture-lussazioni, sono molto suscettibili alla formazione
di calcificazioni e rigidità post-traumatica, per questo motivo uno degli obiettivi primari in una frattura di
gomito è l’attuazione di una mobilizzazione precoce, poiché il gomito è una struttura anatomica molto
delicata che tende a sviluppare rigidità articolare in poche settimane, la quale diviene pressoché irreversibile.
Posizionando un apparecchio gessato per circa 40 giorni ad una persona sana, una volta rimosso il gesso si
manifesta rigidità articolare; nel caso di un paziente in esiti di frattura e di lesioni capsulo-legamentose, la
probabilità che si sviluppi rigidità dopo immobilizzazione è nettamente più elevata.
L’obiettivo del trattamento chirurgico di una qualunque frattura di gomito è garantire la massima stabilità
articolare possibile, finalizzata a consentire una mobilizzazione precoce fin dai primissimi giorni post-
intervento. Pertanto, nelle fratture di gomito non si deve immobilizzare l’articolazione.

La rigidità post-traumatica può essere dovuta a:


- Imperfetta riduzione della rima articolare, che induce un quadro di artrosi post-traumatica;
- Formazione di calcificazioni, tipicamente secondarie a lesioni capsulo-legamentose.

Nei casi più severi (vedi radiografia in alto a sx), il gomito perde la propria funzionalità, e sono necessari
interventi chirurgici demolitivi per ripristinare quanto più possibile l’articolarità del gomito, fino alla
sostituzione protesica dell’intera articolazione.

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7.2.D Patologie degenerative del gomito
7.2.D.1 Borsite
La borsite è una condizione caratterizzata da un processo flogistico a carico della borsa sinoviale in sede
olecranica.

Le borsiti possono essere:


- Infettive;
- Emorragiche, dovute alla presenza di osteofiti che, in condizioni di aumentata pressione (appoggio
del gomito sul tavolo), determinano lesioni della borsa sinoviale, generando un processo emorragico
e la successiva raccolta ematica;
- Sinoviali, di natura benigna.

Clinicamente si manifestano come tumefazione a contenuto liquido in sede olecranica, generalmente


monolaterale (raro l’interessamento bilaterale); sebbene si tratti di una condizione relativamente poco
preoccupante, i pazienti si recano in PS in quanto spaventati.
Ciò che si effettua in questi casi è la puntura della lesione con aspirazione del liquido contenuto, seguita dalla
sua caratterizzazione (raccolta purulenta, ematica, sinoviale…):
- In caso di eziologia infettiva, si effettua una terapia antibiotica ad ampio spettro;
- per quanto riguarda le borsiti emorragiche, queste hanno la tendenza ad infettarsi, pertanto è
consigliato un approccio terapeutico tempestivo.

7.2.D.2 Epicondilite
L’epicondilite è una condizione clinica caratterizzata da un processo infiammatorio a carico dei tendini di
origine dei muscoli estensori del polso e delle dita (muscoli epicondiloidei).
La patogenesi è tipicamente un sovraccarico funzionale, dovuto all’esecuzione ripetitiva di un gesto atletico
(tennis, da cui “gomito del tennista”) non proporzionale alle proprie capacità di recupero.
La diagnosi è clinica e prevede la palpazione dell’epicondilo mentre il paziente estende il polso contro
resistenza; il test è positivo se la manovra evoca dolore.
L’esame ecografico può essere utile nel definire l’entità del processo flogistico, ma la diagnosi resta clinica.

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In prima istanza, il trattamento è conservativo, e prevede l’astensione dall’esecuzione del gesto atletico
(riposo); possono essere di supporto infiltrazioni di steroidi a livello dell’epicondilo e, in un secondo tempo,
la somministrazione di plasma ricco in piastrine (PRP), un concentrato di fattori di crescita derivato dalle
piastrine, nel caso la sintomatologia non migliori.
In caso di fallimento del trattamento conservativo, l’approccio diventa
chirurgico, e prevede lo scollamento dei tendini con successiva re-inserzione
circa 4-5 mm a valle rispetto alla loro origine fisiologica, ottenendo la
diminuzione della tensione tendinea e conseguentemente la diminuzione (o
scomparsa, a seconda dei casi) della sintomatologia dolorosa.

7.2.D.3 Epitrocleite
L’epitrocleite (“gomito del golfista”) si caratterizza per la presenza di un processo flogistico a carico dei
tendini di origine dei muscoli flessori del polso e delle dita (muscoli epitrocleari).

La patogenesi è sovrapponibile a quella dell’epicondilite.


La diagnosi è clinica, e prevede la palpazione dell’epitroclea mentre il paziente flette il polso contro
resistenza; in caso di dolore il test è considerato positivo.
Il trattamento prevede gli stessi step di quello dell’epicondilite.

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Lezione 7 – parte 3 (patologia traumatica e degenerativa della caviglia)
Sbobinatore: LSA
Docente: Zarattino

7.3 Patologia traumatica e degenerativa della CAVIGLIA

7.3.1 Richiami di anatomia e fisiologia


La caviglia è un’articolazione composta da più segmenti ossei, in particolare si riconoscono:
- Articolazione tibio-tarsica, che vede rapportarsi tibia ed astragalo (o talo);
- Articolazione tibio-fibulare (o peroneale) distale, una sindesmosi;
- Articolazione sotto-astragalica o astragalo-calcaneare.

Di fondamentale importanza per la stabilità articolare sono le strutture legamentose, organizzate in tre
compartimenti:
- Laterale (esterno), che comprende i legamenti peroneo-astragalico anteriore (PAA), peroneo-
astragalico posteriore (PAP) e peroneo-calcaneare (PC);
- Mediale (interno), formato dal legamento deltoideo;
- Legamenti interossei, sono il tibio-peroneale anteriore e posteriore formanti la sindesmosi tra tibia
e perone, che li mantiene uniti all’astragalo, ed il legamento a siepe astragalo-calcaneare.

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Le lesioni traumatiche che interessano con maggiore frequenza la caviglia sono le distorsioni, ed il
meccanismo principale consiste nella inversione (supinazione) del piede, con lesione di vario grado dei
legamenti laterali (il traumatismo in eversione è raro, questo spiega la minore frequenza di lesioni del
legamento deltoideo).

Oltre ai legamenti, la componente muscolare è ben rappresentata ed organizzata in compartimenti, in


particolare sul versante mediale le strutture muscolo-tendinee delimitano strutture vascolo-nervose:
- Arteria tibiale posteriore;
- Nervo tibiale.
Queste due strutture nobili hanno rapporti anteriori con i tendini dei muscoli tibiale posteriore e flessore
lungo delle dita, mentre posteriormente sono delimitate dal tendine del muscolo flessore lungo dell’alluce.
Il compartimento laterale presenta i tendini dei muscoli peronieri (breve e lungo) che decorrono postero-
inferiormente al malleolo laterale.

7.3.2 Traumatologia della caviglia


Gli eventi traumatici possono essere distinti in:
- Acuti, i più frequenti;
- Cronici.
La lesione dipende dall’energia e dalla cinetica del trauma, potendosi generare:
- Distorsioni;
- Lussazioni;
- Fratture;
- Fratture-lussazioni.

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Il meccanismo traumatico può comprendere:
- Inversione (il più frequente);
- Eversione (molto meno frequente);
- Trauma da contraccolpo (caduta dall’alto);
- Schiacciamento;
- Iperflessione;
- Iperestensione.

Il trauma acuto da inversione della tibio-tarsica rappresenta la classica distorsione, ed assieme a distorsione
del rachide cervicale e lombalgia è uno dei motivi più frequenti di accesso al PS ortopedico da parte del
paziente. Questo tipo di lesione avviene principalmente per traumi sportivi, essendovi sport molto inclini a
poter determinare distorsioni (calcio, pallavolo, basket, rugby…), ma anche in seguito ad incidenti stradali,
domestici e sul lavoro.

DISTORSIONI
Il principale meccanismo responsabile è un trauma in inversione (supinazione), con conseguente stiramento
e lesione (di vario grado) dei legamenti del compartimento laterale (PAA, PAP, PC); di questi, il legamento
peroneo-astragalico anteriore (PAA) è il maggiormente interessato da questo tipo di trauma (circa 80-85%
dei casi).

Il traumatismo in eversione (pronazione), con lesione del legamento deltoideo (compartimento mediale),
rappresenta solo il 10% delle distorsioni di tibio-tarsica.

E’ da considerare che nell’80-85% dei casi di distorsione in inversione si manifesta la rottura del legamento
peroneo-astragalico anteriore, ma la cui lesione non determina instabilità dell’articolazione; affinché si abbia
instabilità articolare, deve co-manifestarsi la rottura di tutti e tre i legamenti laterali (PAA, PAP, PC).

Nel caso di una distorsione in eversione, l’eventuale rottura del legamento deltoideo determina solitamente
instabilità della caviglia, necessitando quindi di un trattamento ad hoc.

Classificazione delle lesioni legamentose


Si tratta di una classificazione specifica per le lesioni del compartimento laterale, in quanto sono le più
frequenti (84%); è basata sulla determinazione di un punteggio (da 0 a 3) a seconda della gravità del trauma:
- Lesione di tipo 0: non lesioni legamentose;
- Lesione di tipo 1: lesione del legamento peroneo-astragalico anteriore (PAA);
- Lesione di tipo 2: lesione dei legamenti peroneo-astragalico anteriore (PAA) e peroneo-calcaneare
(PC);
- Lesione di tipo 3: lesione dei legamenti peroneo-astragalico anteriore (PAA), peroneo-calcaneare
(PC) e peroneo-astragalico posteriore (PAP).
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Idealmente, vengono considerate di lieve entità le lesioni di tipo 0 e 1, di media entità le lesioni di tipo 2, e di
grave entità le lesioni di tipo 3, associate sempre ad instabilità articolare della caviglia.

Nel valutare una distorsione, è fondamentale l’esame clinico, che deve sempre prevedere anche la
valutazione della continuità del tendine d’Achille e la potenziale lesione della base del 5°metatarso, poiché
nelle lesioni del comparto laterale la meccanica del trauma può prevedere una forte trazione dei muscoli
peronei, che si inseriscono sulla base del 5°metatarso, potendone causare il distacco; la palpazione di queste
strutture è quindi d’obbligo. L’esame radiografico standard della tibio-tarsica, infatti, non prevede lo studio
del piede, pertanto se all’esame obiettivo si evidenzia questo reperto, la sua valutazione radiografica può
così essere esplicitamente richiesta.

Clinica
Le manifestazioni cliniche dipendono dalla severità del trauma:
- Lesioni di tipo 0: dolore senza tumefazione;
- Lesione di tipo 1: dolore in sede anteriore (PAA); tumefazione perimalleolare esterna con o senza
ecchimosi;
- Lesione di tipo 2: dolore in sede anteriore e perimalleolare esterna fino al calcagno (sia a riposo che
sotto carico); tumefazione importante nella stessa sede con ecchimosi;
- Lesione di tipo 3: dolore importante in sede anteriore, perimalleolare esterna e calcaneare con
ecchimosi; tumefazione diffusa laterale con ecchimosi (il carico risulta impossibile).

Test di valutazione
Esistono test clinici per valutare la stabilità della caviglia:
- Squeezing test per la sindesmosi tibio-peroneale: consiste nel “pinzare” con la mano il terzo distale
di tibia e perone e valutare la presenza di movimento (fisiologicamente assente, in quanto la
sindesmosi rende solidali i due segmenti ossei); la presenza di movimento determina la positività
della manovra ed è indice di instabilità articolare;
- Test del cassetto astragalico anteriore: si posiziona una mano sul terzo distale della gamba,
stabilizzandola, mentre l’altra mano afferra il calcagno ed effettua una traslazione anteriore del piede
mentre la gamba resta fissa; se il piede si antepone rispetto alla gamba il test è considerato positivo
e testimonia un’instabilità della caviglia;
- Test della stabilità mediale per il legamento deltoideo, effettuata in eversione del piede.

Questi test non possono essere effettuati in fase acuta, in particolare modo nelle lesioni di grado 2 e 3, in
virtù dell’importante dolore e tumefazione; pertanto, si rende necessaria una valutazione specialistica a
distanza di una settimana dall’evento traumatico.

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Diagnosi
I’iter diagnostico si articola nel seguente modo:
- Anamnesi;
- Esame obiettivo: ispezione e palpazione;
- Esame radiografico: volto ad escludere la presenza di fratture;
- Ecografia: poco specifica ed operatore-dipendente; può essere indicata nelle lesioni di grado 2 o 3;
- RM: è importante nel caso si sospetti la presenza di lesioni osteocondrali associate a distorsioni di
tipo 2 o 3 (soprattutto a carico dell’astragalo);
- TC: se vi sono fratture dubbie alla RX.
Bisogna insistere sul fatto che ecografia, RM e TC sono esami di secondo livello, quindi vanno prescritti solo
in particolari circostanze; l’esame clinico è infatti quasi sempre dirimente la diagnosi. Inoltre, in presenza di
lesione isolata del legamento peroneo-astragalico anteriore (PAA), la richiesta di esami di secondo livello non
è giustificata, poiché trattasi di una lesione che non altera la stabilità della caviglia.

Un esame particolarmente impiegato fino ad una quindicina di anni fa (il docente lo ritiene essere un esame
tuttora affidabile) è rappresentato dall’RX dinamica (con TELOS), caratterizzato dall’esecuzione di un esame
radiografico della caviglia forzatamente posta in
cassetto anteriore (in modo da stressare le strutture
legamentose), al fine di evidenziare sia lesioni della
tibio-tarsica che della sotto-astragalica, responsabili di
instabilità articolare. Secondo il professore, questa
metodica è molto più sensibile rispetto a RM ed
ecografia (le quali possono mostrare immagini confuse
in fase acuta), in quanto evidenzia molto bene la
traslazione dell’astragalo rispetto alla tibia,
consentendo di formulare una diagnosi precisa;
ovviamente, non va eseguita nell’immediato periodo
post-traumatico, bensì a distanza di 7-15 giorni dal
trauma.

Trattamento
A seconda della gravità della distorsione, il trattamento può essere:
- Conservativo, nelle lesioni di tipo 0,1 e 2;
- Chirurgico, nelle lesioni di tipo 3 quando associate a lesioni secondarie e/o complicanze.

Nelle lesioni acute il trattamento iniziale è sempre incruento; il protocollo terapeutico accettato a livello
internazionale è il protocollo RICE:
- Restore;
- Ice;
- Compression;
- Elevation.
Quindi, la prima fase consiste in: riposo, ghiaccio sulla sede coinvolta, arto in scarico, posizionamento di
bendaggio anti-edemigeno associati ad una cauta mobilizzazione.

È molto dibattuto il tema dell’immobilizzazione post-traumatica con apparecchio gessato. Alcuni medici lo
effettuano tuttora, sebbene siano stati pubblicati lavori scientifici che evidenziano come l’immobilizzazione

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non permetta una corretta guarigione delle strutture legamentose (con perdita di elasticità); pertanto,
l’immobilizzazione viene impiegata per breve tempo (al massimo 1 settimana) e solo in condizioni peculiari:
- Quando la caviglia presenta una notevole tumefazione e il piede è atteggiato in posizione equina (a
scopo antalgico);
- In presenza di distacchi ossei che indicano lesioni legamentose da strappo.

In presenza di lesioni di tipo 1 o 2, dopo una settimana dal trauma si applica:


- Bendaggio elastico (taping neuromuscolare) per 7 giorni (lesioni di grado 1), che permette di tutelare
l’articolazione pur garantendo i movimenti di flesso-estensione;
- Cavigliera bivalve per 15 giorni con carico progressivo in base alla clinica (lesioni di grado 2), anch’essa
consente la flesso-estensione salvaguardando l’apparato legamentoso in via di guarigione.

Dopo 3-4 settimane (sempre in base alla clinica) si iniziano esercizi propriocettivi, mentre per il ritorno
all’attività sportiva si attende almeno 30 giorni dalla distorsione.
La propriocezione è definita come la percezione nello spazio di un segmento
corporeo, in questo caso dell’articolazione della caviglia; può essere allenata
con il supporto di specifiche tavolette (di Freeman), che permettono al paziente
di riacquisire progressivamente il controllo e la stabilità dell’articolazione. E’ stato dimostrato che la
riabilitazione precoce attraverso esercizi volti ad implementare la propriocezione si associa a riduzione delle
recidive.

Nella maggior parte dei casi, il trattamento è conservativo, poiché le lesioni legamentose laterali cicatrizzano
e quindi vanno incontro a guarigione spontaneamente, senza lasciare particolari sequele, a condizione che
non vi siano lesioni associate; per contro, ci sono situazioni che richiedono un approccio cruento:
- Presenza di lesioni associate: la lesione del legamento deltoideo va corretta chirurgicamente, tramite
sutura dello stesso, così come le fratture e le lesioni di grado severo richiedono un intervento
chirurgico;
- Se il paziente presenta esigenze sportive particolari, tali da richiedere una correzione chirurgica della
lesione;
- Se l’RX con TELOS è positiva, anche nel caso di coinvolgimento della sotto-astragalica.
Il trattamento chirurgico è diversificato a seconda della fase della patologia:
- Fase acuta: sutura diretta dei legamenti o reinserzione trans-ossea con àncora (principalmente
riguarda il legamento deltoideo); in caso di apertura della sindesmosi, chiusura della sindesmosi con
vite trans-sindesmosica, mantenuta per circa un mese a consentire la guarigione;
- Fase cronica: plastiche di ricostruzione secondo Brostrom-Gould per i legamenti laterali; trasposizioni
tendinee (poco eseguite).
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FRATTURE-LUSSAZIONI
Rappresentano lesioni abbastanza frequenti, e mostrano una certa eterogeneità; possono essere suddivise
in:
- Frattura monomalleolare;
- Frattura bimalleolare con o senza lussazione associata;
- Frattura trimalleolare con o senza lussazione associata (la superficie posteriore del terzo distale della
tibia presenta il “terzo malleolo”);
- Frattura dell’astragalo con o senza lussazione associata;
- Frattura del mortaio tibiale.
Tipicamente, queste fratture si associano a lesioni legamentose del compartimento opposto a quello
interessato dal trauma.

Per quanto riguarda l’incidenza:


- Le più frequenti sono le fratture malleolari (9% di tutte le fratture), in particolare il malleolo laterale
è interessato nel 60% dei casi, questo perché il meccanismo traumatico principale è l’inversione del
piede, con conseguente stress meccanico a carico del compartimento laterale che, a seconda
dell’energia del trauma, può determinare la lacerazione dei legamenti laterali o la frattura del
malleolo peroneale;
- Le fratture del pilone tibiale rappresentano solo l’1% dei casi;
- Le fratture dell’astragalo (0,3/0,8%) vengono talvolta misconosciute, poiché difficili da riconoscere;
inoltre, possono evolvere in necrosi della testa astragalica.
Tutte queste fratture sono articolari, pertanto favoriscono la comparsa di artrosi della caviglia.

Iter diagnostico
L’esame clinico è prioritario, ed il paziente si presenta tipicamente con:
- Deformità dell’articolazione;
- Tumefazione;
- Dolore di intensità variabile;
- Impotenza funzionale;
- Possibile assenza dei polsi periferici (tibiale posteriore e pedidio), da valutare con attenzione.

L’esame radiografico va richiesto in almeno tre proiezioni, mentre la TC, trattandosi di fratture articolari,
andrebbe sempre eseguita, in quanto alcune fratture (dell’astragalo in particolare) possono non essere
evidenziate dalla radiografia, ma presenti alla TC; riconoscendole, si evita l’insorgenza di sequele a distanza
di tempo.

Trattamento
La terapia conservativa è generalmente riservata alle fratture composte, prevedendo immobilizzazione con
stecca o gesso; tuttavia, la maggioranza delle fratture viene trattata chirurgicamente, tramite riduzione e
sintesi con placca e viti e/o posizionamento di fissatore esterno.

 Fratture trimalleolari
Il trattamento consiste nel posizionamento di una placca con viti a livello del terzo distale del perone, di una
vite volta a sintetizzare il malleolo mediale, ed una piccola vite a carico del “terzo malleolo”.

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 Fratture-lussazioni con lesione del legamento deltoideo e della sindesmosi
In questo caso si effettua riduzione e sintesi con placca e viti, inserendo la vite trans-sindesmosica per
ripristinare l’anatomia della sindesmosi tibio-peroneale, e sutura del legamento deltoideo con punti trans-
ossei o con àncora.
Un trattamento simile viene eseguito nel caso di frattura del malleolo peroneale con lesione della sindesmosi
(immagini in basso a destra); la vite trans-sindesmosica viene rimossa circa dopo un mese dall’intervento
chirurgico.

In caso di frattura del terzo distale del perone e del “terzo malleolo” (malleolo posteriore), il trattamento
prevede comunque riduzione e sintesi con placca e viti, in aggiunta al posizionamento di due piccole viti in
direzione antero-posteriore per la sintesi del malleolo posteriore.

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 Fratture-lussazioni bimalleolari con lesioni del meso-piede
Si tratta di una lesione abbastanza immediata da diagnosticare alla radiografia, mentre le lesioni associate
del meso-piede risultano più insidiose, e necessitano di uno studio TC; se da un lato la frattura-lussazione
viene trattata con osteosintesi tramite placca e viti, l’instabilità del meso-piede invece prevede generalmente
l’impiego di fili di Kirschner.

 Fratture del mortaio tibiale e del perone


Lesione che interessa il terzo distale di tibia e perone, quindi non propriamente i malleoli; necessita di
osteosintesi con placche e viti, placche nettamente più invasive in quanto bisogna ripristinare la continuità
delle diafisi ossee.

 Fratture di astragalo
Si configura spesso come una diagnosi difficoltosa, che necessita di plurime proiezioni radiografiche (antero-
posteriore, latero-laterale ed obliqua) ed eventualmente valutazione TC.
Il trattamento consiste in riduzione e sintesi con viti. La particolarità dell’astragalo, comune allo scafoide del
carpo, è la delicata vascolarizzazione; infatti, una frattura dell’astragalo non correttamente trattata può
evolvere in necrosi astragalica e successivo crollo dell’astragalo, il quale determina un’importante invalidità
del paziente. Dunque, è fondamentale riconoscere e trattare precocemente lesioni di questo tipo.

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 Fratture-lussazioni tibio-astragalo calcaneari
Trattasi di un trauma complesso, infatti la lussazione dell’astragalo richiede un trattamento chirurgico in
grado di stabilizzare adeguatamente la tibio-tarsica. Si esegue riduzione e sintesi del malleolo tibiale con viti,
mentre l’astragalo viene sintetizzato con fili di Kirschner; inoltre, viene posizionato un fissatore esterno che
mantiene la tibio-tarsica in distrazione, condizione necessaria per permettere la guarigione delle strutture
legamentose.

7.3.3 Patologia degenerativa della caviglia


ARTROSI POST-TRAUMATICA
La più frequente patologia degenerativa articolare è sicuramente l’artrosi; questa può essere:
- Primitiva: è rarissima, associata tipicamente a malattie reumatiche;
- Secondaria: la forma più frequente in assoluto, e nella maggior parte dei casi (per quanto riguarda la
caviglia) compare a distanza di tempo da un evento traumatico, configurandosi come artrosi post-
traumatica.

Le principali cause di artrosi della tibio-tarsica e/o della sottoastragalica sono:


- Instabilità articolare cronica;
- Esiti di lesioni condrali per traumi ad alta energia;
- Deviazioni assiali post-traumatiche;
- Piede piatto e/o cavo non trattato;
- Necrosi dell’astragalo.

Le immagini sottostanti mostrano l’aspetto radiografico ed il relativo trattamento chirurgico di piede piatto
e piede cavo supinato, rispettivamente.

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Iter diagnostico-terapeutico
L’esame clinico evidenzia segni e sintomi che, associati ad un’anamnesi completa, permettono di porre il
sospetto diagnostico:
- Sintomi: dolore, rigidità e cedimento articolare;
- Segni: deformità, tumefazione e rigidità articolare con deficit dell’escursione articolare (Range Of
Motion, ROM).
La diagnostica per immagini prevede:
- Radiografie in carico;
- TC;
- RM: importante per valutare la sofferenza ischemica dell’osso.
Un esame utile in caso di esiti di lesioni neurologiche è l’elettromiografia (EMG).

Di fronte ad un paziente affetto da artrosi della caviglia, il trattamento può essere conservativo, tramite
l’utilizzo di tutori ortopedici, plantari correttivi e scarpe con suola ammortizzante, oppure chirurgico; nel
secondo caso, le opzioni terapeutiche sono due:
- Artrodesi dell’articolazione tibio-tarsica: è tuttora il gold standard, e consiste nella fusione dei capi
articolari di tibia e talo (astragalo), consentendo una risoluzione completa della sintomatologia
dolorosa, ma comportando una limitazione funzionale, tuttavia discretamente compensata dalle
articolazioni di avampiede e mesopiede;
- Sostituzione protesica: la sua applicazione dipende molto dalle scuole di pensiero, in quanto ad oggi
la letteratura non ha evidenziato l’ottenimento di buoni risultati a lungo termine.

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Lezione 7 – parte 4 (instabilità di spalla)
Sbobinatore: G.B.
Docente: Giuseppe Milano
Argomenti: spalla instabile

Domanda di uno studente sul trattamento delle fratture esposte scomposte.


Risposta del docente: non tutte le fratture esposte vanno trattate con il fissatore esterno; questo in realtà può essere
utilizzato anche in fratture non esposte, ma instabili. In particolare, viene usato come trattamento primario (damage
control) in attesa del trattamento definitivo. Ad esempio, nelle fratture di bacino e di femore con importante perdita
di sangue (anche 3 litri), può essere inserito un fissatore esterno per bloccare la frattura in attesa del trattamento
risolutivo, per evitare che si continui a muovere e per tamponare i vasi. Se il rischio di contaminazione è basso (pochi
centimetri di esposizione), questo trattamento viene usato inizialmente per permettere di muovere liberamente il
paziente, ma non è definitivo per una frattura esposta puntiforme: si dovrà inserire un chiodo temporaneo.

Domanda: si devono ripulire le ferite prima di trattarle se scomposte?


Risposta: va fatto contestualmente. Un'altra possibilità è l’uso di fiches - prima di bloccare tutto il sistema o invece di
usare una pinza da riduzione dato che c’è un focolaio aperto - che vengono inserite su moncone prossimale e distale
e si usano come “joystick” per ridurre, muovere i monconi e controllare la frattura, evitando quindi la contaminazione,
poi si inseriscono le barre e si chiude.

7.4 Lussazioni ed instabilità della SPALLA

7.4.1 Anatomia della spalla


La spalla è l’articolazione più soggetta a lussazione perché presenta un’anatomia particolare: la sua
grandissima mobilità (ha 6 gradi libertà!) le conferisce una stabilità intrinseca molto limitata.
Per questo motivo, un trauma può provocare facilmente la lussazione dei capi articolari.

Quando si parla di spalla, genericamente si parla di articolazione gleno-omerale (un’enartrosi1) anche se ci


sono articolazioni satelliti, tra l’acromion della scapola e la clavicola (articolazione acromio-claveare,
un’artrodia) e tra clavicola e sterno (articolazione sterno-claveare, un’articolazione a sella).
Sono presenti due spazi di scorrimento reciproco, tra la testa dell’omero e la scapola e tra la scapola e il
torace, che vengono considerate false articolazioni, ma vengono incluse perché svolgono un ruolo funzionale
(c’è un movimento di due capi articolari uno rispetto all’altro, come se fossero articolazioni). Queste sono:
l’articolazione scapolo-toracica (movimento della scapola rispetto alla parete toracica) e il movimento che la
testa dell’omero fa rispetto alla scapola nello spazio sottoacromiale (articolazione sottodeltoidea).

1L’enartrosi è un’articolazione mobile (diartrosi) le cui superfici articolari sono costituite da una forma sferica (o semisferica) e da
una concavità a sua volta sferica. I movimenti consentiti sono quelli di rotazione, flessione, estensione, aduzione e abduzione. Oltre
alla spalla, altre articolazioni sono quella coxofemorale e quella talo-navicolare.

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Per migliorare la stabilità intrinseca esistono strutture che favoriscono:
• la stabilizzazione passiva o statica: migliorano la congruenza delle superfici articolari, la geometria e
tutto ciò che può migliorare la stabilità; si tratta di legamenti gleno-omerali (tra scapola e omero),
menischi (labbro o cercine glenoideo), manicotto capsulare che unisce i capi articolari (quindi la
capsula articolare);
• la stabilizzazione dinamica: cuffia dei rotatori, muscolo deltoide e muscoli peri-scapolari. In
un’articolazione ad alta congruenza come quella dell’anca svolgono un ruolo minore (hanno un ruolo
motorio, essendo muscoli), ma nella spalla sono più importanti. Quando questi muscoli stabilizzatori
si contraggono aumenta la compressione tra la testa omerale e la glena e la stabilità intrinseca
dell’articolazione migliora.
Per questo nella spalla, molto più che in tutte le altre articolazioni, i gruppi muscolo-tendinei (in
particolare la cuffia dei rotatori che si trova sopra la testa dell’omero e lo abbraccia) avendo un ruolo
molto importante nella stabilizzazione, si usurano facilmente. Infatti, quando un’unità muscolo-
tendinea è chiamata a svolgere un ruolo di stabilizzazione importante, invecchia precocemente. In
questo caso l’invecchiamento comincia intorno ai 30 anni.
Le lesioni iniziano intorno ai 40/50 anni, anche in maniera asintomatica. Sono lesioni da usura, ma
esistono anche lesioni traumatiche.

➢ Struttura dell’articolazione
La glena ha una superficie quasi piatta, mentre la testa dell’omero è quasi sferica: questo determina una
bassa stabilità intrinseca perché il punto di contatto sarebbe puntiforme.

Tuttavia, la cartilagine della glena è più sottile al centro e più spessa in periferia: questo ne aumenta la
concavità; inoltre il cercine glenoideo, un anello fibroso che avvolge come una guarnizione la glena, aumenta
ulteriormente la concavità, anche perché fornisce delle spallette che migliorano la congruenza.
In caso di lussazione, queste strutture si rompono e quindi si perde corrispondenza: a seguito di un episodio,
molto facilmente ci saranno recidive (meno frequenti, invece, nelle altre articolazioni come il gomito).

➢ Muscoli
I principali stabilizzatori dell’articolazione gleno-omerale sono i muscoli che formano la cuffia dei rotatori
(così chiamata perché costituita da muscoli rotatori2):
• sottoscapolare anteriore: intrarotatore
• sovraspinoso superiore (sopra la spina della scapola): extrarotatore (e abduttore, in sinergia con il
deltoide);
• sottospinoso: extrarotatore;
• piccolo rotondo: extrarotatore (debole).
Il sovraspinoso svolge il suo ruolo principale come stabilizzatore durante la contrazione perché comprime la
testa dell’omero contro la glena. Per questo motivo, per migliorare la stabilizzazione, si dovrebbe aumentare
la compressione, diminuendo quindi il rischio di uscita della testa omerale.

2 Lo so, vi ho stupito.

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Altri muscoli stabilizzatori sono:
• Deltoide
• Muscoli peri-scapolari
– Trapezio
– Romboide
– Gran dorsale
– Dentato anteriore
– Elevatore della scapola

7.4.2 Classificazione dell’instabilità


L’instabilità è un sintomo: è una sensazione soggettiva, indipendentemente dall’episodio, per cui si sente
l’articolazione “uscita, fuori posto”. Permane dopo l’episodio stesso.
Al contrario, la lassità è un segno e non sempre è patologica, infatti ci sono delle lassità benigne.
L’instabilità viene classificata secondo diversi parametri:
o Entità: può esserci una
o lussazione, tipica di pazienti con storie cliniche di recidive a seguito di un trauma iniziale;
o sublussazione, tipica di pazienti senza una lussazione franca, per cause non traumatiche,
vissute come sensazione che la spalla “stesse per uscire”, poi rientrata da sola.
o Direzione: viene stabilita dalla direzione del capo distale rispetto al prossimale. L’instabilità può
essere anteriore (più frequente, in cui l’omero esce davanti), posteriore o multidirezionale (in
entrambe le direzioni).
o Timing: può essere:
o acuta se è il primo episodio di lussazione;
o recidivante o ricorrente quando ci sono stati due o più episodi;
o cronica o inveterata quando un’articolazione si è lussata e non è stata ridotta: magari non è
stata fatta diagnosi, il paziente non se ne è accorto e la spalla è rimasta lussata a lungo.
Questo può accadere per esempio in un politrauma quando ci si occupa di salvare la vita del
paziente, per cui potrebbe non essere eseguita una TC total body, ma una TC solo a torace e
addome; le spalle non vengono indagate e non ci si accorge di lussazioni, anche perché il
paziente può essere in coma. Ce ne si accorge dopo tempo.

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o Eziologia:
o nella maggior parte dei casi è dovuta ad un trauma;
o esistono forme atraumatiche, in caso di pazienti con lassità costituzionale, così che basta un
banale movimento per causarla (durante il sonno o per uno starnuto);
o instabilità micro-traumatiche: instabilità che non provoca vere e proprie lussazioni, bensì
episodi di dolore. Appartengono alla gestualità ripetitiva: si compie un gesto che
singolarmente non è lesivo, ma lo diventa quando lo si ripete spesso per diverse volte al
giorno, per diverse volte all’anno. Questo succede nello sport (ad esempio il gesto del pitch
del baseball, in cui si porta la spalla in condizione di rotazione esterna massima e si sfianca
la capsula anteriore, per cui la spalla inizia ad essere così instabile davanti).
o Volontarietà: esistono pazienti che possono lussarsi la spalla e ridurla da soli. Sono soggetti
considerati iperstabili perché hanno una capacità di controllo neuromotorio tale da poter spostare
solo con la contrazione la testa dell’omero rispetto alla glena e poi di rimetterla dentro. In prima
istanza si consiglia di non farlo. Diventa patologia quando la lussazione accade senza averlo voluto.
Nella maggior parte dei casi è una situazione comunque involontaria.

7.4.A Lussazione traumatica acuta anteriore


È l’evento più comune: si ha a seguito di una caduta con braccio in abduzione ed extrarotazione, come accade
in una caduta all’indietro cercando di frenarsi con la mano.

Questo provoca lesioni standard, quasi presenti nel 100% dei casi:
• Lesione di Bankart: il cercine glenoideo anteriore si stacca (lesione del menisco). La testa dell’omero
spinge contro la capsula, staccando il menisco. Si perde così un meccanismo di stabilizzazione. È una
a lesione che non guarisce nella maggior parte dei casi e facilita successive “uscite di spalla”. Se oltre
al cercine si stacca anche un pezzetto d’osso si chiama lesione di Bankart ossea.

• Lesione di Perthes: nel caso in cui l’avulsione coinvolga anche il periostio e la capsula.
• Lesione di Hill-Sachs: è una frattura da impatto. La faccia posteriore della testa dell’omero, dopo
essere uscita, torna indietro e sbatte contro il bordo anteriore tagliente della glena. Rimane impresso
il bordo della glena sul bordo dell’omero, che avrà un’unghiatura. È segno di una spalla che ha avuto
lussazione anteriore. Invece l’unghiatura anteriore (Hill-Sachs inversa) è indicativa di una lussazione
posteriore.

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La lussazione di spalla può danneggiare anche il nervo circonflesso o ascellare perché esso passa proprio
nel cavo ascellare. Si tratta di una lesione da stiramento, perché la testa dell’omero va in avanti e in basso e
“tira” il nervo.
In acuto è difficile da riconoscere, perché il paziente non muove l’arto per il dolore e ha comunque la spalla
lussata. Per riconoscere questa lesione si deve valutare la componente sensitiva. Infatti, il nervo ascellare è
un nervo sensitivo-motorio:
- la componente motoria permette la contrazione del deltoide, permettendo abduzione del braccio
con sollevamento;
- la componente sensitiva innerva la regione laterale della porzione prossimale del braccio, la regione
deltoidea. Perdita di sensibilità in questa zona è indicativa di danno al nervo;
Va indagata, riconosciuta e diagnosticata prima della riduzione perché potrebbe essere attribuita dal
paziente alla manovra: infatti se non viene diagnosticata subito e poi il paziente a distanza di tempo la
sviluppa, può pensare che sia stata la manovra effettuata dal medico.

Inoltre, a questo livello passano anche l’arteria brachiale, la vena succlavia e il plesso brachiale. Una
lussazione grave e violenta può dare strappo di tutto il plesso brachiale con deficit gravi dell’arto superiore.
Ci possono essere anche delle fratture (per esempio del trochite) associate alla lussazione.

7.4.A.1 Diagnosi
Il paziente si presenta con braccio immobile e intraruotato, con limitazione funzionale. Si ha il segno della
spallina: normalmente la spalla ha un aspetto tondeggiante dato dalla testa dell’omero sotto il deltoide;
quando la spalla scende si ha un profilo laterale dritto con uno spazio (prima occupato dalla testa omerale)
vuoto. Potrebbe esserci ipoestesia o anestesia della regione deltoidea, per deficit del nervo ascellare.

Per identificare il problema, la prima cosa da fare è una radiografia per definire l’entità del danno e
diagnosticare la lesione neurologica. Per questo motivo bisogna stare attenti sul campo da gioco: non si deve
ridurre subito la lussazione, perché sotto potrebbe esserci anche una frattura.

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Dopo la riduzione si deve ripetere la radiografia perché può capitare che la riduzione non si mantenga. In
quel caso probabilmente i tendini si saranno strappati e incarcerati nell’articolazione (per questo motivo
occupano spazio e impediscono un normale ripristino della congruenza): si può fare una RM o addirittura
un’esplorazione aperta.

7.4.A.2 Trattamento
Il trattamento della lussazione può essere fatto con varie manovre, dopo essersi accertati che si tratta di una
lussazione anteriore.
La manovra tradizionale è quella di Ippocrate: prevede il paziente, disteso sul lettino, avvolto in un lenzuolo
intorno al torace per controtrazione. Si tira il braccio del paziente e la testa dell’omero si disingaggia,
tornando al suo posto. Altra controtrazione si può fare col piede, premendolo direttamente sulla spalla.
Uno dei motivi di insuccesso della manovra è la contrazione antalgica, messa in atto dal paziente per
difendersi e sempre più accentuata col passare del tempo. Per questo il paziente va sedato: per evitare
dolore e per evitare contrazione.

Il trattamento di lussazione acuta non è chirurgico. Il paziente va immobilizzato per 3-4 settimane nella
speranza che la lesione del cercine diventi cicatrice in posizione corretta. Se questo accade, la spalla ripristina
la propria cinematica e geometria e torna stabile. Se non cicatrizza o lo fa in posizione viziata (quindi non
riesce a incrementare la concavità), l’instabilità permane perché il cercine non svolge più il suo ruolo.

Se si ha un’altra lussazione è inutile un nuovo tentativo in immobilizzazione. La spalla va operata, anche


perché tutte le volte che la spalla esce, la testa dell’omero sbatte contro il bordo della glena consumandolo
e facilitando ulteriormente la lussazione.
Infatti, se normalmente l’articolazione ha una “forma a pera”, dopo 4 o 5 lussazioni il consumo delle due parti
ossee che vanno a contatto (omero e glena) la modifica in una “forma a pera inversa”. Quando si ha una
perdita della glena superiore all’11-15 %, la stabilità non si riguadagna neanche con l’intervento e bisogna
fare una ricostruzione (una chirurgia complessa) con risultati meno prevedibili.
Anche la lesione di Hill-Sachs peggiora sempre più con lussazioni successive e, quando alla testa dell’omero
manca un terzo, l’osso va ricostruito.

7.4.B Lussazione traumatica anteriore recidivante


Quando il paziente racconta di vari episodi di lussazione, essi vanno indagati per capire il danno. Se non c’è
stato trauma nelle prime volte, mentre successivamente il paziente è andato in pronto soccorso, ciò significa
che il danno osseo è tale che la spalla si è incastrata perché manca un terzo della glena e un terzo della testa
dell’omero.
Non è raro che il paziente abbia disturbi neurologici, come formicolio e braccia pesanti perché la spalla sta
sempre in posizione di sublussazione inferiore in quanto la capsula è rovinata ed è sottile. Questa posizione
stira il plesso brachiale, con possibili disestesie conseguenti.

