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Sbobinatore: V.S.
Docente: Prof. Giuseppe Milano
Argomenti: Artrosi, Gonartrosi, Osteonecrosi
0. INTRODUZIONE
Il corso di “Malattie dell’apparato locomotore” si articola in due branche principali: ortopedia e traumatologia, la
prima riguardante patologie di natura degenerativa, tumorale, da sovraccarico, la seconda patologie di natura
traumatica. Nello studio dell’ortopedia sono necessarie conoscenze di fisica meccanica: gran parte delle conoscenze
dei razionali dei trattamenti, oltre alla spiegazione dei meccanismi patogenetici, nasce in termini di fisica e in
particolare di meccanica, tant’è che la maggior parte delle teorie e della spiegazione del funzionamento del sistema
locomotore fa riferimento a una branca specifica della fisica, ovvero la biomeccanica. L’ortopedia è una branca
chirurgica, benché in realtà la soluzione chirurgica molto spesso venga attuata solo quando altre strategie non hanno
funzionato.
0.1 Artrosi
Per artrosi si intende una patologia degenerativa che colpisce la cartilagine articolare e che si estende a tutte
le strutture coinvolte nell’articolazione: capsula, legamenti, membrana sinoviale e, in particolare, l’osso
subcondrale, porzione di osso che si trova immediatamente al di sotto della cartilagine articolare. Questa è
la regione dove la patologia ha un caratteristico esordio e ha un ruolo molto importante dal punto di vista
sintomatico.
È una patologia che riguarda la popolazione adulta-anziana ma non solo, può infatti colpire anche il giovane
adulto o fasce di età ancora più precoci, ciò dipende dalla causa che ha determinato la malattia.
La sua funzione principale è quella di garantire lubrificazione al movimento, favorendo lo scorrimento privo
di attriti tra le superfici articolari. I capi articolari sono tra di loro in contatto, al massimo sono presenti pochi
cc di liquido sinoviale o sinovia (non deve essere confusa con la membrana sinoviale che produce il liquido)
che incrementa la lubrificazione naturale.
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Grazie alla sua struttura e ai suoi costituenti la cartilagine presenta comunque una capacità di resistenza:
essa è formata da una catena di acido ialuronico posizionata al centro con ramificazioni glucidiche di
glicosamminoglicani cariche negativamente (OH-).
Tali catene se sottoposte ad un carico fisiologico si aprono, in questo modo le molecole d’acqua si
allontanano, senza però mai perdere il contatto con le catene glucidiche, e la cartilagine si assottiglia. Quando
il carico viene tolto l’acqua ritorna al suo posto, le ramificazioni laterali si richiudono e la cartilagine torna
come prima (viene riportato l’esempio della borsa dell’acqua calda, già citato nella lezione precedente).
Questo avviene quando c’è una perfetta distribuzione di un carico fisiologico, pari cioè a quello che la
struttura è in grado di sopportare.
Un’altra peculiarità della cartilagine è che le sue cellule non sono in grado di riparare il danno; infatti le
cellule cartilaginee sono in grado di proliferare ma non di produrre matrice che vada a colmare la zona di un
eventuale difetto. Quando c’è una lesione in un tessuto cartilagineo le cellule si affollano lungo il bordo della
lesione formando dei cluster, ma in realtà il buco rimane tale; sostanzialmente il danno a un tessuto
cartilagineo non si ripara mai.
La capacità di sopportare un carico non è la caratteristica meccanica più importante della cartilagine
articolare, non nasce infatti per questo, ed è molto facile che questo tessuto si danneggi.
La cartilagine possiede una capacità di resistenza visco-elastica tempo dipendente, ovvero la capacità di
adattarsi al carico cambia in base alla velocità con cui il carico viene applicato e alla sua durata di applicazione;
nel momento in cui si supera la capacità di resistenza il tessuto si rompe.
Più precisamente si parla di “carico di rottura”: si considera rottura il carico massimo che un tessuto può
sopportare oltre il quale c’è una drastica caduta della resistenza. In fisica e scienza dei materiali il carico di
rottura (detto anche forza di rottura) è il limite, in termini di forza o sollecitazione esterna applicata, oltre il
quale un materiale risulta definitivamente inservibile dal punto di vista della resistenza.
In alcune strutture (non nella cartilagine) si parla di “tensione di snervamento”, il punto cioè in cui si supera la
resistenza elastica e la resistenza diventa plastica e c’è deformazione permanente. La tensione di
snervamento o punto di snervamento di un materiale duttile è definita in scienza dei materiali come il valore
della tensione in corrispondenza della quale il materiale inizia a deformarsi plasticamente, passando da
un comportamento elastico reversibile ad un comportamento plastico caratterizzato dallo sviluppo di deformazioni
irreversibili che non rientrano al venir meno della causa sollecitante.
Come già detto la capacità di resistenza è piuttosto limitata, ecco perché esistono tutta una serie di
meccanismi che tendono a compensare questo fenomeno, cioè delle strutture che permettono di migliorare
la congruenza delle superfici articolari e di distribuire il carico su una superficie più ampia e quindi di ridurre
i picchi di carico. Questo è importante per la patologia artrosica perché dove si determinano dei picchi di
carico per unità di superficie si avrà più facilmente una distruzione della cartilagine.
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0.1.2 Cinematica articolare e artrosi nell’articolazione del ginocchio
L’articolazione del ginocchio è piuttosto complessa dal punto di vista della cinematica articolare: i legamenti
crociati e collaterali, il manicotto capsulare e i menischi sono le strutture che garantiscono la normale
cinematica articolare, cioè un movimento che avviene in assenza di carico e permette una distribuzione del
peso corporeo su tutta la superficie articolare senza picchi di carico.
Qualsiasi evento che provoca un’alterazione della distribuzione del carico può portare progressivamente
ad un’usura. Ecco perché l’artrosi non colpisce solo l’anziano: una lesione legamentosa si può verificare a 16
anni e la conseguente artrosi a 25.
In alcuni casi il ginocchio funziona in maniera normale, non ci sono lesioni legamentose, non c’è nessun fattore
predisponente, ma a causa di over use (sovraccarico da eccessivo utilizzo per attività sportive) è spappolato anche
intorno ai 30-40 anni.
Vengono chiamati knees abusers le persone che utilizzano il ginocchio molto e male. Si tratta spesso di atleti non
professionisti, senza un team deputato alla cura dell’esecuzione del gesto atletico per cercare di renderlo più efficace
ed ergonomico.
Ci sono poi i weekend warriors che durante il fine settimana si massacrano le ginocchia giocando a calcetto con gli
amici o facendo la settimana bianca senza un minimo di preparazione. Sono tutte situazioni che possono provocare
progressivamente un danno.
Le alterazioni che più frequentemente portano ad un’alterazione della cinematica articolare (e dunque
all’innesco del processo artrosico) sono a carico delle strutture sopracitate.
Ovviamente questo non accade perché il centro di rotazione del ginocchio rimane sempre nello stesso punto,
grazie al sistema legamentoso intrarticolare. Il contributo principale è dato dai legamenti crociati anteriore e
posteriore che formano un sistema a croce in cui le distanze tra i due punti di inserzione ossea non cambiano
mai. I legamenti, infatti, teoricamente sono elastici, ma le modificazioni spaziali che si verificano durante la
flesso-estensione avvengono mantenendo costante la lunghezza delle loro fibre (fenomeno chiamato
isometria).
Questo sistema legamentoso consente un movimento di rotolamento e scivolamento (rolling and sliding)
per cui durante il rotolamento in avanti contemporaneamente i legamenti tirano il femore all’indietro, in
modo che il condilo femorale rotoli sempre sullo stesso punto (l’immagine spiega alla perfezione questo
complesso movimento). Questo spiega perché quando si estende il ginocchio si muove la tibia rispetto al
femore ma i limiti di contatto rimangono sempre gli stessi.
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Se si verifica una rottura di un legamento crociato, la biomeccanica dell’articolazione risulterà alterata: si
avrà uno spostamento del centro di rotazione in avanti durante l’estensione e indietro durante la flessione,
generando dei picchi di carico in alcune zone del ginocchio e zone di usura in posizioni diverse della tibia
secondo l’attività che si svolge. Ecco come una lesione legamentosa può determinare un fenomeno artrosico.
➢ Rottura di un menisco
Se un menisco si rompe o viene asportato chirurgicamente si formerà un picco di carico nella zona in cui non
c’è più il menisco e da lì partirà il danno artrosico.
➢ Alterazioni congenite
Un’altra condizione di stress potrebbe essere il ginocchio conformato in maniera anomala a causa di una
deviazione assiale costituzionale, come in caso di valgismo o varismo:
• ginocchio valgo: il carico si concentra soprattutto sulla parte esterna, che quindi si usura prima;
• ginocchio varo: la concentrazione del carico è soprattutto sulla parte interna.
Similmente può avvenire sotto la rotula. L’articolazione tra femore e rotula, invece di essere perfettamente
congruente, può essere displasica2 e determinare così un’alterazione della geometria articolare.
Normalmente, durante il movimento di flesso-estensione, la rotula scorre dall’alto verso il basso rispetto al
femore e si impegna dentro il suo solco; in alcune forme di displasia questo solco si appiattisce: si avrà col
tempo un incremento di carico e usura che determina artrosi.
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0.1.3 Dolore artrosico
L’artrosi è una malattia degenerativa che può evolvere più o meno rapidamente, inizia con un danno
degenerativo della cartilagine articolare dove c’è una componente infiammatoria importante.
La cartilagine articolare non è innervata; le terminazioni nervose sono presenti nel periostio (che non è
presente nell’osso subcondrale), nell’endostio e in tutte le altre strutture dell’articolazione a eccezione della
cartilagine. Il dolore è provocato dalla reazione infiammatoria che non coincide completamente con il
danno, l’articolazione diventa dolorosa nella fase infiammatoria acuta. Il processo infiammatorio si
autoalimenta attivando una serie di enzimi che degradano la cartilagine stessa i cui prodotti di degradazione
rimangono nel liquido sinoviale attivando la cascata infiammatoria.
Le persone anziane che soffrono di artrosi si lamentano per il dolore a fasi alterne (a poussée). Ci sono
pazienti che hanno un quadro radiografico drammatico e una sintomatologia dolorosa banale rispetto
all’entità del danno, altri pazienti hanno un danno radiografico modestissimo e un dolore molto intenso.
0.1.4 Epidemiologia
L’artrosi è molto frequente nel sesso femminile al di sopra dei 40 anni e può coinvolgere una sola
articolazione o più articolazioni.
Le più colpite sono le articolazioni sotto carico oppure articolazioni specifiche in caso di trauma o in certi tipi
di attività lavorativa o sportiva. Si può avere asimmetria, cioè un ginocchio artrosico e l’altro no, dipende da
come viene utilizzato.
0.1.5 Eziopatogenesi
Dal punto di vista eziologico si distinguono artrosi primitive e secondarie:
Le artrosi primitive sono principalmente legate all’invecchiamento (età correlate) e sono patologie
multifattoriali (viene ereditato un pool di fattori predisponenti o una particolare morfologia articolare, ma è
l’interazione con i fattori ambientali a determinare l’insorgenza della patologia). I principali fattori di rischio
sono, dunque:
• età
• familiarità
• peso
• sovraccarico funzionale (over use)
• fattori ormonali
• fattori vascolari
Si definiscono artrosi secondarie quelle forme legate a condizioni specifiche dell’articolazione, quali:
• deviazioni assiali: varismo e valgismo;
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• artrosi post traumatiche: oltre alle lesioni legamentose prima descritte, anche le fratture che hanno
coinvolto un capo articolare, modificandone la geometria, possono alterare la superficie articolare in
modo da ostacolare lo scorrimento sull’altra causando usura;
• infezioni locali: possono provocare un’artrosi perché la malattia infettiva distrugge la superficie
articolare;
• artriti settiche e artriti reumatiche: possono provocare una disfunzione a partire dalla membrana
sinoviale;
• artropatie da deposito di sali di pirofosfato di calcio, la condrocalcinosi, la gotta e altre condizioni che
determinano un danno della cartilagine che esita in una lesione di tipo cronico
Da un punto di vista anatomo-patologico possiamo riconoscere una serie di fenomeni, di cui alcuni sono ben
visibili alla radiografia:
• sclerosi subcondrale: l’osso posto sotto alla cartilagine articolare danneggiata subisce un carico
maggiore e tende a rispondere con un ispessimento. In qualsiasi distretto anatomico quando l’osso
è sottoposto a un eccessivo carico aumenta l’attività produttiva di matrice ossea e l’osso diventa più
spesso e radiograficamente più radiopaco;
• osteofiti, deformità marginali ai bordi delle superfici articolari. Si presentano come escrescenze,
causate da un’eccessiva produzione di osso (aumento della densità + aumento della superficie
articolare + formazione di speroni);
• geodi: la parte di osso posta sotto l’osso subcondrale ispessito subisce una deprivazione di carico che
viene supportato dall’osso subcondrale; questo comporta una rarefazione e si formano delle cavità
da riassorbimento chiamate geodi. L’osso in tale sede apparirà più radiotrasparente;
• ipertrofia della membrana sinoviale: similmente alle malattie infiammatorie croniche di tipo
reumatico, l’ipertrofia si manifesta con un incremento della superficie della membrana sinoviale. Il
conseguente aumento della capacità produttiva di liquido sinoviale supera la capacità di
riassorbimento, causandone l’accumulo intrarticolare. Il versamento di una articolazione, anche se
preoccupa molto il paziente, non è la patologia ma semplicemente una conseguenza;
• stimolo proliferativo iperplastico anche sui legamenti e sulla capsula, causato dall’infiammazione
cronica: con il tempo questo determinerà un progressivo irrigidimento articolare; ecco perché tra le
strategie di cura dell’artrosi precoce c’è soprattutto quella di favorire la mobilità dell’articolazione.
La rigidità provoca una perdita di movimento, perdita di funzione e assunzione di una posizione non
fisiologica che favorisce disomogeneità delle forze con aggravamento della patologia artrosica.
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Riassumendo le caratteristiche dell’articolazione artrosica sono: versamento, dolore da infiammazione,
rigidità progressiva e perdita di funzione.
N.B.: La cartilagine articolare è un tessuto radiotrasparente quindi non è visibile alla radiografia. Dove la
cartilagine è conservata lo spazio tra le due ossa è radiotrasparente, non perché vuoto ma per la presenza di
cartilagine, mentre la sua assenza è resa visibile dalle due ossa che si toccano. La cartilagine articolare ha
circa 3 mm di spessore quindi la rima articolare, cioè la striscia nera alla radiografia, dovrebbe essere
mediamente di 6 mm.
0.1.7 Clinica
Dal punto di vista clinico la patologia si manifesta con:
• dolore
• tumefazione
• limitazione funzionale
• rigidità
• deformità determinata sia dalla rigidità sia dall’usura progressiva della cartilagine e dell’osso sub-
condrale.
0.1.8 Diagnosi
La diagnosi di artrosi è semplice: clinica e radiografica. Normalmente la clinica appare palese, tuttavia
esistono forme di dolore articolare che possono nascondere altre patologie, per cui non basta una semplice
diagnosi clinica, ma c’è bisogno del supporto di esami strumentali.
L’esame strumentale di elezione è l’esame radiografico standard. L’esame radiografico mostra quanto
descritto precedentemente: deformità, rima articolare assente, geodi, becchi osteofitari, addensamento
dell’osso sub condrale. Qualora servisse un esame di secondo livello3 quello indicato è la risonanza
magnetica.
0.1.9 Trattamento
Riguardo al trattamento dell’artrosi riconosciamo approcci che si sono dimostrati efficaci e per i quali ci sono
raccomandazioni forti. In ordine di priorità sono:
1. Riposo funzionale: ridurre cioè il livello di attività in caso di un atleta o di un lavoratore
2. Perdita di peso.
3 Il Consiglio Superiore di Sanità e del Ministero della Salute indicano l’ecografia come esame di secondo livello; nonostante ciò
l’ecografia non è utile per fare diagnosi di artrosi.
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Questi due approcci, nell’artrosi precoce, sono sicuramente gli interventi più efficaci sul dolore e sulla
progressione della malattia.
3. Terapia medica: i farmaci hanno efficacia esclusivamente sul sintomo e servono soprattutto a gestire
il dolore. Si usano
a. antinfiammatori solo nella fase infiammatoria acuta;
b. antidolorifici nella terapia di mantenimento cronica.
Questo perché gli antiinfiammatori non possono essere assunti per tempi prolungati ed è preferibile
scegliere dei farmaci che hanno effetti collaterali minori rispetto agli antinfiammatori. Normalmente
il farmaco di prima scelta è il paracetamolo associato o meno a derivati della morfina.
4. Terapia fisica: l’esercizio fisico migliora la performance muscolare aumentando la capacità di
assorbimento e distribuzione dei carichi e mantiene la mobilità evitando che l’articolazione diventi
progressivamente rigida.
5. Chirurgia: il trattamento chirurgico non è la prima scelta ma si considera quando tutto il resto non
ha funzionato o quando il paziente arriva ad uno stadio avanzato di malattia.
Una terza misura terapeutica integrativa è l’acido ialuronico per uso locale sul quale non c’è un’evidenza
molto chiara: sembra che attraverso un effetto di visco-supplementazione favorisca una migliore
lubrificazione dell’articolazione e quindi minore attrito e minore usura.
0.1.10 Chirurgia
Quando l’articolazione ha già raggiunto un danno molto avanzato e le misure terapeutiche conservative non
funzionano, si opta per la chirurgia, che nella maggior parte dei casi è di tipo sostitutivo. Prima di procedere,
è necessario fare un’accurata valutazione costi/benefici, perché (soprattutto in pazienti giovani) la protesi
potrebbe non resistere al paziente4 (vedi dopo).
La superficie articolare viene sostituita con una superficie metallica; naturalmente non si può sostituire solo
la superficie, perché non avrebbe stabilità, ecco perché le sostituzioni sono molto più ampie della zona affetta
da malattia.
Nel caso dell’anca, ad esempio, se si sostituisce solo la testa del femore, dopo un po’ si stacca, quindi si utilizza un
grosso fittone che viene inserito nel canale diafisario e che ne mantiene la stabilità per lungo tempo. Le superfici delle
protesi sono di metallo, la maggior parte sono fatte di una lega di cromo, cobalto e molibdeno, sono specchiate per
ridurre l’attrito e si interfacciano con un'altra superficie che non è di metallo perché viene rivestita da una superficie
di polietilene. Questo accoppiamento tra un materiale metallico e un materiale plastico, o tra un materiale ceramico
e un materiale plastico, garantisce il minor attrito possibile.
Le protesi non durano per sempre, il rischio è che si vada progressivamente verso un’usura o uno scollamento
della protesi. Gli impianti hanno una sopravvivenza variabile. Si calcola una sopravvivenza a 20 anni elevata
4 Simpatico modo per esprimere che se si impianta una protesi a cinquant’anni è molto probabile dover eseguire un nuovo intervento
per sostituirla con una nuova di zecca.
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nel caso di protesi a livello degli arti inferiori (95-98% nel caso di protesi d’anca; 90-92% per il ginocchio);
sulle protesi di spalla è necessario calcolarla a 15 anni per avere percentuali così alte, in quanto queste protesi
non sono così all’avanguardia.
Domanda di uno studente: in base a quale criterio si sceglie tra una protesi cementata e una non cementata?
Non c’è una grossa differenza nel risultato per la stabilità dell’impianto, quello che cambia in modo sostanziale è la
gestione dell’esito nel caso in cui la protesi si dovesse mobilizzare: infatti rimuovere una protesi cementata è
decisamente più difficile, non è tanto difficile rimuovere la protesi quanto rimuovere il cemento quando entra nel
canale. In linea di massima oggi si tende a non cementare le componenti protesiche che hanno uno stelo, mentre dove
la protesi ha più componente di superficie (come nel caso della protesi del ginocchio) dove il rischio di micromovimento
è maggiore allora si preferisce cementare. L’altro vantaggio sono i materiali più moderni soprattutto la struttura della
superficie non cementata; un tempo bisognava aspettare che l’osso ricrescesse dentro quindi il paziente con protesi
non cementata poteva essere messo in piedi molto tardi o comunque con un carico protetto. Oggi si va verso un
percorso veloce, il paziente viene messo in piedi la sera stessa dell’intervento al massimo la mattina successiva perciò
si cerca di avere l’impianto più stabile possibile. Le protesi non cementate si usano ma devono essere molto stabili,
questo significa che l’incastro deve essere perfetto; se il canale è troppo grande la protesi si muove e diventa dolorosa
allora è preferibile cementare. In linea di massima si cementano le superfici e non si cementano i canali.
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Un tempo non si conosceva l’importanza delle strutture legamentose nel prevenire l’artrosi e fino agli anni
’70 -‘80 le ricostruzioni legamentose del ginocchio erano un fatto eccezionale, si facevano delle plastiche di
rinforzo extra articolare ma non si ricostruivano i legamenti e non si ripristinava l’anatomia normale del
ginocchio. Si può vivere senza crociato anteriore a condizione che accettiamo il rischio dell’artrosi. Non si
può, invece, fare sport con il crociato anteriore rotto.
È importante comunicare al paziente che l’artrosi può cominciare in un compartimento ma poi coinvolgere
progressivamente tutto il ginocchio, quindi un ginocchio varo artrosico progressivamente coinvolgerà tutta
l’articolazione.
0.2.1 Classificazione
Da un punto di vista strumentale si distinguono quadri diversi di gravità ed esistono diverse classificazioni
per definirli. La più conosciuta è quella di Kellgren-Ahlback, esclusivamente radiografica:
La situazione degenera quando la deformità diventa a sua volta causa di lesioni. Un ginocchio varo o valgo,
per via dell’usura e della disomogeneità ossea, tende a peggiorare progressivamente il proprio difetto,
stirando le strutture legamentose al punto tale da cedere. Una lesione legamentosa è causa di instabilità, che
a sua volta è causa di artrosi.
Si innesca un circolo vizioso che porta rapidamente ad un peggioramento delle condizioni radiografiche, fino
ad arrivare a situazioni tali per cui il paziente non è più in grado di stare in piedi e di camminare in quanto il
ginocchio si apre; è, dunque, costretto a stare in sedia a rotelle o a vivere con un tutore di protezione.
I danni cartilaginei riscontrati nella fase più precoce possono essere trattati con delle tecniche più
conservative utilizzando degli innesti osteocondrali da altre sedi o membrane di collagene che rivestono la
zona del danno (approfondite nella lezione che tratta l’osteocondrosi).
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In caso di artrosi, però, si verifica un danno distrettuale che coinvolge tutta l’articolazione, non un danno
focale della cartilagine: se si trattasse solo il danno focale della cartilagine, l’intervento sarebbe destinato a
fallire.
Se il danno è stato provocato da una condizione predisponente all’artrosi (ginocchio varo, valgo, lesione
legamentosa oppure asportazione di un menisco) è necessario correggere la causa scatenante l’artrosi,
altrimenti la semplice correzione del danno cartilagineo si tradurrà in un fallimento. Quindi le lesioni
legamentose vanno ricostruite e in presenza di un difetto di allineamento va fatta una correzione dell’asse
meccanico.
In condizioni ideali una linea passante per il centro della testa del femore e
per il centro della caviglia deve passare per il centro del ginocchio; più
precisamente per un punto che sta al 62,3% rispetto alla tangente al piatto
tibiale. Di fronte ad un ginocchio varo o valgo, il centro del ginocchio sarà
spostato: con l’intervento si corregge l’asse della tibia o del femore per
riportare l’asse anatomico parallelo all’asse meccanico.
Figura B: osteotomia in addizione mediale. Si crea un’apertura nella tibia e si divarica la linea di
osteotomia, formando un cuneo in apertura vuoto: questo spazio viene riempito di osso oppure viene
lasciato vuoto e si attende che ricresca da solo; anche in questo caso il risultato è una valgizazzione della
tibia, ma non viene toccato il femore. Sarà necessario aspettare che l’osso in sede si rigeneri e per un
periodo prolungato deve essere evitato il carico (almeno due mesi), perché questa zona diventa a ridotta
resistenza come se fosse una frattura. Inoltre verranno applicati anche dei mezzi di sintesi, come una
cambra oppure una placca con delle viti, per stabilizzare l’osteotomia e aspettare che l’osso guarisca.
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Trattamento di un ginocchio valgo
Nel ginocchio valgo la deformità è prevalentemente femorale, quindi il ragionamento si
ribalta. Operando sul femore si esegue un’osteotomia di addizione laterale oppure
un’osteotomia di sottrazione mediale.
La correzione dell’asse sarebbe idealmente da fare in una fase di artrosi precoce o ancora prima, in presenza
di sindrome da sovraccarico in un ginocchio ancora sano. Il paziente ideale è un paziente giovane, 30 anni
con varismo o valgismo sintomatico dove l’artrosi non ha ancora provocato danni, in questo modo si
prevengono i danni da mal allineamento. Se i danni sono già iniziati, l’intervento di osteotomia può solo
evitare che peggiorino; la lesione e la sintomatologia persisteranno tanto quanto maggiore è il danno.
L’osteotomia è una tecnica chirurgica che si utilizzava prima dell’introduzione delle protesi; nonostante ciò,
oggi l’osteotomia rimane un intervento valido per prevenire la necessità di posizionare una protesi al
ginocchio. Se il paziente è giovane e il rischio di fare un secondo intervento dopo il posizionamento della
protesi è alto, è preferibile l’osteotomia. Con questa indicazione, la maggior parte dei pazienti che si
sottopone ad un intervento di osteotomia non farà mai la protesi.
Se, però, ci sono più fattori predisponenti all’evoluzione dell’artrosi, è necessario correggerli; pertanto il
paziente dovrà subire più di un intervento chirurgico. Per esempio, se un paziente oltre al ginocchio varo ha
anche una lesione legamentosa, si esegue la ricostruzione legamentosa e l’osteotomia. Se si fa una
ricostruzione legamentosa in un ginocchio varo senza correggere il varismo, il rischio di una nuova lesione del
legamento è molto alto e quindi fallisce la plastica legamentosa. Se viceversa in un ginocchio varo con una
lesione legamentosa associata si fa solo l’osteotomia, l’evoluzione artrosica rallenta ma non si arresta, quindi
il rischio di conversione in protesi è molto più alto.
➢ Protesi monocompartimentale
Una soluzione chirurgica sostitutiva poco invasiva è la protesi monocompartimentale: si
tratta di una protesi di rivestimento dove viene sostituito solo il compartimento in cui c’è
stato un danno. I pazienti la chiamano “mini-protesi”.
In caso di ginocchio varo si mette una protesi nel compartimento mediale e si sostituiscono
solo il piatto tibiale mediale e il condilo femorale mediale.
Esistono poi delle protesi che sostituiscono solo la femoro-rotulea per le artrosi isolate.
Questo tipo di chirurgia ha una popolarità in crescita perché si è visto che, se l’artrosi è veramente
monocompartimentale, è in grado di avere una sopravvivenza simile a quella della protesi totale; quindi la
conversione in protesi totale è bassissima.
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➢ Protesi totale
La protesi di rivestimento totale comporta un sacrificio della componente ossea decisamente maggiore. Ciò
che impatta maggiormente sul paziente è che nel momento in cui si posiziona un piatto di metallo che ricopre
tutto il piatto tibiale l’inserzione del legamento crociato anteriore viene inevitabilmente sacrificata. Molte
volte viene sacrificata anche l’inserzione del crociato posteriore. Si distinguono:
• protesi totale a conservazione: conserva inserzione crociato posteriore
• protesi totale a sostituzione: sostituisce anche il crociato posteriore
Se la stabilità dell’impianto è a rischio perché l’osso è troppo usurato e/o la componente legamentosa è stata
consumata, serviranno dei sistemi protesici più vincolati, a stabilità maggiore.
5 Esistono numerosissime tipologie di protesi al ginocchio e non tutte concordano sui metodi di stabilizzazione: questa frase è poco
chiara, tuttavia non sono riuscito a trovare informazioni esaustive a riguardo (se solo avessimo le slide…………)
6 Il tessuto osseo attorno alla protesi preesistente, solitamente di scarsa qualità, sarà modellato fino ad ottenere un piano di osso
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0.3 Osteonecrosi
Per osteonecrosi si intende un fenomeno di morte del tessuto osseo; gran parte delle cause derivano da
fenomeni ischemici. Il quadro risulta differente in base all’età del paziente:
• necrosi in età infanto-giovanile: la probabilità di successo di una riparazione è molto alta, soprattutto
se la necrosi è di natura settica;
• quando la necrosi avviene in età adulta vi è un aumentato rischio di formazione del “vallo
connettivale7” che isola la zona necrotica da quella sana, pertanto sarà difficile intervenire attraverso
un intervento di riparazione.
Se l’evento ischemico colpisce l’osso epifisario8 la frammentazione dell’osso necrotico potrebbe determinare
la distruzione della superficie articolare, condannando il paziente ad un’artrosi post necrosi.
Il periodo che intercorre tra lo sviluppo di necrosi e il successivo recupero osseo si caratterizza per una
compromissione significativa della funzionalità del tessuto: si tratta della fase più delicata della malattia in
cui l’osso, essendo fragile, si può frantumare.
A sinistra è possibile osservare una struttura lamellare di un osso maturo (secondario), a destra la struttura
scompaginata di un osso necrotico sia nella parte corticale che midollare.
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0.3.2 Patogenesi
La patogenesi della necrosi è fondamentalmente di origine ischemica; anche se le cause possono essere
diverse:
• vascolarizzazione distrettuale;
• fattori meccanici: dipendenti da come il carico viene trasmesso in una determinata zona, dove lo
stress può provocare un’alterazione del microcircolo;
• condizioni patologiche: plastiche o infettive in grado di ostruire il circolo in un determinato distretto
e provocare ischemie.
➢ Necrosi idiopatica
La necrosi idiopatica ha una patogenesi non nota, ma è sempre correlata ad un disturbo del microcircolo ed
è sempre di origine ischemica. Può essere collegata ad altre condizioni predisponenti, anche se il meccanismo
causa effetto non è stato mai dimostrato. Più frequentemente è associata a una storia di etilismo o ad una
condizione di aterosclerosi, dislipidemie, iperuricemia, microtraumi ripetuti da lavoro o alterazioni della
coagulazione che possono provocare occlusione e piccole necrosi localizzate.
Sedi preferenziali: testa del femore, condilo femorale, osso semilunare (a livello della mano) ed epifisi
prossimale (testa) di omero e radio.
Di fronte a un dolore ingravescente, che evolve in dolore acuto e violento spesso notturno, bisogna sempre
pensare alla necrosi ischemica, qualunque sia il distretto anatomico.
- Nella fase iniziale è negativo sia nella forma idiopatica che in quella secondaria: pertanto, davanti a
una radiografia negativa correlata a forte sospetto clinico, è sempre opportuno associare un esame
di secondo livello, in particolare la risonanza magnetica. La risonanza magnetica è in grado di
mostrare l’edema della spongiosa ossea, nella zona della necrosi, che è patognomonica di una
osteonecrosi in fase precoce.
- Nella fase tardiva la radiografia assume un aspetto abbastanza caratteristico:
o area radiopaca circondata da osso porotico: rappresenta tessuto necrotico addensato;
o linea di demarcazione radiotrasparente rispetto all’osso circostante (vallo connettivale);
o chiazze radiotrasparenti visibili solo nella fase di riabilitazione: rappresentano aree rarefatte
e porotiche in cui è presente rivascolarizzazione
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Nell’immagine è riportata una necrosi del semilunare, definito morbo di Kienböck (ho aggiunto sulla destra
un reperto RM, in cui appare chiara l’area di sequestro osseo).
Sedi preferenziali: il tessuto osseo è uno dei tanti tessuti coinvolti in questi fenomeni ischemici da embolia;
generalmente i tessuti più colpiti sono quelli con la componente lipidica più elevata: SNC, mesentere e
midollo osseo. Le zone epifisarie colpite sono prevalentemente la testa del femore e la testa dell’omero.
Spesso c’è una concordanza di tempi tra l’esordio clinico della malattia e la manifestazione all’imaging. Il
quadro radiologico mostra:
o aree di addensamento midollare: segno di depositi calcifici attorno all’area necrotica. Tali segni
possono anche comparire dopo 2-3 anni dall’episodio, trattandosi delle uniche forme che
compaiono a distanza di così tanto tempo dall’evento;
o immagine a “voluta di fumo”: distribuzione abbastanza irregolare lungo tutto il decorso della
diafisi.
9 Questo nome deriva dai numerosi incidenti da decompressione a cui andavano incontro gli operai che operavano nella fondazione
di moli od altre opere subacquee avvalendosi per l'appunto dei cassoni pneumatici; una sorta di enormi contenitori metallici o in
cemento armato di solito a forma di cubo, aperti nel lato inferiore (tipo la campana subacquea), dotati di un cilindro con scala interna
denominato camino che permette l'entrata e l'uscita del personale operativo ed il passaggio dei materiali di costruzione nel cassone
stesso e di una camera di equilibrio. Questo viene calato sul fondo (mare, lago, fiume ecc.) e riempito con aria compressa, la quale
espellendo l'acqua in esso contenuta, permette agli operai di scendere attraverso il camino nel cassone e svolgere i vari lavori
all'asciutto sul fondo. [Wikipedia]
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Necrosi post traumatica
Queste forme si verificano quando un evento (come una frattura) interrompe il circolo arterioso in una
circolazione terminale dove non c’è una rete anastomotica in grado di supplire. Il sangue non arriva più e
l’osso distalmente alla frattura va in necrosi.
La frattura deve avere una localizzazione topografica specifica, ovvero in un punto tale da provocare una
lacerazione delle strutture che garantiscono apporto ematico: periostio, capsula articolare e legamenti
articolari. Un esempio sono le fratture intracapsulari del collo del femore e le lussazioni dell’anca che
causano una lacerazione della capsula e dei vasi che portano il sangue alle strutture ossee.
Necrosi da cortisone
Si tratta di una condizione non rara. Il meccanismo non è noto, forse dovuta a una trombosi ostruttiva di
piccoli vasi arteriosi su base non dose dipendente (a quanto sembra). Sicuramente i soggetti che sono
stati sottoposti a dosaggi elevati di cortisone (in caso patologie mieloproliferative o linfoproliferative, o
traumi cranici in cui è necessario ridurre l’edema cerebrale) possono sviluppare a distanza di tempo questo
tipo di complicanza asettica.
Sedi preferenziali: testa del femore o della testa dell’omero. Purtroppo, queste forme sono multi-
distrettuali e non è raro vedere soggetti che sviluppano osteonecrosi a livello di entrambe le anche e di
entrambe le spalle.
La manifestazione clinica può essere tardiva. I pazienti a rischio sono giovani adulti, soprattutto maschi.
10È una tesaurismosi (gruppo di processi morbosi, classificabili fra le malattie lisosomiali, caratterizzati dall’abnorme accumulo di
determinate sostanze nelle cellule dei tessuti).
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sfingolipidi conseguente determina un loro incontrollato deposito anche a livello intravascolare,
provocando occlusione del microcircolo che si manifesta soprattutto a livello splenico, epatico e osseo.
La malattia si manifesta soprattutto in età infantile, con manifestazioni quali, ecchimosi e tendenza allo
sviluppo di emorragie, spossatezza, dolore alle ossa o, più frequentemente, una combinazione di questi
sintomi.
Sedi preferenziali: femore, soprattutto a livello della testa o della diafisi (dove compare una
“deformazione a fascia”).
La manifestazione clinica non è correlata all’età, può colpire soprattutto epifisi e metafisi inoltre non è
raro avere una sovra infezione di queste forme ostruttive. In questi pazienti bisogna sempre sospettare
che le necrosi siano accompagnate da una ulteriore complicanza osteomielitica.
➢ Necrosi settiche
Le necrosi settiche si manifestano a seguito di una colonizzazione batterica avvenuta quasi sempre per via
ematogena. Si distinguono due fasi:
- fase iniziale, caratterizzata da iperemia, essudazione e nidi ascessuali nel connettivo midollare;
- fase florida: gli ascessi confluiscono negli spazi midollari (canali di Havers), in sede subperiostale ed
endostale.
L'osteomielite tende a occludere i vasi sanguigni locali, causando necrosi ossea e diffusione locale
dell'infezione, la quale si può espandere attraverso la corticale ossea e diffondere sotto il periostio, con
formazione di ascessi sottocutanei che possono drenare spontaneamente attraverso la cute.
L’organismo reagisce all’evento settico circoscrivendo l’infezione creando un vallo fibroso: la zona morta non
è più riparabile dal tessuto circostante e, trattandosi di tessuto fibroso cicatriziale non vascolarizzato, la
terapia antibiotica somministrata per via sistemica è poco efficace. Queste osteomieliti devono essere
necessariamente trattate attraverso terapie chirurgiche molto aggressive e demolitive di asportazione
dell’intera zona necrotica, in quanto la probabilità che possa guarire spontaneamente è minima.
11 Unortopedico che spiega la fisiopatologia dell’anemia falciforme farebbe rabbrividire il mio amico Rizzo. [Non correggo perché non
vorrei mai tarpare le ali ad una poesia]
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0.3.4 Trattamento
- Antibiotico sistemico quando c’è una componente infettiva-settica.
- Sono disponibili anche mezzi fisici come la magnetoterapia, la camera iperbarica, le onde d’urto:
questi possono creare uno stimolo alla rivascolarizzazione e alla produzione ossea da parte delle zone
circostanti per riabilitare la zona malata.
- Se le tecniche precedenti non danno risultati oppure ci sono segni radiografici tipici di zona necrotica
e di frammentazione è preferibile intervenire subito per via chirurgica, attraverso interventi di:
• rivitalizzazione ossea: si possono effettuare
o perforazioni a livello del vallo, in modo da creare un canale di neovascolarizzazione.
o “core decompression”, tipicamente a livello del collo del femore: si fa un foro con un
carotatore che va fino all’interno della lesione; attraverso questo canale si dovrebbe
formare un nuovo canale di rivascolarizzazione capace di arrivare fino alla testa. A
volte, per dare un sostegno a questo sistema, si possono inserire dei chiodi di
materiale biologico come idrossiapatite e trifosfato di calcio arricchiti con qualche
fattore di crescita, per favorire la chemiotassi delle cellule multi-potenti dalla zona
sana verso la zona malata.
Dove ci sono delle zone più piccole (come nel caso delle necrosi del condilo femorale) il
trattamento è molto simile a quello delle osteocondrosi dissecanti ma meno invasivo: si
praticano micro-perforazioni con fili metallici molto sottili;
• osteotomia.
Durante la fase di riabilitazione e di recupero il paziente va protetto dal carico, in quanto il rischio
principale è che la zona necrotica si fratturi a causa della sua spiccata fragilità. Il protocollo post-
trattamento prevede, infatti, un mese di scarico completo seguito da un altro mese di carico parziale.
- Chirurgia protesica: necessaria quando si interviene troppo tardi e c’è già necrosi avanzata o
deformità osteonecrotica con la testa del femore appiattito.
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Lezione 5 del giorno 12/04/19 MODERATAX
Docente: Guido Zarattini
Argomenti: Coxartrosi, patologie della colonna vertebrale
1. ARTROSI
L’artrosi è una malattia degenerativa delle articolazioni che colpisce la cartilagine articolare e
successivamente l’osso subcondrale, la sinovia e l’apparato capsulo legamentoso.
I capi articolari delle articolazioni mobili (diartrosi) sono ricoperti da cartilagine ialina (cartilagine articolare),
le cui funzioni rispecchiano l’istologia del tessuto:
- favorire lo scorrimento tra i capi articolari, riducendo l’attrito: la porzione più superficiale (strato
tangenziale) è molto levigata in superficie in quanto priva di pericondrio ed è costituita da cellule
allungate (ovoidali, con asse maggiore tangenziale alla superficie libera);
- ammortizzazione: la porzione più profonda è costituita da condrociti con organizzazione colonnare
tale riportare i microtraumi e gli urti all’osso subcondrale. Procedendo in profondità assumono una
forma globosa sono dapprima disposti ad arco (strato intermedio), poi riuniti in gruppi isogeni
allungati e orientati perpendicolarmente all’osso subcondrale (strato radiale).
Con l’avanzare dell’età la distribuzione dei condrociti si fa più irregolare negli strati tangenziale e intermedio e la
matrice della parte più profonda dello strato radiale è mineralizzata (strato calcificato)1.
La cartilagine è una struttura polarizzata composta per lo più da acqua e presenta una componente cellulare
compresa tra il 3% ed il 5%, tra le sue componenti più importanti abbiamo i proteoglicani, che la rendono
particolarmente idrofila. I proteoglicani vengono definiti anche ‘spugna molecolare’ in quanto grazie alle loro
cariche negative permettono la scissione e il legame con le molecole d’acqua. Esaminando la deambulazione
si osserva che:
1. durante la fase di appoggio, la pressione esercitata sull’articolazione (ginocchio ,tibio- tarsica, coxo-
femorale) fa fuoriuscire l’acqua dalla cartilagine articolare;
2. durante la fase di “ristoro” (in cui si solleva l’arto) i proteoglicani vengono reidratati.
1 Le parti in corsivo sono tratte da Istologia (P. ROSATI), che mi ero giurato di non riaprire più, ma per voi questo ed altro, ndm
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Poiché trovo assurdo parlare di artrosi senza affrontare la sua fisiopatologia, qui trovate un riassunto tratto dal sito osmosis.org e
da msdmanuals. Il prof non ha detto nulla a riguardo, quindi se non avete voglia saltate pure alla prossima pagina, ndm.
Fisiopatologia
L’artrosi è un processo degenerativo che colpisce le articolazioni
mobili (diartrosi). Esse sono fisiologicamente costituite da due
superfici articolari ricoperte da cartilagine ialina (cartilagine
articolare), racchiuse all’interno di una struttura connettivale
fibrosa a forma di manicotto (capsula articolare) che ha il compito
di mantenerle in sede. La capsula articolare esternamente è formata
da una membrana fibrosa , mentre all’interno presenta la
membrana sinoviale, costituita da due ordini di cellule:
- tipo A: svolgono la funzione di rimuovere i detriti;
- tipo B: secernono e riassorbono il liquido sinoviale,
sostanza incolore e vischiosa il cui ruolo è quello di
mantenere lubrificata l’articolazione.
Fisiologicamente, dunque, le superfici articolari scivolano dolcemente l’una sull’altra e non si usurano.
La cartilagine ialina è priva di vasi sanguigni e linfatici e di nervi: è costituita per il 95% da
acqua e da matrice cartilaginea extracellulare e solo per il 5% da condrociti, i quali hanno
il ciclo cellulare più lungo dell'organismo (simile al sistema nervoso centrale e alle cellule
muscolari).
La salute e la funzione della cartilagine dipendono dalla sua compressione, dalla riduzione del carico e dal suo utilizzo: la compressione
provoca lo spostamento del liquido dalla cartilagine allo spazio articolare e all'interno di capillari e venule, mentre la riduzione del
carico consente alla cartilagine di espandersi nuovamente, iper-idratarsi e assorbire i nutrienti e gli elettroliti necessari.
I condrociti sono deputati a mantenere un equilibrio tra la produzione di enzimi anabolici e di enzimi catabolici: una rottura di questo
delicato equilibrio innesca il processo artrosico. Nella maggior parte dei casi si tratta di un danno tissutale da lesione meccanica (come
una lesione meniscale). I condrociti, attivati dal danno, si attivano in senso riparativo e iniziano a produrre proteoglicani e collagene
(in particolare collagene di tipo I, il quale fa perdere progressivamente l’elasticità caratteristica della cartilagine).
Se il processo di mantiene nel tempo, i condrociti vanno progressivamente incontro ad apoptosi e la cartilagine diviene sempre più
debole e meno elastica. La cartilagine si fissura e piccoli frammenti, definiti artrofiti (joint mice) invadono lo spazio articolare: questi
vengono fagocitati dalle cellule sinoviali di tipo A, le quali richiamano cellule dell’immunità secernenti citochine infiammatorie. Il
risultato è l’infiammazione anche della membrana sinoviale (sinovite).
La progressiva distruzione della cartilagine articolare porta al contatto tra le ossa subcondrali: l'osso esposto diviene eburneo e
sclerotico, sviluppa cisti subcondrali. e osteofiti ai margini articolari (forse nel tentativo di stabilizzare l’articolazione).
Tendini e legamenti periarticolari sono sottoposti a sollecitazioni, portando a tendiniti e retrazioni. Con la riduzione della mobilità
articolare, i muscoli circostanti si assottigliano e divengono meno atti al sostegno.
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L’artrosi viene distinta in:
1) Primitiva, dovuta a:
a. forme idiopatiche,
b. fattori vascolari, meccanici (responsabili dell’artrosi della coxo-femorale), immunologici e
genetici predisponenti,
c. invecchiamento.
2) Secondaria a traumi, displasia congenita dell’anca, artrite, osteonecrosi, morbo di Paget,
osteocondrite.
L’artrosi può essere classificata in lieve, moderata e severa secondo la classificazione di Kellgren-Lawrence.
Clinicamente l’artrosi si presenta con dolore a cui segue limitazione funzionale ed infine anchilosi, ovvero
annullamento dei movimenti dell’articolazione coinvolta.
Può succedere che durante la fase artrosica ci siano acuzie di malattia che sono artriti su base infiammatoria.
1.1 COXARTROSI
L’ampia testa del femore (diametro 40-60 mm) è rivestita da uno spessore di 2 mm di cartilagine ialina, ad
eccezione della «fovea», sede di inserzione del legamento intracapsulare (legamento rotondo del femore) che
collega direttamente l’acetabolo alla testa del femore. Questo legamento, per quanto resistente, non ha
rilevanti funzioni meccaniche, ma è essenziale per la vascolarizzazione della testa del femore, specialmente
durante l’accrescimento: al suo interno transita un ramo dell’arteria otturatoria, spesso obliterata nell’adulto.
Durante l’appoggio bipodalico il peso corporeo risulta distribuito sulle due articolazioni. Tuttavia esistono
condizioni limite di appoggio monopodalico nelle quali la forza applicata può raggiungere valori superiori a 7
volte il peso corporeo. In ogni caso si tratta di sollecitazioni di presso-flessione che interessano le strutture
ossee ma anche di forze d’attrito che si generano sulle superfici articolari a contatto
Anche una persona che conduca una vita sedentaria applica il proprio peso su ciascuna gamba 5-10*103 volte
al giorno2, il che vuol dire più di 106 volte all'anno.
2Se si considerano gli studenti di medicina in sessione, questo valore scende spaventosamente. Se aggiungiamo la quarantena
andiamo sotto zero.
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1.1.2 Classificazione
Può essere:
➢ Primitiva
➢ Secondaria a:
o patologie dell’infanzia quali:
▪ LCA (lussazione congenita dell’anca)
▪ DCA (displasia congenita dell’anca)3, dovuta ad un difetto
anatomico a carico dell’articolazione dell’anca (in
particolare dell’’acetabolo). Si è compreso rapidamente
che una diagnosi precoce poteva portare ad una
risoluzione agevole di questo problema, pertanto già a
partire dagli anni ’60 a tutti i neonati veniva eseguita la
manovra di Ortolani e dal ’78 in poi hanno iniziato con le
ecografie. Purtroppo nei paesi più poveri non è una pratica comune fare prevenzione per
questa patologia: capita di visitare pazienti extracomunitari con i femori che si articolano
a livello delle are e iliache, e questa condizione, essendo meccanicamente ed
anatomicamente sbagliata, necessita di un intervento che è piuttosto complesso.
o Osteonecrosi della testa del femore (necrosi asettica o avascolare): per via della sua peculiare
anatomia, la testa del femore è il sito osseo che più facilmente va incontro ad osteonecrosi (si
stima che circa vi siano circa 15.000 casi ogni anno solo negli Stati Uniti). Questo fenomeno si
verifica per interruzione dell’apporto ematico, in seguito ad eventi traumatici, quali:
▪ frattura del collo del femore, specialmente in soggetti anziani: poiché il rischio di
sviluppare osteonecrosi a seguito del trattamento è estremamente elevato (80%), si
preferisce sempre intervenire direttamente con un artroprotesi chirurgica. Nel paziente
giovane (20-40 anni) il rischio post trattamento è decisamente più basso (20%);
▪ lussazioni posteriori dell’anca: il trattamento prevede una riduzione, pratica che può
portare a lesione dei vasi circonflessi mediale e laterale, data la loro spiccata fragilità.
3 Diversi siti riportano che “lussazione congenita dell’anca” e “displasia congenita dell’anca” sono due espressioni diverse per
descrivere la stessa patologia, sebbene il professore le consideri distinte.
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La diagnosi di necrosi viene fatta solitamente con RMN: si tratta di una metodica fondamentale,
specialmente nei primi stadi. È, infatti, in grado di evidenziare aree di necrosi ancor prima che
si manifesti la sintomatologia dolorosa (ad esempio nell’anca controlaterale).
1.1.3 Clinica
Il segno dirimente è il dolore inguinale, irradiato lungo la porzione interna della coscia fino al ginocchio (area
innervata dai rami sensitivi dei nervi femorale ed otturatorio che si distribuiscono anche alla capsula articolare
dell'anca). Spesso il dolore si localizza in regione trocanterica (punto di inserzione del medio gluteo) o glutea
con irradiazioni alla regione lombare; non mancano casi in cui è avvertito unicamente al ginocchio.
Il paziente, inoltre, non riesce più a svolgere movimenti di flessione (mettersi le scarpe, mettersi i calzini,
allacciarsi le scarpe). Talvolta può capitare che un paziente si presenti con artrosi dell’anca e anche del
ginocchio (che solitamente si presenta con un dolore irradiato all’anca), in questo caso va trattata prima la
malattia più prossimale, quindi l’artrosi dell’anca. Altro segno comune è il dolore provato quando si sta molto
tempo in piedi o nelle fasi iniziali di un movimento, chiamato ‘start up’: se si sta seduti e poi ci si alza dalla
sedia si prova dolore ai primi passi, ma nei movimenti successivi il dolore viene meno.
Questa condizione dolorosa porta il paziente a muoversi di meno, generando atrofia muscolare e deficit di
forza; secondo alcune teorie (non accreditate da studi scientifici) per questa ragione, specialmente nel
paziente anziano, è necessario mettere subito una protesi all’anca per evitare una possibile metaplasia del
muscolo in tessuto fibroso non più contrattile.
Dunque, il deficit del muscolo medio gluteo associato a dolore all’anca è indice di una patologia di pertinenza
coxo-femorale (piuttosto che della colonna vertebrale).
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Drop leg test4
Si tratta di un test clinico per valutare il deficit del medio gluteo.
Viene eseguito con il paziente in decubito laterale. Il terapista
abduce passivamente la gamba sovrastante portandola al massimo
range articolare in abduzione e successivamente in estensione di
20°. Viene chiesto al paziente di mantenere la posizione di
estensione-abduzione una volta che il terapista toglierà il proprio
supporto manuale. Ponendo l’arto in estensione (oltre che in
abduzione) viene aumentata la sensibilità del test nell’identificare
deficit muscolari non individuati invece valutando il muscolo con
l’anca in posizione neutra o addirittura flessa!
Con una debolezza delle fibre posteriori del medio gluteo si noterà un’incapacità del paziente nel mantenere la gamba
nella posizione abdotta-estesa, con una caduta (drop) della stessa di qualche grado/centimetro.
Bisogna inoltre valutare la mobilità dell’articolazione, normalmente abbiamo una flessione di 135°,
un’estensione di 20°/30°, un’adduzione di 30° e abduzione circa di 50°, un’extra rotazione di 45° e
un’intrarotazione di 35°.
4 Tratto da https://www.ilcoach.net/fattori-contribuenti-il-medio-gluteo/
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La rotazione interna e la rotazione esterna possono essere anche valutate con il femore
in flessione.
Il blocco del movimento non è solo di natura antalgica ma anche meccanica, a causa della
formazione di un osteofita anteriore a livello dell’acetabolo che blocca i movimenti della
testa e del collo del femore.
È importante valutare anche la forza perché il paziente tenderà ad utilizzare meno la muscolatura dello psoas
e del quadricipite. Deficit di forza sono presenti in alcune malattie come l’ernia del disco L3-L4, accompagnata
da cruralgia.
quindi viene fatta una flessione contro resistenza, un’abduzione contro resistenza e infine un’adduzione
contro resistenza.
La radiografia è l’esame di prima scelta per fare diagnosi di artrosi, raramente servono esami radiologici di
secondo livello. In essa si può notare:
1) Restringimento della rima articolare: la cartilagine appare nera all’RX e, dal momento che in questi
casi si consuma, vedremo che le due parti bianche si avvicinano talmente tanto che sembrano un
tutt’uno
2) Sclerosi subcondrale: Quando l’osso inizia a scontrarsi contro l’altro osso, inizia un processo di
rimodellamento con attivazione di osteoclasti e osteoblasti, non particolarmente organizzato, tale per
cui l’osso per non “rovinarsi” ulteriormente diventa più duro, più sclerotico. Diventa molto difficile da
scalfire, è appare molto bianco nella RX.
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A sx è presente un’anca (abbastanza) sana, a dx patologica.
Il professore racconta di uno studio fatto in Svezia di anni fa, dove pazienti in nota operatoria per interventi
di protesi stati sottoposti a sedute di stretching intensivo hanno avuto uno spostamento dell’intervento di
18 mesi
Domanda di uno studente: “Maratoneti, o in generale, persone sportive, hanno più o meno rischio di
sviluppare artrosi?” Non esistono ancora studi che diano risposte certe a riguardo. Gli americani hanno fatto
studi sui giocatori di football professionisti, e forse lo sport ad alto impatto potrebbe non essere un fattore
protettivo. In generale gli sportivi hanno più rischio di sviluppare anche altre patologie, per esempio su 36
giocatori della Juventus under 14 ben 7 si sono fratturati il crociato
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Terapia fisica sintomatica
• Controllo della sintomatologia dolorosa (diatermia, elettroterapia antalgica)
• Trattamento della eventuale sovrapposizione flogistica articolare o periarticolare
Provvedimenti ortesici
• Calzature con fondo morbido che possano ammortizzare il carico
• Evitare tacchi alti
• Compenso delle dismetrie (parziale)
Terapia farmacologica
È impiegata per controllare il dolore. Nelle fasi acute si utilizzano FANS (es. in caso di artrite su artrosi), per il
dolore subclinico, invece, si usa il paracetamolo. Negli ultimi anni, soprattutto in America, si usano gli
oppiacei che, però, generano dipendenza.
Esistono anche alcuni integratori come la glucosamina solfato e l’acido ialuronico (che agiscono come
condroprotettori) che, assunti per via orale, danno dei benefici.
Inoltre, nei casi lievi e moderati, esiste la possibilità di fare infiltrazioni a livello dell’anca con acido ialuronico.
Tale iniezione è più difficile rispetto a un’infiltrazione a livello del ginocchio, perché l’anca è un’articolazione
profonda. Sarebbe, dunque, preferibile avvalersi di strumenti di imaging (il gol standard è rappresentato da
un’esecuzione ecoguidata). In passato si credeva che, dal momento che l’articolazione dell’anca è molto
serrata, iniettando acido ialuronico all’interno della capsula, si potesse determinare un aumento della
pressione tale da portare alla trombizzazione dei vasi e, quindi, alla necrosi della testa del femore. In realtà
non ci sono dati che supportino questa tesi. In ogni caso, l’infiltrazione, viene comunque effettuata raramente
perché non ci sono punti di repere precisi.
L’acido ialuronico si comporta semplicemente come un lubrificante a livello articolare, non ha altri effetti.
Per quanto riguarda l’utilizzo di plantari non esistono evidenze di classe 1 a favore, in alcuni casi sono
addirittura deleteri, solitamente i pazienti stanno meglio con scarpe da ginnastica ben ammortizzate.
L’artroprotesi deve essere presa in considerazione nei pazienti con evidenza radiografica di OA dell’anca e
che presentano dolore e disabilità refrattari ad altre terapie da tempo.
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Ad oggi la chirurgia protesica rappresenta la migliore terapia
chirurgica e viene impiegata quando i trattamenti conservativi
ormai non sono più efficaci. È stata inventata negli anni 60’ dal
chirurgo inglese John Charnley, e ancora oggi le protesi che si
utilizzano non sono troppo diverse da quelle inventate dall’english
boy. La protesi è composta da:
- una componente femorale, detta stelo: questa viene
inserita all’interno del canale midollare del femore (può
essere cementato o meno); sullo stelo viene fissata una
testina, che mimerà la testa del femore;
- una componente cotiloidea, costituita da un acetabolo
metallico (coppa o metal back) e un inserto, che può essere di diverso materiale.
La procedura coinvolge, dunque, sia l’acetabolo sia il femore: sezionate testa e collo del femore,
1. si fresa il canale femorale, all’interno del quale si inserisce lo stelo.
2. L’acetabolo viene fresato e modellato in modo da poter accogliere la coppa.
Fresando l’acetabolo e il canale femorale il paziente può perdere fino ad 1 L di sangue durante l’intervento.
Gli steli protesici possono essere cementati o non cementati definiti a ‘press fit’ ovvero ad incastro.
La protesi cementata costa circa la metà di quella a press fit, e secondo i dati hanno la stessa longevità.
Nonostante ciò, probabilmente per motivi commerciali, in paesi come l’America non sono molto diffuse le
protesi cementate, al contrario in nord Europa la tendenza è quella di usare quasi sempre il cemento.
Processo fondamentale per la buona riuscita dell’intervento è la fissazione: la fissazione primaria è ottenuta
durante l’impianto, mentre la fissazione secondaria è il risultato della riparazione e del rimodellamento osseo
che avvengono durante il processo di “guarigione. Pertanto, se la forma della protesi garantisce una buona
stabilità primaria, il successo a lungo termine di un impianto protesico è legato all’ottenimento della stabilità
biologica secondaria, possibilmente con integrazione ossea (riducendo al minimo lo spazio tra protesi ed
osso).
➢ Uno stelo non cementato ottiene la stabilità primaria a incastro nel canale midollare. Nella versione
a press fit c’è bisogno di almeno 1 mese per ottenere la formazione di callo osseo a livello protesico
ottenendo così una stabilizzazione secondaria.