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7.4.B.1 Diagnosi
➢ Clinica
I test clinici per fare diagnosi di instabilità sono vari, di solito si ripropone la manovra di uscita della spalla,
quindi con braccio in abduzione e in extrarotazione:
• Apprehension test: il paziente ha paura che la spalla esca e conosce il limite oltre cui non deve
andare.
• Relocation test: il paziente non ha più paura se nel fare la manovra si mette la mano sulla testa
dell’omero per trattenerlo.
• Sulcus sign: si misura la lassità legamentosa. Se tiro il braccio in basso si forma un solco tra acromion
e testa dell’omero, perché la testa scende facilmente. Il solco è visibile e palpabile. Se la lassità è
bilaterale si tratta invece di un fatto costituzionale, se è monolaterale è patologica: significa che è
stata strappata la capsula inferiore.
• Test di extrarotazione: rotazione esterna del braccio a 0 gradi di abduzione. Nel paziente
normolasso non si va oltre i 70°, mentre nel lasso si arriva anche a 90°.
• Test di Gagey: il braccio in posizione neutra viene abdotto. Ai 90°, in una spalla normale, il trochite
tocca l’acromion e non si può più spostarlo verso l’alto. Nel paziente lasso si forma uno spazio, per
cui il trochite si disimpegna e il braccio sale oltre.

È importante capire il morfotipo del paziente al fine di eseguire un trattamento chirurgico ad hoc. Infatti, la
lassità di base non va corretta, altrimenti la spalla perderà movimento. Perdere movimento è più invalidante
che perdere stabilità, quindi meglio essere lassi che rigidi. Il paziente va riportato com’era prima del
problema: questo vale soprattutto per gli sportivi, ad esempio i lanciatori che perderanno potenza nei lanci.

➢ Imaging
o Esami di primo livello: radiografia
o Esami di secondo livello: servono per avere più informazioni (ad esempio capire se ci sono danni
ossei e quanti). Si usa la TAC, perché presenta un’accuratezza migliore per valutare la componente
ossea rispetto alla risonanza. Inoltre, il danno osseo determina il tipo di trattamento chirurgico. La
RMN invece permette di vedere meglio tendini e legamenti.

7.4.B.2 Trattamento
Se il danno è limitato alla capsula e ai legamenti, l’intervento si può fare in artroscopia: senza aprire
l’articolazione, si entra attraverso piccoli fori con l’utilizzo di una telecamera e con strumenti miniaturizzati
per ridurre il labbro e riattaccarlo all’osso tramite impianti metallici chiamati “mini-ancore” (spesso
riassorbibili).
Eventualmente può essere eseguito a cielo aperto, quando il paziente ha tessuti molto logorati da una lunga
storia di lussazioni (quindi poco affidabili) e quando è presente un difetto o un’erosione ossea sulla testa
omerale e/o sulla glena, e quindi non è possibile eseguire l’intervento in artroscopia.

L’intervento è finalizzato a ritensionare la capsula ed i legamenti della spalla che hanno perso tensione e
funzionalità dopo la lussazione. Con queste mini-ancore è possibile anche reinserire piccoli frammenti di osso
distaccatisi con la lussazione (Bankart ossea).
In caso di riscontrati difetti ossei di minore entità si può attuare una tecnica particolare che reinserisce la
cuffia sul difetto osseo a colmarlo; la tecnica prende il nome di remplissage.

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Docente: Guido Zarattini
Argomenti: politrauma, frattura di bacino e rachide;

8. POLITRAUMI & EMERGENZE ORTOPEDICE

Con politrauma, in medicina, si indica un paziente ferito che presenta lesioni associate a carico di due o più
distretti corporei (cranio, rachide, torace, addome, bacino, arti) con compromissione delle funzioni vitali
(respiratorie e/o circolatorie). Lo scenario più ricorrente è rappresentato dagli incidenti stradali, mentre gli
incidenti sul lavoro rappresentano circa il 10-15% dei casi.
La prima fase di trattamento è rappresentata dal primo soccorso in cui il personale medico attua, a seconda
delle condizioni del soggetto, le eventuali manovre rianimatorie, il controllo delle vie aeree e del battito
cardiaco.
L’avvento di eliambulanze, auto-mediche ed altri mezzi di soccorso ha fatto sì che molti soggetti, che un
tempo andavano incontro a morte, ora arrivino in ospedale vivi e diventino quindi pazienti ortopedici (e non
solo).
A migliorare ulteriormente la sopravvivenza ha contribuito anche il cambiamento dell’organizzazione del
pronto soccorso, con l’entrata in funzione dei “Trauma Center” (a Brescia è presente un “trauma center” di
2° livello. In Lombardia è l’unico insieme solo al Niguarda ed a Pavia) che mettono a disposizione una saletta
di emergenza con un medico (rianimatore, di medicina generale o d’urgenza) che è in grado di fare un bilancio
immediato delle lesioni con prognosi peggiore, generalmente quelle di natura vascolare. Si ha, quindi, la
possibilità di fare in emergenza una Eco-FAST, che non ha la stessa finezza diagnostica di un’ecografia fatta
in elezione, ma che fornisce, comunque, informazioni molto importanti. Inoltre vi è un’organizzazione tale
per cui quasi tutti i pazienti politraumatizzati vengono sottoposti, nel giro di pochi minuti, ad una TC TOTAL
BODY anche con MDC (che ha una velocità di acquisizione delle immagini di 4/5 minuti, quindi molto rapida).
Se questa evidenzia un sanguinamento, ad esempio in addome, addirittura è possibile mandare in pochi
minuti il paziente in sala angiografia per chiudere l’eventuale emorragia (considerato dal professore il vero
intervento salvavita, che ha cambiato completamente la prognosi di molti pazienti).

Dal punto di vista ortopedico, l’evento più importante, anche come “prognosi quoad vitam1”, sono le fratture
di bacino. Queste sono di vario tipo, ma sicuramente la frattura di tipo “open book” del bacino rappresenta
quella più pericolosa.
Essa è molto facile da individuare, basta appoggiare una mano a livello della sinfisi pubica. Se si percepisce
un buco al posto dell’osso, si è di fronte ad un caso di bacino aperto. Un tempo veniva risolta tramite
l’impianto di un fissatore esterno in sala operatoria.

1 Prognosi che fa riferimento alla sola sopravvivenza, senza pronunciarsi in merito al riacquisto della salute o a un recupero funzionale

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Oggi, invece, esiste una sorta di fascia lombare, posizionata direttamente dal
rianimatore, che viene chiusa con dei tiranti molto resistenti e con l’ausilio di 4
cricchetti. Questo device prende il nome di T-POD (immagine a fianco).

Le due immagini seguenti rappresentano la condizione pre e post impianto di T-POD.

Solitamente questi pazienti muoiono per via delle massive emorragie che si vengono a manifestare.
L’apertura del bacino crea una pressione negativa all’interno della pelvi, favorendo il sanguinamento: se si
va a chiuderlo, la pressione negativa nella pelvi tende a tornare positiva, promuovendo l’interruzione della
fuoriuscita di sangue in vasi di calibro minore. Questo è il motivo per cui una condizione di bacino aperto, che
una volta era di competenza prettamente ortopedica, ora può essere risolta, almeno temporaneamente,
anche da un medico di primo soccorso, con un aumento della sopravvivenza dei pazienti.

8.1 Problematiche principali in un politrauma


Dal punto di vista ortopedico, in un paziente politraumatizzato, si possono avere, quindi, diversi tipi di
problemi che devono essere tempestivamente trattati (approfonditi nei paragrafi successivi):
1. Frattura “open book” di bacino
2. Fratture/lussazioni esposte: in questo caso si esegue un trattamento in urgenza definito “damage
control”, tramite un fissatore esterno, per rendere più stabile, e quindi molto più gestibile, il
paziente. Si tratta di un intervento molto veloce (in 10/15 minuti lo si porta a termine) che può
essere svolto addirittura al letto del malato in rianimazione. Questo tipo di intervento, nonostante
la sua semplicità, è molto importante per evitare un futuro danno, visto che un moncone di frattura
che si muove può causare lesioni vascolo-nervose, oltre che favorire il sanguinamento.
La classificazione di Gustilo (già trattata nella lezione 6. FRATTURE) suddivide in 3 classi le fratture
esposte, a seconda dei centimetri di esposizione dell’osso, e dà indicazioni su quali manovre di
detersione e rimozione di tessuto necrotico eseguire:

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3. Fratture vertebrali mieliche: si tratta di un argomento molto dibattuto perché, secondo la
letteratura, operando tempestivamente una frattura mielica, non si hanno maggiori chances di
recupero rispetto ad un’attesa nell’intervento. Logicamente, la prima cosa che viene in mente è che
“prima si opera e meglio è”, ma la letteratura non supporta questa tesi e perciò, nonostante
rappresenti comunque un’urgenza, questa situazione va in coda a fratture open del bacino o
lussazioni.
4. Lussazioni delle piccole/grandi articolazioni: è importante andarle a trattare perché possono
comprimere le strutture vascolari e nervose.
5. Fratture diafisarie delle ossa lunghe: in particolare quelle del femore, sono un problema perché tali
ossa sono strutture molto vascolarizzate. Infatti per una semplice frattura trasversa del femore, un
paziente può perdere anche 1.5 litri di sangue, quindi è una frattura banale da trattare ma
potenzialmente pericolosa. Se fosse una frattura bilaterale di femore o associata (femore + tibia), a
quel punto il paziente potrebbe perdere invece fino a 3 litri di sangue, necessitando quindi di un
ricovero imminente in rianimazione. Come nelle fratture esposte, anche in questo caso si interviene
o con un fissatore esterno in urgenza o tramite l’utilizzo di un chiodo endomidollare.

8.A Fratture del bacino

Il bacino è costituito da 3 ossa:


1. Ileo
2. Ischio
3. Pube
Esso presenta legamenti molto tenaci a livello dell’articolazione sacro-iliaca e della sinfisi pubica, che
difficilmente vanno incontro a rottura: solo un trauma ad alta energia è in grado di determinare un’apertura
del cingolo pelvico, lacerando i legamenti.

Articolazioni
La sacro-iliaca è un’articolazione ipo-mobile dotata di capsula articolare, i cui capi sono rivestiti da un sottile strato di
cartilagine ialina che prevede nella maggioranza dei casi l’interposizione di un disco cartilagineo: l’articolazione si
definisce in questo caso anfiartrosi; qualora il disco non fosse presente si forma una vera e propria artrodia.

La sinfisi pubica è un’anfiartrosi tra le due ossa pubiche.

Grande e piccola pelvi


L'articolazione delle due ossa iliache con l'osso sacro permette di osservare sulla superficie interna del bacino un
caratteristico restringimento di forma ovalo-circolare, detto stretto superiore del bacino, che permette di suddividere
il bacino in una porzione superiore, detta grande pelvi (o pelvi falsa) e una inferiore detta piccola pelvi (o pelvi vera).

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Lo stretto superiore si disegna bilateralmente su una linea che nella parte posteriore origina dal promontorio e dal
margine superiore delle ali del sacro, si continua lateralmente nella linea arcuata e nella cresta pettinea per chiudersi
anteriormente sul tubercolo pubico e sulla cresta pubica. Le pareti della grande pelvi sono formate dalle ampie
superfici delle fosse iliache delle ossa dell'anca. Le pareti della piccola pelvi sono invece formate posteriormente dalla
superficie anteriore dell'osso sacro e del coccige, anteriormente dalla superficie posteriore del pube e lateralmente
dalla superficie mediale dell'ischio e del ramo del pube.
La piccola pelvi termina inferiormente con un restringimento, anch'esso di forma ovalo-circolare, che costituisce lo
stretto inferiore, il quale si disegna bilateralmente su una linea che nella parte anteriore origina dalla sinfisi pubica e
seguendo il margine inferiore dei rami ischiopubici e delle tuberosità ischiatiche, si continua lateralmente nel margine
inferiore dei legamenti sacrotuberosi e si chiude posteriormente all'apice del coccige.

Nel bacino è possibile distinguere due regioni:


- superiormente il grande bacino, formato dalle fosse iliache interne e dalle ali del sacro;
- nella porzione inferiore il piccolo bacino.
Il limite tra queste due zone (orifizio dello stretto superiore) è segnato dalla linea innominata presente sulla faccia
interna delle ali iliache e dal promontorio sacrale posteriormente.

Le fratture a livello del bacino possono essere suddivise in 2 tipi e sono in funzione dell’entità del danno
(considerando la presenza di vasi di calibro importante e di organi nobili):
1) Fratture con interruzione del cingolo pelvico (instabili)
2) Fratture senza interruzione del cingolo pelvico (stabili)

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8.A.1 Fratture CON interruzione del cingolo pelvico
Sono caratterizzate dall’interruzione della parete di un emibacino o dall’interruzione a livello di ¼ di bacino
(si parla di “floating hip”, ossia “anca flottante”). Si tratta in entrambi i casi di lesioni molto instabili.
Per quanto riguarda il grosso bacino (quindi escluso l’acetabolo) la classificazione AO2 è quella
maggiormente utilizzata: essa classifica le fratture in funzione della gravità, al fine di guidare il trattamento.

8.A.1.1 Classificazione di Tile


La classificazione di Tile individua tre gruppi di fratture: A (stabili), B (parzialmente instabili), C (francamente
instabili).
TIPO A: Si tratta di lesioni parcellari stabili in cui permane una continuità ossea e legamentosa dell’arco
posteriore, in cui il pavimento pelvico è intatto e, soprattutto, in cui il normale carico fisiologico non crea
degli spostamenti.

Si distinguono fratture di tipo (a gravità crescente):


- A1: Avulsione: lesione che avviene negli sportivi generalmente di giovane età (dai 13 ai 15 anni),
quando le cartilagini di accrescimento non sono ancora del tutto formate ed i nuclei di
ossificazione non si sono ancora fusi con l’osso circostante, a carico di:
▪ spina iliaca antero-superiore, dove si inserisce il muscolo sartorio ed il muscolo tensore
della fascia lata
▪ spina antero-inferiore
▪ cresta iliaca
▪ ischio
- A2: Trauma diretto, danno a livello di:
▪ Ala iliaca
▪ Branche pubiche ± sinfisi (uni o bilaterale)
- A3: Frattura del sacro:
▪ Lussazione sacro-coccigea
▪ Frattura trasversale del sacro (scomposta o meno)

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La classificazione più utilizzata per descrivere le fratture di bacino è la classificazione di Tile, tuttavia la classificaizone AO ha
“inglobato” i caratteri di quella di Tile. Vi lascio un piccolo specchietto sulla classifcazione AO.
La classificazione AO serve da vero e proprio riferimento al chirurgo per individuare la procedura più adatta al trattamento di una
singola lesione ossea ed inoltre la sua struttura consente, anche a chirurghi distanti tra loro geograficamente o con idiomi diversi di
parlare un’unica lingua. Si basa su uno schema fisso del tipo: numero.numero.lettera(.numero), ognuno con un significato preciso:
- Il primo numero indica il segmento scheletrico in modo univoco: braccio = 1; avambraccio = 2; […]; bacino = 6;
- Il secondo numero indica la localizzazione relativa della frattura: prossimale (1), intermedia (2) e distale (3);
- La lettera indica la gravità della lesione: bassa (A), intermedia (B), massima (C);
- Un’eventuale ultima lettera precisa il livello di gravità all’interno della classe precedente;
- Una frattura classificata come 1.2.A.1 indica una frattura a carico del terzo medio dell’omero di gravità bassa (A.1).
Probabilmente vi state chiedendo come mai un ortopedico straniero non possa semplicemente osservare la radiografia invece che
scartabellare chissà quale manuale per risalire a che tipo di frattura ha davanti. SAREBBE TROPPO FACILE.

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TIPO B: Si tratta di una lesione parzialmente instabile con una diastasi a livello della sinfisi pubica e,
posteriormente, una lesione a livello della articolazione sacro-iliaca. Si ha una rottura incompleta dell’arco
posteriore: la frattura è stabile in senso verticale, ma instabile in senso rotatorio. Si ha una conservazione
parziale della continuità osteo-legamentosa posteriore. È una lesione in cui il pavimento pelvico è intatto ed
in cui il carico fisiologico determina deformità.

In particolare:
- B1: definita "open book" fracture, in cui aumentano i diametri del bacino, con rischio di
emorragia a causa della pressione negativa che si viene a creare. Si verifica a seguito di una
compressione sagittale che interrompe l’arco anteriore e provoca l’apertura anteriore
dell’articolazione sacro-iliaca:
▪ Disgiunzione sacro-iliaca anteriore
▪ Frattura del sacro
- B2 (closed book): una compressione laterale interrompe l’arco anteriore e sollecita in chiusura
anteriore l’articolazione sacro-iliaca; in soldoni:
▪ Frattura con schiacciamento anteriore del sacro
▪ Lussazione parziale sacro-iliaca
▪ Frattura incompleta posteriore dell’ala iliaca
- B3: interruzione dell’arco anteriore + frattura posteriore bilaterale; le possibili combinazioni sono:
▪ B1 dei 2 lati
▪ B1 + B2
▪ B2 dei 2 lati

TIPO C: Si tratta di una lesione francamente instabile con distrazione3 verticale in cui si ha una rottura
completa dell’arco posteriore. La distrazione verticale comporta la dislocazione completa o l’instabilità di una
o entrambe le pelvi.

In particolare:
- C1: Rottura completa dell’arco posteriore, unilaterale
- C2: Rottura completa dell’arco posteriore di un lato e incompleta dell’altro; un lato è instabile in
senso rotatorio, l’altro in senso verticale.
- C3: Rottura completa dell’arco posteriore, bilaterale; instabilità verticale bilaterale.

3 Che non è quella che ti ho provocato io adesso con questa nota

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8.A.1.2 Classificazione in base alla direzione dell’urto (cl. di Young-Bourgess)

➢ Urto antero-posteriore: frattura “open book” (che si verifica in caso di frattura di entrambe le branche
ileo-ischio-pubiche, interruzione della sinfisi pubica…)

➢ Compressione laterale (il prof mostra solo le immagini):

➢ Fratture con compressione verticale: sono tipiche dei tentati suicidi, con il paziente che si lancia dalla
finestra. Tipiche di questi casi sono le “dissociazioni spino-pelviche” in cui entrambi i lati del bacino hanno
perso la continuità con l’articolazione sacro-iliaca. È una lesione molto grave e anche abbastanza
complessa da trattare. Tra queste si distinguono:
- Frattura di Malgaigne: grave frattura del bacino dalla branca anteriore del pube fino all'osso
ischiatico ed all'ala iliaca per discendere fino all'articolazione sacro-iliaca
- Frattura di Vollemier: interessamento della branca ischio-pubica e dei fori sacrali omolaterali.
Questo è un problema perché da questi ultimi passa la componente nervosa e quindi si potrebbero
avere problemi neurologici (come ad esempio incontinenza fecale) di entità diversa a seconda
della deformità della frattura.
- Frattura quadrupla vertebrale

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8.A.1.3 Quadro clinico
I pazienti politraumatizzati con una frattura del bacino lamentano dolore (non lo avresti mai detto, vero?),
tuttavia molto spesso arrivano all’attenzione dell’ortopedico incoscienti o comunque già intubati. Un dato
clinico patognomonico di queste fratture è una netta asimmetria delle creste iliache.

8.A.1.4 Esame obiettivo e possibili complicanze


Quando il paziente è sveglio, per una questione medico-legale, viene eseguita la valutazione neurologica
periferica (specialmente dello SPE, ovvero del nervo sciatico popliteo esterno che permette la dorsi-flessione
del piede). Infatti, il nervo sciatico è uno dei primi nervi che viene lesionato a causa della posizione delle sue
fibre. Le complicanze nervose sono piuttosto frequenti.
Oltre alla valutazione neurologica, si esegue anche la valutazione di:
- vascolarizzazione periferica: si misurano i polsi periferici; un’eventuale lesione dell’arteria
femorale costituisce una situazione molto grave che nella stragrande maggioranza dei casi porta
a morte il paziente. Tuttavia, questa eventualità è molto rara; generalmente i vasi che si
rompono, conseguentemente a fratture del bacino, sono vasi endopelvici (arteria ipogastrica e
plesso venoso scarale), la cui rottura non rappresenta una situazione drammatica come quella
dell’a. femorale, ma non è da sottovalutare in quanto si tratta di vasi con un afflusso importante.
- lesioni associate, soprattutto a carico dell’apparato genito-urinario: sono spesso (10% dei casi)
causate da manovre salvavita operate dall’ortopedico per chiudere “alla veloce” la pelvi, che
possono determinare un intrappolamento della vescica o dell’uretra, lesionandole. Nella
maggior parte dei casi, possono essere trattate chirurgicamente dall’urologo e quindi hanno
comunque una buona risoluzione. Alcuni esempi sono:
o vescica rotta: importante perché può dare peritoniti chimiche da urea.
o strappamento dell’uretra: in questo caso è necessario eseguire, in un secondo momento,
un intervento di bypass uretrale.
- eventuali dismetrie: si misurano gli arti.

Per valutare rapidamente la gravità della frattura, inoltre, il medico è solito posizionare la mano sul pube del
paziente: in caso di fratture di tipo open book il dito penetrerà in profondità

8.A.1.5 Test diagnostici


L’esame di 1° livello che viene effettuato ancora in saletta di emergenza è l’eco-FAST.
Gli esami di 2° livello sono invece rappresentati dalla TC e dall’angiografia, in caso di lesioni del distretto
vascolare.

8.A.1.6 Trattamento
Lo scopo iniziale del trattamento è quello di fermare l’emorragia.
Si può ricorrere al posizionamento, a livello pelvico, di bende che consentono di ridurre i diametri antero-
posteriori. Esiste anche la cosiddetta morsa pelvica che, riducendo i diametri (soprattutto latero-laterali),
consente al paziente di eseguire i vari esami diagnostici.
Un tempo, quando ancora la chirurgia del bacino non era molto sviluppata, veniva utilizzata una “amaca di
sospensione” per consolidare la frattura. Essa consisteva in una specie di fascia sopraelevata che racchiudeva
il bacino del paziente per almeno un mese.

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Oggi invece, quando ci si trova davanti ad una frattura di bacino, si può agire in più modi:
• Fissaggio di viti a livello dell’articolazione sacro-iliaca per via percutanea, senza quindi il bisogno di
effettuare incisioni chirurgiche. Addirittura, all’ospedale Niguarda di Milano sono dotati di una scopia
3D che permette il posizionamento delle viti in maniera assolutamente precisa e senza particolari
difficoltà.
• Cerchiaggio a livello della sinfisi pubica.
• Utilizzo di placche.
• Utilizzo di un fissatore esterno (nelle fasi definitive di trattamento).

La letteratura, attualmente, invita a seguire il concetto di “damage control”, ovvero prima bisogna dare
importanza ad un semplice fissaggio delle fratture per permettere lo svolgimento di altri esami ed altri
interventi chirurgici più delicati e poi, a 7-10 giorni di distanza, si interviene in maniera più mirata e raffinata
per trattare in modo definitivo le lesioni.

8.A.2 Fratture SENZA interruzione del cingolo pelvico: fratture dell’acetabolo


Le fratture senza interruzione del cingolo pelvico sono fratture stabili di gravità decisamente minore a
quelle fino ad ora considerate, che appartengono al gruppo A della classificazione di Tile. In particolare:

- fratture trasversali di sacro, coccige o ala iliaca: sono fratture spesso conseguenti a traumi diretti e,
raramente, sono tali da richiedere interventi di riduzione. Nelle fratture del sacro è utile ricercare
eventuali deficit neurologici;
- fratture isolate delle branche ileo ed ischio-pubiche: sono fratture secondarie a traumi minimi in
pazienti osteoporotici;
- avulsioni delle tuberosità: sono, generalmente, lesioni da strappamento conseguenti a brusche
contrazioni muscolari (nei bambini che praticano attività sportiva). L’intervento di riduzione ed
osteosintesi è richiesto solo in caso di ampia diastasi dei frammenti.

Le lesioni appartenenti a questo gruppo più frequenti e di importanza clinica maggiore sono le fratture
dell’acetabolo (e per il resto del paragrafo si farà riferimento a queste).
Si tratta forse delle fratture più complesse da trattare in quanto fratture articolari; questo è un problema
perché generano artrosi. La maggior parte dei pazienti con fratture dell’acetabolo sono soggetti giovani (40
anni), perciò è necessario trattarle molto bene per evitare che, nel giro di pochi anni, generino artrosi con
conseguente impianto di protesi.

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8.A.2.1 Richiami anatomici4
L’acetabolo è situato sulla faccia esterna dell’osso iliaco, nella metà inferiore. Alla sua formazione concorrono tutte e
tre le parti dell'osso dell'anca:
- il corpo dell'ileo costituisce la porzione superiore dell'acetabolo e ne rappresenta poco meno dei 2/5;
- il ramo superiore dell'ischio forma la porzione posteriore e parte di quella inferiore dell'acetabolo e ne
rappresenta poco più dei 2/5;
- il ramo superiore del pube forma la porzione anteriore e parte di quella inferiore dell'acetabolo e ne
rappresenta all'incirca 1/5.

Gli elementi anatomici essenziali dell'acetabolo sono:


- labbro acetabolare: struttura fibrocartilaginea, simile a un anello e fissata tutt'attorno al perimetro circolare
dell'acetabolo, come fosse una guarnizione. I suoi compiti sono sostanzialmente due: favorire il corretto
alloggiamento della testa del femore e garantire stabilità all'articolazione dell'anca;
- faccia semilunare dell'acetabolo: costituisce la parte superiore della superficie interna dell'acetabolo ed ha una
forma semicircolare. Liscia e ricoperta da uno strato di cartilagine articolare, rappresenta un elemento
anatomicamente rilevante perché è l'unica porzione di acetabolo che interagisce veramente con la testa del
femore, nel formare l'anca.
- Incisura acetabolare: costituisce la porzione infero-anteriore della superficie interna dell'acetabolo e svolge una
funzione molto importante. Essa, infatti, garantisce il passaggio del cosiddetto legamento acetabolare
trasverso, una struttura fondamentale per mantenere nella sede appropriato la testa del femore. Inoltre dà
inserzione a parte di uno dei due capi terminali dell'importante legamento che salda all'acetabolo la testa del
femore (sede dell'altro capo terminale); tale legamento prende il nome di legamento della testa del femore o
legamento rotondo del femore. Infine costituisce il cosiddetto forame acetabolare, uno spazio che permette il
passaggio dei vasi sanguigni deputati a irrorare la testa del femore.
- Fossa acetabolare: è la porzione centrale e più profonda dell'acetabolo. Presenta una forma quadrilatera e
dalla superficie rugosa e costituisce una continuità dell'incisura acetabolare, tant'è che, con quest'ultima,
contribuisce all'inserzione di uno dei capi terminali del legamento rotondo della testa del femore. Un'altra
importante caratteristica della fossa acetabolare è la presenza, al centro, di tessuto adiposo.

L’acetabolo deve essere considerato come una cavità approssimativamente emisferica, compresa tra le
branche di una “Y rovesciata” costituita da due colonne ossee:
- la colonna anteriore (ileo-pubica) decorre obliquamente verso il basso, dalla cresta iliaca alla
sinfisi pubica;
- la colonna posteriore (ileo-ischiatica) si estende dal margine inferiore dell’articolazione sacro-
iliaca e dall’incisura del nervo ischiatico sino alla tuberosità ischiatica.

4 Tutte le informazioni riportate in corsivo sono state prese dal dark web (my-personaltrainer, researchgate.net) poiché il professore
le accenna solamente ed in modo confusionario.

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Le pareti (anteriori e posteriori) rappresentano il bordo dell’acetabolo:
- la parete anteriore è la parte in cui la testa del femore si va a posizionare quando è in extra-rotazione;
- la parete posteriore è sede della testa del femore durante l’intra-rotazione.

8.A.2.2 Classificazione
Il sistema classificativo universalmente accettato è quello di Judet-Letournel che divide le fratture acetabolari
in:
- 5 fratture elementari (semplici), caratterizzate da una singola rima di frattura principale che coinvolge
una delle due colonne acetabolari;
- 5 fratture complesse (associate), rappresentate dall’associazione di due o più fratture elementari.

8.A.2.3 Eziologia
Le fratture dell’acetabolo sono causate da:
- traumi ad alta energia;
- sollecitazione meccanica a livello del trocantere (la testa femorale spinge sull’acetabolo e causa
fratture);
- incidenti stradali;
- sport (rare).

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Una delle lesioni che si può vedere più frequentemente è la lussazione dell’anca. Essa causa un distacco della
parete posteriore dell’acetabolo e, ovviamente, a seconda delle dimensioni dei frammenti distaccati,
bisognerà andare a riposizionarli chirurgicamente per evitare l’instabilità dell’articolazione. In questi casi è
necessario effettuare un accesso chirurgico lungo circa 40/50cm in quanto non sono possibili altre vie di
entrata.
Una lussazione particolare è, invece, la lussazione endo-pelvica. Sul fondo dell’acetabolo è presente una
lamina quadrilatera piuttosto sottile: un trauma ad alta energia proveniente dal lato del trocantere, può
rompere questa lamina e far spostare la testa del femore all’interno dell’addome.

In alcune fratture si può verificare una lesione dei vasi intracapsulari, come il ramo ricorrente della
circonflessa anteriore del femore, causando necrosi asettica della testa del femore. Non si tratta di una
complicanza immediata: il paziente guarisce dalla frattura di acetabolo, ma dopo un anno può sviluppare
necrosi della testa, con tutte le conseguenze che ne derivano (deformazione ⇒ mancata congruenza dei capi
articolari ⇒ artrosi ⇒ intervento con protesi).

8.A.2.4 Quadro clinico


Il quadro clinico è sovrapponibile a quello delle fratture instabili di bacino, anche se come “prognosi quoad
vitam” si tratta di lesioni meno gravi. Sono fratture più complicate per quanto riguarda il trattamento, ma
generalmente danno minori complicanze rilevanti.
Si possono avere complicanze precoci, soprattutto dal punto di vista emodinamico, e complicanze tardive,
tra cui la coxo-artrosi o la necrosi della testa del femore.

8.A.2.5 Diagnostica per immagini


Seguendo la classificazione di Judet-
Letournel è possibile visualizzare il tutto
attraverso una radiografia; è importante
riconoscere i punti di repere: parete
posteriore, parete anteriore, tetto, lacrima
(mediale alla testa femorale), linea ilieo-
ischiatica, ileo-pettinea. Qualora si evidenzi
un’interruzione di queste linee, si può fare
una diagnosi di fratture dell’acetabolo senza
il bisogno di una TAC.
Per una diagnosi più precisa si possono valutare due proiezioni particolari. La proiezione alare che evidenzia
la colonna posteriore e la parete anteriore e la proiezione otturatoria che mostra una colonna anteriore e la
parete posteriore.

8.A.2.6 Trattamento
Il trattamento prevede un’osteosintesi con viti o placche. Non è necessario eseguirlo in urgenza ma,
nonostante ciò, è molto impegnativo dal punto di vista tecnico.
Una complicanza purtroppo frequente che si verifica quando si interviene con accesso posteriore, è la genesi
di calcificazioni molto rilevanti che devono essere rimosse dopo pochi anni. Non si capisce ancora
esattamente cosa vi sia alla base di questa complicazione e per questo motivo sono in corso studi.

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8.B Fratture vertebrali

Le fratture vertebrali si verificano principalmente a livello cervicale e a livello della giunzione toraco-
lombare, quindi da T11 a L2; quest’ultima zona è la più coinvolta, essendo il punto di passaggio tra la cifosi
toracica e la lordosi lombare (maggiore mobilità). Esistono diversi meccanismi di frattura:
1. Compressione → fratture da scoppio.
2. Iperflessione
3. Stress tangenziali
4. Torsione
5. Meccanismi combinati

A seconda del tipo di trauma, si distinguono:


1. fratture mieliche: un frammento derivante da una frattura del muro posteriore può lesionare il
midollo.
2. fratture amieliche: non si ha interessamento midollare, ma semplicemente del tessuto osseo. Si
tratta generalmente di fratture della parete anteriore, dovute a traumi in ipertensione che
determinano schiacciamento della porzione anteriore del corpo vertebrale.

8.B.1 Fratture instabili


Per le fratture vertebrali è molto importante il concetto di instabilità. Il rachide si definisce instabile quando
risulta incapace di mantenere, sotto carichi fisiologici, una configurazione tale da evitare l’insorgenza di un
danno neurologico e/o la progressione verso una grave deformità.
A questo proposito, la colonna viene divisa in 3 “colonne di Denis”:
- anteriore: comprende la metà anteriore del disco intervertebrale, del
corpo vertebrale, dell’anulus fibroso ed il legamento longitudinale
anteriore;
- media: include la metà posteriore del disco, del corpo vertebrale
(incluso il muro posteriore), dell’anulus fibroso ed il legamento
longitudinale posteriore;
- posteriore: comprende l’arco posteriore con le interposte strutture
legamentose (l. sovraspinoso, interspinoso, le faccette articolari con e
rispettive capsule ed il legamento giallo).
La stabilità è garantita dalla conservazione di almeno due colonne. Pertanto,
quando sono lesionate 2 colonne, la frattura viene considerata instabile.
Circa 10/15 anni fa è stato inserito un ulteriore criterio di stabilità/instabilità, che tiene conto della lesione
del legamento longitudinale posteriore. Quest’ultimo è considerato un criterio maggiore di instabilità.

Oggi sta nascendo una nuova classificazione che considera, oltre ai fattori morfologici, anche altri fattori
(riguardanti l’età del paziente ed altri fattori personali).

8.B.2 Diagnosi
• Esami di 1° livello: RX e TAC TOTAL BODY eseguita già in “Trauma Center”.
• Esami di 2° livello: RMN in caso di sospetto danno neurologico (permette di vedere edemi ossei e
l’eventuale lesione del legamento longitudinale posteriore, criterio maggiore di instabilità).

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8.B.3 Trattamento
L’approccio terapeutico (a grandi linee, per maggiori dettagli si rimanda alla lezione sulle fratture vertebrali)
differisce a seconda che la frattura sia:
• Stabile: viene trattata in maniera conservativa con il riposo associato ad un tutore/busto che,
secondo gli ultimi studi effettuati, ha solo scopo antalgico senza alcuna influenza su quello che è il
miglioramento di una vertebra rotta. L’unico modo per poter trattare conservativamente senza avere
dei peggioramenti e degli abbassamenti di una vertebra è quello di mettere un busto gessato in iper-
estensione. In alcuni casi si può proporre l’osteosintesi percutanea.
• Instabile:
o in caso di frattura mielica, è necessario decomprimere il midollo; successivamente si
interviene attraverso una stabilizzazione della frattura;
o In caso di frattura amielica, si opta per l’osteosintesi percutanea di stabilizzazione.

8.C Lussazioni

La lussazione è un’emergenza che si può presentare in modo isolato oppure, più raramente, all’interno di un
politrauma. Si definisce lussazione una perdita completa e permanente dei rapporti tra due capi articolari.
L’articolazione più colpita è senza dubbio la spalla (articolazione anatomicamente prona alla lussazione), ma
le conseguenze più significative si osservano a livello del ginocchio (articolazione decisamente più stabile,
pertanto è necessario un trauma ad alta energia per determinare una lussazione). La diagnosi è clinica e viene
confermata dalle radiografie.

8.C.1 Lussazione del ginocchio


La lussazione del ginocchio consegue ad un trauma ad elevata energia, tale da determinare una lesione a
carico di tutto l’apparato legamentoso (l. crociati anteriore e posteriore e collaterali interno ed esterno) ed,
in alcuni casi, una lesione dell’arteria poplitea (il cui decorso è rappresentato in figura con una linea rossa).
Il trattamento prevede una riduzione manuale in urgenza (con anestesia) ed, in un secondo tempo, si procede
con la ricostruzione dell’apparato capsulo-legamentoso.

8.C.2 Lussazione della spalla


La lussazione della spalla, invece, è più frequente per una predisposizione anatomica intrinseca: la “cavità”
glenoidea della scapola è praticamente piatta e, nonostante la presenza di strutture capsulo-legamentose
deputate a migliorare la congruenza articolare, forze banali (come una caduta sulla mano)possono

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determinare facilmente una dislocazione della testa dell’omero. La lussazione avviene quasi sempre
anteriormente (96%).

Si possono avere delle complicanze precoci tra cui la paralisi del nervo circonflesso (valutabile attraverso la
funzionalità del deltoide).
Dal punto di vista diagnostico si ricorre alla radiografia antero-posteriore e, per avere una maggior precisione,
si possono eseguire delle proiezioni assiali.

Il trattamento prevede una manovra di riduzione (trazione, rotazione esterna, adduzione e rotazione interna)
seguita da una radiografia di controllo e dalla successiva immobilizzazione dell’arto con diversi sistemi di
contenzione.

8.C.3 Lussazione d’anca


La lussazione dell’anca è, similmente a quella del ginocchio, conseguente a trauma ad alta energia. Si associa
a fratture dell’acetabolo e può dare necrosi della testa femorale a causa della rottura dei vasi capsulari.
La diagnosi è clinica (il soggetto presenta un arto leggermente flesso, accorciato ed intra-ruotato in caso di
lussazione posteriore) e radiografica.

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Il trattamento prevede una riduzione che, diversamente da quella della spalla, necessita di una sedazione a
causa dell’importante massa muscolare che normalmente appare contratta a seguito di un trauma,
ostacolando la riduzione. Una volta eseguita la riduzione si immobilizza l’anca con un tutore. Qualora vi siano
delle lesioni associate (lesioni del ciglio posteriore) è necessario un intervento chirurgico di stabilizzazione ed
osteosintesi.

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Ex Lezione 11 del 07/06/2019
Sbobinatore: L.C.
Docente: prof. Milano
Argomenti: Traumatologia dello sport, macrotrauma e microtrauma

9. TRAUMATOLOGIA DELLO SPORT


Nonostante l’argomento possa sembrare, all’apparenza, di minore importanza, è un aspetto che occupa una
buona parte dell’attività dell’ortopedico, la quale si divide fra il trattamento del trauma generale, la chirurgia
articolare sostitutiva o ricostruttiva della patologia artrosica e appunto il trauma dello sport.
Nei grandi congressi americani questo argomento occupa circa 1/3 dei contenuti. In realtà nei programmi
standard dei corsi di laurea non è un argomento molto sviluppato pur essendo l’ortopedico quotidianamente a
contatto con questo tipo di trauma e al contrario sono a volte trattati argomenti che invece hanno una valenza
più storica che clinica vera e propria.

N.B. non si parla solo di atleti professionisti, ma quello del trauma nello sport è un ambito che comprende
l’attività sportiva ad ogni livello, dal professionista al paziente anziano che dopo chirurgia per artrosi dell’anca
vuole tornare a fare l’attività svolta in precedenza. L’età media dello sportivo, infatti, si è alzata notevolmente
negli ultimi anni.

Va fatta una grossa distinzione iniziale:


- macrotrauma (o trauma maggiore): alcuni sport sono più a rischio perché implicano un contatto o una
collisione (es. rugby, football americano o sport come lancio, pivoting, dove si hanno ricadute da salti o
riprese e ripartenze)
- microtraumi: apparentemente innocuo ma ripetuto nel tempo dà un danno funzionale e l’errore di
esecuzione del gesto porta a un danno e decadimento di performance

9.1 Macrotrauma
Nel macrotrauma il danno (entità e tipo) è legato a:
- meccanismo lesionale (ovvero le caratteristiche della dinamica del trauma e del vettore forza applicato:
entità, direzione, velocità)
- tipo di sport (dipende da regole del gioco, protezioni, collisione, terreno di gioco, attrezzatura,
abbigliamento)

Le lesioni macrotraumatiche sportive non sono fondamentalmente diverse da quelle dei macrotraumi stradali:
- Fratture
- Lesioni legamentose
- Lussazioni
- Lesioni tendinee
- Lesioni muscolari (più frequenti nel mondo dell’attività sportiva)

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Immagini: a sx sfacellamento del gomito di un poveraccio armeno; al centro frattura di tibia e perone; a dx frattura di tibia e perone +
chiappe al vento

Se prendiamo come esempio i rugby notiamo che dai dati epidemiologici il trauma del ginocchio si verifica in ¼
di tutte le lesioni, in particolare la tipologia di lesione è quella della tibia prossimale e del femore distale (fratture
intorno al ginocchio) e subito dopo lesioni dei collaterali mediali e del crociato anteriore.
Sono tutte lesioni da contatto e trauma diretto da gioco molto diverse per esempio da quelle di collaterali e
crociato anteriore che si verificano nel calcio. Si tratta infatti di situazioni come quella in cui l’avversario collide
lateralmente e porta il ginocchio in valgo; nel caso del calcio invece il trauma avviene senza contatto, per un
fattore di controllo del movimento in rotazione.

9.1.1 Lesioni legamentose


Classificate in gradi di gravità crescente:
- Grado I - Lesioni in continuità. C’è una piccola interruzione delle fibre anatomiche ma il legamento è
sostanzialmente preservato.
- Grado II - Rottura parziale. Una parte di fibre è ancora integra, mentre una parte è interrotta. La
caratteristica di queste lesioni è che la lassità che viene saggiata subisce un arresto (il ginocchio si apre
fino a un certo punto e poi si ferma perché ci sono ancora fibre che tengono).
- Grado III - Lesione totale. Non c’è più un arresto allo stress in vago o valgo perché non ci sono più fibre
che tengono. È la lesione più grave in assoluto.

Le lesioni legamentose più frequenti sono quelle del ginocchio quindi dei legamenti collaterale mediale e crociato
anteriore.
Oltre a quelle del ginocchio altre lesioni comuni si verificano nella caviglia, soprattutto nel basket perché si ha
ricaduta dal salto mentre si viene spostati. Visto che il trauma avviene in modo che il piede vada all’interno e
cioè si ha un’inversione, le lesioni si hanno nel compartimento laterale che viene stirato e si hanno quindi lesioni

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di quel complesso di legamenti a ventaglio che va dal perone all’astragalo (legamenti peroneo-astragalici), e dal
perone al calcagno (legamento peroneo-calcaneare).
Infine ci sono lesioni del legamento collaterale mediale (trauma in valgo) del gomito, soprattutto negli sport di
lotta perché alcune prese sono fatte direttamente sul braccio su cui il lottatore si sta reggendo.

Immagine: si vede quanto è diastasato, cioè aperto, lo spazio della rima articolare interna, per lesione del LCM (legamento
collaterale mediale) del ginocchio. In realtà in questo caso sono di sicuro coinvolte anche altre strutture come quelle della
zona definita zona d’angolo postero interno (capsula postero mediale, menisco mediale, legamento posteriore obliquo che
sta nella parte postero mediale del ginocchio.) È una lesione gravissima, se ci fosse anche la lesione del crociato posteriore
saremmo già nella lussazione del ginocchio.

9.1.2 Lesioni tendinee


Le più comuni sono quelle
- da avulsione: con lo strappo del tendine dalla sua inserzione ossea;
- intraparenchimali: hanno una genesi degenerativa da danno cronico intratendineo (a volte dovuto a
infiltrazioni continue di cortisone) e di solito si rompono a metà anche senza un vero e proprio trauma
ma anche in seguito a movimenti banali come il camminare tanto che il pz non riferisce episodi
traumatici.

Tendine rotuleo e quadricipitale sono i più colpiti proprio da quest’ultimo meccanismo di microtraumi continui
che indeboliscono una struttura su cui poi può o meno agire un trauma che dà la lesione finale la quale tuttavia
non ci sarebbe mai stata se il tendine fosse stato inizialmente sano. Altri colpiti sono:
- tendine d’Achille,
- bicipite brachiale distale (soprattutto nei sollevatori di
pesi si ha distacco dell’inserzione distale dalla tuberosità
del radio)
- tricipite (anch’esso interessato nella sua parte distale di
inserzione sull’olecrano)
- cuffia dei rotatori (per i processi degenerativi cui va
incontro già in età precoce)

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9.1.3 Lesioni muscolari
Sono le più frequenti, rappresentano 1/3 di tutte le lesioni da trauma nello sport e 1/3 di quelle nel calcio.
Vengono classificate secondo l’eziologia e la gravità:
1) Dolore muscolare post attività. Può essere immediato o tardivo. Tipico di quando c’è stato un eccesso di
carico
2) Distrazione (volgarmente “strappo”)
3) Contusione

Ci sono una serie di condizioni predisponenti al loro sviluppo:


- Preparazione o riscaldamento insufficiente
- Inadeguato programma di stretching muscolare e quindi
scarsa estensibilità (accade soprattutto nel caso di quegli
ambienti sportivi in cui l’entourage è povero
culturalmente (non me ne voglia Boe…) e non presta
attenzione a questi aspetti, mentre invece le grandi
squadre di calcio e agonisti sono di solito più controllati
dal punto di vista della prevenzione. Questa scarsa
attenzione porta a recidive e infortuni continui che
talvolta compromettono la carriera dello sportivo già da
adolescente)
- Condizioni climatiche
- Terreno di gioco (laddove c’è attrito molto forte fra la superficie e la scarpa la contrazione eccentrica
avviene con estrema facilità, ed è proprio questa che dà danno muscolare – vedi dopo)
- Gesto atletico a rischio
- Uso e abuso di steroidi, spesso in sport minori e non agonistici
- Precedente lesione (laddove c’è stato un vulnus si forma una cicatrice: potremo essere più o meno bravi
nel fare in modo che più tessuto muscolare possibile si rigeneri attorno al danno, ma un po’ di tessuto
fibroso rimarrà sempre e il punto di passaggio fra i due materiali, quello fibroso e quello muscolare, è il
punto di minor resistenza (così come lo è in condizioni normali la giunzione mio-tendinea).

Dal punto di vista anatomopatologico il danno è a carico di fibre muscolari ma anche di fibre nervose e di placche
neuromuscolari oltre che di vasi e capillari.
I due elementi che determinano la storia della lesione sono la rottura del muscolo, cioè l’interruzione della
continuità del suo ventre, e la formazione di un ematoma.

➢ Dolore post attività


Si manifesta in maniera più o meno diffusa e multiforme, di solito 24-48h dopo l’attività più facilmente se il
regime di lavoro è stato sovramassimale.
Un aspetto importante è che tende a scomparire col riposo (a volte utili anche esercizi in acqua per favorire il
recupero) ma se ci si gioca sopra si fa un danno maggiore. Infatti se si continua ad allenarsi il danno si diffonde e
può provocare un edema tale da dare sindrome compartimentale, come quella successiva a macrotrauma non
sportivo. Esempi di questa situazione si vedono negli sport di endurance come lo sci di fondo o in passato nelle
marce militari forzate, dove il soldato non si poteva fermare.

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➢ Distrazioni
Frequenti negli sport con sforzo “esplosivo”, cioè quelli con sprint, scatti, salti.
È importante distinguere il meccanismo lesionale che riconosce due tipi di contrazioni possibili:
- Concentrica: contraendo il muscolo questo si accorcia;
- Eccentrica: contraendo il muscolo, questo si sta allungando. È una situazione che si ha quando ci sono
delle rapidissime decelerazioni per esempio in un contrasto con il suolo, oppure mentre qualcuno tira il
muscolo mentre lo sto contraendo.
Per far capire meglio come sia possibile1, il professore porta l’esempio del movimento del dritto nel tennis
dove si mette in contrazione gli intrarotatori della spalla per spingere in avanti la racchetta ma a un certo
punto si ha un arresto netto dato dagli antagonisti extrarotatori. Questi ultimi quindi si stanno sì
contraendo ma intanto si stanno anche allungando perché il movimento di intrarotazione è in atto. Ecco
perché si consiglia di accompagnare il movimento del braccio finchè si esaurisce senza tentare di bloccarlo
volontariamente. Il danno si instaura nella fase di decelerazione brusca del movimento.
La sede del danno è di solito alla giunzione mio-tendinea. Sono più soggetti i muscoli bi-articolari come il
quadricipite che va dal bacino alla tibia e il bicipite che dalla glena va all’avambraccio. È un danno frequente nei
muscoli superficiali dell’arto inferiore.

➢ Contusione muscolare
È un trauma diretto, in cui il muscolo viene compresso contro l’osso tipicamente negli sport da contatto.
Fibrocellule e vasi si rompono e si forma un ematoma, anche perché vi contribuisce il grande richiamo di sangue
che si ha in quel momento di attività sportiva. In particolare:
- se la fascia si rompe si ha un sanguinamento intermuscolare
- se la fascia non si rompe si ha sanguinamento intramuscolare e possibilmente la generazione di sindrome
compartimentale per l’aumento di pressione data da aumento di massa ma non di volume

Diagnosi
All’esame clinico si valuta:
- il tipo di trauma (empiricamente la prima cosa che si osserva è che l’atleta si tocca insistentemente dove
ha dolore)
- l’aspetto generale (ispezione)
- la presenza di dolorabilità alla palpazione
- l’eventuale limitazione funzionale
Se già visivamente si vede un vulnus e addirittura la rottura si può palpare, allora il danno sarà probabilmente
grave.

1Benché apprezzi molto l’esempio tennistico, secondo me non si capisce un cazzo. Magari sono io, ma nel dubbio cerco di spiegare meglio
questo concetto:
- Per i boys: quando un boy va a flexare in palestra, prende in mano un manubrio per eseguire dei “curl” con la speranza che il suo
bicipite, spesso come le sbobine di IPS, diventi grosso come l’Harrison. Durante l’esecuzione del “curl”, si flette l’avambraccio sul
braccio, fino ad arrivare quasi a toccare la spalla con il manubrio: così facendo si è compiuta una contrazione definita
“concentrica” (il muscolo si contrae e si accorcia). A questo punto, i good boys sanno che devono estendere l’avambraccio
lentamente per completare il “curl” nel migliore dei modi: mentre si esegue questo movimento il muscolo bicipite brachiale e gli
altri muscoli della loggia anteriore sono contratti, ma si stanno allungando, in quanto stanno eseguendo una contrazione
“eccentrica”.
- Per le girls: vale lo stesso concetto detto sopra (LOL).

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Gli esami strumentali di cui ci si serve per confermare la diagnosi clinica sono esami di primo livello come
ecografia, da eseguire 24h dopo il trauma perché immediatamente non mostrerebbe nulla (soprattutto nelle
lesioni da distrazione), e RM utile soprattutto nei traumi contusivi perché distingue ematomi inter- e
intramuscolari.
La RM comunque non è indispensabile e il monitoraggio nel tempo si fa con ecografia.

Guarigione
La cosa più complessa da stabilire in un trauma muscolare è la guarigione. Infatti mentre per l’osso riusciamo a
seguire e stadiare il percorso della guarigione con elementi patognomonici, il muscolo ha una guarigione
dipendente dal tipo di sede e di lesione (parziale o totale), che evidentemente non hanno gli stessi tempi.
In ogni caso, essendo il muscolo un tessuto connettivo, la sua riparazione segue degli step conosciuti dal punto
di vista anatomopatologico, tra cui:
1) Fase infiammatoria (dura circa 1 settimana): c’è un’emorragia su cui si innesca un’attività infiammatoria
chemiotattica di richiamo di macrofagi locali e cellule mesenchimali multipotenti. Queste due
popolazioni servono a eliminare il tessuto necrotico e possibilmente produrre nuovo tessuto muscolare.
2) Fase riparativa (1 mese): si rigenera il muscolo striato.
3) Fase di rimodellamento (da 6 mesi a 1 anno): il muscolo rigenerato matura e si riorganizza.

Trattamento
Gli obiettivi del trattamento prevedono che nell’immediato si riduca il dolore e la contrattura antalgica e che si
protegga dal peggioramento del danno. Nel medio termine è necessario ridurre il rischio di formazione
fibrocicatriziale che determinerebbe perdita di forza del muscolo con rischio di ri-rottura e progressivamente
curare la ripresa dell’attività sportiva.
La prima fase, di riposo, previene edema, blocca sanguinamento e favorisce la riperfusione e si ricorda con
l’acronimo RICE:
R = Rest (riposo) immediato
I = Ice (ghiaccio per ridurre infiammazione, favorire vasocostrizione e dare effetto antalgico)
C = Compression
E = Elevation
L’immobilizzazione è un argomento controverso. Il beneficio è chiaro (non peggiorare il danno), tuttavia,
tenendo il muscolo troppo fermo, viene a mancare lo stimolo meccanico naturale di trazione sulla cellula
mesenchimale in grado di determinarne la differenziazione verso la linea muscolare, rischiando di farla diventare
un fibroblasto che deposita tessuto cicatriziale (per giunta amorfo perché non si ha un orientamento dato dalla
trazione). Va quindi trovato il giusto compromesso: se nell’immediato va bene il riposo, rapidamente nei giorni
successivi va garantito un minimo movimento.
La mobilizzazione precoce è la cosa più importante da fare nella fase di recupero e riduce il rischio di recidiva.
Non vuol dire tornare subito a giocare, stiamo parlando di semplice movimento.

L’intervento chirurgico normalmente non serve, perché il tessuto muscolare si ripara bene da solo se trattato
nel modo corretto; può essere, tuttavia, necessario nelle seguenti condizioni:
- ematoma intramuscolare massivo che richiede drenaggio;

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- rottura del ventre muscolare (se supera la metà del ventre);
- mancanza di agonisti del muscolo ferito che suppliscano la sua azione, o se ci sono ma questi non
sviluppano abbastanza forza (per es. il sottoscapolare non riesce a generare la stessa forza del gran
pettorale);
- diastasi dei monconi del ventre o allontanamento dei monconi della lesione muscolo-tendinea;
- avulsione del tendine dall’osso.
L’obiettivo della chirurgia è azzerare la diastasi dei due monconi della lesione, al fine di ridurre la componente
cicatriziale al minimo. Ovviamente il rischio è maggiore nelle lesioni maggiori.

La rieducazione funzionale, usata dopo chirurgia o in caso di lesioni senza indicazione chirurgica, ha come primo
obiettivo, tramite il movimento, quello di non fare generare aderenze al piano osseo che annullerebbero la
funzione delle articolazioni a monte e a valle.
Quando il muscolo può tollerare un certo regime di lavoro, è fondamentale agire anche sulla forza,
sull’estensibilità/elasticità, e infine sulla propriocezione, senso di posizione nello spazio, agilità e per finire sullo
specifico gesto atletico.
Questi sono in realtà principi di tutta la riabilitazione post traumatica, non solo sportiva, ed è una sequenza
obbligata: non si può fare uno step senza aver completato il precedente, altrimenti si peggiora la situazione.
Solo quando concettualmente e idealmente l’atleta è pronto a riprendere il suo sport può tornare a giocare.

Quanto tempo ci vuole? (domanda di ogni atleta)


Per l’ematoma intramuscolare (distrazione, rottura parziale < 50% del muscolo o contusione): da 1 a 8
settimane.
Per la rottura completa operata o meno: da 3 a 16 settimane in rapporto a sede e estensione della lesione.

Quando una lesione muscolare è guarita?


Quando l’atleta fa quello che faceva prima senza dolore. Si tratta, dunque, di un criterio clinico, non ci sono
esami specifici.
Si deve infatti riprendere l’attività con carichi progressivi alzando sempre di più la soglia del dolore per tornare
alle condizioni pre-trauma (vedi immagini sotto).

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9.2 Microtraumi
Più frequenti negli sport che prevedono gesti ripetitivi. Le patologie più frequenti sono quelle tendinee (tendiniti,
tendinosi e rotture) e in minor parte ossee (fratture da stress).

9.2.1 Tendinite rotulea


Si tratta della forma di lesione da microtraumi ripetuti più frequente. Viene definita Jumper’s knee (= ginocchio
del saltatore), in quanto affligge coloro che compiono ripetute contrazioni eccentriche del quadricipite,
determinando un quadro di infiammazione/degenerazione da sovraccarico eccessivo dell’apparato estensore. Il
momento in cui si ha sovraccarico massimo è la ricaduta dal salto, non il momento dello stacco da terra, tanto
che le ultime definizioni provocatoriamente la definiscono “landing knee”, per sottolineare proprio il momento
dell’atterraggio.
Il processo infiammatorio inizia a livello del paratendine, guaina che riveste il tendine, per poi coinvolgere il
tendine: prima si ha tendinite e poi tendinosi2: il danno che progressivamente evolve da funzionale a meccanico,
con aspetti di degenerazione fino alla rottura.
Se la sintomatologia della tendinite rotulea viene sottovalutata e non riconosciuta in tempo, i tempi di guarigione
si allungano drammaticamente, a causa della presenza di metaplasie fibrocartilaginee soprattutto nei punti
giunzionali sulla rotula. Visto che la cartilagine non è vascolarizzata, questo sfavorisce il processo riparativo e non
si guarisce più.

Il trattamento non stupisce: si consigliano riposo, esercizi specifici di stretching e potenziamento selettivo del
muscolo quadricipite.
In caso di tendinosi cronica a volte può essere necessario l’intervento chirurgico per produrre uno stimolo
riparativo. Nello specifico si incide, si asporta una parte di tessuto, si fanno dei fori nell’osso in modo che da
questi arrivi sangue che favorisce la guarigione.

2 La tendinosi è la sofferenza cronica dei tendini, che deriva da una degenerazione della normale struttura tendinea.

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9.2.2 Sindrome da frizione della banderella ileo-tibiale
Questa sindrome, tipica di corridori e ciclisti, è causata dal ripetuto e veloce passaggio della banderella ileo-
tibiale del tensore della fascia lata sul condilo femorale laterale, dove il ginocchio sporge di più. La ripetitività del
gesto può scatenare un’irritazione da contatto e col tempo generare tendinite e poi tendinosi.
Il trattamento prevede la riduzione del sovraccarico.

Riporto un breve aaprofondimento per gli amici ciclisti (e non solo) da bikeitalia.it

Il disturbo in questione non è “tipico” del ciclismo, ma sempre più spesso se ne sente parlare
perché l’uso di regolazioni errate e la pratica parallela di altri sport genera una ripercussione
anche sul movimento della pedalata.

Durante il movimento in bici viene effettuata una flesso/estensione ritmica del ginocchio con
carichi di lavoro variabili; la bandelletta ileotibiale conferisce stabilità laterale al ginocchio, essa
infatti insieme al compartimento mediale assicura il mantenimento dei fisiologici rapporti
tra femore, rotula e ossa della gamba. Durante la flesso/estensione del ginocchio, la bandelletta
deve oltrepassare l’epicondilo laterale (e questo avviene intorno ai 30°):
o In estensione la bandelletta si sposta anteriormente rispetto al condilo;
o In flessione la bandelletto si sposta posteriormente.

Spesso a causa di atteggiamenti posturali e/o regolazioni non idonee della bici tale rapporto viene
compromesso, quindi il ginocchio effettua un lavoro anomalo provocando una sofferenza
tissutale; nel caso specifico durante la fase finale di estensione e quella iniziale di flessione
dell’arto, precisamente in corrispondenza del PMI (punto morto inferiore), viene generata una frizione tra la bandelletta
ileotibiale e il condilo laterale del femore.

Questa anomalia biomeccanica compromette l’efficacia del gesto nella parte finale della spinta sul pedale e nel
momento del passaggio al PMI, in cui l’organismo cambia l’attivazione muscolare passando da una fase estensoria ad una
flessoria. E’ proprio in questo passaggio che si genera la frizione tra bandelletta e condilo laterale del femore, ne consegue
che altezza e arretramento di sella sono parametri da tenere sotto controllo in quanto influenzano notevolmente l’angolo
di apertura del ginocchio.
Il trattamento prevede il riposo nella fase acuta, seguito da una riabilitazione mirata (con educazione posturale, terapia
manuale + trattamento della fascia). Oltre al trattamento si possono effettuare alcuni esercizi di stretching analitico.

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9.2.3 SLAP lesion (Superior Labral from Anterior to Posterior).
Si tratta di un distacco del cercine glenoideo dal polo superiore della glena, da anteriore a posteriore. Colpisce
prevalentemente i lanciatori.

La zona del labbro glenoideo dove si verifica la SLAP lesion è più suscettibile in quanto si tratta di una zona scarsamente
vascolarizzata. Altre parti del cercine guariscono più facilmente perché meglio irrorate.

Il cercine superiore della glena è una zona importante nella spalla perché costituisce la zona di origine del capo
lungo3 del bicipite. Si genera in quanto, per caricare il lancio, si porta il braccio in una posizione che determina
trazione e torsione del bicipite sul proprio asse.
La ripetizione del movimento accentua l’instabilità e provoca dolore; in alcuni casi il dolore compare in modo
così violento da far perdere il controllo della spalla e inficiare il gesto atletico. È infatti definita anche dead arm
syndrome, sindrome del braccio morto.
Tuttavia siccome questa è una sintomatologia sfumata che a volte compare e a volte no, a seconda del livello di
allenamento e dei meccanismi di compenso e di controllo della spalla, per molti anni si è pensato che la sua origine
fosse psicologica o simulatoria. Solo l’avvento dell’artroscopia negli anni ’80 ha permesso di iniziare a definire
meglio il meccanismo patogenetico, successivamente spiegato in maniera completa negli anni 2000.
La diagnosi di SLAP lesion viene raggiunta mediante l’esecuzione di una RM (meglio con mezzo di contrasto).

Il trattamento risolutivo prevede un intervento chirurgico eseguito in artroscopia per reinserire il cercine mediante
ancorette. Nel caso in cui il tendine sia troppo danneggiato per eseguire una riparazione, si pratica una tenotomia (il
tendine viene tagliato e reinserito nella porzione superiore del braccio); questo trattamento non compromette la forza del
muscolo.

9.2.4 Fatture da stress


Le fratture da stress (o da fatica) costituiscono un problema molto insidioso, perché sono difficilmente
individuabili con le metodiche standard: la RX standard fatica ad identificare la loro rima quasi invisibile, anche
perché si tratta di fratture in continuità; a volte, neppure gli esami di secondo livello riescono ad individuarle se
non c’è edema reattivo. La scintigrafia ossea può dimostrarsi utile dove tutte le altre tecniche hanno fallito,
costituendo una buona arma di fronte a un dolore inspiegato osseo.
A causa di questa difficoltà diagnostica, la frattura rimane misconosciuta e l’atleta continua a praticare il proprio
sport finché non si forma un callo ipertrofico, enorme (e pertanto ben visibile all’imaging), causato da un
continuo stimolo riparativo in assenza di guarigione. Un segno indiretto che nasconde il problema sottostante
può essere la periostite, con periostio ingrossato e infiammato per lo stimolo proliferativo.

3
Il capo breve, al contrario, origina dal processo coracoideo scapolare

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Il trattamento è quasi sempre conservativo, ma se nella sede del callo si è formata un’artrosi è necessario un
approccio chirurgico. I tempi di guarigione spontanea si aggirano attorno ai 6 mesi.
I soggetti più colpiti sono i marciatori dell’esercito e i calciatori. Si localizzano soprattutto a livello del piede, in
particolare sul V metatarso.

Immagine: fratture da fatica del II-IV metatarso in cui si riconosce la rima


di frattura del III metatarso

Domanda di uno studente: questa rima particolare [nds si riferisce all’ultima immagine – III metatarso] come si viene a
formare?
Sono fratture che vengono rimaneggiate, non si formano in un colpo solo, la rima parte in un modo e poi si propaga in
maniera irregolare coi singoli microtraumi, molte volte sono rime oblique o complicate.

Domanda: nella sindrome compartimentali da ematoma per rottura del muscolo, il trattamento è sempre una fasciotomia?
Sì, per forza. È un’emergenza e soprattutto le minifasciotomie non servono a niente, non sono in grado di risolvere il
problema.
Quindi va fatta ovunque, anche per strada subito dopo il trauma all’arrivo dell’ambulanza? No, di solito non si arriva a
tanto perchè ci vogliono alcune ore dopo il trauma affinchè si sviluppi una sindrome compartimentale. Bisogna comunque
agire in maniera urgente quando se ne ha il sospetto clinico.
Ma allora perché se è un’emergenza e provoca così tanto dolore da richiedere subito l’intervento in alcuni quadri si arriva
a una sindrome ischemica? Perché il paziente progressivamente perde anche la sensibilità per danno ai vasa nervorum:
bisogna cercare di non arrivare a questo punto e agire non appena il paziente dice di avvertire dolore (e quello della
sindrome compartimentale è un dolore acuto, che non regredisce neanche con la morfina).

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File stronzo n° 3
Sbobinatore: S.T.
Docente: Zarattino

10. ALGODISTROFIE
La sindrome algodistrofica è una patologia caratterizzata da una alterazione ossea e che per un
determinato numero di anni è stata definita atrofia di Sudek (uno dei primi medici ad averla descritta).
Leriche nel 1917 ha iniziato ad attribuire all’algodistrofia un coinvolgimento del sistema nervoso simpatico
ed aveva iniziato a trattare i pazienti con questa patologia con interventi di simpatectomia. Evans nel 1946
confermò l’ipotesi che alla base di tale patologia vi fosse il sistema nervoso simpatico ed attribuì come
nome “distrofia simpatico riflessa”. Foise nel 1947 considera una nuova teoria del vasospasmo arteriolare
che dà delle piccole ischemie, nel 1953 Bonica caratterizza la patologia con un criterio temporale e quindi
definisce la patologia come acuta-distrofica-atrofica. Nel 1994 i criteri di Orlando la definiscono come
Complex Regional Pain Syndrome (CRPS) ed oggi si utilizzano i criteri diagnostici di Budapest (2007) che
caratterizzano con sensibilità, specificità ed oggettività il quadro di algodistrofia.

10.1 Introduzione
La sindrome algodistrofica negli Stati Uniti colpisce circa 200.000 persone all’anno mentre circa 150.000
nuove diagnosi vengono effettuate annualmente in Europa. Non è una sindrome molto chiara e definita ed
ha sintomi clinici molto variabili1, tali caratteristiche tendono inoltre a modificarsi nel tempo. Non vi è
pertanto un una branca clinica che si occupa nello specifico dello studio di questa patologia, motivo per il
quale molto frequentemente l’algodistrofia viene diagnosticata solo in fase tardiva. Al fine di evitare un
eccessivo ritardo nel riconoscimento della patologia è stata fondata una società composta da specialisti in
radiologia, ortopedia, reumatologia e fisiatria che si occupa di diagnosticarla e curarla negli stadi iniziali e
reversibili.
L’algodistrofia è conosciuta con diversi nomi, tra i quali si ricordano: Complex Regional Pain Syndrome (di
tipo I e II), algoneurodistrofia, sindrome algodistrofica, sindrome spalla-mano, causalgia, osteoporosi
transitoria, mordo di Sudek, ed altri (di cui chiaramente non ci interessa nulla).

La CRPS di tipo I viene definita come una varietà di condizioni dolorose che conseguono ad un evento
scatenante ad espressione topografica regionale con predominanza distale, che clinicamente si
manifestano sotto forma di algie che eccedono per gravità e durata rispetto al decorso clinico atteso
sulla base dell’evento scatenante e con una progressione variabile nel tempo.

La CRPS tipo II (conosciuta anche come sindrome causalgica) è per definizione un’algodistrofia
conseguente ad un trauma diretto su un ramo nervoso (la lezione verte quasi unicamente sulla CRPS
di tipo I, la CRPS di tipo II viene superficialmente affrontata nel caso clinico finale).

1 Eppure è la protagonista di un’intera sbobina

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10.2 Criteri di Budapest
Nel 2007 sono stati identificati i criteri attualmente più utilizzati per definire questa patologia, denominati
Criteri di Budapest. Tali criteri:
➢ Devono essere considerati il punto di riferimento per ogni studio e valutazione clinico-
epidemiologica della CRPS di tipo 1;
➢ Evitano il più possibile la presenza di sintomi soggettivi, ma cercano di oggettivare il più possibile la
diagnosi;
➢ Considerano la presenza di manifestazioni trofiche e motorie della malattia;
➢ Hanno una analoga sensibilità rispetto ai criteri utilizzati prima del 2007, ma sono nettamente più
specifici;
➢ Permettono una diagnosi clinica: non ci si avvale di strumenti o imaging per porre diagnosi ma,
eventualmente, solo per confermare la diagnosi stessa.

I Criteri di Budapest per diagnosticare la CRPS di tipo I sono così schematizzati:


1. Dolore continuo e sproporzionato rispetto all’evento scatenante.
2. Il paziente deve riferire la presenza di almeno un sintomo in tre delle quattro seguenti categorie:
➢ Alterazioni sensoriali: iperestesia e/o allodinia;
➢ Alterazioni vasomotorie: asimmetria di temperatura e/o alterazione e/o asimmetria del
colorito cutaneo;
➢ Alterazioni sudomotorie/edema: edema e/o anomalie e/o asimmetria della sudorazione;
➢ Alterazioni motorie/trofiche: ridotta escursione articolare e/o anomalie motore (ipostenia,
tremori, distonia) e/o alterazioni trofiche (cute, unghie, annessi piliferi).
3. Devono essere obiettivali almeno un segno in due o più delle seguenti categorie:
➢ Alterazioni sensoriali: iperalgesia e/o allodinia;
➢ Alterazioni vasomotorie: evidenza di un’asimmetria al termotatto e/o alterazione e/o
asimmetria del colorito cutaneo;
➢ Alterazioni sudomotorie/edema: evidenza di edema e/o anomalie e/o asimmetria della
sudorazione;
➢ Alterazioni motorie/trofiche: evidenza di ridotta escursione articolare e/o anomalie
motorie (ipostenia, tremori, distonia) e/o alterazioni trofiche (cute, unghie, annessi piliferi).
4. Assenza di una interpretazione diagnostica alternativa.

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A seguito della stesura dei Criteri di Budapest è stata redatta una nuova e lievemente differente definizione
di CRPS: insieme di condizioni dolorose caratterizzate da un dolore continuo (spontaneo e/o evocato) che
appare sproporzionato per estensione temporale o per intensità rispetto a quanto atteso sulla base del
trauma o dell’evento scatenante. Il dolore ha distribuzione regionale (non riferibile al territorio di
innervazione di un singolo ramo nervoso o ad un dermatomero) e solitamente ha una localizzazione distale,
associazione a segni e sintomi caratteristici di natura sensitiva, motoria, sudomotoria, vasomotoria e trofica.
La sindrome può avere una evoluzione variabile nel tempo.

Esistono dei fattori scatenanti che possono favorire la comparsa di CRPS:


1. Trauma o frattura (60% dei casi);
2. Intervento chirurgico di vario tipo;
3. Evento vascolare (prevalentemente a seguito di un infarto o di una ischemia);
4. L’utilizzo di armaci anticonvulsivanti, antiTBC e ACEi;
5. Manovre intra-articolari come infiltrazioni o artroscopie;
6. Prelievi venosi oppure arteriosi;
7. In una minor percentuale dei casi non è possibile trovare alcun evento scatenante.

10.3 Epidemiologia
Da un punto di vista epidemiologico l’algodistrofia è una patologia caratterizzata da:
➢ Manifestazioni più frequenti nei soggetti tra i 40 ed i 60 anni;
➢ Maggiore incidenza nel sesso femminile;
➢ Pochi casi descritti in età pediatrica;
➢ Arti superiori mediamente coinvolti il doppio rispetto agli arti inferiori;
➢ Apparente presenza di un substrato predisponente nei soggetti particolarmente ansiosi (numerosi
studi hanno confermato una correlazione tra persone che utilizzano come password del cellulare la
propria data di nascita e la probabilità di sviluppare algodistrofia);

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➢ Correlazione importante con le fratture: come già accennato le fratture sono una delle prevalenti
cause scatenanti, in modo particolare la frattura del polso (frattura di Colles) ha una incidenza di
algodistrofie che varia dall’1% al 37% dei casi.

L’incidenza dell’algodistrofia è anche in funzione del tipo di trattamento attuato a seguito del trauma iniziale:
un tempo le fratture del polso venivano trattate prevalentemente con gessatura, si era costretti pertanto a
tenere l’articolazione coinvolta in una posizione di trazione, flessione od ulnarizzazione esagerata e
l’eccessiva immobilizzazione comportava più facilmente lo sviluppo di algodistrofia. Quando poi si è passati
ad altri tipi di interventi più moderni sono ugualmente stati descritti dei casi di CRPS (ad esempio a seguito
dell’utilizzo di un fissatore esterno) ma in misura nettamente più contenuta. Attualmente è preferibile
attuare interventi di osteosintesi con placche e viti, a seguito dei quali si tende a lasciare l’arto libero dopo
un tempo inferiore e si previene così anche lo sviluppo di una conseguente algodistrofia.

10.4 Clinica
Dal punto di vista clinico ed evolutivo della patologia, è possibile distinguere tre stadi:
1. Stadio caldo: il paziente lamenta un dolore acuto ed importante, assolutamente spropositato se
correlato alla causa dello stesso;
2. Stadio distrofico: sono visibili alterazioni degli all’RX si vede
pertanto lo sviluppo di osteoporosi a macchia di leopardo
(quadro radiografico caratterizzato dalla presenza di alcune
zone particolarmente osteoporotiche inserite in un contesto
prevalentemente sano: nell’immagine è molto evidente nella
mano destra);
3. Stadio atrofico: presenza di evidenti alterazioni che possono risultare irreversibili
indipendentemente dal trattamento che viene effettuato per alleviare l’algodistrofia.

L’algodistrofia è una patologia poco conosciuta e come precedentemente accennato sono diversi gli
specialisti se ne occupano, ma nessuno lo fa in maniera precisa: ne consegue quindi un ritardo diagnostico
importante (non raramente si è già in una fase atrofica e quindi irreversibile in quanto mediamente la
diagnosi corretta di CRPS viene posta al paziente dopo circa 5 diverse visite specialistiche).

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Normalmente il quadro clinico inizia la sua manifestazione pochissimo tempo dopo l’evento scatenante (da
qualche ora dopo a settimane), vi possono essere delle forme lievi/moderate oppure forme iperacute. Il
dolore è solitamente invalidante ed il paziente riferisce una condizione di bruciore, descritta come urente o
trafittiva. Non esiste una correlazione dermatomerica, l’esordio è aggravato dal carico esercitato
sull’articolazione e generalmente è presente anche la notte. I pazienti traggono poco beneficio dai presidi
farmacologici standard, motivo per cui generalmente si ricorre all’utilizzo di oppiacei.

All’esame obiettivo si riscontrano:


➢ Allodinia, iperalgesia, sinrachia (si avverte dolore anche dal lato controlaterale);
➢ Riduzione della sensibilità tattile e termica;
➢ Edema, eritrosi e subcianosi. La cute è tesa, inspessita e lucida, le pliche cutanee tendono a
scomparire, si ha una limitazione funzionale causata dalla rigidità dello zampone;
➢ Deficit muscolari come tremori fini;
➢ Alterazioni degli annessi cutanei come unghie a vetrino e perdita di peli;
➢ Manifestazioni vasomotorie e sudomotorie (un tempo si utilizzava della carta assorbente per
dimostrare che la zona coinvolta tende a sudare maggiormente).

Qualora venisse effettuata una RM (indagine di secondo livello) è possibile apprezzare la presenza di edema
osseo. Vi sono poi altri esami che si possono fare per supportare la diagnosi, uno di questi (ora meno utilizzato
rispetto al passato) è la scintigrafia con tecnezio marcato che permette di fare diagnosi precoce e soprattutto
di distinguere una algodistrofia calda (con buona captazione del tracciante) da una algodistrofia fredda (con
scarsa captazione del tracciante). Tale distinzione è importante in quanto una CRPS calda risponde molto
meglio alla terapia farmacologica.

Il professore mostra ora uno studio nel quale vengono citate alcune molecole e condizioni tissutali che pare
svolgano un ruolo importante nella patogenesi dell’algodistrofia: si sottolinea come l’ipossia e l’acidosi siano
elementi sempre presenti e conseguenti ad un danno del microcircolo dovuto con ampie probabilità ad uno
squilibrio tra endotelina 1 (vasocostrittore) e NO (vasodilatatore).

10.5 Terapia
Fortunatamente nella maggior parte dei casi l’evoluzione è favorevole indipendentemente dal trattamento
attuato (specialmente nella CRPS di tipo I, la CRPS di tipo II può avere più frequentemente sequele
permanenti); oltre ad una terapia farmacologica è bene ricordare che una precoce mobilizzazione
dell’articolazione coinvolta ed una adeguata fisioterapia influenzano in maniera molto positiva la risoluzione

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del quadro. La terapia fisioterapica è fondamentale e per quanto riguarda la terapia farmacologica in Italia si
utilizzano i bisfosfonati (stessa classe di farmaci usati per osteoporosi) i quali agiscono quando si ha un
intenso metabolismo osseo (come morbo Paget o metastasi ossee) e per i quali si sfrutta la capacità di
“bloccare” l’attività degli osteoclasti. Il farmaco somministrato come prima scelta è il neridronato.

10.6 Casi Clinici


Caso clinico 1
Paziente di 49 anni, uomo, con frattura al malleolo peroneale dx e lesione del legamento deltoideo
procurato cadendo dalle scale di casa. Viene svolto un intervento banale e di routine, il paziente va a letto
e dopo aver terminato l’effetto dell’anestesia inizia a manifestare un dolore fortissimo. Dopo poche ore
sta lievemente meglio, ma il dolore è comunque sproporzionato all’evento traumatico. Viene dimesso, si
ripresenta a 35 giorni con RX che non mostra particolari alterazioni, tuttavia il paziente lamenta anche
dolore alle dita del piede. Un’avvenente collega del prof. chiede al prof. stesso “scusa caro ma gli hai fatto
qualcosa anche ai metatarsi?” (ovviamente non gli era stato fatto nulla in sede di operazione ai metatarsi,
ma il problema stava proprio lì).

Viene dunque eseguita una RX ai metatarsi che rivela la scomparsa delle teste metatarsali. Dalla TC con
ricostruzione 3D si osserva un “osso fantasma”, che appunto conferma la scomparsa delle teste
metatarsali. A 45 giorni dall’intervento il paziente ha sempre la scomparsa delle teste del quarto e quinto
metatarso, la cute traslucida ed un evidente edema dell’avampiede. Viene trattato con 100mg e.v. di
neridronato ogni 3 giorni, con supplemento di Ca, vitamina D e fisioterapia intensa. Poi inizia ad effettuare
carico completo sull’articolazione, a 5 mesi dall’intervento ricompaiono le teste metatarsali, ad 1 anno il
quadro radiografico torna assolutamente fisiologico.

Caso Clinico 2
Paziente donna di 63 anni con contusione del piede a causa di un faldone caduto sul piede (probabilmente
l’Harrison o il Robbins nuovo di pacca che le si sarà pure sgualcito sulla copertina… danno economico e
morale molto più lesivo dell’algodistrofia, oltre che spesa inutilissima per la collega 63enne che, ad oggi,
pare non abbia ancora verbalizzato nessuno dei due esami. C’è quindi speranza per tutti noi, meno per
lei). A distanza di un mese non riesce a camminare, necessita di stampelle, presenta tumefazioni,
iperidrosi, scomparsa delle pliche cutanee. All’RX si vede osteoporosi distrettuale (a chiazze di leopardo)
anche in questo caso con interesse delle teste metatarsali, viene quindi trattata con la stessa terapia del
caso precedente. Dopo 3 mesi si ha normalizzazione del quadro clinico.

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Caso Clinico 3
Donna 50 anni con CRPS di tipo II. Ha avuto una lesione completa di un nervo sensitivo digitale con una
piccola frattura. Manifesta una grave osteoporosi che nel giro di sei mesi si è estesa sia distalmente che
prossimalmente coinvolgendo sia radio che ulna. L’RX conferma l’importante osteoporosi all’arto
superiore. Clinicamente la paziente presenta una mano rossa, assenza di pliche cutanee, dolore molto
forte e diffuso. A 5 mesi è sempre molto sofferente, ad 1 anno le dita della mano coinvolta sono sempre
traslucide. In questo caso la diagnosi è stata posta già allo stadio trofico, purtroppo nonostante tutte le
terapie la paziente non ha tratto beneficio e per l’allodinia ed i dolori urenti, deve conseguentemente
sempre cambiare guanti e creme, situazione che le ha comportato una qualità di vita permanentemente
molto compromessa.

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File stronzo n° 4
Sbobinatore: C.P.
Docente: Zrttn

11. OSTEOPOROSI

L’osteoporosi è una malattia dello scheletro, caratterizzata da una riduzione della resistenza ossea che
predispone ad un aumentato rischio di frattura per una patologica riduzione della massa ossea normalmente
mineralizzata.
La resistenza ossea riflette l’integrazione di due proprietà fondamentali dell’osso: la massa e la qualità.
Le principali fratture su base osteoporotica (le cosiddette fratture patologiche) sono rappresentate da:
- fratture vertebrali
- fratture prossimali del femore (pertrocanteriche)
- fratture del terzo distale del radio (quindi del polso).

Questa patologia è un problema che colpisce i paesi in cui l’aspettativa di vita media è elevata: è una patologia
tipica dell’anziano.

Per comprendere i meccanismi patogenetici dell’osteoporosi è necessario capire come funziona il metabolismo
del calcio. Questo coinvolge svariati organi e tessuti:
• tessuto osseo
• intestino: deputato all’assorbimento
• pH: se acido favorisce il riassorbimento osseo in quanto l’organismo ha bisogno di un maggior potere
tampone che trova nel bicarbonato di calcio depositato a livello osseo.
• cute: la sua esposizione ai raggi solari (in particolare UVB) va a determinare la formazione di
colecalciferolo, la forma inattiva della vitamina D.
• fegato e rene: responsabili dell’attivazione mediante idrossilazione della vitamina D, rispettivamente in
posizione 25 (25-idrossi-colecalciferolo) e 1 (1,25-diidrossicolecalciferolo). La vitamina D attivata ha
diverse funzioni importanti per il metabolismo del calcio, come: favorire l’assorbimento intestinale di
calcio e fosfato; aumentare la sensibilità dell’osso al PTH.