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➢ Diversamente, nello stelo cementato la stabilità primaria e secondaria avvengono nello stesso
momento: il cemento ingloba lo stelo protesico e si incastra nel tessuto nel tessuto osseo. In
particolare, il cemento ha il compito di fissare le protesi articolari alla struttura ossea e possiede una
funzione riempitiva (non forma legami chimici né con l’osso, né con la protesi)
Chimicamente il cemento acrilico appartiene alla categoria delle resine acriliche autoindurenti che in
fase di polimerizzazione sono dotate di proprietà plastiche (in grado di riempire adeguatamente lo
spazio tra osso e protesi), mentre terminata la polimerizzazione induriscono aumentando le loro
caratteristiche meccaniche (rigidezza e resistenza). Il cemento che viene utilizzato è il poli-metil-
meta-acrinato (PMMA), un materiale che non dà reazioni infiammatorie da rigetto o altre condizioni
patologiche. Il suo tempo di catalizzazione dura dai 7 ai 12 minuti, successivamente la protesi rimane
stabile per anni.
In linea generale nel paziente anziano si preferisce cementare e nel giovane si preferisce la protesi a press fit.
Il problema della cementazione è che se in un secondo momento dobbiamo operare nuovamente il paziente
diventa difficile rimuovere la protesi. Nel paziente osteoporotico (e quindi tendenzialmente anziano) non
conviene mettere una protesi a press fit in quanto richiede una fresatura generosa, la protesi si deve dunque
impiantare sul tessuto osseo corticale che in questi pazienti risulta più sottile e fragile, aumentando il rischio
di fratture intraoperatorie.
È importante stabilire il grado di osteoporosi: uno dei metodi indiretti è osservare la misura dello spessore
corticale; esiste un indice che mette in correlazione la misura dello spessore corticale con la misura della parte
interna del canale midollare. Se è inferiore 1,25 si opta per una protesi non cementata, se superiore di 1,25
per quella cementata.
Esistono protesi composte con diversi materiali in continuo miglioramento (attualmente vengono arricchiti
con vitamina E5, potente antiossidante naturale). Il gold standard è rappresentato da una protesi con testina
5 L’uso del polietilene ad altissimo peso molecolare e altamente reticolato ha il vantaggio dell’elevata resistenza all’usura. Tuttavia,
il processo di produzione di tali materiali prevede uno stadio di fusione (il cui scopo è ridurre la formazione di radicali liberi in seguito
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di metallo che si articola con un inserto in polietilene che viene incastrato nel metal head. Esistono anche
protesi inventate successivamente con una testina in ceramica che si articola con un inserto in polietilene
oppure protesi con la testina in ceramica che si articola con un inserto in ceramica. Ognuno di questi
accoppiamenti protesici ha vantaggi e svantaggi: ad esempio le componenti in ceramica sono fragili, e nel
caso in cui il paziente inciampi si rompono, ma in compenso sono meno soggette all’usura, mentre il
polietilene nel tempo si usura e rilascia molecole che sono tossiche.
Sono state inventate anche delle protesi con accoppiamento metallo-metallo, ma sono state un fallimento
in quanto creavano una reazione ionica generando uno pseudotumor, simil tubercolare, a livello del nostro
organismo.
Recentemente sono state studiate delle nuove ceramiche più resistenti, che per ora sembrerebbero essere
l’alternativa migliore, ma non abbiamo ancora dati a riguardo visto che il follow up di questi pazienti è
piuttosto lungo, tenendo conto che una protesi dura circa 20-25 anni.
Durata e usura
La durata di una protesi dipende dalle richieste funzionali e da altri fattori meccanici e biologici.
I fattori che determinano un fallimento sono:
• Lussazione
• Mobilizzazione correlata all’usura delle componenti
• Malposizionamento
• Frattura
• Rottura dei capi protesici
• Formazione di calcificazioni periprotesiche
• Usura
Come si evince dal grafico, dopo circa 10 anni appaiono i primi problemi.
Secondo i dati, la durata media di una protesi è di circa 18 anni, questo perché ogni persona ha abitudini
diverse. In generale la protesi funziona come una macchina, se facciamo 500000 km in tre anni è da buttare,
se facciamo solo 10000km ci durerà di più. I motivi per cui una protesi può fallire sono la lussazione e la
mobilizzazione6.
all’irraggiamento di reticolazione), che diminuisce però la cristallinità del materiale e con essa la resistenza alla fatica del costrutto
finale, specie sotto carichi ineguali. In anni recenti è stato proposto l’uso della vitamina E, un potente antiossidante naturale, subito
dopo il passaggio di reticolazione del polietilene e al posto della fusione del materiale. La vitamina E fungerebbe da scavanger di
radicali liberi, neutralizzandone gli effetti nocivi sulla struttura polimerica del polietilene responsabili della riduzione delle proprietà
meccaniche.
6 Negli anni è stata migliorata anche la fissazione all’osso della protesi con l’utilizzo di metalli rivestiti di idrossiapatite o titanio
trabecolare, ovviamente gli ingegneri svolgono un ruolo fondamentale nella ricerca e sviluppo di nuovi materiali e protesi.
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L’usura, in particolare della componente in polietilene, è una delle cause principali di mobilizzazione. Nel
tempo, il polietilene che si sta usurando, inizia a rilasciare delle molecole con forma appuntita, dette “spire”,
che vengono riconosciute come non-self dal nostro organismo. Segue un’attivazione dei macrofagi che
fagocitano queste molecole e tentano di digerirle con gli enzimi lisosomiali senza successo. Successivamente
le spire fagocitate bucano i macrofagi facendo uscire gli enzimi lisosomiali che digeriscono la componente
ossea intorno allo stelo e superiormente: si ha riassorbimento osseo, con conseguente mobilitazione
asettica. Anche lo scorretto posizionamento della protesi favorisce un’usura più precoce.
In una condizione del genere non vi è un “bone stock” sufficiente per martellare un’altra protesi press fit: si
utilizzano delle protesi dette ‘di revisione’ che si inseriscono distalmente, ovvero a livello del ginocchio. Per
questo motivo, specialmente per quanto riguarda le protesi in polietilene, è necessario controllare
periodicamente il grado di usura, per evitare il fenomeno di osteolisi e mobilizzazione della protesi. Si
consiglia di fare una radiografia all’anno dopo 5-6 anni dall’intervento. Se si riscontra usura prima che
avvenga l’osteolisi basterà semplicemente cambiare l’inserto in polietilene (stelo e cotile vengono
mantenuti): si tratta di un’operazione poco invasiva che dura 30 minuti circa, che permette di evitare gli
interventi di revisione (molto invasivi e complessi).
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Abbiamo anche un accesso anteriore mini-invasivo (incisura di 8cm contro i 20 cm di un acceso standard). I
vantaggi sono:
• Risparmio dei tessuti
• Cicatrice ridotta
• Minore perdita ematica
• Minore dolore post-operatorio
• Riduzione dei tempi di allettamento
• Minore necessità di riabilitazione post-operatoria
Questa tipologia di accesso è preclusa ad alcune categorie di pazienti, quali gli obesi, i displasici e i pazienti
con morfologie particolari del femore, per i quali altri accessi restano meno rischiosi.
Ogni accesso ha le sue caratteristiche, vantaggi e svantaggi (ad esempio l’accesso posteriore ha più
probabilità di andare incontro a lussazione, l’accesso laterale allo sviluppo di calcificazioni). Il Chirurgo decide
sulla base della sua esperienza e delle caratteristiche del paziente.
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2. PATOLOGIE DELLA COLONNA VERTEBRALE
In questa lezione verranno affrontate le principali patologie della colonna vertebrale e nello specifico di
ernie dei dischi vertebrali, stenosi vertebrale e traumi.
Anche per quanto riguarda queste patologie una semplice radiografia ci permette di fare diagnosi senza
ulteriori esami strumentali. Il docente mostra delle radiografie (immagini originali non pervenute):
- Nella prima radiografia possiamo osservare una frattura (in questo caso da compressione), che può
essere data da un trauma, generalmente accompagnata da un dolore acuto, o da osteoporosi, e in
questo secondo caso non avremo una sintomatologia acuta.
- La seconda radiografia è di un ragazzo di 32 anni che ha fatto quattro accessi in pronto soccorso, ed
ogni volta è stato mandato a casa, poiché la lombalgia acuta in pazienti giovani, secondo la
letteratura, regredisce in 3-4 settimane. Nella RX notiamo un buco in una vertebra con una crescita
anomala laterale, probabilmente un tumore.
- In una terza radiografia possiamo notare una stenosi del canale, data un osteofita che chiude il
forame di coniugazione.
- Nell’immagine successiva notiamo una spondilolistesi, ovvero lo scivolamento di una vertebra su
un’altra, colpisce principalmente L5-S1 (L5 scivola su S1),
- infine ci viene mostrata una radiografia di una scoliosi.
In seconda battuta, per approfondire, si può fare una TC, la quale permette di classificare una possibile
frattura e osservare meglio masse o lesioni varie.
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Per quanto riguarda l’ernia del disco invece l’esame radiologico da utilizzare è l’RM, da effettuare in funzione
di un esame clinico che dia il sospetto della patologia.
In un’immagine che ci viene mostrata notiamo “una pallona gigante”. Questo esame
appartiene ad un paziente giovane, che pratica culturismo, e si presenta con una
sindrome della cauda equina, una condizione in cui il paziente ha rilascio sfinterico
con perdita di feci ed incontinenza urinaria. Il paziente, dopo aver sollevato un peso
di 140 kg, avverte dolore ed una scossa a livello lombare e a gli arti inferiori, perde
urine e feci, e spaventato si presenta (probabilmente non è arrivato con le sue
gambe) in pronto soccorso. Dopo la RMN, in due ore di tempo, il paziente è già in
sala per essere operato. È una patologia trattata sia dall’ortopedico che dal
neurochirurgo.
Il professore cita due medici famosi per i loro studi sulle patologie della colonna vertebrale. Il primo nel 2014,
durante una lettura, esordì dicendo che non conosciamo la causa dell’80% delle lombalgie. Il secondo medico,
il prof. Negrini, afferma che la lombalgia cronica è un disturbo bio-psico-sociale.
Non è semplice comprendere la causa di un dolore a livello della colonna vertebrale, conoscendo tutte le
strutture presenti a livello del dorso. Ciascuna vertebra è coinvolta in tre articolazioni (le articolazioni
intervertebrali e l’articolazione interapofisaria), il muscolo trapezio si estende dalla nuca fino a T12,
ricoprendo numerosi altri muscoli e legamenti e vi sono delle strutture nervose assai importanti.
Il plesso brachiale origina dalle radici nervose che vanno da C5 a T1, a cui si aggiungono alcune fibre provenienti da
C4 e da T2, dando origine a tre tronchi primari (sovraclaveari):
- tronco superiore (costituito da fibre provenienti da C4, C5 e C6);
- tronco medio (costituito da fibre di C7);
- tronco inferiore (costituito da fibre provenienti da C8, T1 e T2);
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2. Tronco secondario laterale, da cui si dipartono fibre che vanno a costituire:
a. il n. muscolocutaneo (C5, C6, C7): nervo misto che innerva i muscoli della loggia anteriore del braccio
(bicipite brachiale, coraco-brachiale e brachiale, ovvero i flessori);
b. il n. mediano (C6, C7, C8, T1): nervo misto che innerva i muscoli della loggia anteriore dell’avambraccio,
i muscoli dell’eminenza tenar e i flessori di secondo, terzo e metà quarto dito della mano.
In generale problematiche a questo livello sono facilmente approcciabili dal punto di vista clinico, poiché si
può valutare la funzionalità dei muscoli e quindi indirettamente dei nervi in maniera precisa.
A livello toracico dal midollo spinale originano i nervi intercostali, assai difficoltosi da valutare clinicamente
poiché poco obiettivabili.
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Le vertebre presentano delle caratteristiche costanti lungo tutta la colonna e delle peculiarità legate alla loro
localizzazione. Una vertebra “classica” presenta le seguenti strutture:
- corpo vertebrale (o soma): localizzato anteriormente, ha uno spessore progressivamente crescente
in senso cranio caudale;
- peduncoli: localizzati a lato del corpo vertebrale, uniscono il coro alla parte postero-laterale delle
vertebre;
- canale vertebrale: localizzato al centro dei due peduncoli, contiene il midollo spinale, da cui si
staccano le corna anteriori (motorie) e dorsali (sensitive);
- tra due vertebre si viene a creare il foro di coniugazione, attraverso cui passa la radice spinale;
- processi trasversi, localizzati postero-lateralmente al canale vertebrale;
- processo spinoso: processo singolo lungo il piano sagittale mediano, localizzato posteriormente;
- lamina vertebrale;
- processi articolari (faccette articolari): due superiori e due inferiori, permettono l’articolazione tra le
vertebre.
Il professore prende in considerazione una vertebra toracica e sottolinea la presenza delle faccette articolari
per le coste, localizzate sia a livello dei processi trasversi sia a livello del corpo vertebrale. T11 e T12 non
presentano faccette articolari per le coste sui processi trasversi. T4, invece, presenta un corpo vertebrale
romantico: è a forma di cuore.
Tra i corpi vertebrali si trova il disco intervertebrale, che può essere considerato come una sorta di cartilagine
articolare. Una sua degenerazione è chiamata spondiloartrosi.
È chiaro quindi che qualunque elemento che va ad interessare le radici nervose, determina una
sintomatologia dolorosa (lombosciatalgia o crurosciatalgia, a seconda delle radici interessate).
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2.2 Lombalgia
Per lombalgia si intende quella “sintomatologia dolorosa limitata alla regione lombare espressione di un
qualsiasi processo morboso che colpisce le strutture osteofibrose del rachide lombare”.
2.2.1 Clinica
La lombalgia si presenta con:
➢ dolore spontaneo o provocato
➢ contrattura delle masse muscolari paravertebrali
➢ rigidità del tronco
Si dividono in:
• forme acute: si verificano dopo uno sforzo fisico e il dolore è esacerbato da starnuti o colpi di tosse.
Generalmente durano meno di 6 mesi;
• forme croniche: possono o meno derivare dalle acute e durano più di 6 mesi.
2.2.2 Fisiopatologia
Il dolore è espressione clinica dell’irritazione o compressione dei filuzzi nervosi del nervo seno-ricorrente di
Luschka.
Fino agli anni ’80, questi nervi sono stati attentamente considerati e relazionati alla lombalgia: l’utilizzo di
anestetici locali a questo livello, effettivamente, determina una regressione del dolore. Tuttavia, oggi la
teoria che vede il coinvolgimento di questi nervi come primum movens della lombalgia sembra essere meno
accreditata.
2.2.3 Eziologia
Sebbene nell’80% dei casi si tratti di forme idiopatiche, in generale le cause più comuni sono:
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● Patologie acquisite che danno problemi nelle curvature1:
- gravidanza (l’86% delle gravide ha lombalgia): i legamenti (longitudinale anteriore e
posteriore, interspinoso e sopraspinoso), secondariamente ad alterazioni degli equilibri
ormonali, divengono più lassi in preparazione al parto, generando un’instabilità della
colonna. In preparazione al parto si ha anche un aumento del diametro a livello del bacino,
minor resistenza dei legamenti a livello della sinfisi pubica e sacroiliaca;
- obesità;
- scoliosi;
- ipocinesie;
● Processi infettivi come la TBC ossea, poiché la TBC ha spiccato tropismo per le vertebre. Gli Spedali
Civili accolgono circa 20 pazienti a settimana nell’ambulatorio apposito.
Il professore racconta di un’operazione di ernia discale ad un ragazzo, in cui ha trovato materiale
verde all’interno dell’ernia: si trattava di discite tubercolare. In reparto si verificano almeno 10 casi
all’anno di spondilodiscite tubercolare.
● Osteopatie metaboliche (osteodistrofie renali, morbo di Paget);
● Tumori, a volte benigni ma più spesso maligni: si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di
metastasi (rapporto 100:1) provenienti da carcinomi primari localizzati alla mammella, al polmone,
al colon e alla prostata).
Nel caso in cui la causa sia evidenziabile, l’obiettivo non è focalizzato a trattare la lombalgia in sé, ma
piuttosto a cercare di risolvere la causa che l’ha determinata.
In caso di TBC ossea si imposta una terapia medica contro TBC associata ad un drenaggio intracanalare ed
eventuale laminectomia.
In caso di processo tumorale, la terapia varia in base all’origine del tumore:
➢ per i primitivi si opta per un approccio abbastanza aggressivo consistente in una vertebrectomia
totale. L’operazione dura circa 10h con approcci combinati anteriori e posteriori in cui il paziente ha
perdite ematiche importanti (anche 8L di sangue). Si esegue in pochi centri (in Italia al Rizzoli di
Bologna);
➢ per tumori secondari dipende dal numero di localizzazioni:
- se vi sono più localizzazioni si fa radioterapia, a volte associata a vertebro/cifoplastica, con
iniezione di cemento per stabilizzare la vertebra fratturata;
- se invece è interessata solo una vertebra e null’altro, l’approccio è ancora di vertebrectomia.
2.3 Lombosciatalgia
Sindrome dolorosa che dalla regione lombo-sacrale si irradia con distribuzione radicolare all’arto inferiore,
nel territorio del nervo sciatico, i cui fasci nervosi derivano dalle radici di L5,S1,S2,S3,S4.
Le cause possono essere:
● Ernia del disco;
● Artrosi, di solito intersomatica (fra due somi vertebrali) e spesso associata ad un’artrosi dei forami
di coniugazione con stenosi canalare del lume vertebrale. Si ha ipertrofia delle apofisi articolari e dei
somi a causa della presenza degli osteofiti;
1
Fisiologicamente la colonna vertebrale presenta una lordosi a livello cervicale e lombare ed una cifosi a livello
toracico. Le alterazioni di queste curve possono essere transitorie
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● Spondilolisi/spondilolistesi2: lo scivolamento di una vertebra sull’altra determina un sovvertimento
anatomico del forame di coniugazione, causando una compressione delle fibre nervose. Si tratta di
patologie comuni (3% della popolazione) e spesso congenite:
a. Forme congenite: non si ha completa fusione fra la parte posteriore e anteriore di una
vertebra determinando uno scivolamento della vertebra.
b. Forme acquisite: si tratta solitamente di eventi cronici che si sviluppano in pazienti
predisposti, secondariamente a microtraumi. È il caso di tuffatori e ginnasti, i quali
presentano un rischio del 20% di sviluppare questa patologie. Si viene a costituire lisi da
stress dell’istmo, a causa di stress ripetuti in iperestensione.
In base all’entità dello scivolamento vertebrale possiamo avere o una compressione della cauda
equina o delle radici nervose e stiramento delle radici stesse, contribuendo all’insorgenza di una
sintomatologia dolorosa periferica.
● Tumori, fra cui il gigantocellulare (di per sé benigno) o la ciste aneurismatica (tumore primitivo
trattato con svuotamento della cisti).
2.4 Lombocruralgia
2
La spondilolistesi è la sublussazione delle vertebre lombari, che si verifica di solito nell'adolescenza. Deriva
generalmente da un difetto congenito nella pars interarticularis (spondilolisi). Generalmente coinvolge le vertebre L3-
L4, L4-L5 e L5-S1. (da msdmanuals.com)
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2.5 Ernia del disco
L’ernia del disco rappresenta, insieme alla stenosi lombare su base artrosica, la causa più comune di
lombosciatalgia e/o lombocruralgia.
È una patologia del giovane (30-50 anni), di solito si presenta in forma acuta dovuta al sollevamento di carichi
molto elevati oppure a posizioni non adeguate quando si sollevano dei carichi.
Riporto la definizione di msdmanuals, decisamente più esaustiva della spiegazione impacciata del prof.:
L'ernia del nucleo polposo consiste nel prolasso dell'area centrale di un disco intervertebrale attraverso una
lacerazione dell'anulus fibroso circostante. La lacerazione provoca dolore; quando il disco spinge contro una radice
nervosa adiacente, si produce una radicolopatia segmentaria con parestesie e ipostenia nel territorio di distribuzione
delle radici coinvolte.
2.5.1 Fisiopatologia
Il disco intervertebrale è costituito da un nucleo polposo che ha una struttura molto simile a quella della
cartilagine articolare (molto idratata) ed esternamente da un anello
fibroso (anulus) di consistenza più dura. Il disco intervertebrale, oltre a
permettere l’articolazione tra i corpi vertebrali, assorbe e distribuisce in
maniera uniforme le forze applicare sulla colonna vertebrale e aumenta i
gradi di libertà della colonna.
Nel momento in cui il nucleo polposo vince la resistenza offerta dall’anulus,
fuoriesce e prende contatto con le radici nervose (L5 e S1 in csdo fi
lombosciatalgia, L4 in caso di lombocruralgia). Questo può verificarsi per
un processo degenerativo-fibrotico a carico dell’anulus (che diviene più
rigifo) oppure in caso di pressione eccessiva a livello del nucleo polposo.
Il paziente si presenta molto sofferente con una curvatura anomala del busto, lamentando lombalgia e
impotenza/limitazione funzionale. Si associano anche i sintomi di radicolopatia sciatica o crurale.
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Il dolore è aggravato da:
• attività generiche e specifiche
• piegarsi lateralmente, chinarsi
• tossire, starnutire, manovre di torchio addominale
• sedersi poltrona, auto (sciatalgia)
Il dolore in queste patologie ha una doppia genesi, una meccanica ed una biochimica (dovuta alla presenza
di citochine e cellule dell’infiammazione in corrispondenza dei nervi coinvolti nella patologia). Alcune
terapie, infatti, non migliorano la sintomatologia del paziente proprio perché non curano anche la
componente biochimica.
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Si possono valutare i riflessi osteo-tendinei:
- Per indagare la radice di S1 si evocano l’achilleo e il medio-plantare;
- Per indagare la radice di L5 esistono i riflessi adduttori; tuttavia, essendo molto difficili da
evocare, non vengono valutati;
- Per indagare la radice di L4 viene valutato il riflesso rotuleo.
I riflessi possono essere aumentati, diminuiti, assenti oppure possono provocare delle scosse cloniche.
- fare qualche passo con le gambe leggermente flesse, in quanto L4 innerva il muscolo quadricipite
(importante nei pazienti che soffrono di cruralgia).
L’esame obiettivo per queste patologie è molto sensibile ed è in grado di dare informazioni diagnostiche
molto precise. È difficile sbagliare.
È importante valutare anche l’eventuale compromissione sensitiva, generata dalla compressione radicolare
(si consiglia di osservare i dermatomeri evidenziati nell’immagine).
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Per fare diagnosi differenziale con problemi a livello dell’articolazione sacro-iliaca e coxo-femorale, si utilizza
il test di Patrick (o test di Faber).
In base alle immagini è possibile classificare le ernie dal punto di vista morfologico in:
1) protrusione: il nucleo polposo è ancora in sede e spinge l’anello fibroso che, erniando, può
comprimere le radici nervose;
2) ernia contenuta: il nucleo polposo ernia nel canale;
3) Ernia espulsa: si ha una vera e propria fuoriuscita del frammento erniario, che frammenta il
legamento longitudinale posteriore;
4) Ernia migrata: in cui il frammento si porta verso l’alto o verso il basso.
In caso di assenza di deficit motori o neurologici (red flags), le tipologie di ernia con prognosi migliore sono
l’ernia espulsa e migrata (specialmente quest’ultima). Perdendo contatto con l’anulus, infatti, vengono
riassorbite nell’arco di 5 mesi circa, in quanto perdono l’apporto di sostanze nutritive.
La presenza/assenza di deficit neurologici dipende principalmente dalla direzione dell’ernia e da motivi
anatomici: un peduncolo breve a livello del canale vertebrale predispone a sintomi importanti anche in
presenza di piccole ernie.
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4) extraforaminali (5%): sono rare e piuttosto fastidiose. Sono ernie molto laterali, colpiscono la radice
superiore.
[il professore mostra delle RM con i vari tipi di ernie appena spiegate]
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Il trattamento chirurgico consiste in una discectomia, un
trattamento con evidenza di classe I. Si scheletrizzano i
legamenti sovrastanti e sottostanti l’ernia, si rimuove il
legamento giallo e, in base al segmento interessato, si valuta se
eliminare una porzione di osso (su L5-S1 normalmente non
serve). Individuate la dura madre e le radici nervose compresse,
si rimuove l’ernia e si richiude. Questo intervento può essere
fatto anche in microdiscectomia (si attuano incisioni di 2 cm
circa, grazie a microscopi intraoperatori o occhialini
ingranditori), intervento con la medesima classe di evidenza (I).
La tecnica mini-invasiva offre un post-operatorio migliore: si torna a casa in seconda giornata senza busto.
Esiste, inoltre, la possibilità di fare discectomia per via endoscopica con incisioni di circa 5 mm (una sorta di
artroscopia). I costi sono decisamente maggiori e in Italia, dove siamo tutti t-rex, è ancora poco usata.
Altri approcci mini invasivi esistono ma non hanno alcun livello di evidenza. Si usavano per i pazienti che
avevano protrusioni sintomatiche con guida fluoroscopica e anestesia locale. Usando radiofrequenze e delle
piccole pinze, si asportavano piccoli frammenti di materiale discale.
Rivalutando 60 casi operati mediante la seguente procedura, il professore dice di aver ottenuto una riduzione
sulla scala del dolore di circa 4 punti di media, risultato che definisce non essere molto soddisfacente (con
l’approccio classico di solito il paziente sta molto meglio, il risultato è immediato e significativo). Si parla
quindi di evidenza di classe IV: solo alcuni studi “case series”, non randomizzati né controllati.
Per creare un danno a livello della protrusione si utilizzano:
1. Sostanze chimiche:
a. Chimopapaina: enzima digestivo che digerisce il disco vertebrale. Usata negli anni ’70, era l’unica
che aveva dato evidenze (classe II). Ora non si usa più a causa del riscontro di alcuni casi di
aracnoiditi chimiche (oltre a digerire il disco intervertebrale, si era verificata un’irritazione
meningea: NOT STONKS);
b. Ozono;
c. Etanolo (effetto disidratante);
d. Steroidi (effetto antiedemigeno);
e. Pozioni magiche, cioè di tutto (gel, oli, cellule staminali…).
2. Approccio meccanico:
a. Discectomia percutanea automatizzata: fatta in anestesia locale, consiste in una
frammentazione e aspirazione del nucleo polposo e delle ernie contenute, attraverso minime
incisioni cutanee (<3-5 mm), che consentono di inserire cannule e strumenti sotto controllo
radioscopico. Il difetto di questa pratica è che interviene solo in senso meccanico, senza quindi
ripulire dall’infiammazione la lesione. Tutti gli approcci di natura meccanica hanno dato evidenze
solamente di classe IV.
Dai dati di Cochraine Library emerge che l’evidenza dell’efficacia della chirurgia mininvasiva per il trattamento
lombare è poco chiara, non è una cura da raccomandare. Le linee guida sono quindi basate su discectomia
standard o microdiscectomia con divaricatore.
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Secondo le linee guida i pz da non operare necessitano di una terapia che può consistere in:
● Cortisone, che ha effetto anti-edemigeno sulla radice nervosa (essendo irritata/compressa, tende a
dare edema). È il trattamento per eccellenza per una radicolopatia che non ha deficit neurologici
periferici;
● Riposo (massimo 48h, non di più perché l’allettamento prolungato è causa di rallentamento nel
recupero);
● FANS o altri antalgici;
● Farmaci decontratturanti (ciclicamente richiamati come farmaci importanti, va un po’ a discrezione
del medico);
● Manipolazioni vertebrali secondo Maigne (presenti nelle linee guida del 2009), che devono essere
fatte esclusivamente da personale medico. Nemmeno i fisioterapisti o gli osteopati (o qualsiasi altro
mago, cit.) sono abilitati a farle, pena il rischio di complicanze (soprattutto trombosi a livello cervicali
o dissecazioni delle carotidi). La scuola di Maigne prevede che le manipolazioni possano essere
eseguite esclusivamente da un medico o da uno specialista laureato in Medicina e Chirurgia per
evitare complicanze;
Es: se uno è affetto da artrite reumatoide, il medico sa che avrà instabilità a livello dell’atlante; i maghi
e gli osteopati no.
● Massaggi;
● Rieducazione muscolare (Vuol dire tutto e nulla. Ci sono due grosse scuole: protocollo Mesier e
Mackenzie. Uno lavora in estensione e uno in flessione, ma entrambi sembrano portare benefici di
fronte ad un quadro di sofferenza). Non è però chiaro come funzioni di preciso;
● L’attività fisica aerobica, che ha grossi benefici sulla componente antalgica per una questione di
endorfine.
È una patologia del paziente di età compresa tra i 50 ed i 70 anni in cui i ha un’abnorme ristrettezza del canale
vertebrale (dovuta alla presenza di osteofiti sia sul corpo vertebrale che sulle faccette articolari) responsabile
della compressione del sacco o delle radici nervose. Il professore mostra un’immagine in cui si evidenzia una
stenosi definita ‘molle’ poiché si vede un’ipertrofia del legamento giallo che occupa il canale; si possono avere
anche stenosi ‘dure’ quando c’è ipertrofia ossea.
2.6.1 Epidemiologia
La stenosi è la patologia che più comunemente colpisce il rachide cervicale dopo i 55 anni ed è la causa più
frequente di chirurgia sul rachide dopo i 65 anni. Nel complesso costituisce il 10-12% di tutte le lombalgie.
Il tratto più comunemente colpito è quello compreso tra C4 e C8.
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2.6.2 Fisiopatologia
La disidratazione del disco, il quale perde la sua funzione di ammortizzazione, e la
degenerazione dell’articolazione posteriore porta alla degenerazione del complesso delle
tre articolazioni presenti a livello vertebrale. L’instabilità che ne deriva, associata alla
deformazione morfologica delle faccette articolari, può generare una spondilolistesi
degenerativa.
La stenosi del canale midollare non va confusa con l’ernia, in quanto il disco si sposta posteriormente
schiacciato dalle vertebre superiormente e inferiormente.
Il nostro organismo mette in atto dei meccanismi di compenso per far fronte all’instabilità instauratasi,
innescando un processo di fibrosi del complesso nucleo-anulus e la formazione di osteofiti. La stabilità
meccanica viene raggiunta, dunque, a spese del canale midollare, il quale diviene stenotico.
Il professore sottolinea come l’età sia un criterio anamnestico fondamentale per la diagnosi differenziale con
l’ernia: generalmente l’ernia del disco interessa i pazienti giovani, mentre la stenosi pazienti ultrasessantenni.
2.6.3 Classificazione
Dal punto di vista eziologico si distinguono forme congenite, forme acquisite e forme miste:
- La stenosi congenita è caratterizzata dalla presenza di peduncoli più brevi: anche una piccola
componente degenerativa può innescare la patologia. Può essere presente in un contesto
sindromico, come nell’acondroplasia
- Nella maggior parte dei casi le stenosi lombari sono forme di tipo acquisito di tipo misto
costituzionale evolutivo (ovvero pazienti che già di loro presentano dei peduncoli vertebrali più
brevi).
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Le stenosi possono essere classificate anche dal punto di vista anatomico in stenosi centrali e periferiche:
- la stenosi centrale comunemente avviene a livello del disco intervertebrale, è determinata da
ipertrofia del legamento giallo, osteofitosi del piatto vertebrale, ipertrofia delle faccette
articolari, protrusioni /ernie discali;
- la stenosi laterale è definita come il restringimento (meno di 3-4 mm) dello spazio tra il processo
articolare superiore (SAP) e il margine vertebrale posteriore. È determinata dall’ipertrofia e
osteofitosi delle faccette articolari, protrusione / ernia discale.
2.6.4 Clinica
Si hanno differenti quadri clinici in base alla localizzazione e all’entità della stenosi:
➢ A livello cervicale e toracico determina una mielopatia per compressione del midollo spinale, che
può irradiarsi e dare una sintomatologia diffusa anche agli arti inferiori.
➢ A livello lombosacrale determina la presenza di una claudicatio neurogena e/o dolore radicolare.
L’insorgenza della sintomatologia radicolare è per lo più graduale: la durata dei sintomi periferici al momento
della diagnosi è superiore ai 6 mesi nel 90% dei casi
Le monoradicolopatie continue sono simili a quelle che si osservano per ernia discale, tuttavia l’insorgenza è
lenta, le manovre da stiramento radicolare sono negative o debolmente positive ed il dolore è esacerbato
dalla estensione del rachide piuttosto che dalla flessione (da slide).
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➢ Mielopatia cervicale (da slide)
La mielopatia si definisce come una sindrome clinica, riconducibile ad una lesione del midollo spinale, che
presenta segni quali la paralisi spastica, l’assenza di sensibilità al di sotto della lesione e segni di lesione di
tipo periferico (per interessamento delle corna anteriori) definiti come segni “sottolesionali di tipo centrale”.
La sintomatologia varia in base alla sede della lesione midollare
➢ Claudicatio neurogena
Il paziente lamenta un dolore simile a quello della claudicatio intermittens di origine vascolare: la
sintomatologia compare dopo un tratto di cammino (100, 200 m…), il paziente deve arrestarsi per far passare
il dolore e poi può riprendere a camminare. Si tratta, dunque, di un dolore che compare solo durante il
movimento, pertanto prima di fare l’esame obiettivo a questi pazienti bisogna chiedere loro di fare qualche
passo.
La claudicatio è dovuta alla compressione sia nervosa (che rende difficoltosa la propagazione dell’impulso)
sia venosa midollare (che favorisce un aumento di pressione all’interno del canale).
A riposo infatti viene comunque garantita l’irrorazione arteriosa delle strutture nervose; al contrario
l’esercizio fisico determina vasodilatazione che porta la pressione ad un livello critico impedendo un’adeguata
supplementazione di ossigeno e nutrienti: è qui che la stenosi si manifesta clinicamente.
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L’esame neurologico a riposo è assolutamente negativo.
Altro segno tipico è lo “shopping cart sign”: il paziente ha un miglioramento della sintomatologia quando è
flesso in avanti, in quanto questa posizione permette un’apertura del forame di coniugazione con una
compressione minore a livello delle radici nervose. Condizione analoga è andare in bicicletta, il paziente deve
mantenere una posizione flessa in avanti.
2.6.6 Trattamento
Il trattamento chirurgico consiste nella laminectomia (cioè rimozione delle lamine). Questa può essere
isolata o, se è presente anche stenosi serrata nel forame di coniugazione, sarà necessario cruentare le
faccette articolari (artrectomia). Poiché un’artrectomia produce un’instabilità della colonna, si utilizzano
barre e viti per creare stabilità.
In casi particolari si può procedere con una discectomia con successiva apposizione di una cage piena di osso
(gabbia anteriore) che va a ricreare l’altezza del disco. In questo modo anche il forame di coniugazione tende
a allargarsi, migliorando l’outcome.
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Per le stenosi centrali si può fare un intervento di allargamento delle lamine, oggi poco utilizzato perché
troppo indaginoso. Qualora fosse presente un disturbo di angolazione della colonna (cifosi/lordosi), si
posiziona una gabbia anteriore al posto del disco.
Il professore tratta (molto velocemente, e inoltre gli audio non si sentono) l’artrosi cervicale.
Riporto le slides.
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Lezione 2 – parte 2 (Deformità della colonna vertebrale: scoliosi e cifosi)
Sbobinatore: S.G.
“Docente”: Zarattini
2.7 Scoliosi
[nds: le integrazioni, dove non segnalato, provengono dalla lezione del 2018, dato che l’anno scorso l’argomento non
è stato trattato. La sbobina è stata ottenuta a partire dalla slide fornite, commentate fino a circa un terzo delle stesse.
La restante parte della lezione è stata estrapolata dalle slide, opportunamente integrate. Segnalo comunque che il
professore si limita perlopiù a leggere le slide, spesso non soffermandosi neanche troppo e solo talvolta
commentandone il contenuto]
2.7.1 Definizioni
La scoliosi, in quanto deformità, è una delle principali patologie di interesse
dell’ortopedia, che è per definizione la correzione delle deformità. Vi sono
diverse definizioni di scoliosi, tra cui deviazione permanente, laterale e
rotatoria a carattere evolutivo del rachide. Consiste in una curvatura
vertebrale strutturata che non sparisce con movimenti come l’inclinazione
del bacino nè quando il soggetto si flette in avanti ed è sempre presente
una componente rotatoria. Questi dati fondamentali differenziano una
scoliosi da atteggiamento scoliotico.
Tutto ciò determina la deformazione sui tre piani dello spazio della conformazione
delle singole vertebre, dell’assetto del rachide, della morfologia del tronco (scapole,
coste, bacino…). Per spiegare l’alterata conformazione assunta dalla vertebra
ruotata viene utilizzata l’immagine del carretto del gelataio: dal lato della convessità
il peduncolo e la lamina sono allungati, viceversa dal lato della concavità sono
accorciati. La rotazione della vertebra toracica provoca inoltre lo spostamento
posteriore della costa inserita su di essa, con formazione di una prominenza
chiamata gibbo costale, conosciuto volgarmente come gobba.
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Con una seconda definizione, la scoliosi idiopatica è descritta come una deformità del rachide caratterizzata
da una o più deviazioni della colonna sul piano frontale con torsione vertebrale più accentuata a livello
dell’apice/i della curva/e e conseguente formazione di uno o più gibbi dalla parte della convessità di tali
deviazioni. Tale deformazione non reversibile è quasi sempre contraddistinta sul piano sagittale da
rettilineizzazione del rachide dorsale e da iperlordosizzazione o
rettilineizzazione del rachide lombare. Non esiste causa
conosciuta e certa di questa affezione. La scoliosi evolve in
peggioramento durante tutto il periodo della crescita e oltre un
certo grado di curvatura il peggioramento continua anche dopo
la maturità ossea, sia pure in maniera ridotta, da 0,5 a 2° Cobb
(vedi di seguito) ogni 5 anni.
Una terza definizione può essere estrapolata dai segni maggiori della scoliosi:
• Deviazione rachidea sul piano frontale;
• Torsione con rotazione vertebrale sul piano assiale e conseguente formazione di gibbosità;
• Tendenza al raddrizzamento delle fisiologiche curve sagittali a livello dorsale e lombare;
• Rigidità.
Una quarta definizione afferma che la scoliosi è una malattia della colonna vertebrale che dura tutta la vita.
L’atteggiamento scoliotico può essere determinato da fattori statici e fattori posturali. Tra i fattori statici si
individuano:
• Asimmetria di lunghezza degli arti inferiori: esiti di trauma, deformità congenite (ipoplasia femorale
o tibiale, coxa vara), poliomielite, ecc. Una minima dismetria tra un arto e l’altro è fisiologica,
considerata normale fino ai 2 cm. Superati i 3 cm è considerata patologica in quanto può provocare
altre alterazioni;
• Emiipertrofia congenita;
• Bacino slivellato per cause muscolari: retrazioni o paresi asimmetriche (sedi più frequenti: ileopsoas,
quadrato dei lombi, flessori di ginocchio, tensore della fascia lata, glutei);
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• Retrazioni o paresi asimmetriche della muscolatura del rachide, a tutti i livelli (torcicollo miogeno);
• Asimmetria di peso o di funzione degli arti superiori (apparecchio gessato, paralisi ostetrica,
amputazione).
La postura è la posizione che il corpo assume per contrastare la forza di gravità in una situazione di riposo,
cioè alla fine di un movimento volontario o prima del suo inizio. È regolata principalmente dal sistema
extrapiramidale, che include nuclei e parti di varie strutture tra cui la corteccia cerebrale, i gangli della base,
il bulbo, la sostanza reticolare, integrati a vari livelli. Il mantenimento dell’equilibrio del corpo è affidato ad
una serie di riflessi, detti posturali, che mantengono la posizione eretta e provvedono ai continui
aggiustamenti necessari per la creazione di un solido sfondo posturale all’attività della muscolatura
volontaria. La postura è solo apparentemente una condizione statica, in quanto il suo mantenimento
comporta un lavoro neuromuscolare incessante, a seconda delle variazioni dell’ambiente esterno.
I fattori posturali possono contribuire allo sviluppo di un atteggiamento scoliotico, che risulta però riducibile
in decubito, in particolare in bending anteriore. Nell’atteggiamento scoliotico, radiograficamente si
evidenziano curve lunghe, ad ampio raggio, in assenza di rotazione vertebrale.
➢ Scoliosi strutturali:
o Idiopatica: sono multifattoriali e sicuramente hanno un substrato genetico. Sono stati
identificati geni che codificano per proteine della cartilagine metafisaria di accrescimento che
potrebbero essere correlati a queste forme di scoliosi, ma questa è ancora una teoria e non
si hanno ancora informazioni precise sull’alterazione del nucleo di ossificazione vertebrale a
livello della cartilagine dei piatti vertebrali;
o Neuro-muscolare;
o Congenita;
o Neurofibromatosi;
o Disordini mesenchimali;
o Malattia reumatica;
o Traumatismi;
o Contratture extra-vertebrali;
o Osteocondrodistrofie;
o Infezioni ossee;
o Disturbi metabolici;
o Correlate al passaggio lombo-sacrale;
o Tumori.
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Altre classificazioni vengono utilizzate in base al tipo trattamento che si intende effettuare. La classificazione
di Ponseti, utilizzata al fine di un trattamento conservativo, prevede la distinzione in scoliosi lombare, dorso
lombare, combinata e dorsale.
In passato veniva utilizzata, in previsione di chirurgia, la classificazione di KING. Ha il limite di valutare solo la
proiezione anteroposteriore e non quella sagittale. Si distinguono 5 forme:
- KING 1: Curva doppia con predominanza lombare sinistra.
- KING 2: Curva doppia maggiore simmetrica.
- KING 3: Curva unica dorsale destra.
- KING 4: Curva lunga dorsolombare.
- KING 5: Curva toracica doppia di Moe.
Attualmente il gold standard per stabilire quale trattamento chirurgico eseguire è la classificazione di Lenke,
che considera anche il piano sagittale. La classificazione di Lenke in base alla tipologia di curva prevede 6 tipi
di curve (gss.it):
• LENKE 1: curva toracica singola, in cui esistono i sottotipi 1A-1B-1C;
• LENKE 2: doppia curva toracica, in cui esistono i sottotipi 2A-2B-2C;
• LENKE 3 : due curve principali strutturate;
• LENKE 4 : tre curve principali;
• LENKE 5: curva toracolombare/lombare;
• LENKE 6: curva toracolombare/lombare/toracica principale.
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La scoliosi può essere inoltre classificata a seconda dell’età di insorgenza. Scoliosi ad insorgenza più precoce
sono a prognosi peggiore in quanto la malattia ha più tempo per evolvere. Si distinguono:
• Scoliosi del neonato: 0-1 anno;
• Scoliosi infantile: da 1 a 3 anni;
• Scoliosi giovanile: da 4 anni al menarca o nel maschio, alla pubertà;
• Scoliosi dell’adolescenza: tra menarca o pubertà e la maturità ossea.
2.7.4 Epidemiologia
La scoliosi idiopatica interessa dal 2% al 10% della popolazione giovanile con una predilezione per il sesso
femminile che viene colpito in un rapporto 4-6:1 rispetto al maschile. Tale rapporto è in realtà falsato dal
fatto che nei maschi le curve sono spesso di lieve entità e quindi misconosciute a livello clinico perché
mascherate da masse muscolari più sviluppate rispetto alla controparte femminile.
2.7.5 Evolutività
La scoliosi è una malattia evolutiva che, soprattutto nei gradi non elevati, progredisce fino all’età dello
sviluppo, in genere 16 anni per le femmine, 18 per i maschi. In realtà la scoliosi ha un minimo peggioramento
progressivo anche durante l’età adulta, a causa di artrosi delle faccette articolari, discopatia, deformità
artrosica e osteoporotica della vertebra, con evolutività di tipo degenerativo soprattutto dopo i 65 anni.
L’evolutività in età pediatrica decresce passando dalle curve doppie maggiori (in riferimento alla
classificazione di Lenke) alle toraciche, alle toracolombari ed alle lombari. La stabilità in età adulta segue
l’ordine inverso: le forme doppie maggiori, che sono le più evolutive in età pediatrica, sono le più stabili in
età adulta, mentre le lombari, meno evolutive nell’infanzia, sono le più instabili in età adulta.
2.7.6 Diagnosi
È stata promossa dagli anni passati, al fine di effettuare una diagnosi precoce, la diffusione di depliant
informativi ai genitori in modo che quest’ultimi possano effettuare un’“autodiagnosi” e indirizzare al medico
il bambino potenzialmente affetto da scoliosi. Questi depliant invitano all’osservazione dell’eventuale
presenza di slivellamento di spalle e scapole, asimmetria dei triangoli della taglia, obliquità del bacino,
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gibbosità con tronco flesso, alterazione delle curve sul piano sagittale [nds: da qui le slide non sono più
commentate]. Inoltre essi promuovono comportamenti corretti riguardo la posizione seduta a scuola o
mentre si svolgono i compiti, l’uso dello zaino, il sollevamento dei pesi e il sonno.
Valutare un rachide deviato vuol dire innanzitutto saper distinguere una scoliosi strutturata da un
atteggiamento scoliotico. Se la scoliosi risulta vera, cioè strutturata, occorre distinguere tra scoliosi idiopatica
e scoliosi da causa nota. Qualora si riconosca una precisa eziologia, bisogna rivolgere l’attenzione alla malattia
che ne è la causa. In tutti i casi si pone il problema della prognosi.
➢ Esame clinico
Nella maggior parte dei casi, un buon esame clinico, che consenta valutazioni qualitative e quantitative, può
validamente sostituire un eccesso di esami radiografici.
Il quadro clinico standard è subdolo, il paziente non presenta né dolore né compromissione delle condizioni
generali. Da qui l’importanza delle visite mediche in età prepubere, anche tenendo conto dell’evolutività tipica
della patologia. Il bambino è quindi asintomatico e solitamente non sono i genitori ad accorgersi che il figlio
ha una scoliosi, in quanto l’evoluzione è lenta, ma più tipicamente parenti, amici o allenatori.
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L’esame obiettivo di un paziente con scoliosi prevede:
• Sul piano frontale, valutazione dello slivellamento delle spalle e delle scapole, dell’asimmetria dei
triangoli della taglia (con il braccio addotto si nota che la parte dalla convessità della curvatura tende
ad essere più piccola, mentre controlateralmente il triangolo è più grande);
• Strapiombo (sbandamento laterale del tronco rispetto al piano del bacino dovuto ad una mancata
compensazione della colonna, nds): va valutato con filo a piombo fissato a C7 (paziente in stazione
eretta), misurando la distanza espressa in mm dal filo alla linea di simmetria (solco gluteo). Il gibbo
viene misurato con una livella da falegname ed un righello millimetrato. La misura della cifosi dorsale
si esegue con filo a piombo e righello per misurare la distanza da determinati processi spinosi;
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• Esame neurologico;
• Negli stadi molto avanzati ci possono essere problemi di insufficienza respiratoria (si effettua la
spirometria) o di insufficienza cardiaca per alterato ritorno venoso.
➢ Valutazione radiografica
Si effettua una teleradiografia, ossia una lastra unica del rachide dall’occipite al sacro in proiezione antero-
posteriore e latero-laterale. Generalmente la teleradiografia si effettua in carico con il paziente in piedi. Se si
prospetta la chirurgia, si effettuano proiezioni dinamiche in bending anteriore e bending laterale per vedere
se annullando la forza di alcuni muscoli la curvatura cambia.
La valutazione radiografica include:
• Misurazione del valore angolare di curve scoliotiche secondo Cobb: si tracciano due linee passanti
per il piatto superiore ed inferiore delle vertebre limitanti la curva e a queste le rispettive
perpendicolari. L'angolo che viene a formarsi è detto angolo di curvatura o angolo di Cobb (da
ilfisistra.it). Se l’angolo di Cobb è < 20° la scoliosi è lieve, se compreso tra 20° e 40° la scoliosi è
moderata, oltre i 40°-50° la scoliosi è grave.
• Misurazione dell’angolo ileolombare: angolo tra piatto inferiore di L4 e linea bisiliaca (nds);
• Valutazione della maturità scheletrica con il segno di Risser (nucleo di ossificazione della cresta iliaca).
Il risultato può variare da Risser 0 (non esiste nucleo di ossificazione) a Risser 5 (ossificazione completa
che si manifesta, in genere, 2-3 anni dopo la pubertà). I gradi sono così suddivisi:
• 1+ quando l'ossificazione è intorno al 25%;
• 2+ quando è intorno al 50%;
• 3+ intorno al 75%;
• 4+ per una ossificazione completa del tratto;
• 5+ per la completa fusione con l'ileo.
Fino a Risser 2 il rischio di peggioramento di una scoliosi idiopatica è del 50%, dopo Risser 2 Il rischio
si riduce al 20% (fisistriasicilia.it);
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• Valutazione radiografica della maturità scheletrica mediante l’ossificazione delle “ring apophysis”
(nuclei di ossificazione epifisari della vertebra, nds);
• Curve sagittali:
o Cifosi dorsale: dal piatto superiore di D1 al piatto inferiore di D12 (valore medio circa 35°);
o Lordosi lombare: dal piatto superiore di L1 al piatto inferiore di L5 (valore medio circa 40°);
o L’angolo della tangente al piatto sacrale sull’orizzontale varia mediamente da 15° a 30°.
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2.7.7 Prognosi
Occorre evitare sia l’accanimento terapeutico sia l’astensione da ogni terapia, entrambi spesso alla base di
errori. Un buon indice prognostico è il punteggio calcolato per stabilire il livello di sorveglianza (vedi tabella
precedente). L’entità del gibbo sembra essere il maggiore indicatore negativo di prognosi, così come la
presenza di una gibbosità rigida strutturata.
• Valutare la crescita residua: età ossea (atlante di Greulich e Pyle: mostra l’ossificazione delle ossa del
carpo in funzione dell’età, per poter effettuare una datazione. Chi si occupa della scoliosi però utilizza
tendenzialmente il test di Risser, in quanto non c’è una corrispondenza precisa con l’atlante di
Greulich e Pyle, che è più riferito alle ossa piccole);
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• Elementi clinici paradisplasici: asimmetrie e dismorfie del viso, plagiocefalia, iperlassità, astenia,
alterazioni del trofismo generale (De Mauroy);
• Alterazioni delle curvature sagittali fisiologiche del rachide: dorso piatto, dorso cavo, rigidità e
disarmonia in flessoestensione (tendenza lordosica).
2.7.8 Trattamento
L’obiettivo della terapia della scoliosi è rallentare la progressione della curvatura o quanto meno arrivare
all’età dello sviluppo con una situazione tale per cui non si debba ricorrere a chirurgia.
➢ Kinesiterapia
Introducendo accanto ai concetti di efficacia ed efficienza quello di accettabilità della terapie, le famiglie
hanno dimostrato di preferire l’effettuazione di esercizi specifici a scopo preventivo nell’attesa di una
eventuale evoluzione da trattare in seguito con corsetto.
“In conclusione, attualmente non vi è evidenza sufficiente per raccomandare o sconsigliare l’utilizzo della
kinesiterapia. Inoltre, l’esame della letteratura a disposizione permette di ipotizzare un’efficacia di esercizi
specifici nel rallentare l’evoluzione delle scoliosi minori. Non esistono pubblicazioni scientifiche rigorose
sull’efficacia terapeutica dell’uso di manipolazioni, plantari, byte, medicinali convenzionali ed omeopatici,
agopuntura, accorgimenti alimentari per la correzione della scoliosi idiopatica”.
“Si raccomanda che una curvatura scoliotica non strutturata e la scoliosi inferiore a 10+/-5° Cobb non
vengano trattate in modo specifico, salvo parere motivato del clinico esperto di patologie vertebrali. Si
raccomandano, nelle curve minori, gli esercizi specifici come primo gradino di approccio terapeutico alla
scoliosi idiopatica per prevenirne l’evolutività” (linee guida nazionali Simfer, 2006).
Nelle fasi più avanzate della scoliosi può essere indicata la fisioterapia respiratoria.
➢ Attività sportiva
“L’attività sportiva consente un riequilibrio psico-motorio che è consigliabile per tutti e che deve trovare
spazio nell’adolescente scoliotico con le dovute modalità a seconda del tipo di paziente e della gravità ed
evolutività della curva”.
“Il nuoto non è la panacea della scoliosi e ci sono studi che tendono ad evidenziarne limiti o addirittura
controindicazioni. Uno studio recente ha poi documentato nelle ragazze praticanti ginnastica ritmica ad alto
livello una incidenza della scoliosi del 12% rispetto all’1,1% dei soggetti di controllo. L’intensa mobilizzazione
ed estensione del rachide in soggetti a rischio potrebbe essere uno dei fattori determinanti” (linee guida
nazionali Simfer, 2006).
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➢ Busto ortopedico
Si consiglia di non adottare il trattamento ortesico per pazienti con curve al di sotto di 15+/-5° Cobb, salvo
parere contrario di un medico specializzato nel trattamento conservativo delle deformità vertebrali. Il
trattamento ortesico è raccomandato per pazienti con curve superiori a 20+/-5° Cobb ancora in crescita con
progressione della deformità o rischio elevato di peggioramento.
Approccio conservativo, che in ordine cronologico (ossia in base all’età del bambino) consiste in:
1. letto di Cotrel: con una serie di tiranti si cerca di annullare le curvature, in quanto nel bambino la
scoliosi è strutturata ma presenta comunque una certa elasticità. Ovviamente la correzione non sarà
totale se la curvatura è >50°, ma si riesce ad ottenere un miglioramento.
2. busto gessato: per portare ai minimi gradi. Viene indossato indicativamente per circa 2-3 mesi,
generalmente viene rifatto una volta al mese per questioni igieniche e di crescita.
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Corsetto cheneau
Allo stato attuale il corsetto più diffusamente utilizzato. Si basa su un principio di correzione asimmetrica con
espansione controlaterale della gabbia costale. Indicato per le curve toraco-lombari, può essere realizzato su calco
gessato o mediante scansione computerizzata. Generalmente ben tollerato. (ospedalebambinogesu.it)
➢ Indicazioni chirurgiche
“Nella scoliosi idiopatica si ricorre alla chirurgia quando una curva supera i 45°. Ma la sola entità angolare
non è sufficiente per decidere l’intervento. La decisione dipende anche dalla sede e strutturazione della curva
(gibbosità, disassamento), dall’età del paziente (scoliosi idiopatiche infantili e giovanili “maligne”), dal profilo
del rachide sul piano sagittale (lordo-scoliosi), e da molti altri fattori.” (G. Stella, 2002)
Approccio chirurgico: sono interventi con una mortalità del 2-3%. Si ricorre alla chirurgia qualora il
trattamento non chirurgico non dovesse essere sufficiente; consiste in interventi cruenti, in quanto bisogna
scheletrizzare la colonna (ossia mettere a nudo l’osso) per poi correggere la curvatura tramiti viti e barre.
L’intervento può essere eseguito con due approcci differenti: la metodica di Harrington e la metodica di Dwyer
(nds: cita solo i nomi senza specificare ulteriormente). Le problematiche di questi interventi sono le lesioni
midollari, radicolari e nervose in generale. Il momento più delicato è la derotazione e il raddrizzamento, tanto
che nei centri specializzati in chirurgia della scoliosi si utilizza il monitoraggio con l’elettromiografia in sala
operatoria per valutare danni nervosi.
In genere lo scopo sarebbe quello di derotare di 50°, ma spesso ci si accontenta di arrivare a 20°, in quanto
l’elettromiografia mostra potenziali in discesa all’aumentare della correzione. In Italia l’utilizzo
dell’elettromiografia in sala è dibattuta, ma nei centri specializzati di fatto si utilizza sempre.
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innesti di osso dal bacino; oggi non è più necessario in quanto i mezzi di sintesi offrono una stabilità maggiore
e quindi permettono di raggiungere l’artrodesi in un tempo abbastanza limitato. Successivamente si
cruentano le superfici articolari tre le vertebre con la pinza mangiaossa facilitando la fusione.
È un intervento impegnativo della durata di 7-8 ore con le nuove metodiche, che utilizzano viti peduncolari
che offrono una maggiore stabilità, ma espongono a più rischi operatori. In passato i mezzi erano meno stabili,
ma l’intervento durava meno.
Una volta che l’artrodesi è stata eseguita, il mezzo di sintesi non serve più, ma non si toglie. Il paziente ha una
parte di colonna completamente bloccata, ma può condurre una vita normale.
2.8 Cifosi
L’ipercifosi è una deviazione della colonna vertebrale sul piano sagittale con convessità posteriore,
generalmente localizzata nel tratto dorsale con accentuazione, in tal caso, della normale cifosi dorsale.
2.8.1 Eziologia
Si distinguono forme:
• Congenita: da emispondilo, in cui una vertebra non si è formata completamente per quanto riguarda
l’ossificazione nella sua metà anteriore e, avendo solamente la parte posteriore, assume un’inclinazione
anteriore determinando cifosi;
• Idiopatica: malattia di Scheuermann (forma più frequente e rilevante);
• Secondaria ad altre patologie (spondilite anchilosante, osteoporosi [nds: il professore specifica che
saranno trattate in un secondo momento]).
Le immagini mostrano un caso eclatante di un’ipercifosi, con evidente protuberanza a livello delle apofisi
spinose e quadro radiografico con vertebre da T9 a T1 cuneizzate anteriormente e con struttura piuttosto
disomogenea.
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2.8.A.1 Epidemiologia
La malattia di Scheuermann ha una prevalenza dello 0,5-8% nella popolazione generale, colpisce più
frequentemente i maschi con M:F=4:1, tra i 10 e i 16 anni. È spesso associata ad endocrinopatie con habitus
adiposo genitale ed è più diffusa nei soggetti longilinei astenici nel periodo del picco di crescita.
2.8.A.2 Eziopatogenesi
La malattia è causata dalla necrosi dei nuclei di accrescimento delle vertebre toraciche, di cui le più colpite
sono T7, T8, T9. Si tratta quindi di un’osteocondrosi1, similmente alla malattia di Perthes che riguarda l’anca.
2.8.A.4 Clinica
Lo sviluppo della malattia è subdolo, con esordio progressivo: nelle fasi iniziali vi è un aumento della
fisiologica cifosi toracica, non particolarmente evidente, fino ad uno sbilanciamento in avanti della testa e
del collo. A fini compensatori, le normali lordosi cervicale e lombare tendono a scomparire.
Il dolore è in relazione con la deformità toracica, è variabile e non sempre presente. Spesso i soggetti non si
presentano all’attenzione del medico per il dolore in sé, ma per la deformità e la maggiore evidenza delle
apofisi spinose. Il dolore può comparire nell’adolescenza o in età adultà. È esacerbato dalla stazione eretta,
dalla posizione seduta, dall’attività fisica e può scomparire con la maturità scheletrica. La maggior emergenza
delle apofisi spinose, soprattutto in soggetti magri, può creare dolore per il contatto con lo schienale della
sedia.
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Per meglio evidenziare la cifosi, spesso già evidente durante l’ortostatismo, si può chiedere al paziente di
assumere una posizione di bending anteriore, con tronco flesso.