Un altro aspetto patogenetico importante è la diminuzione degli estrogeni, tanto che si parla di osteoporosi
post-menopausale. La riduzione degli estrogeni porta a una serie di conseguenze:
- aumentata produzione di citochine favorenti il riassorbimento osseo
- alterata secrezione di PTH (ormone ipercalcemizzante che, quindi, stimola riassorbimento osseo)
- aumento della sensibilità al PTH
- alterazione del rapporto tra il fattore di differenziazione degli osteoclasti ed il suo inibitore, con
conseguente aumento di riassorbimento osseo
- alterazione della sensibilità agli stimoli meccanici
- diminuito assorbimento intestinale di calcio

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- diminuita idrossilazione (e quindi attività) della vitamina D da parte del rene
- tendenza ad avere una minore esposizione solare, altro fattore che si riflette sull’attività della vitamina
D
- diminuiscono anche gli enzimi che digeriscono il lattosio: la dieta risulta sempre più povera in latticini,
principale fonte esogena di calcio

11.1 Picco di massa ossea


Concetto importante è il picco di massa ossea: intorno ai 35 anni di età si raggiunge tale picco, e fisiologicamente,
superato tale picco, la massa ossea non potrà che diminuire. Maggiore sarà il valore di questo picco, minore sarà
il rischio di sviluppare osteoporosi.

Come si nota nel grafico a sinistra, partendo da un livello di picco di massa ossea basso (linea verde), si potrà
avere osteoporosi (rappresentata dall’area rossa) già dai 55 anni; partendo da un picco maggiore, invece, (linea
viola) si potrà anche arrivare ad 80 anni (e più) senza avere problemi di osteoporosi.

Bisogna anche valutare che, partendo da uno stesso picco di massa ossea, ci possono essere diverse velocità di
perdita di massa ossea che portano allo sviluppo di osteoporosi più o meno precocemente (grafico a destra).

Fondamentalmente, dopo la maturità scheletrica si ha una graduale perdita di massa ossea che si rispecchia in
un disequilibrio tra neoapposizione (data dagli ostebolasti) e riassorbimento (dato dagli osteoclasti).
L’entità e la velocità di questa perdita accelerano con l’avanzare dell’età: pazienti più anziani hanno una perdita
annuale di massa ossea maggiore rispetto a pazienti meno anziani; tale differenza interessa in modo particolare
il femore, mentre a livello del rachide questo effetto è meno marcato.

Il valore del picco di massa ossea dipende principalmente da due fattori:


- il 50-85% della variabilità è spiegato da fattori genetici, anche se i numerosi geni implicati esercitano un
effetto modesto;
- l’altro grande responsabile è l’alimentazione e principalmente l’apporto di calcio;

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11.2 Alterazioni morfologiche
L’immagine sottostante (microTC) mostra l’evoluzione da tessuto osseo normale ad osteopenia ed, infine,
osteoporosi:

1. Normale: le trabecole hanno delle lamine che e congiungono le une alle altre, indice di una buona densità
2. Osteopenia: la trabecolatura rimane, tutto sommato, costante, ma vengono meno le lamelle tra una
trabecola e l’altra
3. Osteoporosi: rimane semplicemente un’impalcatura che, dal punto di vista meccanico, ha sicuramente
meno resistenza rispetto alle due situazioni precedenti.

11.3 Classificazione
L’osteoporosi può essere distinta principalmente in:
• primitiva
• secondaria:
o malattie endocrine
o malattie gastrointestinali
o malattie neoplastiche
o malattie del connettivo
o altro
o da farmaci

Nella slide a lato si possono trovare più nel dettaglio quali sono le cause che possono portare a osteoporosi
secondaria.

11.4 Epidemiologia
L’incidenza delle fatture su base osteoporotica è in aumento a causa del progressivo aumento dell’aspettativa
di vita; si presume che in futuro le fratture patologiche aumenteranno ulteriormente.

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Quando l’osteoporosi colpisce prevalentemente la colonna vertebrale è spesso asintomatica: il paziente riferisce
un piegamento della colonna sempre più accentuato, con un dolore che percepisce come normale e riferisce alla
vecchiaia; in realtà potrebbero essere tanti piccoli crolli vertebrali, da considerare come fratture patologiche.
Gran parte dei pazienti con fratture vertebrali non vengono trattati e, inoltre, una donna su cinque andrà
incontro ad una nuova frattura vertebrale entro un anno dalla prima.

Molto peggiori sono le conseguenze della frattura prossimale del femore: questa è ovviamente sintomatica ed il
paziente si reca in ospedale.
Considerando una fascia di età dai 65 anni in su, 20% di questi pazienti muore entro l’anno (percentuale che sale
al 75% considerando gli ultraottantenni)
Inoltre, di questi pazienti il 50% avrà una disabilità cronica: non riuscirà più a camminare e a fare ciò che faceva
prima.
Infine, il rischio di frattura dell’altro femore entro un anno raddoppia o, addirittura, triplica.

Come si nota dal grafico a lato, la prevalenza di deformità vertebrale aumenta


consensualmente all’età e colpisce principalmente le donne.
Da un punto di vista autoptico, si è notato che il 90% dei pazienti sottoposti ad
autopsia in seguito a morte per vari motivi ha dei crolli vertebrali che non sono
mai stati diagnosticati.

11.5 Clinica delle fratture vertebrali1


Il 50% è asintomatico o, comunque, con delle manifestazioni sfumate che non preoccupano il paziente;
nonostante ciò, queste hanno sicuramente un impatto clinico, che si può manifestare come la costrizione a letto
oppure un’inabilità parziale.
In alcuni pazienti, invece, la clinica è più evidente, tanto che si recano in pronto soccorso dove solitamente viene
loro diagnosticata la frattura vertebrale patologica.
L’impatto clinico è piuttosto importante: una frattura vertebrale non riconosciuta e non trattata può portare ad
una maggiore possibilità di fratture delle vertebre adiacenti, fino ad avere un effetto domino ed il crollo di tutta
la colonna vertebrale.

1 Per maggiori dettagli si veda il file dedicato

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Si instaura un circolo vizioso per il quale, in seguito alla prima frattura, si ha un aumentato rischio di avere una
nuova frattura, con conseguente dolore, inattività e aumentato rischio di ulteriori nuove fratture, oltre anche a
problemi di ansia e isolamento sociale.

La patologia porta ad una cifosi che peggiora progressivamente, portando la paziente ad avere problemi sia nella
deambulazione sia nella respirazione; è chiaro come la paziente sarà anche sempre meno autosufficiente.

11.6 Fattori di rischio


Non modificabili:
- familiarità: come visto precedentemente, influenza in modo importante il picco di massa ossea
- età avanzata
- sesso femminile
- basso BMI (peso corporeo < 57,7Kg): la loro maggior predisposizione è dovuta a fattori ormonali
- impiego cronico di glucocorticoidi e/o altri farmaci ad azione osteopenizzante
- patologie con complicanze osteo-metaboliche, come l’osteodistrofia renale

Modificabili:
- inadeguato apporto di calcio e vitamina D (+++)
- fumo (++)
- abuso di alcol (+)
- impiego cronico di glucocorticoidi e/o altri farmaci ad azione osteopenizzante (+++)
- patologie con complicanze osteo-metaboliche (+++)

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Entrando più nel dettaglio, i farmaci correlati ad un maggior rischio di osteoporosi sono:
➢ glucocorticoidi: sono sicuramente la categoria più importante, in quanto l'osteoporsi secondaria
all’utilizzo di glucocorticoidi è una problematica piuttosto frequente dal punto di vista epidemiologico.
➢ eparina a lungo termine
➢ anticonvulsivanti
➢ litio
➢ immunosoppressori (es. Metotrexate, Ciclosporine)
➢ farmaci citotossici
➢ eccesso di Tirosina
➢ agonisti del GnRH (Gonadotropin Realising Hormone)

Per quanto riguarda, invece, i fattori di rischio per fratture da osteoporosi, possiamo elencare:
- eccesso di glucocorticoidi
- BMD (Bone Mineral Density) molto ridotto
- precedenti fratture da osteoporosi; ad esempio:
o una frattura vertebrale da osteoporosi porta ad un rischio 5x di una nuova frattura vertebrale
entro un anno e ad un rischio 2x di frattura di femore entro un anno
o una frattura del femore da osteoporosi porta ad un rischio 2-3x di frattura del femore
controlaterale entro un anno

11.7 Diagnosi
11.7.1 DENSITOMETRIA OSSEA
a) DEXA (Dual-Energy X-ray Absorptiometry)
Importante è misurare la densità minerale ossea (BMD) con tecnica DEXA; questa metodica ha svariate
caratteristiche (da slide):
- bassa esposizione a raggi X
- è in grado di rilevare piccole variazioni di densità
- esistono valori di normalità ben standardizzati
- c’è una correlazione con il rischio di frattura
- può valutare più siti, suddivisibili in
o centrali: colonna vertebrale, femore;
o periferici: avambraccio, falangi, calcagno. Vengono valutati meno frequentemente.

Nella slide sottostante sono illustrati vantaggi e svantaggi.

Il professore si sofferma unicamente sul fatto che


sia in grado di dare solo misure quantitative e non
qualitative, aspetto di cui si sta tenendo conto; in
particolare, grazie all’utilizzo della microTC, si è
notato che alcune ossa, a parità di BMD, sono più
resistenti di altre grazie ad una diversa architettura.

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In particolare, il risultato ottenuto con la DEXA va messo in relazione in funzione del numero di deviazioni
standard rispetto alla media riscontrata in giovani adulti sani (T-score) o in soggetti sani di pari età (Z-score).
Grazie a questi parametri si possono classificare i pazienti in questo modo:

La densitometria potrebbe essere utilizzata come test di screening, ma non per la popolazione generale; la
popolazione da considerare dovrebbe essere quella delle donne in post-menopausa.

b) Ultrasonografia ossea
Introdotta recentemente, sembra avere ulteriori vantaggi in quanto il costo è ancora minore ed è facile da
trasportare. Non dà, però, la stessa accuratezza diagnostica della DEXA.

Riporto la slide con vantaggi e svantaggi, anche se il professore non ha detto altro:

Altre cause di ridotta densità ossea e diagnosi differenziale


Vanno valutate per lo più in un ambito internistico sulla base del sospetto clinico; è possibile eseguire un’indagine
densitometrica in modo da diagnosticare la riduzione del tessuto osseo ed evitare eventuali fratture da fragilità.
Tra queste patologie si annoverano, quindi:
• osteoporosi (primitiva o secondaria)
• osteomalacia:
o resistenza/carenza vitamina D
o ipofosfatemia
o ipofosfatasia
• altre anomalie del tessuto osseo/connettivo:
o osteogenesi imperfetta
o displasia fibrosa
o omocistinuria
o sindrome di Marfan
o malattia di Gaucher

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Queste patologie possono dare:
Fragilità ossea SISTEMICA Fragilità ossea FOCALE
- osteoporosi - lesioni neoplastiche focali
- osteomalacia - displasia fibrosa
- osteogenesi imperfetta - malattia di Sudeck
- iperparatiroidismo primario - osteoporosi gravidica (forma di osteoporosi
- mastocitosi transitoria)

Come detto, è necessaria una valutazione clinica, strumentale e laboratoristica normalmente eseguite dal
medico internista.
A livello laboratoristico, in particolare, possiamo riconoscere:
- esami di primo livello:
o calcemia, fosforemia, creatininemia, VES, emocromo, profilo proteico
o calcio e creatinina urinarie nelle 24h
- esami di secondo livello:
o paratormone, 25-OH-D (nell’anziano sono di primo livello)
- esami di terzo livello (generalmente prescritti da endocrinologo):
o testosterone, cortisolemia/uria, esame feci, funzionalità epatica, TSH, N-metil-istamina, biopsia
ossea…

11.8 Terapia
Bisogna innanzitutto cercare di prevenire l’osteoporosi nei soggetti a rischio ma comunque con BMD ancora nei
limiti; questo si può fare attuando un trattamento non farmacologico, che prevede:
- somministrazione di calcio e vitamina D in caso di apporto insufficiente
- sospensione fumo e alcol
- incoraggiare attività fisica: importante, soprattutto quella in carico (sotto carico); infatti, l’osso quando
subisce stimoli meccanici di una certa entità tende ad irrobustirsi. Inoltre l’attività fisica riduce la
frequenza e la gravità delle cadute negli anziani.
- discutere possibilità di terapia ormonale sostitutiva in donne con sintomi post-menopausali
- sembra che mantenere un pH tendente al basico possa prevenire e migliorare il quadro di osteoporosi

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico vero e proprio, questo deve essere rivolto a pazienti che hanno
già subito fratture osteoporotiche, pazienti in terapia steroidea cronica e pazienti con bassi valori di BMD.

Le opzioni terapeutiche principali sono:


- terapia ormonale sostitutiva
- Raloxifene
- Ranelato di stronzio (entrato in disuso)
- bisfosfonati, come Alendronato e Risendronato; questi agiscono bloccando l’attivazione degli osteoclasti
- PTH
- anticorpi monoclonali: Denosumab

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File stronzo n° 1: Lezione 11 – parte 2
Sbobinatore: M.T.
Docente: Zarattini

11.A Fratture vertebrali osteoporotiche da compressione

La struttura trabecolare delle vertebre è organizzata per sopportare al meglio le sollecitazioni meccaniche.
Studi attraverso meccaniche di micro-TC hanno permesso di evidenziare la progressiva rarefazione di questa
impalcatura che si osserva con l’avanzare degli anni.

L’osso, a causa della riduzione di densità minerale, diviene più fragile e va facilmente incontro a deformazioni
in compressione (si parla di “crollo vertebrale”).
Danni di questo tipo, soprattutto se mal trattati, tendono ad evolvere verso una deformità strutturale (cifosi),
la quale rende più probabili nuove fratture, innescando un pericoloso circolo vizioso.

11.A.1 Epidemiologia
Poiché l’osteoporosi è molto diffusa nella popolazione anziana, le fratture vertebrali da compressione
(chiamate con l’acronimo VCF) su base osteoporotica sono considerate un problema sia clinico che sociale.
Si stima che ogni anno vengano spesi circa 377 milioni di euro all’anno in Europa per la gestione di queste
fratture.

11.A.2 Classificazione
La classificazione secondo Genant distingue le fratture, sulla base della morfologia della vertebra, in:
- biconcave, caratterizzate da una depressione localizzata al centro del soma;
- a cuneo: la compressione si verifica solo anteriormente;
- da crollo: l’altezza del soma si riduce in modo uniforme.

1/6
Queste tipologie vengono ulteriormente suddivise in 3 gradi diversi, in base all’entità della riduzione
dell’altezza del corpo vertebrale misurata in 3 punti: anteriore, media e posteriore:
- lieve: riduzione del 20-25%;
- moderata: riduzione del 25-40%;
- grave: riduzione > 40%.

Vanno eseguite valutazioni morfometriche sulle radiografie: vengono tracciati grafici che valutano la
differenza tra l’altezza del muro posteriore e l’altezza del muro anteriore, si attuano una serie di calcoli e
si individua, in questo modo, quali alterazioni morfologiche si sono verificate.

Nell’esempio riportato sopra, si nota una parete posteriore di 24mm ed una parete anteriore di 18mm, che indicano
un (cito testualmente) “6mm di cuneizzazione anteriore”.

11.A.3 Sede
Le fratture su base osteoporotica si localizzano prevalentemente a livello del passaggio toraco-lombare (T12-
L1); è raro riscontrarle più cranialmente.

11.A.4 Diagnosi
Avreste mai detto che sarebbe servita un’RX? Beh, serve proprio un’RX! Attraverso questo esame è possibile
riconoscere la morfologia alterata (secondo la classificazione di Genant) della vertebra interessata, ma non
sempre è evidenziabile la rima di frattura. Per questo è importante ricorrere agli esami di secondo livello (TC
e RM): in particolare, la RM consente di datare la lesione grazie a particolari sequenze (STIR e T2) in grado di
riconoscere l’eventuale presenza di edema intraspongioso (indice di frattura fresca come il cocco che acquisti
in spiaggia).

11.A.5 Patogenesi
Il processo di cuneizzazione anteriore della vertebra fratturata porta ad una progressiva anteriorizzazione
del centro di gravità, aumentando così le forze agenti sulla porzione anteriore delle vertebre adiacenti.

2/6
Questo può innescare un pericoloso effetto domino, tanto che dopo la prima VCF si ha un rischio aumentato
di 5 volte di incorrere in una seconda VCF.
Immaginatevi nel bel mezzo di una sfortunata partita di monopoli, in cui possedete solo vicolo corto, due stazioni e
parco della vittoria (per il quale vi siete sostanzialmente rovinati). State transitando tranquillamente a fianco alla
casella della prigione, quando vi scappa l’occhio e vi accorgete che ci sono 93574 case ben distribuite su tutte le
proprietà dei vostri avversari: così come dopo aver pagato 1500€ in piazza Dante è matematico (perché siete più
sfigati di un dinosauro che incontra Albano) che finiate anche su Largo Colombo e Piazza Giulio Cesare, allo stesso
modo dopo una frattura vertebrale su base osteoporotica è un attimo che vi ritroviate con la gobba del gobbo di
Notre Dame e tutte le vertebre spappolate.

Fratture cuneiformi si associano ad un alto grado di stiramento della componente vertebrale posteriore,
responsabile di una sintomatologia dolorosa piuttosto intensa.
Se non adeguatamente trattate, le deformità scheletriche tendono a
peggiorare progressivamente.

11.A.6 Quadro clinico


In una minoranza di casi (circa 30%) è riconoscibile un esordio acuto: il paziente si presenta tipicamente in
pronto soccorso per improvvisa comparsa di dolore lombare insorto dopo un piccolo trauma oppure in
seguito ad un lieve sforzo (sollevare la spesa, alzarsi da una cadrega…).

Più frequentemente, invece, la sintomatologia si presenta subdolamente con graduali deformazioni del
rachide e perdita in altezza.

➢ Dolore
Il dolore è esacerbato dai movimenti e si irradia simmetricamente lungo i dermatomeri corrispondenti. Il
riposo, specialmente in decubito supino, allevia la sintomatologia sia nella fase acuta che nella fase cronica.
Il dolore da crollo vertebrale entra in diagnosi differenziale con quello causato da:
- infarto del miocardio;
- colica renale (in caso suggerisco di somministrare 4 cc di
placibio);
- pancreatite;
- dissecazione aortica;
- Herpes zoster;
- processi infettivi;
- cedimenti da localizzazioni secondarie (come in caso di mieloma multiplo).

➢ Rigidità e limitazione funzionale


La rigidità compare prevalentemente per spasmo muscolare antalgico.

3/6
La deformità del rachide e il dolore compromettono la funzione della colonna e ne diminuiscono la mobilità.
Si instaura un circolo vizioso, in quanto la diminuzione dell’attività fisica porta ad un’ulteriore perdita di
massa ossea, peggiorando il quadro osteoporotico. Diminuisce, di fatto, la qualità della vita di questi pazienti,
poiché:
- la compressione addominale favorisce una riduzione dell’appetito;
- la funzione polmonare peggiora (una VFC toracica causa una perdita del 6-9% della capacità vitale);
- compaiono disturbi del sonno;
- la diminuzione del ruolo sociale, l’aumento della dipendenza dalle altre persone e l’aumento
dell’ansia contribuiscono sinergicamente allo sviluppo di depressione.

➢ Complicanze neurologiche
Si tratta di un’evenienza rara.

11.A.7 Mortalità
Fratture a livello dell’anca e a livello vertebrale influiscono in maniera significativa (fino al 23%) sulla
mortalità, a differenza di fratture del polso, che non influenzano questo dato (ergo rompetevi tutti i polsi che
volete).

11.A.8 Terapia
Gli strumenti terapeutici disponibili possono essere conservativi (farmaci e tutori) o invasivi (chirurgici).

➢ Terapie conservative
Droghe
Vengono somministrati analgesici, antinfiammatori, decontratturanti (miorilassanti) e si esegue una
profilassi anti-trombotica.

Rimedi non farmacologici


Il riposo a letto deve essere limitato (5-6 giorni al massimo), specialmente in caso di patologia cronica. Si
consigliano, inoltre, ginnastica respiratoria, prevenzione del decubito e massaggi superficiali
(probabilmente sarebbero più utili altri massaggi per dare sollievo al paziente).

Durante la fase cronica è importante seguire dei programmi riabilitativi incentrati sulla propriocezione,
con l’obiettivo di aumentare il trofismo e la forza muscolare.

Busti ortopedici
Si utilizza generalmente un’ortesi spinale a tre punti in iperestensione (per dettagli si rimanda alla lezione
sulle fratture vertebrali), anche se non sempre si adatta bene alla conformazione del paziente.

Pregi:
o permette di ridurre il periodo di allettamento;
o consente una mobilizzazione precoce.

Difetti:
o la riduzione degli stimoli meccanici a livello osseo favorisce l’osteoporosi (effetto
osteopenizzante);
o determinano una significativa ipotrofia muscolare;
o sono mal tollerati (a me dà fastidio la camicia, figuriamoci un busto)

4/6
➢ Terapia chirurgica
Le metodiche che negli ultimi anni hanno rivoluzionato il trattamento delle fratture vertebrali osteoporotiche
sono la vertebroplastica, la cifoplastica e la vesselplastica. Si tratta di procedure chirurgiche mini-invasive
(percutanee) che consistono nell’iniezione di cemento ortopedico all’interno del soma fratturato. Esistono
diverse varianti tecniche di queste procedure, ma non esistono trial clinici in grado di definire quale sia
migliore rispetto all’altra.

Vertebroplastica
Si inietta il cemento per via transpeduncolare all’interno del corpo della vertebra fratturata.

Cifoplastica
Viene inserito per via transpeduncolare un trocar, che presenta un palloncino alla sua estremità. Una volta
in sede, il palloncino viene gonfiato con aria ad alta pressione per ripristinare l’altezza fisiologica della
vertebra fratturata e successivamente estratto: nella cavità creatasi viene iniettato cemento ortopedico.

Vesselplastica
Costituisce un trattamento a cavallo tra i due precedenti: si utilizza un palloncino in teleftalato (un
materiale poroso) che viene gonfiato direttamente con il cemento ortopedico, il quale penetra all’interno
del corpo vertebrale attraverso le porosità del teleftalato.

Le indicazioni a questo tipo di trattamento sono:


- dolore dorso-lombare presente da non più di 6 mesi, in presenza di una o più fratture recenti1 su
base osteoporotica e/o traumatica;
- fratture coinvolgenti le vertebre d T4/5 a L5 definite sulla base della classificazione di Genant (grado
0-3);
- presenza di edema, rima di frattura o entrambe le caratteristiche in RM;
- integrità del muro posteriore (indicazione relativa).

Le principali controindicazioni, invece, sono:


- coinvolgimento neurologico;
- collasso vertebrale > 90%: in caso di vertebra plana (ovvero spappolata come uno piccione che finisce
sotto una ruota), infatti, è difficile effettuare un intervento di plastica mini-invasivo, in quanto il corpo
vertebrale è troppo danneggiato;

1 Identificate attraverso studi RM, come prima descritto.

5/6
- retropulsione del muro posteriore ≥ 2/3 del canale midollare;
- disordini della coagulazione;
- allergia al PMMA;
- discite o spondilodiscite.

Complicanze
Si tratta di procedure eseguite in anestesia locale2, normalmente ben tollerate dal paziente. In una piccola
percentuale di casi si può verificare la fuoriuscita di
polimetilmetacrilato (cemento) nel canale midollare, più frequente
nel caso di vertebroplastica (14% dei casi contro il 7,6% registrato
nella cifoplastica). In questi casi è raro che si manifesti una
sintomatologia, ma qualora avvenisse è necessario intervenire in
open per decomprimere il midollo spinale.
L’intervento di cifoplastica, in virtù della percentuale nettamente più bassa di complicanze, risulta essere
l’intervento più sicuro.

Vantaggi del trattamento chirurgico


Il paziente riesce a camminare immediatamente dopo l’intervento senza busto e rileva un immediato sollievo
dal dolore. I primi trattamenti si servivano dello stesso cemento ortopedico impiegato anche per la protesi
d’anca, ovvero un composto che necessita di una temperatura elevata per catalizzare (110° C). Per spiegare
la riduzione di dolore registrata nel post intervento, erano state formulate due teorie:
1. la prima sosteneva che l’elevata temperatura utilizzata “bruciasse” i nocicettori presenti;
2. l’altra, invece, riteneva che il responsabile dell’assenza di dolore fosse la stabilità del corpo vertebrale
ottenuta dopo l’intervento.
Per ridurre il rischio di incorrere in danni termici a carico del midollo spinale in caso di cement leakage, sono
stati sviluppati cementi in grado di catalizzare a temperatura fisiologica. Poiché il dolore si riduce anche con
l’impiego di questi cementi, la seconda si è rivelata la teoria più veritiera.

➢ Schema terapeutico
La scelta terapeutica dipende da diversi fattori, ma il primo aspetto che si osserva è il lasso di tempo che
intercorre tra il trauma e la diagnosi (detto t per comodità):
- se t < 1 mese: TRATTAMENTO CONSERVATIVO per 1 mese:
o se guarito, il paziente può tornare a divertirsi nei centri massaggi;
o se persiste dolore si osserva la deformità della colonna:
▪ se deformità ≥ 30°: CIFOPLASTICA;
▪ se deformità < 30°: VERTEBROPLASTICA;
- se 1 mese < t < 3 mesi: si decide sulla base della deformità (analogamente a quanto scritto sopra);
- se t > 3 mesi: si esegue direttamente la VERTEBROPLASTICA, anche se l’esperienza clinica insegna
che oltre i 3 mesi si innescano dei meccanismi di persistenza del dolore che rendono decisamente
meno efficace il trattamento chirurgico.

2 Fino a qualche anno fa le cifoplastiche venivano fatte in anestesia generale, tuttavia oggi si riesce ad eseguirle anche in anestesia
locale.

6/6
File stronzo n° 5: Lezione 11 – parte 3
Sbobinatore: C.R.
Docente: Zarattini

11.B Fratture del femore prossimale

Nell’VIII-IX decade di vita le donne perdono il 40% della massa ossea del rachide e più del 58% di massa ossea
femorale e questo fa sì che si possano verificare le cosiddette fratture patologiche cioè quelle fratture che si
creano per traumi a bassa energia.

I fattori predisponenti alla perdita di massa ossea sono:


- Osteoporosi;
- Insufficienza renale (danno osteodistrofie renali);
- Tumori;
- Morbo di Paget (per metastasi).

I fattori di rischio per questo tipo di fratture sono rappresentati da:


- Deterioramento dello stato neurologico, che porta ad avere minore equilibrio;
- Riduzione attività fisica dovuta alla riduzione della muscolatura, per cui ci sarà meno capacità di
sostenere certi carichi (un esempio è la forza prodotta quando si inciampa che si ripercuote sull’osso);
- Problemi di vista.

11.B.1 Epidemiologia
Sono 30.000 i casi all’anno di fratture di femore prossimale e si verificano prevalentemente in donne di razza
bianca. Fratture vertebrali, dell’anca (che fanno parte delle fratture prossimali di femore) e del polso sono le
più comuni fratture osteoporotiche. Tra queste tre, quelle che compromettono maggiormente la
sopravvivenza sono quelle dell’anca.
Si tratta di una patologia con un importante impatto socio-economico, prevalentemente a causa di:
- mortalità del 20-30%;
- morbidità (14%): decubiti, infezioni polmonari e urinarie, tvp, sindrome ipocinetica;
- Costi economici: perdita di autosufficienza e conseguente necessità di assistenza.
I fattori prognostici sfavorevoli sono:
- Età biologica e neurologica (il pz con più di 80 anni ha circa il 75% di probabilità di morire entro l’anno)
- Sesso maschile
- Precedenti patologie internistiche

11.B.2 Clinica
La diagnosi clinica è semplice. Il sospetto di frattura è già segnalato in base a:
- dolore e impotenza funzionale;
- atteggiamento antalgico;
- arto accorciato ed extraruotato (questo è il segno più caratteristico di questi tipi di frattura).

11.B.3 Diagnostica strumentale


Nonostante spesso basti la clinica o al massimo una radiografia standard, talvolta in fratture più complesse
come le incomplete o le ingranate è necessario svolgere esami di secondo livello (il docente non dice quali
ma dalle slide si vede in particolare un’immagine alla TC)

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11.B.4 Classificazione
Si distinguono:
- Fratture mediali (50%): riguardano collo e testa del femore. In
questa parte del femore l’articolazione è avvolta dalla capsula
articolare (fratture intracapsulari). Sono suddivise a loro volta
in:
o sottocapitate: appena sotto la testa del femore;
o mediocervicali: a metà del collo femorale;
o basicervicali: alla base del collo femorale.
All’interno della capsula decorrono l’arteria circonflessa inferiore e posteriore che irrorano collo e testa
femorale, perciò nella frattura mediale si possono avere rottura di questi vasi e necrosi della zona
interessata.

- Fratture laterali (50%) il docente si limita a indicare la zona, che è quella in azzurro nell’immagine;
extracapsulari. Divise in:
o basicervicali (alla base del collo femorale)
o pertrocanteriche (la linea di frattura è estesa tra un trocantere e l’altro)
o isolate del gran trocantere
o isolate del piccolo trocantere
o sottotrocanteriche

11.B.5 Trattamento
In questi anni si è capito che il trattamento chirurgico è migliore se effettuato entro 24-48 ore dal trauma
per evitare la cosiddetta sindrome ipocinetica. L’eccezione è rappresentata da pazienti con pluripatologie
perché ci sono dati che indicano che sarebbe meglio prima inquadrarli (da un punto di vista generale) in
maniera completa, rimandando l’intervento oltre i tempi standard.
Il trattamento è, dunque, sempre chirurgico ed è volto ad avere una mobilizzazione precoce per un ritorno
alle normali funzioni deambulatorie.
Esso dipende dal grado della frattura. Esistono due classificazioni, quella di Pauwels e quella di Gardens
che, rispettivamente, dividono le fratture in 3 e 4 gradi: man mano che si sale di grado, aumenta
l’instabilità della frattura.

L’algoritmo di trattamento è importante: per le fratture composte (stabili) l’intervento è l’osteosintesi, per
le scomposte (tendenzialmente instabili) si fa una sostituzione di tipo protesico.

➢ Trattamento fratture MEDIALI


Si opera in maniera diversa a seconda del grado di Garden:

- nelle fratture di grado I e II di Garden, in soggetti di età inferiore ai 60 anni, si tende a fare un
intervento di osteosintesi perché la chance di guarigione è alta. L’osteosintesi prevede incisioni
percutanee in corrispondenza di ogni vite (se ne usano 3 di solito).
- Nelle fratture di grado III e IV, in paziente anziano si sostituisce il pezzo fratturato con un’endoprotesi,
mentre per i pazienti più giovani si utilizza un’artroprotesi.

L’endoprotesi (o protesi biarticolare) si compone di uno stelo da inserire nel canale midollare e di una testa
femorale che si articola con un inserto in polietilene ricoperto da una cupola (nell’immagine questa non è
visibile ma immaginate che circondi la testa del femore). La protesi si articolerà poi con il fondo

2/4
dell’acetabolo. A distanza di 5-6 anni dall’impianto è piuttosto probabile l’infiammazione della protesi e
conseguente cotiloidite, per questo motivo è un trattamento riservato all’anziano. Tali protesi sono
prevalentemente di tipo cementato (nei pazienti più giovani invece si usano di solito protesi non cementate).
Le altre complicanze sono rappresentate da pseudoartrosi (la frattura può non guarire) o necrosi della testa
femorale (per deficit di vascolarizzazione). Possono essere presenti entrambe.

L’artroprotesi permette di sostituire completamente l’articolazione dell’anca perché contiene una


componente femorale e una acetabolare. La componente acetabolare ha una parte in polietilene con cui si
articola lo stelo femorale. È un’opzione raccomandata soprattutto quando ci sono lesioni associate
preesistenti come coxartrosi, necrosi, sfondamento dell’acetabolo.
Fino a qualche anno fa si usavano protesi monoarticolari ma si era visto che l’usura della protesi avveniva
molto precocemente perciò ora sono state abbandonate.

La protesi permette il carico immediato nel giro di 24-48 ore, a differenza dell’osteosintesi, dove il carico è
protetto (parziale) per almeno un mese.

Le complicanze dell’utilizzo delle protesi sono:


- cotiloidite
- stress shielding: l’osso con protesi tende a impoverirsi, a essere più debole. Ciò può portare a fratture
periprotesiche che prevedono trattamenti molto aggressivi con incisioni importanti a livello femorale
per sostituire la protesi oppure il posizionamento di una placca ancorata con cavetti particolari.
- infezioni. Il trattamento standard è la rimozione della protesi e il posizionamento di uno spaziatore
(una specie di protesi in cemento che rilascia antibiotico) da mantenere per 12 settimane. Una volta
terminata l’infezione si può fare un nuovo impianto ma è pesante per il paziente subire due o tre
interventi di sostituzione
- lussazioni
- rotture di componenti protesiche (sempre più rare, vista la qualità delle protesi).

➢ Trattamento fratture LATERALI


Si distinguono in stabili e instabili. Quest’ultime sono caratterizzate da: rima con obliquità invertita rispetto
allo standard e una comminuzione della corticale posteriore.

Per le stabili:
- il gold standard è l’osteosintesi con il sistema vite placca a scivolamento (o dinamica). È composto
da una placca nella porzione laterale del femore all’interno della quale viene messa una vite per
compattare e consolidare la frattura;

3/4
- In alternativa si può usare un chiodo endomidollare (o chiodo gamma) che ha un braccio di leva
minore e quindi la forza che agisce sulla zona di frattura è diminuita. Un altro vantaggio del chiodo è
che può essere messo per via percutanea quindi l’intervento è poco invasivo. Per queste ragioni è
sempre più utilizzato non solo nelle fratture instabili (per cui sarebbe il gold standard) ma anche nelle
stabili (tipo A1). Nei casi complessi è più discutibile se usare una placca o una vite (il docente a tal
proposito propone alcuni esempi radiologici di fratture in cui è stato preferibile utilizzare una placca).

Anni fa erano utilizzati i chiodi di Enver, abbandonati perché troppo elastici.

Il trattamento post-operatorio è più complesso perché il carico dato sarà parziale (trattandosi di
un’osteosintesi), come detto precedentemente. Nell’osso osteoporotico infatti, i punti di contatto tra vite e
osso sono pochi e questo può portare a cut-out delle viti: l’osso non è abbastanza forte da sopportare il
sistema delle viti. Per limitare questo problema si può innanzitutto fare attenzione al posizionamento delle
viti: è meglio infatti metterle inferiormente (guardando la proiezione anteroposteriore) e posteriormente
(guardando la proiezione latero laterale). Altre complicanze sono il cedimento del mezzo di sintesi (che
dev’essere quindi sostituito) e l’ossidazione dei metalli.

Esistono anche protesi per fratture pertrocanteriche: si devono usare steli più lunghi o normali ma con
accorgimenti particolari. Il problema è che spesso per queste fratture il trattamento protesico ha complicanze
maggiori quindi bisogna prestare particolari attenzione e, se possibile, evitarlo. Bisogna limitarsi a trattare la
frattura e trattare la patologia di base; essendo l’osteoporosi il problema principale, verranno somministrati
calcio e vitamina D o anche farmaci anabolici.

L’assistenza fisiatrica è fondamentale ed è affidata al fisioterapista e prevede dispositivi come deambulatori


per riprendere pian piano la normale deambulazione. Il problema maggiore è il ritorno al domicilio perché è
necessaria l’assistenza domiciliare. Nel caso non fosse possibile è meglio accettare un certo numero di giorni
di “ospedalizzazione” per poter recuperare sotto l’assistenza del personale sanitario. Il fast track non sembra
perciò essere l’ideale.

4/4
Sbobinatore: K. I.
Revisore: C. M.
Materia: Medicina fisica e riabilitazione
Docente: Professoressa Maria Vittoria
Comunicazioni: La professoressa ha pubblicato su Teams le slide della Meraviglia
lezione, alcuni articoli del professor Boccardi, uno dei fondatori della medicina Data: 24/05/21
riabilitativa in Italia, un articolo di Antonella delle Fave psicologa che si Lezione n°: 1
occupa di riabilitazione ed una articolo sulla promozione della salute. Qualora Argomenti: Introduzione alla medicina
fossimo interessati sarà inoltre possibile chiedere alla professoressa riabilitativa
materiale di approfondimento riguardante la classificazione ICF trattata a
lezione.

INTRODUZIONE ALLA MEDICINA RIABILITATIVA

1.1 Definizione di riabilitazione


La parola riabilitazione dal latino re-habere (possedere di nuovo), con essa si intende la reintegrazione
di una persona, il suo ritorno ad una normale attività sia in ambito medico che sociale. Un esempio di
riabilitazione sociale può essere quella che dovrebbe avvenire nei carcerati nel corso della detenzione. Il
verbo riabilitare è poi conforme al significato dell’inglese to rehabilitate, restituire in grado di efficienza e
di funzionalità.

Altre definizioni descrivono la riabilitazione come quella branca della medicina volta al recupero di una
funzione compromessa, come trattamento medico e fisioterapico o in maniera più estensiva come la
reintegrazione di un soggetto nella stima
sociale perduta in seguito ad azioni
ritenute disdicevoli.

Il dizionario medico Elsevier descrive la


riabilitazione come la branca della
medicina che comprende tutte le
manovre terapeutiche che mirano alla
prevenzione e alla riduzione degli esiti
invalidanti delle malattie, con il fine di
migliorare la qualità della vita della
persona in relazione al suo ambiente, si
propone di fare diagnosi, valutare
l’handicap e di attuare una terapia
precoce ed adeguata.

Nell’immagine qui riportata sono


elencati alcuni termini che oggi sono
legati al complesso concetto di medicina
riabilitativa.

Vengono poi riportate una serie di definizioni:

• La medicina riabilitativa è quella branca della


medicina che si prefigge di promuovere il
funzionamento fisico e cognitivo, le attività
(compresi i comportamenti), la partecipazione
(compresa la qualità della vita) e le
modificazioni necessarie dei fattori personali
ed ambientali.

• La fisiatria è invece quella specialità medica


che si occupa della cura e della riabilitazione
(terapia riabilitativa) di malattie, soprattutto di
tipo traumatico, vascolare o degenerativo,
mediante l'impiego di metodi fisici (calore, luce, campi magnetici, elettricità), apparecchi
meccanici o manipolazioni.

1
• Col termine fisioterapia si intende quella branca della medicina che si avvale di mezzi fisici e
dell’attività fisica a fini terapeutici. Il termine è centrato sulla natura e non sull’obiettivo per cui
vengono utilizzati. Terapie molto diffuse, anche se in minima parte validate, sono quelle che
utilizzano l’energia elettrica (elettroterapia), elettromagnetica (radar, marconi, laser) o meccanica
(ultrasuoni, onde d’urto).

• Nella chinesiterapia (terapia del movimento) il movimento costituisce uno degli strumenti più
importanti della riabilitazione motoria, si tratta però di un approccio di scarsa diffusione per via
delle tempistiche dilatate e dei costi.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per "riabilitazione" si intende
"l'insieme di interventi che mirano allo sviluppo di una persona verso il suo più alto potenziale sotto il
profilo fisico, psicologico, sociale, occupazionale ed educativo, in relazione al suo deficit fisiologico o
anatomico e all’ambiente”. Si sottolinea in particolare l’importanza qualitativa e quantitativa di questi
nuovi aspetti introdotti nella definizione dell’OMS.

Va poi ricordato che con il termine riabilitazione si intende un intervento che agisce, in primo luogo, sulle
parti sane del paziente, favorendone lo sviluppo, e che al contempo, nonostante i limiti imposti dalla
patologia, consente il raggiungimento del massimo grado di autonomia possibile. Riabilitare implica un
agire all'interno di una relazione, dove il paziente è soggetto partecipe ed il fine è raggiungere la migliore
qualità di vita possibile, con la minor restrizione possibile delle sue scelte operative. Ne consegue che il
trattamento riabilitativo deve interessare il paziente nel suo complesso e va per forza di cose ad
interessare anche la sua sfera sociale.

Centrale nell’uso del termine riabilitazione è quindi il rivolgersi ad una persona nel suo insieme,
comprendendo il contesto personale ed ambientale: “si riabilita il signor Rossi, non l’emiplegia del signor
Rossi”.