2.8.A.6 Imaging
I criteri radiografici sono:
Cifosi > 40°- 45°;
Cuneizzazione > 5° di almeno 3 vertebre adiacenti all’apice della cifosi (T7-T9);
Piatti vertebrali irregolari;
Un restringimento degli spazi discali intervertebrali nella regione cifotica.
L’Rx del rachide può rilevare scalfiture a livello dei margini delle vertebre, segno indiretto di osteocondrosi,
e cuneizzazione delle vertebre. Noduli ed ernie di Schmorl possono essere messi in evidenza, oltre che alla
radiografia standard, anche ad un esame TC, che può mostrare degenerazione nel margine anteriore della
vertebra con presenza di osteofiti.
L’indagine RM mostra le medesime alterazioni, con la possibilità di evidenziare inoltre infiammazione a carico
dell’osso, soprattutto nelle sequenze T2 e STIR.
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2.8.A.7 Trattamento
Il trattamento può essere conservativo o chirurgico.
Per deformità < 50° in adolescenti scheletricamente immaturi e senza segni di progressione si effettua
osservazione ripetendo Rx laterale in posizione eretta dopo 4-6 mesi. È possibile effettuare esercizi
fisioterapici di estensione toracica, addominali, allungamento ischiocurale ed esercizi aerobici, che hanno
però solo valenza sintomatica, di riduzione del dolore, ma non correggono le deformità.
➢ Trattamento conservativo
Con deformità progressiva in un adolescente scheletricamente immaturo o con deformità dolorosa, che
tipicamente misura 65° o più, è indicato il trattamento ortesico, con l’utilizzo di tutori, i quali però danno
scarsi risultati se la cifosi è > 75°, la cuneizzazione > 10°, se l’età del paziente è prossima alla maturità
scheletrica o se questa è già acquisita.
Tra i tutori vi è il corsetto di Milwaukee, utilizzato anche nell’osteoporosi, che consiste in un’ortesi dinamica
a tre punti: anello del collo, per l’estensione del rachide cervicale, montanti posteriori imbottiti, che
esercitano pressione sull’apice della cifosi, e anello pelvico, che stabilizza il rachide lombare. L’utilizzo di
questi presidi non è finalizzato alla correzione della deformità, ma alla prevenzione del suo peggioramento:
vengono utilizzati in pazienti giovani che hanno sofferenza ischemica vertebrale che poi andrà a risolversi,
con lo scopo di alleggerire il carico a quel livello. Vi è miglioramento della lordosi lombare nel 35% e della
cifosi toracica nel 49% dei casi in adolescenti trattati con Milwaukee a tempo pieno per 14 mesi e part-time
per 18 mesi.
In caso di patologia più grave o aggressiva il busto gessato, confezionato sul letto di Cotrel, è generalmente
da preferire all’ortesi per i migliori risultati ottenibili. I busti gessati non sono solitamente ben tollerati, si
opta quindi spesso all’applicazione di 2-3 busti gessati rinnovati ogni 2-3 mesi e dopo i 6-9 mesi si mantiene
la correzione con busto Milwaukee fino alla maturità scheletrica. Per agevolare il paziente si può applicare il
busto gessato nella stagione invernale e i tutori nella stagione più calda.
➢ Trattamento chirurgico
Le indicazioni al trattamento chirurgico sono:
• Deformità cifotica >75° che non ha risposto al trattamento ortesico;
• Rachialgia refrattaria invalidante con una curva > 60° in paziente scheletricamente maturo;
• Alterazioni neurologiche;
• Alterazioni respiratorie.
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Il trattamento chirurgico non viene eseguito per sole finalità estetiche: ha come obiettivi arrestare la
progressione, alleviare i sintomi, migliorare la curvatura e ottenere una buona artrodesi. L’intervento è
piuttosto aggressivo e demolitivo, con osteotomie peduncolari correttive lordosizzanti, che possono
determinare notevoli perdite ematiche.
L’immagine mostra ciò che avviene parafisiologicamente con l’invecchiamento, fino ad arrivare in alcuni casi
a quadri eclatanti. È emblematico il caso di questa signora, diventata ormai famosa per le seguenti fotografie
scattate all’età di 50 e 75 anni che ricorrono ai congressi sull’osteoporosi.
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Lezione 2 – parte 3 (Lesioni traumatiche della colonna vertebrale)
Sbobinatore: M.T.
Docente: Zarattino
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2.9.2 Diagnosi
Di fronte ad una sospetta frattura vertebrale è buona norma cercare di muovere il paziente il meno possibile,
onde evitare di trasformare un’eventuale frattura amielica in una frattura mielica (con danni irreversibili),
specialmente se si tratta di una frattura instabile.
➢ Valutazione clinica
È importante eseguire un’attenta ispezione, volta a ricercare tumefazioni, abrasioni o ecchimosi, seguita dalla
palpazione della zona traumatizzata per evidenziare contratture, mobilità di tratti ossei (come nel caso di
frattura delle apofisi spinose) o “gradini” indici di lussazione.
Nei traumi della colonna assume rilevanza specifica la valutazione neurologica (qualora il paziente sia
cosciente2).
Lo studio NEXUS3 definisce dei criteri di basso rischio per lesioni gravi:
- assenza di dolenza e dolorabilità alla palpazione della linea mediana
- assenza di deficit neurologici focali
- normale livello di coscienza (GCC ≥ 14)
- non evidenza di intossicazioni (dall’esame obiettivo o eventuale studio sulle urine secondario al
rilievo obiettivo di segni di intossicazione)
- non lesioni di altri distretti corporei che possono distrarre il paziente dal dolore cervicale (es: frattura
di un osso lungo, grave ustione, dolore viscerale…).
➢ Indagini strumentali
Di norma si esegue una RX (in proiezione AP, LL e odontoide), anche se alcune fratture possono sfuggire ad
uno studio RX tradizionale. Nei pazienti politraumatizzati, invece, si passa direttamente ad esami di secondo
livello (TC e RMN).
Secondo la classificazione di Denis4, una frattura si definisce instabile quando sono coinvolte almeno due
colonne. Esistono anche dei criteri anatomici di instabilità:
- lesione del muro posteriore;
- lesioni disco-legamentose;
- frattura associata a lussazione interapofisaria.
2 Le fratture vertebrali, infatti, possono verificarsi anche a seguito di politraumi (vedi lezione 8: POLITRAUMI & EMERGENZE
ORTOPEDICHE)
3 Studio prospettico osservazionale condotto nel 1992 e coinvolgente 21 PS americani per un totale di 34.000 pazienti traumatizzati
organizzato di Zarattini.
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2.9.A Fratture del RACHIDE CERVICALE
Quando ci si trova di fronte a fratture cervicali, il quadro si fa più complesso soprattutto per il possibile rischio
di paralisi. In realtà le fratture più delicate sono quelle localizzate da T4 a T12, in quanto in questa sede, il
canale vertebrale è più stretto e quindi una minima retropulsione del muro posteriore, anche di soli 2 mm,
può dare un quadro molto grave fino alla paralisi.
Le fratture cervicali, in particolare quella di C2 (epistrofeo) e C1 (atlante), non sono così gravi come si pensa
(tanto che una buona percentuale delle fratture di C2 addirittura una volta non venivano neanche
riconosciute). Inoltre, se le fratture vertebrali toraco-dorsali si manifestano generalmente in pazienti
politraumatizzati, le fratture cervicali possono anche emergere come fratture isolate.
Le dinamiche possono essere varie; sicuramente molto colpiti sono quei geni che si tuffano in acque basse e
sbattono con la testa sul fondale.
• Tipo I (< 5%): frattura obliqua che interessa solo la parte apicale del dente
dell’epistrofeo, sopra il legamento trasverso.
• Tipo II (> 60%): frattura alla base del dente (sono le fratture tipiche
dell’impiccato); hanno una prognosi peggiore perché, qualora non
vengano identificate, possono andare incontro a pseudoartrosi.
• Tipo III (30%): rima di frattura attraverso il corpo di C2; presenta prognosi
favorevole, in quanto l’ampia superficie di contatto tra i due frammenti
consente una buona probabilità di guarigione.
Diagnosi
Quello che si può vedere generalmente a livello di C2, sia tramite TC che RX (in quest’ultimo caso, si ricorda,
va fatta chiedendo al paziente di mantenere la bocca aperta), è una asimmetria tra il dente dell’epistrofeo
e le masse laterali dell’atlante.
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Trattamento
Per eseguire un trattamento adeguato, è necessario distinguere le fratture in:
• Composte: dopo 1 settimana di immobilizzazione, si eseguono delle RX dinamiche che servono per
identificare la stabilità o l’instabilità della frattura:
o in caso di stabilità si procede con un’immobilizzazione per 12-15 settimane con delle protesi;
o in caso di instabilità si procede con la riduzione (chirurgica o ibrida, come la Halo-Vest5).
• Scomposte: si procede immediatamente con la riduzione chirurgica
La riduzione chirurgica prevede, per via anteriore trans-orale, un’incisione (di circa 3 cm) della faringe a
livello dell’ugola, per accedere al dente dell’epistrofeo: si inserisce una vite al suo interno per ridare
stabilità alla struttura.
5 È un sistema di contenzione esterno temporaneo (generalmente dai 2 ai 4 mesi) costituito da una parte metallica (titanio, per cui è
possibile eseguire qualsiasi radiografia o esami di risonanza magnetica) ed una parte in plastica dura rivestita di un materiale soffice
anallergico. Le parti metalliche consistono in un’ areola che viene fissata con delle viti alla testa (osso) e da dei tubi del diametro di
circa 7-8 mm (barre) che permettono di fissare l’areola al corsetto. L’Halo Vest viene posizionato sul paziente a pelle (cioè senza
nessun indumento sotto) da uno o più medici, in anestesia locale, in reparto o in sala radiologica. L’Halo-Vest non può essere utilizzato
per le fratture instabile scomposte. In questo caso si ricorre alla terapia chirurgica.[http://www.aots.sanita.fvg.it]
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Si verifica soprattutto a seguito di cadute (tipicamente in soggetti anziani) e incidenti automobilistici
responsabili di iperestensione del collo.
La frattura è quasi sempre letale poiché determina la compromissione di nuclei vitali a livello del bulbo.
La classificazione maggiormente utilizzata è quella di Levine e Edwards (non approfondita dal prof.)
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2.9.A.2 Tear-drop fracture (frattura a goccia)
Si tratta di una frattura in compressione scomposta spigolo-antero-inferiore del corpo vertebrale, risultante
da un grave trauma in flessione (tipico caso del pirla che si tuffa di testa in acqua bassa). Si associa a:
- arretramento del muro posteriore;
- lesione del disco;
- lesione del legamento IVCP;
- retrolistesi.
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Trattamento
Si esegue una riduzione sotto anestesia generale (trazione nel senso dell’inclinazione della testa), seguita da
un’RX per confermare l’avvenuta riduzione e dal posizionamento di un collare cervicale per 6-8 settimane.
Ogni 15 giorni si fanno delle RX di controllo e dopo 6 settimane di immobilizzazione queste vengono eseguite
in flessione (RX dinamiche).
In caso di sublussazione secondaria/tardiva o in caso di instabilità evidenziata alle RX dinamiche, si considera
la possibilità di un’artrodesi.
La classificazione più utilizzata è la classificazione AO6, la quale distingue 3 gruppi (A, B, C) a seconda del
meccanismo di frattura e in base alla gravità.
Si tratta delle fratture più frequenti a livello del rachide. Più dei 2/3 delle fratture si concentra tra T12 e L3 e
più dei 2/3 di tutte le fratture è di tipo A (fr. in compressione)
6 Vedi Lezione 8
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2.9.B.1 Fratture di tipo A – lesioni da compressione
Le fratture di tipo A1 sono il risultato del fallimento del tentativo da parte della colonna anteriore di resistere
ad una compressione: ne deriva una frattura isolata (anteriore) del corpo vertebrale con accorciamento della
colonna anteriore.
Le fratture di tipo A2, definite anche split fractures, si caratterizzano per una separazione del corpo
vertebrale sul piano sagittale (A2.1) o frontale (A2.2), comprendendo anche le fratture di tipo pincer (A2.3),
in cui vi è maggior rischio di pseudoartrosi a causa della frequente presenza di materiale discale tra i
frammenti di corpo vertebrale.
Le fratture da scoppio vengono classificate come A3. Sono caratterizzate da una comminuzione (più o meno)
importante del corpo vertebrale, con possibile coinvolgimento del muro posteriore: nelle fratture di tipo
A3.3, definite “complete”, c’è un alto rischio di dislocazione posteriore dei frammenti ossei nel canale
vertebrale con possibile danno neurologico (fratture mieliche).
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Trattamento delle fratture di tipo A
Le fratture A1, essendo in gran parte stabili, vengono trattate in modo conservativo:
- riposo a letto per 25 giorni;
- ortesi (in grado di limitare i movimenti di flesso estensione e di bending laterale) per 4 mesi.
Il prof lascia nelle note una sorpresina a tradimento: un approfondimento riguardante le ortesi utilizzate nei
traumi vertebrali. Lo riporto integralmente.
BUSTO TIPO TAYLOR. Nei casi in cui la presa sternale venga mal tollerata dal
paziente a causa della elevata pressione esercitata su tessuti molli o a causa della
conformazione ipercifotica del torace, dobbiamo ricorrere a busti che esercitano
la loro azione non per spinta ma per trazione: quello maggiormente utilizzato è il
Taylor. Si tratta di un busto rigido costituito da parte in tela e parte in lega di
alluminio. La parte in tela è costituita da un bustino che ha il compito di fissare la
parte posteriore di alluminio. Al supporto posteriore in alluminio sono fissati due
spallacci che passando sulle spalle e sotto le ascelle e incrociandosi
posteriormente esercitano una trazione con effetto estensorio della colonna
vertebrale e relativa riduzione della cifosi dorsale. L'utilizzo di questa ortesi è particolarmente indicato nei pazienti
molto anziani e con scarsa compliance, ha una discreta azione di immobilizzazione e, se ben modellato, un buon
effetto correttivo.
Nei casi in cui, per una particolare morfologia del paziente o per la necessità di ottenere specifiche azioni correttive,
i dispositivi standard non trovano un’adeguata corrispondenza, dobbiamo far ricorso a dispositivi che vengono
modellati appositamente sul paziente.
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Le fratture di tipo A2 vengono di norma trattate in modo conservativo. Tuttavia, poiché sussiste il rischio di
evoluzione in pseudoartrosi, alcuni autori prediligono il trattamento chirurgico che prevede in prima battuta,
una fissazione posteriore; qualora la frattura non si consolidasse, si esegue un secondo intervento (più
invasivo) di corpectomia (asportazione del soma e sua sostituzione con una cage ad espansione).
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- nelle fratture di tipo B2 si evidenzia sempre un “gap” osseo significativo a livello degli elementi
posteriori, associato a diversi gradi di coinvolgimento della colonna anteriore;
- una lesione molto particolare è la frattura di B3 che coinvolge anche la colonna anteriore con lesione
in estensione del disco vertebrale: si tratta di una lesione altamente instabile ad elevato rischio di
danno neurologico.
Alcune fratture di diverso tipo possono presentare radiologicamente un soma simile7. Per distinguere una
lesione legamentosa (instabile), nell’immagine B1, da una lesione da compressione (stabile), A1
nell’immagine, è necessario andare a tracciare le tangenti al corpo vertebrale interessato e a quelli vicini:
- le lesioni stabili presentano tangenti parallele (o quasi), poiché l’apparato legamentoso è conservato;
- nelle lesioni instabili, invece, le tangenti tracciate hanno una pendenza significativamente diversa
(angolo determinato dalle due tangenti > 25°).
7 Questa parte non è un’integrazione, il prof ne ha parlato (però mi sembrava proprio da mettere in corsivo )
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2.9.C Spondilolisi
La spondilolisi consiste nell’interruzione dell’istmo (lisi istmica), cioè di quella parte ristretta dell’arco
posteriore delle vertebre lombari che è compresa tra le apofisi superiori e le faccette articolari inferiori. La
spondilolisi può scatenare una lombalgia e delle sciatalgie.
Si verifica tipicamente per effetto combinato di fattori scatenanti (trauma nella zona lombare8 o
sollecitazioni meccaniche eccessive) e fattori costituzionali (iperlordosi lombare). Le vertebre maggiormente
interessate sono: L5 (81%), L4 (14%) e L3 (2%); in alcuni casi vi può essere una spondilolisi combinata di L4 e
L5 (3%).
2.9.C.1 Diagnosi
È fondamentale il supporto dell’imaging. Alle RX tradizionali (AP e LL) non si vede un cazzo; è necessario
effettuare una proiezione obliqua attraverso la quale si evidenzia il “cagnolino” (o “cagnolina” per rispettare
la parità dei sessi) che ha come collo l’istmo vertebrale. In caso di spondilolisi:
- alcuni autori la descrivono come una “collanina” indossata dal cagnolino;
- altri, decisamente più fighi, dipingono questa frattura come il “cagnolino decapitato”.
8 Ho letto un articolo un po’ datato, ma molto interessante riguardo la frattura di Neymar occorsa durante il mondiale 2014 (foto
tratta dalle slide del docente), che fa emergere alcuni dubbi circa l’effettiva lesione del campione brasiliano. Lascio il link:
https://www.medicitalia.it/news/ortopedia/4843-se-la-frattura-vertebrale-di-neymar-e-un-fake.html
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2.9.C.2 Trattamento
Quando la frattura è “fresca”, il trattamento prevede una ricostruzione chirurgica dell’istmo che garantisce
restitutio ad integrum della pars interarticolaris.
In caso di significativo ritardo diagnostico (> 5-6 mesi), data l’alta probabilità di pseudoartrosi, l’intervento di
scelta è l’artrodesi.
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Ex Lezione 6 del giorno 03/05/19 DEVASTATA
Docente: Guido Zarattini
Argomenti: rizoartrosi, sindrome del tunnel carpale, morbo di dupuytren, tenosinoviti stenosanti della
mano, dito a scatto
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Il professore non riprende l’anatomia della mano, per cui ho aggiunto solo un breve riassunto delle ossa della
mano, tratto da Wikipedia. Mi sarebbe piaciuto aggiungere anche qualche informazione circa la lettura della
mano, ma lascio il link per i più mistici: https://www.wikihow.it/Leggere-la-Mano
Si possono aggiungere a queste altre quattro ossa sesamoidi presenti nei tendini del muscolo flessore breve del
pollice, del muscolo flessore proprio dell'indice e del muscolo flessore proprio del mignolo.
3.1 Rizoartrosi
La rizoartrosi è una patologia degenerativa della cartilagine articolare (artrosi) dell’articolazione tra
trapezio e primo metacarpale (TM), caratterizzata da una progressione verso la deformità e la rigidità
dolorosa. Presenta un elevato impatto sociale: interessa, infatti, circa il 5% della popolazione italiana (3
milioni di persone), colpendo con maggior frequenza il sesso femminile soprattutto in epoca
perimenopausale (affligge il 10% delle donne dopo i 60 anni). I pazienti tendono a sottovalutare ed accettare
questo problema con una sorta di rassegnazione “ancestrale”.
I costi sociali della patologia non sono da sottovalutare, anche in termini di giorni di assenza dal lavoro, in
particolar modo per i lavori manuali.
Le articolazioni carpo-metacarpiche dalla seconda alla quinta mostrano un’escursione motoria crescente in
senso radio-ulnare (il che consente più agevolmente di far assumere al palmo della mano la forma di “coppa”).
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3.1.2 Patogenesi
Vi sono due condizioni principali che predispongono alla rizo-artrosi:
- over-use: un carico eccessivo a carico dell’articolazione predispone allo sviluppo di artrosi. La
rizoartrosi veniva anche chiamata (oggi non più) “malattia delle sarte”, essendo riscontrata
soprattutto in questa categoria lavorativa; le prese fini determinano, infatti, un grosso scarico di forza
sull’articolazione metacarpo-falangea (MF);
- anomala inserzione dell’abduttore lungo1 del pollice; da studi basati su reperti intraoperatori è
emerso che vi sono 14 varianti di inserzione di questo tendine: metà di queste varianti rendono
meccanicamente sfavorevole il funzionamento dell’articolazione, avendo un effetto destabilizzante
e determinando quindi sublussazione e usura precoce.
Normalmente l’abduttore lungo si divide in due fasci: uno si inserisce a livello del primo osso
metacarpale, l’altro a livello del trapezio. Come si può osservare dalla figura B, la contrazione di
questo muscolo determina l’abduzione corretta dell’articolazione trapezio-metacarpale.
Qualora mancasse l’inserzione a livello del trapezio (condizione comune, si verifica nel 30% dei casi),
tutta la forza in abduzione verrebbe esercitata a carico del primo metacarpo, favorendo l’instabilità
dell’articolazione trapezio-metacarpale e, dunque, la sua degenerazione (fig. C). Questo tipo di
artrosi è più frequente in individui giovani (30-40 anni).
Si tratta di alterazioni molto fini, difficilmente riscontrabili tramite indagini radiologiche; tuttavia, il
riscontro di una rizoartrosi in un paziente giovane deve subito indurre il sospetto di un’alterazione
dell’inserzione dell’abduttore lungo del pollice, anche in assenza di una conferma radiologica. Il
trattamento, comunque, non prevede quasi mai la trasposizione dell’inserzione del tendine, quindi
non vi è una reale necessità di dimostrare il difetto anatomico con indagini radiologiche2.
3.1.3 Eziologia
Si distinguono quadri di:
- artrosi primaria, che può essere:
o associata ad artrosi multi-distrettuale, soprattutto ad artrosi delle dita;
o isolata: l’artrosi si localizza alla mano, portando allo sviluppo di rizoartrosi.
1 Il docente (o lo sbobinatore dell’anno scorso) parla di abduttore breve del pollice. Tuttavia, poiché l’abduttore breve del pollice è
un muscolo intrinseco della mano (origina, infatti, in larga misura dal retinacolo dei muscoli flessori e presenta alcuni fasci di fibre
originanti dai tubercoli di scafoide e trapezio e dal muscolo abduttore lungo del pollice) che si inserisce a livello della falange
prossimale del pollice, è evidente che non possa trattarsi dell’abduttore breve (come si evince anche dall’immagine).
2 In pratica quello che avete appena letto prima è totalmente inutile.
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- Artrosi secondaria:
o post-traumatica, conseguente a:
▪ frattura di Bennet (immagine a fianco): frattura della base del primo
metacarpale; tale frattura, se non trattata in modo adeguato3, rende
suscettibile l’articolazione alla degenerazione precoce;
▪ frattura del trapezio, lussazione/sublussazione della trapezio-
metacarpale (in realtà molto rare, quasi anedottiche)
o a malformazioni tendinee/muscolari
3.1.5 Clinica
Il quadro clinico è caratterizzato da:
- dolore: si tratta del sintomo che spinge il paziente dal medico. Compare inizialmente solo sotto
sforzo e localizzato (volare ai muscoli dell’eminenza tenar a livello dell’articolazione TM), per poi
manifestarsi anche a riposo e di notte, in maniera diffusa.
- tumefazione (determinata dalla sinovite conseguente alla condropatia degenerativa, che può
giungere fino a quadri di esostosi);
- instabilità articolare;
- rumore: essendo un’articolazione superficiale è possibile udire uno scroscio articolare. Il rumore è
evocabile palpando con una certa energia l’articolazione;
3Una frattura non riconosciuta o mal trattata non si consolida adeguatamente e la conseguente perdita della congruenza tra i capi
articolari favorisce l’usura.
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- ridotta articolarità fino all’anchilosi: in realtà la rizoartrosi non è quasi mai invalidante e il pz non si
accorge della ridotta articolarità (che può però essere evidenziata con dei test specifici) in quanto le
articolazioni a monte (soprattutto l’articolazione scafo-trapezoidale) sono in grado di compensare la
perdita di movimento normalmente eseguito dalla trapezio-metacarpale. Proprio per questo motivo
è possibile intervenire con l’artrodesi, ovvero la fusione dell’articolazione tra trapezio e primo
metacarpale. Un intervento di questo tipo non può chiaramente essere eseguito a livello del ginocchio
(è invece possibile a livello delle vertebre, si possono quindi fondere 2 vertebre tra di loro e la perdita
di movimento articolare viene compensata dalle altre vertebre);
- riduzione della forza: le pazienti tipicamente riferiscono di non riuscire a svitare o avvitare la
caffettiera o a girare la chiave nella serratura della porta.
Esempio di rizoartrosi destra con sublussazione della TM: il deficit in adduzione è patognomonico.
All’RX si osserva lassità della metacarpo-falangea, che si traduce nell’iperestensione del pollice evidenziabile clinicamente.
La diagnosi differenziale può essere difficoltosa in fase iniziale, quando la sintomatologia è sfumata e
mascherata da altre patologie frequenti nelle donne nella stessa fascia d’età, come:
- sindrome del tunnel carpale (in realtà è abbastanza facile da differenziare, però la riduzione della
forza è un fattore comune ad entrambe patologie)
- morbo di De Quervain
- pollice a scatto, o tenosinovite stenosante dei flessori delle dita
- pseudoartrosi dello scafoide
3.1.6 Classificazione
La classificazione utilizzata è quella di Eaton-Littler, che individua 4 gradi sulla base delle alterazioni
artrosiche radiografiche:
- Grado I: riduzione dello spazio articolare
- Grado II: presenza di sclerosi subcondrale + piccoli osteofiti (< 2 mm)
- Grado III: riduzione della rima articolare, presenza di osteofiti ben visibili (> 2 mm)
- Grado IV: sclerosi subcondrale della scafo-trapezoidale
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3.1.7 Trattamento
Nelle prime fasi si può adottare un approccio di tipo conservativo, mediante:
- immobilizzazione: a differenza dell’artrosi dell’anca e del ginocchio, in cui si incoraggia
il paziente a mantenere un movimento più ampio possibile dell’articolazione, nella
rizoartrosi è consigliata l’immobilizzazione. L’immobilizzazione riduce infatti il dolore
articolare (se l’articolazione non si muove, non dà dolore) ed è ottenuta tramite splint
o ortesi. I tutori impediscono il movimento della TM: ricentrano il primo osso
metacarpale sul trapezio, contrastando le sollecitazioni sublussanti sull’articolazione da parte dei
gesti quotidiani. L’interfalangea rimane libera, consentendo lo svolgimento di attività manuali;
- infiltrazione cortisonica intra-articolare: per riuscire ad eseguire l’infiltrazione è necessario distrarre
l’articolazione, risulta quindi una manovra abbastanza dolorosa. Non è un trattamento risolutivo,
tuttavia consente di attenuare i sintomi per diversi mesi.
- terapia fisica: si esegue normalmente dopo l’infiltrazione, utilizzando laser, ultrasuoni etc…
Nessuna delle terapie fisiche elettromedicali è supportata da evidenze scientifiche di classe I, mentre
l’infiltrazione di cortisone ha delle evidenze chiare riguardo al suo ruolo antalgico.
Quando il trattamento conservativo non ha dato gli effetti sperati e la patologia inficia la qualità di vita del
paziente, si opta per la chirurgia. La scuola di Brescia esegue solitamente la trapeziectomia con
tenosospensione o interposiziione biologica come intervento di scelta.
➢ Artroscopia
Prevede la sinovectomia e lo shaving degli osteofiti; viene eseguito solo nelle rizo-artrosi iniziali e per fare
diagnosi di certezza, nelle fasi tardive l’articolazione è talmente alterata che non si riesce nemmeno a entrare
nell’articolazione con gli strumenti. Attualmente l’uso di questa tecnica tratta solo una piccola quota di
pazienti (3%).
L’intervento prevede l’esecuzione di un taglio di pochi cm per permettere l’ingresso dell’ottica lateralmente
e del palpatore medialmente; si valuta lo stato della cartilagine e si esegue il trattamento (piuttosto
complesso, infatti le ottiche sono molto piccole e può capitare che si rompano durante l’intervento).
➢ Legamentoplastica
Si tratta di un intervento attuabile in quel 30% di pazienti che presenta un’anomala inserzione dell’abduttore
lungo del pollice: l’obiettivo è risolvere il difetto anatomico per donare stabilità all’articolazione; anche in
questo caso viene riservato alle fasi inziali della patologia.
➢ Osteotomia di Wilson
Si esegue un’osteotomia di sottrazione a livello del primo osso metacarpale, con effetto ricentrante sul
trapezio. È indicata negli stadi inziali, nel caso sia presente una sublussazione del primo raggio.
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➢ Artroplastica (intervento di scelta)
Lo scopo dell’intervento è asportare il trapezio parzialmente (emitrapezectomia) o totalmente
(trapezectomia) e, al fine di mantenere una adeguata lunghezza del primo raggio conservandone stabilità e
mobilità, colmare lo spazio residuo con tessuto biologico.
Esistono diversi tipi di artroplastica, quest’anno il professore cita l’utilizzo di una bandelletta ricavata dal
flessore radiale del carpo oppure di una porzione del tendine del palmare gracile arrotolato (come
un’acciuga, si chiama infatti intervento di anchovy). L’anno scorso, invece, ha citato gli interventi riportati di
seguito.
L’artroplastica di Ceruso è un po’ più semplice rispetto all’intervento precedente. Questa tecnica prevede
la trapeziectomia, prendere un pezzo del tendine dell’abduttore lungo del pollice e farlo arrotolare
attorno al flessore radiale del carpo e bloccarlo alla base del secondo metacarpale.
Esistono innumerevoli interventi di artroplastica, che si differenziano tra di loro per piccoli dettagli: in
questo modo è possibile personalizzare il trattamento in base all’anatomia del singolo pz; in linea
generale, comunque, i dati di letteratura confermano l’efficacia dell’artroplastica biologica nella rizo-
artrosi.
Infine, alcuni propongono addirittura di togliere il trapezio e mettere il gesso per un mese senza eseguire
nessun’altra manovra. In questo modo si formerà tessuto cicatriziale che funziona come l’interposizione
biologica.
4Il prof. Giorgio Brunelli (1925-2018) è nato a Parma ma ha lasciato il proprio cuore a Brescia, dove si è trasferito prima di compiere
20 anni: la sua storia personale coincide con la storia della microchirurgia italiana. È stato maestro di intere generazioni di
microchirurghi, pioniere della microchirurgia in Italia e nel mondo. Ha cominciato la sua avventura di microchirurgo presso gli Spedali
Civili di Brescia, dove ha eseguito il primo reimpianto in Europa di arto superiore nel 1973. In poco tempo il suo reparto è diventato
centro di riferimento nazionale per il trattamento microchirurgico delle lesioni neurovascolari periferiche. Era un drago, geniale sotto
moltissimi punti di vista. Se volete leggere qualcosa in più, lascio il link di un bellissimo articolo che lo racconta: http://www.il-
galileo.eu/n72/Brunelli.html
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➢ Artrodesi
L’artrodesi può essere eseguita in diversi modi, anche se il trattamento in linea generale prevede l’unione di
trapezio e primo metacarpale eliminando l’articolazione: viene resecata la cartilagine articolare per
permettere ai due capi ossei di fondere tra di loro, poichè l’apposizione delle due ossa sub-condrali favorisce
la formazione del callo osseo. Il tutto è poi fissato internamente attraverso:
- cambre a memoria di forma, tenute in freezer e impiantate con un martelletto tra trapezio e
metacarpo; con il calore corporeo si compattano e tendono a compattare l’articolazione dando una
fusione dopo 2 mesi, periodo durante il quale il paziente tiene un gesso
(l’immobilizzazione favorisce la formazione del callo).
- viti di Herbert, che, tramite un sistema particolare, sono in grado di esercitare un
effetto di compressione sui capi ossei man mano che vengono avvitate.
- fili di Kirschner: l’esecuzione è molto più semplice, ma la stabilità ottenuta è
minore.
Una volta il dogma per questo intervento era il seguente: eseguire l’artrodesi nel lavoratore manuale
(specialmente se ha bisogno di tanta forza) ed eseguire, invece, l’artroplastica nelle casalinghe. Oggi, invece,
è stato praticamente abbandonato grazie al miglioramento dello tecniche che conservano l’articolarità (come
quelle prima descritte).
Va comunque detto che l’artrodesi nel suo complesso è un ottimo intervento; nel caso in cui si sviluppi artrosi
nell’articolazione scafo-trapezoidale, dopo circa 25 anni dall’intervento, è possibile eseguire un’ulteriore
artrodesi sull’articolazione che ha sviluppato artrosi (con il rischio di sviluppare artrosi all’articolazione a
monte dopo altri 25 anni). In questo modo, quindi, si è comunque riusciti a tenere sotto controllo il problema
per un periodo di 50 anni.
➢ Protesi
Nonostante siano stati provati numerosi materiali e diverse strutture protesiche, nessuna ha dato risultato
soddisfacente.
Nel file power point caricato sulla comunità didattica vengono mostrate numerose protesi, senza un
commento da parte del docente. Trovo, pertanto, inutile riportare le immagini e i nomi di queste: se siete
appassionati di protesi sapete dove andare a cercare. L’anno scorso ha parlato delle seguenti protesi.
La protesi di Swanson (spaziatore in silicone) si articola con lo scafoide. Tale protesi viene utilizzata
normalmente per il trattamento delle interfalangee prossimali e metacarpo-falangee nell’artrite
reumatoide. Nei pazienti con artrite reumatoide questi interventi hanno avuto successo, mentre sono
state fallimentari nei pazienti con rizoartrosi. Con l’intervento si rischia usura e osteolisi delle ossa attorno
alla protesi.
Talvolta, successivamente alla mobilizzazione della protesi, è richiesto un intervento di revisione; il rischio
operatorio di una revisione è sempre maggiore del primo intervento. Dunque, si preferisce non
protesizzare.
L’unica protesi che ha avuto un discreto successo è stata la Pyrodisk: uno spaziatore in pirocarbonio;
tuttavia, ad oggi non ci sono reali dati a suo favore, in quanto il monitoraggio dei pz impiantati è ancora
in corso; inoltre i costi sono estremamente elevati.
8/42
Per quanto riguarda il trattamento della rizoartrosi il professore non aggiunge altro, quello che segue è quanto trattato nella
sbobina dell’anno scorso.
➢ Interventi di stabilizzazione
Gli interventi di stabilizzazione vengono eseguiti in presenza di un’articolazione non ancora artrosica ma
intrinsecamente instabile, pertanto trovano indicazione principalmente in pazienti giovani. Trattandosi di
tecniche molto complesse, seppur progressivamente semplificate, vengono eseguite solo in centri di
riferimento: richiedono, infatti, una certa curva di apprendimento e quindi una casistica adeguata.
La stabilizzazione secondo Brunelli è un intervento molto complesso (vedi immagine), che prevede la
ricostruzione del legamento inter-metacarpale con bandelletta prelevata dall’abduttore lungo del pollice
(ALP). Questo intervento è praticabile anche in caso di lussazione della trapezio-metacarpale, ma solo in
centri di chirurgia della mano5.
➢ Intervento di denervazione6
Quando il trattamento conservativo risulta inefficace è preferibile, piuttosto che ricorrere all’uso di cortisone,
procedere alla denervazione selettiva articolare, intervento chirurgico minimamente invasivo mirato
unicamente al controllo del dolore. Consiste nel praticare tre piccole incisioni cutanee che permettono di
eseguire, con tecnica microchirurgica, l’ablazione selettiva dei rami nervosi deputati alla conduzione delle
sensibilità dolorifica articolare. L’intervento viene eseguito in anestesia loco regionale, con ricovero
giornaliero e porta ad ottimi risultati con scomparsa del dolore oppure a una sua riduzione variabile dal 50%
al 80%. In molti casi, questo intervento è sufficiente per consentire un miglioramento funzionale soddisfacente
pur lasciando invariata la situazione artrosica.
I risultati sembrano buoni, ma l’efficacia dell’intervento viene ancora oggi messa in discussione da molti
specialisti.
3.1.8 Conclusioni
Vi sono forme gravi senza dolore e forme lievi molto dolorose. La decisione terapeutica dipende
esclusivamente da quanto la patologia interferisce con la qualità della vita di tutti i giorni.
5 Nei centri non di riferimento la lussazione della trapezio-metacarpale viene trattata stabilizzandola con due fili di Kirschner. Tutti
questi pazienti poi si lussano di nuovo e vengono trattati con la stabilizzazione secondo Brunelli.
6 Visto che quanto scritto dallo sbobinatore dell’anno scorso era completamente incomprensibile, ho riportato quanto scritto sul sito
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3.2 Sindrome del tunnel carpale
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La sindrome del tunnel carpale è molto frequente e un medico deve essere in grado di riconoscerla. In alcuni
casi, la sintomatologia dolorosa che coinvolge il braccio può far pensare ad un infarto; altre volte, invece, la
sindrome viene misconosciuta e diagnosticata come mielopatia o stenosi foraminale con compressione delle
radici di C5-C6.
2. Stadio avanzato: i sintomi si manifestano anche durante il giorno con comparsa, inoltre, di deficit di
sensibilità; il paziente lamenta, infatti, che spesso gli cadono gli oggetti dalle mani (non per mancanza
di forza, ma proprio a causa del deficit di sensibilità8)
3. Stadio grave – denervazione: il dolore scompare, tuttavia si manifestano disturbi gravi della
sensibilità (fino all’anestesia e alla paralisi) + ipotrofia muscolare dovuti a degenerazione delle fibre
sensitive e motorie.
È importante riconoscere la malattia nello stadio infiammatorio; con il passare del tempo, quando ormai si è
presentato un deficit della sensibilità e della muscolatura tenare, il danno può anche essere irreversibile. Non
si tratta di un deficit molto esteso, tuttavia risulta invalidante per i pazienti che svolgono un lavoro manuale,
in cui è richiesta una certa precisione dei movimenti.
7I disturbi sono soprattutto notturni a causa della riduzione della cortisolemia e delle posizioni assunte durante il sonno.
8 Per questo motivo la patologia entra in diagnosi differenziale con la rizoartrosi. Tuttavia, nella sindrome del tunnel carpale non sono
presenti né il dolore alla TM né gli scrosci articolari.
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3.2.4 Diagnosi
La diagnosi viene eseguita attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo. L’esame elettromiografico viene
utilizzato come conferma.
Anamnesi
- Attività lavorativa/sportiva del paziente: la causa principale dell’insorgenza della sindrome è la
tenosinovite9 di uno dei 9 tendini contenuti nel canale carpale (per questo spesso i pz presentano
un rigonfiamento volare in corrispondenza della guaina dei flessori), in larga parte determinata da
over-use da attività lavorativa o sportiva.
- Sintomi riferiti dal pz:
o risveglio notturno con formicolio e intorpidimento della mano,
bruciore (più raro), dolore, gonfiore delle prime tre dita
o gonfiore al mattino della mano
o caduta degli oggetti
o perdita di sensibilità
o perdita di forza
o dolore all’arto superiore (il dolore tende a progredire prossimalmente lungo il decorso del
nervo, anche se in realtà questo meccanismo di irradiazione ed estensione prossimale è più
tipico delle sindromi compressive a carico del nervo ulnare)
o parestesie in posizioni statiche
Esame clinico
Attraverso un esame neurologico si valutano la sensibilità e la muscolatura:
- Valutazione della sensibilità: si evidenzia un deficit di sensibilità nella zona di innervazione del nervo
mediano. Può essere eseguita tramite strumentazione particolare come il diapason o il
monofilamento di semmes-weinstein: si cerca di capire quale sia la minima distanza a cui il pz
percepisce due stimoli come distinti (nei soggetti sani questa distanza è 5 mm).
- Valutazione della muscolatura: si evidenzia atrofia dei muscoli dell’eminenza tenar (innervati dal
nervo mediano). Il trofismo di questi muscoli viene valutato chiedendo al pz di schiacciare tra di loro
il primo e il quinto dito, palpando in corrispondenza dell’eminenza tenar: in stadi molto avanzati al
paziente risulterà quasi impossibile eseguire questo movimento; negli stadi meno avanzati, invece, il
paziente riesce, ma si percepisce una riduzione del trofismo dei muscoli. La valutazione del trofismo
muscolare può anche essere fatta mentre il medico esercita una pressione sul primo dito (come
mostrato nell’immagine).
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Si eseguono test provocativi specifici:
- Segno di Tinel: si esegue una percussione a livello del tunnel carpale (plica
flessoria, localizzata sul versante volare del polso); è positivo quando la
manovra induce delle parestesie alle dita. Il test può essere quantificato
misurando la distanza (in senso prossimale) dalla linea trasversa cutanea
volare del polso: se il test è positivo anche quando eseguito molto lontano dal
carpo, significa che la sofferenza del nervo è molto importante.
Diagnosi ex juvantibus
Qualora siano presenti particolari dubbi si può ricorrere alla diagnosi ex juvantibus (diagnosi supportata da
un tempo di remissione della patologia in seguito ad un dato trattamento) se il paziente trae beneficio da un
trattamento specifico, allora è probabile che il problema sia a carico del nervo mediano. I trattamenti che si
adottano in questo caso sono:
- l’utilizzo di un tutore notturno in grado di mantenere il polso in estensione di 15° (posizione che
riduce al minimo le pressioni vigenti a livello del tunnel carpale):
- infiltrazione di cortisone a livello del canale carpale (la sintomatologia dovrebbe regredire per oltre
un mese).
Esami strumentali
L’esame principe nella conferma della diagnosi di sindrome del tunnel carpale è l’elettromiografia10 (EMG),
che permette di stimare il grado di sofferenza dei rami nervosi da un punto di vista motorio e sensitivo.
Il prof. non aggiunge nulla di più a riguardo. Quello che segue è un estratto del contenuto delle slide.
I parametri che vengono valutati sono la velocità di conduzione e le latenze (sensitiva e motoria).
A causa della sensibilità non sempre eccezionale (56-85%), vi sono un alto numero di falsi negativi (circa 1/3 dei pazienti).
Gli studi elettrodiagnostici devono essere ottenuti prima dell’intervento chirurgico per due motivi:
- per confermare la diagnosi;
- per stimare la prognosi (i pazienti più gravi hanno meno probabilità di avere un completo recupero
dopo l’intervento chirurgico).
10 Il prof. parla solo di elettromiografia, tuttavia le slide riportano anche l’elettroneurografia (ENG)
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L’RX veniva utilizzata in passato attraverso proiezioni particolari, specifiche per lo studio
del tunnel carpale (come quella mostrata nell’immagine a lato), finalizzate ad evidenziare
eventuali osteofiti post frattura che occupano il canale.
Oggi serve principalmente ad escludere altre patologie, come un tumore del terzo distale
del radio che può determinare la sindrome del tunnel carpale.
3.2.5 Diagnosi differenziale (in grassetto quelle citate quest’anno, in quanto ritenute le più significative)
➢ Compressioni alte del nervo mediano: esistono altre sindromi da compressione del nervo mediano,
in cui la compressione è più prossimale (molto più rare)
➢ Tumore giganto-cellulare sul radio
➢ Radicolopatia cervicale: in questo caso, talvolta, la diagnosi differenziale è molto difficile; infatti, una
compressione radicolare a livello C5-C6 determina alterazioni della sensibilità molto simili a quelle
che si hanno nella sindrome del tunnel carpale; inoltre, esistono molti casi di ernie o stenosi del
canale vertebrale totalmente asintomatiche (il riscontro di ernie/stenosi vertebrali si ha nel 75% delle
RM eseguite a soggetti asintomatici). Non è, quindi, infrequente che un paziente si presenti con una
sintomatologia da radicolopatia cervicale C5-C6, con una RM positiva per ernia/stenosi vertebrale,
anche se il responsabile della sintomatologia è la sindrome del tunnel carpale.
Per distinguere le due patologie si deve richiedere all’elettrofisiologo che esegue l’EMG se la genesi
del disturbo è centrale o periferica.
➢ Sindrome dell’outlet toracico: è una sindrome da compressione su base vascolare (es. aneurismi) o
ossea (es. costa sovra-numeraria; ipertrofia del processo trasverso di C7) a carico del plesso
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brachiale. Anche in questo caso l’irritazione nervosa periferica può essere messa in evidenza tramite
la manovra di Tinel (eseguita a livello cervicale).
➢ Neuropatia dell’ulnare: il territorio in cui compare la sintomatologia è differente.
➢ Neuropatie periferiche metaboliche: può essere presente in pazienti diabetici; l’elettrofisiologo è in
grado di discriminarla dalla compressione del nervo
➢ Tenosinovite di de Quervein
3.2.6 Trattamento
Trattamento conservativo
Pressoché sovrapponibile a quanto detto nel paragrafo relativo alla diagnosi ex juvantibus. Si utilizzano,
infatti:
- tutore, utilizzato soprattutto nelle donne gravide, in cui nella maggioranza dei casi la sindrome è
transitoria;
- infiltrazione di steroidi nel canale carpale: serve per ridurre la sinovite; veniva utilizzata molto di più
qualche anno fa, poi si sono verificati casi di irritazione del nervo mediano per la puntura con l’ago.
Esistono, tuttavia, dei fattori (suggeriti da Kaplan) che predicono un risultato peggiore con il trattamento
conservativo:
- Età maggiore di 50 anni
- Durata dei sintomi > 10 mesi
- Parestesie costanti
- Tenosinovite stenosante dei flessori
- Phalen test positivo in tempo < 30 secondi
In tutti questi casi è preferibile l’intervento chirurgico, che comunque è poco invasivo.
Trattamento chirurgico
Viene intrapreso quando il trattamento conservativo fallisce oppure direttamente in pazienti che presentano
sintomi più severi.
L’intervento dura pochi minuti. La chirurgia open prevede un’incisione di 2-2,5 cm, per individuare al meglio
le possibili varianti anatomiche e coagulare i vasi. Esiste anche una tecnica endoscopica, che prevede
un’incisione di circa 1 cm. La scuola di Brescia predilige, tuttavia, l’approccio a cielo aperto in quanto, a fronte
di un outcome simile, l’intervento endoscopico presenta un rischio intraoperatorio maggiore (lesione del
ramo motore del nervo mediano in caso di varianti anatomiche prima descritte).
I risultati della chirurgia sono duraturi e positivi nel 70-90% dei casi.
La sindrome del tunnel carpale può recidivare dopo l’intervento, specialmente a causa della formazione di
aderenze tra i monconi del legamento sezionato e il nervo mediano. In questi casi è necessario intervenire
nuovamente, isolando il nervo per un tratto maggiore ed operando un intervento di neurolisi esterna
(separazione dell’epinevrio del n. mediano dal tessuto cicatriziale) proporzionale all’estensione delle
aderenze. In ogni caso la breccia cutanea risulterà più ampia di quella precedente.
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3.3 Morbo di Dupuytren
Il morbo di Dupuytren è una malattia della mano caratterizzata da un ispessimento patologico e da una
retrazione dell'aponeurosi palmare (che fa seguito al tendine del muscolo palmare gracile, assente nel 20%
della popolazione), una struttura fibrosa, normalmente sottile, situata a livello del palmo della mano e delle
dita, appena al di sotto della cute.
Questa malattia si presenta inizialmente con dei piccoli noduli duri sottocutanei alla base dei metacarpi;
successivamente progredisce con la formazione di 'corde' aponeurotiche che passano sopra al nodulo e
convergono verso il centro del polso. Queste corde sono anelastiche e, accorciandosi, provocano una
graduale contrattura in flessione delle dita con conseguente limitazione al movimento delle stesse in
estensione. La retrazione delle dita appare evidente soprattutto a livello del quarto e del quinto dito, molto
raramente si estende fino al primo dito (ma non è impossibile). Molto frequentemente colpisce entrambe le
mani (65%).
L’organizzazione delle corde può assumere diverse conformazioni, come si può osservare dall’immagine.
Particolare attenzione va posta a livello del quinto dito, dove la corda ha la tendenza ad inglobare il suo fascio
vascolo-nervoso (retrovascular cord).
Le dita possono apparire ingrossate, perché la fibrosi si può estendere fino a coinvolgere anche la parte
dorsale dell’IF.
Il tessuto patologico risulta molto simile a quello presente nelle ferite guarite con cicatrice ipertrofica. Nei
noduli e nelle corde si trovano, infatti, fibroblasti e miofibroblasti; questi ultimi hanno proprietà contrattili e
capacità di produrre collagene ed elastina.
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In alcuni pazienti la stessa malattia può colpire anche altre parti del corpo:
- pianta dei piedi (10% dei casi): malattia di Ledderhose, si caratterizza per la presenza di noduli
plantari e retrazione plantare, dovuti a un’ipertrofia del palmare gracile del piede;
- nocche delle dita (22%);
- pene (2%): malattia di Peyronie o induratio penis; la patogenesi in questo caso è diversa rispetto al
quadro palmare e quello plantare, tuttavia anche in questo caso si assiste ad una retrazione dovuta
alla presenza di una placca fibrosa-cicatriziale.
3.3.1 Eziologia
La patologia, più frequente nel sesso maschile, non ha un’eziologia nota, anche se è stata riscontrata una
certa predisposizione familiare su base genetica nel 27% dei casi. Poiché tutte le volte i cui si dice che non si
conosce l’eziologia di una patologia vi sono 27674 fattori di rischio, anche in questo caso sembrano essere
implicati nell’insorgenza del morbo di Dupuytren:
- microtraumi ripetuti o uso eccessivo della mano
- abuso di alcol
- uso di antiepilettici (Gardenale)
- diabete
- età avanzata
Domanda di uno studente: “L’uso eccessivo della mano è un fattore di rischio anche per l’insorgenza della
malattia di Peyronie?” Il professore sghignazza, ma non risponde.
3.3.2 Classificazione
La classificazione di Tubiana-Michon divide la malattia in 4 stadi in base alla presenza di noduli sottocutanei
e all’angolo formato dalla seconda falange del dito interessato:
3.3.3 Diagnosi
La diagnosi è clinica.
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3.3.4 Trattamento chirurgico
La malattia ha un decorso progressivo, anche se molto lento. È possibile avvalersi della fisioterapia e del
posizionamento di splint e tutori per rallentare la deformità delle dita, ma la terapia è stata finora
esclusivamente chirurgica.
È possibile eseguire l’intervento qualora si riscontri clinicamente uno stadio II, III o IV. La presenza di un
nodulo al palmo non costituisce, dunque, indicazione all’intervento.
Il trattamento chirurgico prevede l’asportazione del tessuto patologico per permettere la distensione delle
dita: risulta, perciò, indicato quando la funzione della mano è compromessa (non è possibile l’estensione
completa del dito interessato).
Il rischio principale dell’intervento è rappresentato dalle possibili lesioni vascolari (così come a livello di
capsula e tendini): la progressione dell’intervento causa una retrazione anche delle strutture vascolari, che
rischiano di essere stirate durante l’intervento. Per questo motivo, durante l’intervento, un tempo si utilizzava
un piccolo doppler che avvisava quando i vasi erano a rischio, a questo punto l’intervento si fermava e
proseguiva con retrattori esterni.
Quando la patologia avanza, le corde hanno la tendenza a coinvolgere le strutture vascolo-nervose,
specialmente a livello del quinto dito: il trattamento ha una durata maggiore perché si fatica a distinguere i
nervi dall’aponeurosi. Per la complessità di questo tipo di intervento e per i risultati spesso poco
soddisfacenti, quando si deve trattare un grado avanzato a livello del quinto dito, la soluzione migliore è
l’amputazione. Un quinto dito sempre flesso si impiglia ovunque e fa sporconare: anche se sembra eccessivo,
la soluzione migliore per il paziente è proprio l’amputazione.
Procedure chirurgiche11
1. Fasciotomia (o aponeurotomia) semplice
La fasciotomia prevede la sola interruzione dell’aponeurosi (non viene escissa); per questo motivo si tratta di
un intervento palliativo per motivi igienici in soggetti defedati oppure come tempo preparatorio alla
aponeurectomia (per favorire la distensione di cute e fasci vascolo-nervosi). Si distingue in:
a. Percutanea (Dupuytren, 1834): in casi molto selezionati si può eseguire la sezione del cordone
usando un bisturi ad ago, senza pertanto incidere la cute (cordotomia percutanea ad ago).
L'intervento di norma richiede tra i 15 e i 30 minuti, è di tipo ambulatoriale (senza ricovero
preventivo) e in anestesia locale.
Essendo un trattamento per via percutanea, il rischio è connesso al fatto che non si vede un cacchio.
Poiché le corde inglobano spesso le terminazioni nervose, un’eventuale lesione porta a
complicazioni neurologiche di stiramento o strappamento di nervi sensitivi digitali.
11Ci è voluta una laurea per capire cosa intendesse il prof: quello che leggete è un condensato tra le informazioni confuse dell’anno
scorso + le parole e slide contradditorie del prof + le informazioni (spero) illuminanti tratte dalla “Rivista Italiana di chirurgia della
mano” (https://www.sicm.it/storage-file/pubblicazioni/2015/vol53_n1_marzo.pdf)
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Esempio di paziente trattato con fasciotomia percutanea con ottimo risultato clinico.
2. Fasciectomia (o aponeurectomia)
L’aponeurectomia consiste nell’escissione dell’aponeurosi; si tratta del trattamento più diffuso e consolidato
e si divide a sua volta in:
a. parziale: rimozione delle sole aree di tessuto malato;
b. radicale o totale
L'intervento viene eseguito in anestesia generale o locoregionale, con iniezione di anestetico sotto l'ascella
da parte dell'anestesista (blocco ascellare). La procedura di norma richiede tra i 45 e i 70 minuti e viene
praticata in regime di day-surgery.
Il paziente viene medicato dopo sette giorni dall'intervento ed i punti vengono rimossi dopo 15-20 giorni dallo
stesso. L'intervento è seguito da una breve immobilizzazione e dalla riabilitazione della mano (convalescenza
di almeno 1 mese).
3. Dermofasciectomia
Si pratica l’asportazione in blocco dell’aponeurosi con la cute; indicata nelle recidive e nei giovani con diatesi
marcata, utilizza preferibilmente innesti di cute totale e si applica prevalentemente nelle dita
La chiusura cutanea può avvenire per sutura diretta dei lembi delle plastiche o delle incisioni, mediante
l’applicazione di innesti di cute o l’impiego di lembi locali oppure per epitelizzazione spontanea di parti di
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incisioni lasciate aperte. Quest’ultima tecnica viene definita “open palm”: la breccia cutanea lasciata aperta
viene coperta solo con una garza grassa e si lascia guarire per seconda intenzione. I risultati, anche quelli
estetici, sono molto buoni, nonostante possa apparire molto cruento.
Complicanze e recidive
Le possibili complicanze dell'intervento chirurgico sono le infezioni (viene praticata terapia antibiotica un'ora
prima della procedura), danni ai nervi e vasi della mano, spesso legati alla corda patologica, ematomi o
necrosi del tessuto cutaneo.
In casi estremamente rari si possono verificare delle crisi ischemiche tali da portare a necrosi il dito
interessato. Il recupero solo parziale della motilità del dito, frequente negli stadi 3 avanzati e 4, è causato
dalla prolungata rigidità delle dita coinvolte.
Possono comparire recidive della malattia. Queste sono rare con un intervento di aponeurectomia, più
frequenti con la tecnica di cordotomia ad aghi.
Il trattamento della recidiva è molto complesso.
3.3.6 Conclusioni
Benché le opzioni terapeutiche siano in continua evoluzione, non esiste una terapie eziologica. Le recidive,
infatti, sono molto elevate (indipendentemente dal tipo d’intervento il tasso medio di recidiva è del 20% a 5
anni).
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3.4 Tenosinoviti stenosanti e sindromi da sovraccarico
Le tenosinoviti sono processi infiammatori a carico delle guaine tendinee: si instaurano a seguito di
microtraumi ripetuti che avvengono quando i tessuti coinvolti non sono in grado di contrastare la tensione
loro applicata. Le fibre collagene sopportano un potenziale di elongazione solo del 4%, oltre il quale si verifica
la rottura dei ponti molecolari delle fibre collagene.
3.4.1 Fisiopatologia
Si riconoscono divere fasi successive comuni a queste patologie:
- Fase 1: stadio infiammatorio con “ingroth” vascolare ed infiltrazione di cellule infiammatorie.
Clinicamente si manifesta con eritema, dolore, gonfiore e debolezza; se trattato in modo adeguato
(con riposo, ghiaccio, ortesi, elevazione e FANS) si ha una risoluzione rapida (2 settimane).
- Fase 2: stadio proliferativo con produzione di fibre collagene immature e matrice collagenica da
parte dei fibroblasti (suscettibili di rottura con un sovraccarico ulteriore). La terapia è sovrapponibile
ma va associata a riduzione dei movimenti (per prevenire la rottura delle fibre di collagene immature)
e protratta per un periodo più lungo.
- Fase 3: stadio di maturazione con organizzazione delle fibre collagene immature, le quali tornano ad
avere una resistenza pari a quella delle fibre fisiologiche;
- Fase 4 - stadio fibrotico: la ripetuta attivazione della risposta infiammatoria con successiva
proliferazione porta a fibrosi dei tendini, delle guaine tendinee o del retinacolo coinvolti.
3.4.2 Eziologia
Si distinguono:
- fattori determinanti: microtraumatismi ripetuti o sollecitazioni funzionali quotidiane;
- fattori favorenti: anomalie anatomiche o scorretta esecuzione di manovre/gesti durante l’attività
lavorativa e sportiva.
3.4.3 Diagnosi
La diagnosi è essenzialmente clinica. Tuttavia, quando la clinica non è dirimente, l’esame strumentale
prescelto da Zeus è l’ecografia, la quale permette di differenziare i diversi tipi di tenosinovite:
- sierosa: abbondante liquido sinoviale intorno al tendine iperecogeno, ben visibile nell’immagine a
fianco;
- infettiva: contenuto della guaina ipoeogeno con eventuali detriti; utile eventuale aspirazione
ecoguidata;
- ipertrofica, tipica manifestazione di patologie reumatiche (AR, LES): si osservano villi iperecogeni
dentro la guaina tendinea. Clinicamente si evidenziano deformità tipiche, come il versamento a
bisaccia (visibile nell’immagine). Il versamento assume una conformazione a “gobbe di cammello”, in
quanto la presenza del retinacolo degli estensori (struttura inestensibile) impedisce l’accumulo di
liquido in quella zona.
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3.4.A Tenosinovite di De Quervain
La tenosinovite di De Quervain, un tempo chiamata “malattia delle balie”, è un’infiammazione cronica della
guaina che avvolge i tendini che estendono ed allontanano il pollice dalla mano: il tendine abduttore lungo
del pollice ed estensore breve del pollice.
Dal Gray12
Profondamente al retinacolo dei tendini dei muscoli estensori, si trovano sei tunnel (o canali) che permettono il
passaggio dei tendini dei muscoli estensori, ciascuno con una guaina sinoviale. I tendini dei muscoli abduttore lungo
del pollice ed estensore breve del pollice si trovano in un tunnel (detto puleggia) a livello della faccia laterale del
processo stiloideo del radio (1° comparto degli estensori) che ha lo scopo di mantenerli adesi al piano osseo. La
tenosinovite stenosante di De Quervain interessa la guaina di questi due tendini, i quali fanno fatica a scorrere
all’interno del tunnel, innescando la tipica sintomatologia dolorosa.
È una patologia molto frequente: questa patologia e la tenosinovite stenosante dei flessori del carpo (dito a
scatto) costituiscono le due principali problematiche infiammatorie delle dita della mano.
3.4.A.1 Eziologia
Fattori determinanti: attività manuale con microtraumi ripetuti o utilizzo intensivo della mano in caso di:
- attività lavorative: quando venne descritta (nel lontano 1895) era spesso presente nelle sarte, nelle
balie (favorita dalla postura del polso necessaria a tenere in braccio i neonati) e nelle lavandaie (per
il continuo strizzare i panni). Altri lavori interessati sono il giardinaggio, la falegnameria e la
carpenteria, ma anche lavori meno pesanti (dattilografia o banalmente l’uso scorretto del mouse)
- pratica di strumenti musicali (pianoforte e i violino), in presenza di un gesto tecnico non perfetto13;
- attività sportive, come il golf, la pesca a mosca, lo squash, il badminton;
- uso eccessivo del telefonino, che ha portato a coniare14 il “pollice da BlackBerry” (il prof tradisce un
animo Apple, affermando che oggi questa patologia dovrebbe chiamarsi “pollice da Iphone”)
Fattori favorenti:
a. Anomalie anatomiche (di solito, si tratta di pazienti con frattura del polso con eccessiva correzione
dell’angolo radiale)
3.4.A.2 Clinica
L’infiammazione della guaina tendinea causa dolore o contrattura localizzata alla regione radiale del polso,
che può irradiarsi prossimamente all’avambraccio o distalmente al primo dito. La sintomatologia dolorosa si
12 Ho usato 5 volte questo libro costato un rene e adesso si è pure scollata la copertina
13 Alla Scala di Milano esistono dei medici specializzati nel correggere eventuali gesti scorretti dei musicisti per prevenire l’insorgenza
di questa patologia
14 In epoca preistorica a quanto pare
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accompagna a sensazione di disagio e difficoltà nel compiere alcuni movimenti
(ruotare il polso, fare il pugno, pinza con il pollice, presa di oggetti)
Compare una tumefazione palpabile e ben visibile (quindi la diagnosi è
semplice) alla base del pollice, in corrispondenza della zona di maggior dolore.
In alcuni casi emerge anche l’ispessimento del tetto del canale degli estensori
del primo dito sotto forma di nodulo doloroso.
Può andare in diagnosi differenziale con la rizoartrosi, essendo le zone interessate adiacenti (la rizoartrosi è
solo 2 cm distale rispetto alla sede del de Quervain); tuttavia, la patogenesi e l’età di insorgenza sono molto
diverse (la rizoartrosi è negli anziani, la de Quervain nei giovani).
3.4.A.3 Diagnosi
La diagnosi nella maggior parte dei casi è clinica. Si possono eseguire dei test:
- test di Eichhoff (erroneamente attribuito a Finklestein): l’operatore fa chiudere il pollice del paziente
nel pugno, e muove il polso in deviazione ulnare. Questo movimento provoca un dolore forte a livello
della guaina.
- test di Brunelli: con il polso è mantenuto in deviazione radiale, si domanda al paziente di abdurre il
pollice, provocando un attrito doloroso del tendine contro la puleggia.
3.4.A.4 Trattamento
In un paziente in stadio inziale al primo episodio si consiglia un trattamento conservativo che prevede:
- riposo;
- ortesi che favoriscono lo scarico dei due tendini;
- antinfiammatori + ghiaccio per togliere l’infiammazione;
- terapia fisica;
- infiltrazione con farmaci corticosteroidei.
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3.4.B Tenosinovite stenosante dei flessori delle dita o “dito a scatto”
Il «dito a scatto» o, più correttamente, tenosinovite stenosante è un’infiammazione che interessa le pulegge
(in particolare la puleggia A1, situata un cm alla MF) ed i tendini flessori delle dita. Riguarda soprattutto le
dita lunghe, solo raramente coinvolge il primo dito (nei bambini) e colpisce tipicamente i lavoratori con
intensa attività manuale.
3.4.B.1 Patogenesi
La patogenesi è praticamente sovrapponibile a quella del morbo di De Quervain, da cui differisce solo per la
sede coinvolta. Una condizione infiammatoria a livello tendineo ne aumenta il volume, rendendo difficoltoso
il suo passaggio attraverso la puleggia. Il perdurare dell’attrito tra tendine e puleggia contribuisce ad
alimentare l’infiammazione dolorosa che, a sua volta, favorisce un ispessimento della puleggia stessa ed un
impedimento allo scorrimento del tendine.
In questa situazione, nel tentativo di estendere il dito, il tendine rimane bloccato all'ingresso della puleggia.
Incrementando lo sforzo, il tendine riesce a superare l'ostacolo, provocando lo scatto che il paziente avverte
spesso come doloroso.
3.4.B.2 Clinica
I sintomi più frequenti sono:
1. dolore al palmo della mano alla base del dito (ma spesso il paziente lo percepisce più distale)
2. lieve gonfiore alla base del dito e rigidità̀ dello stesso;
3. il tipico scatto doloroso al compimento del movimento di estensione (i pazienti riferiscono di
svegliarsi al mattino con il dito chiuso e poi lo riaprono con questo scatto doloroso);
4. deficit motorio, quando lo “scatto” non è più possibile.
3.4.B.3 Trattamento
Fino a quando non si ha un vero blocco del dito si possono fare terapie conservative (es. antinfiammatori o
infiltrazioni). Se il problema persiste si passa alla chirurgia: consiste in un’incisione di 1 cm a livello cutaneo
e nella sezione della puleggia per liberare il tendine. Il risultato dell’intervento, anche da un punto di vista
estetico, è molto buono.
3.4.B.4 Prognosi
Dopo l’intervento, bisogna mobilizzare subito il dito e la ripresa delle usuali attività avviene nell’arco di alcune
settimane.
I risultati a lungo termine sono molto buoni, ed è davvero raro che si verifichi una recidiva. Questa avviene
più frequentemente in concomitanza di patologie generalizzate.
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3.5 Fratture
Le fratture di polso o fratture del terzo distale di radio rappresentano in assoluto la frattura più frequente.
L’incidenza è più elevata nei bambini e, soprattutto, nelle donne anziane (a causa dell’osteoporosi). Sono
fratture frequenti anche in seguito a traumi dovuti a diversi tipi di sport.
In particolare, nella maggioranza dei casi si ha frattura in seguito a caduta ed appoggio protettivo sulla mano,
con conseguente leva e forza che supera la capacità di deformazione elastica dell’osso a cui segue una
ritardata reazione posturale protettiva e ridotta sincronizzazione nell’anziano.
La frattura di polso può avvenire anche a seguito di traumi stradali, seguendo le linee di forza descritte prima.
3.5.A.1 Diagnosi
La diagnosi è clinicamente molto facile. In proiezione laterale è evidente una deformazione a “dorso di
forchetta” mentre in proiezione antero-posteriore un’inclinazione radiale.
Viene di norma eseguita una radiografia, per ricercare un’alterazione dei parametri di normalità:
• in proiezione laterale si valuta l’angolo dorsale: fisiologicamente è compreso tra 0° e 18°.
• In proeizione antero-posteriore si valuta l’angolo radiale che ha un valore tra i 16° e i 28°.
• Sempre in proiezione antero-posteriore si deve valutare la varianza ulnare (quanto l’ulna è più o
meno lunga rispetto al radio): fisiologicamente essa varia da -2mm a +3mm.
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Queste fratture sono caratterizzate da una tipica dorsalizzazione del frammento distale del radio e furono
studiate in particolare dal vetusto Colles . La frattura classica di polso prende infatti il nome di “frattura di
Colles” ed è una frattura extra-articolare.
Nel lontano 1814 il povero Colles non aveva a disposizione RX, pertanto non trattava in modo adeguato i suoi pazienti
(su dottori.it, infatti, aveva una pessima valutazione), anche se non ne sembrava troppo insoddisfatto:
“…resta una consolazione: che l’arto, dopo un certo periodo di tempo, recupera nuovamente la libertà in tutti i suoi
movimenti e ritorna ad essere completamente privo di dolore; la deformità rimane invariata durante tutta la vita…”.
3.5.A.2 Classificazioni
Per scegliere la terapia più adeguata è importante classificare la frattura in modo corretto, in relazione a:
- instabilità;
- riducibilità;
- meccanismo traumatico di frattura;
- lesioni associate;
- condizioni generali del paziente (nei pazienti più anziani si può accettare la deformità per evitare la
chirurgia, che potrebbe avere più malefici che benefici).
3.5.A.2 Trattamento
Fratture non trattate possono causare deformità extraarticolari ed intraarticolari. Quindi trattare is better.
Negli anni si è assistito ad un’evoluzione: da trattamenti conservativi con apparecchio gessato si è passati a
tecniche a cavallo tra un trattamento conservativo e un trattamento chirurgico (osteosintesi con fili di
Kirschner supportata da gessi chiusi), fino ad arrivare all’utilizzo di fissatori esterni e osteosintesi con placche
e viti.
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Il trattamento differisce in base al tipo di frattura
È importante ricordare che un paziente anziano ha minori esigenze nella forza, nel ROM e nella cosmesi.
15Nonostante l’anestesia locale il paziente avverte un male cane: non ho idea di cosa intenda il prof con “sgranare”, ma già avere un
osso rotto fa piangere dal male, figuriamoci se qualcuno lo “sgrana”
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Trattamento con fissazione esterna
Trattamento chirurgico con fissatore usato da solo o associato ad altre tecniche (trattamento misto). Il
fissatore esterno permette di mantenere un allineamento e una trazione molto stabili. Frequente è anche
l’associazione del fissatore esterno con l’osteosintesi percutanea.
Rieducazione funzionale
La rieducazione funzionale è fondamentale dopo una frattura del polso, in particolare dopo un trattamento
conservativo: dopo 35 giorni (minimo) di immobilizzazione ci sono importanti problemi di tipo muscolare ed
articolare. Un intervento di osteosintesi con placche a stabilità angolare, invece, non richiede più una
immobilizzazione: già dal giorno successivo si può iniziare una cauta mobilizzazione.
In un primo momento gli obiettivi sono ridurre l’edema e la rigidità delle dita e recuperare la sensibilità ed il
trofismo muscolare. È importante evitare che il paziente assuma la « guarding posture » (gomito flesso, spalla
addotta ed intraruotata, rachide cervicale in antepulsione medio-inferiore ed iperestensione occipito-
cervicale), in quanto predispone allo sviluppo di ulteriori problematiche (come sindromi miofasciali).
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3.5.B Fratture del carpo
Il paziente lamenta dolore e tumefazione a livello della tabacchiera antomica, zona anatomica distale allo
stiloide radiale che individuamo portando il primo dito in iperestensione ed abduzione. Non ci sono le
deformità tipiche della frattura di polso.
Complicanze: pseudoartrosi (frattura che non guarisce), necrosi (morte per insufficiente apporto vascolare)
e artrosi (con conseguente collasso carpale).
16 Le fratture delle altre ossa del carpo sono decisamente più rare e meno problematiche nel trattamento
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3.5.C Fratture delle dita
Trattamento
In base al tipo di frattura si sceglie il trattamento più adatto.
In caso di fratture metacarpali, l’immobilizzazione deve essere eseguita con la mano in posizione
“funzionale” o “acamatica” (articolazione metacarpo-falangea a 70°, come in figura): in questo modo i
legamenti metacarpo-falangei sono in massima estensione, per minimizzare la rigidità post immobilizzazione.
Le falangi, invece, devono essere sempre estese.
La riduzione delle fratture metacarpali viene eseguita con una mano sul
metacarpo (mano A) e l’altra che afferra e flette la falange del raggio
interessato (mano B): spingendo contemporaneamente la mano A verso il
basso e la mano B verso l’alto dovreste aver avvicinato i due monconi ossei.
Per le fratture scomposte instabili (a livello sia di metacarpo sia di falangi) è necessario l’intervento
chirurgico. Si esegue un’anestesia tronculare a livello:
- del polso, per bloccare il nervo ulnare/radiale/mediano a seconda del territorio interessato;
- dello spazio interdigitale, per bloccare solo i nervi sensitivi delle dita
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Viene praticato un intervento di osteosintesi percutaneo con fili di Kirschner, posizionati eventualmente con
un fissatore esterno. In casi più complessi si utilizzano placche e viti (similmente a quanto visto per il polso).
Le complicanze delle fratture delle dita sono problemi di mal-rotazione (vedi immagine sotto), rigidità,
pseudoartrosi, infezioni (quasi esclusivamente in caso di fratture esposte). In caso di mal-rotazioni, il paziente
dovrà sottoporsi ad un intervento specifico di osteotomia derotativa per correggere la deformità.
La base del 1° metacarpo è lussato in direzione dorso-radiale, mentre il frammento appartenente alla
porzione mediale della base del metacarpo resta connesso con il Trapezio.
17 Parlando di “dito a martello” in senso generico solitamente si intende una patologia del piede. Pertanto è preferibile specificare
(dito a martello della mano) per evitare di incorrere in spiacevoli equivoci.
18 Il trattamento di questa patologia dipende dal tempo che intercorre tra l’evento traumatico e il consulto medico: qualora fosse
trascorso diverso tempo si può provare a suturare chirurgicamente il tendine staccato e procedere con l’immobilizzazione con fili di
K, ma più spesso è preferibile eseguire direttamente un’artrodesi e bloccare il dito in estensione. Un dito della mano a martello,
infatti, tipicamente rompe le palle al paziente (perché si impiglia ovunque).
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3.6 Traumi distorsivi
Un trauma a livello del polso non causa sempre una frattura radiale o scafoidea (grazie al cazzo): si può,
infatti, incorrere anche in traumi distorsivi che possono portare a lesioni capsulo-legamentose (in particolare
del legamento scafo-lunato), a lesioni della fibrocartilagine triangolare (una sorta di menisco localizzato tra
l’ulna e la prima filiera carpale) o a lesioni cartilaginee.
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Lesioni a carico di questa struttura possono avvenire sia a seguito di traumi sia a seguito di microtraumi
ripetuti (attività sportive e/o lavorative) e vengono evidenziate normalmente tramite RM con mezzo di
contrasto.
Esistono diverse tecniche di riparazione per via artroscopica, ma in generale il trattamento consiste nella
sutura diretta della lesione con ottimi risultati funzionali.
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3.7 Lesioni tendinee
3.7.1 Anatomia topografica
Topograficamente la regione flessoria della mano viene suddivisa secondo la classificazione di Eaton-Weilby.
Si distinguono cinque diverse regioni (I → V) per le dita lunghe; il primo dito segue una classificazione a sé
(regioni TI, TII e TIII).
Il prof propone uno dei suoi splendidi (e ormai tipici) audio muti, in cui si intuisce solo qualche parola. Riporto
un riassunto (tratto dal web) circa quello che sono riuscito ad intuire:
- Zona 1: una lesione in questa zona normalmente non provoca complicanze funzionali poiché il tendine è unico
e ben vascolarizzato.
- Zona 2 viene anche definita dagli anglosassoni la “terra di nessuno”. È quella zona dove il flessore superficiale
e il flessore profondo decorrono intimamente in un canale osteo-fibroso: qui si verificano il maggior numero
di insuccessi dopo le riparazioni a causa delle aderenze che si creano e che impediscono lo scorrimento
tendineo. Comprende l’articolazione metacarpofalangea e la prima falange delle dita viene divisa in tre
porzioni: D,M,P.
- Zona 3: i tendini sono molto vascolarizzati, lo spazio è maggiore e le complicanze funzionali, se presenti, sono
ben tollerate.
- Zone 4 e 5: lesioni in questa zona potrebbero portare ad aderenze tra i tendini e i tessuti circostanti o tra i
tendini stessi, causando l’effetto quadriga.
Per quanto riguarda le dita lunghe, si distinguono due ordini di tendini flessori:
- flessori superficiali: si inseriscono a livello della seconda falange
- flessore profondo: si inserisce a livello della falange distale
L’apparato estensore viene diviso in 8 zone; quelle contrassegnate da un numero dispari sono in
corrispondenza di articolazioni:
- ZONA I: articolazione interfalangea distale
- ZONA III: articolazione interfalangea prossimale
- ZONA V: articolazione metacarpo-falangea
- ZONA VII: articolazione radio-carpica
3.7.2 Classificazione
Le lesioni tendinee vengono suddivise in base alla regione colpita (flessoria o estensoria) e, ulteriormente, in
lesioni aperte e chiuse. Follow the schema che sta sotto.
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3.7.A Lesioni dei tendini FLESSORI
3.7.A.1 Anamnesi
Nel momento in cui si approccia una lesione tendinea, oltre a valutare se si tratta di una lesione chiusa o di
una lesione aperta, è fondamentale considerare:
• la posizione del dito;
• la forza muscolare applicata al momento della lesione, che può provocare anche un danno ischemico
al tendine qualora sia colpito il suo asse vascolare;
• la natura dell’agente traumatico e le circostanze in cui è avvenuto il trauma;
• il grado di contaminazione
• le modalità di lesione: non so se lo sapevate, ma pare che un taglio da coltello non produca le stesse
lesioni di un taglio da moto-sega.
3.7.A.2 Eziologia
Le cause più frequenti di danno alla regione flessoria riguardano:
1. traumi diretti accidentali o sportivi come la jersey lesion: quando i giocatori di rugby diventano
malandrini e cercano di afferrare i calzoncini dell’avversario trazionando con energia, è frequente il
distacco tendine flessore profondo dalla sua inserzione nella terza falange (anche associato ad
avulsione tendinea);
2. sinovite da Artrite Reumatoide
3. esiti di trauma (frattura di polso, pseudoartrosi di scafoide, morbo di Kiembock – necrosi del
semilunare): gli osteofiti creati possono determinare un impingement tendineo;
4. infezioni (TBC, altre infezioni)
5. microtraumi ripetuti (drummers thumb, free climbers, wind surf)
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Per valutare globalmente la funzionalità dei muscoli flessori si esegue un test molto semplice: a mano supina,
si comprimono i ventri dei muscoli flessori per determinare una flessione delle dita. Se un dito (o più dita)
non si flettesse(ro), sarebbe ragionevole pensare ad una lesione tendinea.
- Lesione completa dei tendini flessori al polso (“spaghetti lesion”): estensione flaccida di tutte le
dita a causa di una lesione completa di tutto l’apparato flessore (tutti i 9 tendini che decorrono
volarmente al polso).
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- Lesione completa dei tendini flessori di un dito (zona II):
estensione di un solo dito rispetto agli adiacenti, in
seguito alla lesione esclusiva di quell’apparato flessore.
- Lesione del flessore profondo (Jersey lesion): si ha la perdita della flessione dell’interfalangea distale
che rimane iperestesa. Il dito più colpito è l’anulare, in quanto è quello che offre la minor resistenza
alla trazione. Come prima accennato, sono lesioni molto frequenti nel rugby, in cui si cerca la presa
dell’avversario.
3.7.A.4 Diagnosi
Le lesioni chiuse necessitano di uno studio ecografico dei tendini (oggi con transduttori con frequenza di 10
o più MHz) in longitudinale e in trasversale.
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3.7.A.5 Trattamento
Nel 1928 il celeberrimo Sterling Bunnell affermava:
“… Se i tendini flessori vengono sezionati nelle dita, nella sede abituale a livello della falange prossimale,
non li si può ricostruire con successo mediante punti di sutura, poiché la giunzione diventa aderente allo
stretto canale e non scorrono. E’ preferibile rimuovere interamente i tendini stessi dal dito ed innestare
nuovi tendini lisci per la loro intera lunghezza …”.
Solo dopo 40 anni sono stati ottenuti i primi risultati positivi nella riparazione dei tendini flessori in zona II,
grazie allo sviluppo di tecniche chirurgiche riparative in grado di consentire il movimento precoce senza
provocare rotture durante la guarigione.
Sutura centrale con pull-out: il filo di sutura viene fatto passare attraverso i
monconi tendinei e viene legato esternamente all’apice del dito (sul polpastrello)
tramite un bottone.
3.7.A.6 Riabilitazione
Il terapista deve eseguire un trattamento:
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Per questo motivo sono stati sviluppati diversi protocolli riabilitativi, che possono essere schematicamente
raggruppati in due gruppi principali:
Protocollo di Kleinert
Il tutore di Kleinert è molto importante nelle lesioni ai flessori della zona II.
Viene costruito un bendaggio tale da:
- mantenere il tendine riparato in contrazione passiva grazie ad un
elastico (che viene fissato al bendaggio) ⇒ il dito è flesso come in
figura;
- permettere l’estensione attiva del dito
Dopo 4 settimane è possibile rimuovere l’ortesi, mentre il bottone viene mantenuto in sede per altri 15 giorni:
il filo viene dunque sfilato senza anestesia (anche se il prof. assicura che si tratta di una procedura ben
tollerata, bah…).
Protocollo di Duran
Indossando una protezione dorsale per 3-6 settimane (come in figura) si esegue una
mobilizzazione passiva in flessione (flessione passiva completa) associata ad estensione
passiva o attiva.
Programma di Belfast
Indossando una protezione dorsale per 3-6 settimane, si esegue:
- mobilizzazione attiva assistita in flessione (flessione passiva completa,
mantenimento attivo)
- estensione attiva
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3.7.B Lesioni dei tendini ESTENSORI
Si tratta di lesioni generalmente meno gravi e meno visibili rispetto a quelle dei muscoli flessori. Questo
perché i muscoli intrinseci, responsabili dell’equilibrio dell’articolazione interfalangea prossimale,
suppliscono le eventuali lesioni tendinee. Inoltre i tendini estensori presentano interconnessioni tra loro: il
tendine leso può essere compensato dal dito a fianco.
- Per valutare l’estensore proprio del secondo e del quinto dito della mano si domanda al paziente di
eseguire il “gesto delle corna”.
- Per valutare l’estensione comune delle dita, è necessario eseguire test contro resistenza sia sulla
prima che sulla seconda falange.
- Esistono anche test per valutare l’estensore lungo del pollice (si fa aprire la mano al paziente
iperestendendo il pollice) e l’estensore breve del pollice (movimento contro resistenza). L’estensore
lungo del pollice si inserisce sulla base della falange distale del pollice, l’estensore breve, invece, a
livello della falnge prossimale.
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In particolare:
- Lesione in zona I – IFD: dito a martello acuto che si manifesta con flessione forzata della
interfalangea distale iperestesa (vedi frattura di Segond)
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3.7.C Lesioni splatter
È opportuno fare un bilancio delle eventuali lesioni associate: una frattura articolare, iuxtaarticolare o
diafisaria, una lesione nervosa, una lesione vascolare o una lesione del “mantello cutaneo” compromettono
la prognosi funzionale della miglior riparazione tendinea. Allego qualche immagini per gli amanti del genere.
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Lezione 4
Sbobinatore: F.C.
Docente: dott. Paderno
Argomenti: classificazione dei tumori dello scheletro, stadiazione, diagnosi, trattamento.
Tumori primitivi:
Tumori dei tessuti molli (muscoli, tessuto adiposo o connettivo, strutture articolari, nervose o
vascolari);
Tumori dell’osso: benigni e maligni (sarcomi).
1 Il plasmocitoma è un tumore maligno delle plasmacellule. Si riconoscono due forme: Plasmocitoma solitario dell’osso e
Plasmocitoma extraosseo. Nel primo, il tumore cresce all’interno dello scheletro e, frequentemente, può evolvere a mieloma
multiplo. Nel secondo, il tumore si instaura nei tessuti molli (principalmente a livello respiratorio).
Fonti: Wikipedia
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Ciascuna cellula dei tessuti che caratterizzano l’apparato osteomuscolare può dare origine ad un tumore (ad
es. tessuto adiposo, cartilagine, nervoso, fibroso…), che può avere caratteristiche:
- benigne (desinenza -oma);
- maligne (desinenza -sarcoma).
Ovviamente ogni tumore avrà una prognosi diversa e diverso sarà anche l’approccio terapeutico che il medico
dovrà attuare.
4.1.1 Osteocondroma
L’osteocondroma è un tumore benigno, solitario o multiplo, tipico dei soggetti giovani, che coinvolge il
femore distale. In buona parte dei casi è asintomatico, ad esclusione delle forme che causano borsiti, fratture
o compressioni.
2 L’attività fisica e le sostanze che determinano vasodilatazione sembrano favorire l’apporto ematico al tumore, esacerbando il
sintomo dolorifico. Con tutto quello che sbevazzate penso che vi sareste accorti, eventualmente, di avere un osteoma.
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4.1.3 Condroma
Il condroma è un tumore benigno che origina dalle cellule di cartilagine ialina e che predilige le piccole ossa
di mani e piedi e le metadiafisi delle ossa lunghe (femore e omero), a livello del canale midollare. Può essere
solitario o multiplo. Nelle localizzazioni alle piccole ossa di mani e piedi può causare deformità o ripetute
fratture patologiche.
È una lesione asintomatica che viene scoperta solitamente per caso attraverso un’RX eseguita per altri motivi.
All’imaging si presenta con osteolisi, orletto sclerotico, noduli calcificati e corticale assottigliata.
Durante la fase di crescita e di sviluppo il condroma appare come un'area osteolitica ovalare a contorno irregolare con
spesso alcuni noduli satelliti intorno alla lesione principale; all'interno sono presenti piccole calcificazioni tipiche del
tessuto cartilagineo.
Si tratta di una lesione tipicamente giovanile, che cresce fintanto che il paziente non raggiunge la maturità
scheletrica. Poi il condroma tende a guarire spontaneamente ossificandosi lentamente. L'ossificazione inizia
progressivamente dalla periferia creando un orsetto di sclerosi attorno alla lesione. In età adulta, seppur
raramente, può andare incontro a trasformazione maligna (condrosarcoma). Questa forma si manifesta con
dolore, interessa la zona della pelvi e, con l’avanzare dell’età, peggiora il quadro clinico.
Istologicamente è caratterizzato da cellule istio-fibroblastiche che si fondono insieme a formare grandi cellule
multinucleate. Esso è tipico dei soggetti di età compresa tra i 20-40 anni e, sebbene sia ubiquitario, predilige
le epifisi delle ossa lunghe, determinando dolore e tumefazione.
4.1.5 Lipoma
I lipomi sono le classiche raccolte di grasso nel tessuto sottocutaneo, ma le forme più considerate in
ortopedia sono quelle in sede intramuscolare. Essi possono raggiungere grandi dimensioni poiché possono
crescere, infiltrandosi tra le fasce e le guaine, senza dare disturbi. La variante maligna del lipoma è il
liposarcoma.
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Uomo di 54 anni con un lipoma cervicale di 7303 g cresciuto nell’arco di oltre 5 anni.
La maggior parte delle forme, dal punto di vista clinico, sono asintomatiche o paucisintomatiche. Qualora,
invece, il paziente sia sintomatico, presenta dolore, che può essere:
• Somatico o neuropatico;
• Costante o esacerbato dal movimento;
• Improvviso e severo (fratture patologiche).
autodeterminazione. È sostanzialmente una scala di valutazione della performance del paziente e valuta le sue condizioni generali.
Metto il link della pagina web in cui trovare dettagli in più: https://www.nursetimes.org/lindice-di-karnofsky-valutazione-sanitaria-
sulla-qualita-di-vita/77554
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L’esame più utile nella valutazione del rischio di frattura è sicuramente la TC.
Nell’immagine è possibile evidenziare una lesione litica localizzata a livello del collo del femore, con parziale
interessamento corticale, che va necessariamente trattata in modo chirurgico per l’elevato rischio di frattura.
4.2.2 Diagnosi
Dal punto di vista diagnostico, si agisce diversamente in caso di:
- tumore primitivo noto, si esegue:
o Rx del segmento scheletrico coinvolto
o Scintigrafia globale per valutare il numero di lesioni
o TC con mdc per la determinanzione delle metastasi viscerali
o RMN con mdc per valutare i rapporti
o TAC del segmento scheletrico coinvolto per studiare l’entità del danno corticale
- tumore primitivo non noto, si fa la biopsia.
4.2.3 Trattamento
Il trattamento differisce sulla base della localizzazione:
- le metastasi a livello della colonna vertebrale rispondono bene alla radioterapia;
- le metastasi a livello dello scheletro degli arti e della pelvi, invece, vengono trattate
preferenzialmente in modo chirurgico (soprattutto quelle degli arti inferiori, in quanto ad elevato
rischio di frattura).
Nel 2001 il prof. Capanna, uno dei pionieri dell’oncologia ortopedica, ha sviluppato un protocollo di
trattamento valido ancora oggi, che prende in considerazione i principali fattori prognostici della malattia
metastatica e le sue caratteristiche biologiche e meccaniche. In particolare:
- le caratteristiche biologiche sono:
o aspettativa di sopravvivenza (tipo di tumore primitivo):
▪ < 1 anno: melanoma, carcinoma del pancreas, del polmone, della tiroide e dello
stomaco;
▪ 1-2 anni: carcinoma della mammella, del colon, dell’utero;
▪ > 2 anni: mieloma, linfoma e carcinomi prostatico, renale.
o Estensione della malattia (lesione unica vs multipla);
o Condizioni generali del paziente (performance status);
o Intervallo libero da malattia;
5/22
- le caratteristiche biomeccaniche, invece, sono:
o presenza/rischio di frattura patologica nelle ossa lunghe principali (sede e dimensioni della
lesione, tipo di lesione litica/addensante);
o sensibilità prevista alle terapie non chirurgiche.
I pazienti con metastasi ossee da carcinoma degli arti e dei cingoli pelvico o scapolare sono assegnati ad una
delle seguenti quattro classi:
Il paziente di classe 1 va trattato in maniera radicale, in quanto la metastasi viene considerata come un
nuovo tumore: la prognosi è buona solo se viene eradicata la malattia.
I pazienti di classe 4 vengono trattati in prima istanza con terapie non chirurgiche (chemioterapia,
radioterapia, terapia ormonale, etc.); in caso di fallimento meccanico (frattura patologica o progressione
di malattia con lesione a rischio di frattura) o di dolore persistente dopo le terapie, vengono trattati
chirurgicamente. In alcuni di questi pazienti possono essere adottate tecniche mini-invasive.
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➢ Trattamento chirurgico
Il trattamento chirurgico dei pazienti di classe 2-3 prevede un approccio diverso sulla base del segmento di
osso coinvolto (metafisi o diafisi).
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➢ Trattamenti adiuvanti la chirurgia
In alcuni casi è possibile utilizzare dei trattamenti adiuvanti per trattare al meglio la lesione.
I primi adiuvanti locali vennero usati all’inizio degli anni Settanta e furono: la crioterapia con azoto liquido,
sviluppata da Marcove (1973) al Memorial Sloan-Kettering di New York e la cementazione con PMMA
descritta per la prima volta da Persson e Wouters.
A queste esperienze si sono aggiunti con il tempo altri adiuvanti locali:
o chimici come il fenolo, l’etanolo e H2O2;
o fisici come la termocoagulazione con elettrobisturi, soprattutto ad Argon e la crioterapia con
Cryoprobes.
È importante sottolineare che, in ogni caso, qualsiasi agente fisico o chimico usato come adiuvante non
può correggere o risolvere un curettage mal eseguito, a dimostrazione che la resezione costituisce il
cardine principale del trattamento chirurgico.
La crioterapia presenta un alto tasso di efficacia: oltre a preservare le articolazioni adiacenti alla zona
trattata (raggio di azione di 7-12 mm), evita al chirurgo di dover intervenire con sostituzioni protesiche o
trapianti. Permangono, comunque, dei rischi connessi al potere distruttivo di questa sostanza che si
traduce in:
o possibile necrosi dei tessuti molli circostanti;
o neuroaprassia delle strutture nervose vicine;
o rischio di frattura.
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4.3 Stadiazione
Parlando di oncologia ortopedica, diventa fondamentale stabilire una classificazione che sia utile per
determinare la natura della neoplasia, la sua prognosi e per capire come intervenire.
Prima degli anni ‘80, l’unica possibilità terapeutica che si aveva nei confronti di lesioni neoplastiche maligne
a livello osseo, era l’amputazione. Tuttavia, successivi studi hanno stabilito che un certo tipo di chirurgia con
dei canoni precisi, a seconda della lesione, poteva avere la stessa prognosi di sopravvivenza di
un’amputazione, con la possibilità di salvare l’arto del paziente.
Oggi, infatti, grazie a chemioterapia e chirurgia oncologica (che segue le caratteristiche della lesione e i canoni
della standardizzazione), la sopravvivenza (anche per tumori maligni) è aumentata notevolmente,
rispettando dell’anatomia del paziente. È bene però precisare che, qualora il chirurgo si trovasse di fronte ad
una lesione di grado elevato, aggressiva ed extracompartimentale (concetto che si spiegherà in seguito)
spesso l’amputazione resta ancora l’unica possibilità.
➢ Grading
Considera, dal punto di vista citologico l’aggressività del tumore. Più un tumore è indifferenziato e con molte
atipie cellulari, più è maligno e aggressivo. Si distinguono lesioni a:
• basso grado (I): grado istologico 1 e 2 (probabilità di metastasi inferiore al 25%)
• alto grado (II): grado istologico 3 e 4 (osteosarcoma classico, sarcoma di paget, condrosarcoma
primario, fibrosarcoma, angiosarcoma, ecc)
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➢ Estensione locale del tumore
Per quanto concerne l’estensione locale del tumore è importante introdurre il concetto di “compartimento
anatomico”.
Per compartimento anatomico si intende una qualsiasi regione anatomica delimitata da una barriera, che
può essere rappresentata da una cartilagine, dall’ osso corticale, dal periostio, o dalla fascia muscolare.
➢ Metastasi
La presenza di metastasi determina, indipendentemente dal grado e dall’estensione locale, uno stadio III.
L’anatomopatologo stabilisce il grado della lesione e poi il chirurgo, in base al surgical grade, saprà come
intervenire con l’obiettivo di avere la miglior prognosi possibile.
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4.4 Diagnosi
Il corretto iter diagnostico di una lesione dell’apparato osteomuscolare prevede, innanzitutto, un’ecografia
per i tumori dei tessuti molli e una radiografia per i tumori ossei. Successivamente vengono eseguite TC con
mdc (il mezzo di contrasto è fondamentale per valutare la neoangiogenesi, caratteristica di malignità e
aggressività) e/o una Risonanza Magnetica per una miglior definizione diagnostica e localizzazione
topografica della lesione. La scintigrafia ossea e la PET si utilizzano, in seguito, per valutare l’eventuale
interessamento dello scheletro sia in contiguità della lesione che a distanza (eventuali metastasi).
In follow-up è necessario sempre eseguire anche una TC torace, in quanto il polmone è la prima sede di
eventuali metastasi da sarcoma.
Alcune volte, masse sospette sono scoperte nel contesto di indagini di altra natura (incidentalomi).
È bene precisare che le manovre mininvasive, quali punture esplorative e/o aspirazioni che possono
disseminare le cellule tumorali in tessuti sani circostanti, sono vivamente sconsigliate.
La biopsia, infine, è l’ultimo step da effettuare ed è ciò che permette di fare diagnosi di certezza. Deve essere
eseguita da un chirurgo esperto in oncologia muscoloscheletrica, poiché è fondamentale sapere in che zona
del tumore effettuarla ed è inoltre un procedimento soggetto a rischi (soprattutto se il tumore è maligno,
per rischio di disseminazione di cellule neoplastiche). Anche all’interno di una lesione che è ben riconoscibile
e delimitata, è importante stabilire in quale zona effettuare la biopsia, in modo tale che essa sia
rappresentativa di tutta la massa neoplastica, sia fenotipicamente che geneticamente. Proprio per i rischi che
la biopsia presenta, è l’ultimo step da effettuare nell’iter diagnostico di questi tumori.
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4.4.1 Aspetti radiografici peculiari
➢ Sede
I tumori dello scheletro tendenzialmente presentano delle peculiarità caratteristiche, come la “sede”
preferenziale all’interno dell’osso o dei tessuti molli. Questo permette di avere un’idea di quale tipo di
tumore possa essere una lesione che si viene a localizzare in una particolare regione corporea (che sia un
osso specifico o una porzione in particolare di esso). Ci sono infatti tumori che hanno caratteristiche
radiografiche e di sede che sono patognomoniche e questo, in alcuni casi, può esulare dall’effettuare una
biopsia.
Una tra le lesioni più importanti da conoscere in questo senso è l’osteosarcoma, il quale può essere
ubiquitario, ma in una grande percentuale di casi si riscontra nel femore, in zona diafisaria distale, e nella
metafisi prossimale della tibia, oltre che nell'omero prossimale.
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Nel caso di lesioni aggressive, al contrario, si rileva una zona di transizione ampia e mal definita, poiché non
l’osso sano non ha fatto in tempo a mettere in moto il meccanismo prima descritto. Lesioni con pattern
infiltrativo, con margini non netti, sono di norma maligne. In caso di osteosarcoma abbiamo infatti una
lesione infiltrante, che sovverte la normale architettura ossea.
➢ Reazione periostale
In genere la comparsa di un sottile strado di nuovo osso a livello del periostio è indicativa di una lesione a
rapida crescita, ma non necessariamente maligna (fenomeno riscontrabile anche nell’osteomielite). A
seconda della benignità o della malignità della lesione il pattern assunto dalla crescita periostale sarà
differente.
Per esempio, il sarcoma di Ewing, tumore maligno tipico dell’età pediatrica, si caratterizza per una reazione periostale
“a guscio di cipolla”, così definita per la sovrapposizione periodica di strati paralleli di periostio.
Nel sospetto di tumore maligno, i tipi di biopsia da effettuare sono la biopsia incisionale o la trochar biopsy.
L’esame istologico, infatti, è importante per capire il grado di infiltrazione del tumore e i suoi rapporti con i
tessuti circostanti, il che è fondamentale per capirne l’aggressività. Perciò non è sufficiente il grading cellulare
(che indica il grado di malignità ma non l’aggressività), ma l’anatomopatologo deve avere a disposizione
anche il frustolo.
Per molte lesioni benigne, invece, può essere sufficiente l’indagine citologica.
➢ Trochar biopsy
Attraverso un solo punto d’ingresso, si eseguono multipli
campionamenti della lesione. Il foro deve essere unico poiché,
in seguito ai prelievi, essendo venuto a contatto con il
materiale tumorale, lo si considera “contaminato”.
Questo è vantaggioso dal punto di vista chirurgico in quanto
non si dovranno asportare porzioni troppo grandi di tessuto
inizialmente sano.
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➢ Biopsia incisionale
Si esegue per i tumori dei tessuti molli anche se, attualmente, si opta per biopsie eco-guidate o tac-guidate.
Si tende ad effettuare una biopsia incisionale, ad esempio, quando l’anatomopatologo riferisce che il
campione giunto per l’esame non è sufficiente per una valutazione istologica.
Questo tipo di biopsia richiede alcuni accorgimenti:
• È necessario evitare le incisioni trasverse: tutto ciò che è stato a contatto con il tumore può essere
contaminato e se si effettuano incisioni trasverse o ad “s” , è necessario asportare molta cute.
• È necessario evitare le incisioni fuori dal decorso della resezione (non bisogna passare, quindi, tra i
ventri muscolari contigui): se infatti si deve asportare tessuto sano intorno alla lesione, ledendo più
muscoli si causerebbe un danno più aggressivo. Se si passa da un solo ventre muscolare, questo viene
evitato.
• È necessario evitare di scollare e divaricare ampiamente per fare una piccola incisione o raccogliere
modeste quantità di tessuto a piccoli frammenti con curette5 o pinze, dal centro della lesione.
• È necessario evitare il posizionamento di drenaggi con “uscita” distale rispetto alla ferita: questo
perché, dovendo poi asportare il foro del drenaggio, si dovrebbe rimuovere una grande quantità di
tessuto sano. I drenaggi, pertanto, vanno posizionati sempre “in linea” con l’incisione.
4.5 Trattamento
Il trattamento dei tumori muscoloscheletrici prevede la chirurgia, la chemioterapia e la radioterapia. La
chemioterapia è l’approccio che ha drasticamente migliorato la prognosi dei tumori maligni.
➢ Chirurgia
Nel trattamento di neoplasie dello scheletro, un altro concetto fondamentale introdotto da Enneking è quello
di margine chirurgico, che può essere:
• Intralesionale: si entra nella lesione e la si asporta. Non è un approccio possibile con i tumori maligni;
• Marginale: nei tumori benigni, capsulati, in cui si vede il tumore ben delimitato, lo si può rimuovere
senza asportare tessuto sano, essendo certi che non vi sia possibilità di recidiva o di
metastatizzazione. È il caso del lipoma6.
• Ampio: la resezione ampia consiste nella rimozione del tumore completamente avvolto da uno strato
di tessuto sano, senza mai vedere né la pseudo-capsula né la neoplasia stessa;
• Radicale: La resezione radicale prevede l’asportazione dell’intero compartimento, della loggia.
5 Una curette (pronunciato: kyʀεt; dal francese cureter [grattare, raschiare]) o cucchiaio tagliente è uno strumento chirurgico, di
diverse fogge, utilizzato per asportare, scarificare, raschiare o pulire. Fonte: Wikipedia
6 In realtà il lipoma, anche quando adeguatamente rimosso, può recidivare.
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Ciò che è importante nel trattamento è avere una “distanza di sicurezza” dal tumore, ma il problema è
quantificare questa distanza. In letteratura, infatti, almeno nell’ambito dell’oncologia ortopedica, non è
descritto un margine ben definito e standard7. Durante l’ultimo convegno in merito un chirurgo inglese, che
ha guidato una revisione della letteratura dei “margini ampi”, ha affermato che esiste molta variabilità, da
alcuni millimetri dei chirurghi giapponesi, fino a casi in cui si arrivava a 2 cm (è noto, infatti, che i jappa,
insieme ai china, siano abituati a misure più brevi).
Non esiste, in realtà, un margine sicuro e sta nello studio dell’anatomia, dell’aspetto dell’imaging, del
responso anatomopatologico, capire la distanza corretta dalla lesione. Solitamente, per essere sicuri, si
“lasciano” 2 cm di margine, il quale è molto ampio.
Per capire se la resezione è stata effettuata correttamente, bisogna aspettare il referto del patologo, che
analizza la lesione asportata e studia il margine. Nel caso in cui la resezione non sia completa (margine
positivo) è necessario reintervenire con una “radicalizzazione” o fare radioterapia.
La signora in foto presentava un piccolo nodulo sottocutaneo ed il rapporto che esso aveva con la fascia, non era
chiaro (cosa che invece è fondamentale sapere, perché le lesioni soprafasciali, di norma, non sono aggressive e,
qualora lo fossero, la sede permetterebbe un intervento chirurgico intracompartimentale, ovviamente più semplice).
Il chirurgo in questione ha rimosso il nodulo chirurgicamente con incisione trasversa (vedi foto). Il referto
anatomopatologico ha evidenziato una lesione maligna aggressiva, che può dare metastasi ed essere letale. Il chirurgo
è, quindi, intervenuto in maniera inopportuna e, successivamente, è stato costretto ad asportare molto più tessuto a
causa del tipo di incisione effettuata.
È stata, infatti, eseguita una radicalizzazione (il che significa asportare tessuto dopo che si è già intervenuti
precedentemente, con l’obiettivo di massimizzare la probabilità di eradicare le cellule neoplastiche) la quale, però, è
risultata difficoltosa a causa del tipo di incisione precedentemente eseguita. Infatti sono state asportate grandi
quantità di tessuto e la donna si è guadagnata una bella cicatrice che, probabilmente, coprirà con un tatuaggio degno
di Just Tattoo of Us su Mtv.
7 Söm a post
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4.A Tumori maligni primitivi dello scheletro
I tumori maligni primitivi dello scheletro costituiscono circa il 28% di tutte le lesioni ossee. Tra i tumori
maligni, come si evince dal grafico sulla destra, quelli più frequenti sono:
- l’osteosarcoma (OS);
- il condrosarcoma (CS);
- il sarcoma di Ewing.
4.A.1 OSTEOSARCOMA
L’osteosarcoma è un tumore ad elevata malignità, costituito da cellule mesenchimali maligne che producono
matrice osteoide ed ossea. Colpisce prevalentemente le ossa lunghe ed è il tumore maligno primitivo dello
scheletro più frequente nei bambini e nei giovani adulti.
L’OS comprende diverse varianti, anche a basso grado di malignità. Tuttavia, quella che ricorre più
frequentemente (80% dei casi) è la forma centrale ad alto grado di malignità.
4.A.1.1 Classificazione
Come prima accennato, esistono diverse forme di OS:
- OS classico intramidollare o centrale (osteo-, condro- o fibroblastico): forma largamente più
frequente;
- OS teleangectasico;
- OS centrale a basso grado di malignità;
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- OS della superficie (parostale, periosteo, di superficie ad
alto grado);
- Osteosarcoma su malattia di Paget;
- Osteosarcoma secondario a lesioni preesistenti;
- Osteosarcoma della mandibola;
- Osteosarcoma in condrosarcoma dedifferenziato;
- Osteosarcoma multicentrico;
- Osteosarcoma post-irradiazione.
Osteosarcoma classico
Esordisce attorno ai 20 anni, a livello delle metafisi delle ossa lunghe. Le localizzazioni più frequenti sono
quelle attorno al ginocchio e all'omero prossimale. Molto raramente si può presentare contempo-
raneamente in più sedi (osteosarcoma multicentrico).
Il tumore si presenta quasi sempre Stadio II-B (90% dei casi) o III se le metastasi (a livello polmonare) sono
già presenti al momento della diagnosi (nel 10-15% dei casi). Il tumore risponde bene alla chemioterapia
preoperatoria e, soprattutto in caso di buona risposta, le percentuali di sopravvivenza ormai si attestano
attorno al 70%.
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o Parostale (2,5%): l’età media di insorgenza è 27 anni; si tratta di una variante a lenta crescita,
che si localizza quasi sempre a livello del femore distale posteriore: cresce come una nuvola
ossea (molto densa ed omogenea) sulla superficie dell’osso.
Spesso poco dolorosa, può dare lieve dolenzia ma mai dolore importante.
Si può eseguire una resezione tangenziale; se i margini non sono adeguati, recidiva localmente
oppure con delle skip lesion nelle parti molli.
A sx si osserva la variante periostale dell’OS a basso grado, localizzato al terzo medio di femore; a dx, invece, è
apprezzabile la “nuvola ossea” data dalla variante parostale localizzato (come sua tendenza) posteriormente a
livello del femore distale.
4.A.1.2 Trattamento
L’approccio terapeutico dell’OS classico segue tipicamente 3 step:
1. chemioterapia neoadiuvante: con metotrexate ad alte dosi (HDMTX), adriamicina (ADM), cisplatino
(CDDP) e/o ifosfamide (IFO);
2. chirurgia;
3. chemioterapia.
Esiste un nuovo farmaco ad azione di immunomodulazione (MEPACT©), utilizzabile in pazienti di età inferiore
a 31 anni con OS localizzato dopo trattamento chirurgico. Sembra garantire un aumento di probabilità di
sopravvivenza dell’8%.
Il ruolo della radioterapia è dibattuto e dipende dalla localizzazione del tumore (pelvi, rachide), dalle
dimensioni del tumore e dall’età del pz.
4.A.2 CONDROSARCOMA
Il condrosarcoma (CS) è un tumore maligno di origine mesenchimale le cui cellule producono matrice
condroide priva di osteoide (cartilagine). La classificazione del CS include diverse varietà:
- CS centrale;
- CS periferico;
- Altre: CS periosteo, CS a cellule chiare, CS mesenchimale, CS dedifferenziato.
Condrosarcoma centrale
Il CS centrale origina all’interno dell’osso in sede intramidollare e può essere definito primario o
secondario. Il CS centrale primario insorge in un segmento osseo precedentemente sano mentre il CS
centrale secondario insorge su una lesione cartilaginea benigna preesistente (encondroma; m. di Ollier9;
9la trasformazione di un condroma in condrosarcoma è evento estremamente raro nei condromi solitari, mentre è più frequente nei
portatori di malattia di Ollier dato che hanno molti condromi nello scheletro.
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s. di Maffucci). Per incidenza, è il secondo tumore maligno primitivo dell’osso dopo l’osteosarcoma,
predilige il sesso maschile ed è tipico dell’età adulta avanzata, essendo raro prima dei trent’anni e
rarissimo prima della pubertà.
Le sedi più colpite sono il cingolo pelvico (femore prossimale e bacino) e scapolare (omero prossimale e
scapola) ed il ginocchio (femore distale e tibia prossimale), specialmente a livello metafisario, mentre è
estremamente raro nelle ossa della mano e del piede.
La crescita è molto lenta, con scarso dolore (lieve, mal riferito e discontinuo); può essere presente una
lieve tumefazione. Nel tempo tende a progredire di malignità e in fase tardiva spesso dà metastasi a
distanza, soprattutto al polmone.
Il trattamento del CS centrale è basato sull’asportazione chirurgica avendo dimostrato una scarsa
sensibilità alla chemioterapia ed alla radioterapia.
Come nel CSC è molto rara la degenerazione di un'esostosi solitaria, mentre l'evenienza è più frequente
(10% circa) nei portatori di malattia delle esostosi multiple che hanno moltissime esostosi sparse nello
scheletro. La trasformazione maligna avviene solo in età adulta: nei bambini in accrescimento l'esostosi
cresce consensualmente alla crescita ossea e tale evenienza non è quindi patologica.
Il segno principale della trasformazione maligna di un’esostosi è il suo progressivo e lento aumento di
volume.
10Il gene del cromosoma 22 codifica il gene del sarcoma di Ewing (EWS) la cui funzione non è nota (Delattre 1992, May 1993). Il gene
del cromosoma 11, chiamato FLI1, è coinvolto nell’attivazione/ inattivazione di altri geni. Il nuovo gene derivante dalla fusione dei
due, chiamato EWS/FLI, codifica una proteina di fusione alterata che regola altri geni che può dare origine a tumori quando espressa
impropriamente.
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4.A.3.1 Epidemiologia
È più frequente nel sesso maschile (65%) e la fascia d’età più colpita è quella compresa tra i 10 e i 19 anni. È
molto raro in alcune etnie (afroamericana e cinesue).
Il Sarcoma di Ewing è generalmente una lesione Stadio II-B. Spesso al momento della diagnosi possono essere
presenti metastasi (20-25% dei casi) polmonari, linfonodali o interessamento di altre ossa (Stadio III). Il
tumore, se non trattato, ha andamento rapido e mortale con metastatizzazione soprattutto polmonare.
4.A.3.4 Diagnosi
La clinica pone il sospetto, ma la conferma arriva dall’imaging. La PET è spesso richiesta per visualizzare anche
i linfonodi.
Questa lesione entra in diagnosi differenziale con il granuloma eosinofilo (reazione periostale simile) e con
l’osteomielite.
Sarcoma di Ewing del femore. Lesione osteolitica (cerchio blu) con bordi non ben individuabili nella diafisi dell'osso. Si osserva due
reazioni periostali tipiche: con aspetto a “sole radiante”11 (cerchio rosso) e con aspetto a “bulbo di cipolla” (frecce bianche).
11 Si tratta di un pattern aggressivo tipico dell’osteosarcoma, ma può essere presente anche in altri casi (Sarcoma di Ewing, per
l’appunto, e in alcune metastasi osteoblastiche derivanti da tumori di prostata, mammella o polmone)
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4.A.3.5 Trattamento
Similmente a quanto detto per le altre forme maligne, il trattamento prevede l’utilizzo di:
- chemioterapia neoadiuvante + chirurgia;
- radioterapia;
- proton-terapia: si tratta di una particolare forma di radioterapia oncologica che utilizza particelle
dotate di massa e carica, i protoni, al posto dei raggi X (fotoni) adottati nella radioterapia
tradizionale. I protoni rilasciano la loro energia nei tessuti irradiati in modo caratteristico: la dose
viene depositata quasi interamente e con estrema precisione nello spazio di pochi millimetri. Questa
proprietà consente di somministrare dosi elevate di radiazioni al tumore, risparmiando i tessuti sani
in prossimità della lesione.
4.A.3.6 Prognosi
L’impiego della chemioterapia ha rivoluzionato la prognosi di questa patologia, soprattutto nelle forme
localizzate. La presenza di metastasi, invece, si correla ad un abbassamento netto del tasso di sopravvivenza
a 5 anni (come si evince dalla tabella seguente.
I tumori maligni o sarcomi dei tessuti molli derivano da tessuti di origine mesenchimale, quali tessuto
adiposo, muscolare, nervoso, fibroso, vascolare.
Possono svilupparsi in qualsiasi parte del corpo, ma si riscontrano prevalentemente a livello degli arti.
Altre localizzazioni sono a livello di tronco, collo, testa, organi viscerali, retroperitoneo.
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Di fronte ad una massa di un tessuto molle, i criteri per sospettarne una natura maligna sono:
- grandi dimensioni (> 3-5 cm);
- localizzazione profonda/sottofasciale;
- localizzazione nella porzione prossimale di un arto (braccio, coscia, cingoli);
- crescita progressiva nel tempo
- età > 40 anni;
4.B.1 LIPOSARCOMA
Il liposarcoma rappresenta la forma più frequente di tumore dei tessuti molli. Si tratta della forma maligna
del lipoma, a differenza del quale, però, compare più in profondità.
Insorge raramente prima dei 20 anni e si localizza frequentemente alle radici degli arti (ma anche a livello
retroperitoneale, nel collo, nel subendocardio o nel subpericardio). Ha una crescita lenta e dà origine ad una
sintomatologia subdola: il pazienta lamenta gonfiore e dolore mal definito.
La diagnosi viene effettuata attraverso un esame RM, che evidenzia una massa ipointensa in T1 ed iperintensa
in T2.
Il trattamento si basa sui capisaldi della terapia antineoplastica, ma dipende dallo stadio del tumore:
- stadio IA e IB: resezione ampia o radicale;
- stadi IIA e IIB: chirurgia preceduta da chemioterapia (ifofosfamide) associata o meno a radioterapia.
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Ex Lezione 1 del 04/03/19
Sbobinatore: F.B; Revisionata da LD
Docente: Prof. Giuseppe Milano
5.1 Osteocondrosi
5.1.1 Epidemiologia
È una patologia piuttosto frequente nel bambino, colpisce l’1,7% della popolazione pediatrica,
prevalentemente i maschi e interessa quasi esclusivamente gli arti inferiori. Sono rare le localizzazioni
multiple: sebbene sia possibile l’interessamento bilaterale, colpisce più frequentemente un solo distretto.
Prima di essere stata inquadrata da un punto di vista eziopatogenetico, l’osteocondrosi è stata descritta
come una serie di diversi epifenomeni in differenti sedi, solo successivamente si capì che erano in realtà
l’espressione dello stesso quadro clinico. In base alla localizzazione della malattia e al nome dell’autore che
la descrive vengono ancor oggi utilizzati differenti eponimi, creando spesso confusione nello studente:
• Osteocondrosi della testa del femore: malattia o morbo di Legg-Calvé-Perthes;
È la più frequente (29.75%)
• Osteocondrosi delle epifisi vertebrali (definite comunemente “limitanti somatiche delle vertebre”):
morbo di Scheuermann
È la terza più frequente (17.7%)
Può determinare deformità permanenti a cuneo del corpo vertebrale, con conseguente dorso curvo
cifotico strutturato
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Esistono altre localizzazioni meno frequenti, come:
• Corpo vertebrale: diversa dal morbo di Scheuermann, in quanto riguarda il corpo della vertebra
dove c’è un altro nucleo di accrescimento e viene definita morbo di Calvé
• Semilunare, apofisi calcaneare, tibiale, corpo e apice della rotula. (n.d.s. il professore li cita senza
approfondirli).
Una localizzazione particolare, non epifisaria in senso puro (dal momento che non coinvolge tutta l’epifisi),
è l’osteocondrosi dissecante – o morbo di Konig – caratterizzata da una lesione ischemica dell’osso
subcondrale, cioè la regione subito al di sotto della cartilagine articolare. Questa patologia verrà trattata
più avanti nella lezione.
L’evoluzione della malattia porta ad un appiattimento dell’osso con perdita di forma e morfologia e
progressiva sclerosi (l’osso diventa più radiopaco nella regione interessata).
Il periodo di insorgenza dell’osteocondrosi varia a seconda della localizzazione della patologia, questo
significa che ad ogni fascia di età corrisponde una prevalenza per una specifica forma di osteocondrosi:
• Prima infanzia: scafoide tarsale
• Seconda infanzia: testa del femore (m. di Perthes), apofisi calcaneare
• Terza infanzia: tibiale anteriore
• Seconda decade di età: semilunare del polso.
5.1.2. Eziopatogenesi
L’osteocondrosi è un’alterazione degenerativa che colpisce le cartilagini di accrescimento.
Tra l’epifisi e la diafisi di un osso lungo vi è una zona di accrescimento chiamata metafisi: in questa zona si
trovano cellule cartilaginee distribuite in modo colonnare che gradualmente ossificano, permettendo la
crescita in lunghezza dell’osso lungo.
Il danno iniziale strutturale avviene a livello di
questa regione ed è legato ad un’alterazione di
tipo metabolico-biochimico; nello specifico si
assiste ad una modificazione del pattern dei
proteoglicani e della composizione dei GAG,
che determina un’alterazione delle proprietà
meccaniche della zona interessata. I GAG
possiedono delle cariche negative e sono, per
questo, in grado di trattenere le molecole
d’acqua e di modificare l’elasticità e quindi la
resistenza meccanica al carico, permettendo la
compressione, la torsione e la flessione del tessuto. In tutti i tessuti connettivi l’acqua svolge un ruolo
fondamentale, garantendo la capacità di assorbire e distribuire i carichi; le molecole d’acqua non si
staccano mai dal proteoglicano: sotto l’effetto del peso del corpo, la ramificazione del proteoglicano si
apre, le molecole d’acqua si allontanano e, quando il carico viene sottratto, la struttura riprende la sua
forma originale e le ramificazioni si riavvicinano (il professore paragona la situazione al comportamento
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della borsa dell’acqua calda quando viene schiacciata nel mezzo: l’acqua si sposta dal punto di applicazione
della forza ma non fuoriesce). Questo fenomeno avviene in tutti i tessuti connettivi, ma in modo differente
in base al quantitativo di acqua contenuto: nella cartilagine si manifesta in maniera particolare; al contrario
l’osso, essendo associato ad una minore quota d’acqua, ha una minore capacità di deformarsi senza
rompersi ( si parla di “deformazione elastica”: la situazione si ripristina una volta rimosso il carico; l’osso più
spesso va incontro a delle rotture).