Pertanto la riabilitazione non può essere intesa come di esclusiva spettanza medica, e non dovrebbe
ammettere né prefissi né aggettivi che ne qualifichino i settori di applicazione (riabilitazione neurologica,
ortopedica, ecc.), ciò risulta essere in contrasto con una visione più riduzionistica della medicina che
però si scontra con una realtà in cui spesso i soggetti possono presentare contemporaneamente più di
una disabilità necessitando quindi di un approccio che sia il più multidisciplinare e completo possibile.

Secondo il filosofo e sociologo Edgar Morain la riabilitazione segue la legge del secondo principio della
termodinamica e quindi un “pezzo” non può essere scisso dall’altro: osservando il particolare si perde la
visione d’insieme.

Rimane poi il problema dell’intervento su soggetti che non hanno ancora acquisito, e quindi non possono
aver perduto, delle abilità (bambini). E’ stato allora proposto il termine “abilitazione” che non ha avuto
però alcuna fortuna.

Nel meeting “Rehabilitation 2030” svoltosi a Ginevra nel 6 Febbraio del 2017, si propone un’ulteriore
definizione di riabilitazione, la quale è definita come “un insieme di interventi concepiti per ottimizzare il
funzionamento e ridurre la disabilità” in persone che presentano diverse “condizioni di salute”, riferibili a
malattie acute o croniche, disordini, lesioni o traumi. In queste “condizioni di salute” vengono ricomprese
non solo le patologie disabilitanti che rientrano comunemente nell’ambito della riabilitazione, ma anche
situazioni non patologiche che ne limitano, anche temporaneamente, il funzionamento, quali sono ad
esempio la gravidanza, l’invecchiamento fisiologico o lo stress.

Viene ora riportato un estratto dell’intervento di Paolo Boldrini, presidente della società italiana di
medicina fisica e riabilitativa:

• La Riabilitazione è essenziale per soddisfare il bisogno di salute delle popolazioni e per


raggiungere l’obiettivo di assicurare una vita sana e promuovere il benessere a tutte le età;
• La Riabilitazione gioca un ruolo importante per la popolazione più anziana; riduce il rischio di
cadute e di ricoveri ospedalieri, e rende le persone indipendenti più a lungo;
• Il numero di persone affette da malattie non trasmissibili ed altre condizioni croniche non è mai
stato così alto; i sistemi sanitari debbono attrezzarsi per offrire servizi che ottimizzino le capacità
funzionali a fronte di menomazioni, traumi o malattie acute o croniche.
• I benefici della riabilitazione superano i confini del settore sanitario. La Riabilitazione può ridurre i
costi sanitari e consentire l’accesso all’istruzione e al lavoro retribuito.
2
• La riabilitazione deve essere integrata nei piani sanitari nazionali e nel finanziamento della
sanità. Le attuali tendenze epidemiologiche, i cambiamenti demografici e l’ampliamento
dell’accesso all’assistenza sanitaria rendono lo sviluppo della riabilitazione un imperativo per i
sistemi sanitari del 21° secolo.
• E’ necessaria un’azione coordinata e concertata per lo sviluppo dei servizi riabilitativi e per dare
risposta ai molti bisogni ancora non soddisfatti.

Nel meeting viene poi sottolineato come il reddito sia una importante discriminante nell’accesso ai servizi
riabilitativi che oggi sono sempre più spesso ad appannaggio di istituti privati.

1.2 Obiettivi e caratteristiche della riabilitazione


Una volta nella pratica clinica, per valutare le limitazioni funzionali di un paziente, ci si avvaleva del così
detto ICDH (international classification of disease and handicap), oggi è invece subentrato l’ICF
(international classification of functions), quello che cambia è evidentemente la prospettiva con cui si
attua la classificazione, prima si valutava l’handicap, ora la funzionalità, in un'ottica sicuramente più
positiva per il paziente.

La diagnosi fatta dal riabilitatore (fisiatra in questo caso) è diversa da quella clinica (sarebbe meglio
infatti parlare di valutazione piuttosto che di diagnosi), e si prefigura l’acquisizione tramite gli strumenti
adeguati e nel più breve tempo possibile della diagnosi di lesione (alterazione delle struttura), della
diagnosi di funzione (natura del difetto e sua storia naturale) e del profilo di disabilità (cosa è venuto
meno, come può essere recuperato o vicariato, cosa è rimasto e come può essere opportunamente
valorizzato). Il terapista redigererà poi il piano terapeutico (durata e frequenza delle sedute).

1.3 Manifesto per la riabilitazione del bambino


Nel manifesto per la riabilitazione del bambino, scritto nei primi anni duemila dal gruppo per la
riabilitazione infantile con a capo il professor Adriano Ferrari, la riabilitazione è invece definita come un
processo complesso (è necessaria una visione d’insieme e quindi d’equipe) teso a promuovere nel
bambino e nella sua famiglia la migliore qualità di vita possible (possiamo estendere questa definizione
anche agli adulti). Il processo riabilitativo interessa con azioni dirette ed indirette l’individuo nella sua
globalità fisica, mentale, affettiva, comunicativa e relazionale (carattere olistico) coinvolgendo il suo
contesto familiare, sociale ed ambientale (carattere ecologico).

1.3.1 Obiettivi della riabilitazione


L'intervento riabilitativo viene poi finalizzato verso quattro obiettivi principali:
• Il recupero di una competenza funzionale che per ragioni patologiche è andata perduta
• L'evocazione di una competenza che non è comparsa nel corso dello sviluppo
• La necessità di porre una barriera alla regressione funzionale cercando di modificare la storia
naturale delle malattie cronico-degenerative riducendone i fattori di rischio e dominandone la
progressione
• La possibilità di reperire formule facilitanti alternative. Oggi con le nuove tecniche di domotica e
robotica si possono raggiungere risultati prima impensabili, purtroppo è ancora difficile
permettere a tutta la popolazione di fruire di queste metodiche.

La riabilitazione si compone poi di interventi integrati di rieducazione (terapia), educazione e assistenza:

• La rieducazione è competenza del personale tecnico sanitario ed ha per obiettivo lo sviluppo e il


miglioramento delle funzioni adattive. Essa rappresenta un processo discontinuo e limitato nel
tempo che deve necessariamente concludersi, quando, in relazione alle conoscenze più
aggiornate sui tempi biologici del recupero, per un tempo ragionevole non si verificano
cambiamenti significativi né nello sviluppo né nell’utilizzo delle funzioni adattive. Il processo è
quindi limitato nel tempo, anche in tutte quelle patologie che avranno un decorso cronico-
degenerativo, al più si opterà per l’attivazione di un nuovo ciclo di terapia di cui però devono
essere chiari gli obiettivi e le finalità.

Essa deve inoltre tener conto della molteplicità delle funzioni alterate (motorie, percettive,
cognitive, affettive, comunicative e relazionali), delle loro peculiarità e delle loro interazioni
reciproche, nella logica dello sviluppo patologico e nel rispetto dell’individualità e della diversità di
ogni bambino. Ad esempio, un tempo si credeva che i bambini affetti da sindrome di Down non
fossero in grado di svolgere le addizioni in colonna, tuttavia si è poi verificato che con il giusto
approccio educativo ciò non era vero.
3
La rieducazione deve poi operare sistematicamente sul soggetto e sul contesto del cambiamento
(interazione bambino-terapista-ambiente), cioè sulle condizioni ecologiche più adatte, in modo da
facilitare lo sviluppo della funzione compromessa ed il suo utilizzo razionale.

• L’educazione è anche competenza del personale sanitario e dei professionisti del settore
(insegnanti) ed ha per obiettivo sia la preparazione del soggetto ad esercitare il proprio ruolo
sociale (educare il disabile) sia la formazione della comunità, a cominciare dalla scuola, ad
accoglierlo ed integrarlo (educare al disabile), per aumentarne le risorse ed accrescere l’efficacia
del trattamento rieducativo.

• L’assistenza ha per obiettivo il benessere del soggetto e della sua famiglia ed è competenza del
personale tecnico e degli operatori sociali. Essa deve accompagnare senza soluzioni di
continuità il soggetto e la sua famiglia sin dall’insorgere della disabilità.

Il modello culturale di riferimento deve basarsi su una conoscenza aggiornata, supportata dall'evidenza
scientifica e dai contributi delle neuroscienze, dello sviluppo delle funzioni adattive in condizioni normali
e patologiche. In età evolutiva queste funzioni devono essere valutate in modo dinamico al fine di
cogliere la loro variabilità e la loro modificabilità in relazione al soggetto, allo scopo ed al contesto di
utilizzo.

Gli obiettivi terapeutici devono basarsi sulla prognosi di recupero, cioè sulla valutazione dei limiti di
modificabilità di ciascuna funzione in relazione alle risorse possedute dal bambino o dall’adulto, alla sua
motivazione ed alla sua capacità di apprendimento. La rieducazione deve basarsi su un progetto di
cambiamento costruito su misura per ciascun soggetto e deve tener conto del suo contesto sociale.

1.3.2 Procedure terapeutiche e gruppo di lavoro

Ogni procedura terapeutica adottata deve essere fondata su una sperimentazione attiva rispettosa della
propositività del soggetto, dei suoi bisogni come dei suoi desideri. Per il bambino ad esempio può essere
importante ritrovare un ambiente accogliente, colorato, poter giocare o disegnare.

La possibile ripetitività dell’esercizio terapeutico, quando necessario per il raggiungimento di una vera
abilità, non deve risultare in alcun modo stereotipato, oppressivo o afinalistico, ma deve basarsi su una
variazione delle caratteristiche dei compiti e dei contesti in grado di facilitare nel soggetto l’acquisizione
dei meccanismi e delle regole, piuttosto che l’apprendimento delle singole prestazioni motorie.

Il programma terapeutico deve procedere per ipotesi e verifiche, porsi degli obiettivi raggiungibili e
misurabili (da dichiarare al paziente), ammettere l’esistenza di limiti non superabili. Il progetto è proposto
in prima istanza dal medico, sono poi presenti competenze trasversali condivise con terapisti, infermieri,
assistenti sanitari e tecnici vari.

In questo contesto la formazione dei vari professionisti richiede un aggiornamento continuo per il
perfezionamento degli strumenti e delle procedure di cura, perché ogni progetto terapeutico possa
essere ideato, pianificato e realizzato per ciascun soggetto nel modo più aggiornato ed efficace
possibile.

Il gruppo di lavoro deve essere composto da personale specializzato (medici, psicologi, terapisti, tecnici,
ecc.) in un rapporto numerico adeguato rispetto ai soggetti in carico, deve essere dotato di spazi dedicati
e di attrezzature adatte, disporre del tempo necessario per la raccolta di informazioni sulla evoluzione
clinica di ciascun paziente e per la discussione interdisciplinare periodica del caso. Nel caso di bambini
può essere utile richiedere ai genitori dei reperti video che siano grado di mostrarci il reale
comportamento del soggetto nel suo ambiente, spesso questo è molto diverso da quello che osserviamo
in ospedale.

Il gruppo di lavoro deve garantire una gestione unitaria e complessiva dell’intervento riabilitativo
(globalità), seppure attraverso programmi selettivi e mirati (specificità), erogati tempestivamente
(efficienza) e per il tempo necessario (efficacia) sin dalla prima infanzia, quando maggiori sono le
possibilità di influenzare favorevolmente lo sviluppo del soggetto. E’ importante la figura del leader
all’interno del gruppo di lavoro, questo soggetto viene riconosciuto dal gruppo di lavoro e si occupa in
primis della comunicazione col paziente.

4
E’ poi importante costituire una rete integrata di servizi di riabilitazione del soggetto, la quale deve
possedere collegamenti organici nazionali, per permettere una sistematica organizzazione delle
esperienze e delle conoscenze epidemiologiche, dei protocolli di diagnosi e cura, delle procedure
riabilitative più accreditate e per l’individuazione dei criteri di valutazione e di verifica dei risultati comuni.
Il processo di riabilitazione non dovrebbe alterare eccessivamente la vita del soggetto, è ad esempio
impensabile svolgere un trattamento in modo continuativo se questo si svolge molto lontano da casa.

La famiglia deve essere sostenuta a governare l’incertezza (presa a carico e relazione di aiuto) e guidata
a costruire intorno al bambino o all’adulto il miglior contesto di vita possibile fisico, psicologico e sociale
(cultura della partecipazione). Il messaggio che arriva alla famiglia deve essere univoco pur
coinvolgendo diversi professionisti e deve coinvolgerla in maniera attiva attraverso il processo di
comunicazione della diagnosi e della prognosi, la determinazione degli obiettivi e degli strumenti, la
distribuzione dei compiti, l’adattamento del contesto ed il sostegno materiale per la risoluzione dei
problemi logistici, economici e gestionali. Anche la scuola che è parte integrante della vita del bambino
andrebbe coinvolta in questo processo.

Oggi ha assunto molta importanza anche il così detto “terzo settore”, ovvero il volontariato e le varie
forme di solidarietà sociale, che collaborano al processo di assistenza e di socializzazione del soggetto
al fine di amplificarne le possibilità di integrazione e le capacità di relazione sociale. Va ricordato come
nonostante questo tipo di intervento nasca su base volontaria, sia necessario per I volontari avvalersi di
percorsi di formazione ed aggiornamento adeguati.

1.4 Il concetto di salute


Nel 1948 nasce l’OMS, in un contesto post bellico che mostra delle similitudini con l’attuale situazione
post pandemica. In questa occasione la salute viene è definita come uno stato di completo benessere
fisico, mentale e sociale, non meramente l’assenza di malattia o infermità. Le implicazioni di questa
definizione sono molteplici, in primo luogo si evidenzia ad esempio l’estremo carattere soggettivo della
parola “benessere”.

Dalla conferenza di Alma Ata (1978, Kazakhistan) emerge


una nuova definizione: “La salute è un fondamentale diritto
umano e il conseguimento del più alto livello possibile di
salute è il più importante obiettivo sociale del mondo intero,
la cui realizzazione richiede l’azione di molti altri settori
sociali ed economici oltre al settore della salute”.

Nel 1986 con la carta di Ottawa emerge invece un approccio


più pragmatico, ci si auspica infatti “il raggiungimento per
tutta la popolazione mondiale, entro il 2000, di un livello di
salute che permetta di condurre una vita socialmente ed
economicamente produttiva”. Ciò sarebbe stato raggiunto
tramite il rinforzo dell’azione comunitaria, lo sviluppo delle
capacità personale, la creazione di ambienti favorevoli, la
condivisione dei mezzi, la promozione delle idee, il
riorientamento dei servizi sanitari e la costruzione di politiche
per la salute. L’obiettivo è che il maggior numero di persone
possa essere economicamente produttiva.

Nel 1976 Ivan Illic propone nel suo libro “nemesi medica”
un nuovo concetto, quello dell’emancipazione dalla figura
del medico settecentesco, che con tutte le sue forze cerca
di lottare contro la morte finendo tuttavia spesso e volentieri
per creare un danno al paziente (iatrogenesi sociale).
Secondo Ivan Illich sarebbe quindi necessario un processo
di demedicalizzazone della società, in questo libro in
particolare si analizza come il fenomeno della morte venga
vissuto nelle varie epoche e culture.

Un altro medico, Mirko Drazen Grmek (1924-2000)


introdusse invece il concetto di patocenosi, esso rappresenta l'insieme delle malattie presenti in una

5
popolazione in un determinato periodo e in una determinata epoca. La patocenosi racchiude quindi un
complesso di malattie, variabile sia quantitativamente sia qualitativamente, in cui la frequenza di ogni
malattia dipende dalle altre malattie o da fattori ambientali. Ad esempio in Europa nella seconda metà
dell’ottocento, imperversava la
tubercolosi, altre patologie
caratterizzanti quest’epoca sono
poi state ad esempio la pellagra,
la sifilide o lo scorbuto. La
patologia che ha invece vessato
il secolo scorso è stata senza
dubbio l’HIV; il concetto di
patocenosi è quindi in continuo
cambiamento, possiamo citare le
attualissime problematiche
legate alle zoonosi, che sempre
di pìù richiederanno una
coordinazione internazionale e
multidisciplinare per il loro
contenimento.

La tipologia di patologie che


colpiscono una determinate
popolazione ed i dati di mortalità
differiscono anche seconda dei
contesti socio economici che osserviamo, come si evidenzia nella tabella qui riportata.

Si osserva come nei paesi del terzo


mondo prevalgano epidemiologicamente
le malattie infettive e si abbia una
mortalità elevata, mentre nei paesi
industrializzati prevalgono le patologie
cronico-degenerative e la mortalità risulta
essere bassa.

Nei paesi industrializzati abbiamo poi un


“epidemia” di obesità e ciò è dovuto in
gran parte alle modificazione che
osserviamo nelle abitudini e
nell’alimentazione della popolazione
occidentale; questo, come emerge da
alcuni studi, ha un impatto di natura
addirittura epigenetica e ci si osserva

6
soprattutto nei bambini, in particolar modo nei loro primi 1000 giorni di vita.

Nel futuro sarà quindi fondamentale curare tutti quegli aspetti che vanno a condizionare la nostra salute,
soprattutto nell’ambito delle patologie cronico-degenerative, che saranno sempre più centrali per via
dell’allungamento dell’aspettativa di vita.

In particolare si sottolineano come siano dannosi il fumo e l’alcol: contrariamente a quello che si pensa
quest’ultimo non è un nutriente e anzi il suo abuso è tossico per l’organismo.

Anche il telefono cellulare attraverso


l’emissione di onde radiomagnetiche può
essere dannoso per l’organismo (viene
fornita tra i file del corso una
presentazione a riguardo per chi fosse
interessato).

Viene poi introdotto il concetto di


salutogenesi, secondo cui lo stato
altalenante tra salute e malattia è
condizionato sì da fattori patogenetici
ma anche da tutte quelle azioni che noi
compiamo quotidianamente per
migliorarla. In particolare in uno studio
condotto da Aaron Antonovsky su
incarico del governo di Israele, si
monitorarono per diversi anni alcune
donne sopravvissute ai campi di
concentramento, e si osservò che
quest’ultime raggiunsero un’età molto
avanzata, godendo in più di ottima
salute. Le donne osservate avevano un
altissimo grado di resilienza e ciò si è
rivelato coerente con il loro stato di
salute. La salutogenesi è quindi un
termine ombrello che racchiude tutta
una serie di caratteristiche che fanno riferimento ala capacità di comprendere la realtà circostante
(dimensione cognitiva), di elaborare il proprio orizzonte di vita (dimensione motivazionale) e di plasmare
le difficoltà (dimensione comportamentale); l’integrazione di queste dimensioni è ciò che determina la
nostra percezione di salute.

In questa immagine è riportato invece il così


detto fiume della vita di Antonovsky, in
questa rappresentazione le varie professioni
sanitarie si alternano nella promozione della
salute, nell’educazione sanitaria (assistenti
sanitari), nella prevenzione, nella protezione
attraverso i vari presidi medici verso la
salutogenesi e quindi al benessere. Tuttavia,
nel momento in cui si arriva a richiedere una
cura, viene meno la nostra resilienza e ci si
trova in una situazione che inevitabilmente
ci porta alla malattie e alla morte. In questa
visione il medico non è inutile, ma si
sottolinea come esso debba intervenire il
più precocemente possibile, in modo di
arrivare alla cura solo quando ciò è
strettamente necessario.

La professoressa ci invita poi ad approfondire il concetto di medicina personalizzata attraverso un


webinar gratuito che possiamo reperire su youtube e che è stato condotto dal professor Ernesto
7
Burgio, medico pediatra e genetista. Il webinar è poi disponibile sul sito dell’istituto di naturopatia di
Urbino.

La professoressa ci consiglia inoltre di consultare il sito “dors Piemonte” per ulteriori informazioni sui
determinanti di salute.

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Sbobinatore: V.C.
Revisore: B.M.
Materia: Medicina fisica e riabilitazione
Docente: Professoressa Maria Vittoria Meraviglia
Data: 31/05/21
Lezione n°: 2
Argomenti: Evoluzione e sviluppo del SNC; metodi e
tecniche di riabilitazione

Comunicazioni: il prof Milano farà un esame con domande aperte, con una domanda per ogni corso
e dando un tempo stabilito. La prof spende molto tempo ipotizzando come possa figurare l’esame e
come possano comportarsi le domande di conseguenza: se fosse a crocette escluderebbe la terapia
fisica come oggetto di domanda, se fosse a domande aperte invece ci sarebbe un’unica domanda,
di carattere molto generale ed ampio. Propone di passare le ultime due ore della prossima lezione
a rispondere a delle domande aperte

EVOLUZIONE E SVILUPPO DEL SNC


Parliamo di evoluzione e sviluppo del SNC perché il nostro movimento esiste grazie ad un sistema
nervoso periferico che veicola le informazioni dalla periferia al sistema nervoso centrale, il quale le
elabora e manda delle efferenze in periferia, alla placca motrice, che esitano in un movimento.

“Evoluzione” è un termine che richiama il processo evolutivo che parte da specie che sono comparse
sul pianeta prima di noi fino alla comparsa di H.sapiens, quindi un processo attuatosi
contestualmente allo sviluppo della vita stesso.
Il termine “sviluppo”, invece, presuppone che ci sia una sorta di engramma1 che, attraverso una
serie di attività, azioni e pensieri, emerge e si sviluppa; questo processo avviene nei bambini,
continuando poi anche nell’adulto.
Questo processo di sviluppo neurologico somiglia concettualmente allo sviluppo delle fotografie a
partire dal negativo.

1. Evoluzione filogenetica
Filogenesi = sviluppo della specie a partire dai primi Phyla.

1.1 Cenni di riferimento storico


Uno dei primi studiosi dell’anatomia umana e del sistema SNC fu Aristotele2 (IV sec a.C. vs
Ippocrate V sec a.C.). Egli fece le sue prime osservazioni sugli embrioni di pollo attraverso un
“approccio anatomico”, che consiste nel comparare anatomia e fisiologia di varie specie.

1 Engramma: Un engramma è un ipotetico elemento neurobiologico che consentirebbe alla memoria di ricordare fatti
e sensazioni immagazzinandoli come variazioni biofisiche o biochimiche nel tessuto del cervello e di altre strutture
nervose.
2 La figura di Aristotele è assimilabile a quella di un biologo marino; Alessandro Magno era un pessimo allievo, ma era

molto ricco, quindi gli faceva da mecenate così che lui poté aprire il liceo

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Uno dei primi studiosi dell’anatomia umana e del sistema SNC fu Aristotele3 (IV sec a.C. vs
Ippocrate V sec a.C.). Egli fece le sue prime osservazioni sugli embrioni di pollo attraverso un
“approccio anatomico”, che consiste nel comparare anatomia e fisiologia di varie specie.
Dopo Aristotele, un altro importante studioso fu William Harvey (XVII sec d.C.), colui che scoprì la
circolazione del sangue; prima si credeva che il sangue fosse fermo, che le arterie portassero aria 4.
Per quanto riguarda il nostro odierno interesse Harvey disse “ex ovo omnia”, indicando che secondo
lui ogni nuova vita dovesse avere come sua genesi un uovo.
Ci fu poi una divergenza tra scienziati dell’epoca tra epigenesi (formazione di organi avviene ex
novo) e preformismo (nei gameti esiste un homunculus che sta alla base dello sviluppo
dell’embrione)
Tra fine ‘700 e inizio ‘800 ricordiamo Karl Ernst von Baer, che
utilizzò un approccio embriologico comparato sulle orme di
Aristotele in cui studiava gli embrioni ed il loro sviluppo; osservò
che negli stadi embrionali di diverse specie ci sono molte similitudini
che progressivamente tendono a perdersi nel corso della
differenziazione delle varie specie stesse.

Ernst von Haeckel (fine ‘800 inizio ‘900) sosteneva che


l’ontogenesi ricapitolasse la filogenesi, ovvero che lo sviluppo
embrionale ricapitolasse l’evoluzione della specie; oggi sappiamo
che questo non è vero grazie a molta letteratura scientifica che
contrasta con questa cosa.

Charles Darwin (‘800) con il suo


libro “On the origin of species” notò
la somiglianza a livello embrionale
di strutture che poi erano
nettamente diverse. Egli si
interessò molto alle discendenze
genealogiche (IMMAGINE
ALBERO).

Nell’ottocento c’era l’idea che


l’uomo stesse alla sommità
dell’albero genealogico; Darwin,
invece, non credeva che ci fosse
qualcuno sulla sommità di un
albero genealogico, nemmeno
l’uomo.

3 La figura di Aristotele è assimilabile a quella di un biologo marino; Alessandro Magno era un pessimo allievo, ma era
molto ricco, quindi gli faceva da mecenate; proprio grazie a quest’ultimo, egli poté aprire il liceo
4 Poche ore dopo il decesso all’autopsia le arterie sono vuote e beanti; le vene sono invece nastriformi in quanto

collabiscono; per questo motivo, si credeva che le arterie portassero lo “pneuma” al cervello dove, secondo la
concezione del tempo, poteva essere utilizzato per il raffreddamento

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Konrad Lorenz (‘900)
Nobel per la medicina nel 1973 ed iniziatore dell’etologia, ossia lo studio scientifico delle altre specie
animali. Ha scritto “L’anello di re Salomone” (personaggio biblico noto per la sua saggezza e il cui
anello, ruotato intorno al dito, gli conferiva il potere di comprendere il linguaggio animale), in cui
narra delle sue osservazioni sul comportamento delle anatre nel suo stagno ad Altenberg, che lo
portarono a definire quello che oggi chiamiamo “imprinting” (quando si schiude l’uovo, la prima
persona che viene vista muoversi è considerata la mamma).
Nei suoi studi di etologia notò che curiosità, gioco, ricerca e arte sono tutte funzioni imparentate che
esistono di per sé e non per ottenere uno scopo qualsiasi o per ottenere un risultato; questo è quello
che fa un bambino, giusto per diletto, non per raggiungere uno specifico fine.

2. Sistemi nervosi nei vari animali


Vengono messe a confronto le varie strutture dei sistemi nervosi di vari animali, dai meno evoluti ai
più evoluti.
- Gli anemoni, ad
esempio, non hanno il
polo cefalico; hanno un
SN reticolare,
un’entrata, un’uscita.
L’acqua attraversa il
corpo dell’anemone e
questo ne trae
nutrimento. L’anemone
si può spostare con i
suoi tentacoli, ma per lo
più viene trasportato
dalla stessa.

- La stella marina ha un
sistema simil-reticolare,
ma radiale. Questa ha
cinque bracci e per ogni
braccio ha un
prolungamento; uno dei
bracci è dominante sugli altri e quindi organizza tutto il corpo della stella. Se questa dovesse
perdere il braccio dominante, uno degli altri vicaria il dominante. Questo fa capire come le
possibilità di recupero dell’organismo siano proprie anche delle altre specie.

- Vermi: platelminti e nematodi (anellidi?)


Il sistema nervoso di questi animali è simile; entrambi hanno il polo cefalico. Se il lombrico viene
tagliato a metà la parte con il polo cefalico fa ricrescere la coda, mentre la parte senza polo
cefalico fa crescere lo stesso; sono sistemi gangliari.
I platelminti hanno invece dei “nervi” disposti trasversalmente che ricordano la catena gangliare
paravertebrale dell’uomo. Questo sistema gangliare invece non ha la possibilità di rigenerarsi se
tagliato a metà

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- Calamaro gigante: studiato a lungo per i meccanismi della memoria, comodo perché ha
grosse cellule nervose. Ha nervi scheletrici, gangli, polo cefalico detto cervello, un ganglio
otico: organismo molto evoluto e studiato.

2.1 Ontogenesi del cervello


Ci sono diversi tipo di SNC; si osservano le diverse dimensioni della parte olfattoria (involuta dal
pesce al mammifero) a confronto con l’evoluzione del cervelletto, ed ancor più del telencefalo.
Dal confronto tra l’encefalo umano e quello di altri animali
emerge che anche noi abbiamo una parte gangliare,
costituita dai nuclei di sostanza grigia. Poi una corteccia
profonda (archipallium, da “pallium” = mantello) e più
esternamente il neopallium (= corteccia), in cui c’è
l’elaborazione delle funzioni corticali superiori, ossia
cognitive, attentive…
- Corteccia limbica, che fa parte della corteccia
profonda sistema emozionale; questa sta
gerarchicamente ed anatomicamente sotto alla
corteccia.
- Tronco encefalico, condiviso con i rettili; guida nel
sistema attacco-fuga, sistema di orientamento, fame
e sete… tutte sensazioni che non necessitano di
essere integrate a livello cognitivo.

Abbiamo dunque una sorta di somma dei cervelli visti nelle altre specie: c’è
- una parte reticolata da cui partono simpatico e parasimpatico;
- una parte gangliare con simpatico e parasimpatico;
- nervi con altrettanti reticoli;
- neuroni.

In questa slide vengono messi a confronto


i differenti telencefali; si nota come la
dimensione aumenti progressivamente e
proporzionalmente all’evoluzione fino ad
arrivare all’uomo, che oltre ad avere una
massa maggiore presenta anche le
circonvoluzioni, caratteristica degli
organismi più evoluti. Questa si è
sviluppata per aumentare la superficie
cerebrale, con maggior presenza di
sostanza grigia.

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2.2 Brain gym
Nella slide di fianco è schematizazta
l’ipotesi proposta da Paul MacLean
dagli anni 80 del ‘900 sul coesistere
del cervello rettiliano, mesencefalo e
neopallio (poi screditata). In questa
ipotesi vengono associate alle varie
parti del cervello delle funzioni; ad
esempio, dal cervello rettiliano
vengono messi in atto
comportamenti di predazione,
esplorazione, la territorialità, la
sessualità e le pratiche ripetitive che
corrispondono alle abitudini,
cerimonie…
Nel cervello emotivo, secondo
MacLean, troviamo le relazioni di
accudimento, attaccamento, la sfera
sessuale, l’agonismo e la
cooperazione.
Da questa teoria prese origine la “brain gym”, un’attività motoria inventata nel ‘900 da una
fisioterapista svedese ed un ortopedico; consiglia tutta una serie di esercizi per la lateralità, il sopra,
il sotto… gli esercizi non fanno male, ma la base su cui si fondano è falsa.

3. Evoluzione dell’organismo umano a partire dalla scimmia


Gli antenati di H. sapiens avevano una struttura scheletrica come quella delle scimmie e si
muovevano per brachiazione in quanto prede che sfuggivano ai predatori, generalmente terrestri,
arrampicandosi sugli alberi.
In seguito, siamo passati al bipedismo, con una grossa differenza nella struttura del bacino, della
sua ampiezza. Anche gli arti hanno modificato le loro dimensioni e proporzioni, con i rispettivi cingoli;
il rachide ha subito dei cambiamenti. Infatti, la cervicalgia che insorge nelle persone anziane è
verosimilmente dovuta al fatto che il cranio deve essere supportato dal rachide cervicale senza più
l’ausilio degli arti superiori.
La liberazione delle mani dal loro ruolo nella deambulazione ha avuto importanti conseguenze: è
servita ad afferrare oggetti ma soprattutto ci ha permesso:
- Di fabbricare oggetti
- Il movimento balistico (il lancio, che ad esempio il bambino piccolo non è in grado di
compiere; crescendo impara)
- Il linguaggio gestuale, che implica interazione sociale
- Lo sviluppo della corteccia premotoria frontale (che sembra poter fare la differenza tra
l’intelletto umano e gli altri), in seguito all’apprendimento di nuovi movimenti.

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Tutto ciò ha portato alla crescita del cervello,
portando all’acquisizione di nuove funzioni,
passando dall’evoluzione biologica all’evoluzione
culturale. Questa è andata molto più rapida di
quella biologica portandoci in poche centinaia di
anni ad essere quello che siamo: una popolazione
sedentaria.5
Sono cambiati anche i palmi delle mani, fino ad arrivare
al pollice opponente.
Quindi, il bipedismo libera le mani, garantisce un
diverso controllo motorio ed un adattamento del
cervello.

3.1 Dieta
La dieta dei nostri antenati fu alla base di un’altra importante spinta evolutiva: da erbivori passarono
ad una dieta proteica, data dall’aver imparato a cacciare, uccidere e cuocere la carne. Questa dieta
con qualità proteica più alta e portò alla riduzione anatomica di stomaco ed annessi, all’incremento
dello spazio dedicato al cervello e alla possibilità di comportamenti più complessi, come il movimento
balistico, che altre specie non posseggono.
Di conseguenza diminuirono il volume di addome e
cassa toracica: un erbivoro deve mangiare molta erba
per avere le stesse calorie che hanno altri alimenti. In
questo stomaco e fegato erano molto sviluppati, il
cervello meno, rene e cuore similmente: la diminuzione
del volume occupato dall’apparato digerente è andato
a favore di un maggiore sviluppo del cervello,
contenuto nella scatola cranica.

5nella preistoria H.sapiens uomo percorreva circa 20 km/die, mentre le donne erano più “sedentarie”(10km) perché
accudivano la prole e raccoglievano; ciò oggi non accade più, con delle ripercussioni sulla salute

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3.2 Ontogenesi dei neuroni
A partire dall’iniziale mitosi i neuroni migrano,
non si sa come, nel momento giusto e nel posto
giusto; si differenziano poi nei vari tipi
specializzati; dopo di che inizia la sinaptogenesi.
Alla nascita i neuroni smettono di riprodursi e
quelli non utilizzati cominciano a morire
(apoptosi programmata), ma si moltiplicano le
sinapsi, contatti fra le varie cellule; questo ha
l’obiettivo di dare più spazio alle cellule per
specializzarsi, in modo diverso a seconda
dell’utilizzo che ne fa l’organismo.

3.3 Sviluppo fetale


• In seguito alla fecondazione inizia la divisione cellulare fino a che non finisce il nutrimento
nella cellula uovo, allo stadio di gastrula; dopo di che si impianta nell’endometrio (intorno al
decimo giorno); a quel punto arriva il flusso di sangue attraverso la placenta dal circolo
materno (0,1-0,2 mm).
• 13 gg: si forma il sistema cardiocircolatorio; con cuore e placca neurale, inizialmente con un
aspetto a fessura, che al sedicesimo giorno diventa una doccia neurale. Il primo organo che
si sviluppa è il cuore, poi il sistema nervoso
• 21 gg: la doccia si sta chiudendo cranialmente e caudalmente, fino a dare il tubo neurale; in
mezzo si vedono i somiti, protuberanze che saranno poi gli arti del feto (dimensioni: 1,5-2,5
mm)
• 4 settimane: il feto è grosso 5-7 mm. Tra i due arti inferiori c’è ancora un residuo di coda, che
si accorcerà ed andrà a costituire la cauda equina.
• 7 settimane: si vedono gli abbozzi degli arti superiori, si nota lo sviluppo delle dita della mano
(13-18 cm)
• 8 settimane: compaiono i movimenti spontanei; le mani e i piedi sono quasi completi, così
come la forma del cranio si va a normalizzare, con occhio e orecchio. Nonostante questo,
nell’utero i colori e le luci passano attraverso i tessuti (cute, placenta e sacco amniotico) e
stimolano la retina dell’embrione, che così sviluppa le sue caratteristiche.

I movimenti in cui il feto si pone a testa in giù, con la testa contro il canale da parto, sono una forma
di collaborazione al parto: in questo consiste
l’importanza del movimento prenatale. Premendo sul
canale del parto viene liberata ossitocina in circolo.
Nella slide di fianco si vedono midollo, polo cefalico e
le due cavità ventricolari pari e simmetriche vicino al
rachide e al cranio: il SNC alla nascita è pronto, con
le circonvoluzioni. In un nato pretermine (esempio 26
settimane) le circonvoluzioni non sono ancora
presenti e formate.
Ricordiamo che la durata della gravidanza in
H.Sapiens è di 40 settimane (circa corrispondenti ai 9
mesi di cui comunemente si parla).

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Alla nascita il cervello maschile è più pesante rispetto a quello femminile, ma il peso non correla con
le capacità cognitive.

3.4 Cellule staminali


Dalle cellule staminali embrionali (totipotenti e delle quali non è permesso l’utilizzo con finalità
terapeutica in Italia) si possono sviluppare anche i neuroni. Dalle staminali coltivate invece non è
attualmente possibile; magari con il progresso dell’epigenetica si riuscirà a risolvere il problema
tecnico, ma si sa già che la genetica non è la soluzione. Sono in studio tecniche che permettano di
stimolare la produzione di staminali nell’organismo stesso.

3.4.1 Origine e spiegazione delle cellule staminali totipotenti


Dall’oocita origina la morula, cellule
totipotenti, che poi vanno incontro ad una
progressiva differenziazione fino a
diventare cellule staminali embrionali in un
primo momento, ed in seguito altre cellule
staminali che però non sono totipotenti.
Spesso capita che la morula non si impianti;
inoltre, frequentemente non ci si accorge
nemmeno che la morula si distacca.
Queste cellule staminali possono essere
d’aiuto per fare una terapia, ad esempio nel
caso del sistema nervoso e del cuore; qui il
problema diviene etico ed è ancora in
discussione. Ogni stato legifera al riguardo
in maniera autonoma.

3.4.2 Neurogenesi
Nell’immagine di fianco si può osservare lo sviluppo del cervello a
partire dalle prime settimane di gestazione fino alla nascita. Si
osserva che all’inizio prevalgono strutture come tronco e bulbo; alla
fine prende il sopravvento lo sviluppo della corteccia (telencefalo).
Le persone in coma vegetativo conservano le funzioni appunto
vegetative se mantengono la funzione delle strutture
embriologicamente più arcaiche; la corteccia non da segni di attività,
ma più in basso il SN resta attivo per dare respiro e battito cardiaco
autonomo.

16
Il neurone è una cellula molto dinamica, in
grado di modificare la sua forma, la sua
arborizzazione dendritica, il suo assone e le
sue sinapsi anche in tempi relativamente brevi
con collegamenti con la cellula adiacente che
possono aumentare o diminuire: questo implica
che il cervello sia un sistema in continua
modificazione, estremamente dinamico.
Infatti, andando ad osservare il cervello in età
differenti, con il passare degli anni le
connessioni aumentano enormemente, a
scapito anche del numero di neuroni.
NB: dopo nascita l’unica struttura che conserva la possibilità di duplicare le cellule in età adulta è
l’ippocampo. Questo è stato studiato in persone malate di Alzheimer, nelle quali l’ippocampo non
produce più cellule; non significa che la patogenesi dell’Alzheimer sia legata a questa mancata
produzione. Per ora, comunque, non ci sono risvolti terapeutici, in quanto non sembra che
l’ippocampo possa riuscire a sopperire alla morte neuronale che si verifica in questa malattia
neurodegenerativa.
Nello sviluppo del cervello, quindi, sembra avere un ruolo maggiore l’epigenetica della genetica. Non
solo: anche nell’obesità infantile, in alcune neoplasie ed in patologie che chiamiamo “idiopatiche”
sembra esserci un ruolo dell’epigenetica, trasmissibile anche agli eredi.
In particolare, l’obesità non è legata solamente all’alimentazione e la distribuzione del grasso nei
bambini obesi è diversa da quella che, invece, caratterizza i bambini che sono semplicemente soliti
mangiare in eccesso. Differenze, quindi, si individuano anche a livello della genesi oltre che a livello
del metabolismo.
Ricordiamo che un fattore di protezione è rappresentato dal latte materno: sono stati studiati
contenuto e proprietà del latte materno e si è visto che tutte le popolazioni di cellule che compongono
la materia cerebrale traggono maggior beneficio dal latte materno rispetto al latte artificiale.

La professoressa auspica che queste conoscenze possano da noi essere applicate in campo
preventivo; in tal modo i bambini diverranno adulti in salute.

METODI E TECNICHE IN RIABILITAZIONE


La prof consiglia di visualizzare le slides, che hanno testo. Il testo della maggior parte delle slides è
comunque stato trascritto nella sbobina.

1. Excursus storico
Storicamente l’impiego dei mezzi fisici in terapia (termalismo, salassoterapia, elettricità) risale agli
antichi greci e romani: ad esempio nell’antica Grecia venivano utilizzati alcuni pesci elettrici, come
ad esempio la Torpedo mamarata, per la cura della cefalea.