Un’altra componente importante di tutti i tessuti connettivi sono le fibre collagene che possono variare in
quantità, nel tipo di collagene e soprattutto in diametro. Anche il collagene conferisce al tessuto la capacità
di resistenza meccanica che varia da distretto a distretto, ma soprattutto varia in maniera patologica
nell’osso, in questo caso.
Parlando di resistenza meccanica della cartilagine o di qualsiasi altro tessuto in generale, (se ne parlerà
anche quando verranno trattate le fratture) va immaginato che tutte le strutture del nostro apparato di
sostegno, in particolare l’osso, siano fatte per sopportare carichi in compressione ed abbiano un proprio
“carico massimo”, cioè la capacità di resistenza al carico, e una propria “rigidezza”, cioè la capacità di
deformarsi in relazione all’applicazione del carico. L’atteggiamento dell’osso è definito “viscoelastico” e
rappresentando la resistenza al carico con una curva in un grafico N/mm si può vedere che:
o la curva carico-deformazione cresce fino a un certo
punto in modo quasi lineare; questa fase è detta
elastica: il carico applicato determina una deformazione
ma una volta rimosso, il quadro ritorna esattamente alla
sua forma originale.
o la curva si allontana dalla tangente, si sposta verso l’alto
e comincia una fase di deformazione plastica
permanente: nel momento in cui il carico viene tolto, la
deformazione rimane nell’ultima forma assunta; a questo punto si può già parlare di danno
strutturale.
o la curva continua infine a salire fino a un punto di plateau oltre il quale avviene la rottura: da
questo punto in poi c’è un calo della capacità di resistenza al carico.
Il concetto di “Rottura” è una definizione convenzionale, non esiste una definizione standard; si potrebbe
dire infatti che il tessuto si sia rotto nella fase di deformazione plastica (“snervamento”), dove c’è già una
perdita delle capacità meccaniche; altrimenti si potrebbe considerare “rottura” il carico massimo che riesce
a sopportare, oltre il quale si registra un crollo della curva di carico che corrisponde al punto in cui avviene
la rottura. Si può parlare di carico alla deformazione plastica (carico di snervamento) o carico di rottura
(carico massimo).
Normalmente un tessuto è strutturato, si è modellato e rimodellato per obbedire al carico fisiologico che la
struttura può sopportare: il carico in compressione che l’osso sopporta è proprio il nostro peso corporeo.
Siccome il nostro peso cambia, cambierà anche il limite di carico massimo, perché l’osso si rimodella
continuamente e si adatta alla nuova richiesta. Questa nuova richiesta obbedisce a una curva analoga alla
precedente: nel momento in cui viene applicato un carico superiore alla capacità di resistenza di quella
struttura, avviene la rottura. Quest’ultima può avvenire in un tessuto qualsiasi quando il carico applicato
supera la capacità di resistenza dello stesso, ciò può accadere in due circostanze:
• per l’applicazione di un carico sovra-massimale (n.d.s. il professore dice sub-massimale) molto
violento;
3/21
• per la progressiva perdita delle capacità meccaniche dovuta a un processo patologico intrinseco
che porta al superamento della capacità di resistenza al carico. In questo caso il carico non è
cambiato (il peso del paziente è sempre il medesimo) ma l’osso si rompe perché è più fragile.
Queste fratture vengono chiamate “patologiche” in quanto esiste una patologia di base dell’osso
che ne determina la rottura.
L’osteocondrosi ricalca un quadro del secondo tipo: esiste una situazione patologica a livello della
cartilagine di accrescimento tale per cui, sotto l’effetto del peso del corpo e a fronte di una causa
scatenante, più o meno identificabile, essa va incontro a rottura; le cause possono essere ricercate in:
• macrotrauma, un evento singolo, violento, ad alta velocità ed energia, (es. incidente stradale,
caduta dagli sci ecc.) facile da identificare in quanto riferito dal paziente e con evidenza clinica;
• microtraumi ripetuti, sono i più rilevanti e difficili da riconoscere in quanto spesso non vengono
percepiti dal paziente come una condizione di stress o di patologia. Si sviluppano spesso durante
l’attività sportiva, quando alcuni gesti vengono ripetuti più volte al giorno per diversi giorni alla
settimana.
In entrambe le condizioni il trauma (micro o macro), agendo su una struttura già patologica, ne provoca
un’alterazione e i vasi che passano all’interno della cartilagine di accrescimento si rompono o si occludono,
determinando un fenomeno ischemico a livello del nucleo di accrescimento epifisario. Dentro la cartilagine
di accrescimento passano infatti piccoli vasi che portano il nutrimento all’epifisi. Non necessariamente
questo trauma provoca una frattura, cioè uno spostamento dei due frammenti, più spesso le lesioni sono
inapparenti dal punto di vista macroscopico, sono invisibili perciò ad una radiografia.
In conclusione, esiste un substrato anatomico predisposto a sviluppare la malattia e nello stesso tempo
esiste una concausa rappresentata da un evento scatenante.
L’osteocondrosi non solo decorre in maniera quasi asintomatica, ma decorre anche in modo subdolo dal
punto di vista dell’imaging: alla radiografia non si identificano alterazioni prima di un certo tempo, il quadro
diventa evidente solo in fasi troppo tardive quando si instaura una sindrome ischemica ossea e sono già
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presenti danni secondari all’ischemia, talvolta con necrosi ossea; si evidenziano caratteristiche simili a
quelle di un’osteonecrosi nell’adulto, ovvero segni di rarefazione, poi di frammentazione del nucleo di
accrescimento, addensamenti (l’osso si vede più bianco) e progressivamente si instaura una fase riparativa
(l’osso muore ma poi viene riabilitato dalle cellule circostanti). Tuttavia, ciò che si è deformato non
riacquisterà mai la forma precedente e questo è il problema principale dell’osteocondrosi.
Viene mostrato l’esito progressivo della malattia di Perthes (Legg-Calvé-Perthes), con un’alterazione a
macchia di leopardo, a chiazze, del nucleo di accrescimento della testa del femore. La cartilagine di
accrescimento normalmente è radiotrasparente e la si può vedere come una linea, da non identificare come
una frattura. Progressivamente la testa del femore tende a frantumarsi, poi inizia ad assumere l’aspetto di
addensamento eburneo e l’esito riparativo è deformante, molto invalidante.
Le superfici articolari obbediscono a una cinematica perfetta per la loro funzione, la congruenza fra le
superfici articolari è ciò che garantisce il movimento. I raggi di curvatura tra una superficie articolare e
l’altra (composte da una parte ossea, una cartilaginea e una capsulo-legamentosa) hanno una congruenza
di superficie tale che la distribuzione del carico per unità di superficie è omogenea in tutta l’area di
contatto. Quando una superficie è diversa per raggio di curvatura o come forma rispetto a un’altra, si
presentano dei picchi di carico: in alcune zone c’è tutto il carico, in altre non ce n’è.
Quindi se la testa del femore, ad esempio, è degenerata e non congrua alla concavità dell’acetabolo si
hanno:
• perdita di articolarità, di movimento
• dolore
• artrosi, con il consumo anche della cartilagine dell’altra superficie, con progressiva perdita della
funzione
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• tubercolosi ossee: più frequenti un tempo; è avvenuto un lieve ritorno di queste patologie per
l’aumento dei flussi migratori, ma ad ogni modo raramente si riesce a vedere una TBC ossea nei
bambini;
• malattie sistemiche di tipo genetico come la displasia condroepifisaria.
Sostanzialmente, quando un bambino lamenta dolore ad un’articolazione come l’anca, ma anche mano,
piede, anca, caviglia, soprattutto se fa attività sportiva, il primo sospetto è che si tratti di un’osteocondrosi.
5.1.5 Prognosi
Se riconosciuta e approcciata togliendo il carico o
eliminando quanto più possibile gli stimoli meccanici che
potrebbero continuare ad alimentarla, la malattia è
benigna ed ha un’evoluzione spontanea positiva.
Generalmente la malattia si risolve nell’arco di un anno
anche se in alcuni casi i tempi si allungano: per la
malattia di Perthes ci vogliono anche 2-3 anni, per la
malattia di Calvé della vertebra fino a 4 anni.
La guarigione ha invece un esito invalidante se non
riconosciuta in fase precoce così da evitare dei carichi
continui. L’esito caratteristico della malattia di Perthes è
la coxa plana, ovvero l’appiattimento della testa del
femore, mentre nel caso della malattia di Scheuermann
si può arrivare ad una deformità a cuneo della vertebra
che determina una cifosi strutturata. Molte persone
hanno una postura cifotica che provoca un dorso curvo astenico, spesso anche per una insufficienza della
parete addominale: si tratta di un atteggiamento correggibile; al contrario il dorso curvo strutturato
prodotto dalla malattia di Scheuermann non si può correggere. Il modo migliore per discriminare la
tipologia del dorso curvo è quello di far appoggiare il tronco del paziente su un lettino in posizione prona,
lasciandolo in piedi: un dorso astenico (cioè un’alterazione posturale) si riduce perfettamente, mentre una
curva strutturata può essere apprezzata anche in posizione prona.
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un’alterazione del metabolismo del collagene con alterazioni strutturali sia dei proteoglicani che delle fibre
collagene. I soggetti che hanno queste malattie spesso hanno una quota maggiore di collagene di tipo 4 che
forma le fibre elastiche, ne consegue una lassità legamentosa eccessiva come accade in soggetti con
collagenopatie ereditarie, ad esempio la malattia di Marfan.
Le manifestazioni cliniche precedono sempre quelle radiografiche.
Come già detto l’RX diventa positivo solo in una fase molto tardiva; in caso di quadro clinico suggestivo o
quantomeno sospetto ma radiograficamente negativo, è consigliabile eseguire un’ecografia dell’anca.
Questa può aiutare a evidenziare la presenza di un versamento che, quando presente in un bambino nella
seconda o terza infanzia, aggiunge valore al sospetto diagnostico.
Molto importante è indagare il tipo di dolore poiché questo ha una localizzazione specifica a livello
inguinale, segue la faccia interna della coscia, quindi il decorso del nervo otturatorio, e si ferma al ginocchio
(caratteristica tipica di tutti i dolori dell’anca). Il dolore è ingravescente ed associato a claudicatio, cioè la
zoppia; tipicamente la zoppia del bambino con malattia Perthes è definita di fuga, essendo causata dal
dolore, diversa dalla zoppia della displasia d’anca che è invece da caduta. In una zoppia dovuta al dolore,
nel momento in cui il paziente poggia il piede a terra tende a sollevarlo e quindi a caricare di meno,
pertanto il bacino si inclina dalla parte sana in modo tale da ridurre il carico sul lato dolorante durante
l’appoggio monopodalico. Nel bambino con claudicatio dovuta a un’insufficienza dei glutei, ad esempio
proprio per una displasia d’anca, il bacino si obliqua invece dal lato affetto.
Nelle forme dove non si è intervenuti in tempo, l’evoluzione progressiva porta a perdita di funzione fino ad
una artrosi franca.
5.1.B.1 Epidemiologia
Essendo una patologia dell’accrescimento, colpisce bambini nella seconda/terza infanzia e di solito
interessa prevalentemente il condilo mediale del femore distale; sono possibili però anche altre
localizzazioni:
• al ginocchio: condili femorali, raramente il piatto tibiale, ancora più raramente la rotula;
• testa dell’omero;
• capitello radiale.
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rotazioni a piede fisso (un esempio è il calcio, soprattutto se giocato su superfici ad alto attrito come l’erba
sintetica).
La malattia si sviluppa attraverso diversi stadi (riconoscibili mediante scintigrafia).
1. C’è soltanto necrosi ossea, la cartilagine rimane del tutto integra, quindi è la fase in cui è possibile il
riconoscimento, con demarcazione della sola parte ossea, non di quella cartilaginea.
2. Si demarca anche la parte cartilaginea, che rimane ancora in sede.
3. Il frammento tende a muoversi e a diventare più instabile.
4. Il frammento si stacca completamente ed è possibile trovarlo libero nell’articolazione; la
cartilagine può cominciare a crescere e si può perciò trovare un frammento d’osso completamente
avvolto da cartilagine, tale per cui diventa a volte impossibile riconoscere la superficie originaria.
5.1.B.5 Trattamento
Varia a seconda dello stadio della malattia.
In fase iniziale è sufficiente mettere in scarico il ginocchio, quindi evitare di caricarlo.
In una fase più avanzata si realizzano delle “perforazioni” (brinding) per far arrivare il sangue al frammento
ischemico, necrotizzato; si fanno cioè dei fori nell’osso sotto guida radiografica che attraversano la parte
sana e creano dei canali di rivascolarizzazione.
Questi canali vengono fatti banalmente con un trapano e un filo metallico e si possono creare per via:
- anterograda: sono più facili, con lo svantaggio che si buca anche la cartilagine; si possono usare
come compromesso dei fili molto sottili.
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- Retrograda: passando da sopra e bucando l’osso fino a raggiungere la regione ischemica. È un
intervento più conservativo perché viene risparmiata la cartilagine, ma meno preciso perché non si
vede dove va a finire la punta del filo, la si può seguire alla RX ma non sempre con precisione.
Se il frammento si è staccato ed è instabile (stadio 3) viene tolto, ripulito e riattaccato sul fondo della
lesione mediante delle viti (oggi si utilizzano delle viti riassorbibili che passano attraverso la cartilagine e
“sintetizzano” l’osso del frammento dell’osso sano).
Nei casi più avanzati – stadio 4 – dove il frammento è completamente mobile, non si può riattaccare perché
non attecchirebbe, si riassorbirebbe andando incontro a morte. L’unica possibilità è sostituire la cartilagine,
quindi fare dei trapianti di osso e di cartilagine.
Poiché l’osteocondrosi non è una malattia della cartilagine ma dell’osso subcondrale, l’osso va ricostruito
esattamente come era prima, per questo motivo si utilizza una tecnica chiamata “mosaicoplastica” dove si
prendono dei cilindri di osso e cartilagine da altre zone del ginocchio, nello specifico dalla gola
intercondiloidea o dalla troclea laterale, e li si utilizza per riempire la zona del danno; le regioni da cui sono
presi questi cilindretti sono zone non sottoposte al carico, quindi il ginocchio non ne soffre da un punto di
vista del rischio di evoluzione artrosica; è una procedura inoltre del tutto asintomatica.
Queste regioni sono state scelte sulla base di studi di mappatura del carico, attraverso “l’analisi agli
elementi finiti”, grazie alla quale si studiano le zone del ginocchio dove viene applicato il carico; sono
modelli matematici usati per costruire le protesi, i mezzi di sintesi, sono cioè dei sistemi che decidono quale
densità del materiale è necessaria per evitare che si possano rompere sotto effetto del peso, con l’obiettivo
di creare una struttura che sia quantomeno simile all’originale. Attraverso questo tipo di analisi si può fare
anche una mappatura del carico, quindi si può decidere qual è la zona del ginocchio dove non c’è l’effetto
del peso; è appunto grazie a questi modelli che si sa che le zone al centro del ginocchio e nella parte
superiore laterale (troclea) sono zone fuori-carico.
Oltre all’autotrapianto oggi esistono anche delle nuove tecniche, con risultati non ancora del tutto
soddisfacenti, che prevedono la possibilità di utilizzare delle cartilagini ingegnerizzate, degli scaffold bifasici
costituiti da una parte di fosfato di calcio (matrice di cui è fatto l’osso), e da una parte di fibre collagene,
perciò una struttura sintetica che simula l’osso e la cartilagine. Questi scaffold si trapiantano “nudi”, così
come sono, dentro il ginocchio, aspettando che le cellule circostanti vadano a ripopolarlo, oppure pre-
coltivati; in quest’ultimo caso si prendono delle cellule del paziente, si mette uno scaffold in coltura con
queste cellule, si aspetta che lo colonizzino e poi si procede al trapianto.
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5.2 Displasia congenita dell’anca
È una delle patologie più conosciute nell’ambito delle osteopatie pediatriche. C’è differenza fra displasia
congenita, lussazione, sublussazione, anche se a volte si usano erroneamente questi termini in maniera
intercambiabile.
In generale si parla di displasia dell’anca per definire una condizione in cui, a causa dell’alterazione del
processo di accrescimento, non c’è una congruenza perfetta tra le superfici articolari di un’anca per cui la
testa del femore tende a uscire dalla cavità acetabolare, andando col tempo incontro a sublussazione.
Displasia, quindi, non è sinonimo di sublussazione, ma la sublussazione è secondaria a una displasia.
5.2.1 Classificazione
• Pre-lussazione o displasia pura: la testa del femore è ancora nella cavità acetabolare.
• Sublussazione: la testa del femore è parzialmente fuoriuscita dalla cavità acetabolare; è definita
come perdita parziale della congruenza articolare potendo essere:
o transitoria, a seguito di un trauma (il paziente riferisce “ho sentito l’anca che mi stava per
uscire, poi è rientrata”),
o oppure statica, cioè la testa del femore sta sempre parzialmente fuori dall’acetabolo.
• Lussazione: perdita completa della congruenza articolare; la testa del femore è completamente
fuori posto e non si riesce a riportare in posizione fisiologica, se non con una manovra di riduzione.
• Lussazione inveterata: lussazione verificatasi in un tempo passato rispetto al momento
dell’osservazione da parte del medico.
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5.2.2 Epidemiologia
La malattia è più frequente nei neonati ed ha una certa familiarità, colpisce soprattutto le femmine
caucasiche.
Un tempo si pensava ci fosse una distribuzione geografica anche sul territorio nazionale e la malattia era
ritenuta più frequente in Emilia-Romagna, solo successivamente si è scoperto che questa prevalenza era
legata al centro di riferimento dove la malattia veniva curata (a capo del quale era posto il dott. Rizzoli): lì la
malattia è stata per la prima volta descritta, diagnosticata, curata.
5.2.3 Eziopatogenesi
Le svariate teorie sulla patogenesi di questa malattia tendono a confluire inquadrando una situazione nota
come displasia “bipolare”: da una parte c’è una displasia del tetto acetabolare, dall’altra c’è la tendenza
della testa del femore ad uscire dall’acetabolo, indipendentemente dalla forma di questo, a causa di una
lassità capsulo-legamentosa tale per cui la stabilità dell’articolazione non è più mantenuta.
Fondamentale struttura di stabilizzazione che si aggiunge è la cartilagine la cui superficie è diversa dalla
superficie ossea circostante. Nel caso della spalla, la cartilagine al di sopra della superficie ossea è più
spessa in periferia e più sottile al centro, al contrario la cartilagine in prossimità della testa dell’omero è
più spessa al centro e più sottile in periferia. La spalla, così come altre articolazioni, ad esempio il
ginocchio e l’anca, ha un menisco cioè una struttura fibrocartilaginea molle a sezione triangolare che
serve a migliorare il rapporto di congruenza tra le superfici articolari, facendo diventare i raggi di
curvatura dei capi articolari quasi uguali. Alla cartilagine ed ai menischi si aggiungono i legamenti,
componenti fibrose rigide che uniscono i capi articolari l’uno all’altro e ne migliorano la stabilità.
Queste strutture sono il vero cardine dell’articolazione tanto che se per un motivo congenito o
acquisito, cioè per una lassità congenita costituzionale o per un trauma, si rompono, l’articolazione
perde la stabilità intrinseca.
Lassità legamentose
Non tutte le lassità legamentose sono necessariamente considerate patologiche: ci sono soggetti che
possiedono una maggiore lassità legamentosa rispetto ad altri e fisiologicamente sono in grado, ad
esempio, di stendere il gomito superando l’angolo piatto o toccare con i palmi delle mani il pavimento
restando in posizione eretta senza piegare le ginocchia. Tali parametri contribuiscono a definire la scala
di Beighton, che misura la lassità legamentosa generalizzata con un punteggio totale che va da 0 a 9;
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oltre i 4 punti si è considerati iperlassi. Il punteggio totale è definito attribuendo 1 punto in presenza dei
seguenti segni:
o Opposizione del pollice contro la superficie volare dell’avambraccio (destra e sinistra)
o Iperestensione superiore a 90° della V metacarpofalangea (n.d.s. il professore dice
interfalangea distale; destra e sinistra)
o Iperestensione del gomito (destra e sinistra)
o Iperestensione delle ginocchia (destra e sinistra)
o Flessibilità del tronco
L’iperlassità non è una malattia, ma comporta una predisposizione allo sviluppo di patologie da
iperlassità legamentosa, su base soprattutto traumatica. Soggetti con displasia dell’anca, instabilità
atraumatica della spalla, lussazione spontanea della rotula, spesso hanno una lassità legamentosa
generalizzata.
Nel caso specifico della displasia congenita dell’anca, il soggetto costituzionalmente più lasso ha una
maggiore predisposizione allo sviluppo della patologia e in generale ad una displasia della componente
ossea poiché ha una malformazione congenita del distretto articolare, per cui, oltre ad avere
un’insufficienza della componente capsulo-legamentosa (stabilizzatore statico), ha anche un’alterazione
della geometria ossea e quindi un’instabilità legata a un’insufficiente congruenza articolare; solitamente si
ha un problema di “sfuggenza” del tetto acetabolare, cioè il fondo dell’acetabolo è meno curvo, tende a
essere più verticale.
La lassità legamentosa può essere dovuta a fattori ormonali, per alterazioni del pathway ormonale
estroprogestinico; alcune forme sono legate a collagenopatie congenite (in questo caso rientrano nel
campo della patologia vera e propria che oltre alla lassità legamentosa comporta anche una disfunzione
della valvola mitrale, ptosi renale ecc.); una lassità legamentosa distrettuale (solo dell’anca) può essere
determinata dalla posizione che il feto ha assunto durante la gestazione, che ha prodotto la
maturazione dei legamenti in allungamento; di solito si ha quando lo sviluppo avviene in posizione
podalica, quando c’è un oligoidramnios (quantità di liquido amniotico inferiore al normale) o quando c’è
una sproporzione feto-pelvica, ovvero le dimensioni del bambino sono troppo grandi rispetto a quelle
della cavità pelvica della madre: l’ecografia uterina permette di capire se la posizione del feto sia
consona o meno.
A ciò si vanno a sommare una serie di rilievi antropometrici (n.d.s. non ci è richiesto di saperlo). Sia le
strutture capsulo-legamentose che le componenti ossee contribuiscono alla perdita della stabilità
primaria (statica, passiva) dell’articolazione e quindi a favorire la sfuggenza della testa del femore
nell’articolazione.
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5.2.4 Evoluzione del quadro clinico
Nella maggior parte dei casi si identifica una displasia, cioè una prelussazione: la malattia viene, dunque,
fortunatamente riconosciuta in una condizione ancora subclinica. In questo caso, la testa femorale spinge il
“cercine” o “limbus” in direzione postero-superiore; uscendo lateralmente all’acetabolo, spinge questo
menisco e lo estroflette. La fuoriuscita tuttavia è ancora impedita dalle strutture di contenzione passive.
Progressivamente questa spinta continua della testa del femore verso l’esterno e l’alto provocando una
deformità della cavità acetabolare (si parla di cartilagini, il tessuto osseo è ancora in formazione, quindi può
essere estremamente deformabile), la appiattisce, il tetto dell’acetabolo diventa più verticale; diventando
progressivamente più verticale ricopre in misura minore la testa del femore e questa tende a uscire perché
non ha più contenimento.
Gradualmente l’estroflessione del cercine e l’appiattimento della cavità provocano una perdita di
“residenza” della testa del femore all’interno della cavità acetabolare. Esiste un legamento sottile che lega
il fondo dell’acetabolo con la testa del
femore, chiamato legamento rotondo (o
legamento della testa del femore): in
condizione fisiologica ha un ruolo quasi
virtuale, vestigiale, perché la testa del
femore lo tiene sempre schiacciato al fondo
dell’acetabolo; quando la testa del femore
esce progressivamente dalla sua cavità, il
legamento rimane beante, si ipertrofizza e
diventa talmente grande che impedisce la
riduzione. Sul fondo dell’acetabolo c’è
inoltre un piccolo batuffolo di tessuto adiposo, chiamato pulvinar, anch’esso in condizioni normali è
schiacciato dalla testa del femore, ma quando questa esce si ipertrofizza. L’ipertrofia di queste due
strutture può rendere la sublussazione irriducibile.
In situazioni di questo genere, anche il nucleo di accrescimento della testa del femore comincia a cambiare
forma, così come il tetto dell’acetabolo, perché si trova in una posizione anomala. Durante la crescita
intrauterina, nella fase di “modellamento” in cui l’osso primario è ancora modellabile, esso può cambiare
forma. La congruenza tra le due superfici, l’impegno che hanno una verso l’altra, ne determina la forma
finale; venendo separate completamente, non ricevono nessun signalling meccanico a crescere con una
determinata forma e cominciano ad assumerne una anomala: il fondo dell’acetabolo si appiattisce e la testa
del femore si ipertrofizza.
Il nucleo cefalico (nucleo di accrescimento della testa del femore)
tende a lateralizzarsi progressivamente e si porta sempre più verso
l’alto. In fase post natale, nel momento in cui il bambino assume la
posizione ortostatica, la testa del femore trova quindi alloggiamento
sull’ala iliaca, impegnandosi contro di essa per permettere al bambino
di camminare; in tale condizione di lussazione franca si forma così un
“neocotile”, cioè un secondo cotile dentro l’ala iliaca: quello originale
rimane disabitato, quello nuovo è più cefalico, cioè più alto, quindi
complessivamente la gamba interessata risulta più corta rispetto alla
controlaterale perché risalita (è un accorciamento relativo) e,
pertanto, il bambino presenta zoppia.
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La capsula articolare assume una deformazione “a clessidra”, cioè rimane larga in corrispondenza sia
dell’acetabolo che della testa del femore, mentre la parte di capsula che unisce il fondo dell’acetabolo con
la testa del femore si restringe a tal punto da impedire al femore di rientrare. Aprire la capsula per
riposizionare la testa del femore non è possibile poiché il nutrimento della testa stessa è fornito dalla
capsula e, sezionandola, si genererebbe necrosi, rendendo la condizione irreversibile (nds: l’argomento sarà
ripreso affrontando le fratture).
Non essendo impegnato nella cavità acetabolare, anche il collo del
femore si deforma progressivamente tendendo a diventare sempre più
“valgo1” ossia con un’angolatura che si apre ulteriormente,
avvicinandosi alla linea mediana del corpo; esso diventa quasi una
colonna che si appoggia contro l’ala iliaca permettendo al bambino di
camminare, come se si creasse una sorta di stampella.
Con la formazione del neocotile, la cavità acetabolare disabitata si chiude, si rimodella, e tutto l’emibacino
si rimpicciolisce, tendendo a svilupparsi meno rispetto al controlaterale.
5.2.5 Diagnosi
La diagnosi è solitamente precoce, esistono dei segni clinici di displasia o di prelussazione che possono
essere valutati anche con un banale esame clinico. Si ricorre per certezza ad esami strumentali in fase
neonatale, soprattutto sulle bambine, che permettono di riconoscere attraverso dei segni ecografici una
eventuale displasia e di correggerla con misure contenitive, quindi non chirurgiche. Tutto ciò va fatto prima
che il bambino inizi a camminare: in quest’ultimo caso la risoluzione sarebbe complessa.
Fra i test clinici si identificano manovre che permettono di valutare la presenza di sublussazione (sono
quindi positive quando l’anca è già sublussata, una situazione clinica più avanzata rispetto alla displasia
pura); nello specifico:
• Test di Ortolani: viene ridotta una sublussazione già esistente, si riporta la testa del femore in sede.
Si tirano le cosce del bambino e nello stesso tempo si abducono, spingendo la testa del femore
anteriormente. La testa del femore rientra in tal modo nell’acetabolo e si sente un click. Questa
manovra riconosce un’anca sublussata ancora riducibile.
• Test di Barlow: opposto al precedente, si adducono le anche e si spingono posteriormente, in
questo modo in un’anca instabile si produce una sublussazione, si sente anche in questo caso un
click. Questa manovra permette di riconoscere una prelussazione, cioè un’anca che potrebbe
diventare sublussata, ma che in condizioni di riposo non ha problemi.
1 Valgismo è il termine ortopedico che comprende tutte quelle deformità degli arti, in cui, a causa di anomalo rapporto tra due
segmenti scheletrici adiacenti, il più distale di questi due presenta una deviazione laterale, ossia tende ad allontanarsi in modo
atipico dal piano sagittale.
Varismo è al contrario il termine che comprende tutte quelle deformità degli arti, in cui, a causa di un anomalo rapporto tra due
segmenti scheletrici adiacenti, il più distale di questi due presenta una deviazione mediale, ossia tende ad avvicinarsi in modo
atipico al piano sagittale. [My Personal Trainer]
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Altri segni clinici sospetti caratteristici che richiamano l’attenzione dei genitori e del pediatra sono:
• Asimmetria delle pliche cutanee: a livello inguinale e della coscia (i bambini hanno pliche cutanee
accentuate, solitamente presenti bilateralmente in maniera simmetrica). Se presente, è
consigliabile un’ecografia (più spesso viene fatta alle femmine);
• Ipotrofia e lieve accorciamento dell’arto: nei primi mesi di vita, si può notare che l’arto interessato
cresce meno dell’altro, visibilmente la coscia è più corta e più piccola di diametro/volume
• Extrarotazione del femore: come in una frattura del collo del femore.
• Appiattimento della natica: causato dalla dislocazione del trocantere che quindi non è più in sede
ma è risalito lievemente.
• Limitazione dell’abduzione dell’arto prelussato: quando la mamma cambia il pannolino può notare
che l’anca coinvolta fatica ad aprirsi, non si riesce ad abdurre (per aprirla bisognerebbe ridurla con
la manovra di Ortolani). Questi sono elementi clinici che la mamma stessa può portare
all’attenzione del pediatra. L’abduzione ridotta è visibile fin dai primi giorni di vita.
Esami strumentali
Attualmente in prima linea si preferisce utilizzare l’ecografia che viene infatti svolta nei primi mesi di vita
come screening su tutta la popolazione in quella fascia d’età, in modo tale da abbattere completamente le
sequele tardive di questa malattia che portavano spesso a un’artrosi dell’anca e quindi ad una condizione
grave.
L’RX, che permette di identificare le asimmetrie del nucleo di accrescimento, sia in termini di posizione che
di grandezza, ossia ipoplasia e spostamento supero-laterale, si esegue dopo 6 mesi, sia nel follow-up del
bambino trattato nei primi mesi di vita, che nel caso di una diagnosi tardiva per la prima volta. È possibile
calcolare alcuni angoli raffrontandoli con valori standardizzati che indicano gli angoli di sfuggenza del tetto
acetabolare: tanto più il tetto è verticale, tanto maggiore è il rischio che l’anca sia displasica.
La manifestazione radiografica più conosciuta, oggi più difficile da riscontrare grazie allo screening
ecografico, è la triade di Putti2 costituita da:
Esistono dei parametri radiografici per valutare quanto sia progredita la malattia e quanto si sia ridotta
grazie ai trattamenti contenitivi.
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Altro segno radiografico caratteristico è la discontinuità dell’arco di Shenton, formato dalla superficie
mediale del collo del femore in continuità con la superficie inferiore dell’osso pubico: nel caso di una
migrazione dell’anca in senso supero-laterale queste due porzioni di arco sono molto distanti fra loro. Si
tratta di modi diversi radiografici per valutare la posizione del nucleo di accrescimento della testa del
femore rispetto alla cavità acetabolare.
Alcuni metodi si avvalgono della misura quantitativa e della localizzazione dell’epifisi quando questa è già
ossificata, come nella triade di Putti2, mentre questo secondo metodo è invece utile quando il nucleo di
accrescimento è tutto cartilagineo e quindi non visibile alla RX, e si devono valutare segni indiretti di
sublussazione legati alla presenza di questa alterazione.
Nel quadro di una lussazione inveterata si vedono il cotile originario quasi chiuso, la testa del femore è
deformata, appiattita, il collo si è accorciato, deformato in valgo, ma soprattutto c’è un neocotile sull’ala
iliaca per permettere al bambino di camminare.
5.2.6 Trattamento
In prima istanza si attua un trattamento incruento; poiché
l’obiettivo è quello di prevenire una sublussazione, tutte le
forme di prelussazione vanno trattate con dei mezzi di
contenimento che permettono di mantenere l’anca in una
posizione di riduzione così da ripristinare i rapporti articolari
e fare in modo che le superfici continuino a crescere
affacciate l’una all’altra: l’acetabolo diventa più profondo e
la testa del femore, mantenendo la suo posizione, cresce con una forma sferica. Per assicurare ciò va
mantenuta l’immobilizzazione perché molte di queste forme sono instabili e soprattutto i neonati non sono
collaboranti3. Si passa da sistemi molto semplici come il cuscino divaricatore da mettere fra le gambe o il
“triplo pannolino” che mantiene le cosce abdotte ed extra-ruotate, fino a mezzi di contenimento più
complessi, come divaricatore gessato, che devono però essere mantenuti per due settimane. Si consiglia di
ripetere l’ecografia a distanza di 2 mesi per valutare il decorso del quadro. Il contenimento permette di
centrare la testa del femore nella cavità acetabolare, finché non si è sviluppata; quando il bambino inizierà
a camminare, il problema si risolverà spontaneamente.
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Nel caso in cui la sublussazione fosse presente già alla nascita, andrebbe ridotta con una trazione a cerotto
(non trans-scheletrica, la quale non è attuabile nel neonato) o con un apparecchio gessato, perché sono già
delle piccole fratture. La prima cosa da ottenere è la riduzione, ma non basta una manovra di Ortolani in
quanto sono già presenti ipertrofia del legamento rotondo e del pulvinar che occupano l’acetabolo.
Servono giorni e giorni di trazione, lenta ma costante, in modo che questi tessuti si possano deformare.
Siccome i tessuti connettivi sono dotati di proprietà viscoelastiche, dove la capacità di deformazione
dipende dal tempo e dalla velocità di applicazione del carico, tanto più è veloce l’applicazione del carico,
tanto più il tessuto si irrigidisce: tentare di ridurlo con una manovra unica risulta impossibile. Bisogna
ottenere la cosiddetta stress relaxation, facendo in modo che nel tempo, sotto l’influenza costante del
carico, il tessuto si deformi. Una volta ottenuta la riduzione si cerca di mantenere l’immobilizzazione, ad
esempio tramite un apparecchio gessato pelvi-podalico bilaterale, dall’addome fino ai piedi, tenendo le
cosce in abduzione ed extrarotazione. Al posto del gesso si possono usare anche dei piccoli tutori (Pavlik,
Von Rosen, Milgran).
In caso diagnosi post-deambulazione, saranno purtroppo già presenti delle deformità (collo del femore
valgo, testa del femore superiorizzata, tetto dell’acetabolo verticalizzato e sfuggente, con il labbro
acetabolare introflesso), non è dunque più possibile la riduzione per trazione e il trattamento è chirurgico
(cruento): non è possibile aprire la capsula, tagliare il collo del femore, raddrizzarlo, estrarre il pulvinar,
reinserire la testa del femore nell’acetabolo, come si potrebbe pensare. In questi casi le soluzioni sono
interventi extracapsulari in cui, senza toccare l’articolazione, si seziona l’acetabolo in modo tale da
rimetterlo in una posizione di contenimento.
A volte bisogna intervenire sia sul bacino, sia sul femore risultando molto demolitivi.
Oggi non capita in occidente quasi più di operare di protesi d’anca un paziente di 30 anni, grazie alla
diagnosi ecografica precoce.
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5.2.7 Esiti di malattia e interventi tardivi
Il professore mostra alcuni esiti della patologia, come il neocotile, la coxa valga con insufficienza
dell’acetabolo (quadro iniziale) e quadri tardivi (sublussazione dell’anca).
In realtà sono quadri sfumati, dove il dato clinico della sublussazione,
prima della diagnosi ecografica, non era rappresentato da una zoppia
come nel caso della lussazione franca. Il bambino poteva avere qualche
difetto di deambulazione che, però, passando inosservato, evolveva in
artrosi d’anca su base displasica molto precoce. L’evoluzione tipica di
un’anca displasica è la coxa plana, dove la testa del femore è molto
allargata, si forma un neocotile, il cotile originale è vuoto e il collo è corto
e valgo.
Il trattamento dell’esito è un’artroprotesi totale, quindi una sostituzione sia del cotile che della
componente femorale. È un intervento difficile, perché si ha a che fare con un femore ipoplasico, ci sono
dei canali diafisari stretti, nei quali non tutti i modelli protesici si adattano; esistono dei modelli protesici ad
hoc che si possono utilizzare con più facilità nelle anche displasiche ma sono sempre interventi piuttosto
impegnativi. In questi casi è inoltre necessario ricostruire parte del tetto dell’acetabolo in fase di
protesizzazione, altrimenti si rischia che non ci sia osso sufficiente per la tenuta del cotile, che non può
essere scavato all’infinito per medializzarlo: è necessario riportarlo alla sua posizione originale dove però
non c’è tetto, per questo motivo bisogna fare un innesto osseo sul tetto e su questo innesto montare la
protesi.
1. la prima linea va dal punto di inserzione della capsula fino al margine cotiloideo
("linea di base");
2. la seconda linea è la tangente al margine ileale inferiore e al margine cotiloideo
("linea acetabolare");
3. la terza linea è quella tra il margine cotiloideo ed il centro degli echi del labbro
acetabolare ("linea dell'asse cartilagineo").
▪ L'angolo osseo alfa è quello compreso tra linea di base e linea acetabolare: i suoi
valori rispecchiano la situazione dell'acetabolo osseo, cioè il grado di maturazione
scheletrica dell'anca.
▪ L'angolo cartilagineo beta è compreso tra la linea di base e la linea dell'asse
cartilagineo e dà un'idea quantitativa della situazione dell'acetabolo cartilagineo,
che, nel processo displasico, presenta delle variazioni di spessore, per compensare
l'eventuale difetto di maturazione scheletrica dell'anca.
In base all'angolo beta, le anche si possono ancora suddividere in "centrate" e "decentrate". Il valore critico è quello
di 77° (passaggio tra anca critica 2C e anca che sta per decentrare D).
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5.3 Torcicollo
Il primo trattamento che si svolge è di tipo ginnico-fisioterapico (conservativo) tramite esercizi di stretching
che, generalmente, hanno un buon successo. Quando il bambino diventa più grande, invece, si
utilizzeranno collari/tutori. Nei casi invece più severi (in cui il Range of Motion è inferiore ai 30 gradi) è
necessario svolgere un intervento di tenotomia a circa 3-4 anni di età, con una alta probabilità di successo.
Questo intervento chirurgico prevede la sezione dello sternocleidomastoideo a livello del capo claveare.
Se non trattato, il torcicollo porta a deformazione del volto associata a compromissione di alcune funzioni,
come la masticazione.
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5.4 Paralisi ostetriche
Le paralisi ostetriche sono delle lesioni nervose che colpiscono il plesso brachiale e che si manifestano in
conseguenza ad un trauma subito durante il parto. Durante quest’ultimo, infatti, è necessario disimpegnare
le spalle del bambino con una manovra di inclinazione e rotazione forzate della testa. Tali movimenti
possono determinare uno stiramento del plesso brachiale e, quindi, una lesione.
L’incidenza di questa patologia è di circa 1/1000 nati vivi e riguarda principalmente il sesso maschile. Si
evidenziano diversi fattori predisponenti riconducibili sia a carico del feto (macrosomia) che della madre
(travaglio prolungato, vizi strutturali del cingolo pelvico) che dell’ostetrico (estrazione forzata del feto).
Il lato principalmente coinvolto è il destro, sulla base della posizione tipica del feto nel canale del parto.
A seconda della gravità, progressivamente crescente, vengono distinti tre tipi di lesioni delle formazioni
nervose del plesso brachiale (lesioni che però, in acuto, non possono essere riconosciute):
• neuroaprassia: lesione in cui il danno anatomico è specificatamente a carico del rivestimento
mielinico delle cellule di Schwann, mentre viene preservata la continuità dell'assone e delle altre
guaine del nervo. Sono lesioni reversibili;
• assonotmesi: lesione parziale degli assoni che sono all’interno del perinervio. In questo caso è
possibile il recupero funzionale del nervo;
• Neurotmesi: lesione completa degli assoni che sono all’interno del perinervio che ne impedisce il
recupero funzionale.
A seconda della localizzazione delle lesioni nervose, si distinguono vari tipi di paralisi ostetrica dell’arto
superiore:
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o abolizione della flessione e della supinazione dell’avambraccio per interessamento del
bicipite brachiale.
Il bambino viene, infatti, descritto con “la mano del cameriere che prende la mancia”, in quanto si
ha una pronazione dell’avambraccio.
La diagnosi viene eseguita in epoca post-natale.
• Il 25% delle paralisi è rappresentato dalla paralisi radicolare totale, in cui tutte le radici del plesso
sono lese e quindi l’arto non è funzionale.
Prima del 1970, il 20% dei pazienti poteva avere una paralisi ostetrica ma, in questi anni, si sta riducendo
grazie alla diagnostica prenatale ed alle tecniche ostetrico-ginecologiche.
Il trattamento prevede una fase iniziale fisioterapica che mantiene in movimento le articolazioni seguita,
successivamente, dall’utilizzo di tutori che determinano una posizione funzionale (Es. l’iperestensione del
polso in caso di paralisi di Dejerine-Klumpke).
La terapia chirurgica è ancora oggi dibattuta perché i risultati non sono molto favorevoli. Per tale motivo si
preferisce eseguire un intervento palliativo con artrodesi oppure si utilizzano dei transfert muscolari
(prelievo di muscoli funzionali in un arto e spostamento nella sede della lesione).
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Ex Lezione 3 del 25/03/19
Docente: Prof. Giuseppe Milano
Argomenti: fratture (classificazione, processo riparativo, complicanze, trattamento); lussazioni;
I fattori che determinano la frattura sono essenzialmente il carico applicato, cioè l’entità, la dimensione e la
direzione del vettore forza, e le proprietà meccaniche dell’osso, che variano in base alle condizioni del pa-
ziente, ma anche in base alle caratteristiche intrinseche dell’osso. Le condizioni in cui un osso non è in grado
di sopportare un carico normale possono essere condizioni sistemiche che determinano una diminuzione
della densità ossea (osteoporosi) oppure uno stato patologico (per esempio di tipo neoplastico). Nella neo-
plasia si può avere un punto di minor resistenza per la presenza di metastasi che alterano le proprietà mec-
caniche dell’osso: possono essere osteolitiche, quando la densità ossea è ridotta, ma anche osteoaddensanti,
quando la densità ossea è aumentata.
A seconda della causa, dal momento che le proprietà meccaniche dell’osso dipendono dalla sua geometria e
dalla sua composizione, viene a formarsi all’interno dell’osso un sistema composto da materiali diversi e l’in-
terfaccia tra un materiale e l’altro rappresenta un punto di minore resistenza; è proprio nel punto di passag-
gio tra l’osso normale e l’osso patologico che avviene la frattura (L’esatto punto di interruzione del segmento
scheletrico viene definito “rima di frattura”). Ciò si verifica anche nelle lesioni tendinee e nelle lesioni musco-
lari.
La frattura da trazione ha alla base un meccanismo piuttosto insolito: una forza violenta va ad agire sul
segmento osseo a livello delle inserzioni dei tendini (per esempio sulla tuberosità calcaneare dove si inse-
risce il tendine achilleo oppure comprende le fratture della base del 5° metatarso del piede per azione del
tendine peroneo breve). In quel punto la forza determinata dalla contrazione violenta del tendine deter-
mina la formazione di una frattura trasversa con rottura netta degli osteoni, più o meno tutti nello stesso
punto. E’ una frattura a rima orizzontale.
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Le fratture da compressione si verificano tipicamente a seguito di una caduta o di una precipitazione
dall’alto (quando il paziente cade in piedi, come nell’immagine sotto); la frattura in questo caso è obliqua.
Il meccanismo fisiopatologico è diverso rispetto a quello osservato nelle fratture da trazione e la forza
necessaria per determinare la frattura è maggiore, perché la struttura ossea di un osso corticale maturo 1
è progettata per sostenere il peso corporeo (e, quindi, una forza “verticale”).
La frattura in compressione, poiché il carico massimo che un osso può sopportare in compressione è de-
cisamente maggiore rispetto al carico massimo sopportabile in trazione, è causata da una forza notevole,
ben maggiore di quella sopportata con l’assunzione della posizione eretta, come appunto una caduta
dall’alto.
Nelle fratture da compressione a livello del rachide, il corpo di una vertebra collassa, solitamente a causa
di un’eccessiva pressione. Queste fratture si verificano solitamente nella parte centrale o inferiore della
schiena. Esse sono più frequenti nelle persone anziane, generalmente in quelle affette da osteoporosi.
Talvolta queste fratture si verificano nelle persone affette da un tumore che si è diffuso alla colonna ver-
tebrale, indebolendola (fratture patologiche). Quando l’osso è indebolito, le fratture da compressione pos-
sono verificarsi con l’applicazione di una forza minima, come accade quando si solleva un oggetto, ci si
piega in avanti, ci si alza dal letto o si inciampa. L’interessato può non ricordare l’evento che ha causato
la frattura.
In rari casi, le fratture da compressione o altri tipi di fratture vertebrali sono causate da una forza lesiva
intensa, come quella che si produce in un incidente stradale, una caduta da una certa altezza o una ferita
d’arma da fuoco. In tali casi, può esservi anche una lesione del midollo spinale e la colonna vertebrale può
essere fratturata in più punti. Se la causa è stata una caduta da un’altezza elevata e la persona è atterrata
su uno o entrambi i talloni, possono essere presenti anche fratture del calcagno. [da manuale MSD]
Molto spesso questi due meccanismi si associano: è difficile avere una frattura completamente in trazione
e una frattura completamente in compressione. La maggior parte delle fratture, infatti, sono una combi-
nazione dei due tipi, perché la causa è quasi sempre un trauma diretto, che induce una forza in flessione
dell’osso.
1 L’osso corticale maturo si compone di una serie di osteoni secondari che sono “in compressione” per la forza di gravità che de-
vono contrastare ogni giorno; quindi la forza di gravità si oppone alla forza derivata dall’incolonnamento degli osteoni.
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Ad esempio, prendendo in considerazione un osso lungo con struttura tubulare, è più facile che questo si
rompa non tanto tirandolo o comprimendolo, ma cercando piuttosto di piegarlo (frattura per flessione:
il trauma provoca una variazione della normale curvatura dell’osso fino alla rottura).
Discorso diverso deve essere applicato per ossa dalla struttura spongiosa, come può essere una vertebra,
la quale si romperà più facilmente in compressione.
Il meccanismo fisico che determina, invece, la rottura di un osso lungo sottoposto allo scarico di tensione
in tre punti è più articolato: sulla superficie dove il carico viene applicato si ha una deformità in concavità,
il che significa che questa superficie si allunga e subisce un carico in trazione, mentre la superficie opposta
si comprime e subisce un carico in compressione, con il risultato di avere due rime di frattura che si pro-
pagano una da una parte e una da un’altra. Le due rime di frattura non sono coassiali, in quanto la rima
risultante dal carico in compressione sarà obliqua e la rima risultante dal carico in trazione sarà trasversa;
di conseguenza, si avranno due rime di frattura e un terzo frammento, detto volgarmente “a farfalla2”
per la forma triangolare caratteristica. Il meccanismo più comune è quello del trauma diretto, il quale
applica una forza pressoria sull’osso causando una frattura pluriframmentaria, dovuta alla combinazione
di vettori di forza che insistono nello stesso punto.
Il problema di queste fratture è che spesso trattandosi di un trauma diretto, oltre alla frattura si verifica
una lesione dei tessuti molli.
Il meccanismo di torsione invece determina una frattura spiroide. Una linea di frattura obliqua o spiroide
è il risultato di traumi indiretti con componente torsionale predominante. La rima di frattura avvolge a
spirale il segmento scheletrico lungo il decorso longitudinale dell’osso.
Questo tipo di frattura si ha quando un osso viene sottoposto ad una forza di tipo rotatorio: un segmento
di osso ruota rispetto al suo piano trasverso, mentre l’altro resta fermo (ad esempio nei traumi da sci,
dove il piede è ancorato allo sci e resta fermo, mentre la gamba ruota). Il problema di questa frattura è
che l’estremità è una lama tagliente e molte volte la punta diventa a sua volta oggetto di contusione per
i tessuti molli circostanti: la forza che si scarica sul segmento osseo, essendo troia fino alla fine, non si
esaurisce soltanto con la frattura, ma provoca anche la scomposizione di frammenti ossei taglienti (che
possono provocare un danno ai muscoli, vasi o nervi adiacenti). Perciò la lesione dei tessuti molli può
avvenire secondo due meccanismi:
- ab estrinseco: quando dall’esterno il trauma causa la lesione dei tessuti molli;
- ab intrinseco: le schegge della frattura si comportano da taglienti lesionando i tessuti molli circo-
stanti;
2 Le fratture comminute si caratterizzano per il fatto che sono presenti più di due frammenti ossei e a volte un grande numero di
frammenti. Spesso c’è un frammento intermedio ad "ala di farfalla": si tratta della forma più semplice di frattura comminuta.
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Tuttavia, i traumi sono sempre molto più complessi di questi modelli meccanici, a volte ci si trova di fronte a
fratture semplici, monofocali, cioè con una sola rima di frattura, altre volte ci si trova di fronte a fratture
pluriframmentarie o fratture da scoppio, cosiddette “comminute”, soprattutto se si tratta di traumi ad alta
velocità o alta energia (come traumi stradali da motoveicoli). Queste ultime sono fratture con frammenti
difficilmente ricomponibili e conseguentemente si verificano lesioni dei tessuti molli.
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6.1.4 Classificazione sulla base della deformità (anatomia patologica)
Sulla base dell’anatomia patologica si può parlare di frattura ingranata (composta) o scomposta.
➢ Si definisce ingranata o composta una frattura i cui due capi, per azione di una contrazione in com-
pressione, invece di scomporsi, si incastrano l’uno nell’altro; ciò accade quando i due monconi non
sono tubulari, tipici di una lesione diafisaria, ma si trovano in regione meta-epifisaria e il frammento
più grande è in grado di ospitare il più sottile. Questa conformazione di frattura è estremamente
stabile dal punto di vista funzionale, in quanto l’articolazione funziona bene, ma presenta una defor-
mità causata dal possibile accorciamento dell’osso.
In questi casi il trattamento può essere di tipo non chirurgico.
Fratture di questo tipo sono per esempio la frattura del collo dell’omero, collo del femore e del polso,
soprattutto dell’epifisi distale del radio.
➢ Le fratture scomposte si classificano sulla base della posizione che prende un moncone rispetto all’al-
tro e si distinguono in: angolate, ruotate, traslate e sovrapposte.
- fratture incomplete, denominate anche infrazioni, in cui l’interruzione della continuità dell’osso è
parziale. Un tipo particolare è rappresentato dalle fratture “a legno verde” dei bambini, dove il ro-
busto periostio non si interrompe e viene così preservato il manicotto connettivale che riveste il ci-
lindro osseo diafisario;
La scomposizione dipende dallo spostamento o meno dei monconi ossei coinvolti nella frattura. Anche in
questo caso, le variabili che intervengono sono diverse: da una parte c’è la forza determinante la frattura,
che continua a propagarsi finché si assiste alla sua completa dissipazione, dall’altra le inserzioni muscolo-
tendinee che provocano con la contrazione lo spostamento dei frammenti. Normalmente, gruppi di muscoli
con azione antagonista si inseriscono in punti dell’osso differenti e mai nello stesso punto, così che, in caso
di contrazione di agonisti e antagonisti, risulti un movimento neutro, ossia vi sia assenza di movimento. Nel
momento in cui ci si trova di fronte ad una frattura che separa le inserzioni dei gruppi muscolari agonisti e
antagonisti, ed essi si contraggono, l’effetto risultante sarà l’allontanamento dei due capi fratturati con de-
formazione.
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in questo caso si definiscono come fratture meta-epifisarie o meta-diafisarie. Infine, esiste la frattura artico-
lare, la quale, se induce scomposizione, può provocare un’artrosi post-traumatica (perché la congruenza tra
le superfici articolari non è più conservata a causa della variazione geometrica dell’articolazione secondaria
alla frattura). Perciò, nel caso della frattura articolare, la riduzione della frattura deve essere anatomica e la
deformità non può essere superiore ai 2 mm, altrimenti l’articolazione andrà inevitabilmente incontro ad
artrosi post-traumatica.
3 Fratture di ossa lunghe o multifocali possono essere facilmente causa di shock ipovolemico.
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sfera e provo a piegarla, essa non si rompe). Ecco perché si è in grado di camminare su una frattura dopo un
mese: sebbene il callo non sia ancora mineralizzato, le sue proprietà meccaniche sono sufficienti a sopportare
il peso grazie all’aumento dell’area. Più passa il tempo, più il fenomeno di mineralizzazione determinerà un
aumento delle capacità meccaniche.
Per callo osseo si intende dunque il tessuto osseo formato dall’organismo per riparare la frattura di un osso.
Esso costituisce un ponte che unisce i due monconi dell’osso fratturato, ed è formato da strutture che si mo-
dificano progressivamente diventando sempre più resistenti, fino a formare il tessuto osseo maturo. Questo,
anche se ormai capace di resistere alle sollecitazioni meccaniche come l’osso vicino, viene però continuamente
rimodellato fino a che non sia ripristinata del tutto l’architettura dell’osso. Inoltre, assume aspetti diversi se
la frattura interessa l’osso spongioso epifisario e metafisario oppure l’osso compatto corticale della diafisi, in
quanto sono diverse le condizioni locali di vascolarizzazione e la disponibilità di cellule differenziate per un’at-
tività di sintesi di tipo osteoblastico.
Un altro tessuto osservato nelle fratture sperimentali, ma che probabilmente si forma anche nell’uomo, è la
cartilagine, prodotta dalle stesse cellule osteogeniche del periostio, in genere nella parte più periferica del
callo osseo periostale. Si pensa che le condizioni locali possano determinare il tipo di produzione osteobla-
stica o condroblastica delle cellule: tra queste sono state indicate la bassa tensione di ossigeno oppure la
presenza di movimento a livello della frattura.
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6.2.4 Fase di rimodellamento
La fase finale del processo di guarigione in realtà non si esaurisce mai, perché il rimodellamento osseo pro-
segue per tutta la vita del paziente (per esempio, l’osso spongioso viene cambiato completamente nell’arco
di 4-5 anni, l’osso corticale nell’arco di 20 anni). L’obiettivo in sede di frattura è quella di ripristinare una
morfologia simile a quella di un osso normale, anche se non sempre accade a causa di fattori come l’età:
tanto più anziano è il paziente, tanto meno è probabile che il processo di rimodellamento possa ripristinare
la morfologia ossea di partenza. Ciò vuol dire che in un soggetto già adulto una frattura guarisce, ma con una
deformità che resterà evidente, tanto più in caso di frattura scomposta, mentre in un bambino il fenomeno
di rimodellamento è tale che, quando poi sarà adulto non si noterà più la sede della frattura.
Il meccanismo di deposizione e riassorbimento dell’osso viene chiamato ARF: Activation, Reabsorption, For-
mation, secondo un ciclo costante che continua durante tutta la vita, che non può essere modificato da nes-
sun evento meccanico. Ciò che cambia è l’intensità della deposizione di matrice, a livello sistemico o locale.
Laddove è necessario aumentare la matrice, l’azione di formazione sarà più intensa, mentre laddove è ne-
cessario ridurre la dimensione dell’osso si avrà una formazione di matrice meno intensa e il bilancio si spo-
sterà inevitabilmente verso il riassorbimento osseo (non perché è il processo di riassorbimento che risulta più
intenso, ma perché l’attività di formazione è ridotta). Su questo ciclo prevale anche l’effetto del carico: un
osso sottoposto a minor gravità tende ad avere osteoporosi sistemica, non perché aumenta il riassorbimento
osseo, ma perché vi è una ridotta attività osteoblastica conseguente alla minor forza gravitaria che insiste
sull’arto. L’allettamento prolungato agisce con lo stesso meccanismo, ecco perché le fratture vanno mobiliz-
zate il prima possibile, in quanto si stimola l’attività osteoblastica e si riduce anche il rischio di complicanze,
sia locali che sistemiche.
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➢ Embolie: soprattutto adipose per vicinanza della frattura con il midollo osseo, che può essere mobi-
lizzato e andare in circolo dando collasso cardiovascolare, stato confusionale e petecchie cutanee
associate, segno tipico dell’embolia adiposa.
➢ Trombosi venosa profonda: un trauma dell’intima può provocare una trombosi con conseguente oc-
clusione di un vaso, ma anche l’immobilità nelle prime ore può provocare uno stato di stasi ematica
che predispone allo sviluppo di TVP. Un altro meccanismo che può dare TVP è l’utilizzo del gesso
chiuso, ormai sostituito da altre tecniche di damage control: il gesso induce una compressione
dall’esterno (che impedisce l’aumento volumetrico) in una situazione in cui l’arto sta aumentando di
massa per sanguinamento, causando un aumento pressorio favorente la TVP e altre complicanze.
In linea generale, più grande è l’esposizione, più grave è la frattura perché più alto è il rischio di
contaminazione. Ciò non vale nel caso delle FAF (fratture d’arma da fuoco), in cui il proiettile, pur
essendo molto piccolo, penetra in profondità portando con se anche brandelli di vestiti con altissimo
rischio di contaminazione, per questo vengono classificate sempre come stadio III.
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➢ Lesioni neurovascolari: a loro volta possono avvenire con meccanismo ab intrincesco/ab estrinseco
e possono dare danno sistemico da shock o danno neurologico permanente. Le lesioni vascolari pos-
sono essere dirette o indirette da compressione (da gesso). Per lesioni dei nervi periferici invece, si
parla di:
o neuroaprassia quando avviene uno stiramento del nervo, ma la continuità anatomica viene
mantenuta (danno funzionale);
o assonotmesi quando si ha una lesione parziale di alcuni assoni del nervo, ma con struttura
del nervo ancora integra (lesione interstiziale a nervo integro);
o neurotmesi dove si ha danno funzionale e anatomico.
➢ Infezioni: soprattutto per fratture esposte di stadio II/III, infezioni da germi aerobi purulente o da
germi anaerobi più gravi e in grado di sviluppare gangrene gassose.
➢ Sindrome compartimentale: ad oggi rara perché non viene più utilizzato il gesso chiuso. Colpisce
spesso i bambini provocando un esito invalidante permanente. Fondamentalmente si tratta di una
sindrome ischemica che insorge con lo stesso meccanismo visto in pre-
cedenza (aumento di pressione dovuto alla compressione ab estrin-
seco di un compartimento chiuso con ematoma). È una complicanza
acuta, che si manifesta con un dolore estremamente intenso, violento,
ma il danno si ripercuote anche tardivamente con comparsa delle sin-
dromi post-ischemiche o sindrome di Volkmann (vedi dopo).
La diagnosi di sindrome compartimentale può essere difficile e deve
essere tempestiva, al fine di evitare danni anatomici irreversibili. Il so-
spetto deve insorgere in tutti i casi di tumefazione, dolore sproporzio-
nato e tensione cutanea, soprattutto se associati a iperestesie nel ter-
ritorio di distribuzione dei nervi. Il trattamento è essenzialmente legato
alla decompressione, rimuovendo eventuali compressioni esterne e/o
eseguendo in urgenza una fasciotomia4.
4L’intervento consiste nell’effettuazione di estese incisioni cutanee per aprire tutti i compartimenti fasciali nell’arto e quindi dimi-
nuire la pressione del compartimento stesso. Si tratta di quell’intervento eseguito praticamente in ogni puntata di Grey’s Anatomy:
possiamo negarlo o no, ma sono queste scene che ci ha fatto venire la vokazioneh e che ancora oggi ci strappano un’emozione. (Nelle
immagini ricordiamo il celebre caso del ragazzo finito nel cemento).
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6.3.4 Complicanze tardive locali
Si tratta di problemi legati al processo di guarigione della frattura, che può guarire tardivamente, non guarire
o dare luogo a deformità. In linea generale, le fratture guariscono in un paio di mesi, ma in alcune circostanze
le tempistiche si allungano:
- età avanzata: lenta velocità di formazione ossea;
- fratture delle diafisi delle ossa lunghe, come tibia e omero (non il femore perché è più vascolarizzato
ed è circondato da un gran numero di muscoli)
- drenaggio chirurgico che causa ipossia;
- esposizione che causa drenaggio di tipo traumatico;
- immobilizzazione insufficiente a livello dei monconi di frattura (micromovimento continuo);
- interposizioni di lembi muscolari dentro la frattura, come accade spesso nelle fratture spiroidi.
- infezioni che provocano formazione di tessuto reattivo, il quale blocca il processo di guarigione ossea.
Domanda: l’osteoporosi non ritarda il consolidamento di una frattura? No, si tratta di una malattia sistemica, tipica
degli anziani, caratterizzati anche da una riduzione della velocità di formazione ossea. Non sono una causa dell’altra.
Tra le complicanze tardive locali, la più comune è il ritardo di consolidazione: normalmente una frattura
ossea guarisce anche nel caso in cui i due monconi siano spostati l’uno rispetto all’altro, tranne nel caso in
cui la distanza sia così ampia da non permettere la formazione del callo, come si verifica in caso di interposi-
zione di lembi muscolari. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, una frattura, anche se lentamente, prima o
poi guarisce. Nei rari casi in cui invece la frattura non si ripara, non si parla più di ritardo di consolidazione,
ma di pseudoartrosi, così chiamata perché si tratta di una pseudo-articolazione: alla radiografia viene vista
come se i due capi ossei fossero due capi di un’articolazione. In alcuni casi si forma addirittura un manicotto
fibroso tra i due monconi ossei i quali, non essendo saldati, mantengono una mobilità l’uno rispetto all’altro
oppure si può assistere alla sinovializzazione all’interno della cavità formatasi. La distinzione tra ritardo di
consolidazione e pseudoartrosi si fa sulla base delle tempistiche: quando una frattura non si consolida per
un tempo che supera i 6 mesi viene considerata una pseudoartrosi. Il sintomo principale della pseudoartrosi
è il dolore.
Un’altra complicanza locale tardiva si verifica quando una frattura guarisce in una posizione “viziata”: si parla
di vizio di consolidazione. Questo disturbo si verifica quando i frammenti di frattura guariscono in posizione
non corretta, esitando in deformità con rilevanza clinico-funzionale e/o estetica. Le più frequenti deformità
sono l’angolazione (in valgo, varo, recurvato o procurvato), l’allungamento, l’accorciamento o la rotazione
dell’osso fratturato.
La terapia chirurgica è giustificata dalla presenza di disturbi clinicamente rilevanti e si basa sull’esecuzione di
osteotomie correttive. In questi interventi, volti a ripristinare una normale morfologia scheletrica, si pratica
una frattura chirurgica dell’osso malconsolidato con appositi strumenti, quindi si stabilizzano i frammenti
nella posizione desiderata con mezzi di osteosintesi diversi.
Nel caso di una frattura articolare, il rischio è l’insorgenza di un’artrosi post-traumatica per incongruenza
delle superfici articolari con mancata riduzione dei capi articolari, per presenza di frammenti comminuti in-
tra-articolari e per un lungo periodo di immobilizzazione. Quando la frattura interessa l’osso subcondrale, lo
stravaso sanguigno conseguente provoca un emartro a cui fa seguito una reazione fibrosa cicatriziale con
conseguente rigidità, aggravata dalla prolungata immobilizzazione richiesta per una frattura articolare.
Altro rischio è l’algodistrofia, cioè quel fenomeno di osteoporosi localizzata e transitoria che si ha a causa di
un trauma, molte volte a causa di allettamento prolungato e deprivazione di carico, per il meccanismo fisio-
patologico già visto in precedenza (in assenza di gravità l’osso si continua a riassorbire, ma non si forma alla
stessa velocità e quindi si ha osteoporosi). Non si tratta di osteoporosi sistemica, in quanto coinvolge un
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distretto limitato e comunque è transitoria (con la mobilizzazione l’osso riprende le caratteristiche architet-
turali fisiologiche). Il problema è che il paziente prova dolore con conseguente impotenza funzionale, che a
sua volta può essere causa di ritardo di consolidazione della frattura. Il termine atrofia o morbo di Sudek è
utilizzato per indicarne la localizzazione all’arto inferiore (piede e gamba).
Il trattamento è in genere fisioterapico, supportato dalla terapia medica a base di FANS, benzodiazepine e
difosfonati.
La sindrome di Sudeck (o atrofia di Sudeck) è una sindrome algodistrofica oggi più frequentemente considerata un
tipo di sindrome dolorosa regionale complessa, visibile nella maggior parte dei casi dopo la rimozione di un gesso
ortopedico; in altri casi invece sorge spontaneamente. Ancora non sono ben note le cause che determinano l'insor-
genza spontanea di questo tipo di algia. L'arto appare scuro, tumefatto, dolente alla minima mobilizzazione e pres-
sione, il tutto accompagnato da un quadro radiologico di marcata rarefazione osteoporotica. Le regioni interessate
maggiormente da questa patologia solo le articolazioni inferiori (caviglie e piedi, nello specifico il tallone).
Colpisce soprattutto i soggetti sotto i 50 anni, ed anche i bambini. Si riscontra anche un aumento della frequenza nel
sesso femminile, con un rapporto 4:1. Esistono alcuni fattori particolarmente predisponenti, come il diabete l’ipertri-
gliceridemia, l’ansietà e i disturbi neurodegenerativi, fattori legati all'età e al sesso o a pregresse alterazioni vasomo-
torie, come il fenomeno di Raynaud, infezioni (fratture infette, osteomieliti, osteoartriti), ustioni e congelamenti e
lesioni secondarie da agenti chimici o fisici (raggi X, elettricità).
Tuttavia, solitamente, il fattore scatenante è rappresentato da traumi (distorsioni o fratture), ai quali seguono mano-
vre riduttive ripetute o violente o immobilizzazione prolungata. (Wikipedia)
Altra complicanza è la sindrome post-ischemica o sindrome di Volkmann che non deve essere confusa con
la sindrome compartimentale, che è un fenomeno acuto. Costituisce l'esito tardivo della sindrome comparti-
mentale e si manifesta come deformità causata da una sofferenza ischemica a livello della loggia muscolare
che va incontro a necrosi. La conseguenza diretta è l’accor-
ciamento del tratto colpito: siccome le sedi più colpite dalla
sindrome compartimentale sono la loggia anteriore
dell’avambraccio (tipicamente conseguenza di una frattura
sovracondiloidea del gomito, da cui il sangue scende
nell’avambraccio, frequente nei bambini) e la loggia antero-
laterale della gamba, la sindrome post-ischemica determina
una retrazione dei flessori delle dita, quindi una retrazione
delle metacarpofalangee e una flessione fissa delle interfa-
langee.
Infine, la necrosi avascolare post-traumatica: va sospettata in tutti quei casi in cui il dolore e l’invalidità si
protraggono più del dovuto durante il periodo di convalescenza, cioè tra le 8 settimane e i 2 anni. Alcune sedi
scheletriche sono predisposte in modo particolare a questa complicanza post-traumatica, per la presenza di
una vascolarizzazione di tipo terminale: testa del femore, testa dell’omero, scafoide carpale e astragalo. Se
le misure adottate per prevenire la necrosi tissutale risultano inefficaci, l’evoluzione verso l’artrosi post-trau-
matica è pressoché inevitabile e il trattamento sarà rivolto alla correzione degli esiti (protesi articolari, artro-
desi ecc.).
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È necessario valutare la presenza di danni acuti neurovascolari, controllando eventuali sintomi neurologici,
polsi, calore della cute, discromie. Si indaga, inoltre, lo stato dei tessuti molli circostanti, se vi è lacerazione
o meno.
L’ipotesi diagnostica deve poi essere verificata con le indagini strumentali, in particolare una radiografia
standard permette di vedere morfologia, sede, presenza e numero di frammenti. Se dalla scomposizione
visibile alla Rx si sospetta una lesione vascolare è necessario effettuare un doppler artero-venoso o un’arte-
riografia. In caso di fratture scomposte (soprattutto fratture esposte) di stadio II/III bisogna scongiurare il
rischio infettivo dato dalla contaminazione dall’esterno, stabilizzando in primo luogo la frattura e nello stesso
tempo effettuando una toilette dei tessuti molli.
La stabilizzazione di una frattura si può eseguire in diversi modi.
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di parestesie e compromissione della funzione motoria. Quando il processo si estende anche alle fibre mu-
scolari si assiste a necrosi massiva, con sostituzione del tessuto muscolare con tessuto fibroso e anelastico,
provocando la sindrome post-ischemica.
Il trattamento della sindrome compartimentale consiste nella fasciotomia, come prima accennato. Si apre la
loggia sino alla fascia, permettendo al muscolo di erniare e alla massa in eccesso di fuoriuscire per ridurre la
pressione. La ferita viene suturata con delle fettucce elastiche, che mantengono accostati i lembi nel limite
del possibile e che si riaccostano progressivamente permettendo il mantenimento delle caratteristiche ela-
stiche cutanee, con chiusura della ferita per seconda intenzione.
Dopo la fasciotomia l’incisione non deve essere suturata. La sutura sarà eseguita successivamente, una volta risolto
l’edema, attraverso la chiusura per prima intenzione differita o mediante un innesto dermo-epidermico. I margini della
fasciotomia possono essere trattati con dermatorazione; questo permette la chiusura progressiva dell’incisione du-
rante le successive revisioni chirurgiche. Un’altra possibilità è quella di applicare sulla fasciotomia una VAC che con-
tribuisce alla riduzione dell’edema e favorisce la granulazione dei tessuti. La modalità di trattamento della fasciotomia
rimane un argomento controverso. La maggior parte degli autori ritiene necessario lasciare la ferita chirurgica aperta
per 7-10 giorni per chiuderla successivamente tramite sutura diretta o mediante innesto dermo-epidermico. È opinione
comune che un secondo intervento di pulizia chirurgica dovrebbe essere eseguito a distanza di 48-72 ore.
La fasciotomia può essere unica, in modo da aprire con un lungo taglio la fascia, oppure possono essere
eseguite fasciotomie multiple di 3-4 cm che hanno un effetto finale più estetico.
Il prof tratta in modo sbrigativo la fasciotomia: se siete interessati lascio nella cartella “approfondimenti coraggiosi” un articolo a
tal proposito (da cui è tratta la parte in corsivo sulla sutura).
➢ Chiodi
Le fratture che sono più stabili, cioè le medio-diafisarie, con stabilità intrinseca più elevata dell’osso lungo,
tendenzialmente si sintetizzano con un inchiodamento endomidollare: si utilizza un chiodo lungo inserito
nel canale midollare in modo da ripristinare la lunghezza e correggere la deformità. Nell’inchiodamento può
accadere che rimanga dello spazio e i due monconi potrebbero ruotare l’uno rispetto all’altro, in quanto la
stabilità rotatoria con questo tipo di trattamento non è così elevata: per questo motivo, ad oggi gli inchioda-
menti si fanno più frequentemente bloccati, cioè lungo il chiodo si introducono delle viti trasverse che impe-
discono la rotazione di un moncone rispetto all’altro. In questo modo si ha la frattura in asse, con lunghezza
e deformità angolare sotto controllo e con rotazione controllata.
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Tuttavia, se non si tiene conto della giustapposizione dei due monconi ossei e rimane spazio tra i due mon-
coni, poiché il chiodo e i frammenti ossei sono solidali e impediscono lo scivolamento e il compattamento
della frattura, lo spazio tra i due spazi non subisce alcun carico perché viene distribuito sulla struttura circo-
stante. Pertanto: se la frattura non è perfettamente ridotta, il chiodo non favorisce la guarigione. È per questo
che normalmente si utilizza un chiodo quando si ha una frattura monofocale, ma a condizione che la frattura
sia correttamente ridotta.
Nel caso in cui si abbia una frattura talmente frammentata che non si è in grado di ridurla in altro modo, si
devono garantire la lunghezza, la rotazione e la deformità angolare. Si fa in modo che tutti i frammenti in-
torno vadano a formare il callo osseo allineato a quello che era l’originale forma dell’osso grazie al chiodo
che agisce da colonna portante. In questo caso non si ricerca più una riduzione anatomica, ma solo di ripri-
stino della forma. Non importa che il callo sia deforme, l’importante è che siano conservate le caratteristiche
di lunghezza, assenza di deformità angolare e assenza di rotazione.
Quando tra un frammento osseo e l’altro si forma uno spazio che impedisce la guarigione della ferita si può
dinamizzare il chiodo, togliendo una delle viti in modo che un frammento possa scorrere rispetto all’altro e
quindi, sotto l’effetto del peso del corpo, impaccarsi all’altro frammento dato che uno dei due può scorrere
sul chiodo (di solito quello distale). Si mantiene l’asse e la rotazione, ma allo stesso tempo si mette in com-
pressione la frattura.
➢ Placche e viti
Un sistema di placche e viti è più stabile e consente di gestire anche fratture pluriframmentarie. Di solito si
utilizza quando la lesione è vicina alla regione meta-epifisaria, dove un chiodo non garantirebbe stabilità: il
chiodo garantisce stabilità metafisaria e diafisaria, ma se ci si avvicina molto all’articolazione, esso ha diffi-
coltà ad arrivare fino al punto della lesione. Le placche si fanno già sagomate in modo che seguano il profilo
dell’osso, oppure vengono create con materiali flessibili o prodotte da stampante 3D a seguito della TC preo-
peratoria. Ciò permette una consolidazione anatomica, fissata con le viti all’osso. Naturalmente è un sistema
più rigido, viene utilizzato nelle fratture articolari o vicine all’articolazione.
➢ Fili di Kisrschner
Inoltre ci sono delle osteosintesi dette “a minima” usate soprattutto nei bambini, dove un mezzo di osteo-
sintesi potrebbe violare la cartilagine di accrescimento, e quindi essere troppo invasive. In questo caso ven-
gono utilizzati dei fili molto sottili (fili di Kirschner o K-wire), da 1 mm-1.5 mm, posizionati con una tecnica a
shanghai per permettere una tenuta multidirezionale. Si usano soprattutto nelle fratture apofisarie dove ci
sono frammenti molto piccoli oppure nei distacchi epifisari dove il mezzo di sintesi ha attraversato la cartila-
gine di accrescimento.
➢ Fissatore esterno
Di fronte ad una frattura esposta è possibile utilizzare un sistema di fissazione esterna che,
attraverso chiodi, barre laterali e longitudinali e perni detti fiches, bypassa il focolaio di frat-
tura senza inserirvi materiali: viene creato un sistema a “quadrato” (due barre lunghe verti-
cali e due piccole orizzontali5) quanto più stabile possibile, che impedisca alla frattura di muo-
versi (senza mettere nulla nella sede di frattura per ridurre il rischio di infezione). Essendo le
fiches solidali ai frammenti di frattura, il sistema di connessione esterno non solo solidarizza
queste ultime, ma anche i frammenti.
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Il fissatore permette la gestione delle parti molli e consente al paziente di applicare un carico, così da ridurre
drasticamente l’allettamento e mobilizzare il paziente il prima possibile. In caso di politraumi poter gestire le
fratture con un fissatore esterno è un vantaggio: nel politrauma, che siano fratture esposte o meno, il fissa-
tore esterno viene usato per fare damage control in modo da permettere la stabilizzazione emodinamica del
paziente e il nursing efficace. La figata di questo strumento è, infatti, la possibilità di diastasare, comprimere,
traslare o ruotare i frammenti di frattura agendo solo sul sistema esterno (per cui il fissatore può essere uti-
lizzato per la riduzione).
Di solito è il trattamento definitivo nelle fratture di stadio II/III, mentre si utilizza come trattamento tempo-
raneo nell’attesa di poter passare alla sintesi interna a seguito della guarigione della lesione cutanea nelle
fratture di stadio I. La conversione da fissatore esterno a osteosintesi interna, laddove vi sono perdite di
sostanza o esposizioni massive, è sconsigliabile perché il rischio infettivo aumenta notevolmente.
Impostato il trattamento della frattura esposta, se è possibile, si chiude la ferita, previa toilette della le-
sione. Si procede dunque alla profilassi antitetanica, alle vaccinazioni necessarie e si somministra terapia
antibiotica ad ampio spettro, considerando anche la necessità di un farmaco efficace contro ceppi anae-
robi in caso di frattura in ambito agricolo.
L’allungamento degli arti si basa su di un meccanismo di fissazione esterna circolare, cioè un particolare tipo di fissa-
tore esterno, così come nel trattamento delle fratture da scoppio dove si ha una perdita di sostanza in cui non si ha la
possibilità di ricongiungere i due capi ossei: si compie un’osteosintesi in accorciamento con riduzione della lunghezza
dell’osso, dopo la guarigione verrà tagliato di nuovo e si deve allungare progressivamente e lentamente ogni giorno
grazie al fissatore esterno che con un sistema ad ascensore allontana di poco i monconi, in modo che il rigenerato
cresca in allungamento senza mai interrompersi. Sono percorsi lunghi che possono durare anche più di un anno, non
è un procedimento semplice da sopportare per il paziente, sia per l’ingombro di un fissatore circolare, sia per le tem-
pistiche, ma anche per la continua penetrazione di corpi estranei che possono essere favorenti lo sviluppo di infezioni.
6.5 Lussazioni
Quando si parla di lussazioni, si fa riferimento alla traumatologia delle articolazioni: un trauma a livello dell’articola-
zione può provocare una frattura ma anche un’alterazione della struttura legamentosa, andando ad interrompere le
strutture vincolanti i due capi ossei nella cavità articolare.
Per lussazione si intende la perdita di contiguità completa tra un capo articolare e l’altro, cioè quando il
rapporto anatomico tra un femore e una tibia viene perso completamente: lo spostamento dei due capi ar-
ticolari rende necessaria l’esecuzione di una manovra di riduzione.
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La sublussazione, invece, si verifica quando la perdita di contiguità è parziale e temporanea: si ha autoridu-
zione e autorisoluzione, tanto che il paziente fatica a descriverla, “pota è come se stesse per uscire fuori [la
spalla] ma poi figa è rientrata”.
Per definizione la direzione della lussazione dipende da come si sposta il capo distale rispetto a quello pros-
simale, quindi se si parla di una lussazione postero-laterale di gomito, si intende che l’avambraccio si è spo-
stato indietro rispetto all’omero. Di solito esistono delle direzioni preferenziali di via di fuga, data dalle carat-
teristiche anatomiche delle articolazioni stesse. Per esempio, la spalla si lussa frequentemente anterior-
mente, un’anca si lussa più frequentemente posteriormente, un ginocchio si lussa più facilmente anterior-
mente e una rotula si lussa solo lateralmente.
6.5.1 Classificazione
Viene definita acuta quando si tratta del primo episodio di lussazione, mentre una lussazione che capita più
volte è detta ricorrente o recidivante. Si parla di lussazione cronica o inveterata quando un’articolazione è
rimasta lussata e nessuno se ne è accorto per molto tempo.
Un altro sistema di classificazione si avvale del meccanismo di lesione:
- la maggior parte delle lussazioni avviene su base traumatica ed origina da un’articolazione fino a quel
momento sana,
- al contrario, si possono avere anche lussazioni atraumatiche che possono verificarsi:
o a seguito di traumi a bassissima velocità ed energia;
o in assenza di trauma in articolazioni dove è già presente un danno, come nel caso di una
spalla con lussazione recidivante che con il passare degli episodi facilita sempre di più la lus-
sazione anche durante attività quotidiane: nel corso del tempo i due capi articolari hanno
sviluppato un danno tale da allentare la capsula e facilitare l’uscita dell’osso;
o in un soggetto iperlasso, oppure in quelle articolazioni che hanno meno strutture filamen-
tose a stabilizzarle, prima fra tutte la spalla.
o su base volontaria: il paziente è in grado di lussarsi l’articolazione e rimetterla al suo posto
autonomamente; l’articolazione più soggetta è la spalla con predisposizione anatomica (di-
splasia della glena); il paziente, tipicamente pediatrico, sviluppa un controllo neuromotorio
tale da permettergli di fare dentro/fuori anche ad occhi chiusi. Il problema, come detto pre-
cedentemente, è che più accade, più si faciliterà la futura fuoriuscita dei capi articolari.
Il femore è l'osso più lungo, voluminoso e resistente dello scheletro umano. Su di esso si inseriscono nume-
rosi muscoli fondamentali per il movimento degli arti inferiori. Articolandosi nella sua estremità prossimale
con l'osso dell'anca dà origine all'articolazione coxofemorale, mentre la sua epifisi distale si articola con la ro-
tula e la tibia dando origine all'articolazione del ginocchio.
Il trattamento di una frattura del femore richiede quasi sempre l'intervento di sintesi chirurgica, fondamen-
tale per la sopravvivenza e la ripresa funzionale del paziente. L’intervento scelto dipende ovviamente dal tipo
di frattura.
Nell'anziano la frattura del femore si localizza tipicamente all'estremità superiore (testa o collo del femore),
limitando fortemente la mobilità dell'arto, peraltro già compromessa dall'età avanzata. Per questo motivo la
frattura del femore nell’anziano rappresenta un evento gravissimo.
Le fratture dell’estremo prossimale del femore risultano soggette a numerose complicanze che possono por-
tare alla morte, date dal fatto che spesso il paziente anziano presenta altre patologie invalidanti (come de-
menza senile, morbo di Parkinson…), tali per cui la sua capacità di collaborazione risulta ridotta. Anche chi
non ha mai manifestato queste patologie associate mostra disorientamento dopo l’episodio di frattura (a
causa del trauma, dall’intervento a cui deve essere sottoposto, dell’ospedalizzazione), che rende il paziente
meno collaborante.
Il sistema sanitario che tratta questa tipologia di pazienti deve tenere in considerazione i costi elevati del
trattamento e della gestione del post-operatorio.
Per questo motivo, alcuni sistemi sanitari (ma non quello italiano) hanno deciso di “ottimizzare” la gestione
di alcuni trattamenti, come quello della frattura del collo del femore, per cui oltre una certa età il paziente
anziano non viene trattato, perché la probabilità di recupero di un soggetto socialmente improduttivo è
minima e le risorse utilizzate andrebbero sprecate.
Inoltre anche l’allettamento prolungato produce costi nella gestione del paziente, per cui, sempre per un
discorso di ottimizzazione delle risorse, si è andati progressivamente ad ottimizzare il trattamento in fase
d’urgenza, sottoponendo il paziente all’intervento chirurgico entro le prime 48 ore dal trauma dimostrando
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come ciò migliori la sopravvivenza. Questo è un obiettivo primario che oggi deve essere perseguito da tutti
i sistemi sanitari.
Esistono degli indicatori per valutare l’efficienza di un ospedale (e in generale del sistema sanitario) e uno tra
questi risulta essere la valutazione della percentuale di pazienti con fratture del collo del femore che vengono
trattati entro la finestra terapeutica utile di 48 ore dal trauma.
Tutte le categorie di pazienti con frattura femorale vengono trattati in urgenza nonostante le possibili con-
troindicazioni date dalle condizioni precarie del paziente (ad esempio paziente cardiopatico, scoagulato, con
patologie respiratorie o urinarie croniche) perché si è visto che le eventuali complicanze del trattamento
risultano essere minori delle complicanze che il paziente potrebbe sviluppare se non si sottoponesse all’in-
tervento.
6.A.1 Classificazione
Le fratture del collo del femore possono essere classificate in vario modo. La classificazione topografica, a
seconda della sede in cui si sviluppa la frattura rispetto alla capsula articolare, distingue fratture:
- mediali: si trovano subito sotto la testa del femore o attraver-
sano il collo del femore e sono distinte in sottocapitate e trans-
cervicali
- laterali: basicervicali (base del collo del femore), pertrocanteri-
che (linea che congiunge il grande trocantere con il piccolo tro-
cantere), isolate dei trocanteri
6.A.2 Patogenesi
La patogenesi è strettamente legata all’invecchiamento e nella maggior parte dei casi la causa è da attribuire
all’osteoporosi; si tratta quindi di fratture patologiche.
La storia del trauma è spesso confusa: il paziente riferisce di essere caduto accidentalmente e, a causa di ciò,
di essersi fratturato il femore, in realtà spesso accade il contrario ovvero il paziente cade perché il femore è
fratturato (a causa dell’osteoporosi) e non è più in grado di reggere il peso del corpo. La caduta accidentale
quindi c’è sempre nella storia di frattura del femore, ma molte volte non ne è la causa.
I fattori di rischio che predispongono ad una frattura del collo del femore cambiano in relazione all’età del
paziente:
- in età senile (maggiormente colpita da questo tipo di frattura) sono rappresentati da:
o sesso femminile,
o osteoporosi,
o trauma modesto (caduta accidentale) diretto sulla faccia laterale dell’anca;
- in età giovanile è possibile ritrovare questo tipo di fratture, anche se più raramente, a seguito di
traumi più violenti come i traumi stradali.
La sede della frattura segue la topografia della struttura interna dell’osso. Le trabecole della parte spongiosa
del collo del femore hanno una distribuzione precisa: si orientano lungo linee di forza, in modo da resistere
meglio all’effetto del peso del corpo e all’effetto delle forze di taglio; il collo del femore infatti non è orientato
perfettamente lungo l’asse mediano del corpo.
Esiste una zona di minore resistenza, dove le trabecole sono meno orientate, chiamata triangolo di Ward,
zona fragile da dove solitamente origina la frattura.
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6.A.3 Quadro clinico
La frattura del collo del femore è facile da riconoscere: la storia anamnestica è tipica (il paziente riferisce una
caduta) e compare subito un’impotenza funzionale che nella maggior parte dei casi impedisce al paziente di
rialzarsi da terra.
L’esame obiettivo dell’arto è diagnostico e mostra:
• accorciamento, poiché i frammenti molte volte si accavallano l’un l’altro quindi l’osso diventa un po’
più corto e anche l’arto complessivamente appare più corto;
• extra-rotazione, perché i muscoli extra-rotatori che si inseriscono sul grande trocantere, solidale al
moncone distale, predominano sui muscoli intra-rotatori;
• tumefazione della regione inguinale, data dall’ematoma, non sempre apprezzabile, visibile più fa-
cilmente nel soggetto magro o defedato;
• dolorabilità ai movimenti passivi dell’anca.
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- Stadio II: frattura ingranata senza spostamento, con orientamento delle trabecole perfettamente
conservato e stabilità modesta (ancora più difficile da riconoscere radiograficamente rispetto alla
precedente ma visibile alla TC)
Quando c’è una storia che corrisponde a una possibile frattura del collo del femore e radiografica-
mente non si vede nulla bisogna fare una TC (indagine di secondo livello). Questa frattura composta
tende a scomporsi facilmente se il paziente ci cammina sopra (l’ideale è che non si scomponga). Se si
fa un intervento con mezzo di sintesi questa frattura non ha bisogno di essere ridotta.
- Stadio III: frattura scomposta in coxa vara, con trabecole cefaliche che tendono a diventare orizzon-
tali. È necessaria la riduzione della frattura prima di effettuare la terapia con osteosintesi.
- Stadio IV: frattura completamente scomposta, con trabecole parallele ma separate, caratterizzata
da elevata instabilità. Normalmente non viene trattata con osteosintesi.
Per stabilire quali fratture possono essere sottoposte ad osteosintesi bisogna guardare dove avviene la frat-
tura.
Le bellissime immagini radiologiche con e senza “aiuti” sono tratte da un sito che potrebbe estremamente didattico, che consiglio di
consultare perché merita (magari i colleghi radiologi lo hanno già segnalato, ma si sa che gli ortopedici arrivano dopo…):
https://www.startradiology.com/
L’osteosintesi è l’intervento chirurgico di contenzione che ha lo scopo di mantenere a contatto segmenti sche-
letrici interrotti nella loro continuità, fino alla formazione e alla consolidazione del callo osseo.
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6.A.5 Fratture e rischio di necrosi
La testa del femore ha una vascolarizzazione proveniente dai rami terminali delle arterie metafisarie che,
con un decorso dal femore all’acetabolo, giungono fino all’interno del manicotto capsulare. Se si lacera la
capsula si interrompe la circolazione. Non c’è una rete anastomotica che possa favorire il circolo in caso di
interruzione delle arterie principali.
L’unico ramo che proviene dal lato mediale è l’arteria otturatoria, che decorre nel legamento rotondo ma è
troppo piccola per supplire alla vascolarizzazione della testa del femore, perciò, se vengono interrotte le
strutture vascolari maggiori, la frattura non guarirà e la testa del femore andrà incontro a ischemia e succes-
sivamente a necrosi.
Tutte le fratture che coinvolgono la capsula articolare hanno quindi un rischio elevato di determinare necrosi:
- le sottocapitate e le transcervicali, essendo fratture mediali, sono a rischio e hanno bassa probabilità
di guarigione;
- le fratture laterali come le basicervicali e le pertrocanteriche non sono a rischio e hanno buona pro-
babilità di guarigione.
6.A.6 Trattamento
➢ delle fratture MEDIALI
In soggetti giovani con fratture mediali (a bassa probabilità di guarigione) di stadio I e II di Garden (non scom-
poste), è possibile utilizzare come prima scelta l’osteosintesi, che può avvenire tramite utilizzo di:
- viti percutanee (avvitamento): è un intervento in anestesia locale in cui si fanno delle piccole incisioni
di 1 cm e si introducono fili metallici che vengono posizionati attraverso la frattura, dalla parte late-
rale del femore fino alla testa, su cui si fanno scorrere 3 grosse viti che si dispongono in modo da
avere una configurazione divergente e stabile (in direzione elicoidale una rispetto all’altra): così si
impedisce che i frammenti possano ruotare tra di loro. È un intervento poco invasivo e si sceglie nel
paziente in cui si può evitare un intervento maggiore;
- chiodo-placca;
- vite-placca a compressione: una grossa vite a compressione viene posta sulla testa del femore e at-
traversa la frattura; si associa poi una placca che viene avvitata al femore. Questo sistema metallico
simula il sistema testa-collo-diafisi e bypassa il carico sulla frattura. Naturalmente prima va fatta la
riduzione a cielo chiuso (altrimenti aprendo la capsula ci sarebbe il danno alle arterie metatarsali)
con il paziente su un letto di trazione, in una posizione in cui si traziona e si ruota la gamba per ridurre
la frattura.
In un paziente giovane questo tipo di trattamento è usato come prima scelta, poiché ha il vantaggio di avere
una bassa morbilità e permette al paziente di non dover asportare tessuto osseo, ma allo stesso tempo ha il
grosso svantaggio di avere bassa probabilità di guarigione (perché la frattura è per definizione ad alto rischio
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di necrosi). Il rischio di fallimento dell’intervento è molto elevato e in questo caso è necessario ricorrere alla
protesi (piano B), che è un intervento di “non ritorno”.
Nel paziente anziano, data la probabilità di guarigione minima o assente, la protesi è il trattamento di prima
scelta, tranne nel caso in cui il paziente sia talmente defedato da non poter affrontare l’intervento e allora si
tenta l’osteosintesi (solo se la frattura non è scomposta). Per le fratture mediali e scomposte è inutile fare il
tentativo di riduzione e sintesi.
Oggi per i pazienti anziani si utilizzano endoprotesi. Si sostituisce con una componente metallica solo la por-
zione ossea femorale (non anche quella acetabolare come avviene nell’artroprotesi dove entrambe le super-
fici sono sintetiche, una di metallo e l’altra di plastica polietilene, e il contatto ha pochissimo attrito tale da
non determinare usura da contatto) e questa si articola con la cartilagine dell’acetabolo del paziente. Questa
interazione metallo-cartilagine con il tempo porta la cartilagine ad usurarsi, provocando dolore. Viene co-
munque effettuato questo tipo di intervento perché è rapido, con basse perdite ematiche, bassa morbilità:
il recupero funzionale è modesto ma comunque vantaggioso per un paziente anziano.
Una valida alternativa sviluppatasi negli ultimi anni per pazienti di
questa fascia di età è l’endoprotesi biarticolare: si tratta di un si-
stema formato da tre componenti: stelo (cementato), testina e cu-
pola mobile. Stelo e testina sono quelle utilizzate nella normale artro-
protesi, la cupola mobile è formata da una calotta in polietilene blin-
data con rivestimento metallico. Vi sono, dunque, due livelli di mobilità (per ridurre al minimo l’attrito):
- tra testina e polietilene;
- tra cupola metallica e osso acetabolare.
Poiché le due strutture sono entrambe metalliche, il concetto è il medesimo dell’artroprotesi con la diffe-
renza che, essendo un’endoprotesi, l’invasività dell’intervento è minore. Tuttavia la sopravvivenza della pro-
tesi è minore rispetto a quella di un’artroprotesi, ma poiché viene inserita in un soggetto anziano in cui
l’aspettativa di vita stimata è limitata, l’intervento è giustificato.
Nel soggetto giovane o nell’anziano in buone condizioni generali di salute e con elevate richieste funzionali
si usa l’artroprotesi totale, sostituendo sia la componente femorale che l’acetabolo. È un intervento alta-
mente invasivo ma permette un ottimo recupero funzionale e l’impianto ha una miglior sopravvivenza (a 20
anni il 98% delle artroprotesi è ancora in sede).
6 Per una trattazione più approfondita si rimanda alla lezione dedicata alla coxartrosi
7 Ovvero nel punto debole del sistema protesi-osso (punto di passaggio tra protesi e osso).
8 La protesi cementata ha una superficie liscia, quella non cementata ha una superficie reticolata e porosa, come se fosse formata
dalle trabecole dell’osso spongioso: l’osso cresce dentro la protesi e questa non è più rimovibile. Per rimuoverla bisogna aprire tutto
il femore nella sua lunghezza. Se la protesi non si è integrata basta sfilarla
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➢ delle fratture LATERALI
Si utilizza l’osteosintesi, che permette la guarigione completa, tramite l’utilizzo di:
- chiodo-placca;
- vite-placca a compressione;
- chiodo “gamma” (per la forma del chiodo a lettera
greca): si tratta di un inchiodamento intramidollare
applicato alle fratture metafisarie, con lo stesso risul-
tato che si ottiene quando è utilizzato nella frattura
diafisaria (tale metodica è infatti nata per risolvere
quest’ultimo tipo di fratture). L’intervento è a cielo
chiuso:
1. si fa una piccola incisione per via percutanea
per introdurre il chiodo endomidollare nella
diafisi,
2. su di esso si va a introdurre la vite cefalica che attraversa la frattura e fa presa sulla testa
del femore;
3. infine, per impedire le rotazioni, si applica una vite corticale trasversa che passa attraverso
l’imbuto del chiodo.
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Lezione 6 – parte 2 (fratture delle ossa lunghe)
Materia: Ortopedia e traumatologia
Appunti di: L.S.A.
Docente: G. Zarattini
6.B.1 Classificazione
La classificazione delle fratture è essenziale sia per disporre di un “linguaggio comune” tra vari specialisti, che
per addentrarsi nella letteratura internazionale.
Il segmento osseo più suscettibile ad una frattura esposta è la tibia, dal momento che la stratigrafia della gamba a
quel livello consiste in cute e sottocute.
Per contro, molto più raro è avere fratture esposte a livello femorale, in virtù delle rappresentate masse muscolari;
in questa sede è possibile avere fratture esposte secondarie a traumi ad alta energia.
Esistono dei protocolli di trattamento delle fratture esposte, soprattutto dal punto di vista infettivologico, che spesso
non vengono applicati soprattutto in alcuni PS dove non è presente l’ortopedico. Una frattura esposta, infatti, non
deve essere ridotta, ma prima il paziente dovrebbe essere posto in anestesia generale e a quel punto si dovrebbe
spugnare l’osso.
Le fratture delle diafisi delle ossa lunghe sono classificate secondo la AO foundation, in tre tipologie:
• Tipo A, sono le fratture più semplici, suddivise nei 3 sottotipi A1, A2, A3.
Possono essere trasverse, oblique o spiroidi;
• Tipo B, anche loro ulteriormente divise in 3 sottotipi. Possono essere
composte o scomposte;
• Tipo C, caratterizzate dalla comminuzione dell’osso; sono fratture più
impegnative. Possono essere semplici, pluriframmentarie o comminute.
Una classe particolare di fratture, al limite della classificazione AO, è quella delle fratture-lussazioni, in cui
coesistono la frattura e la lussazione, ovvero la perdita dei rapporti articolari.
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6.B.2 Esame obiettivo
Può essere comune a più tipi di fratture diafisarie delle ossa lunghe; il corredo di segni e sintomi comprende:
- Dolore;
- Impotenza funzionale;
- Tumefazione;
- Variazione dei profili dell’osso;
- Sintomi secondari a complicanze.
Le complicanze più frequenti sono di carattere vascolo-nervoso (ad esempio, lesione del nervo radiale
secondaria a frattura diafisaria dell’omero).
Nel valutare un paziente affetto da frattura, ciò che costituisce la priorità è la valutazione delle lesioni
vascolo-nervose associate, in particolare quelle vascolari. Per fare ciò, è fondamentale valutare i polsi
arteriosi periferici (femorale, popliteo, tibiale posteriore e pedidio per l’arto inferiore) al fine di scongiurare
un potenziale danno ischemico irreversibile, il quale, se non trattato in emergenza, potrebbe esitare in
necrosi estesa con conseguente necessità di amputazione parziale o completa.
Bisogna altresì considerare le condizioni della cute, in quanto non è possibile attuare un trattamento
chirurgico e dunque un’incisione chirurgica in una zona cutanea lesionata.
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Le deformità sono causate dalle inserzioni muscolari. Ad esempio,
in una frattura del terzo prossimale del femore il muscolo medio
gluteo, che trova inserzione sul grande trocantere, piuttosto che
gli adduttori, aventi inserzione a vari livelli della linea aspra della
diafisi femorale, possono determinare un atteggiamento
patologico dell’arto inferiore.
Un altro fattore è rappresentato dalla posizione del paziente sul
letto, anch’essa in grado di generare deformità dell’arto.
Le fratture da stress sono un tipo di lesione riscontrata inizialmente nei Marines americani, quando in questi
soggetti, dopo ore di marcia, comparvero dolori insoliti che non si risolvevano.
Il docente racconta di avere visitato una giovane donna, insegnante di ginnastica aerobica, la quale lamentava
dolore persistente alla gamba. La radiografia era apparentemente negativa, mentre in seguito all’esecuzione
di una scintigrafia ossea si evidenziò una frattura da stress della tibia, successivamente confermata dalla
radiografia. Un altro caso riportato dal professore è quello di un giovane uomo di 30 anni, il quale riferiva
dolore importante a livello dell’avampiede. Esami RX e TC negativi, mentre alla RM si osservò una frattura da
stress.
Lesioni di questo tipo necessitano di riposo ed eventualmente immobilizzazione.
Ciò che si tende a fare è dunque stabilizzare la frattura, concedendo sollecitazioni in rapporto alla solidità
della sintesi e/o al grado di evoluzione dei processi riparativi. Questi parametri dipendono dai seguenti
fattori:
- Età;
- Condizioni cliniche;
- Tipologia di frattura;
- Disponibilità di tecnologie per trattare la frattura.
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Le fratture possono subire due tipi di trattamento:
- Conservativo;
- Chirurgico.
➢ Trattamento conservativo
La prima fase consiste nella riduzione, finalizzata a riportare in sede i capi di
frattura. Può essere eseguita in due modalità principali:
- Manuale, tipica nel caso di frattura di polso dove si esercita una
trazione volta a riportare in sede il frammento;
- Strumentale, la quale a sua volta può essere estemporanea piuttosto
che progressiva.
La seconda fase è la contenzione, ottenuta attraverso l’apparecchio gessato. Quest’ultimo può includere o
meno anche la trazione.
Il confezionamento dell’apparecchio gessato è considerato a tutti gli effetti un atto medico, dunque è
fondamentale che vi sia la sorveglianza clinica dopo il posizionamento.
Dopo il confezionamento, il paziente viene posizionato in modo tale che il segmento interessato sia in
posizione anti-declive per almeno 48 h, onde evitare lo svilupparsi di una potenziale sindrome
compartimentale.
La terza fase è la rieducazione, tendenzialmente iniziata subito dopo la rimozione dell’apparecchio gessato.
➢ Trattamento chirurgico
Presenta gli stessi step, ma con sostanziali differenze.
La riduzione può essere effettuata:
- Manualmente, in modo simile al trattamento conservativo;
- A cielo aperto, con esposizione chirurgica del focolaio di frattura e successivo posizionamento di mezzi
di sintesi.
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La contenzione può consistere in:
- Fissazione interna, attraverso l’impianto di chiodo endomidollare piuttosto che di placca e viti;
- Fissazione esterna, indicata in particolare per le fratture esposte.
Considerando che in una frattura esposta il focolaio di frattura è potenzialmente infetto, il fissatore esterno
consente di bypassare la zona più a rischio di contaminazione per direzionare “a ponte” i mezzi di sintesi.
In particolari fratture esposte, si procede posizionando in urgenza il fissatore esterno, per poi procedere con
una sintesi definitiva solo se gli esami ematochimici escludono la presenza di infezione e se le condizioni
cliniche del paziente lo consentono.
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In una frattura dell’omero è fondamentale valutare il livello di lesione, in quanto adeso all’omero decorre il
nervo radiale, e tipicamente nelle fratture del terzo medio distale dell’omero si riscontra una lesione di tale
struttura, che può avvenire a seguito di:
- Contusione diretta;
- Flessione;
- Torsione;
- Sezione (evenienza piuttosto rara);
- Stiramento o compressione da parte dell’ematoma che si risolvono spontaneamente in 4-6 mesi.
Il paziente con lesione del nervo radiale si presenta con la “mano cadente”, venendo meno l’innervazione dei
muscoli estensori del polso.
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- Esposizione del nervo radiale;
- Ritardo di consolidazione.
Tutto ciò è particolarmente vero riguardo le fratture esposte, le quali appunto mostrano una prognosi di
guarigione piuttosto scarsa. Ovviamente, il grado di esposizione influenza in modo importante la prognosi.
Ad ogni modo, quando una frattura non guarisce si presentano due possibili scenari:
- Ritardo di consolidazione: in questo caso è possibile intervenire modificando i carichi, dinamizzando
determinati mezzi di sintesi oppure con la magnetoterapia;
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- Pseudoartrosi: l’OMS ha stabilito che si può parlare di questa condizione quando una frattura, dopo
essere stata sottoposta a tutti i possibili trattamenti, non sia arrivata a consolidazione nell’arco
temporale di 9 mesi.
La radiografia è la metodica che fornisce i dati più significativi, ed in caso di pseudoartrosi è possibile notare
la persistenza della rima di frattura, la quale può essere associata, a seconda dei diversi casi, a:
- Evidente attività metabolica dei segmenti a monte ed a valle della rima, indice del tentativo inefficace
di guarigione della lesione, quindi una pseudoartrosi ipertrofica;
- Assenza dei processi riparativi, definendo un quadro di pseudoartrosi atrofica.
Il gold standard del trattamento della pseudoartrosi consiste nella rimozione del tessuto fibroso dal focolaio,
nel prelievo di tessuto osseo dalla cresta iliaca, nel successivo innesto osseo e nell’esecuzione di una nuova
osteosintesi. Nel 95% circa dei casi i risultati sono positivi.
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Ex Lezione 4 del 01/04/2019
Sbobinatore: R.C.
Docente: Prof. Giuseppe Milano
Argomenti: Lesioni capsulo-legamentose del ginocchio
7. TRAUMATOLOGIA ARTICOLARE
La gran parte delle articolazioni che presentano una grande stabilità intrinseca (data dalla congruenza delle
superfici articolari) a seguito di un trauma non subisce una vera lussazione, ma va incontro a lesioni
legamentose.
Il ginocchio, per esempio, presenta una grande quantità di strutture che impediscono una lussazione
completa, a meno che tutte vengano lesionate (molto raro). A seguito di eventi traumatici, infatti, si assiste
a lesioni solamente di alcune strutture, ma il ginocchio che rimane in sede. Tuttavia, poiché le strutture
subiscono una fase di deformazione plastica prima di rompersi, è possibile che durante il processo di
guarigione si venga a formare una cicatrice serrata che compensa la lassità che si era venuta a creare nel
legamento. Non si avrà mai una restitutio ad integrum ma il legamento riparato sarà costituito da tessuto
cicatriziale.
La spalla, invece, ha scarsa stabilità di posizione e può quindi lussarsi.
I menischi hanno una struttura a sezione cuneiforme, più piatta sul versante tibiale e più concava sul versante
femorale, per compensare e aumentare la congruenza tra i raggi di curvatura delle superfici ossee di tibia e
femore, in modo che il carico si distribuisca su tutta la superficie.
Infatti, quando si fa un intervento di meniscectomia, si hanno
incrementi di carico nella zona di contatto tra tibia e femore di
300 volte. I menischi hanno quindi la funzione di assorbire e
distribuire i carichi, aumentare la congruenza articolare e
permettere la lubrificazione.
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Il menisco è composto, come tutti i tessuti connettivi, da acqua, proteoglicani e collagene; quest’ultimo però
a differenza di quello presente nel tessuto fibroso (capsulare e legamentoso), che è formato
prevalentemente da collagene di tipo I, e di quello presente nel tessuto cartilagineo, che è formato
prevalentemente da collagene di tipo II, è costituito in ugual misura sia da collagene di tipo I che di tipo II ed
è chiamato anche fibrocartilagine. Inoltre, ha la particolarità di essere vascolarizzato parzialmente, con i vasi
distribuiti solo in alcune zone, a differenza della cartilagine articolare che non è vascolarizzata.
Il menisco può essere suddiviso in tre zone: corno anteriore, corpo e corno posteriore.
È importante ricordare che i menischi sono presenti in ogni articolazione, sono particolarmente conosciuti quelli del ginocchio ma
non sono presenti solo in questa sede.
Le lesioni meniscali del ginocchio avvengono per combinazione di forze di torsione e compressione e si
riscontrano frequentemente nei traumi sportivi. I meccanismi che causano la lesione sono:
- valgo rotazione esterna: lesione con piede fermo sul terreno di gioco e cambio di direzione dato dal
movimento del corpo verso l’interno: si parla di extrarotazione del piede. Causa danno soprattutto al
menisco interno e al legamento collaterale mediale;
- varo rotazione interna: lesione con piede fermo sul terreno di gioco e cambio di direzione dato dal
movimento del corpo verso l’esterno: si parla di intrarotazione del piede. Causa danno soprattutto al
menisco esterno e al legamento collaterale laterale;
- iperflessione;
- iperestensione.
Esistono anche lesioni degenerative patologiche, che sono la maggioranza, date da un movimento banale o
talvolta anche senza alcun tipo di causa scatenante: il menisco si è indebolito con il passare degli anni e si
rompe perché non sopporta più il peso del corpo. Non sono lesioni traumatiche perché non sono correlate
ad un evento.
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7.1.A.1 Diagnosi
La diagnosi è prevalentemente clinica.
All’anamnesi il paziente descrive il movimento che ha determinato il trauma distorsivo, con forte dolore
associato. Se non c’è stato dolore acuto è improbabile che la lesione sia di natura traumatica ed è possibile,
durante la visita, usare alcuni test dolorifici in grado di evocare il dolore da danno meniscale.
Il paziente riferisce inoltre episodi di blocco articolare, sensazione di cedimento del ginocchio, sensazione di
scroscio interna al ginocchio.
La lesione meniscale dà inoltre versamento articolare costituito solo da liquido sinoviale, chiamato idrarto,
rilevabile durante l’esame obiettivo.
I test clinici per evocare il dolore dato dal frammento mobile del menisco (cioè
che valutano la dolorabilità) consistono in movimenti di compressione,
rotazione e palpazione della rima articolare.
È possibile inoltre eseguire il test dell’iperflessione e il test di McMurray: il
paziente è supino, l’esaminatore ferma con una mano il tallone e con l’altra
mano sostiene la parte inferiore del ginocchio, cercando di far estendere
completamente il ginocchio mentre ruota la tibia prima verso l’interno poi
verso l’esterno. Se i test sono negativi la probabilità di lesione meniscale è
bassa.
7.1.A.2 Trattamento
L’evoluzione del danno e il tipo di trattamento cambiano a seconda della localizzazione della lesione.
Il menisco è parzialmente vascolarizzato a partire dalla capsula che è situata in periferia. I vasi entrano solo
nel terzo periferico. Perciò il menisco può essere diviso dal punto di vista della vascolarizzazione in tre zone:
1. una zona rossa vicino alla capsula con vasi ben rappresentati, che a seguito di una lesione ha alta
probabilità di cicatrizzazione;
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2. una zona rosso-bianca in cui la vascolarizzazione è esigua e contiene le porzioni terminali dei vasi;
3. una zona bianca più vicina al centro del ginocchio, non vascolarizzata e senza probabilità di
guarigione.
Nella storia dell’ortopedia ci sono stati tre eventi importanti: la scoperta della terapia antibiotica, la terapia anti TBC e l’artroscopia.
Tipologie di meniscectomia:
- meniscectomia totale, oggi non viene più eseguita perché causa sviluppo precoce di artrosi, e in
pazienti giovani questo non è accettabile
- meniscectomia selettiva quando il ginocchio è talmente danneggiato da non poter essere peggiorato
con l’intervento
- sutura meniscale utilizzata nel 20% dei casi (ma alcuni chirurghi riescono ad usarla nel 50% dei casi)
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- trapianto meniscale a cui si ricorre se non è possibile riparare il menisco tramite sutura e se la
meniscectomia ampia ha determinato l’insorgenza di una sintomatologia dolorosa che predispone
allo sviluppo di artrosi. Da un donatore si prende un menisco che viene congelato e che ha dimensioni
congruenti a quello del ricevente e si impianta tramite artroscopia. I risultati sono ottimi perché non
si hanno reazioni immunitarie, in quanto gli antigeni di istocompatibilità sono immersi nella matrice,
per cui non è necessaria la terapia immunosoppressiva, sono disponibili un gran numero di donatori
e potendo congelare il campione è possibile fare gli screening adeguati per evitare qualsiasi tipo di
complicanza intra e post-operatoria. L’intervento di trapianto meniscale deve essere fatto prima che
il compartimento abbia avuto un’evoluzione artrosica e dopo che tutte le concause di evoluzione
artrosica siano state escluse o trattate, ripristinando il compartimento e neutralizzando eventuali
sovraccarichi.
I legamenti collaterale mediale, collaterale laterale, crociato anteriore e crociato posteriore governano la
lassità e stabilizzano il ginocchio sul piano coronale e sagittale. La stabilizzazione della rotazione (sul piano
assiale) invece avviene a livello dei punti intermedi di queste strutture.
La stabilità totale del ginocchio è data quindi dalla stabilità posteriore, anteriore, laterale, mediale e dalle
loro combinazioni postero-laterale, postero-mediale, antero-laterale e antero-mediale (minima).
Ogni struttura legamentosa ha una duplice o triplice funzione e governa il movimento in una specifica
direzione, ma aiuta la stabilizzazione in minima parte anche nelle altre direzioni: ciascun legamento
governa prevalentemente come stabilizzatore primario la stabilità del ginocchio in una direzione, ma
agisce anche da stabilizzatore secondario, vicariante, in un’altra direzione e la sua azione si esplica solo
quando il primario si rompe.
Per esempio: il crociato anteriore è stabilizzatore primario del compartimento anteriore e stabilizzatore
secondario della stabilità mediale. Il collaterale mediale è stabilizzatore primario della stabilità mediale
del ginocchio e secondario della stabilità anteriore. Se ci dovesse essere una lesione del crociato anteriore,
la stabilità anteriore verrebbe garantita dal collaterale mediale e viceversa.
Lo stesso ragionamento si applica a tutte le altre strutture.
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7.1.B.1 Classificazione delle lesioni
Le lesioni legamentose si classificano in tre gradi:
- Lesione I grado: stiramento delle fibre che non perdono la loro continuità;
- Lesione II grado: parziale interruzione di alcune fibre del legamento;
- Lesione di III grado: rottura completa di un legamento.
Ad ognuno di questi gradi corrisponde un grado di lassità e un trattamento diverso. Lesioni di grado I e II
“guariscono” autonomamente con formazione di tessuto cicatriziale permanente, che è abbastanza rigido da
simulare il comportamento meccanico del legamento originale.
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Responsabili della lesione di questa struttura sono azioni combinate come:
• la valgo rotazione esterna, la più frequente perché è il movimento più
naturale che facciamo dopo che si è lesionato il collaterale mediale;
• la varo rotazione interna, più raro, dopo che si è lesionato il
collaterale laterale;
• l’iperestensione;
• l’iperflessione.
NB: la lassità è un segno obiettivo, valutabile tramite visita ortopedica. Non è sempre segno di patologia
perché esistono soggetti con lassità legamentosa generalizzata costituzionale.
L’instabilità è invece un sintomo riferito dal soggetto e non può essere oggettivata.
Il dolore in realtà non è legato alla lesione del crociato anteriore, ma molte volte è legato a quello che il
trauma ha provocato, quindi alle lesioni meniscali, alle contusioni ossee e all’edema.
Per completare la diagnosi vengono in aiuto vari test clinici, tra cui il più antico è il test del cassetto anteriore:
il paziente è in posizione supina con il ginocchio flesso a 70/90 gradi, si applica una trazione in avanti della
tibia. In presenza di una lesione del crociato anteriore si avverte lo spostamento in avanti della tibia, a causa
della mancanza della funzione di stabilizzazione del crociato, che normalmente si opporrebbe a questa
traslazione.
Non è diagnostico perché può essere negativo nonostante la presenza di lesione (soprattutto se recente) e
normalmente si positivizza quando c’è la rottura anche di altre strutture, soprattutto del corno posteriore
del menisco mediale.
Il test più attendibile per la lesione del crociato anteriore, con alta sensibilità e
specificità, è il test di Lachman (se il test è positivo il crociato anteriore è
sicuramente rotto e se il crociato anteriore è rotto il test è sicuramente positivo).
La procedura è la stessa del test del cassetto anteriore ma il ginocchio è messo a
20 gradi di flessione, posizione in cui il crociato anteriore esplica la maggiore forza
di opposizione alla traslazione anteriore della tibia. Si afferra con una mano il
femore e con l’altra la tibia e si tira la tibia in avanti.
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Poiché il crociato anteriore si comporta da stabilizzatore secondario dei movimenti mediali, la lesione
provoca anche un’eccessiva rotazione della tibia rispetto al femore. I test dinamici che valutano la rotazione
sono il Pivot Shift e il Jerk Test.
Pivot shift: Il paziente giace supino, l’esaminatore solleva l’arto da testare con la mano che impugna la caviglia, si
intraruota la tibia e con l’altra mano si forza dolcemente il ginocchio in valgo. Quando il ginocchio viene sollevato, per
la forza di gravità il femore si porterà posteriormente, l’assenza del LCA farà sub-lussare il piatto tibiale laterale
relativamente in avanti e in intrarotazione.
Jerk test: rappresenta il Pivot Shift rovesciato. Si esegue con il paziente e l’esaminatore nella stessa posizione del test
precedente, solo che questa volta si parte con il ginocchio flesso a 90° e lentamente si estende. Al momento del
passaggio della fascia lata sul condilo (30°) si assiste alla sub-lussazione del piatto tibiale.
Se sono positivi difficilmente la lesione è isolata e si devono ricercare altre alterazioni. Il Pivot shift positivo
è indicativo di lesione del crociato anteriore e del compartimento antero-laterale.
Per la diagnosi strumentale si utilizza, come esame di primo livello, la RMN che mostra il decorso del
legamento. La radiografia standard serve per evidenziare fratture associate, e l’artroscopia non viene quasi
mai usata solamente a scopo diagnostico, ma a scopo diagnostico-terapeutico.
Le prime due immagini mostrano il normale decorso del legamento crociato anteriore (in blu si vede anche parte del legamento
crociato posteriore); le due successive, invece, evidenziano come le fibre del ACL, normalmente parallele alla linea gialla (di
Blumensaat) sono completamente disomogenee e discontinue.
Il trattamento chirurgico è di tipo ricostruttivo perché il crociato anteriore non si può riparare
spontaneamente (a differenza delle lesioni del legamento collaterale mediale che possono cicatrizzare), dal
momento che la struttura è immersa nel liquido sinoviale che impedisce la formazione di cicatrici.
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Inoltre, quando il legamento si rompe, i due monconi del legamento si allontanano l’uno dall’altro ed è
difficile riavvicinarli.