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Tuttora vengono utilizzati massaggi, mobilizzazione del corpo, che riescono a portare beneficio agli
ammalati.
Tra i primi studiosi che hanno studiato altre forme di energia presenti in natura ci fu Alfonso Borelli
(‘600). Egli scrisse un libro che venne pubblicato postumo, “De moto animalium”, in cui studia il
movimento degli animali ed applica le leggi della meccanica alla funzione dell’organismo vivente.
Nel ‘700 von Haller va a studiare l’utilizzo di stimolazioni meccaniche e chimiche sui muscoli
scheletrici nel suo libro “Elementa Physiologiae”.
Ci fu poi la diatriba tra Luigi Galvani e Alessandro Volta, in cui si scontravano l’elettricità prodotta
chimicamente con quella animale. Alla fine, vinse Volta con l’elettricità prodotta chimicamente, in
quanto si ebbe la dimostrazione che la corrente che muoveva le zampe del preparato di Galvani
derivava comunque da quella “chimica”.
Altre forme di elettricità sono i raggi X, scoperti da Conrad Roentgen in maniera accidentale: fece
“per sbaglio” una radiografia alla mano della moglie dopo essersi dimenticato acceso un apparecchio
che emetteva i raggi che stava studiando, che denominò raggi X.
Questi vennero poi impiegati da Marie Curie; oltre aver scoperto polonio e radio, attrezzò un furgone
da campo con un apparecchio simile a quello di Roentgen che venne impiegato in guerra per poter
prestare soccorso ai feriti; usò questi raggi per la diagnosi delle patologie ossee. Questi oggi non
sono più usatissimi, sostituiti da più moderne TC, che comunque funziona a raggi X, ed altre
sostanze, come l’emissione di positroni, la RM e via dicendo.
Alcune di queste forme di energia possono essere utilizzate in riabilitazione (slide 6), come ad
esempio la magnetoterapia, che consolida più velocemente la calcificazione delle fratture; altre
forme meccaniche sono gli ultrasuoni o le onde d’urto, che servono ad esempio nel litotritore per
frammentare calcoli renali o per trattare patologie ossee, come nella calcificazione di spalla,
migliorando il dolore da periartrite.
Ci sono poi terapie con corrente elettrica, con freddo e caldo.

2. Tecniche di riabilitazione
2.1 Radarterapia
Utilizza le onde elettromagnetiche della banda di frequenza delle microonde per ottenere un effetto
antidolorifico. Tali onde sviluppano nei tessuti trattati un calore che si trasmette in profondità.
Controindicate in portatori di pacemaker, perché le microonde scaricano la pila.

2.2 Marconiterapia
È una varietà di elettroterapia con correnti ad alta frequenza, detta anche terapia con onde corte.

2.3 Laserterapia
(LASER = Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation); ce ne sono di vario tipo:
dall’infrarosso, che semplicemente riscalda la superficie della cute e pochi mm sotto, ad altri con

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una portata maggiore, che a contatto con la retina possono dare origine a una degenerazione
retinica e possono essere utilizzati solo da mano medica.

2.4 Tecarterapia
Utilizza la diatermia da contatto; (TECAR = Trasferimento Energetico Capacitivo Resistivo) utilizza
correnti elettriche alternate ad alta frequenza per mezzo di una coppia di elettrodi d’acciaio che,
applicati in modo non invasivo ad un segmento corporeo del paziente, consentono l’applicazione
dell’energia generata dal dispositivo in modo selettivo e profondo. Può giovare a una serie di
patologie che colpiscono i segmenti dell’apparato locomotore di alcuni pazienti. Scopo antalgico e
trofico.

2.5 Fototerapia
- con infrarossi: si utilizza una lampada a irradiazione con un radiatore per il trattamento
mediante riscaldamento del tessuto cutaneo che utilizza il calore prodotto dalla luce della
lampada.
- con ultravioletti: la luce solare, con o senza l’ausilio di sostanza fotosensibilizzanti, è stata
impiegata fin dall’antichità per la cura di alcune malattie della pelle (ad esempio la psoriasi).
Tra i diversi tipi di radiazioni elettromagnetiche emesse dal sole i raggi UV, che non
penetrano più in profondità del derma, esercitano sulla pelle importanti azioni biologiche,
prime tra tutte quelle antiproliferativa ed immunomodulante.
Bisogna prestare attenzione agli occhi, vista l’esistenza di UVA e UVB.

2.6 Elettrostimolazione
È una terapia fisica che prevede l’uso di correnti eccito-motorie ad onda quadra bifasica, in grado di
produrre una contrazione muscolare. Queste sono veicolate tramite l’applicazione di elettrodi sulla
cute soprastante il muscolo e possono essere applicate a muscoli normoinnervati, parzialmente
innervati o denervati utilizzando programmi specifici. L’elettrostimolazione, attivando il muscolo
mediante la stimolazione delle placche neuromotorie, recupera in tempi rapidi il tono muscolare
consentendo un ritorno alle attività contro resistenza con le quali il muscolo può recuperare trofismo.
Viene molto usata negli sportivi che non si possono allenare perché hanno, ad esempio, problemi
articolari; in questo modo si mantiene un certo tono muscolare ed un certo trofismo, affinché possa
riprendere la kinesiterapia: dopo 15 giorni il trofismo muscolare di un atleta di alto livello decade.
Non hanno controindicazioni se non in presenza di neoplasie note e nelle cartilagini in accrescimento
(così come gli ultrasuoni).
Possono essere usate anche nei centri estetici con apparecchiature che raggiungono intensità
inferiori a quelle usate in terapia.

2.7 Tens terapia


TENS è un acronimo di Transcutaneous Electrical Nerve Stimulation; è una terapia con finalità
antalgiche ad insorgenza rapida che eroga sulla cute, per mezzo di placche elettroconduttive
applicate secondo schemi precisi, impulsi rettangolari di breve durata seguiti da una piccola onda

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negativa che impedisce l’accomodazione delle fibre nervose e non produce danni alle membrane.
Viene eseguita dai fisioterapisti e funziona abbastanza.
La professoressa consiglia di focalizzare l’attenzione su tens terapia ed onde d’urto, in particolare
sul tipo di onda che viene utilizzata dall’apparecchiatura.

2.8 Ionoforesi
Non si utilizza più. Detta anche elettrolisi medicamentosa, è una tecnica terapeutica antalgica che
utilizza corrente continua unidirezionale per trasportare i farmaci allo stato ionico attraverso la cute.
Non funziona.

2.9 Magnetoterapia
Utilizza impulsi elettromagnetici statici o tempo variabili a bassa frequenza ed alta intensità, stimola
la rigenerazione dei tessuti ossei e cutanei, migliora la circolazione sanguigna e stimola al
produzione di endorfine da parte del sistema neurovegetativo. Questa va applicata per tempi lunghi
ed è efficace se utilizzata per molte ore; spesso se usata per la mezz’ora di terapia il consolidamento
dell’osso non si ha. Oggi ci sono anche apparecchi che danno intensità maggiori ma con rischi
maggiori.

2.10 Ultrasuonoterapia
Fa uso di vibrazioni meccaniche ottenute in modo artificiale, sfruttando la proprietà di alcuni cristalli
minerali sottoposti all’azione di un campo elettrico di corrente alternata. Per il dolore cervicale non
si fa più perché la glottide non è molto lontana (?). sono utili, fatte in acqua, per il dolore al gomito,
per il quale non funziona nient’altro. Non vanno fatte assolutamente nei bambini (blocca
l’accrescimento delle cartilagini) e quando c’è in atto una neoplasia (ne stimola la proliferazione).

2.11 Onde d’urto


Quelle utilizzate in terapia sono delle particolari onde acustiche definite come onde acustiche ad
alta energia. Sono impulsi che generano una forza meccanica diretta che può essere indirizzata
sulle parti del corpo da trattare. Il meccanismo d’azione è molto complesso e ancora in fase di studio
approfondito. Le onde d’urto agiscono in modo diverso a seconda del tessuto patologico che vanno
a trattare. In generale stimolano l’attivazione dei naturali processi di riparazione. Non applico l’onda
direttamente sulla parte da trattare, ma lo faccio a distanza, altrimenti la frammenterei. Ha una
funzione di stimolazione delle parti molli; ad esempio, il tendine di Achille guadagna in elasticità; se
ci sono calcificazioni si frammentano, se è irrigidito invece lo rende più elastico. Utilizzato ad
esempio nella calcificazione della spalla, è un processo doloroso che porta alla distruzione della
calcificazione, per cui in seguito occorrerà prendere l’antidolorifico. Si fanno nell’arco di una o due
settimane tre frammentazioni. Se il dolore non sparisce bisogna attendere qualche mese per ripetere
un secondo ciclo.
La stessa cosa avviene per i calcoli renali. Il dolore è causato dall’infiammazione generata dalla
terapia. Ovviamente le calcificazioni devono avere dimensioni limitate.

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2.12 Kinesiterapia
Si svolge in palestre con vari strumenti ed attrezzi, anche messi in acqua per lavorare con forza di
gravità ridotta (questo per la sclerosi multipla nella fase a poussé).
La riabilitazione in acqua ne sfrutta i vantaggi fisici:
- la spinta di Archimede si oppone alla forza peso alleggerendo il paziente.
- è viscosa, opponendosi al movimento maggiormente. Questo porta a rinforzare la
muscolatura senza adoperare sovraccarichi e pesi aggiuntivi.
- Pressione idrostatica: viene esercitata perpendicolarmente in ogni punto della superficie
corporea migliorando l’equilibrio e la propriocezione; questo porta ad un miglioramento della
postura, della coordinazione e dell’equilibrio
- Temperatura: posso usare acqua calda se voglio indurre rilassamento o alternare acqua
calda e fredda per migliorare il circolo.
- La propriocettività: altro effetto dato dall’acqua è il manifestarsi di fenomeni sensoriali quali
un miglior apprezzamento della posizione del corpo e del senso di movimento dovuti alla
percezione della pressione esercitata dall’acqua su tutto il corpo che si traduce in una
sensazione di maggior sicurezza nell’esecuzione dei movimenti.
In acqua si possono mettere anche strumenti come pedane, cyclette, pesi… tutti esercizi che si
possono anche fare fuori dall’acqua. Sono tipicamente utilizzate per lo più per infortuni in persone
sportive.
L’idrochinesi terapia rappresenta la metodica massima e migliore integrazione tra le proprietà
fisiche dell’acqua e terapeutiche del movimento.

2.13 Kinesio taping


Metodica basata sull’applicazione di cerotti adesivi elastici in cotone appositamente brevettati, messi
con l’intento di mettere a riposo l’articolazione dolente. Se messo correttamente può potenziare gli
effetti del trattamento riabilitativo. Viene impiegato per il trattamento di piccole lesioni di natura
neurologica e ortopedica. Funzionavano molto sugli sportivi e nei bambini. Non hanno
controindicazioni ma, vista l’attuale diminuzione nel loro utilizzo, probabilmente non sono mezzi così
validi.

3. Metodi di riabilitazione
La Kabat metodica di riabilitazione sia per adulti che per bambini, a differenza della Bobath e della
Vojta (basata sulla stimolazione di punti trigger), che è esclusivamente pediatrica.
Doman fu il primo sviluppatore di una metodologia per i bambini Down e prevede che il bambino
ripercorra le tappe di sviluppo che aveva saltato. Può essere efficace, ma socialmente e
mentalmente può non giovare, in quanto invece che giocare il bambino fa le sue ore di “gattonaggio”
e di striscio con gli operatori addetti; i bambini Down, infatti, necessitano di poca fisioterapia per il
movimento.
Carlo Perfetti sfruttava la tecnica della propriocezione, in particolare per la mano ed il piede. Faceva
riconoscere oggetti (forma, tipo di oggetto) con mano e piede, ma con tempi di riabilitazione
abbastanza lunghi (1 anno). L’idea era di non rimettere il paziente in carico fin quando non avesse
sviluppato la propriocezione. Anche questa venne abbandonata perché troppo laboriosa.

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Ginnastica posturale Meziers: inventata da una signora che a 98 anni arrivò ad avere una
flessibilità notevole; tuttavia, per avere quella flessibilità occorre praticare la ginnastica
costantemente ad un buon livello, solo così si arriva a quell’età in quella forma.
McKenzie brevettò un’altra ginnastica posturale, che allunga molto il rachide. Sta al fisiatra e al
reumatologo indicarla in terapia e darle una graduazione d’intensità, in quanto può non esser sempre
indicata.

3.1 Pilates
Inventato dal Joseph Hubert Pilates. Ci sono forme di pilates acrobatico, ma anche forme fattibili per
anziani con buona mobilità, giovani adulti…
Nel caso di grosse platee spesso si tratta di esercizi a bassa intensità di carattere ludico, che non
sono esattamente terapeutici.

3.2 Metodo di Feldenkrais


Egli fu un fisico diventato ingegnere che lavorava nel laboratorio della figlia di Marie Curie
Fu vittima egli stesso di un grave incidente al ginocchio, giocando a calcio, dal quale gli avevano
detto non avrebbe più recuperato articolarità. Così studiò i movimenti, i limiti delle nostre ossa e i
limiti dovuti alle articolazioni. Brevettò questo metodo non perché fosse una terapia, bensì perché
fosse un insegnamento a muoversi in modo ergonomico.
Ci sono insegnanti Feldenkrais che seguono una formazione di 4 anni, molto intensa e costosa, che
dà la possibilità di insegnare e praticare terapie individuali e di integrazione funzionale secondo
questo metodo; viene insegnata anche consapevolezza attraverso il movimento: sul comando
dell’insegnante ognuno si posiziona un po’ come vuole, essendo fatto a modo proprio. Non ha
controindicazioni.

3.3 Constraint induced movement therapy


Si fa negli emiplegici: blocchiamo l’arto sano per far utilizzare l’arto plegico. È un metodo
vecchissimo, che fu abbandonato e solo recentemente ripreso da alcuni anche illustri fisiatri, che
soprattutto per i bambini sostengono un beneficio per questo tipo di trattamento: bloccare ogni giorno
per un certo numero di ore l’arto sano per costringere il paziente ad utilizzare l’arto plegico.
Ci sono risultati discordanti, ed ancora adesso ci sono fisiatri pro e contro; in sostanza bisogna
valutare in base all’età e al tipo di paziente. Se è una sofferenza non va bene per nessuno.

3.4 Body weight supported treadmill training


Si tratta di un sistema per educare al cammino il paraplegico, molto moderno, che offre uno scarico
di peso attraverso un’imbracatura ed un tapis roulant sul quale il paziente deve sforzarsi di
camminare. Purtroppo, sono apparecchiature moderne e costose, di cui dispongono pochi ospedali
(in Italia il Niguarda di Milano).

22
3.5 Realtà virtuale
I costi di queste terapie divengono abbastanza proibitivi, così come la realtà virtuale.
Ci sono delle esperienze immersive nei mondi virtuali e nei mondi specchio (si utilizza uno specchio
per muovere l’arto plegico, invertendo i lati), così come c’è la realtà aumentata, che è una realtà non
immersiva che si fa ad esempio utilizzando uno specchio e che viene vissuta nel mondo reale, non
nel virtuale.
Quindi bisogna avere a disposizione dei computer e strumenti di realtà virtuale; funziona. In forma
di gioco può essere utilizzata in molti utenti che hanno una playstation, ma se non è indicata i costi
di questo tipo di trattamento sono ancora troppo alti: occorre indossare una tutina con elettrodi che
vadano ad attivare gli elettrodi attraverso tutto un complesso tipo di trasmissione; questi ultimi
mandano una stimolazione al muscolo.

3.6 Robotica
Nell’immagine di fianco è raffigurato un esoscheletro con
elettrodi; il paziente pensando di estendere la gamba,
attraverso la trasmissione con o senza fili, riesce a compiere
il movimento.
Il rapporto costi-benefici in confronto alle parallele è ancora
favorevole alle parallele. Certo è che in persone di certe età,
magari giovani con traumi spinali, può valer la pena fare
delle sperimentazioni con queste terapie, che possono
anche servire.
Resta valida questa affermazione di Mochet Feldenkreis
“when you know what you are doing, then you can do what
you want”: quando io so cosa sto accadendo so cosa fare,
non devo subire passivamente questi avvenimenti.

4. Conclusioni
La professoressa conclude la lezione accenando ad alcune possibili domande che potrebbero
capitarci in sede d’esame:
- Come può essere definita la riabilitazione?
- Quali sono le componenti della riabilitazione?
- Come stabilire indicazioni e controindicazioni della riabilitazione?
- Chi si occupa del progetto e del programma riabilitativo? (in questo caso dovremmo
distinguire il progetto di terapia da quello di educazione: nel primo intervengono professionisti
sanitari, nel secondo troviamo, nelle scuole, educatori professionali e insegnanti)

23
Sbobinatore: M.R.
Revisore: M.B.
Materia: Medicina fisica e riabilitazione
Docente: Maria Vittoria Meraviglia
Data: 07/06/2021
Lezione n°: 3
Argomenti: Le basi neurobiologiche della
riabilitazione

Comunicazioni: Per quanto riguarda l’esame le date della sessione estiva le date (21/06, 05/07,
19/07) sono le stesse per tutti i moduli, ci sarà una domanda aperta per ogni modulo. Per
ciascuna domanda la professoressa suppone una risposta di 10-20 righe perché poi il sistema
manda avanti a quella successiva. Il pull di domande da lei scelte sono molto generiche, una
buona metà sono tratte dalle slide sulla prima lezione sul concetto di riabilitazione. La Prof
suggerisce che potremmo parlare di tutto: definizione di riabilitazione, le tre “branche” della
riabilitazione, la storia. Per esempio potrebbe essere utile riportare nella risposta il concetto per
cui la riabilitazione terapeutica viene effettuata in un gruppo di lavoro e ognuno degli afferenti a
questo gruppo ha le sue caratteristiche (fisioterapista, logopedista, fisiatra, altri specialisti) e
partecipa alla stesura del programma riabilitativo terapeutico. Il programma terapeutico ha un
inizio e una fine. Infatti, mentre l’assistenza e l’educazione possono avere un inizio e una fine
molto allargati, ovvero noi possiamo continuare ad apprendere e ricevere assistenza per tutta la
vita, per la terapia è importante stabilire degli obiettivi che siano raggiungibili e condivisi (ad
esempio nel bambino condivisi con la famiglia e la scuola, nell’adulto con l’ambiente di lavoro).
In tutto questo è sempre importante che noi ci occupiamo della persona e non della terapia, il
nostro obiettivo è che la persona che compie il percorso riabilitativo acquisisca maggiore
benessere. Se vogliamo possiamo anche parlare del concetto di salute e di come è cambiato
nel tempo dalla prima conferenza dell’OMS nel 1948 fino ai nostri giorni. Possiamo anche fare
riferimento al fatto che la pandemia ci ha riportato un po’ a ripensare alle malattie infettive
diffusive e quindi alle malattie acute, mentre ancora oggi l’ultimo piano regionale era incentrato
sulle malattie croniche degenerative. L’aspetto della malattia acuta pertanto non deve essere
tralasciato, ci potrebbe cogliere di nuovo impreparati ed è importante che la riabilitazione si
allarghi anche su questi argomenti. Invita a ricordarci dei trattamenti, sempre però mettendo in
primo piano la persona. Quello che a noi importa è la persona con il suo ambiente e non tanto
le tecniche della riabilitazione. Per concludere è importante focalizzarsi sui principi generali
della riabilitazione (“termine ombrello”) e poi possiamo portare il discorso dove preferiamo,
magari dicendo qualcosa in dettaglio di quello a cui siamo più interessati.

LE BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA RIABILITAZIONE

1.1 Introduzione
Camillo Golgi nel XIV secolo inventò la
tecnica dell’impregnazione argentica per
colorare i neuroni. Egli considerò i
neuroni come una rete di cellule
continue, senza una netta separazione
tra l’una e l’altra. Nello stesso periodo in
Spagna Ramòn y Cajal, invece,
conducendo studi simili giunse alla
conclusione che esistesse uno spazio di
separazione tra una cellula e l’altra.
Questa diatriba continuò a lungo, fino a
quando con la scoperta del microscopio
elettronico non vi furono più dubbi
sull’esistenza dello spazio sinaptico.
Nell’immagine si possono vedere i
neuroni con i loro corpi cellulari, i
dendriti (ramificazioni ad albero dei
1
neuroni) e gli assoni (ramificazione in genere singola del neurone che costituisce la via
d’uscita). La sinapsi più classica, nell’immagine a sinistra, è la asso-dendritica in cui l’assone di
un neurone termina sui dendriti di un altro neurone. Si nota come alcuni assoni siano avvolti da
un manicotto di sostanza bianca che chiamiamo mielina. La mielina, ad esempio, avvolge gli
assoni delle cellule neuromotrici più veloci, perché gli assoni non mielinizzati hanno una
trasmissione del segnale nervoso punto a punto mentre la guaina di mielina consente una
conduzione saltatoria da un nodo all’altro e quindi più rapida.

Le connessioni neuronali all’interno del SN sono determinate dalle sinapsi. Queste possono
variare e spostarsi, innervando più dendriti, più assoni e più cellule, formando così una rete
neuronale. Un concetto moderno, ma ancora in fase di studio, è quello di “connettoma” che
pone l’accento sulle connessioni a cui queste sinapsi possono dare luogo nel nostro sistema
nervoso. È molto importante nella riabilitazione perché è alla base della plasticità neuronale e
delle modalità di recupero e guarigione rispetto ad un evento che ha causato un
malfunzionamento.

I neuroni originano da cellule staminali situate attorno ai ventricoli cerebrali. Finora si pensava
che i neuroni non venissero più prodotti dal momento dalla nascita, invece si è visto come
alcune strutture, tra cui l’Ippocampo e l’Amigdala, continuino a produrli anche in età adulta. È
stato osservato che i pazienti affetti da malattia di Alzheimer perdono questa capacità
dell’Ippocampo di generare nuovi neuroni. Questo non significa che l’Alzheimer sia dovuto
all’incapacità dell’Ippocampo di generare nuovi neuroni, infatti si stanno facendo degli studi per
capire se ciò abbia un ruolo nell’origine e nella progressione della malattia ma non ci sono
prove.

Per ciò che riguarda la patologia esiste una sorta di evoluzione, anche chiamata storia naturale
della malattia, che può essere modificata attraverso:
- Farmacoterapia
- Terapia con mezzi fisici
- Prevenzione (vaccinazione, modifica degli stili di vita)
- Epigenetica

1.2 Recupero
I fattori che condizionano il recupero riabilitativo sono:
- Tipo di danno (trauma, emorragia, ischemia)
- Estensione del danno
- Localizzazione del danno
- Plasticità neuronale
I frenologi ci hanno insegnato che ogni zona dell’encefalo ha le proprie prerogative, quindi in
base alla sede del danno avremo un determinato deficit, di cui il mio programma riabilitativo
deve tenere conto (contattando gli specialisti di quell’area). L’anamnesi risulta essere
fondamentale per ottenere un recupero importante.

1.3 Plasticità Neuronale


Le nostre connessioni dopo la nascita vengono indebolite e potenziate in base alle esperienze
che facciamo, in particolare:
- le connessioni si riducono a causa di deprivazione sensoriale, traumi o non uso;
- le connessioni aumentano per mezzo di apprendimento e esperienze, ambiente
arricchito e compensazione per danno cerebrale.
Una sostanziale riorganizzazione funzionale avviene anche in età adulta, nonostante l’assenza
di neurogenesi, grazie al cambiamento delle connessioni sinaptiche.

2
Il fenomeno di Sprouting è stato studiato da Rita Levi Montalcini e grazie a questo ha vinto il
Nobel. Nell’immagine a sinistra A si hanno due assoni di neuroni paralleli che vanno ad
innervare ciascuno un altro neurone. Nell’immagine B il secondo assone è leso e sarebbe
destinato ad atrofizzarsi. Quello che succede e che vediamo in C è che l’assone soprastante
emette un collaterale che va ad innervare la cellula lasciata orfana dall’assone sottostante e va
a vicariare l’innervazione. Nel frattempo l’assone del neurone sottostante può ricrescere.
Questo fenomeno è più tipico a livello del SN periferico.

Nell’immagine seguente si osserva l’encefalo di un furetto. In alto è presente il muso del furetto,
nell’immagine a sinistra sul retro prende contrasto la zona occipitale che è deputata alla visione.
Il furetto è un animale predatore e come tale è dotato di un’ottima vista. Durante lo svolgimento
di un esperimento i ricercatori sono andati a interrompere i nervi ottici in prossimità della
corteccia occipitale. Il furetto inizialmente ha perso la funzione visiva. Successivamente i nervi
ottici hanno mostrato un fenomeno parziale di ricrescita, ma non sono arrivati ad innervare la
corretta sede della lesione d’origine, rappresentata dalla regione occipitale; essi infatti si sono
diretti verso la zona temporale (immagine di destra). Di conseguenza questa non corretta
innervazione (per quanto riguarda la sede) ha avuto come conseguenza una diminuzione della
sua acuità visiva. Quindi, anche in vivo, questo fenomeno di ricrescita nervosa avviene.
Probabilmente se i ricercatori avessero indirizzato il nervo a crescere più a lungo si avrebbe
avuto anche un’innervazione più idonea. Un po’ di mancata funzione comunque residua sempre
e questo è uno dei limiti della riabilitazione. In ogni caso bisogna ricordare che nessuno torna
più quello che era prima di
un evento, anche solo per il
fatto che il trauma o la
malattia che abbiamo
attraversato ci hanno
cambiati e che comunque
passa del tempo. Noi
dobbiamo sempre
consderarci come un tutto
fatto di aspetti
neurobiologici ma anche
psicorelazionali.

3
Sotto viene rappresentata una sezione coronale dell’area sensitiva primaria di un emisfero che
si trova subito dietro la scissura di Rolando. È rappresentata la distribuzione della sensibilità a
livello della corteccia e si può osservare come ci siano zone del nostro corpo che risultano
maggiormente rappresentate. La mano, insieme al volto, risulta tra le zone maggiormente
sensibili. L’estensione della rappresentatività centrale è correlata con la raffinatezza della
percezione sensitiva.

Sono stati condotti esperimenti sulla plasticità


da parte di Ramachandran (un neuroscienziato
indiano che studiava la protesizzazione degli
arti).
Nell’immagine a fianco si vede a sinistra in rosa
una rappresentazione ritagliata della corteccia
sensitiva di una scimmia. La scissura di
Rolando è la linea nera anteriore. D1-D5 sono
la rappresentazione sensitiva corticale delle
cinque dita. Ramachandran ha cucito insieme il
terzo e quarto dito dell’animale, di
conseguenza nella mappa corticale che
rappresenta l’area sensitiva si ottiene una
sfumatura del confine tra D3 e D4,
delimitazione che in origine era invece ben
marcata. L’impedire alle due dita di muoversi
autonomamente seprate ha quindi creato una
modificazione dell’area centrale.

4
Nell’immagine in alto a sinistra è stato testato l’esperimento opposto attraverso la rimozione del
terzo dito. Di conseguenza nella rappresentazione della mappa corticale si osserva come l’area
D3 sparisca. Questo ci fa capire che la fake news riguardante il fatto che noi usiamo solo il 20%
del nostro cervello non è assolutamente dimostrata, difatti una zona che risulta inutile viene
subito occupata dalle zone limitrofe. Nulla nel nostro cervello rimane inattivo. Quindi nel caso in
cui un arto venga amputato, a livello centrale si osserva una riorganizzazione per quanto
riguarda la mappa corticale della sensibilità in cui l’arto non viene più rappresentato.
Al contrario se io vado a stimolare elettricamente la mano, come nell’immagine a destra, a
livello dell’encefalo otterrò un ingrandimento per quanto riguarda la rappresentazione
dell’innervazione.

In caso di amputazione di una mano la zona della


corteccia prima occupata dalla mano viene occupata
dalla zona che rappresenta la faccia e da quella che
rappresenta il tronco. La mano, invece, centralmente
non viene più rappresentata. Si capisce quindi come
sia importante andare a protesizzare velocemente la
zona corporea che viene persa a seguito di un
trauma o di un’amputazione volontaria: se io metto
subito una protesi fissa e poi una robotica a livello
centrale non subirò una riorganizzazione importante.
Bisogna intervenire prima che sparisca la
rappresentazione corticale della zona corporea
persa/lesionata o non si recupererà poi più appieno
la motricità della zona.

Sempre riprendendo la figura di Ramachandran, aveva approfondito il concetto di arto


fantasma: andando a sfiorare con un oggetto l’emivolto sinistro di una persona con
amputazione della mano omoloterale, il paziente raccontava di sentire toccare la mano. Questo
avviene perché a livello corticale sensitivo è sparita la rappresentazione della mano che è stata
invece occupata da quella del volto che si è espansa.
Prendendo quindi come esempio di studio un paziente con amputazione del braccio sx, si
osserva che la stimolazione dell’emivolto, omolaterale rispetto al braccio amputato, a livello
della branca trigeminale oftalmica produce sensazioni sul pollice, a livello della branca
mascellare si manifesta sull’indice, mentre a livello della branca mandibolare si riproduce a
livello del palmo.

5
1.4 Neuroriabilitazione Infantile

Alla nascita il cervello è già formato per ciò che riguarda la sostanza grigia, mentre per ciò che
riguarda la componente bianca abbiamo un ritardo in quanto le fibre non sono ancora
mielinizzate. Tra i quattro mesi e l’anno l’enecefalo aumenta di volume e le fibre si mielinizzano:
maturano prima quelle che sostengono il capo, poi il tronco, gli arti inferiori, la stazione eretta e
il cammino. Questa sequenza di mielinizzazione rende ragione del fatto che tra i quattro mesi e
l’anno è più facile raddrizzare il capo da proni rispetto che da supini. Tra i due e i cinque anni si
verifica, invece, la maturazione dei centri del linguaggio. Poi tra i cinque e sei anni il bambino è
in grado di imparare a leggere e scrivere perché abbiamo la coordinazione oculare, l’utilizzo
sincrono delle mani e altre cose possibili grazie alla maturazione della mielina. La maturazione
della mielina si viene a stabilizzare tra i quindici e i sedici anni, quando ormai è assai simile a
quella dell’adulto. Le cellule della sostanza grigia con le connessioni sinaptiche, invece,
continuano a maturare anche oltre i vent’anni e poi continuano per tutta la vita attraverso gli
apprendimenti.

6
La gravidanza si misura in settimane ed è esattamente di 40 settimane. Il controllo
neuromotorio inizia a ventotto/ventotto settimane e mezzo di gestazione. Il neuropsichiatra
infantile Adriano Milani Comparetti, attraverso una serie di ecografie in gravidanza, ha
dimostrato che il bambino già alla 32esima settimana ha un buon controllo neuromotorio e alla
40esima è in grado di assumere la posizione eretta, ma, prima di assumere la posizione eretta,
cammina sulle pareti uterine e si posiziona a testa in giù. Appoggiandosi con la testa
sull’imbocco del canale del parto manda in circolo l’ossitocina in maniera del tutto naturale.
Tutte queste operazioni motorie A. Milani Comparetti le ha chiamate “competenza a nascere”
perché il bambino aiuta la mamma a innescare e a procedere nel meccanismo del parto
(purchè sia arrivato a termine).
Il prematuro di 28 settimane non è in grado di collaborare, è necessario il taglio cesareo e dopo
ciò il bimbo va tenuto in culla termica fino alle 40esima settimana che è il momento in cui
comincia l’età neurologica 0. Quindi l’età cronologica 0 (settimane alla nascita) può essere
diversa dall’età neurologica 0 (che corrisponde alle 40 settimane). Nelle visite successive, più o
meno fino ad un anno di età, è importante conoscere le settimane alla nascita perché devo
calcolare questo divario. Quindi in un bimbo nato prematuro io non avrò a tot mesi tutte le
funzioni neuropsichiatriche (es: a due mesi seduto con appoggio, a sette mesi seduto senza
appoggio, a nove mesi stazione eretta, a tredici mesi cammino) che ho in un bimbo nato a 40
settimane in cui età cronologica ed età neurologica corrispondono, ma le avrò più tardi sulla
base del divario.

1.4.1 Funzioni programmate geneticamente


Le funzioni programmate geneticamente, studiate sempre dal Professor Adriano Milani
Comparetti, comprendono:
- Nuotare nell’acqua (il neonato rimane infatti 40 settimane prima della nascita in ambiente
acquatico, dove si muove benissimo)
- Suzione del seno (ci consente fin da subito di alimentarci senza che nessuno ce lo
debba insegnare. NB: c’è differenza tra la suzione dal seno e quella dal biberon per
quanto riguarda il convolgimento dei muscoli ed è questo il motivo per cui l’alimentazione
da biberon va invece insegnata)
- La paura del vuoto (la cosiddetta Horror Vacui): questa viene testata con il cosidetto
“Visual Cliff”: si mette un tavolo con sopra una tovaglia a quadretti che lo riveste fino al
limite e che si fa scendere fino al pavimento a cui viene fissata, la mamma si pone al
limite del tavolo e invita il bambino ad andare da lei, il bambino raggiunto il limite del
tavolo si ferma, osserva, ma non va oltre. La mamma sarebbe pronta a prenderlo, ma il
bimbo si ferma perché ha una sensazione di vuoto che gli consente la sopravvivenza.

Queste funzioni, quindi:


1) Rispondono alle esigenze della sopravvivenza
2) Non hanno bisogno di apprendimento
3) Sono precocemente evocabili
4) Sono immediatamente efficaci
5) Risultano scarsamente modificabili

1.4.2 Funzioni epigenetiche acquisite


Il concetto di epigentica esiste da tempo, ma ultimamente è sempre più importante.
Le funzioni epigenetiche sono caratterizzate da:
- Rispondono alle esigenze della vita di relazione
- Necessitano di motivazione personale
- Basate sulle capacità di apprendimento
- Richiedono l’esposizione a modelli da imitare
- Risentono delle condizioni dellambiente
- Sono influenzate da condotte educative e sociali e da modelli culturali, sono cioè
(ri)educabili
7
Che cos’è l’apprendimento?
Secondo il Professor Adriano Milani Comparetti l’apprendimento viene considerato come una
funzione geneticamente programmata per farci acquisire quanto generalmente non previsto,
basata sull’esposizione ad esperienze significative più o meno ripetute.

Gli automatismi del bambino si possono classificare tra primari e secondari.


Quelli primari si possono dividere tra: fetali, neonatali ed extrauterini.
Quelli secondari partono più o meno alla 30esima settimana, poco prima della nascita, sono
quelli che si possono andare a modificare durante un percorso riabilitativo, comprendono le
skills (competenze). Si vanno a stabilizzare con l’adolescenza.

Esiste infine un’architettura di una funzione, ad esempio quella che vogliamo riabilitare.
L’architettura della funzione prevede componenti:
- Top Down (dal centro alla periferia) - > considerate una volta quelle del SNC (oggi
sappiamo che non tutto il SNC funziona in questo senso)
- Bottom Up (dalla periferia al centro) -> l’apparato locomotore
- Coping Solutions - > strategie individuali
- Aspetti motori -> moduli, prassie (sono quelle che poi passano sotto i movimenti
automatici) e azioni (prassia con contenuto intenzionale)
- Aspetti percettivi -> sensazioni (grazie ai recettori), percezioni (quando integro tutte le
sensazioni a livello centrale) e rappresentazioni
- Aspetti intenzionali -> motivazione e autostima

Riguardo le capacità linguistiche, il


lattante poco prima di acquisire il
linguaggio compie dei movimenti con le
mani la cui struttura/architettura è simile
a quella del balbettio. Sono dei
movimenti ripetitivi e variabili, come può
essere il dito in flessione o estensione,
che fanno da preludio all’organizzazione
funzionale per emettere i suoni. Anche le
labbra fanno dei movimenti ripetuti con
una fonazione tipo “ba ba ba”
(lallazione).

8
La stessa cosa avviene anche nell’ascolto della musica. Le vie uditive, che si sviluppano tra i
due e i cinque anni, sono quelle che poi ci aiutano ad emettere anche la parola. Si è visto che
spesso pazienti con afasia nei quali prevale la difficoltà all’eloquio e che fanno fatica a ripetere
una sequenza di parole cantandole riescono a esprimersi. Quindi questi due centri del
linguaggio, uno in un emisfero e uno in un altro, sono in stretta correlazione tra loro.
Alla base dello sviluppo della comunicazione verbale sono necessarie 4 abilità tra cui:
- Comprensione del linguaggio altrui
- Esatta comprensione delle parole
- Costruzione del vocabolario
- Combinazione delle parole in frasi

Il lobo frontale non è appannaggio solo di Homo Sapiens, ma il nostro è particolarmente


sviluppato. È tra gli ultimi a svilupparsi e continua fino alla fine della nostra esistenza con
modificazioni di vario tipo a seconda dell’uso. Questa diapositiva di Alberto Oliveiro ci fa capire
perché quando noi diciamo ai bimbi di gestirsi le emozioni (es. non avere paura) essi fino ad
una certa età non sono in grado. Nelle immagini l’area in rosso rappresenta le fasi in crescita,
che si attivano, mentre l’area in viola le fasi in perdita, la cosiddetta “potatura”. Si vede dunque
che tra i 3 e i 6 anni è quasi tutta crescita della zona frontale, mentre tra i 7 e i 15 anni è tutta
crescita per lo più della zona temporo-parieto-occipitale. Quindi tra i 3 e 6 anni il bambino
sviluppa l’attenzione, la vigilanza, è molto motorio (perché le zone motorie sono nell’area
motoria primaria e secondaria nel lobo frontale). All’inizio, quindi, il bambino apprende
attraverso il movimento perché la sua struttura encefalica è predisposta ad apprendere
attraverso il movimento. Tra i 7 e i 15 anni, invece, è il periodo che Piaget aveva scelto per
scolarizzare il bambino, perché la scuola veicola apprendimenti di tipo nozionistico (es. fare i
compiti, leggere, scrivere, le tabelline). Infatti in questo range d’età all’inizio abbiamo una
proliferazione di sinapsi, poi si sfoltiscono le connessioni che non uso, poi si inseriscono alcune
forme di apprendimento come l’orientamento, leggere una mappa, scrivere, leggere,… Infine tra
i 16 e i 20 anni si ha una importante potatura a livello del lobo frontale che ci conferisce la
capacità di autocontrollo e di controllo delle emozioni. A questo punto è chiaro il perché se
diciamo ad un bambino o anche ad un giovane adolescente “non avere paura” non può non
avere paura, può essere accompagnato da un adulto attraverso il vissuto di questa sensazione
primaria che è la paura ma potrà coscientizzarla solo più avanti con l’età grazie alla potatura del
lobo frontale. La potatura si compie tra i 16 e i 20 anni, a volte anche tra i 20 e i 25 anni, altre
volte ancora non si completa e permangono nell’adulto delle paure o delle fobie.

9
Sbobinatore: SD
Revisore: PS
Materia: Medicina Fisica e Riabilitativa
Docente: Maria Vittoria Meraviglia
Data: 07/06/2021
Lezione n°: 4
Argomenti: i neuroni specchio

Comunicazioni: a causa di problemi iniziali di connessione, la lezione inizia con un po’ di ritardo. Di
conseguenza la professoressa spiega in modo approssimativo le prime slide. In corsivo vengono
riportate alcune digressioni e citazioni della docente.

I NEURONI SPECCHIO
1.1 Introduzione
Nella prima immagine si può osservare uno schema
riassuntivo del sistema nervoso centrale e periferico. Si
ricorda pertanto che il midollo spinale appartiene al SNC

L’immagine mostra la suddivisione dell’encefalo in lobi già


trattata nella lezione precedente anche per quanto riguarda la
localizzazione, non del tutto corretta ma utile ai fini didattici, di
determinate funzioni.

L’immagine a sinistra mostra in


trasparenza alcune delle strutture pari che
troviamo a livello diencefalico. Si possono
osservare i nuclei della base (Putamen,
Pallido, Caudato e Sostanza Nera1) che
circoscrivono un’altra importante struttura
che è il talamo. Il talamo riceve gran parte
della sensibilità periferica che integra per
mandarla successivamente alla corteccia.
Una lesione a livello talamico si manifesta
con la cosiddetta sindrome talamica
caratterizzata da dolore.

1
Il suo esaurimento porta alla malattia di Parkinson
I nuclei della base, al contrario, mandano delle efferenze a livello periferico. Per questo motivo, nel
momento in cui vi sono delle lesioni a livello di questi nuclei, si possono avere dei deficit
dell’esecuzione motoria.
A destra invece si può osservare il sistema limbico caratterizzato dal giro del cingolo (zona profonda
che si pensa possa essere implicata nella gestione delle emozioni), l’ippocampo2 (coinvolto
maggiormente nei sistemi di memoria) e l’amigdala (definita da LeDoux “il mozzo della ruota della
paura” in quanto è l’area che gestisce la sensazione primaria della paura). Oltre a questo, il sistema
limbico è fortemente interconnesso al sistema di ricezione degli odori (bulbo olfattivo) l’unico tra i 5
sensi che non manda delle efferenze a livello corticale.
L’immagine a lato è uno schema riassuntivo che
mostra le varie interconnessioni tra corteccia
primitiva e secondaria, cervelletto, tronco
encefalico e midollo (“l’unico esempio di computer
vivente che riesce a lavorare
contemporaneamente in serie e in parallelo senza
creare conflitti”)

La seguente immagine mostra le zone adibite alla


programmazione ed esecuzione del movimento.
Il movimento, prima di essere eseguito dall’area
4(rossa), deve essere immaginato e programmato
rispettivamente a livello dell’area prefrontale e dell’area
6 (blu).
Si pensa, nonostante non ci siano ancora evidenze
scientifiche a riguardo, che la capacità di programmare il
movimento sia una prerogativa esclusiva dell’homo
sapiens. In particolare, ulteriori teorie sostengono che il
planning del movimento si ritrovi a livello del piede della
terza circonvoluzione frontale, in corrispondenza
dell’area di Broca e del sistema dei neuroni specchio.

L’immagine a lato mostra l’homunculus motorio (nella


lezione precedente era stato spiegato quello sensitivo).
nonostante alcune piccole differenze, anche per
quanto riguarda la parte motoria, le zone
maggiormente rappresentate sono labbra, lingua, mani
(soprattutto primo e secondo dito) ovvero le zone
caratterizzate da una motricità più fine.

2
Ippocampo = cavalluccio marino. Suddetto nome venne dato dagli antichi anatomisti che riscontrarono una
somiglianza morfologica di questo nucleo con un cavalluccio marino.
L’immagine mostra nuovamente le zone adibite
all’esecuzione del movimento ma pone l’accento sulla
cosiddetta area motoria supplementare, nonché l’area che
presiede alla coordinazione simultanea bilaterale e fine
delle due mani.
La sezione mesiale mette in evidenza il fatto che la zona
primaria e l’area motoria supplementare si approfondano
nella zona profonda dell’encefalo.

Alexander Luria, fondatore della neuropsicologia, negli anni


’30, studiò la percentuale di area 4 e dell’area 6 sul totale della
regione precentrale. Egli dimostrò che nelle scimmie meno
evolute (Marmoset e Cercopiteco) l’area motoria prevale
nettamente sull’area premotoria, cosa che invece non si
osserva nell’uomo.
Questo a dimostrazione del fatto che nei primati, il movimento,
prima di essere eseguito, viene organizzato nell’area
premotoria. Questa particolarità fa si che i primati riescano a
programmare e seguire con il pensiero una sequenza motoria
e successivamnete eseguirla. Questo è molto importante se
si pensa ad alcuni sport quali ad esempio il salto in alto, in cui
l’atleta, prima di eseguire il movimento, lo scompone, lo pensa e lo visualizza in ogni sua minima
componente.

In questa immagine si può osservare, a livello del


piede della terza circonvoluzione frontale, l’area di
Broca dove Rizzolatti ha scoperto l’esistenza di un
pool di neuroni definito “Neuroni specchio/mirror” (la
scoperta dei neuroni a specchio viene trattata
successivamente)
L’area di Broca si scompone in due nuclei principali
ovvero quello adibito all’elaborazione semantica o del
significato della parola e quello adibito
all’elaborazione fonologica o del suono della parola.
Alexander Luria descrisse la parola come un’azione
motoria particolarmente raffinata. La parola non è
data esclusivamente dall’emissione del suono, ma,
anche in questo caso, è un’integrazione di più
informazioni provenienti dalla periferia e rielaobrati a livello centrale ad esempio nell’area di
Wernicke. Tale area prende il nome da Carl Wernicke, neurologo tedesco che studiò le afasie
sensoriali percettive.
L’immagine a lato mostra la
complessità che sta alla base della
pronuncia di una parola letta o
udita.
A destra: Dall’elaborazione della
parola udita (area Wernicke),
passando per un ponte di neuroni,
si arriva all’area di Broca che
manda le proprie efferenze all’area
motoria che sarà la responsabile della produzione sonora della parola.
A sinistra: la corteccia visiva manda delle efferenze a livello di un’area parietale (giro angolare) la
quale a sua volta anda delle afferenze all’area di Wernicke, del Broca e infine all’area motoria
primaria.
concludendo:

• le aree che si attivano in seguito alla


visione di un qualche cosa sono quelle
localizzate a livello occipitale
• le aree che si attivano in seguito
all’ascolto di un suono sono quelle a
livello temporale
• le aree che si attivano nel generare una
parola coinvolgono la maggiorparte
della corteccia
• le aree che si attivano quando invece
si parla in modo automatico, non
coinvolgendo le aree adibite alla
generazione di parole lette o udite,
coinvolgono l’area di Broca.

1.2 Neuroni specchio: funzioni


(All’esame ci saranno circa 4 domande che coinvolgono direttamente o indirettamente i neuroni
specchio. Le risposte che si possono dare, possono essere composte da una parte strutturale e
neurofisiologica per poi ampliarsi in argomenti quali il guadagno cognitivo dato dai neuroni specchio,
l’ereditarietà dei neuroni specchio possono, l’impatto dei neuroni specchio sulla comprensione)
Ramachanadran, definendo i neuroni specchio disse: “i neuroni specchio saranno per la psicologia
quello che il DNA3 è stato per la biologia”.

3
ad oggi il DNA ha subito un forte ridimensionamento in seguito all’introduzione dell’epigenetica. La percentuale di
DNA che codifica per proteine che vengono trasmesse geneticamente è rappresentata dal 2%. Il restante 98%, fino a
qualche tempo fa definito DNA spazzatura, non trasmette geneticamente ma dà informazioni di tipo epigenetico che si
integra a fattori bio-fisico-sociale. Questa parte di DNA sembra essere alla base di alcune patologie a trasmissione non
mendeliana quali ad esempio l’obesità. L’obesità infatti non viene trasmessa geneticamente ma si può osservare una
familiarità nei discendenti di soggetti obesi.
L’epigenetica, scienza di nuova scoperta, sta prendendo sempre più piede nello studio di alcune patologie biofisiche e
mentali come i disturbi dello spettro autistico.
I neuroni specchio sono un pool di neuroni scoperti dal neuroscienziato Rizzolati4 localizzati a livello
dell’area di Broca e del parietale che vanno ad influenzare gli aspetti sensitivi, motori e cognitivi
L’immagine a lato riassume a grandi linee il ruolo dei neuroni specchio.

• si attivano facendo un’azione o


vedendola fare da un nostro simile o
conspecifico (homo sapiens o primate)
• si attivano udendo suoni o rumori tipici
di un’azione (es: qualcuno sta
camminando nel corridoio. Riesco a
capire che un mio conspecifico sta
camminando e discrimino come
cammina e con cosa cammina (tacchio
o sneackers))
• facilitano la comprensione di intenzioni
e azioni altrui permettendo la relazione
con i propri conspecifici, processo
definito empatico5
• Vittorio Gallese, neuroscienziato
italiano, ipotizzò che, tra le cause dello spettro autistico6, vi potesse essere una lesione dei
neuroni specchio.

1.2.1 Scoperta dei neuroni specchio


Inizialmente, i neuroni specchio, vennero scoperti da
Rizzolati7 nelle scimmie e solo successivamente
nell’uomo e in altri animali come alcuni uccelli.
Come si evince dall’immagine, il ricercatore protrude
la lingua davanti al primate8 il quale, a sua volta,
protrude la lingua. La stessa situazione si presenta
nella relazione adulto-neonato.

4
In realtà non tutti gli studiosi accettano l’esistenza dei neuroni specchio
5
L’empatia è un processo complesso che sta alla base di una relazione, sia essa terapeutica che non. La differenza
sostanziale è che, per quanto riguarda la relazione empatica terapeutica, questa deve basarsi sulla comprensione dello
stato d’animo del paziente mantenendo però un certo grado di distacco.
6
La docente cita la sindrome di Asperger. I pazienti affetti da questa sindrome hanno una spiccata intelligenza e qualità
di apprendimento molto dissimili dalla maggior parte delle persone. Ad esempio, come nel film Rain man, sono in grado
di contare senza numerare (capacità che si pensa essere localizzata nel lobo di destra) quanti fiammiferi sono caduti a
terra.
Normalmente, la capacità di contare senza numerare (span) può raggiungere al massimo i 5-6 oggetti. Oltre tale
numero, la persona deve numerare i vari oggetti.
7
Questa scoperta gli fece ottenere la candidatura per il Nobel. Successivamente, però, uscì un articolo da un collega
neurologo Caramazza il quale dimostrava l’esistenza dei neuroni specchio anche nell’uomo.
Rizzolatti, dunque, non solo non ricevette il premio Nobel ma la sua candidatura venne ritirata.
Al di là di questa spiacevole vicenda, la docente afferma che molti altri premi sono stati attribuiti a Rizzolatti
8
La docente spiega come homo sapiens e primati, siano caratterizzati da una somiglianza importante sia per quanto
riguarda il DNA (99,9%) sia per quanto riguarda altre peculiarità.
Una delle differenze sostanziali consta nella struttura della laringe dei primati che non permette l’emissione di suoni
articolati ma di suoni simile a urla. Queste, unitamente al linguaggio non verbale, caratterizzano il loro linguaggio che
spesso “può essere scambiato anche con noi”.
Si può dunque affermare, teoria sostenuta anche da studi elettroencefalografici, che l’imitazione di
un’azione di un conspecifico viene svolta dai neuroni specchio.
Lo studio elettroencefalografico delle varie aree cerebrali nei primati e nell’uomo ha messo in
evidenza come vi sia un corrispettivo morfo-funzionale nella distribuzione e localizzazione delle aree
di Broca e di Wernicke nell’encefalo di homo sapiens piuttosto che in quello di scimpanzè.
Le aree F4 e F5, rispettivamente area premotoria ventrale caudale e rostrale, dei primati furono
osservate casualmente durante un esperimento per altri scopi da Rizzolatti e collaboratori a Parma.
Un macaco, collegato ad un’apparecchiatura elettroencefalografica, durante la pausa pranzo, venne
lasciato solo con uno studente nello studio. Quando i ricercatori tornarono, osservarono che il
tracciato elettroencefalografico aveva subito delle variazioni rispetto al fisiologico, in particolare si
erano attivate aree che prima non risultavano attivate. Incuriositi, chiesero delucidazioni sul
comportamento del macaco durante la loro assenza, ma lo studente negò qualsiasi azione degna di
nota. Osservando e confrontando le onde presenti nel tracciato durante l’assenza dei ricercatori, con
le onde registrate precedentemente per capire i movimenti del macaco, i ricercatori notarono che i
tracciati erano pressochè sovrapponibili.
Chiesero dunque al tirocinante se il macaco avesse afferrato qualche oggetto, mangiato qualche
acino di uva9 ma lo studente negò. Ricordò però che egli stesso aveva avuto fame e che aveva
mangiato qualche acino d’uva mentre il macaco lo stava ad osservare.
Si ebbe così la dimostrazione scientifica dell’esistenza dei neuroni che furono definiti specchio
proprio perché il tracciato elettroencefalografico rifletteva un’azione non svolta dal macaco bensì
dallo studente.
Ad oggi si può affermare con relativa certezza che qualsiasi essere umano è in grado di
comprendere la finalità di un’azione di un’altra persona in base al contesto.
Un’esempio si può osservare nell’immagine a destra:
le aree che si attivano nel momento in cui si osserva
una persona afferrare una tazza, sono rappresentate
dall’area del Broca. In base al contesto si può inoltre
dedurre quale sia l’intenzione dell’umano, se quella di
bere la tazza (immagine a sx) o quella di spostare e di
riordinare il tavolo (immagine a dx)

Concludendo i neuroni specchio riescono ad attivare


aree del sistema nervoso che presiedono al controllo
delle emozioni, del pensiero logico, del sistema
rettiliano (quello ancestrale che governa, in base alla
comprensione delle azioni dell’altro una risposta in
senso di attacco e fuga).
Secondo queste osservazioni, Rizzolatti affermò che le funzioni primitive dei neuroni a specchio,
quando anticamente si svilupparono a livello nervoso, erano quella di permettere un’immediata
comprensione del comportamento dei nostri simili e non10ai fini della sopravvivenza.

9
La professoressa sottolinea come in realtà vi siano tante versioni della vicenda. Alcune raccontano del pranzo dello
studente a base di acini d’uva, altri a base di banane. Rizzolatti in un’intervista, parla però di acini d’uva.
10
Digressione sui dinosauri erbivori e carnivori. Secondo la docente i dinosauri carnivori mangiarono una moltitudine di
homo sapiens
In seguito a queste teorie, la domanda successiva riguardò la possibilità che questi neuroni si
ereditassero geneticamente o meno.
L’imitazione è una caratteristica propria dell’uomo.
Osservando le reti neurali che si attivano durante il processo
imitativo, queste coinvolgono l’intera corteccia. Oltre a
questo, nel processo imitativo, il cervello è in grado di predire
la possibilità di errore e di correggerlo in tempo reale.
L’imitazione, secondo quanto detto precedente, si può
osservare già in epoca neonatale. Di conseguenza è molto
auspicabile pensare che i neuroni specchio siano ereditati
geneticamente. Allo stesso tempo però, osservando il
comportamento dei neonati, si evince come questo, nel
momento in cui viene posto di fronte ad uno specchio, non riconosca se stesso, ma un’altra entità
diversa da lui. Il bimbo, a questo punto, inizia a toccare sé e lo specchio finchè arriva alla
comprensione che lo specchio rifletta i suoi movimenti, arrivando alla consapevolezza di quello che
Freud11 definì “l’IO”12. La comprensione dell’Io e di ciò che non è Io, si può osservare anche in altri
contesti. Un neonato infatti, quando tenta di esprimere un bisogno, non utilizza la prima persona ma
parla di sé come una terza persona.

Ulteriori studi tentarono di capire quale potesse essere la base


per lo sviluppo dei neuroni specchio (MNS). Ad oggi ci sono due
ipotesi a riguardo, una adattativa e l’altra associativa. Entrambe
le teorie però concordano riguardo l’importanza dell’esperienza
sociale per lo sviluppo di tale sistema. Di conseguenza questi
studi confutano l’ipotesi dell’ereditarietà dei neuroni specchio a
favore dello sviluppo degli stessi in seguito all’apprendimento.
Descrizione dell’immagine: S = neuroni sensitivi. M = neuroni
motori. Durante l’apprendimento, lo sperimentatore,
avvicinandosi al neonato va ad attivare il neurone S il quale a
sua volta passa l’imput al neurone M. Il neonato imita lo
sperimentatore.
Dopo alcune volte che si crea la stessa situazione, lo
sperimentatore si avvicinerà al neonato il quale, questa volta,
sorriderà senza che vi sia lo stimolo sensitivo da parte
dell’adulto. Il neurone specchio si attiva autonomamente. Il
neurone M si è specializzato in un neurone specchio.

Concludendo si può affermare che i neuroni specchio non sono direttamente ereditabili e ognuno di
noi è in grado di sviluppare neuroni specchio. La diatriba ad oggi aperta riguarda lo sviluppo dei
neuroni mirror in seguito all’adattamento del soggetto in un determinato ambiente piuttosto che in
seguito all’associazione di un’azione svolta da altri per cui il soggetto riesce a capire le intenzioni di
azioni compiute da altri.

11
Il contributo allo studio dello sviluppo del bambino è da attribuirsi ad Anna Freud, figlia di Sigmund Freud
12
Ad oggi, le conoscenze riguardo Io, SuperIo ed Inconscio si sono ulteriormente evolute. Questo però non invalida la
teoria di Freud per cui esistano dei meccanismi che possiamo correlare con delle strutture anatomo-funzionali.
Uno studio aggiunge come sia più semplice intuire le intenzioni di azioni di persone della stessa
etnia rispetto a persone di etnia differente. Anche in questo caso però, si dovrà andare a prendere
in considerazione l’ambiente in cui il soggetto ha vissuto, indipendentemente dall’etnia di origine.

Inoltre, si sta tentando di capire quale sia il ruolo dei neuroni specchio nello spettro dei disturbi
autistici. Gallese, come visto precedentemente, afferma che soggetti affetti da queste patologie
siano caratterizzati da un appannaggio dei neuroni specchio.
Le patologie che caratterizzate da disturbi relazionali importanti quali i disturbi dello spettro autistico
o le malattie mentali, si pensa possano essere caratterizzate da un ipofunzionamento del sistema
mirror. Sono stati fatti vari studi di vario tipo a riguardo.

Andando ad analizzare infatti il tracciato elettroencefalografico di un soggetto sano, nel momento in


cui egli inizia il movimento si assiste ad una caduta dell’onda definita onda mu. Quando si afferra un
oggetto vi è un’altra deflessione verso il basso. Osservando il tracciato si può quindi capire il tipo di
movimento svolto dal soggetto ma allo stesso tempo anche se il movimento è stato pensato. La
stessa cosa accade nel momento in cui si attivano i neuroni specchio.
Se ad un bambino autistico invece si chiede di osservare un video di una mano che si apre e si
chiude sotto monitoraggio EEG, il tracciato rifletterà quello di un bambino sano ma con una riduzione
del 50% dell’ampiezza delle onde (lo specchio è appannato).

La sfida per il futuro sarà quella di capire quale sia l’interfaccia tra il livello cellulare e il livello globale
della funzione. Ad oggi le conoscenze riguardo i geni, molecole, trasportatori e sinapsi e
trasmissione del segnale sono ampiamente state definite ma non è ancora chiaro il complesso
sistema delle reti neurali, del comportamento e della cognizione. Questo ha fatto si che il termine
rete neurale venisse convertito con il termine di connettoma, ovvero una rete molto complessa
formata da tanti hubs e spots. Il progetto di decodifica di questo connettoma è stato chiamato, per
analogia a quello di decodifica del genoma umano, club dei ricchi (per la moltitudine di reti diverse)
del connettoma umano. Fino ad oggi sono state studiate le analogie e le differenze dei vari
connettomi a livello cerebrale nei due differenti sessi.
La professoressa si accinge alla conclusione consigliando due diversi libri per quanto riguarda la
teoria dei neuroni specchio:

• Daniel Lieberman, la storia del corpo umano: romanzo che spiega come siamo strutturati
anatomicamente
• Gregory Hickok, il mito dei neuroni a specchio: libro che contrasta la teoria dei neuroni
specchio, spiegando il funzionamento dei nostri pensieri.
La docente conclude la lezione con una foto rappresentativa della funzione dei neuroni specchio.
(per l’esame i punti degni di maggiore attenzione sono:

• La differenza fra funzioni geneticamente programmate e funzioni epigenetiche o apprese


• Il guadagno cognitivo attraverso l’apprendimento motorio come avviene: neuroni specchio o
qualche cosa che ad oggi non si conosce?
• Le funzioni dei neuroni specchio
• Il movimento pensato, le nuove frontiere della riabilitazione: nel momento in cui Rizzolatti
annunciò la scoperta dei neuroni specchio, per i fisioterapisti venne posta la base scientifica
del perché, empiricamente, i bambini con grave danno motorio venivano uniti ai bambini che
camminavano nelle attività ludico ricreative. La base scientifica si trova proprio nella teoria
dei neuroni specchio per cui, osservando una persona camminare, nonostante io non abbia
acquisito le conoscenze per la deambulazione, attivo dei gruppi e delle reti neurali che
altrimenti non attiverei.
Nella riabilitazione motoria di bambini deambulanti si possono utilizzare anche dei video che
mostrano come è la deambulazione in casa rispetto a quella in ambulatorio e creare quindi
un ambiente al bimbo famigliare per la riabilitazione
• Quali sono le ipotesi a favore e sfavore dell’ereditarietà dei neuroni specchio?
Sbobinatore: E.B
Revisore: S.T.
Materia: Medicina Fisica e Riabilitativa
Docente: Meraviglia Maria Vittoria
Data: 9/06/2021
Comunicazioni: La lezione tratterà gli argomenti utili che Lezione n°: 5
mancano per la preparazione dell’esame. La professoressa Argomenti: ICF, Apprendimento, movimento e
comunicazione
dice che si tratta di poche cose da tenere presenti e che ha
già caricato il materiale, ma ci tiene a completare ciò che non
è stato trattato nelle precedenti lezioni.

ICF

1.1 Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della


Salute
L’argomento non è stato trattato a lezione, perché probabilmente già studiato in altri corsi. In ogni
caso tra i materiali si trova il pdf contenente la lezione degli scorsi anni. Quello che serve sapere
sono le caratteristiche dell’ICF: su cosa si basa e le sue caratteristiche di transculturalità, nel senso
che può essere applicato in qualsiasi parte del mondo, indipendentemente dai valori culturali, dalle
abitudini, dalle tradizioni e quant’altro.
Non è una scala di valutazione, ma una scala di classificazione che avrebbe dovuto sostituire
l’ICIDH (International Classification of Health Interventions), cosa che nella pratica clinica non è
avvenuta, anche perché le unità da misurare sono diverse.
L’ICIDH misura ad esempio gli SDO (scheda di dimissione ospedaliera), cioè motivi per cui un
paziente è stato ricoverato e gli esami sostenuti, perché servono poi alla Regione per il rimborso dei
costi.
L’ICF è invece una scala che ci dà la visione di com’è una persona, infatti non viene fatta solo sui
malati, ma può essere fatta su qualsiasi tipo di persona e viene utilizzata in economia, in antropologia
e in studi di vario tipo. È molto utile soprattutto nelle ricerche, perché ci permette di confrontare la
stessa popolazione in un tempo A e in un tempo B, oppure vedere le variazioni su alcuni parametri
nel medesimo contesto.
Comunque sia, nel pdf sono contenute informazioni sufficienti nel caso in cui debba uscire una
domanda sull’ICF.
La professoressa raccomanda di prestare attenzione al passaggio della terminologia, soprattutto
dalla definizione di “handicap”, una parola che è scomparsa dal vocabolario riabilitativo ed è stata
sostituita con il termine “partecipazione”. È chiaro che indichino due cose diverse, ma mostra il
cambiamento del concetto stesso, cioè non si va più a vedere cosa non funziona in una persona.
Handicap proviene dal mondo dell’ippica e indicava un cavallo particolarmente dotato a cui veniva
dato un decalage in partenza perché potesse gareggiare al pari degli altri, per esempio partiva
qualche secondo dopo o con una distanza diversa. Questo termine è entrato poi in uso con una
connotazione negativa, tant’è che viene tutt’ora usato anche in maniera dispregiativa (“Sei un
handicappato”), quindi questa parola è stata tolta e sostituita, dal punto di vista clinico,
dall’espressione “portatore di disabilità” o “persona con disabilità”. Il modo di dire “diversamente
abile” che era entrato in uso è stato rifiutato proprio dalle persone con disabilità tra cui il dottor
Bomprezzi, giornalista de Il corriere della Sera affetto da una malattia degenerativa neuromuscolare,
il quale diceva “Noi non vogliamo essere considerati diversamente abili, perché diversamente abili
in realtà lo siamo tutti, anche le persone senza disabilità evidente. Noi vogliamo essere prima di tutto
persone con disabilità, perché non neghiamo l’esistenza della disabilità, ma vogliamo essere
considerate in primo luogo persone”; per cui ora si dice “persone portatrici di disabilità”, dal momento
che le disabilità sono diverse per ognuno di noi, anche se la classificazione eziopatologica è la
stessa (è possibile infatti avere la stessa patologia, ma abilità e disabilità diverse).

1
APPRENDIMENTO, MOVIMENTO E COMUNICAZIONE
2.1 Le 5 reti neurali secondo Mesulam
L’inizio della vicenda si ebbe intorno all’anno 2000, precisamente nel 1998, quando sulla rivista Brain
(n° 121, pag. 1013-1052) uscì questo articolo di Marsel Mesulam: “Dalla sensazione alla cognizione”.
Questo articolo creò una piccola
rivoluzione nell’ambiente dei neurologi,
perché fu il primo articolo in cui si
parlava di reti neurali. Marsel Mesulam
sosteneva questa sua ipotesi di reti
neurali e che il nostro cervello ne
avesse almeno 5 diverse. Ora
sappiamo che sono molte più di 5, ma
per Mesulam erano queste: una
deputata alla percezione spaziale, una
per il linguaggio, una dedicata alla
memoria esplicita e all’elaborazione
delle emozioni, una per il
riconoscimento dei volti e degli oggetti
(le gnosie e i corrispettivi disturbi, le
agnosie, termini creati da S. Freud) ed
infine una per la memoria di lavoro e le funzioni esecutive.
Una strana classificazione, pensandoci, ma la prima che prevedeva un percorso di rete.

La memoria di lavoro è quella cosiddetta volatile, quella che come con i PC apriamo quando
dobbiamo eseguire alcuni compiti per poi rimuoverla dalla scrivania. Le sue alterazioni sono
importanti soprattutto per quella che viene definita memoria procedurale che si ritrova, ad esempio,
nella demenza da Alzheimer.
Le funzioni esecutive sono quelle che ci portano al decision making, che è un’altra funzione che noi
riteniamo essere esclusiva dell’homo sapiens, ma se pensiamo anche solo ai nostri animali da
affezione capiamo che hanno una capacità decisionale non indifferente. Quello che manca è la
capacità di comunicare tra diverse specie in modo esplicito.

(La professoressa precisa che le sue domande d’esame non saranno nozionistiche, ovvero non
chiederà quali sono le 5 reti, ma se nel discorso riteniamo utile inserire questo aspetto della proposta
di Mesulam, può andare bene).

2.2 L’apprendimento motorio


L’apprendimento motorio non è solo fitness o capacità biofisiche, ma costituisce una forma di
apprendimento che supporta ed è ben supportata a suo volta dagli aspetti relazionali e comunicativi;
è il primo apprendimento che compie il neonato, perché il neonato con il movimento impara sì a
muoversi, ma anche a percepire l’ambiente.
L’altro ramo dell’afferenza motoria è sempre stato considerato l’ingresso sensoriale.
“Se le porte della percezione fossero aperte, tutto ci apparirebbe infinito” Aldous Huxley (nipote di
C. Darwin). Huxley non era né medico né sanitario, era uno scrittore e scrisse questo breve libro
sulle porte della percezione. Intorno agli anni ‘70 era entrato in uso l’utilizzo di sostanze voluttuarie
come LSD e la copertina del suo libro vuole proprio significare il tipo di visione che può avere l’artista
assumendo questa sostanza psicodislettica, cioè in grado di scindere alcune funzioni della nostra
mente e di farci vedere amplificate altre prospettiche che ad esempio per musicisti, pittori, scultori
erano, a quell’epoca, di grande importanza. Oggi sono sostituite da altre sostanze voluttuarie che
hanno più o meno la stessa funzione: aumentare la creatività della persona.
Cosa significa tutto questo? Che le nostre percezioni, le nostre sensazioni vengono filtrate dai nostri
recettori sensitivi e sensoriali. Queste sono delle vere e proprie porte che se fossero aperte ci
soverchierebbero, perché tutto ci apparirebbe infinito, quindi nulla sarebbe più distinguibile dal resto.
N.B. “The doors of perception” è il titolo da cui prese spunto per il nome il gruppo The Doors.

2
Sulla percezione altrettanti studi più clinici vennero fatti da Nikolai Bernstein, uno dei primi studiosi
e fondatore della cibernetica, cioè la scienza del movimento. Anch’egli sostenne uno dei dogmi
dell’apprendimento motorio: la base essenziale di un movimento corretto, ergonomico, ben fatto è
un flusso normale di impulsi afferenti cutaneo-cinestetici. Ovvero io mi muovo bene se percepisco
bene. Se ho un deficit percettivo anche il mio movimento non sarà armonico e ben definito, come lo
vorrei. Basti pensare, ad esempio, come cammina un non vedente o un ipovedente o un non udente:
hanno un’andatura particolare che ci fa notare che c’è qualcosa di errato e di non completo nella
percezione. Va ricordato infatti che nell’orecchio interno, oltre all’organo dell’udito, c’è anche l’organo
dell’equilibrio che si correla poi con la coordinazione a livello cerebellare.
Quindi tutti gli imput sensitivi che giungono ai nostri recettori di qualsiasi tipo vengono poi integrati a
livello talamico, da lì vanno in corteccia e diventano “coscienti”. A livello corticale abbiamo quella
che viene definita la percezione, cioè la somma e l’integrazione delle percezioni.

Riguardo all’immagine a lato: intorno agli anni ’30-’40 del 900. Non esistevano filmati, quindi i
fotografi scattavano foto in sequenza che poi riviste
velocemente davano l’idea del movimento. Questa
tecnica venne utilizzata da Walt Disney per creare i
primi cartoni animati, che venivano creati facendo
disegnare le figure con delle piccole alterazioni nel
movimento, ad esempio Topolino che tende la mano
a Paperino: si vedeva la mano in posizione diversa e
poi venivano proiettate in rapida successione.
Successivamente sono intervenute anche le
videocamere, da qui nasce infatti l’idea delle
videoriprese.

Le sensazioni sono dovute a varie forme di


energia e nell’immagine a fianco se ne vedono
alcune.
Vedete elencati gli Hz cioè i limiti, le lunghezze
d’onda e l’energia che cadono sotto i nostri
sensi: i suoni o la luce sopra o sotto un certo
range non sono percepibili dai nostri organi,
ma per esempio sentiamo il calore sulla nostra
pelle. Una parte della luce solare, come gli
infrarossi, non cade sulla retina dandoci la
visione, ma sentiamo il caldo.
La prossima settimana si potrà vedere
un’eclissi di sole parziale intorno a
mezzogiorno e vedrete che il sole verrà
coperto per il 2% dalla luna che si allinea
perfettamente; quindi, per osservarla, dovrete
avere un vetro opacato appositamente per filtrare per esempio gli UV e gli infrarossi che possono
danneggiare la retina (raccomandato dalla professoressa di non usare occhiali da sole da pochi
euro).

Si veda quindi quante forme sensitive possiamo avere, tutte colpiscono i nostri recettori e arrivano
poi all’integrazione centrale; tant’è che Alain Berthoz (ingegnere) ha studiato le sensazioni e le
sensibilità umane e ha scritto un libro che ha come titolo “Il senso del movimento”. In questo libro
introduce il concetto che in realtà i sensi non sono solo i 5 canonici che studiamo alle elementari,
ma abbiamo molte più possibilità di percezione: i canali semicircolari, la chiocciola, le placche
motrici, i recettori articolari, i recettori all’interno del muscolo, i corpuscoli di Golgi a livello cutaneo.
Abbiamo tutta una serie di percezioni diverse e di recettori diversi che ci fanno sentire per esempio
la sensibilità vibratoria che noi non consideriamo tra le sensibilità primarie, ma è da tenere presente
che i non udenti non sentono i suoni e spesso avvertono la sensibilità vibratoria e discriminano i

3
suoni attraverso il diverso tipo di vibrazione che percepiscono. La plasticità cerebrale fa sì che la
loro percezione permetta di avvertire cose che noi non notiamo. Se si ha mai avuto occasione di
sentire le vibrazioni di un terremoto sono particolarissime: si trasmettono attraverso la terra, gli
edifici, le nostre ossa, e danno una sensazione indescrivibile di vibrazione, sprofondamento e di
quant’altro (la professoressa ci augura di non provare la sensazione e racconta che lei avvertì al
tempo il terremoto in Friuli).

Vedete quanti sistemi abbiamo: la posizione, il tono, le coordinate visivo spaziali con cui ci
orientiamo, il sistema vestibolare e l’equilibrio e tanti altri ancora.
Per cui, ormai da una trentina d’anni, i neurologi non amano più parlare di sistema sensitivo o
sistema motorio, ma di sistema sensorimotorio. È presente anche in altre specie (in verde il
sensitivo, in viola il motorio) e la distribuzione è diversa nel ratto e nel gatto, non è dualistica come
nelle scimmie e negli umani, ma si vedono zone verdi
e viola anche negli altri mammiferi. Questo perché c’è
distinzione tra percezione sensitiva e azione motoria
che, anche se ha delle zone ben stabilite, è in realtà
funzionalmente un tutt’uno senza limite. La scissura di
Rolando, pur essendo una scissura, non blocca gli
input della sensazione verso la percezione.
Questo l’abbiamo già visto la volta scorsa: oltre a quello
motorio esiste anche l’homunculus sensitivo. Si noti
quanto spazio cerebrale si occupa della nostra attività
motoria; questo è il confronto tra il sensitivo e il motorio:
in realtà, sia la sensazione che la finezza motoria sono
più rappresentate e accurate in alcune zone come le
labbra, la lingua, il volto, le mani (soprattutto il primo
dito opponente). La sensibilità anche più nel piede
rispetto al movimento. Poi dipende dall’uso che se ne fa di ciascuna parte corporea.

(Viene interrotta la lezione per chiedere di avviare la registrazione e la professoressa dice che
comunque questa parte finora è più introduttiva che altro. Tutto questo preambolo è stato fatto
perché lei ritiene che ci sia sempre qualcosa da scoprire che non si era notato la volta prima, per cui
è sempre utile fare un po’ di riepilogo).

I movimenti vengono distinti per comodità didattica in MOVIMENTI RIFLESSI. Vedete l’immagine di
un’opera di Cartesio sulla
percezione del dolore. Vedete che
quando la persona avvicina la
mano o un piede alla fiamma c’è
questa sorta di catena che decorre
lungo la colonna fino al cervello
che trasporta la percezione del
dolore, in seguito al quale
allontaniamo la parte che è più
vicina alla fiamma. Questo venne
già descritto da Cartesio e oggi
sappiamo che è realtà: se si tocca
qualcosa di pungente, un input
sensitivo entra nelle corna
posteriori del midollo, viene
passato dagli inter neuroni alle
corna anteriori dove ci sono i
neuroni motori che mandano
attraverso i nervi motori l’input in
uscita che genera il movimento.

4
Questo per esempio è un riflesso patellare che si evoca nei pazienti percuotendo il tendine di Achille:
se il paziente è rilassato e il piede non è poggiato a terra si vede un’estensione della gamba sulla
coscia; se il paziente invece è contratto, non esegue questa estensione, ma i medici utilizzano degli
stratagemmi che sono le manovre distraenti, tra questa vi è per esempio la manovra di Jendrassik
(prendere le dita unite e provare a separarle).
Rispetto a quando venne scoperto nell’800 quando l’assenza, la troppo spiccata presenza o
l’asimmetria del riflesso venivano considerati segnali di patologia, oggi sappiamo che non è così
semplicistica la cosa e che in realtà un riflesso aumentato non è patognomonico, così come tanti
altri elementi di semeiotica che vanno considerati in un tutto integrato.

Sicuramente questo riflesso magari non indica un’irritazione del sistema piramidale come si diceva
ai tempi passati, ma ha un significato evolutivo che si comprende bene da queste due figure
soprastanti: si vede una persona che regge in mano una tazza e il suo gatto che si appoggia
improvvisamente non visto sull’avambraccio.
Cosa succede alla tazza se il gatto si appoggiasse all’avambraccio senza che il soggetto se ne
accorga? Se si guarda il bicipite, a seguito del movimento del gatto si opera un movimento
isocinetico, senza modificare la distanza dell’avambraccio dal braccio e si esegue una contrazione
che impedisce che la tazza cada. Quindi questo riflesso ha una sua utilità e per questo si dice valore
di tipo evolutivo, cioè che è stato conservato nel corso dell’evoluzione. Magari vedendo il riflesso
patellare potremmo invece chiederci “a cosa serve?”; anche questo infatti ha la sua utilità, per la
deambulazione, per calciare e per tutta una serie di altre funzioni. Li chiamiamo tutt’ora comunque
riflessi, come se non avessero un valore funzionale.

Qual è il significato evolutivo di questi riflessi? Se ne prendono in considerazione solamente alcuni.


Abbiamo già visto l’altra volta per esempio il riflesso di suzione, che il bimbo non deve imparare, ma
che è una sorta di imprinting (come direbbe Lorenz); oppure quest’altro riflesso per cui se io metto
il bambino prono con la faccia appoggiata al materasso, automaticamente il bambino nato a termine
gira il capo da una parte per liberare le vie aeree. Non si fa questo esperimento (se non per
dimostrazione), questo riflesso non viene più esercitato perché, come già accennato in precedenza
dalla professoressa, l’American Pediatric Academy
negli anni ’80 diede indicazione di far dormire i
neonati supini per prevenire la morte in culla.
Questo perché i bambini che dormono in posizione
prona hanno un’incidenza significativa di morte
bianca, probabilmente per un evento cardiaco di
tipo aritmogeno. Non ne sappiamo ancora molto
riguardo all’eziologia e alla patogenesi.

Un altro movimento riflesso è la marcia automatica. Se poggiate il dorso del piede al fasciatoio a un
neonato retto per le ascelle, il neonato flette i piedi, li poggia sul fasciatoio e inizia a fare un
movimento come se volesse compiere un passo. Cioè fa una marcia automatica (“automatica”
perché si presuppone che non abbia l’intenzione di spostarsi deambulando).
Questa possibilità di marcia automatica
solitamente viene persa dopo 20-30 giorni dalla
nascita. Si pensava fosse un riflesso che serviva
in ambiente uterino e che quindi non servendo
più dopo la nascita sparisce, ma non è così.
Un altro riflesso discusso a lezione è quello della
prensione: se si mette un dito nel palmo della
mano di un bambino, questo lo stringe forte e fa
fatica a rilassarlo, tranne che non si stimoli il
dorso della mano da distale a prossimale,
facilitando l’apertura della mano. Il significato deriva dal fatto che un tempo ci muovevamo per
brachiazione, quindi questo riflesso di prensione aveva un’utilità ben definita; si è conservato, perché
la prensione è una delle funzioni che ancora ci servono, anche se le capacità della nostra mano
sono molto superiori a quelle necessarie alla brachiazione.

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Oltre ai movimenti riflessi abbiamo i MOVIMENTI
AUTOMATIZZATI: possono essere inizialmente riflessi, ma
sono per lo più acquisiti o appresi e a un certo punto diventano
automatizzati.
L’esempio più lampante tra questi è il cammino: quando intorno
all’anno di età il bambino impara a camminare deve metterci la
testa e pensare al movimento, così come si impara anche a
masticare: non è spontaneo e deve essere insegnato, anche se
sembra qualcosa di naturale.
Anche andare in bicicletta o guidare l’auto all’inizio richiede
“pensarlo”, e una volta che si impara il cervelletto assume
sempre più il comando. Anche il cervelletto ha un suo
homunculus, diverso da quello della corteccia, con la
rappresentazione delle nostre parti motorie, soprattutto sul
verme.

Esperimento: mangiare mentre si cammina, qualcosa che si fa senza problemi. Provate però a bere
da un bicchiere mentre camminate: ci si rovescia addosso il liquido. Se si inizia a bere camminando,
pensandoci man mano, si diventa però più abili anche in questa capacità.
I movimenti automatici hanno il loro perché nella facilitazione del movimento e nel loro
apprendimento.

La maggior parte dei movimenti sono MOVIMENTI VOLONTARI, cioè appresi: c’è distinzione tra
funzioni geneticamente determinate e apprese o epigenetiche. Vanno ricordate le due slide
precedentemente mostrate dalla professoressa: alcuni danno soddisfazione e alcuni sono richieste
fondamentali per la nostra sopravvivenza, altri servono ad esempio per imparare e arricchire le
nostre capacità mentali.
I movimenti volontari, anche dal punto di vista motorio, sono composti da un sistema osteo-mio-
articolare che nel suo insieme possiede infiniti gradi di libertà anche se, basti pensare all’estensione
del gomito, c’è un limite. Sommando tutte le altre articolazioni e le loro capacità anche nei movimenti
rotatori, siamo in grado di svolgere qualsiasi movimento sia necessario e a raggiungere l’obiettivo,
attraverso una composizione varia di movimenti, di tensione del tono muscolare e di innervazione
delle placche motrici e degli altri recettori. Si riesce a raggiungere un movimento invariante
attraverso movimenti che hanno una variabilità praticamente infinita.