La ricostruzione avviene in artroscopia, con l’utilizzo di strutture tendinee prelevate dal paziente stesso o da
donatore. La struttura tendinea utilizzata può essere:
- tendine rotuleo autologo: fino a 10 anni fa era il più utilizzato, ma oggi è usato solamente in atleti
che fanno sport da contatto con alto rischio di trauma. In questi atleti si preferisce usare il terzo
centrale del tendine rotuleo, che dalla rotula si porta alla tuberosità tibiale, perché si preleva anche
una porzione di osso (osso-tendine-osso). C’è un’integrazione osso-osso, più solida e che guarisce
prima. Tuttavia, si usa in una minoranza di casi perché, togliendo il tendine che governa l’apparato
estensore ed un pezzo di rotula, si può compromettere la superficie articolare, esponendola ad un
maggior rischio di frattura. La morbilità di questo intervento è superiore a quella osservata con
l’utilizzo del tendine semitendinoso e gracile. Si ha maggior stabilità, ma maggior rischio di dolore
post-operatorio soprattutto in pazienti che fanno sport di salto.
- tendine semitendinoso e gracile autologhi duplicati (il più utilizzato). Sono tendini flessori che si
trovano sul versante mediale della coscia, con inserzione prossimale sull’ischio e inserzione distale
sulla tibia. Vengono staccati dalla loro inserzione sulla tibia, viene fatto uno strip per sfilarli
dall’inserzione prossimale, vengono piegati in modo da formare quattro fasci e posizionati all’interno
di due tunnel nell’osso, lungo il decorso originale del legamento e vengono fissati con delle viti.
- allograft tendineo con trapianto da donatore, quando il paziente ha età avanzata e la qualità dei
tendini è bassa perché il tessuto si è irrigidito, oppure quando è necessaria una ricostruzione multi-
legamentosa per intervenire su più strutture lesionate.
- materiali sintetici molto più usati in passato, ma abbandonati perché si rompevano facilmente e
davano reazioni da corpo estraneo.
Questi trattamenti non devono essere fatti in fase acuta (prime 3 settimane) - perché aumenta il rischio di
rigidità post-operatoria in quanto si scatena una risposta infiammatoria inizialmente secondaria al trauma e
poi all’intervento, per cui la fase di riabilitazione è più complicata - ma non si deve aspettare oltre le 8
settimane. Infatti, quanto più si ritarda l’intervento tanto più il paziente svilupperà uno schema neuro-
motorio di instabilità e protezione del ginocchio che gli permette, nonostante la lesione, di evitare distorsioni
e cedimenti. Il paziente potrebbe non volersi sottoporre all’intervento per paura di un peggioramento della
condizione articolare a seguito della ricostruzione, e per l’incapacità di adattarsi al nuovo quadro.
Quando il paziente atleta professionista torna in campo dopo la ricostruzione si può avere il caso estremo di
paura del campo (kinesiofobia) o un quadro meno grave in cui però la performance si riduce.
L’intervento dovrebbe quindi essere fatto nella fase subacuta: dopo la fase acuta e prima della fase cronica,
che comincia dopo 8 settimane dalla lesione.
Dopo 2 anni dal trauma, il ginocchio sviluppa un danno cartilagineo artrosico di instabilità, per cui l’intervento
potrà essere comunque fatto per riportare la stabilità, ma l’artrosi non potrà essere corretta.
Le ginocchia ricostruite hanno un risultato migliore in termini di prevenzione dell’artrosi se insieme alla
ricostruzione legamentosa si associa anche la riparazione di tutte le altre strutture alterate (se il menisco è
alterato, se c’è un varo o un valgo questi vanno corretti).
Poiché le lesioni capsulo-legamentose del ginocchio sono estremamente frequenti, sarebbe meglio fare
prevenzione e, a tal riguardo, sono in corso numerosi studi epidemiologici con lo scopo di creare schemi
motori da seguire per evitare traumi, soprattutto per le atlete - che sono più a rischio degli atleti - e per chi
gioca su terreni ad alto attrito.
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➢ Legamento crociato posteriore
Il legamento crociato posteriore decorre dalla faccia mediale della gola intercondiloidea alla faccia posteriore
della tibia; controlla la stabilità posteriore limitando la traslazione posteriore della tibia rispetto al femore.
Una sua lesione (più subdola rispetto a quella del crociato anteriore, che
molte volte non causa emartro) è provocata da un trauma anteriore,
cioè dal davanti all’indietro, diretto, soprattutto quando il ginocchio è
flesso (trauma da cruscotto, tipico degli incidenti stradali), da
iperestensione o iperflessione, che è una lesione tipica dei portieri.
La diagnosi avviene tramite l’utilizzo di manovre semeiologiche come il test del cassetto posteriore, test
diagnostico per eccellenza, eseguito a 70-90 gradi di flessione, posizione in cui il crociato posteriore esplica
la maggiore forza di opposizione alla traslazione.
Altri test utilizzati sono il test di gravità e il reverse pivot shift.
La diagnosi strumentale avviene tramite RMN e RX sotto stress eseguendo il test del cassetto posteriore.
La radiografia viene ripetuta due volte: la prima volta si misura la distanza tra il bordo posteriore della tibia
e il condilo posteriore, poi si esegue il cassetto posteriore con spostamento posteriore della tibia e si fa di
nuovo la misurazione. La differenza tra le due distanze indica di quanti millimetri si sublussa indietro la tibia
rispetto al femore. Questa informazione è importante perché:
- una lesione isolata del crociato posteriore che determini una lassità posteriore minore di 10 mm non
necessita di trattamento chirurgico ma guarisce autonomamente;
- invece una lassità posteriore maggiore di 10 mm necessita di ricostruzione.
Il crociato posteriore, differentemente da quello anteriore, può guarire autonomamente per la posizione
anatomica in cui si trova. La membrana sinoviale riveste l’interno dell’articolazione ma lascia il crociato
posteriore in posizione retrosinoviale, che risulta quindi essere intrarticolare ma extrasinoviale e, non
essendo a contatto con il liquido sinoviale, può guarire se messo nelle condizioni adatte. Se il ginocchio viene
immobilizzato in cassetto anteriore in una posizione in cui il legamento crociato rimane lasso, ovvero tra 0 e
70 gradi, si può avere guarigione.
Esistono ginocchiere che permettono di mantenere questa posizione, creando una spinta sulla tibia da dietro
in avanti che, se portate per almeno sei mesi, determinano la guarigione della lesione isolata del crociato
posteriore.
Si crea una problematica quando la lesione non viene diagnosticata precocemente perché non dà
sintomatologia di instabilità e viene lasciata cronicizzare. Il paziente riprende l’attività sportiva senza che la
performance ne risenta, ma la storia naturale della malattia porta allo sviluppo di artrosi da perdita della
corretta cinematica articolare.
Se la lassità posteriore è superiore a 10 mm la lesione non è più isolata ma combinata con altre lesioni che
coinvolgono nella quasi totalità dei casi il compartimento postero-laterale. Il paziente presenta
sintomatologia evidente (non riesce a camminare perché il ginocchio si apre in varo) e instabilità articolare
per cui la diagnosi viene fatta precocemente. È necessaria una ricostruzione chirurgica di tutte le strutture
legamentose lesionate (collaterale, crociato posteriore e punto d’angolo postero-laterale), tramite l’utilizzo
di tendini autograft o allograft (vedere sopra).
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Per gli atleti professionisti che svolgono attività sportiva ad alto livello, i tempi di recupero dopo traumi del
crociato posteriore curati con trattamento conservativo sono in genere 6 mesi, i tempi di recupero dopo
traumi isolati del crociato anteriore con ricostruzione sono 8-9 mesi (in USA), 6 mesi (in Italia).
Per le lesioni complesse è necessario aspettare almeno 1 anno.
Domanda: “Per una persona non atleta professionista quanto sono invalidanti queste lesioni?”
Risposta: “Considerando pazienti di giovane età che svolgono attività ricreativa o sportiva di basso livello, le lesioni
legamentose del ginocchio possono creare due situazione distinte: in alcuni casi il ginocchio non dà segni di cedimento
e consente di fare un’attività sportiva normale, possibile se vi è un tono muscolare sviluppato, ma il ginocchio risulta
comunque debole e vulnerabile e nel breve periodo il rischio è che un’eventuale attività possa portare a distorsioni
creando ulteriori danni, mentre a lungo termine sicuramente andrà incontro ad artrosi. In altri casi il ginocchio può
dare fin da subito instabilità impedendo di fare attività sportiva e il paziente non deve forzare l’articolazione.
Considerando un paziente attivo sui 60 anni che si è rotto il crociato si può stare a vedere e magari mettere dei tutori
funzionali.”
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Lezione 7 – parte 2 (patologia traumatica e degenerativa del gomito)
Sbobinatore: LSA
Docente: dott. Marchi
La porzione distale dell’omero è anche chiamata “paletta omerale”, è rivestita da cartilagine articolare e
presenta due faccette articolari:
- Capitulum humeri, che si articola con la testa del radio (lateralmente);
- Troclea, la quale si articola con l’incisura trocleare dell’ulna (medialmente).
Ai lati dell’epifisi distale dell’omero vi sono due protuberanze:
- Epicondilo, dà origine ai tendini dei muscoli estensori del polso (lateralmente);
- Epitroclea, dà origine ai tendini dei muscoli flessori del polso (medialmente).
L’epifisi prossimale del radio è formata da testa e collo. La testa presenta una superficie arrotondata, definita
capitello radiale, importante per formare l’articolazione omero-radiale, ma anche una superficie mediale,
destinata ad articolarsi a livello dell’insicura radiale dell’ulna, formando l’articolazione radio-ulnare
prossimale.
L’epifisi prossimale dell’ulna presenta una grande cavità, definita insicura trocleare, che avvolge la troclea
omerale tramite due strutture:
- Coronoide, anteriormente, alloggia nella fossa coronoidea dell’omero in massima flessione
dell’avambraccio sul braccio;
- Olecrano, posteriormente, alloggia nella fossa olecranica dell’omero in massima estensione
dell’avambraccio sul braccio.
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Il radio presenta la tuberosità radiale, inserzione del muscolo bicipite brachiale, mentre l’ulna mostra una
tuberosità per l’inserzione del muscolo brachiale anteriore.
➢ Legamenti
L’articolazione del gomito, vista la sua anatomia, è molto instabile, pertanto necessita di apparati
legamentosi complessi per renderla il più stabile possibile. Ciò determina un difficile approccio chirurgico.
Vi è la capsula articolare, rinforzata ai lati da strutture legamentose molto robuste:
- Legamento collaterale mediale (ulnare);
- Legamento collaterale laterale (radiale).
Questi legamenti consentono i movimenti di flesso-estensione e prono-supinazione, mentre bloccano le
forze valgizzanti/varizzanti rispetto all’asse dell’arto superiore.
Un altro importante legamento circonda il capitello radiale come un anello e si inserisce sull’ulna: si tratta
del legamento anulare. Questo è fondamentale per dare stabilità alla testa del radio nell’articolazione del
gomito.
➢ Muscoli
Sono 4 i gruppi muscolari di questa articolazione. I primi due gruppi originano dalle strutture ossee del
gomito, mentre gli ultimi due si inseriscono a livello del gomito:
- Epicondiloidei, originano dall’epicondilo dell’omero e permettono i movimenti di estensione del
polso e delle dita;
- Epitrocleari, originano dall’epitroclea dell’omero e permettono i movimenti di flessione del polso e
delle dita, oltre al movimento di pronazione;
- Bicipite brachiale e brachiale anteriore, anteriormente, consentono la flessione dell’avambraccio sul
braccio e la supinazione dell’avambraccio;
- Tricipite brachiale, posteriormente, consente l’estensione dell’avambraccio sul braccio.
➢ Vasi e nervi
Le principali strutture vascolo-nervose sono rappresentate da:
- Nervo mediano, anteriormente e centralmente;
- Nervo radiale, lateralmente;
- Nervo ulnare, medialmente;
- Arteria brachiale, centralmente.
Il coinvolgimento di queste strutture nella patologia traumatica del gomito è una complicanza estremamente
grave, seppur abbastanza rara.
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➢ Funzionalità del gomito
I movimenti permessi dall’articolazione del gomito sono i seguenti:
- Flessione, che consente un’escursione fino a 150°(influenzata dal volume delle masse muscolari);
- Estensione, 0° (può arrivare a -10° in pazienti con particolare lassità legamentosa);
- Prono-supinazione, di circa 80-90°.
Queste caratteristiche conferiscono la possibilità di svolgere numerose attività quotidiane. Tuttavia, il gomito
è molto propenso a perdere la propria stabilità in seguito ad un trauma, sviluppando di frequente e molto
precocemente una rigidità articolare. Questa è intesa come una reazione dell’organismo volta a compensare
l’instabilità. Pertanto, l’obiettivo del chirurgo ortopedico è certamente quella di ricostruire le strutture ossee
e legamentose lesionate, ma anche garantire una mobilizzazione dell’articolazione quanto più precoce
possibile, onde evitare l’insorgenza di rigidità articolare che inficerebbe la funzionalità dell’articolazione.
7.2.A Fratture
7.2.A.1 Fratture dell’OMERO DISTALE
Le fratture dell’omero distale sono classificate in 4 tipi (classificazione anatomica):
- Sovracondiliche;
- Trans-intercondiliche;
- Isolate del condili;
- Capitulum humeri e troclea.
Queste fratture rappresentano circa il 30% di tutte le fratture a carico del gomito, e possono generarsi a
causa di:
- Trauma diretto, ovvero forze che agiscono localmente a livello del gomito;
- Trauma indiretto, come durante una caduta in cui si protende la mano verso il suolo, con
trasferimento dell’energia dell’urto fino al gomito.
Queste fratture sono ulteriormente classificate in modo funzionale secondo la classificazione AO come:
- Extra-articolari (tipo A), ovvero in assenza di coinvolgimento delle cartilagini articolari; all’interno di
questo gruppo si ritrovano fratture da avulsione, semplici, a cuneo o multiframmentarie;
- Parzialmente articolari (tipo B), in cui la rima di frattura decorre anche lungo l’articolazione; tra
queste si distinguono fratture: laterali, mediali e frontali;
- Completamente articolari (tipo C), interessano la porzione più distale dell’omero; tra queste vi sono:
o semplice;
o comminuta metafisaria,
o multiframmentaria articolare e metafisaria
Le fratture da avulsione sono determinate dalla contrazione violenta dei muscoli epicondiloidei/epitrocleari
durante il trauma, inducendo così il distacco del frammento osseo da cui hanno origine i propri tendini.
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La classificazione funzionale è importante per la scelta del trattamento più idoneo al tipo di frattura
considerata.
➢ Fratture sovracondiliche
Sono fratture extra-articolari tipiche dell’età pediatrica, poiché i bambini presentano un osso meno rigido e
più elastico.
Sono determinate da un trauma in estensione (più frequente) oppure in flessione (Goyrand-Smith, molto
raro). Molto spesso si ha frattura per traumatismo indiretto dovuto ad una caduta a terra sul palmo della
mano con gomito in iperestensione, determinando una dislocazione dorsale della paletta omerale ed
anteriore della diafisi.
I pazienti tipicamente giungono in PS molto preoccupati poiché il profilo dell’articolazione è completamente
sovvertito, potendovi essere deformità in valgismo/varismo, e lamentano un intenso dolore, impotenza
funzionale e mostrano una tumefazione associata ad ecchimosi sulla faccia anteriore del gomito.
Le complicanze possono essere molto gravi, ma per fortuna altrettanto rare. Sono essenzialmente lesioni
vascolo- nervose:
- Lesione dell’arteria brachiale, molto rara, può determinare un quadro di shock emorragico;
- Lesione del nervo radiale, mediano ed ulnare (in ordine decrescente di frequenza);
- Esposizione cutanea, difatti sono solitamente fratture esposte;
- Sindrome compartimentale (sindrome ischemica di Volkmann), caratterizzata da un aumento
importante della pressione all’interno del distretto anatomico del gomito che può compromettere la
circolazione fisiologica e che, se non riconosciuta e trattata precocemente, può determinare lesioni
irreversibili. La causa può essere ricercata nella non corretta immobilizzazione post-riduzione. Per
tale motivo, una volta ottenuta la riduzione, l’immobilizzazione non deve essere mantenuta in
flessione eccessiva.
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➢ Fratture sovra-intercondiliche
Sono più frequenti nell’adulto, poiché presenta un osso
meno elastico e dunque più rigido.
La rima di frattura è all’interno della capsula articolare
e decorre lungo le superfici articolari dei condili
coinvolgendo anche le fosse olecranica e coronoidea. In
queste lesioni si osserva la separazione dei condili l’uno
dall’altro e dalla diafisi, con configurazione tipica a T o
Y della rima.
Il trattamento di queste fratture è quasi esclusivamente chirurgico, ad eccezione di pazienti anziani con
comorbilità importanti. Infatti, sarebbe impossibile la ricostruzione corretta dell’anatomia del gomito
intervenendo in modo conservativo.
Il gold standard consiste nell’osteosintesi con placca e viti, mantenendo immobilizzate le strutture ossee in
attesa che si formi il callo osseo.
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7.2.A.2 Fratture dell’ULNA PROSSIMALE
Sono tra le lesioni più frequenti in assoluto, e sono le seguenti:
- Fratture dell’olecrano;
- Fratture della coronoide.
Anche in questo caso vale la classificazione adottata per le fratture dell’omero distale (classificazione AO):
- Extra-articolari: avulsioni dell’inserzione del tricipite, semplici metafisarie, multiframmentarie
metafisarie.
- Parzialmente articolari: olecraniche, coronoidee.
- Completamente articolari: olecraniche e coronoidee.
➢ Fratture dell’olecrano
Sono lesioni tipiche dell’adulto e dell’anziano. Il meccanismo patogenetico può prevedere:
- Trauma diretto, in seguito ad urto violento (frequenti lesioni comminute);
- Trauma indiretto, in seguito a caduta sulla mano a gomito flesso con contrazione simultanea del
tricipite, con generazione di fratture semplici oblique o trasverse.
- Combinazione dei due meccanismi.
La diagnosi prevede:
- Esame clinico, caratterizzato da dolore, tumefazione, emartro,
impotenza funzionale completa del gomito (impossibile l’estensione
dell’avambraccio sul braccio, per distacco dell’inserzione ossea del
tricipite brachiale) ed una soluzione di continuo alla palpazione
dell’olecrano in caso di diastasi dei frammenti;
- Esame radiografico in due proiezioni, in particolare la proiezione
laterale che consente di apprezzare le caratteristiche della frattura
olecranica;
- Eventuale valutazione TC nei quadri di frattura-lussazione e/o fratture pluriframmentarie articolari.
A queste fratture, in seguito a traumi di notevole entità, si possono associare dislocazione anteriore del
frammento ulnare distale e del capitello radiale, configurandosi così un quadro di frattura-lussazione
anteriore di gomito.
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Il trattamento è quasi sempre chirurgico, è conservativo nei rari casi di fratture composte senza diastasi. La
chirurgia prevede due principali tecniche:
- Osteosintesi con placca e viti e/o viti libere;
- Tecnica di Hauban, prevede l’impianto di 2 fili di Kirschner tangenziali alla frattura e cerchiaggio a 8
che permette la compressione sul focolaio di frattura, essenziale alla formazione del callo osseo e
quindi al processo di guarigione.
Vengono classificate analogamente alle fratture di omero distale ed ulna prossimale in:
- Fratture extra-articolari (avulsioni della tuberosità bicipitale, semplici del collo, multiframmentarie
del collo);
- Fratture parzialmente articolari (semplici, frammentarie);
- Fratture completamente articolari (semplici, multiframmentarie).
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➢ Fratture del capitello radiale
Insieme alle fratture dell’olecrano, rappresentano il tipo di lesione più frequente, soprattutto nella
popolazione adulta.
Il trauma può essere:
- Diretto, come un impatto violento a livello del gomito laterale;
- Indiretto, nel caso di una forza in compressione, trasmessa longitudinalmente al gomito, in seguito a
cadute sulla mano.
Questi meccanismi traumatici producono fenomeni distorsivi (sollecitazioni) in valgo (talvolta anche in varo)
alle strutture legamentose, in particolare al legamento anulare che, se lesionato, può determinare la
dislocazione del capitello radiale, creando quadri di frattura-lussazione del gomito. In questi casi, è necessario
eseguire anche un’adeguata ricostruzione legamentosa, per ripristinare la stabilità dell’articolazione.
Oltre alla classificazione AO-OTA, queste fratture possono essere classificate secondo la classificazione di
Mason in 4 stadi:
- Tipo 1, fissurazione o frattura marginale composta;
- Tipo 2, frattura marginale scomposta;
- Tipo 3, frattura comminuta dell’intera epifisi;
- Tipo 4, frattura-lussazione del capitello radiale.
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Il trattamento è influenzato dalla gravità del quadro clinico.
- Trattamento conservativo, riservato a fratture composte ed extra-articolari. Prevede
l’immobilizzazione con apparecchio gessato, di durata non superiore a 18-20 giorni, in quanto il
gomito va mobilizzato il più precocemente possibile, data la sua tendenza intrinseca a sviluppare
quadri di rigidità articolare. In quest’ottica, si opta per un compromesso, ovvero un’immobilizzazione
di breve durata che consenta la formazione di un principio di callo osseo, associata ad una
mobilizzazione precoce e molto cautela da parte del fisioterapista, per evitare l’insorgenza di rigidità
articolare;
- Trattamento chirurgico, differenziato sulla base del tipo di frattura:
o Per fratture semplici o marginali scomposte, si esegue riduzione e sintesi mediante placche
dedicate e/o viti libere;
o per contro, nel caso di fratture multiframmentarie articolari dove risulterebbe impossibile
una ricostruzione corretta, si opta per l’asportazione del capitello radiale, la quale garantisce
la scomparsa della sintomatologia dolorosa, ma determina l’insorgenza di instabilità in valgo
del gomito. Ad oggi, questa complicanza è ormai superata grazie all’introduzione della
sostituzione protesica di capitello radiale.
Nel valutare una lussazione di gomito, la priorità è la ricerca di complicanze associate. Le principali possono
essere:
- Compressione vascolare, in particolare dell’arteria brachiale. È necessario valutare i polsi periferici
e la perfusione di avambraccio e mano (colore e calore);
- Compressione nervosa, soprattutto a carico di nervo mediano e nervo ulnare. Bisogna valutare
l’eventuale presenza di deficit sensitivi e/o motori;
- Lesioni cutanee (esposizioni), le quali sono molto rare nelle lussazioni isolate, poiché non vi sono
margini ossei taglienti, a differenza delle fratture nelle quali i margini ossei possono interrompere il
rivestimento cutaneo.
Queste complicanze possono manifestarsi in virtù della conformazione anatomica del gomito, una sede
piccola ma ricca di strutture nobili, per cui un’alterazione di tale regione può arrecare danno alle strutture in
essa contenute.
Queste lussazioni si associano frequentemente a fratture particolarmente instabili, con spiccata tendenza
alla perdita dei rapporti articolari:
- Fratture della coronoide;
- Fratture del capitello radiale.
Infatti, la dinamica della lussazione, che prevede la traslazione posteriore dell’ulna, determina la frattura
della coronoide (anteriore), mentre l’olecrano (posteriore) non viene lesionato. Lo stesso discorso vale nel
caso della traslazione posteriore del radio (frattura del capitello radiale).
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Altre condizioni spesso associate alle lussazioni posteriori sono a carico delle inserzioni ossee dei muscoli
epicondiloidei e/o epitrocleari, ovvero si possono verificare fratture da avulsione dell’epicondilo piuttosto
che dell’epitroclea. Queste lesioni si sviluppano in seguito alla violenta e repentina contrazione dei muscoli
estensori e/o flessori del polso in risposta al trauma, configurandosi come un meccanismo di difesa che
tuttavia risulta deleterio causando il distacco dell’epicondilo e/o dell’epitroclea, a seconda del
compartimento muscolo-tendineo coinvolto.
Si deve porre particolare attenzione alla possibile interposizione articolare del frammento distaccato e, nei
distacchi epitrocleari di notevole entità, valutare la possibile trazione sul nervo ulnare.
Il trattamento di una lussazione posteriore senza lesioni associate prevede una manovra di riduzione
manuale a cielo chiuso in anestesia generale (solo in pazienti giovani si può tentare di evitare l’anestesia, se
questi sopportano adeguatamente la percezione dolorifica). L’anestesia (o la sedazione) viene effettuata per
due motivi principali:
- annullare la percezione dolorifica del paziente, essendo una manovra molto dolorosa se svolta senza
anestesia;
- garantire un’efficace curarizzazione, in modo da consentire il rilassamento delle masse muscolari che
altrimenti si contrarrebbero a scopo antalgico.
La manovra di riduzione viene eseguita a gomito flesso, e consiste nella trazione anteriore dell’avambraccio
associata a contro-estensione del braccio, fino a percepire uno scatto indice dell’avvenuto ripristino dei
rapporti articolari. Può essere di supporto anche effettuare una pressione sull’olecrano. Una volta ricostituita
l’anatomia dell’articolazione, la conferma è data dalla possibilità di muovere fisiologicamente il gomito.
A seguito della riduzione, si procede con un’immobilizzazione in apparecchio gessato (o tutore) che non deve
durare più di 20 giorni, al fine di prevenire rigidità articolari post-traumatiche potenzialmente invalidanti (con
impatto negativo sullo svolgimento delle normali attività quotidiane).
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7.2.B.2 Lussazioni ANTERIORI
Sono lesioni più rare rispetto alle posteriori, e sono conseguenti a traumi
ad alta energia agenti sul versante posteriore dell’avambraccio prossimale
(un meccanismo tipico può essere la caduta dalle scale con avambraccio
flesso sul braccio, dove l’urto violento del gomito contro lo scalino
determina la traslazione anteriore dell’ulna e/o del radio rispetto
all’omero). Si associano molto spesso a quadri complessi di fratture
dell’olecrano (fratture-lussazioni).
Sono lussazioni più frequentemente associate a lesioni vascolo-nervose rispetto alle posteriori, in accordo
con la dinamica del trauma che vede le ossa dell’avambraccio traslare anteriormente rispetto all’omero,
potendo causare lesioni all’arteria brachiale e/o al nervo mediano.
Per tale motivo risulta essere fondamentale, ancor più che nelle lussazioni posteriori, eseguire uno
scrupoloso esame obiettivo volto alla ricerca di eventuali deficit sensitivo-motori e/o alterazioni dei polsi
periferici.
Il trattamento è chirurgico (in urgenza) mediante osteosintesi dell’olecrano e delle fratture associate (quasi
sempre presenti).
Il trattamento prevede la riduzione manuale della lussazione, la quale consiste nella supinazione associata a
flessione dell’avambraccio, seguita dalla sensazione palpatoria di scatto che indica il ripristino dei normali
rapporti articolari. Una volta rimesso in sede il capitello radiale, la sintomatologia dolorosa scompare
improvvisamente, ed il gomito riacquisisce la propria funzionalità.
Solitamente, non è richiesta l’immobilizzazione.
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7.2.B.3 Lussazioni del capitello radiale
La lussazione isolata del capitello radiale è abbastanza
rara, è più frequente l’associazione con una concomitante
frattura dell’ulna. Infatti, poiché si tratta della struttura di
maggiore stabilità del gomito, affinché il capitello radiale
possa uscire dalla propria sede anatomica è quasi sempre
necessaria la presenza di un contemporaneo
accorciamento dell’ulna, secondario ad una frattura
dell’ulna.
L’associazione della lussazione del capitello radiale e della frattura del terzo prossimale dell’ulna è definita
frattura-lussazione di Monteggia. Questa lesione viene trattata con riduzione della lussazione e sintesi
dell’ulna con placca e viti.
Nei casi più severi (vedi radiografia in alto a sx), il gomito perde la propria funzionalità, e sono necessari
interventi chirurgici demolitivi per ripristinare quanto più possibile l’articolarità del gomito, fino alla
sostituzione protesica dell’intera articolazione.
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7.2.D Patologie degenerative del gomito
7.2.D.1 Borsite
La borsite è una condizione caratterizzata da un processo flogistico a carico della borsa sinoviale in sede
olecranica.
7.2.D.2 Epicondilite
L’epicondilite è una condizione clinica caratterizzata da un processo infiammatorio a carico dei tendini di
origine dei muscoli estensori del polso e delle dita (muscoli epicondiloidei).
La patogenesi è tipicamente un sovraccarico funzionale, dovuto all’esecuzione ripetitiva di un gesto atletico
(tennis, da cui “gomito del tennista”) non proporzionale alle proprie capacità di recupero.
La diagnosi è clinica e prevede la palpazione dell’epicondilo mentre il paziente estende il polso contro
resistenza; il test è positivo se la manovra evoca dolore.
L’esame ecografico può essere utile nel definire l’entità del processo flogistico, ma la diagnosi resta clinica.
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In prima istanza, il trattamento è conservativo, e prevede l’astensione dall’esecuzione del gesto atletico
(riposo); possono essere di supporto infiltrazioni di steroidi a livello dell’epicondilo e, in un secondo tempo,
la somministrazione di plasma ricco in piastrine (PRP), un concentrato di fattori di crescita derivato dalle
piastrine, nel caso la sintomatologia non migliori.
In caso di fallimento del trattamento conservativo, l’approccio diventa
chirurgico, e prevede lo scollamento dei tendini con successiva re-inserzione
circa 4-5 mm a valle rispetto alla loro origine fisiologica, ottenendo la
diminuzione della tensione tendinea e conseguentemente la diminuzione (o
scomparsa, a seconda dei casi) della sintomatologia dolorosa.
7.2.D.3 Epitrocleite
L’epitrocleite (“gomito del golfista”) si caratterizza per la presenza di un processo flogistico a carico dei
tendini di origine dei muscoli flessori del polso e delle dita (muscoli epitrocleari).
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Lezione 7 – parte 3 (patologia traumatica e degenerativa della caviglia)
Sbobinatore: LSA
Docente: Zarattino
Di fondamentale importanza per la stabilità articolare sono le strutture legamentose, organizzate in tre
compartimenti:
- Laterale (esterno), che comprende i legamenti peroneo-astragalico anteriore (PAA), peroneo-
astragalico posteriore (PAP) e peroneo-calcaneare (PC);
- Mediale (interno), formato dal legamento deltoideo;
- Legamenti interossei, sono il tibio-peroneale anteriore e posteriore formanti la sindesmosi tra tibia
e perone, che li mantiene uniti all’astragalo, ed il legamento a siepe astragalo-calcaneare.
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Le lesioni traumatiche che interessano con maggiore frequenza la caviglia sono le distorsioni, ed il
meccanismo principale consiste nella inversione (supinazione) del piede, con lesione di vario grado dei
legamenti laterali (il traumatismo in eversione è raro, questo spiega la minore frequenza di lesioni del
legamento deltoideo).
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Il meccanismo traumatico può comprendere:
- Inversione (il più frequente);
- Eversione (molto meno frequente);
- Trauma da contraccolpo (caduta dall’alto);
- Schiacciamento;
- Iperflessione;
- Iperestensione.
Il trauma acuto da inversione della tibio-tarsica rappresenta la classica distorsione, ed assieme a distorsione
del rachide cervicale e lombalgia è uno dei motivi più frequenti di accesso al PS ortopedico da parte del
paziente. Questo tipo di lesione avviene principalmente per traumi sportivi, essendovi sport molto inclini a
poter determinare distorsioni (calcio, pallavolo, basket, rugby…), ma anche in seguito ad incidenti stradali,
domestici e sul lavoro.
DISTORSIONI
Il principale meccanismo responsabile è un trauma in inversione (supinazione), con conseguente stiramento
e lesione (di vario grado) dei legamenti del compartimento laterale (PAA, PAP, PC); di questi, il legamento
peroneo-astragalico anteriore (PAA) è il maggiormente interessato da questo tipo di trauma (circa 80-85%
dei casi).
Il traumatismo in eversione (pronazione), con lesione del legamento deltoideo (compartimento mediale),
rappresenta solo il 10% delle distorsioni di tibio-tarsica.
E’ da considerare che nell’80-85% dei casi di distorsione in inversione si manifesta la rottura del legamento
peroneo-astragalico anteriore, ma la cui lesione non determina instabilità dell’articolazione; affinché si abbia
instabilità articolare, deve co-manifestarsi la rottura di tutti e tre i legamenti laterali (PAA, PAP, PC).
Nel caso di una distorsione in eversione, l’eventuale rottura del legamento deltoideo determina solitamente
instabilità della caviglia, necessitando quindi di un trattamento ad hoc.
Nel valutare una distorsione, è fondamentale l’esame clinico, che deve sempre prevedere anche la
valutazione della continuità del tendine d’Achille e la potenziale lesione della base del 5°metatarso, poiché
nelle lesioni del comparto laterale la meccanica del trauma può prevedere una forte trazione dei muscoli
peronei, che si inseriscono sulla base del 5°metatarso, potendone causare il distacco; la palpazione di queste
strutture è quindi d’obbligo. L’esame radiografico standard della tibio-tarsica, infatti, non prevede lo studio
del piede, pertanto se all’esame obiettivo si evidenzia questo reperto, la sua valutazione radiografica può
così essere esplicitamente richiesta.
Clinica
Le manifestazioni cliniche dipendono dalla severità del trauma:
- Lesioni di tipo 0: dolore senza tumefazione;
- Lesione di tipo 1: dolore in sede anteriore (PAA); tumefazione perimalleolare esterna con o senza
ecchimosi;
- Lesione di tipo 2: dolore in sede anteriore e perimalleolare esterna fino al calcagno (sia a riposo che
sotto carico); tumefazione importante nella stessa sede con ecchimosi;
- Lesione di tipo 3: dolore importante in sede anteriore, perimalleolare esterna e calcaneare con
ecchimosi; tumefazione diffusa laterale con ecchimosi (il carico risulta impossibile).
Test di valutazione
Esistono test clinici per valutare la stabilità della caviglia:
- Squeezing test per la sindesmosi tibio-peroneale: consiste nel “pinzare” con la mano il terzo distale
di tibia e perone e valutare la presenza di movimento (fisiologicamente assente, in quanto la
sindesmosi rende solidali i due segmenti ossei); la presenza di movimento determina la positività
della manovra ed è indice di instabilità articolare;
- Test del cassetto astragalico anteriore: si posiziona una mano sul terzo distale della gamba,
stabilizzandola, mentre l’altra mano afferra il calcagno ed effettua una traslazione anteriore del piede
mentre la gamba resta fissa; se il piede si antepone rispetto alla gamba il test è considerato positivo
e testimonia un’instabilità della caviglia;
- Test della stabilità mediale per il legamento deltoideo, effettuata in eversione del piede.
Questi test non possono essere effettuati in fase acuta, in particolare modo nelle lesioni di grado 2 e 3, in
virtù dell’importante dolore e tumefazione; pertanto, si rende necessaria una valutazione specialistica a
distanza di una settimana dall’evento traumatico.
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Diagnosi
I’iter diagnostico si articola nel seguente modo:
- Anamnesi;
- Esame obiettivo: ispezione e palpazione;
- Esame radiografico: volto ad escludere la presenza di fratture;
- Ecografia: poco specifica ed operatore-dipendente; può essere indicata nelle lesioni di grado 2 o 3;
- RM: è importante nel caso si sospetti la presenza di lesioni osteocondrali associate a distorsioni di
tipo 2 o 3 (soprattutto a carico dell’astragalo);
- TC: se vi sono fratture dubbie alla RX.
Bisogna insistere sul fatto che ecografia, RM e TC sono esami di secondo livello, quindi vanno prescritti solo
in particolari circostanze; l’esame clinico è infatti quasi sempre dirimente la diagnosi. Inoltre, in presenza di
lesione isolata del legamento peroneo-astragalico anteriore (PAA), la richiesta di esami di secondo livello non
è giustificata, poiché trattasi di una lesione che non altera la stabilità della caviglia.
Un esame particolarmente impiegato fino ad una quindicina di anni fa (il docente lo ritiene essere un esame
tuttora affidabile) è rappresentato dall’RX dinamica (con TELOS), caratterizzato dall’esecuzione di un esame
radiografico della caviglia forzatamente posta in
cassetto anteriore (in modo da stressare le strutture
legamentose), al fine di evidenziare sia lesioni della
tibio-tarsica che della sotto-astragalica, responsabili di
instabilità articolare. Secondo il professore, questa
metodica è molto più sensibile rispetto a RM ed
ecografia (le quali possono mostrare immagini confuse
in fase acuta), in quanto evidenzia molto bene la
traslazione dell’astragalo rispetto alla tibia,
consentendo di formulare una diagnosi precisa;
ovviamente, non va eseguita nell’immediato periodo
post-traumatico, bensì a distanza di 7-15 giorni dal
trauma.
Trattamento
A seconda della gravità della distorsione, il trattamento può essere:
- Conservativo, nelle lesioni di tipo 0,1 e 2;
- Chirurgico, nelle lesioni di tipo 3 quando associate a lesioni secondarie e/o complicanze.
Nelle lesioni acute il trattamento iniziale è sempre incruento; il protocollo terapeutico accettato a livello
internazionale è il protocollo RICE:
- Restore;
- Ice;
- Compression;
- Elevation.
Quindi, la prima fase consiste in: riposo, ghiaccio sulla sede coinvolta, arto in scarico, posizionamento di
bendaggio anti-edemigeno associati ad una cauta mobilizzazione.
È molto dibattuto il tema dell’immobilizzazione post-traumatica con apparecchio gessato. Alcuni medici lo
effettuano tuttora, sebbene siano stati pubblicati lavori scientifici che evidenziano come l’immobilizzazione
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non permetta una corretta guarigione delle strutture legamentose (con perdita di elasticità); pertanto,
l’immobilizzazione viene impiegata per breve tempo (al massimo 1 settimana) e solo in condizioni peculiari:
- Quando la caviglia presenta una notevole tumefazione e il piede è atteggiato in posizione equina (a
scopo antalgico);
- In presenza di distacchi ossei che indicano lesioni legamentose da strappo.
Dopo 3-4 settimane (sempre in base alla clinica) si iniziano esercizi propriocettivi, mentre per il ritorno
all’attività sportiva si attende almeno 30 giorni dalla distorsione.
La propriocezione è definita come la percezione nello spazio di un segmento
corporeo, in questo caso dell’articolazione della caviglia; può essere allenata
con il supporto di specifiche tavolette (di Freeman), che permettono al paziente
di riacquisire progressivamente il controllo e la stabilità dell’articolazione. E’ stato dimostrato che la
riabilitazione precoce attraverso esercizi volti ad implementare la propriocezione si associa a riduzione delle
recidive.
Nella maggior parte dei casi, il trattamento è conservativo, poiché le lesioni legamentose laterali cicatrizzano
e quindi vanno incontro a guarigione spontaneamente, senza lasciare particolari sequele, a condizione che
non vi siano lesioni associate; per contro, ci sono situazioni che richiedono un approccio cruento:
- Presenza di lesioni associate: la lesione del legamento deltoideo va corretta chirurgicamente, tramite
sutura dello stesso, così come le fratture e le lesioni di grado severo richiedono un intervento
chirurgico;
- Se il paziente presenta esigenze sportive particolari, tali da richiedere una correzione chirurgica della
lesione;
- Se l’RX con TELOS è positiva, anche nel caso di coinvolgimento della sotto-astragalica.
Il trattamento chirurgico è diversificato a seconda della fase della patologia:
- Fase acuta: sutura diretta dei legamenti o reinserzione trans-ossea con àncora (principalmente
riguarda il legamento deltoideo); in caso di apertura della sindesmosi, chiusura della sindesmosi con
vite trans-sindesmosica, mantenuta per circa un mese a consentire la guarigione;
- Fase cronica: plastiche di ricostruzione secondo Brostrom-Gould per i legamenti laterali; trasposizioni
tendinee (poco eseguite).
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FRATTURE-LUSSAZIONI
Rappresentano lesioni abbastanza frequenti, e mostrano una certa eterogeneità; possono essere suddivise
in:
- Frattura monomalleolare;
- Frattura bimalleolare con o senza lussazione associata;
- Frattura trimalleolare con o senza lussazione associata (la superficie posteriore del terzo distale della
tibia presenta il “terzo malleolo”);
- Frattura dell’astragalo con o senza lussazione associata;
- Frattura del mortaio tibiale.
Tipicamente, queste fratture si associano a lesioni legamentose del compartimento opposto a quello
interessato dal trauma.
Iter diagnostico
L’esame clinico è prioritario, ed il paziente si presenta tipicamente con:
- Deformità dell’articolazione;
- Tumefazione;
- Dolore di intensità variabile;
- Impotenza funzionale;
- Possibile assenza dei polsi periferici (tibiale posteriore e pedidio), da valutare con attenzione.
L’esame radiografico va richiesto in almeno tre proiezioni, mentre la TC, trattandosi di fratture articolari,
andrebbe sempre eseguita, in quanto alcune fratture (dell’astragalo in particolare) possono non essere
evidenziate dalla radiografia, ma presenti alla TC; riconoscendole, si evita l’insorgenza di sequele a distanza
di tempo.
Trattamento
La terapia conservativa è generalmente riservata alle fratture composte, prevedendo immobilizzazione con
stecca o gesso; tuttavia, la maggioranza delle fratture viene trattata chirurgicamente, tramite riduzione e
sintesi con placca e viti e/o posizionamento di fissatore esterno.
Fratture trimalleolari
Il trattamento consiste nel posizionamento di una placca con viti a livello del terzo distale del perone, di una
vite volta a sintetizzare il malleolo mediale, ed una piccola vite a carico del “terzo malleolo”.
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Fratture-lussazioni con lesione del legamento deltoideo e della sindesmosi
In questo caso si effettua riduzione e sintesi con placca e viti, inserendo la vite trans-sindesmosica per
ripristinare l’anatomia della sindesmosi tibio-peroneale, e sutura del legamento deltoideo con punti trans-
ossei o con àncora.
Un trattamento simile viene eseguito nel caso di frattura del malleolo peroneale con lesione della sindesmosi
(immagini in basso a destra); la vite trans-sindesmosica viene rimossa circa dopo un mese dall’intervento
chirurgico.
In caso di frattura del terzo distale del perone e del “terzo malleolo” (malleolo posteriore), il trattamento
prevede comunque riduzione e sintesi con placca e viti, in aggiunta al posizionamento di due piccole viti in
direzione antero-posteriore per la sintesi del malleolo posteriore.
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Fratture-lussazioni bimalleolari con lesioni del meso-piede
Si tratta di una lesione abbastanza immediata da diagnosticare alla radiografia, mentre le lesioni associate
del meso-piede risultano più insidiose, e necessitano di uno studio TC; se da un lato la frattura-lussazione
viene trattata con osteosintesi tramite placca e viti, l’instabilità del meso-piede invece prevede generalmente
l’impiego di fili di Kirschner.
Fratture di astragalo
Si configura spesso come una diagnosi difficoltosa, che necessita di plurime proiezioni radiografiche (antero-
posteriore, latero-laterale ed obliqua) ed eventualmente valutazione TC.
Il trattamento consiste in riduzione e sintesi con viti. La particolarità dell’astragalo, comune allo scafoide del
carpo, è la delicata vascolarizzazione; infatti, una frattura dell’astragalo non correttamente trattata può
evolvere in necrosi astragalica e successivo crollo dell’astragalo, il quale determina un’importante invalidità
del paziente. Dunque, è fondamentale riconoscere e trattare precocemente lesioni di questo tipo.
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Fratture-lussazioni tibio-astragalo calcaneari
Trattasi di un trauma complesso, infatti la lussazione dell’astragalo richiede un trattamento chirurgico in
grado di stabilizzare adeguatamente la tibio-tarsica. Si esegue riduzione e sintesi del malleolo tibiale con viti,
mentre l’astragalo viene sintetizzato con fili di Kirschner; inoltre, viene posizionato un fissatore esterno che
mantiene la tibio-tarsica in distrazione, condizione necessaria per permettere la guarigione delle strutture
legamentose.
Le immagini sottostanti mostrano l’aspetto radiografico ed il relativo trattamento chirurgico di piede piatto
e piede cavo supinato, rispettivamente.
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Iter diagnostico-terapeutico
L’esame clinico evidenzia segni e sintomi che, associati ad un’anamnesi completa, permettono di porre il
sospetto diagnostico:
- Sintomi: dolore, rigidità e cedimento articolare;
- Segni: deformità, tumefazione e rigidità articolare con deficit dell’escursione articolare (Range Of
Motion, ROM).
La diagnostica per immagini prevede:
- Radiografie in carico;
- TC;
- RM: importante per valutare la sofferenza ischemica dell’osso.
Un esame utile in caso di esiti di lesioni neurologiche è l’elettromiografia (EMG).
Di fronte ad un paziente affetto da artrosi della caviglia, il trattamento può essere conservativo, tramite
l’utilizzo di tutori ortopedici, plantari correttivi e scarpe con suola ammortizzante, oppure chirurgico; nel
secondo caso, le opzioni terapeutiche sono due:
- Artrodesi dell’articolazione tibio-tarsica: è tuttora il gold standard, e consiste nella fusione dei capi
articolari di tibia e talo (astragalo), consentendo una risoluzione completa della sintomatologia
dolorosa, ma comportando una limitazione funzionale, tuttavia discretamente compensata dalle
articolazioni di avampiede e mesopiede;
- Sostituzione protesica: la sua applicazione dipende molto dalle scuole di pensiero, in quanto ad oggi
la letteratura non ha evidenziato l’ottenimento di buoni risultati a lungo termine.
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Lezione 7 – parte 4 (instabilità di spalla)
Sbobinatore: G.B.
Docente: Giuseppe Milano
Argomenti: spalla instabile
1L’enartrosi è un’articolazione mobile (diartrosi) le cui superfici articolari sono costituite da una forma sferica (o semisferica) e da
una concavità a sua volta sferica. I movimenti consentiti sono quelli di rotazione, flessione, estensione, aduzione e abduzione. Oltre
alla spalla, altre articolazioni sono quella coxofemorale e quella talo-navicolare.
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Per migliorare la stabilità intrinseca esistono strutture che favoriscono:
• la stabilizzazione passiva o statica: migliorano la congruenza delle superfici articolari, la geometria e
tutto ciò che può migliorare la stabilità; si tratta di legamenti gleno-omerali (tra scapola e omero),
menischi (labbro o cercine glenoideo), manicotto capsulare che unisce i capi articolari (quindi la
capsula articolare);
• la stabilizzazione dinamica: cuffia dei rotatori, muscolo deltoide e muscoli peri-scapolari. In
un’articolazione ad alta congruenza come quella dell’anca svolgono un ruolo minore (hanno un ruolo
motorio, essendo muscoli), ma nella spalla sono più importanti. Quando questi muscoli stabilizzatori
si contraggono aumenta la compressione tra la testa omerale e la glena e la stabilità intrinseca
dell’articolazione migliora.
Per questo nella spalla, molto più che in tutte le altre articolazioni, i gruppi muscolo-tendinei (in
particolare la cuffia dei rotatori che si trova sopra la testa dell’omero e lo abbraccia) avendo un ruolo
molto importante nella stabilizzazione, si usurano facilmente. Infatti, quando un’unità muscolo-
tendinea è chiamata a svolgere un ruolo di stabilizzazione importante, invecchia precocemente. In
questo caso l’invecchiamento comincia intorno ai 30 anni.
Le lesioni iniziano intorno ai 40/50 anni, anche in maniera asintomatica. Sono lesioni da usura, ma
esistono anche lesioni traumatiche.
➢ Struttura dell’articolazione
La glena ha una superficie quasi piatta, mentre la testa dell’omero è quasi sferica: questo determina una
bassa stabilità intrinseca perché il punto di contatto sarebbe puntiforme.
Tuttavia, la cartilagine della glena è più sottile al centro e più spessa in periferia: questo ne aumenta la
concavità; inoltre il cercine glenoideo, un anello fibroso che avvolge come una guarnizione la glena, aumenta
ulteriormente la concavità, anche perché fornisce delle spallette che migliorano la congruenza.
In caso di lussazione, queste strutture si rompono e quindi si perde corrispondenza: a seguito di un episodio,
molto facilmente ci saranno recidive (meno frequenti, invece, nelle altre articolazioni come il gomito).
➢ Muscoli
I principali stabilizzatori dell’articolazione gleno-omerale sono i muscoli che formano la cuffia dei rotatori
(così chiamata perché costituita da muscoli rotatori2):
• sottoscapolare anteriore: intrarotatore
• sovraspinoso superiore (sopra la spina della scapola): extrarotatore (e abduttore, in sinergia con il
deltoide);
• sottospinoso: extrarotatore;
• piccolo rotondo: extrarotatore (debole).
Il sovraspinoso svolge il suo ruolo principale come stabilizzatore durante la contrazione perché comprime la
testa dell’omero contro la glena. Per questo motivo, per migliorare la stabilizzazione, si dovrebbe aumentare
la compressione, diminuendo quindi il rischio di uscita della testa omerale.
2 Lo so, vi ho stupito.
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Altri muscoli stabilizzatori sono:
• Deltoide
• Muscoli peri-scapolari
– Trapezio
– Romboide
– Gran dorsale
– Dentato anteriore
– Elevatore della scapola
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o Eziologia:
o nella maggior parte dei casi è dovuta ad un trauma;
o esistono forme atraumatiche, in caso di pazienti con lassità costituzionale, così che basta un
banale movimento per causarla (durante il sonno o per uno starnuto);
o instabilità micro-traumatiche: instabilità che non provoca vere e proprie lussazioni, bensì
episodi di dolore. Appartengono alla gestualità ripetitiva: si compie un gesto che
singolarmente non è lesivo, ma lo diventa quando lo si ripete spesso per diverse volte al
giorno, per diverse volte all’anno. Questo succede nello sport (ad esempio il gesto del pitch
del baseball, in cui si porta la spalla in condizione di rotazione esterna massima e si sfianca
la capsula anteriore, per cui la spalla inizia ad essere così instabile davanti).
o Volontarietà: esistono pazienti che possono lussarsi la spalla e ridurla da soli. Sono soggetti
considerati iperstabili perché hanno una capacità di controllo neuromotorio tale da poter spostare
solo con la contrazione la testa dell’omero rispetto alla glena e poi di rimetterla dentro. In prima
istanza si consiglia di non farlo. Diventa patologia quando la lussazione accade senza averlo voluto.
Nella maggior parte dei casi è una situazione comunque involontaria.
Questo provoca lesioni standard, quasi presenti nel 100% dei casi:
• Lesione di Bankart: il cercine glenoideo anteriore si stacca (lesione del menisco). La testa dell’omero
spinge contro la capsula, staccando il menisco. Si perde così un meccanismo di stabilizzazione. È una
a lesione che non guarisce nella maggior parte dei casi e facilita successive “uscite di spalla”. Se oltre
al cercine si stacca anche un pezzetto d’osso si chiama lesione di Bankart ossea.
• Lesione di Perthes: nel caso in cui l’avulsione coinvolga anche il periostio e la capsula.
• Lesione di Hill-Sachs: è una frattura da impatto. La faccia posteriore della testa dell’omero, dopo
essere uscita, torna indietro e sbatte contro il bordo anteriore tagliente della glena. Rimane impresso
il bordo della glena sul bordo dell’omero, che avrà un’unghiatura. È segno di una spalla che ha avuto
lussazione anteriore. Invece l’unghiatura anteriore (Hill-Sachs inversa) è indicativa di una lussazione
posteriore.
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La lussazione di spalla può danneggiare anche il nervo circonflesso o ascellare perché esso passa proprio
nel cavo ascellare. Si tratta di una lesione da stiramento, perché la testa dell’omero va in avanti e in basso e
“tira” il nervo.
In acuto è difficile da riconoscere, perché il paziente non muove l’arto per il dolore e ha comunque la spalla
lussata. Per riconoscere questa lesione si deve valutare la componente sensitiva. Infatti, il nervo ascellare è
un nervo sensitivo-motorio:
- la componente motoria permette la contrazione del deltoide, permettendo abduzione del braccio
con sollevamento;
- la componente sensitiva innerva la regione laterale della porzione prossimale del braccio, la regione
deltoidea. Perdita di sensibilità in questa zona è indicativa di danno al nervo;
Va indagata, riconosciuta e diagnosticata prima della riduzione perché potrebbe essere attribuita dal
paziente alla manovra: infatti se non viene diagnosticata subito e poi il paziente a distanza di tempo la
sviluppa, può pensare che sia stata la manovra effettuata dal medico.
Inoltre, a questo livello passano anche l’arteria brachiale, la vena succlavia e il plesso brachiale. Una
lussazione grave e violenta può dare strappo di tutto il plesso brachiale con deficit gravi dell’arto superiore.
Ci possono essere anche delle fratture (per esempio del trochite) associate alla lussazione.
7.4.A.1 Diagnosi
Il paziente si presenta con braccio immobile e intraruotato, con limitazione funzionale. Si ha il segno della
spallina: normalmente la spalla ha un aspetto tondeggiante dato dalla testa dell’omero sotto il deltoide;
quando la spalla scende si ha un profilo laterale dritto con uno spazio (prima occupato dalla testa omerale)
vuoto. Potrebbe esserci ipoestesia o anestesia della regione deltoidea, per deficit del nervo ascellare.
Per identificare il problema, la prima cosa da fare è una radiografia per definire l’entità del danno e
diagnosticare la lesione neurologica. Per questo motivo bisogna stare attenti sul campo da gioco: non si deve
ridurre subito la lussazione, perché sotto potrebbe esserci anche una frattura.
5/7
Dopo la riduzione si deve ripetere la radiografia perché può capitare che la riduzione non si mantenga. In
quel caso probabilmente i tendini si saranno strappati e incarcerati nell’articolazione (per questo motivo
occupano spazio e impediscono un normale ripristino della congruenza): si può fare una RM o addirittura
un’esplorazione aperta.
7.4.A.2 Trattamento
Il trattamento della lussazione può essere fatto con varie manovre, dopo essersi accertati che si tratta di una
lussazione anteriore.
La manovra tradizionale è quella di Ippocrate: prevede il paziente, disteso sul lettino, avvolto in un lenzuolo
intorno al torace per controtrazione. Si tira il braccio del paziente e la testa dell’omero si disingaggia,
tornando al suo posto. Altra controtrazione si può fare col piede, premendolo direttamente sulla spalla.
Uno dei motivi di insuccesso della manovra è la contrazione antalgica, messa in atto dal paziente per
difendersi e sempre più accentuata col passare del tempo. Per questo il paziente va sedato: per evitare
dolore e per evitare contrazione.
Il trattamento di lussazione acuta non è chirurgico. Il paziente va immobilizzato per 3-4 settimane nella
speranza che la lesione del cercine diventi cicatrice in posizione corretta. Se questo accade, la spalla ripristina
la propria cinematica e geometria e torna stabile. Se non cicatrizza o lo fa in posizione viziata (quindi non
riesce a incrementare la concavità), l’instabilità permane perché il cercine non svolge più il suo ruolo.
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7.4.B.1 Diagnosi
➢ Clinica
I test clinici per fare diagnosi di instabilità sono vari, di solito si ripropone la manovra di uscita della spalla,
quindi con braccio in abduzione e in extrarotazione:
• Apprehension test: il paziente ha paura che la spalla esca e conosce il limite oltre cui non deve
andare.
• Relocation test: il paziente non ha più paura se nel fare la manovra si mette la mano sulla testa
dell’omero per trattenerlo.
• Sulcus sign: si misura la lassità legamentosa. Se tiro il braccio in basso si forma un solco tra acromion
e testa dell’omero, perché la testa scende facilmente. Il solco è visibile e palpabile. Se la lassità è
bilaterale si tratta invece di un fatto costituzionale, se è monolaterale è patologica: significa che è
stata strappata la capsula inferiore.
• Test di extrarotazione: rotazione esterna del braccio a 0 gradi di abduzione. Nel paziente
normolasso non si va oltre i 70°, mentre nel lasso si arriva anche a 90°.
• Test di Gagey: il braccio in posizione neutra viene abdotto. Ai 90°, in una spalla normale, il trochite
tocca l’acromion e non si può più spostarlo verso l’alto. Nel paziente lasso si forma uno spazio, per
cui il trochite si disimpegna e il braccio sale oltre.
È importante capire il morfotipo del paziente al fine di eseguire un trattamento chirurgico ad hoc. Infatti, la
lassità di base non va corretta, altrimenti la spalla perderà movimento. Perdere movimento è più invalidante
che perdere stabilità, quindi meglio essere lassi che rigidi. Il paziente va riportato com’era prima del
problema: questo vale soprattutto per gli sportivi, ad esempio i lanciatori che perderanno potenza nei lanci.
➢ Imaging
o Esami di primo livello: radiografia
o Esami di secondo livello: servono per avere più informazioni (ad esempio capire se ci sono danni
ossei e quanti). Si usa la TAC, perché presenta un’accuratezza migliore per valutare la componente
ossea rispetto alla risonanza. Inoltre, il danno osseo determina il tipo di trattamento chirurgico. La
RMN invece permette di vedere meglio tendini e legamenti.
7.4.B.2 Trattamento
Se il danno è limitato alla capsula e ai legamenti, l’intervento si può fare in artroscopia: senza aprire
l’articolazione, si entra attraverso piccoli fori con l’utilizzo di una telecamera e con strumenti miniaturizzati
per ridurre il labbro e riattaccarlo all’osso tramite impianti metallici chiamati “mini-ancore” (spesso
riassorbibili).
Eventualmente può essere eseguito a cielo aperto, quando il paziente ha tessuti molto logorati da una lunga
storia di lussazioni (quindi poco affidabili) e quando è presente un difetto o un’erosione ossea sulla testa
omerale e/o sulla glena, e quindi non è possibile eseguire l’intervento in artroscopia.
L’intervento è finalizzato a ritensionare la capsula ed i legamenti della spalla che hanno perso tensione e
funzionalità dopo la lussazione. Con queste mini-ancore è possibile anche reinserire piccoli frammenti di osso
distaccatisi con la lussazione (Bankart ossea).
In caso di riscontrati difetti ossei di minore entità si può attuare una tecnica particolare che reinserisce la
cuffia sul difetto osseo a colmarlo; la tecnica prende il nome di remplissage.
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Docente: Guido Zarattini
Argomenti: politrauma, frattura di bacino e rachide;
Con politrauma, in medicina, si indica un paziente ferito che presenta lesioni associate a carico di due o più
distretti corporei (cranio, rachide, torace, addome, bacino, arti) con compromissione delle funzioni vitali
(respiratorie e/o circolatorie). Lo scenario più ricorrente è rappresentato dagli incidenti stradali, mentre gli
incidenti sul lavoro rappresentano circa il 10-15% dei casi.
La prima fase di trattamento è rappresentata dal primo soccorso in cui il personale medico attua, a seconda
delle condizioni del soggetto, le eventuali manovre rianimatorie, il controllo delle vie aeree e del battito
cardiaco.