Dalla nostra origine ai tempi odierni abbiamo subìto molte modifiche del nostro sistema nervoso e
degli adattamenti di tipo ambientale ed epigenetico, per cui gli apprendimenti epigenetici sono stati
importanti. L’evoluzione tecnico scientifica informatica è andata però molto più veloce
dell’evoluzione biologica, per cui noi oggi ci ritroviamo con la necessità per esempio di muoverci
molto, di camminare (circa 20km al giorno i maschi e circa 10km le femmine) per stare in buona
salute e per sentirci bene, perché questo è l’adattamento evolutivo. La professoressa riporta un
paragone scherzoso tra noi studenti ed Homer Simpson;
se noi facessimo come lui, sicuramente non godremmo di
buona salute (le lezioni a distanza ci hanno reso ancora più
sedentari).
Aristotele nel IV sec a.C. insegnava al Lyceum, scuola
donata dal suo allievo Alessandro il Grande, ed era solito
camminare sotto i porticati insegnando agli allievi durante
una passeggiata (per questo venivano detti peripatetici).
Rapidamente dobbiamo cercare di tenere insieme il nostro
corpo con il cervello. Come ci insegnano anche le filosofie
orientali, la mente e il cervello non sono due cose distinte
e dobbiamo pensarli come un’unità integrata: il cervello supporta tutte le funzioni motorie e l’apparato
muscolare e scheletrico lavora in sinergia per l’esecuzione di un compito. Nell’immagine vedete un
cuore che si fa un selfie con il nostro cervello, perché d’altronde anche il cuore è un organo con delle

6
connessioni preferenziali con il cervello: ci sono alcune fibre che partono dal tessuto di trasmissione
del cuore arrivando molto più rapidamente delle altre all’attenzione del nostro cervello. Forse quello
che dicevano gli antichi aveva un perché: il coraggio è una facoltà che risiede nel cuore e oggi
sappiamo che questa facoltà è dovuta anche alla nostra mente. È una nozione che gli antichi non
avevano, ma ha qualcosa di tangibile ed evidente ai giorni nostri: molte volte le aritmie insorgono
per motivi di ansia, per esempio, cioè qualcosa che si genera a livello mentale. Al giorno d’oggi si
tende a pensare che a livello mentale ci sia esclusivamente qualcosa di molto volatile a differenza
di ciò che è biologico, che si trova solo a livello corporeo, ma non è così.

Si faccia attenzione a come sono i neuroni e le connessioni a 6 mesi


e 6 anni. La proliferazione riguarda non tanto del neurone che non
si rigenera, ma le sinapsi. I neuroni sono più o meno gli stessi dei 6
mesi, ma non vale lo stesso per la rete sinaptica. A 14 anni
diminuisce perché “si specializzano” le funzioni delle sinapsi, quindi
alcune rimangono, mentre altre non utilizzate vanno incontro ad
apoptosi programmata, perché così è stato selezionato
dall’evoluzione del nostro SNC. Per esempio, se a 6 anni è possibile
imparare facilmente un’altra lingua, a 14 anni farò più fatica.

2.3 Afferenze sensoriali


Arrivano al talamo e da lì arrivano in corteccia.
Le esperienze di apprendimento multi sensoriale
forti, insistenti e ripetute rafforzano le connessioni
neuronali, per cui io sento tale lingua e rafforzo le
connessioni che servono per parlarla. Portano anche
a un guadagno delle competenze cognitive e
un’aumentata capacità di usarle in situazioni nuove,
cioè quello che imparo non lo uso solo in quel
contesto, ma riesco ad estrapolarlo e a trasferirlo in
altri contesti. Questo si può chiamare creatività.
Significa avere la possibilità di apprendere in vari
modi, che possono essere unidisciplinari, pluridisciplinari, multidisciplinari, transdisciplinari o
interdisciplinari, con una sottile differenza tra inter e trans, spiegataci nel 1970 da Jean Piaget:
l’interdisciplinare vuol dire mettere insieme competenze diverse, discuterne e venire ad una
somma unica di tutte le cose che abbiamo apportato al team (team riabilitativo: mette insieme tutte
le competenze ed elabora un progetto riabilitativo che poi diventerà un programma), poi ognuno di
noi torna se stesso.
La transdisciplinarità è invece un qualcosa che fa sì che le nostre competenze riescano a
sovrapporsi in parte ed in maniera tanto forte, che anche quando si rientra nel proprio ruolo, si
conservano comunque degli apprendimenti, delle specifiche, tipiche di un altro ruolo, che da
particolari sono diventati trasversali.
Piaget e Basarab Niculescu (fisico quantistico) sono stati i primi a inserire elementi di fisica
quantistica nel funzionamento del nostro cervello.
“Il manifesto della transdisciplinarità” spiega quali siano i concetti quantistici che entrano nella
concezione delle possibilità del cervello di andare oltre i limiti della fisica non quantistica.
Per esempio, la cosa più veloce che conosciamo è la luce, la sua velocità è il limite massimo oltre il
quale non possiamo andare, ma una volta uno studente rispose che c’è qualcosa più veloce della
luce: il nostro pensiero. Un’ottima osservazione. Come si genera il pensiero? Non c’è risposta,
ancora non lo sappiamo. Questi interrogativi, posti già dagli antichi filosofi, generano i legami con la
fisica quantistica.
L’idea che ci sia uno spazio dove non esiste il tempo (lo disse già Einstein) è un concetto quantistico.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, per cui un oggetto può stare in due luoghi dello spazio
simultaneamente, è un concetto quantistico.
Purtroppo il nostro sistema scolastico non prevede insegnamenti di questa branca della fisica e della
biologia, nonostante questi concetti possano tornare molto utili alla scienza medica.

7
Ci sono anche dei meccanismi della visione che vengono risolti con la fisica newtoniana ed altri che
necessitano invece della fisica ondulatoria, mentre altri invece ricorrono alla fisica quantistica.

Le sostanze nutritive alla base del funzionamento del


cervello sono già state studiate in neurologia: il glucosio
è la fonte primaria di energia del cervello, i bambini ne
consumano il doppio rispetto agli adulti.
N.B. il glucosio non si ricava per forza dagli alimenti ricchi
di saccarosio o glucosio, ma anche il fruttosio ne è fonte
(ciclo di Krebs).
Anche l’attività fisica moderata intensa mantiene il
sistema cardiocircolatorio in grado di trasportare il
glucosio attraverso il sangue al nostro cervello, quindi
l’apprendimento motorio è fondamentale per il nostro
benessere. Se ci si sente stanchi fa bene muoversi. (La professoressa invita a provare e torna
brevemente al discorso di Aristotele che passeggia).
La mancanza di ossigeno diminuisce l’attenzione ed ostacola l’apprendimento. Addirittura, per i
bambini della scuola primaria il picco di attenzione è di 20 minuti, a 40 minuti già li si perde, quindi
bisogna interrompere la lezione con attività strutturate sotto forma di gioco.

Il 65% del nostro corpo è composto da acqua e il cervello usufruisce dell’80% di questa quota
d’acqua. Oggi sappiamo che un bambino dovrebbe bere almeno 2 litri d’acqua al giorno (ma non
contiamo solo l’acqua: anche tè, acqua contenuta negli alimenti e così via) e alla nostra età 1 litro/1
litro e mezzo non farebbe male, soprattutto col caldo. Bisogna bere soprattutto se ci si sente stanchi
e un po’ addormentati.

Il corpo allena anche il cervello, quindi provando nuovi movimenti più appropriati, utili e rapidi si
costruiscono le nuove sinapsi, le nuove connessioni neuronali: manipolazione, ritmo, equilibrio con
stimolazione del vestibolo integrano l’apprendimento, tant’è che poi verranno mostrati dei metodi
che vengono usati anche in riabilitazione, ma servono soprattutto a mantenere le proprie energie,
che si basano su queste osservazioni di cui non conosciamo ancora bene tutti i dettagli. Per
esempio, è stato osservato che anche gli adulti quando ascoltano delle conferenze o corsi di
aggiornamento riescono a focalizzare meglio l’attenzione scarabocchiando o giocherellando sul
cellulare, perché questa attività delle mani (studiato da Carla Hannaford, biologa statunitense)
contribuisce a concentrare l’attenzione. Dopo l’uscita degli articoli di Hanneford, la cantante
Madonna lanciò la moda di andare alle conferenze lavorando a maglia per stare più attenti. L’attività
motoria non è perciò solo un esercizio di fitness, ma ha numerose prerogative.

Ripensiamo ad Alain Berthoz quando ci parlava del senso di movimento: quante abilità motorie
devo utilizzare per fare un gesto semplice come spostarmi in bici in piano? Equilibrio, coordinazione,
sistema visivo, corteccia visiva che poi manda alla motoria, sistema vestibolare, cervelletto,
pensiero: il movimento attiva tutto il nostro corpo.
Abbiamo visto la scorsa volta che nell’acquisizione del linguaggio i bambini, nella fase di lallazione,
compiono dei movimenti ritmici con le mani e che anche la musica può essere un facilitatore del
linguaggio (si prendano in considerazione gli afasici anche adulti, magari per un evento
cerebrovascolare: se si fanno cantare loro le stesse parole, le pronunciano). Il ritmo, il suono, la
musica sono tutti dei facilitatori.

8
Sull’intelligenza abbiamo discusso in lungo e in largo,
ne discutiamo dai tempi in cui si misurava l’intelligenza
con il Q.I. e si fa ancora, anche se esistono metodi più
aggiornati. In realtà l’intelligenza è funzione
dell’esperienza, nel senso che non siamo nati
intelligenti, ma con la potenzialità di diventarlo, quindi è
una funzione epigenetica.

Howard Gardner (psicologo) ha parlato di intelligenze


multiple e ne ha classificate parecchie. Ha scritto dei libri
su personaggi famosi come Margaret Thatcher, dicendo
per esempio che aveva una spiccata intelligenza
interpersonale. Di solito i leader politici hanno
un’intelligenza di questo tipo.
Gli atleti hanno invece un’intelligenza cinestesica motoria, mentre i musicisti un’intelligenza
musicale. Gardner conclude dicendo che non è che ognuno di noi ha un tipo di intelligenza: tutti
abbiamo tutti i tipi di intelligenza espressi in vario grado in base all’epigenetica.

2.4 Comunicazione nell’apprendimento motorio


Si prenda come esempio la comunicazione non verbale. A sinistra (in epoca pre-covid) si osserva
nell’immagine il linguaggio corporeo: tramite una
telefonata non ha grandissimo valore la comunicazione
non verbale, ora invece utilizziamo molto le
videochiamate, per cui un qualche valore glielo si può
dare. (Nella slide si fa riferimento a un telefono
classico)
Le parole invece variano da un 7% in presenza a un
13% al telefono, perché si ascolta con maggiore
attenzione, si ascolta anche l’inflessione, il
cambiamento di tono e anche questo tutt’oggi sta
mutando, perché abbiamo le videochiamate.
Nei suoi studi Mehrabian ha sottolineato quanto sia importante la comunicazione non verbale: i
movimenti del corpo e soprattutto le espressioni della faccia, contano al 55%. Le espressioni vocali,
il volume, il tono, il ritmo, al 28% (apprezzabili anche al telefono) e le parole un 7%. Se alla parola
si unisce l’espressione, l’efficacia della comunicazione aumenta tantissimo.
Con le mascherine molto è cambiato nella comunicazione: non si vede più l’espressione e
l’interlocutore deve fare affidamento su un altro parametro che è lo sguardo, che è sempre stato
meno considerato: ci si concentra maggiormente sul labiale e sull’espressione del volto, ma si è
riscoperto il parlare con gli occhi. Nell’immagine vedete tutte le modalità.
Gli psicologi dicono che già con la postura che assumiamo esprimiamo l’intenzione dell’approccio
alla persona (neuroni mirror).

9
Anche darsi la mano ha un significato
culturale, che ora con l’emergenza Covid
abbiamo dovuto modificare; anche i
sorrisi sono spariti dal nostro codice, al
momento.

La prossemica: è la distanza da cui ci si


pone dall’interlocutore. Nell’immagine
piccola in arancione si vedono le
distanze. Alcuni sostengono che l’uso
che si fa oggi di “distanziamento sociale”
sia errato, in quanto si tratta di un
distanziamento fisico, ma è sia fisico che
sociale, perché la prossemica è un
parametro sociale.
- Entro il metro e mezzo: distanza
intima. Amici, qualcuno che vuole dire qualcosa di delicato
- Metro e mezzo – 2 metri: distanza sociale: ci si parla con colleghi, compagni di scuola
- Oltre 3 metri: distanza utile per capirsi
- Oltre 5/6 metri: distanza extracorporea. Non è più prossemica

Il problema delle distanze, anche se è stato meno considerato, è importante come quello
dell’indossare la mascherina, del non potersi stringere la mano, dell’adottare comportamenti che
devono assumere un significato per la nostra cultura.

2.5 Attenzione, apprendimento, memoria


Guidano le nostre emozioni, cioè la percezione delle emozioni (già studiata da Darwin, il quale fece
un paragone tra cane e gatto e il modo in cui esprimono le emozioni).
Le emozioni hanno un loro locus nel sistema limbico, però poi vengono elaborate anche a livello
corticale attraverso diverse vie: ad esempio, la paura agisce sull’amigdala sottocorticale. Quando
vediamo un serpente proviamo paura e abbiamo una via breve che si diparte nella parte temporo-
parietale dall’occipitale direttamente al frontale per segnalarci il pericolo e poi direttamente alle
strutture sottocorticali “attacco-fuga”, per cui noi possiamo fuggire. Se ad esempio osserviamo bene
e ci accorgiamo che non è un serpente, ma un bastone, ci fermiamo e quindi inibiamo il sistema
motorio. Nel frattempo viene attivato attraverso il tronco encefalico il battito cardiaco accelerato e il
respiro frequente. Quando si ferma il sistema motorio, il cuore e il circolo continuano ad andare a
ritmo, perché l’amigdala sostiene questa funzione; per tornare allo stato basale bisogna aspettare
qualche minuto, nel senso che l’amigdala va per la via breve ad attivare la corteccia, ma poi
necessita della via lunga (cognizione) per quietarsi.
Si dice che alcune persone che praticano mindfulness e meditazione riescano ad ottenere lo stato
basale molto più in fretta, o addirittura a non modificarlo. Ci sono dei lavori seri fatti in questo senso
come ci sono quelli non seri, ma è una delle opzioni della funzionalità del nostro cervello: con i
sistemi sottocorticali si privilegia la conservazione propria e quella della propria specie, dopo di che
faccio tutti i ragionamenti e riesco ad elaborare le emozioni.
Abbiamo la struttura adatta a partire dall’adolescenza, tra i 16 e i 20 anni comincia la potatura del
frontale che porta a gestire le emozioni. Come si può vedere nel mondo di tutti i giorni, ci sono
persone adulte che non le gestiscono: esistono delle fobie, così può capitare come negli anziani che
la perdita di neuroni corticali possa causare fragilità e una maggior sensibilità rispetto alcune
emozioni. Si semplifica molto pensando che sia un problema di numero di neuroni, ma si tratta
invece di una qualità delle esperienze che sono state vissute.
Einstein: “L’esperienza è apprendimento, tutto il resto è informazione”.

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2.6 Tipologie di apprendimento:
COOPERATIVE LEARNING (AC)
Tra i vari tipi di apprendimento esiste il cooperative learning
(apprendimento cooperativo) che adesso viene usato molto
nelle scuole, anche primarie, che si basa sull’interagire
all’interno di gruppi di allievi che collaborano tra di loro per
raggiungere un obiettivo comune con un lavoro di
approfondimento che porta poi a nuove conoscenze. Non c’è
più la competizione di un tempo. Quindi si ha un cambio di
paradigma, da multidisciplinare a interdisciplinare, forse
anche transdisciplinare. L’apprendimento cooperativo
coinvolge emotivamente e cognitivamente, perché si è visto
che l’emozione facilita il cognitivo ed è uno strumento di
apprendimento alternativo alle tradizionali lezioni
accademiche frontali.
Basti pensare a quante cose mostrate sulle slide avremmo
potuto apprendere con la pratica in presenza, magari
formando dei piccoli gruppi di lavoro che ci avrebbero portato
poi alla stessa conclusione precedentemente espressa.

L’apprendimento cooperativo risponde a nuovi bisogni educativi elencati nell’immagine a fianco:


La professoressa si sofferma prevalentemente su due punti
- “Imparare ad imparare”: un tempo si chiamavano autodidatti e significa che si può imparare
da soli ciò che si vuole e ciò che interessa.
- “Decision making”: si provi a pensare a quante volte capiterà di dover lavorare in team con
colleghi che stanno antipatici e magari non si sa nemmeno il perché. Conoscendoli magari
si trova anche qualche lato positivo, ma ci sono cose che la nostra corteccia vede e classifica
tali e ci vuole del tempo per modificarle; questo si svilupperà nel tempo nell’ottica di attività
relazionali anche con persone con cui non ci si trova dal punto di vista dell’empatia ma con
cui bisogna lavorare. È importante cercare sempre di avere una visione positiva all’inizio.
Bisogna sapersi esprimere e pensare a livello più elevato, ad maiora semper: l’anno
prossimo saremo medici ma non bisogna pensare di essere arrivati: sarà un punto di
partenza verso mete sempre più alte, diversificate, complesse ed interessanti.

2.7 Embaded Emotion: emozioni incorporate


Embaded emotion vuol dire che tutti i propri pensieri, le
emozioni, le percezioni, tutto quello che si dice, passa nel
proprio cervello ed è incorporato, passato anche dal
proprio corpo. La simulazione dei neuroni specchio, ad
esempio, codifica la corrispondenza tra azione ed
emozione osservata e poi eseguita: vedo un altro
eseguire un’azione ed è come se la eseguissi io.
Questa è una simulazione che va a stimolare il sistema
dei neuroni specchio ed è una prerogativa del sistema
mirror.

La professoressa si sofferma sulle due slide a fianco perché le ritiene molto


attuali; È questo il motivo per cui tutti ormai usiamo immagini e filmati per
le spiegazioni. Un tempo il docente veniva in classe senza alcun mezzo di
proiezione, mentre oggi abbiamo addirittura le simulazioni. Era molto
difficile apprendere il sistema nervoso senza nemmeno la possibilità di
intravederne la struttura.

11
Quando impariamo qualcosa di nuovo impariamo il 40% di ciò che discutiamo (anche
se in remoto si fatica ad intavolare una discussione), l’80% di ciò che sperimentiamo
direttamente o che proviamo a fare e il 90% di ciò che proviamo ad insegnare agli
altri; per questo si impara meglio studiando in compagnia e provando a spiegarsi a
vicenda.

Quando il compito richiede sequenze motorie complessi, come nella danza, attivo
tutta una serie di aree cerebrali composte praticamente di tutte le mie funzioni cognitive.
Non sempre però i movimenti devono essere variegati e connessi con il cognitivo. Esistono anche
movimenti globali e ripetitivi, come ad esempio le danze rituali dei popoli primitivi, che riequilibrano
i mediatori chimici cerebrali inducendo un comportamento calmo ed un aumento dell’autostima.
Questo spiega il motivo dei rave party per esempio, dove molti ragazzi hanno persino perso la vita
per disidratazione, perché danzando forsennatamente uno vicino all’altro non c’è evaporazione del
sudore, avviene il colpo di calore ed infine l’arresto del sistema cardiocircolatorio e la morte per
mancanza di soccorso. Ciò che va compreso è che ogni comportamento in realtà ha delle
motivazioni.

Torniamo a Carla Hannaford, che ha scritto questo libro che non è mai stato tradotto in italiano. Lei
aveva una figlia dislessica, per cui ha fatto tutta una serie di studi anche sulla dislessia, la quale
spesso non è una lesione cerebrale ma un difetto oculomotore nel momento delle saccadi: il rimbalzo
delle saccadi non viene più effettuato in persone che prima degli 8 anni hanno visto moltissime
immagini in movimento. Questa non è vera dislessia, però se
si fanno passare le parole di fronte alla persona dislessica,
questa legge, perché vede scorrere la parola come vedeva
scorrere le immagini sui device prima degli 8 anni. Per questo
i pediatri raccomandano di non far vedere troppa televisione
ai bambini prima degli 8 anni.

Questo è un esperimento condotto negli Stati Uniti per dimostrare come l’attività fisica non affatichi,
ma addirittura sviluppi l’attivazione delle proprie aree cerebrali. Queste sono due mappe cerebrali:
a sx uno scolaro seduto tranquillamente insieme a tutti i
compagni di classe sottoposto a un test di matematica.
A dx una classe diversa, ma equivalente, che ha fatto
un’attività fisica prima dello stesso compito di
matematica.
Gli studenti del primo gruppo hanno ottenuto risultati
mediamente più bassi, rispetto alla classe che aveva
fatto i 20 minuti di attività fisica medio-intensa.
Nell’immagine infatti è importante notare che ci sono più
zone cerebrali attivate e a livello maggiore. Dopo altri 20
minuti seduti, il cervello ritorna allo stato iniziale. Questo
si tratta comunque un dato, non vanno tratte conclusioni
affrettate.

2.8 Brain Gym:

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Sono un gruppo di movimenti studiati da una fisioterapista e da uno psicologo svedese che hanno
creato una ginnastica cerebrale che si può fare in classe,
piuttosto che in ufficio. Sono movimenti di compressione di
alcuni punti o di incrocio della parte destra e sinistra (mani, arti
inferiori, dita…). La pratica si basa sulla teoria del cervello trino
di Paul MacLean che negli anni ’80 ebbe grande clamore, per
poi rivelarsi una fake news. Sosteneva che dal punto di vista
filogenetico il nostro cervello è formato da come una
sovrapposizione di cervelli diversi: una parte reticolare (come gli
animali acquatici e l’anemone), una parte gangliare (come i
gangli del sn simpatico e parasimpatico, come i vermi anellidi), una parte di tipo limbico, che è quella
che presiede l’elaborazione delle emozioni, l’olfatto e la corteccia, che è la parte del cognitivo.
Quindi è come se avessimo tre mantelli che si sovrappongono: archipalio, paleopalio e neopalio. Dal
più antico (dei rettili), quello di mezzo (quello limbico delle emozioni) e quello nuovo (neocorteccia).
Anatomicamente potrebbe essere, ma funzionalmente non è così e non vi è stata alcuna
dimostrazione.

Sigrid Loos propone una serie di esercizi che separano, ad esempio, la metà anteriore da quella
posteriore del nostro corpo. Questi inducono focalizzazione, cioè attivazione del cervello rettile
(quello più basso del tronco encefalico) varcando e incrociando ad esempio la parte anteriore con
la parte posteriore. Movimenti come rotazione o mettere le mani dietro la schiena.

(La professoressa precisa che ha lasciato un file che spiega la pratica della Brain Gym e dice di
prenderla come una curiosità, dato che non si usa in terapia, ma solamente nelle classi o negli uffici
come pratica per sgranchirsi durante il lavoro, non avendo molto spazio a disposizione).
Un altro gruppo di movimenti si basa sulla centratura, cioè la linea mediana superiore (per esempio
la flessione). Con questi si cerca la
stabilizzazione e lo stimolo il cervello
limbico, consolidando l’equilibrio
emozionale e l’autostima. È tutto ipotetico,
magari se si è convinti davvero funziona, ma
tutta la parte psicologica, come al solito, la
si può verificare solo attraverso
comportamenti, quindi non abbiamo la prova
che effettivamente questi movimenti
coinvolgano queste funzioni.
Per ultimi, gli esercizi che riguardano la
lateralità, cioè gli incroci sulla linea
mediana, che lavorano sulla neocorteccia:
coordinazione, comprensione di concetti,
pianificazione, ragionamento. I bambini che
hanno difficoltà nel riconoscere destra e
sinistra con questi esercizi possono avere una facilitazione nel riconoscimento di queste facoltà.

Noi abbiamo anche studiato che il cervello è composto da due emisferi pari simmetrici e che ognuno
di essi è dotato di proprie peculiarità, ma questo è falso e non dimostrato.
In realtà le funzioni occupano e “vagano”, perché le reti non sono fisse (connettoma), in entrambi gli
emisferi con anche delle corrispondenze di genere. L’idea che nell’emisfero destro ci fosse la
creatività, l’immaginazione, l’utilizzo della mano sinistra, mentre nell’emisfero sinistro le capacità
matematiche, di fare i conti, di linguaggio e l’utilizzo della mano destra, sono false.
Sappiamo che esistono dei mancini veri, che fanno tutto con la mano sinistra, perché hanno i centri
del linguaggio scambiati dalla nascita, geneticamente determinati, e altri che sono mancini
epigenetici, cioè bambini che alla nascita hanno avuto piccoli screzi neurologici nella corona radiata,
nella sostanza della capsula interna o esterna, per cui il centro del linguaggio è al suo posto, ma il
bambino ha spostato la funzione dall’altro lato quando la plasticità neuronale è molto forte. Quindi il

13
bambino è mancino, ma se inizia a usare la mano destra diventa ambidestro. Anche sulla dominanza
c’è una variabilità incredibile.
Come si determina la dominanza tra gli occhi? Si provi a fissare un oggetto sul muro, magari un
quadro, centrandolo attraverso le dita messe a cerchio (facendo “ok” con la mano). Lo si guardi
prima con entrambi gli occhi, poi chiudendone uno alla volta: quando si chiude uno dei due occhi
l’immagine si decentra. Quello che non si decentra quando lo chiudete è l’occhio dominante.
Alcune volte la dominanza è la stessa, altre volte è incrociata. Ciò può anche cambiare nel corso
dell’età o portando gli occhiali correttivi. Questo esempio ci fa
capire come queste funzioni non siano fisse e immutabili e apre
tutta una serie di prospettive.
Sono numerosi altri esempi di esercizi da fare se ci si vuole
divertire, come l’esercizio dell’8 e dell’infinito, in cui viene
spiegato il significato. Non è attendibile, ma è una curiosità che
può valere la pena guardare. Si tratta di un esercizio che
mediante l’apprendimento motorio può migliorare funzioni
anche non motorie, ma cognitive. (Per chi fosse interessato, le
spiegazioni sono reperibili nel materiale lasciato dalla
professoressa)

2.9 Metodo Feldenkrais:


Questo è l’unico metodo riabilitativo che non è stato brevettato come metodo, non è una terapia ma
un insegnamento per volontà del suo creatore Feldenkrais, ovvero un fisico che lavorava nel
laboratorio Curie. A causa di un incidente perse la facoltà di piegare il ginocchio, ma facendo uno
studio su muscoli, ossa e cinetica ideò questo metodo per tornare a muoverlo, sentendo il
movimento che passa attraverso il corpo. Addirittura facendo movimenti prima ampi, come i bambini,
poi sempre più piccoli arrivando a pensarli soltanto. Il solo pensiero permette di attivare le reti neurali
che si attiverebbero compiendo il movimento. Si tratta di una grande possibilità di recupero per i
bambini con paralisi motorie, anche solo delle reti neurali.
Ha ideato due sistemi per veicolare il suo metodo:
- CAM: Consapevolezza attraverso il movimento. Si tratta di sedute collettive, di gruppo, con
il tappetino. Ogni lezione tratta una funzione (alzarsi, sedersi, girarsi, afferrare, respirare e
così via) oppure propone la funzione in contesti diversi, come girarsi a partire da una
posizione: stando in piedi, da seduti o da supini. Feldenkrais notò che molte delle cadute
delle persone anziane e non sono dovute al fatto che vengono chiamate improvvisamente e
si girano, ma non hanno una motilità tale da potersi girare senza fare un avanzamento con
una parte del corpo (ad esempio, spostare il baricentro dalla base d’appoggio). Queste
lezioni servono proprio per ampliare la capacità della rotazione del capo in chi soffre, per
esempio, di artrosi cervicale. Bisogna eseguire dei movimenti prima con la testa fissando un
punto, poi da un solo lato con gli occhi, e si vede che il campo visivo si amplia ruotando la
testa. Viene chiesto di chiudere gli occhi e pensare di muovere la testa senza girarla: questo
è un movimento pensato. Ciò dimostra che pur senza avere la conoscenza dei neuroni
mirror, c’è qualcosa nella nostra testa che può attivare una serie di procedure neurali, cioè
comunicazioni attraverso il movimento.

- IF: Integrazione funzionale. Si tratta di una lezione singola in cui l’insegnante con le mani e
le parole fa sentire i movimenti. C’è un esercizio che si chiama l’orologio in cui ci si mette
supini e si muove il bacino imitando i movimenti dell’orologio; si nota come il bacino è una
parte del corpo che ha poca mobilità. Feldenkrais, primo allievo judoka in Europa e diretto
allievo di Kano Jigoro, disse che la nostra cultura europea ci spinge a non mobilizzare molto
il bacino. Pensate ad esempio alle danze caraibiche: noi non ci sogneremmo mai di
camminare ancheggiando, perché la nostra cultura non è propensa, nonostante questa
mobilità del bacino abbia una sua funzione. Invece noi irrigidiamo il tratto lombare e, andando
avanti con gli anni, questo perde la fisiologica lordosi fino a raddrizzarsi. A quel punto
avanziamo il baricentro che cade avanti all’appoggio dei nostri piedi ed ecco che da anziani
cadiamo in avanti. Dobbiamo invece conservare la naturale lordosi, con esercizi, ma
soprattutto con la percezione (utili in questo caso le lezioni di ballo, col metodo Feldenkrais).

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È una soluzione che non provoca dolore, non comporta fatica e impedisce di cadere o
provocarsi danni, quindi bisogna trovare degli schemi funzionali. Feldenkrais questo lo
faceva con chi aveva avuto problemi neurologici e non, ma non come terapia. Trattò una
bambina emiplegica e scrisse un libro; semplicemente insegnandole a muoversi meglio e più
comodamente, migliorò l’emiplegia. Non abbiamo casistiche sufficienti per affermare che il
metodo Feldenkrais sia una terapia, è semplicemente un modo di muoversi.

Il link feldenkrais.it porta al sito di Mara Della Pergola, unica allieva diretta di Feldenkrais operativa
in Italia. È attiva nel suo studio a Milano e adesso propone attività online (forse nel periodo
autunnale c’è la possibilità di fare una lezione gratuita di prova). Ha degli allievi anche a Brescia. Si
tratta di qualcosa che può essere
consigliato anche ai propri pazienti, in
quanto non provoca problemi che
potrebbero esserci invece con altri
metodi.
La formazione è molto lunga (4 anni) e costosa. Il costo proibitivo comprende anche un soggiorno
estivo di 10 giorni ad Asiago, i libri, i materiali, le sedute, i filmati. È un investimento, ma la
professoressa stessa ammette di non essersi mai sentita di seguire il corso per mancanza di tempo.
La professoressa lascia in aggiunta al materiale anche due articoli di Feldenkrais stesso e di Mara
Della Pergola. Inoltre, riguardo all’esame dice che ne avremo una di domanda, ma che per paura
che quell’unica domanda possa riguardare questi argomenti ha preferito parlarne, in modo da non
avere particolari problemi (apprendimento motorio, guadagno cognitivo..)
La professoressa infine ricorda che ha organizzato io materiale in cartelle e che oltre alle slide
potrebbero essere presenti anche degli allegati.
(La professoressa comincia una nuova presentazione)

2.10 Leisure Activities

Le Leisure Activities sono attività ludico-ricreative. Nella slide a


lato vengono mostrate persone che compiono diverse attività,
anziane e non: una signora in sedia a rotelle che pratica il tiro a
segno come sport o anche la canoa che può essere un’attività
per chi ha disabilità o meno. Tra le attività ricreative ci possono
essere veri e propri sport, ma anche semplicemente portare il
proprio cane a passeggio. Queste sono tutte leisure activities
che vanno ad aumentare le nostre possibilità di movimento.
Nelle slide con il grafico nella media di 2-3 anni fa vengono
rappresentate le attività più gradite dalla popolazione in ore
trascorse: sport e riposo sono quelle più gettonate, poi c’è la
comunicazione sociale e il guardare la televisione. C’è
equivalenza tra maschi e femmine.
Per lo più la motivazione è visitare amici e famigliari o visitare
le città più importanti.

Non tutte le attività sono a carattere motorio, ma è stato detto


infatti che anche quelle a carattere sociale e di relazione
emotiva sono importanti per il nostro benessere globale che
si ripercuote a livello fisico, per esempio se sto bene e sono
contento non sento il dolore che ho solitamente al collo,
perché le endorfine che produco contrastano i meccanismi
del dolore.

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2.11 Tummy time
Del tummy time se ne è parlato rapidamente anche la scorsa volta: è un tipo di attività ludico
ricreativa per i lattanti.
Per il fatto che i neonati dormano supini,
succede spesso che abbiano una prominenza
della bozza frontale e dietro la parte
omolaterale appiattita o addirittura tutta la
squamo-occipitale appiattita (fisiologico per i
bambini di etnia asiatica). Non è un problema
unicamente estetico, perché gli occhi e le
orecchie non si trovano più in asse e
l’asimmetria potrebbe richiedere interventi di
odonto-gnatologia infantile. Sono interventi
costosi, lunghi e fastidiosi per i bambini. Se si
interviene sui bambini già intorno ai 3 anni (ormai si utilizzano le mascherine trasparenti, non si usa
più l’apparecchio odontoiatrico) per il raggiungimento dell’età scolare, con attività fisica e
prevenzione, la plagiocefalia può essere risolta. Plagiocefalia è un termine greco che significa
“cranio a parallelepipedo” che si può vedere nel bambino guardandolo dall’alto. Esistono anche delle
app con cui basta inquadrare il cranio per avere il calcolo del grado di asimmetria. A seconda dei
gradi c’è una classificazione che indica l’intervento che servirà: interventi di tipo ludico-ricreativo,
preventivo, fisioterapia e accorgimenti che possono variare fino al dover portare l’elmetto e
l’intervento chirurgico nel caso si tratti di una sinostosi.
Spesso viene chiesta la consulenza del neurochirurgo o del neuropsichiatra e questo può turbare i
genitori. È bene sapere chi sono i pediatri esperti a cui fare riferimento o diventare voi stessi dei
pediatri in grado di fare una diagnosi di plagiocefalia posizionale e torcicollo associato. Una volta
visti un po’ di casi non è complicato.

Come prevenire la plagiocefalia? Si mette il bambino sveglio sulla pancia e lo si intrattiene con dei
giochi (Tummy Time) sotto la supervisione di un adulto. I giochi possono essere diversi a seconda
dell’età; i bambini imparano ad esempio a liberare un braccio per poter interagire con il gioco (il
bambino della terza immagine è molto piccolo, per questo guarda dei disegni semplici e
monocromatici, dato che la visione cromatica non è immediata alla nascita, per i bambini molto
piccoli sono ideali le figure con grande contrasto bianco/nero o giallo/rosso). Il National Institute of
Child Health and Human Development raccomanda il Tummy Time come momento fondamentale
per lo sviluppo e il rafforzamento dei muscoli del collo e del cingolo scapolare, che porterà il bambino
a sviluppare prima la reazione anti-gravitaria e poi a raddrizzarsi prima.
Questo inoltre evita l’appiattimento del cranio e sviluppa le capacità motorie come il rotolamento e
lo striscio.
Un’altra cosa importante per prevenire la plagiocefalia per chi allatta artificialmente è ricordarsi di
alternare le braccia con cui tiene il bambino, perché con l’allattamento al seno è naturale
l’alternanza tra i due seni, mentre con il biberon si tende a tenere il bambino con il braccio con cui si
è più comodi.

Si veda con qualche immagine come avviene il


raddrizzamento da prono; Le tappe non sono mai
uguali per tutte, ma ora sono più dilazionate, perché i
bambini vengono tenuti supini più a lungo. Ognuno ha
la sua sequenza e non c’è nessun significato
patologico. I bambini non devono essere obbligati, ma
solo incoraggiati, perché spesso piangono in
posizione prona se abituati a stare supini.

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L’importante è lasciar il bambino provarci da solo, mentre
se ha difficoltà il fisioterapista può insegnare quelle
piccole strategie che permettono di vincere la gravità,
passare dalla posizione orizzontale a quella verticale e
poi camminare.

2.12 La storia dello sviluppo motorio

Ester Thelen ha postulato la teoria chiamata “modelli dei sistemi dinamici” negli anni ’80. Le principali
tappe storiche vengono rapidamente riassunte in questo modo:
 Anni ’20-’40 modello maturativo di Gesell: il bambino deve maturare prima le strutture
cerebrali per poi acquisire le funzioni.
 Anni ’50approccio cognitivo di Piaget: il bambino vede e osserva chi vive intorno a lui, si
forma l’idea poi prova e impara per trials and errors. Matura il pensiero, poi fa.
 Anni ’70 elaborazione dell’informazione di Vygotskij: il bambino prima imita poi acquisisce
la funzione (il contrario di quanto diceva Piaget).

Sono tutte modalità che esistono in diversi bambini o possono coesistere nello stesso bambino.
Quello che introduce un elemento di novità è il modello dei sistemi dinamici di Thelen, per cui ci sono
dei fattori multipli nello svolgersi dello sviluppo motorio che non sono solo appannaggio del sistema
nervoso centrale, ma riguardano le caratteristiche biomeccaniche o periferiche del nostro corpo o
anche fattori ambientali, che non c’entrano nemmeno con il sistema nervoso, come dicevano tutte
le altre teorie.

Nell’immagine si osserva Gesell e Thelen che esaminano un bambino; si può notare che la modalità
non è molto cambiata: una mano o un appoggio che
sostiene la testa. Ciò che cambia è la concezione:
l’approccio maturazionista prevedeva la
maturazione della struttura e poi l’acquisizione della
funzione fino al cammino; per quanto riguarda
invece il modello dei sistemi dinamici, esso sostiene
il bisogno dello sviluppo motorio, ma anche il
bisogno delle caratteristiche biomeccaniche che
nessuno aveva mai considerato, del patrimonio
genetico, dei fattori ambientali, dell’attività motoria
che il bambino sa già svolgere mettendo insieme il
tutto. Dal 2000 in poi ci si è concentrati su questa
idea.

Questo non è argomento d’esame, ma sono semplicemente approfondimenti inseriti nelle slide da
parte della professoressa per chi fosse interessato:

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Thelen aveva notato che il riflesso della marcia
automatica (stepping neonatale), dopo un po’ di tempo,
scompare nella maggior parte dei bambini (il bambino a
un mese di età non ce l’ha più, tranne particolari casi).
Aveva anche notato che questi movimenti alternati degli
arti continuavano a lungo in quello che è definito
pedalaggio (kicking), quando il bambino messo sdraiato
fa esattamente lo stesso movimento con gli stessi muscoli
e le stesse articolazioni.
Thelen si chiese cosa impediva al bambino di fare questi
movimenti in piedi, dato che era in grado di farli da supino.
Non certo i muscoli, le articolazioni o il SNC, dato che il
movimento è lo stesso. Thelen provò quindi immergendo il
bambino in una bacinella d’acqua fino alla vita e notò che lo
stepping durava di più nel tempo e proseguiva fino alla
comparsa della vera e propria marcia, cioè il cammino.
Non è quindi un problema centrale, ma di un altro elemento
non ancora individuato.
Nella slide a lato si vedono due bambini, entrambi sani:
bisogna prestare attenzione agli arti inferiori. Quelli del
bimbo di destra sono ricchi di massa grassa, a differenza del bimbo a sinistra. Hanno infatti una
qualità biofisica che salta all’occhio e che si comprende meglio leggendo il testo sottostante.

Cosa comporta questo? Fisch Tank Experiment


È stato osservato cosa fa il bambino fuori e dentro l’acqua.
Nel grafico è rappresentata circa la frequenza di passi al
minuto: fuori dall’acqua il bimbo compie circa 10 passi al
minuto, mentre in acqua 20 passi al minuto, lo stesso neonato
Ciò accade perché l’acqua agevola la reazione antigravitaria;
si sa infatti che una delle proprietà dell’acqua è proprio quella
di alleggerire la forza di gravità.

È stato poi fatto un altro esperimento, ovvero quello di


aggiungere un piccolo sovrappeso al bambino: un piccolo
zainetto con circa mezzo kg di peso. I risultati ottenuti sono i
seguenti: 14/15 passi al minuto senza peso e 9/10 passi al
minuto con il peso; il sovrappeso fa diminuire la frequenza
della marcia.
Quando il peso è eccessivo, quindi, il bambino perde la marcia
automatica.
Questo è il motivo per cui intorno ai 2/3 mesi la maggior parte
dei bambini perde la marcia automatica, continua il kicking e,
se messi in acqua, continuano la marcia automatica.

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Thelen poté così concludere che non si trattava di fattori neurologici, ma di fattori biofisici di altro
tipo, come per esempio il volume della massa grassa, che viene misurato dall’ipofisi.
L’ipofisi è importante infatti anche per quanto riguarda l’alimentazione, poiché ha la percezione e
induce senso di sazietà anche dopo un certo numero di atti masticatori tramite uno stimolo che parte
dal condilo della mandibola. L’ipofisi registra il volume, non il peso.

La scoperta della Thelen è così riassunta in


questa slide: la visione classica viene sostituita
da una visione incorporata.

Uno studente interrompe facendo presente che la professoressa è andata oltre il suo orario ed è già
iniziata la lezione successiva. La professoressa fa scorrere così velocemente le ultime slide e ci
consiglia di darci un occhio velocemente. Seguono immagini sulla pet therapy con cane e cavallo.
Se vi dovesse essere la pet therapy come argomento della domanda è consigliata la visione del
materiale.
Per qualsiasi problema la professoressa consiglia di contattarla via e-mail oppure telefonicamente.
Si rende disponibile anche per eventuali riunioni online su qualsiasi piattaforma.

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