L’avvento di eliambulanze, auto-mediche ed altri mezzi di soccorso ha fatto sì che molti soggetti, che un
tempo andavano incontro a morte, ora arrivino in ospedale vivi e diventino quindi pazienti ortopedici (e non
solo).
A migliorare ulteriormente la sopravvivenza ha contribuito anche il cambiamento dell’organizzazione del
pronto soccorso, con l’entrata in funzione dei “Trauma Center” (a Brescia è presente un “trauma center” di
2° livello. In Lombardia è l’unico insieme solo al Niguarda ed a Pavia) che mettono a disposizione una saletta
di emergenza con un medico (rianimatore, di medicina generale o d’urgenza) che è in grado di fare un bilancio
immediato delle lesioni con prognosi peggiore, generalmente quelle di natura vascolare. Si ha, quindi, la
possibilità di fare in emergenza una Eco-FAST, che non ha la stessa finezza diagnostica di un’ecografia fatta
in elezione, ma che fornisce, comunque, informazioni molto importanti. Inoltre vi è un’organizzazione tale
per cui quasi tutti i pazienti politraumatizzati vengono sottoposti, nel giro di pochi minuti, ad una TC TOTAL
BODY anche con MDC (che ha una velocità di acquisizione delle immagini di 4/5 minuti, quindi molto rapida).
Se questa evidenzia un sanguinamento, ad esempio in addome, addirittura è possibile mandare in pochi
minuti il paziente in sala angiografia per chiudere l’eventuale emorragia (considerato dal professore il vero
intervento salvavita, che ha cambiato completamente la prognosi di molti pazienti).
Dal punto di vista ortopedico, l’evento più importante, anche come “prognosi quoad vitam1”, sono le fratture
di bacino. Queste sono di vario tipo, ma sicuramente la frattura di tipo “open book” del bacino rappresenta
quella più pericolosa.
Essa è molto facile da individuare, basta appoggiare una mano a livello della sinfisi pubica. Se si percepisce
un buco al posto dell’osso, si è di fronte ad un caso di bacino aperto. Un tempo veniva risolta tramite
l’impianto di un fissatore esterno in sala operatoria.
1 Prognosi che fa riferimento alla sola sopravvivenza, senza pronunciarsi in merito al riacquisto della salute o a un recupero funzionale
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Oggi, invece, esiste una sorta di fascia lombare, posizionata direttamente dal
rianimatore, che viene chiusa con dei tiranti molto resistenti e con l’ausilio di 4
cricchetti. Questo device prende il nome di T-POD (immagine a fianco).
Solitamente questi pazienti muoiono per via delle massive emorragie che si vengono a manifestare.
L’apertura del bacino crea una pressione negativa all’interno della pelvi, favorendo il sanguinamento: se si
va a chiuderlo, la pressione negativa nella pelvi tende a tornare positiva, promuovendo l’interruzione della
fuoriuscita di sangue in vasi di calibro minore. Questo è il motivo per cui una condizione di bacino aperto, che
una volta era di competenza prettamente ortopedica, ora può essere risolta, almeno temporaneamente,
anche da un medico di primo soccorso, con un aumento della sopravvivenza dei pazienti.
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3. Fratture vertebrali mieliche: si tratta di un argomento molto dibattuto perché, secondo la
letteratura, operando tempestivamente una frattura mielica, non si hanno maggiori chances di
recupero rispetto ad un’attesa nell’intervento. Logicamente, la prima cosa che viene in mente è che
“prima si opera e meglio è”, ma la letteratura non supporta questa tesi e perciò, nonostante
rappresenti comunque un’urgenza, questa situazione va in coda a fratture open del bacino o
lussazioni.
4. Lussazioni delle piccole/grandi articolazioni: è importante andarle a trattare perché possono
comprimere le strutture vascolari e nervose.
5. Fratture diafisarie delle ossa lunghe: in particolare quelle del femore, sono un problema perché tali
ossa sono strutture molto vascolarizzate. Infatti per una semplice frattura trasversa del femore, un
paziente può perdere anche 1.5 litri di sangue, quindi è una frattura banale da trattare ma
potenzialmente pericolosa. Se fosse una frattura bilaterale di femore o associata (femore + tibia), a
quel punto il paziente potrebbe perdere invece fino a 3 litri di sangue, necessitando quindi di un
ricovero imminente in rianimazione. Come nelle fratture esposte, anche in questo caso si interviene
o con un fissatore esterno in urgenza o tramite l’utilizzo di un chiodo endomidollare.
Articolazioni
La sacro-iliaca è un’articolazione ipo-mobile dotata di capsula articolare, i cui capi sono rivestiti da un sottile strato di
cartilagine ialina che prevede nella maggioranza dei casi l’interposizione di un disco cartilagineo: l’articolazione si
definisce in questo caso anfiartrosi; qualora il disco non fosse presente si forma una vera e propria artrodia.
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Lo stretto superiore si disegna bilateralmente su una linea che nella parte posteriore origina dal promontorio e dal
margine superiore delle ali del sacro, si continua lateralmente nella linea arcuata e nella cresta pettinea per chiudersi
anteriormente sul tubercolo pubico e sulla cresta pubica. Le pareti della grande pelvi sono formate dalle ampie
superfici delle fosse iliache delle ossa dell'anca. Le pareti della piccola pelvi sono invece formate posteriormente dalla
superficie anteriore dell'osso sacro e del coccige, anteriormente dalla superficie posteriore del pube e lateralmente
dalla superficie mediale dell'ischio e del ramo del pube.
La piccola pelvi termina inferiormente con un restringimento, anch'esso di forma ovalo-circolare, che costituisce lo
stretto inferiore, il quale si disegna bilateralmente su una linea che nella parte anteriore origina dalla sinfisi pubica e
seguendo il margine inferiore dei rami ischiopubici e delle tuberosità ischiatiche, si continua lateralmente nel margine
inferiore dei legamenti sacrotuberosi e si chiude posteriormente all'apice del coccige.
Le fratture a livello del bacino possono essere suddivise in 2 tipi e sono in funzione dell’entità del danno
(considerando la presenza di vasi di calibro importante e di organi nobili):
1) Fratture con interruzione del cingolo pelvico (instabili)
2) Fratture senza interruzione del cingolo pelvico (stabili)
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8.A.1 Fratture CON interruzione del cingolo pelvico
Sono caratterizzate dall’interruzione della parete di un emibacino o dall’interruzione a livello di ¼ di bacino
(si parla di “floating hip”, ossia “anca flottante”). Si tratta in entrambi i casi di lesioni molto instabili.
Per quanto riguarda il grosso bacino (quindi escluso l’acetabolo) la classificazione AO2 è quella
maggiormente utilizzata: essa classifica le fratture in funzione della gravità, al fine di guidare il trattamento.
2
La classificazione più utilizzata per descrivere le fratture di bacino è la classificazione di Tile, tuttavia la classificaizone AO ha
“inglobato” i caratteri di quella di Tile. Vi lascio un piccolo specchietto sulla classifcazione AO.
La classificazione AO serve da vero e proprio riferimento al chirurgo per individuare la procedura più adatta al trattamento di una
singola lesione ossea ed inoltre la sua struttura consente, anche a chirurghi distanti tra loro geograficamente o con idiomi diversi di
parlare un’unica lingua. Si basa su uno schema fisso del tipo: numero.numero.lettera(.numero), ognuno con un significato preciso:
- Il primo numero indica il segmento scheletrico in modo univoco: braccio = 1; avambraccio = 2; […]; bacino = 6;
- Il secondo numero indica la localizzazione relativa della frattura: prossimale (1), intermedia (2) e distale (3);
- La lettera indica la gravità della lesione: bassa (A), intermedia (B), massima (C);
- Un’eventuale ultima lettera precisa il livello di gravità all’interno della classe precedente;
- Una frattura classificata come 1.2.A.1 indica una frattura a carico del terzo medio dell’omero di gravità bassa (A.1).
Probabilmente vi state chiedendo come mai un ortopedico straniero non possa semplicemente osservare la radiografia invece che
scartabellare chissà quale manuale per risalire a che tipo di frattura ha davanti. SAREBBE TROPPO FACILE.
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TIPO B: Si tratta di una lesione parzialmente instabile con una diastasi a livello della sinfisi pubica e,
posteriormente, una lesione a livello della articolazione sacro-iliaca. Si ha una rottura incompleta dell’arco
posteriore: la frattura è stabile in senso verticale, ma instabile in senso rotatorio. Si ha una conservazione
parziale della continuità osteo-legamentosa posteriore. È una lesione in cui il pavimento pelvico è intatto ed
in cui il carico fisiologico determina deformità.
In particolare:
- B1: definita "open book" fracture, in cui aumentano i diametri del bacino, con rischio di
emorragia a causa della pressione negativa che si viene a creare. Si verifica a seguito di una
compressione sagittale che interrompe l’arco anteriore e provoca l’apertura anteriore
dell’articolazione sacro-iliaca:
▪ Disgiunzione sacro-iliaca anteriore
▪ Frattura del sacro
- B2 (closed book): una compressione laterale interrompe l’arco anteriore e sollecita in chiusura
anteriore l’articolazione sacro-iliaca; in soldoni:
▪ Frattura con schiacciamento anteriore del sacro
▪ Lussazione parziale sacro-iliaca
▪ Frattura incompleta posteriore dell’ala iliaca
- B3: interruzione dell’arco anteriore + frattura posteriore bilaterale; le possibili combinazioni sono:
▪ B1 dei 2 lati
▪ B1 + B2
▪ B2 dei 2 lati
TIPO C: Si tratta di una lesione francamente instabile con distrazione3 verticale in cui si ha una rottura
completa dell’arco posteriore. La distrazione verticale comporta la dislocazione completa o l’instabilità di una
o entrambe le pelvi.
In particolare:
- C1: Rottura completa dell’arco posteriore, unilaterale
- C2: Rottura completa dell’arco posteriore di un lato e incompleta dell’altro; un lato è instabile in
senso rotatorio, l’altro in senso verticale.
- C3: Rottura completa dell’arco posteriore, bilaterale; instabilità verticale bilaterale.
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8.A.1.2 Classificazione in base alla direzione dell’urto (cl. di Young-Bourgess)
➢ Urto antero-posteriore: frattura “open book” (che si verifica in caso di frattura di entrambe le branche
ileo-ischio-pubiche, interruzione della sinfisi pubica…)
➢ Fratture con compressione verticale: sono tipiche dei tentati suicidi, con il paziente che si lancia dalla
finestra. Tipiche di questi casi sono le “dissociazioni spino-pelviche” in cui entrambi i lati del bacino hanno
perso la continuità con l’articolazione sacro-iliaca. È una lesione molto grave e anche abbastanza
complessa da trattare. Tra queste si distinguono:
- Frattura di Malgaigne: grave frattura del bacino dalla branca anteriore del pube fino all'osso
ischiatico ed all'ala iliaca per discendere fino all'articolazione sacro-iliaca
- Frattura di Vollemier: interessamento della branca ischio-pubica e dei fori sacrali omolaterali.
Questo è un problema perché da questi ultimi passa la componente nervosa e quindi si potrebbero
avere problemi neurologici (come ad esempio incontinenza fecale) di entità diversa a seconda
della deformità della frattura.
- Frattura quadrupla vertebrale
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8.A.1.3 Quadro clinico
I pazienti politraumatizzati con una frattura del bacino lamentano dolore (non lo avresti mai detto, vero?),
tuttavia molto spesso arrivano all’attenzione dell’ortopedico incoscienti o comunque già intubati. Un dato
clinico patognomonico di queste fratture è una netta asimmetria delle creste iliache.
Per valutare rapidamente la gravità della frattura, inoltre, il medico è solito posizionare la mano sul pube del
paziente: in caso di fratture di tipo open book il dito penetrerà in profondità
8.A.1.6 Trattamento
Lo scopo iniziale del trattamento è quello di fermare l’emorragia.
Si può ricorrere al posizionamento, a livello pelvico, di bende che consentono di ridurre i diametri antero-
posteriori. Esiste anche la cosiddetta morsa pelvica che, riducendo i diametri (soprattutto latero-laterali),
consente al paziente di eseguire i vari esami diagnostici.
Un tempo, quando ancora la chirurgia del bacino non era molto sviluppata, veniva utilizzata una “amaca di
sospensione” per consolidare la frattura. Essa consisteva in una specie di fascia sopraelevata che racchiudeva
il bacino del paziente per almeno un mese.
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Oggi invece, quando ci si trova davanti ad una frattura di bacino, si può agire in più modi:
• Fissaggio di viti a livello dell’articolazione sacro-iliaca per via percutanea, senza quindi il bisogno di
effettuare incisioni chirurgiche. Addirittura, all’ospedale Niguarda di Milano sono dotati di una scopia
3D che permette il posizionamento delle viti in maniera assolutamente precisa e senza particolari
difficoltà.
• Cerchiaggio a livello della sinfisi pubica.
• Utilizzo di placche.
• Utilizzo di un fissatore esterno (nelle fasi definitive di trattamento).
La letteratura, attualmente, invita a seguire il concetto di “damage control”, ovvero prima bisogna dare
importanza ad un semplice fissaggio delle fratture per permettere lo svolgimento di altri esami ed altri
interventi chirurgici più delicati e poi, a 7-10 giorni di distanza, si interviene in maniera più mirata e raffinata
per trattare in modo definitivo le lesioni.
- fratture trasversali di sacro, coccige o ala iliaca: sono fratture spesso conseguenti a traumi diretti e,
raramente, sono tali da richiedere interventi di riduzione. Nelle fratture del sacro è utile ricercare
eventuali deficit neurologici;
- fratture isolate delle branche ileo ed ischio-pubiche: sono fratture secondarie a traumi minimi in
pazienti osteoporotici;
- avulsioni delle tuberosità: sono, generalmente, lesioni da strappamento conseguenti a brusche
contrazioni muscolari (nei bambini che praticano attività sportiva). L’intervento di riduzione ed
osteosintesi è richiesto solo in caso di ampia diastasi dei frammenti.
Le lesioni appartenenti a questo gruppo più frequenti e di importanza clinica maggiore sono le fratture
dell’acetabolo (e per il resto del paragrafo si farà riferimento a queste).
Si tratta forse delle fratture più complesse da trattare in quanto fratture articolari; questo è un problema
perché generano artrosi. La maggior parte dei pazienti con fratture dell’acetabolo sono soggetti giovani (40
anni), perciò è necessario trattarle molto bene per evitare che, nel giro di pochi anni, generino artrosi con
conseguente impianto di protesi.
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8.A.2.1 Richiami anatomici4
L’acetabolo è situato sulla faccia esterna dell’osso iliaco, nella metà inferiore. Alla sua formazione concorrono tutte e
tre le parti dell'osso dell'anca:
- il corpo dell'ileo costituisce la porzione superiore dell'acetabolo e ne rappresenta poco meno dei 2/5;
- il ramo superiore dell'ischio forma la porzione posteriore e parte di quella inferiore dell'acetabolo e ne
rappresenta poco più dei 2/5;
- il ramo superiore del pube forma la porzione anteriore e parte di quella inferiore dell'acetabolo e ne
rappresenta all'incirca 1/5.
L’acetabolo deve essere considerato come una cavità approssimativamente emisferica, compresa tra le
branche di una “Y rovesciata” costituita da due colonne ossee:
- la colonna anteriore (ileo-pubica) decorre obliquamente verso il basso, dalla cresta iliaca alla
sinfisi pubica;
- la colonna posteriore (ileo-ischiatica) si estende dal margine inferiore dell’articolazione sacro-
iliaca e dall’incisura del nervo ischiatico sino alla tuberosità ischiatica.
4 Tutte le informazioni riportate in corsivo sono state prese dal dark web (my-personaltrainer, researchgate.net) poiché il professore
le accenna solamente ed in modo confusionario.
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Le pareti (anteriori e posteriori) rappresentano il bordo dell’acetabolo:
- la parete anteriore è la parte in cui la testa del femore si va a posizionare quando è in extra-rotazione;
- la parete posteriore è sede della testa del femore durante l’intra-rotazione.
8.A.2.2 Classificazione
Il sistema classificativo universalmente accettato è quello di Judet-Letournel che divide le fratture acetabolari
in:
- 5 fratture elementari (semplici), caratterizzate da una singola rima di frattura principale che coinvolge
una delle due colonne acetabolari;
- 5 fratture complesse (associate), rappresentate dall’associazione di due o più fratture elementari.
8.A.2.3 Eziologia
Le fratture dell’acetabolo sono causate da:
- traumi ad alta energia;
- sollecitazione meccanica a livello del trocantere (la testa femorale spinge sull’acetabolo e causa
fratture);
- incidenti stradali;
- sport (rare).
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Una delle lesioni che si può vedere più frequentemente è la lussazione dell’anca. Essa causa un distacco della
parete posteriore dell’acetabolo e, ovviamente, a seconda delle dimensioni dei frammenti distaccati,
bisognerà andare a riposizionarli chirurgicamente per evitare l’instabilità dell’articolazione. In questi casi è
necessario effettuare un accesso chirurgico lungo circa 40/50cm in quanto non sono possibili altre vie di
entrata.
Una lussazione particolare è, invece, la lussazione endo-pelvica. Sul fondo dell’acetabolo è presente una
lamina quadrilatera piuttosto sottile: un trauma ad alta energia proveniente dal lato del trocantere, può
rompere questa lamina e far spostare la testa del femore all’interno dell’addome.
In alcune fratture si può verificare una lesione dei vasi intracapsulari, come il ramo ricorrente della
circonflessa anteriore del femore, causando necrosi asettica della testa del femore. Non si tratta di una
complicanza immediata: il paziente guarisce dalla frattura di acetabolo, ma dopo un anno può sviluppare
necrosi della testa, con tutte le conseguenze che ne derivano (deformazione ⇒ mancata congruenza dei capi
articolari ⇒ artrosi ⇒ intervento con protesi).
8.A.2.6 Trattamento
Il trattamento prevede un’osteosintesi con viti o placche. Non è necessario eseguirlo in urgenza ma,
nonostante ciò, è molto impegnativo dal punto di vista tecnico.
Una complicanza purtroppo frequente che si verifica quando si interviene con accesso posteriore, è la genesi
di calcificazioni molto rilevanti che devono essere rimosse dopo pochi anni. Non si capisce ancora
esattamente cosa vi sia alla base di questa complicazione e per questo motivo sono in corso studi.
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8.B Fratture vertebrali
Le fratture vertebrali si verificano principalmente a livello cervicale e a livello della giunzione toraco-
lombare, quindi da T11 a L2; quest’ultima zona è la più coinvolta, essendo il punto di passaggio tra la cifosi
toracica e la lordosi lombare (maggiore mobilità). Esistono diversi meccanismi di frattura:
1. Compressione → fratture da scoppio.
2. Iperflessione
3. Stress tangenziali
4. Torsione
5. Meccanismi combinati
Oggi sta nascendo una nuova classificazione che considera, oltre ai fattori morfologici, anche altri fattori
(riguardanti l’età del paziente ed altri fattori personali).
8.B.2 Diagnosi
• Esami di 1° livello: RX e TAC TOTAL BODY eseguita già in “Trauma Center”.
• Esami di 2° livello: RMN in caso di sospetto danno neurologico (permette di vedere edemi ossei e
l’eventuale lesione del legamento longitudinale posteriore, criterio maggiore di instabilità).
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8.B.3 Trattamento
L’approccio terapeutico (a grandi linee, per maggiori dettagli si rimanda alla lezione sulle fratture vertebrali)
differisce a seconda che la frattura sia:
• Stabile: viene trattata in maniera conservativa con il riposo associato ad un tutore/busto che,
secondo gli ultimi studi effettuati, ha solo scopo antalgico senza alcuna influenza su quello che è il
miglioramento di una vertebra rotta. L’unico modo per poter trattare conservativamente senza avere
dei peggioramenti e degli abbassamenti di una vertebra è quello di mettere un busto gessato in iper-
estensione. In alcuni casi si può proporre l’osteosintesi percutanea.
• Instabile:
o in caso di frattura mielica, è necessario decomprimere il midollo; successivamente si
interviene attraverso una stabilizzazione della frattura;
o In caso di frattura amielica, si opta per l’osteosintesi percutanea di stabilizzazione.
8.C Lussazioni
La lussazione è un’emergenza che si può presentare in modo isolato oppure, più raramente, all’interno di un
politrauma. Si definisce lussazione una perdita completa e permanente dei rapporti tra due capi articolari.
L’articolazione più colpita è senza dubbio la spalla (articolazione anatomicamente prona alla lussazione), ma
le conseguenze più significative si osservano a livello del ginocchio (articolazione decisamente più stabile,
pertanto è necessario un trauma ad alta energia per determinare una lussazione). La diagnosi è clinica e viene
confermata dalle radiografie.
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determinare facilmente una dislocazione della testa dell’omero. La lussazione avviene quasi sempre
anteriormente (96%).
Si possono avere delle complicanze precoci tra cui la paralisi del nervo circonflesso (valutabile attraverso la
funzionalità del deltoide).
Dal punto di vista diagnostico si ricorre alla radiografia antero-posteriore e, per avere una maggior precisione,
si possono eseguire delle proiezioni assiali.
Il trattamento prevede una manovra di riduzione (trazione, rotazione esterna, adduzione e rotazione interna)
seguita da una radiografia di controllo e dalla successiva immobilizzazione dell’arto con diversi sistemi di
contenzione.
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Il trattamento prevede una riduzione che, diversamente da quella della spalla, necessita di una sedazione a
causa dell’importante massa muscolare che normalmente appare contratta a seguito di un trauma,
ostacolando la riduzione. Una volta eseguita la riduzione si immobilizza l’anca con un tutore. Qualora vi siano
delle lesioni associate (lesioni del ciglio posteriore) è necessario un intervento chirurgico di stabilizzazione ed
osteosintesi.
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Ex Lezione 11 del 07/06/2019
Sbobinatore: L.C.
Docente: prof. Milano
Argomenti: Traumatologia dello sport, macrotrauma e microtrauma
N.B. non si parla solo di atleti professionisti, ma quello del trauma nello sport è un ambito che comprende
l’attività sportiva ad ogni livello, dal professionista al paziente anziano che dopo chirurgia per artrosi dell’anca
vuole tornare a fare l’attività svolta in precedenza. L’età media dello sportivo, infatti, si è alzata notevolmente
negli ultimi anni.
9.1 Macrotrauma
Nel macrotrauma il danno (entità e tipo) è legato a:
- meccanismo lesionale (ovvero le caratteristiche della dinamica del trauma e del vettore forza applicato:
entità, direzione, velocità)
- tipo di sport (dipende da regole del gioco, protezioni, collisione, terreno di gioco, attrezzatura,
abbigliamento)
Le lesioni macrotraumatiche sportive non sono fondamentalmente diverse da quelle dei macrotraumi stradali:
- Fratture
- Lesioni legamentose
- Lussazioni
- Lesioni tendinee
- Lesioni muscolari (più frequenti nel mondo dell’attività sportiva)
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Immagini: a sx sfacellamento del gomito di un poveraccio armeno; al centro frattura di tibia e perone; a dx frattura di tibia e perone +
chiappe al vento
Se prendiamo come esempio i rugby notiamo che dai dati epidemiologici il trauma del ginocchio si verifica in ¼
di tutte le lesioni, in particolare la tipologia di lesione è quella della tibia prossimale e del femore distale (fratture
intorno al ginocchio) e subito dopo lesioni dei collaterali mediali e del crociato anteriore.
Sono tutte lesioni da contatto e trauma diretto da gioco molto diverse per esempio da quelle di collaterali e
crociato anteriore che si verificano nel calcio. Si tratta infatti di situazioni come quella in cui l’avversario collide
lateralmente e porta il ginocchio in valgo; nel caso del calcio invece il trauma avviene senza contatto, per un
fattore di controllo del movimento in rotazione.
Le lesioni legamentose più frequenti sono quelle del ginocchio quindi dei legamenti collaterale mediale e crociato
anteriore.
Oltre a quelle del ginocchio altre lesioni comuni si verificano nella caviglia, soprattutto nel basket perché si ha
ricaduta dal salto mentre si viene spostati. Visto che il trauma avviene in modo che il piede vada all’interno e
cioè si ha un’inversione, le lesioni si hanno nel compartimento laterale che viene stirato e si hanno quindi lesioni
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di quel complesso di legamenti a ventaglio che va dal perone all’astragalo (legamenti peroneo-astragalici), e dal
perone al calcagno (legamento peroneo-calcaneare).
Infine ci sono lesioni del legamento collaterale mediale (trauma in valgo) del gomito, soprattutto negli sport di
lotta perché alcune prese sono fatte direttamente sul braccio su cui il lottatore si sta reggendo.
Immagine: si vede quanto è diastasato, cioè aperto, lo spazio della rima articolare interna, per lesione del LCM (legamento
collaterale mediale) del ginocchio. In realtà in questo caso sono di sicuro coinvolte anche altre strutture come quelle della
zona definita zona d’angolo postero interno (capsula postero mediale, menisco mediale, legamento posteriore obliquo che
sta nella parte postero mediale del ginocchio.) È una lesione gravissima, se ci fosse anche la lesione del crociato posteriore
saremmo già nella lussazione del ginocchio.
Tendine rotuleo e quadricipitale sono i più colpiti proprio da quest’ultimo meccanismo di microtraumi continui
che indeboliscono una struttura su cui poi può o meno agire un trauma che dà la lesione finale la quale tuttavia
non ci sarebbe mai stata se il tendine fosse stato inizialmente sano. Altri colpiti sono:
- tendine d’Achille,
- bicipite brachiale distale (soprattutto nei sollevatori di
pesi si ha distacco dell’inserzione distale dalla tuberosità
del radio)
- tricipite (anch’esso interessato nella sua parte distale di
inserzione sull’olecrano)
- cuffia dei rotatori (per i processi degenerativi cui va
incontro già in età precoce)
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9.1.3 Lesioni muscolari
Sono le più frequenti, rappresentano 1/3 di tutte le lesioni da trauma nello sport e 1/3 di quelle nel calcio.
Vengono classificate secondo l’eziologia e la gravità:
1) Dolore muscolare post attività. Può essere immediato o tardivo. Tipico di quando c’è stato un eccesso di
carico
2) Distrazione (volgarmente “strappo”)
3) Contusione
Dal punto di vista anatomopatologico il danno è a carico di fibre muscolari ma anche di fibre nervose e di placche
neuromuscolari oltre che di vasi e capillari.
I due elementi che determinano la storia della lesione sono la rottura del muscolo, cioè l’interruzione della
continuità del suo ventre, e la formazione di un ematoma.
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➢ Distrazioni
Frequenti negli sport con sforzo “esplosivo”, cioè quelli con sprint, scatti, salti.
È importante distinguere il meccanismo lesionale che riconosce due tipi di contrazioni possibili:
- Concentrica: contraendo il muscolo questo si accorcia;
- Eccentrica: contraendo il muscolo, questo si sta allungando. È una situazione che si ha quando ci sono
delle rapidissime decelerazioni per esempio in un contrasto con il suolo, oppure mentre qualcuno tira il
muscolo mentre lo sto contraendo.
Per far capire meglio come sia possibile1, il professore porta l’esempio del movimento del dritto nel tennis
dove si mette in contrazione gli intrarotatori della spalla per spingere in avanti la racchetta ma a un certo
punto si ha un arresto netto dato dagli antagonisti extrarotatori. Questi ultimi quindi si stanno sì
contraendo ma intanto si stanno anche allungando perché il movimento di intrarotazione è in atto. Ecco
perché si consiglia di accompagnare il movimento del braccio finchè si esaurisce senza tentare di bloccarlo
volontariamente. Il danno si instaura nella fase di decelerazione brusca del movimento.
La sede del danno è di solito alla giunzione mio-tendinea. Sono più soggetti i muscoli bi-articolari come il
quadricipite che va dal bacino alla tibia e il bicipite che dalla glena va all’avambraccio. È un danno frequente nei
muscoli superficiali dell’arto inferiore.
➢ Contusione muscolare
È un trauma diretto, in cui il muscolo viene compresso contro l’osso tipicamente negli sport da contatto.
Fibrocellule e vasi si rompono e si forma un ematoma, anche perché vi contribuisce il grande richiamo di sangue
che si ha in quel momento di attività sportiva. In particolare:
- se la fascia si rompe si ha un sanguinamento intermuscolare
- se la fascia non si rompe si ha sanguinamento intramuscolare e possibilmente la generazione di sindrome
compartimentale per l’aumento di pressione data da aumento di massa ma non di volume
Diagnosi
All’esame clinico si valuta:
- il tipo di trauma (empiricamente la prima cosa che si osserva è che l’atleta si tocca insistentemente dove
ha dolore)
- l’aspetto generale (ispezione)
- la presenza di dolorabilità alla palpazione
- l’eventuale limitazione funzionale
Se già visivamente si vede un vulnus e addirittura la rottura si può palpare, allora il danno sarà probabilmente
grave.
1Benché apprezzi molto l’esempio tennistico, secondo me non si capisce un cazzo. Magari sono io, ma nel dubbio cerco di spiegare meglio
questo concetto:
- Per i boys: quando un boy va a flexare in palestra, prende in mano un manubrio per eseguire dei “curl” con la speranza che il suo
bicipite, spesso come le sbobine di IPS, diventi grosso come l’Harrison. Durante l’esecuzione del “curl”, si flette l’avambraccio sul
braccio, fino ad arrivare quasi a toccare la spalla con il manubrio: così facendo si è compiuta una contrazione definita
“concentrica” (il muscolo si contrae e si accorcia). A questo punto, i good boys sanno che devono estendere l’avambraccio
lentamente per completare il “curl” nel migliore dei modi: mentre si esegue questo movimento il muscolo bicipite brachiale e gli
altri muscoli della loggia anteriore sono contratti, ma si stanno allungando, in quanto stanno eseguendo una contrazione
“eccentrica”.
- Per le girls: vale lo stesso concetto detto sopra (LOL).
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Gli esami strumentali di cui ci si serve per confermare la diagnosi clinica sono esami di primo livello come
ecografia, da eseguire 24h dopo il trauma perché immediatamente non mostrerebbe nulla (soprattutto nelle
lesioni da distrazione), e RM utile soprattutto nei traumi contusivi perché distingue ematomi inter- e
intramuscolari.
La RM comunque non è indispensabile e il monitoraggio nel tempo si fa con ecografia.
Guarigione
La cosa più complessa da stabilire in un trauma muscolare è la guarigione. Infatti mentre per l’osso riusciamo a
seguire e stadiare il percorso della guarigione con elementi patognomonici, il muscolo ha una guarigione
dipendente dal tipo di sede e di lesione (parziale o totale), che evidentemente non hanno gli stessi tempi.
In ogni caso, essendo il muscolo un tessuto connettivo, la sua riparazione segue degli step conosciuti dal punto
di vista anatomopatologico, tra cui:
1) Fase infiammatoria (dura circa 1 settimana): c’è un’emorragia su cui si innesca un’attività infiammatoria
chemiotattica di richiamo di macrofagi locali e cellule mesenchimali multipotenti. Queste due
popolazioni servono a eliminare il tessuto necrotico e possibilmente produrre nuovo tessuto muscolare.
2) Fase riparativa (1 mese): si rigenera il muscolo striato.
3) Fase di rimodellamento (da 6 mesi a 1 anno): il muscolo rigenerato matura e si riorganizza.
Trattamento
Gli obiettivi del trattamento prevedono che nell’immediato si riduca il dolore e la contrattura antalgica e che si
protegga dal peggioramento del danno. Nel medio termine è necessario ridurre il rischio di formazione
fibrocicatriziale che determinerebbe perdita di forza del muscolo con rischio di ri-rottura e progressivamente
curare la ripresa dell’attività sportiva.
La prima fase, di riposo, previene edema, blocca sanguinamento e favorisce la riperfusione e si ricorda con
l’acronimo RICE:
R = Rest (riposo) immediato
I = Ice (ghiaccio per ridurre infiammazione, favorire vasocostrizione e dare effetto antalgico)
C = Compression
E = Elevation
L’immobilizzazione è un argomento controverso. Il beneficio è chiaro (non peggiorare il danno), tuttavia,
tenendo il muscolo troppo fermo, viene a mancare lo stimolo meccanico naturale di trazione sulla cellula
mesenchimale in grado di determinarne la differenziazione verso la linea muscolare, rischiando di farla diventare
un fibroblasto che deposita tessuto cicatriziale (per giunta amorfo perché non si ha un orientamento dato dalla
trazione). Va quindi trovato il giusto compromesso: se nell’immediato va bene il riposo, rapidamente nei giorni
successivi va garantito un minimo movimento.
La mobilizzazione precoce è la cosa più importante da fare nella fase di recupero e riduce il rischio di recidiva.
Non vuol dire tornare subito a giocare, stiamo parlando di semplice movimento.
L’intervento chirurgico normalmente non serve, perché il tessuto muscolare si ripara bene da solo se trattato
nel modo corretto; può essere, tuttavia, necessario nelle seguenti condizioni:
- ematoma intramuscolare massivo che richiede drenaggio;
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- rottura del ventre muscolare (se supera la metà del ventre);
- mancanza di agonisti del muscolo ferito che suppliscano la sua azione, o se ci sono ma questi non
sviluppano abbastanza forza (per es. il sottoscapolare non riesce a generare la stessa forza del gran
pettorale);
- diastasi dei monconi del ventre o allontanamento dei monconi della lesione muscolo-tendinea;
- avulsione del tendine dall’osso.
L’obiettivo della chirurgia è azzerare la diastasi dei due monconi della lesione, al fine di ridurre la componente
cicatriziale al minimo. Ovviamente il rischio è maggiore nelle lesioni maggiori.
La rieducazione funzionale, usata dopo chirurgia o in caso di lesioni senza indicazione chirurgica, ha come primo
obiettivo, tramite il movimento, quello di non fare generare aderenze al piano osseo che annullerebbero la
funzione delle articolazioni a monte e a valle.
Quando il muscolo può tollerare un certo regime di lavoro, è fondamentale agire anche sulla forza,
sull’estensibilità/elasticità, e infine sulla propriocezione, senso di posizione nello spazio, agilità e per finire sullo
specifico gesto atletico.
Questi sono in realtà principi di tutta la riabilitazione post traumatica, non solo sportiva, ed è una sequenza
obbligata: non si può fare uno step senza aver completato il precedente, altrimenti si peggiora la situazione.
Solo quando concettualmente e idealmente l’atleta è pronto a riprendere il suo sport può tornare a giocare.
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9.2 Microtraumi
Più frequenti negli sport che prevedono gesti ripetitivi. Le patologie più frequenti sono quelle tendinee (tendiniti,
tendinosi e rotture) e in minor parte ossee (fratture da stress).
Il trattamento non stupisce: si consigliano riposo, esercizi specifici di stretching e potenziamento selettivo del
muscolo quadricipite.
In caso di tendinosi cronica a volte può essere necessario l’intervento chirurgico per produrre uno stimolo
riparativo. Nello specifico si incide, si asporta una parte di tessuto, si fanno dei fori nell’osso in modo che da
questi arrivi sangue che favorisce la guarigione.
2 La tendinosi è la sofferenza cronica dei tendini, che deriva da una degenerazione della normale struttura tendinea.
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9.2.2 Sindrome da frizione della banderella ileo-tibiale
Questa sindrome, tipica di corridori e ciclisti, è causata dal ripetuto e veloce passaggio della banderella ileo-
tibiale del tensore della fascia lata sul condilo femorale laterale, dove il ginocchio sporge di più. La ripetitività del
gesto può scatenare un’irritazione da contatto e col tempo generare tendinite e poi tendinosi.
Il trattamento prevede la riduzione del sovraccarico.
Riporto un breve aaprofondimento per gli amici ciclisti (e non solo) da bikeitalia.it
Il disturbo in questione non è “tipico” del ciclismo, ma sempre più spesso se ne sente parlare
perché l’uso di regolazioni errate e la pratica parallela di altri sport genera una ripercussione
anche sul movimento della pedalata.
Durante il movimento in bici viene effettuata una flesso/estensione ritmica del ginocchio con
carichi di lavoro variabili; la bandelletta ileotibiale conferisce stabilità laterale al ginocchio, essa
infatti insieme al compartimento mediale assicura il mantenimento dei fisiologici rapporti
tra femore, rotula e ossa della gamba. Durante la flesso/estensione del ginocchio, la bandelletta
deve oltrepassare l’epicondilo laterale (e questo avviene intorno ai 30°):
o In estensione la bandelletta si sposta anteriormente rispetto al condilo;
o In flessione la bandelletto si sposta posteriormente.
Spesso a causa di atteggiamenti posturali e/o regolazioni non idonee della bici tale rapporto viene
compromesso, quindi il ginocchio effettua un lavoro anomalo provocando una sofferenza
tissutale; nel caso specifico durante la fase finale di estensione e quella iniziale di flessione
dell’arto, precisamente in corrispondenza del PMI (punto morto inferiore), viene generata una frizione tra la bandelletta
ileotibiale e il condilo laterale del femore.
Questa anomalia biomeccanica compromette l’efficacia del gesto nella parte finale della spinta sul pedale e nel
momento del passaggio al PMI, in cui l’organismo cambia l’attivazione muscolare passando da una fase estensoria ad una
flessoria. E’ proprio in questo passaggio che si genera la frizione tra bandelletta e condilo laterale del femore, ne consegue
che altezza e arretramento di sella sono parametri da tenere sotto controllo in quanto influenzano notevolmente l’angolo
di apertura del ginocchio.
Il trattamento prevede il riposo nella fase acuta, seguito da una riabilitazione mirata (con educazione posturale, terapia
manuale + trattamento della fascia). Oltre al trattamento si possono effettuare alcuni esercizi di stretching analitico.
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9.2.3 SLAP lesion (Superior Labral from Anterior to Posterior).
Si tratta di un distacco del cercine glenoideo dal polo superiore della glena, da anteriore a posteriore. Colpisce
prevalentemente i lanciatori.
La zona del labbro glenoideo dove si verifica la SLAP lesion è più suscettibile in quanto si tratta di una zona scarsamente
vascolarizzata. Altre parti del cercine guariscono più facilmente perché meglio irrorate.
Il cercine superiore della glena è una zona importante nella spalla perché costituisce la zona di origine del capo
lungo3 del bicipite. Si genera in quanto, per caricare il lancio, si porta il braccio in una posizione che determina
trazione e torsione del bicipite sul proprio asse.
La ripetizione del movimento accentua l’instabilità e provoca dolore; in alcuni casi il dolore compare in modo
così violento da far perdere il controllo della spalla e inficiare il gesto atletico. È infatti definita anche dead arm
syndrome, sindrome del braccio morto.
Tuttavia siccome questa è una sintomatologia sfumata che a volte compare e a volte no, a seconda del livello di
allenamento e dei meccanismi di compenso e di controllo della spalla, per molti anni si è pensato che la sua origine
fosse psicologica o simulatoria. Solo l’avvento dell’artroscopia negli anni ’80 ha permesso di iniziare a definire
meglio il meccanismo patogenetico, successivamente spiegato in maniera completa negli anni 2000.
La diagnosi di SLAP lesion viene raggiunta mediante l’esecuzione di una RM (meglio con mezzo di contrasto).
Il trattamento risolutivo prevede un intervento chirurgico eseguito in artroscopia per reinserire il cercine mediante
ancorette. Nel caso in cui il tendine sia troppo danneggiato per eseguire una riparazione, si pratica una tenotomia (il
tendine viene tagliato e reinserito nella porzione superiore del braccio); questo trattamento non compromette la forza del
muscolo.
3
Il capo breve, al contrario, origina dal processo coracoideo scapolare
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Il trattamento è quasi sempre conservativo, ma se nella sede del callo si è formata un’artrosi è necessario un
approccio chirurgico. I tempi di guarigione spontanea si aggirano attorno ai 6 mesi.
I soggetti più colpiti sono i marciatori dell’esercito e i calciatori. Si localizzano soprattutto a livello del piede, in
particolare sul V metatarso.
Domanda di uno studente: questa rima particolare [nds si riferisce all’ultima immagine – III metatarso] come si viene a
formare?
Sono fratture che vengono rimaneggiate, non si formano in un colpo solo, la rima parte in un modo e poi si propaga in
maniera irregolare coi singoli microtraumi, molte volte sono rime oblique o complicate.
Domanda: nella sindrome compartimentali da ematoma per rottura del muscolo, il trattamento è sempre una fasciotomia?
Sì, per forza. È un’emergenza e soprattutto le minifasciotomie non servono a niente, non sono in grado di risolvere il
problema.
Quindi va fatta ovunque, anche per strada subito dopo il trauma all’arrivo dell’ambulanza? No, di solito non si arriva a
tanto perchè ci vogliono alcune ore dopo il trauma affinchè si sviluppi una sindrome compartimentale. Bisogna comunque
agire in maniera urgente quando se ne ha il sospetto clinico.
Ma allora perché se è un’emergenza e provoca così tanto dolore da richiedere subito l’intervento in alcuni quadri si arriva
a una sindrome ischemica? Perché il paziente progressivamente perde anche la sensibilità per danno ai vasa nervorum:
bisogna cercare di non arrivare a questo punto e agire non appena il paziente dice di avvertire dolore (e quello della
sindrome compartimentale è un dolore acuto, che non regredisce neanche con la morfina).
11/11
File stronzo n° 3
Sbobinatore: S.T.
Docente: Zarattino
10. ALGODISTROFIE
La sindrome algodistrofica è una patologia caratterizzata da una alterazione ossea e che per un
determinato numero di anni è stata definita atrofia di Sudek (uno dei primi medici ad averla descritta).
Leriche nel 1917 ha iniziato ad attribuire all’algodistrofia un coinvolgimento del sistema nervoso simpatico
ed aveva iniziato a trattare i pazienti con questa patologia con interventi di simpatectomia. Evans nel 1946
confermò l’ipotesi che alla base di tale patologia vi fosse il sistema nervoso simpatico ed attribuì come
nome “distrofia simpatico riflessa”. Foise nel 1947 considera una nuova teoria del vasospasmo arteriolare
che dà delle piccole ischemie, nel 1953 Bonica caratterizza la patologia con un criterio temporale e quindi
definisce la patologia come acuta-distrofica-atrofica. Nel 1994 i criteri di Orlando la definiscono come
Complex Regional Pain Syndrome (CRPS) ed oggi si utilizzano i criteri diagnostici di Budapest (2007) che
caratterizzano con sensibilità, specificità ed oggettività il quadro di algodistrofia.
10.1 Introduzione
La sindrome algodistrofica negli Stati Uniti colpisce circa 200.000 persone all’anno mentre circa 150.000
nuove diagnosi vengono effettuate annualmente in Europa. Non è una sindrome molto chiara e definita ed
ha sintomi clinici molto variabili1, tali caratteristiche tendono inoltre a modificarsi nel tempo. Non vi è
pertanto un una branca clinica che si occupa nello specifico dello studio di questa patologia, motivo per il
quale molto frequentemente l’algodistrofia viene diagnosticata solo in fase tardiva. Al fine di evitare un
eccessivo ritardo nel riconoscimento della patologia è stata fondata una società composta da specialisti in
radiologia, ortopedia, reumatologia e fisiatria che si occupa di diagnosticarla e curarla negli stadi iniziali e
reversibili.
L’algodistrofia è conosciuta con diversi nomi, tra i quali si ricordano: Complex Regional Pain Syndrome (di
tipo I e II), algoneurodistrofia, sindrome algodistrofica, sindrome spalla-mano, causalgia, osteoporosi
transitoria, mordo di Sudek, ed altri (di cui chiaramente non ci interessa nulla).
La CRPS di tipo I viene definita come una varietà di condizioni dolorose che conseguono ad un evento
scatenante ad espressione topografica regionale con predominanza distale, che clinicamente si
manifestano sotto forma di algie che eccedono per gravità e durata rispetto al decorso clinico atteso
sulla base dell’evento scatenante e con una progressione variabile nel tempo.
La CRPS tipo II (conosciuta anche come sindrome causalgica) è per definizione un’algodistrofia
conseguente ad un trauma diretto su un ramo nervoso (la lezione verte quasi unicamente sulla CRPS
di tipo I, la CRPS di tipo II viene superficialmente affrontata nel caso clinico finale).
1/7
10.2 Criteri di Budapest
Nel 2007 sono stati identificati i criteri attualmente più utilizzati per definire questa patologia, denominati
Criteri di Budapest. Tali criteri:
➢ Devono essere considerati il punto di riferimento per ogni studio e valutazione clinico-
epidemiologica della CRPS di tipo 1;
➢ Evitano il più possibile la presenza di sintomi soggettivi, ma cercano di oggettivare il più possibile la
diagnosi;
➢ Considerano la presenza di manifestazioni trofiche e motorie della malattia;
➢ Hanno una analoga sensibilità rispetto ai criteri utilizzati prima del 2007, ma sono nettamente più
specifici;
➢ Permettono una diagnosi clinica: non ci si avvale di strumenti o imaging per porre diagnosi ma,
eventualmente, solo per confermare la diagnosi stessa.
2/7
A seguito della stesura dei Criteri di Budapest è stata redatta una nuova e lievemente differente definizione
di CRPS: insieme di condizioni dolorose caratterizzate da un dolore continuo (spontaneo e/o evocato) che
appare sproporzionato per estensione temporale o per intensità rispetto a quanto atteso sulla base del
trauma o dell’evento scatenante. Il dolore ha distribuzione regionale (non riferibile al territorio di
innervazione di un singolo ramo nervoso o ad un dermatomero) e solitamente ha una localizzazione distale,
associazione a segni e sintomi caratteristici di natura sensitiva, motoria, sudomotoria, vasomotoria e trofica.
La sindrome può avere una evoluzione variabile nel tempo.
10.3 Epidemiologia
Da un punto di vista epidemiologico l’algodistrofia è una patologia caratterizzata da:
➢ Manifestazioni più frequenti nei soggetti tra i 40 ed i 60 anni;
➢ Maggiore incidenza nel sesso femminile;
➢ Pochi casi descritti in età pediatrica;
➢ Arti superiori mediamente coinvolti il doppio rispetto agli arti inferiori;
➢ Apparente presenza di un substrato predisponente nei soggetti particolarmente ansiosi (numerosi
studi hanno confermato una correlazione tra persone che utilizzano come password del cellulare la
propria data di nascita e la probabilità di sviluppare algodistrofia);
3/7
➢ Correlazione importante con le fratture: come già accennato le fratture sono una delle prevalenti
cause scatenanti, in modo particolare la frattura del polso (frattura di Colles) ha una incidenza di
algodistrofie che varia dall’1% al 37% dei casi.
L’incidenza dell’algodistrofia è anche in funzione del tipo di trattamento attuato a seguito del trauma iniziale:
un tempo le fratture del polso venivano trattate prevalentemente con gessatura, si era costretti pertanto a
tenere l’articolazione coinvolta in una posizione di trazione, flessione od ulnarizzazione esagerata e
l’eccessiva immobilizzazione comportava più facilmente lo sviluppo di algodistrofia. Quando poi si è passati
ad altri tipi di interventi più moderni sono ugualmente stati descritti dei casi di CRPS (ad esempio a seguito
dell’utilizzo di un fissatore esterno) ma in misura nettamente più contenuta. Attualmente è preferibile
attuare interventi di osteosintesi con placche e viti, a seguito dei quali si tende a lasciare l’arto libero dopo
un tempo inferiore e si previene così anche lo sviluppo di una conseguente algodistrofia.
10.4 Clinica
Dal punto di vista clinico ed evolutivo della patologia, è possibile distinguere tre stadi:
1. Stadio caldo: il paziente lamenta un dolore acuto ed importante, assolutamente spropositato se
correlato alla causa dello stesso;
2. Stadio distrofico: sono visibili alterazioni degli all’RX si vede
pertanto lo sviluppo di osteoporosi a macchia di leopardo
(quadro radiografico caratterizzato dalla presenza di alcune
zone particolarmente osteoporotiche inserite in un contesto
prevalentemente sano: nell’immagine è molto evidente nella
mano destra);
3. Stadio atrofico: presenza di evidenti alterazioni che possono risultare irreversibili
indipendentemente dal trattamento che viene effettuato per alleviare l’algodistrofia.
L’algodistrofia è una patologia poco conosciuta e come precedentemente accennato sono diversi gli
specialisti se ne occupano, ma nessuno lo fa in maniera precisa: ne consegue quindi un ritardo diagnostico
importante (non raramente si è già in una fase atrofica e quindi irreversibile in quanto mediamente la
diagnosi corretta di CRPS viene posta al paziente dopo circa 5 diverse visite specialistiche).
4/7
Normalmente il quadro clinico inizia la sua manifestazione pochissimo tempo dopo l’evento scatenante (da
qualche ora dopo a settimane), vi possono essere delle forme lievi/moderate oppure forme iperacute. Il
dolore è solitamente invalidante ed il paziente riferisce una condizione di bruciore, descritta come urente o
trafittiva. Non esiste una correlazione dermatomerica, l’esordio è aggravato dal carico esercitato
sull’articolazione e generalmente è presente anche la notte. I pazienti traggono poco beneficio dai presidi
farmacologici standard, motivo per cui generalmente si ricorre all’utilizzo di oppiacei.
Qualora venisse effettuata una RM (indagine di secondo livello) è possibile apprezzare la presenza di edema
osseo. Vi sono poi altri esami che si possono fare per supportare la diagnosi, uno di questi (ora meno utilizzato
rispetto al passato) è la scintigrafia con tecnezio marcato che permette di fare diagnosi precoce e soprattutto
di distinguere una algodistrofia calda (con buona captazione del tracciante) da una algodistrofia fredda (con
scarsa captazione del tracciante). Tale distinzione è importante in quanto una CRPS calda risponde molto
meglio alla terapia farmacologica.
Il professore mostra ora uno studio nel quale vengono citate alcune molecole e condizioni tissutali che pare
svolgano un ruolo importante nella patogenesi dell’algodistrofia: si sottolinea come l’ipossia e l’acidosi siano
elementi sempre presenti e conseguenti ad un danno del microcircolo dovuto con ampie probabilità ad uno
squilibrio tra endotelina 1 (vasocostrittore) e NO (vasodilatatore).
10.5 Terapia
Fortunatamente nella maggior parte dei casi l’evoluzione è favorevole indipendentemente dal trattamento
attuato (specialmente nella CRPS di tipo I, la CRPS di tipo II può avere più frequentemente sequele
permanenti); oltre ad una terapia farmacologica è bene ricordare che una precoce mobilizzazione
dell’articolazione coinvolta ed una adeguata fisioterapia influenzano in maniera molto positiva la risoluzione
5/7
del quadro. La terapia fisioterapica è fondamentale e per quanto riguarda la terapia farmacologica in Italia si
utilizzano i bisfosfonati (stessa classe di farmaci usati per osteoporosi) i quali agiscono quando si ha un
intenso metabolismo osseo (come morbo Paget o metastasi ossee) e per i quali si sfrutta la capacità di
“bloccare” l’attività degli osteoclasti. Il farmaco somministrato come prima scelta è il neridronato.
Viene dunque eseguita una RX ai metatarsi che rivela la scomparsa delle teste metatarsali. Dalla TC con
ricostruzione 3D si osserva un “osso fantasma”, che appunto conferma la scomparsa delle teste
metatarsali. A 45 giorni dall’intervento il paziente ha sempre la scomparsa delle teste del quarto e quinto
metatarso, la cute traslucida ed un evidente edema dell’avampiede. Viene trattato con 100mg e.v. di
neridronato ogni 3 giorni, con supplemento di Ca, vitamina D e fisioterapia intensa. Poi inizia ad effettuare
carico completo sull’articolazione, a 5 mesi dall’intervento ricompaiono le teste metatarsali, ad 1 anno il
quadro radiografico torna assolutamente fisiologico.
Caso Clinico 2
Paziente donna di 63 anni con contusione del piede a causa di un faldone caduto sul piede (probabilmente
l’Harrison o il Robbins nuovo di pacca che le si sarà pure sgualcito sulla copertina… danno economico e
morale molto più lesivo dell’algodistrofia, oltre che spesa inutilissima per la collega 63enne che, ad oggi,
pare non abbia ancora verbalizzato nessuno dei due esami. C’è quindi speranza per tutti noi, meno per
lei). A distanza di un mese non riesce a camminare, necessita di stampelle, presenta tumefazioni,
iperidrosi, scomparsa delle pliche cutanee. All’RX si vede osteoporosi distrettuale (a chiazze di leopardo)
anche in questo caso con interesse delle teste metatarsali, viene quindi trattata con la stessa terapia del
caso precedente. Dopo 3 mesi si ha normalizzazione del quadro clinico.
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Caso Clinico 3
Donna 50 anni con CRPS di tipo II. Ha avuto una lesione completa di un nervo sensitivo digitale con una
piccola frattura. Manifesta una grave osteoporosi che nel giro di sei mesi si è estesa sia distalmente che
prossimalmente coinvolgendo sia radio che ulna. L’RX conferma l’importante osteoporosi all’arto
superiore. Clinicamente la paziente presenta una mano rossa, assenza di pliche cutanee, dolore molto
forte e diffuso. A 5 mesi è sempre molto sofferente, ad 1 anno le dita della mano coinvolta sono sempre
traslucide. In questo caso la diagnosi è stata posta già allo stadio trofico, purtroppo nonostante tutte le
terapie la paziente non ha tratto beneficio e per l’allodinia ed i dolori urenti, deve conseguentemente
sempre cambiare guanti e creme, situazione che le ha comportato una qualità di vita permanentemente
molto compromessa.
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File stronzo n° 4
Sbobinatore: C.P.
Docente: Zrttn
11. OSTEOPOROSI
L’osteoporosi è una malattia dello scheletro, caratterizzata da una riduzione della resistenza ossea che
predispone ad un aumentato rischio di frattura per una patologica riduzione della massa ossea normalmente
mineralizzata.
La resistenza ossea riflette l’integrazione di due proprietà fondamentali dell’osso: la massa e la qualità.
Le principali fratture su base osteoporotica (le cosiddette fratture patologiche) sono rappresentate da:
- fratture vertebrali
- fratture prossimali del femore (pertrocanteriche)
- fratture del terzo distale del radio (quindi del polso).
Questa patologia è un problema che colpisce i paesi in cui l’aspettativa di vita media è elevata: è una patologia
tipica dell’anziano.
Per comprendere i meccanismi patogenetici dell’osteoporosi è necessario capire come funziona il metabolismo
del calcio. Questo coinvolge svariati organi e tessuti:
• tessuto osseo
• intestino: deputato all’assorbimento
• pH: se acido favorisce il riassorbimento osseo in quanto l’organismo ha bisogno di un maggior potere
tampone che trova nel bicarbonato di calcio depositato a livello osseo.
• cute: la sua esposizione ai raggi solari (in particolare UVB) va a determinare la formazione di
colecalciferolo, la forma inattiva della vitamina D.
• fegato e rene: responsabili dell’attivazione mediante idrossilazione della vitamina D, rispettivamente in
posizione 25 (25-idrossi-colecalciferolo) e 1 (1,25-diidrossicolecalciferolo). La vitamina D attivata ha
diverse funzioni importanti per il metabolismo del calcio, come: favorire l’assorbimento intestinale di
calcio e fosfato; aumentare la sensibilità dell’osso al PTH.
Un altro aspetto patogenetico importante è la diminuzione degli estrogeni, tanto che si parla di osteoporosi
post-menopausale. La riduzione degli estrogeni porta a una serie di conseguenze:
- aumentata produzione di citochine favorenti il riassorbimento osseo
- alterata secrezione di PTH (ormone ipercalcemizzante che, quindi, stimola riassorbimento osseo)
- aumento della sensibilità al PTH
- alterazione del rapporto tra il fattore di differenziazione degli osteoclasti ed il suo inibitore, con
conseguente aumento di riassorbimento osseo
- alterazione della sensibilità agli stimoli meccanici
- diminuito assorbimento intestinale di calcio
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- diminuita idrossilazione (e quindi attività) della vitamina D da parte del rene
- tendenza ad avere una minore esposizione solare, altro fattore che si riflette sull’attività della vitamina
D
- diminuiscono anche gli enzimi che digeriscono il lattosio: la dieta risulta sempre più povera in latticini,
principale fonte esogena di calcio
Come si nota nel grafico a sinistra, partendo da un livello di picco di massa ossea basso (linea verde), si potrà
avere osteoporosi (rappresentata dall’area rossa) già dai 55 anni; partendo da un picco maggiore, invece, (linea
viola) si potrà anche arrivare ad 80 anni (e più) senza avere problemi di osteoporosi.
Bisogna anche valutare che, partendo da uno stesso picco di massa ossea, ci possono essere diverse velocità di
perdita di massa ossea che portano allo sviluppo di osteoporosi più o meno precocemente (grafico a destra).
Fondamentalmente, dopo la maturità scheletrica si ha una graduale perdita di massa ossea che si rispecchia in
un disequilibrio tra neoapposizione (data dagli ostebolasti) e riassorbimento (dato dagli osteoclasti).
L’entità e la velocità di questa perdita accelerano con l’avanzare dell’età: pazienti più anziani hanno una perdita
annuale di massa ossea maggiore rispetto a pazienti meno anziani; tale differenza interessa in modo particolare
il femore, mentre a livello del rachide questo effetto è meno marcato.
2/8
11.2 Alterazioni morfologiche
L’immagine sottostante (microTC) mostra l’evoluzione da tessuto osseo normale ad osteopenia ed, infine,
osteoporosi:
1. Normale: le trabecole hanno delle lamine che e congiungono le une alle altre, indice di una buona densità
2. Osteopenia: la trabecolatura rimane, tutto sommato, costante, ma vengono meno le lamelle tra una
trabecola e l’altra
3. Osteoporosi: rimane semplicemente un’impalcatura che, dal punto di vista meccanico, ha sicuramente
meno resistenza rispetto alle due situazioni precedenti.
11.3 Classificazione
L’osteoporosi può essere distinta principalmente in:
• primitiva
• secondaria:
o malattie endocrine
o malattie gastrointestinali
o malattie neoplastiche
o malattie del connettivo
o altro
o da farmaci
Nella slide a lato si possono trovare più nel dettaglio quali sono le cause che possono portare a osteoporosi
secondaria.
11.4 Epidemiologia
L’incidenza delle fatture su base osteoporotica è in aumento a causa del progressivo aumento dell’aspettativa
di vita; si presume che in futuro le fratture patologiche aumenteranno ulteriormente.
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Quando l’osteoporosi colpisce prevalentemente la colonna vertebrale è spesso asintomatica: il paziente riferisce
un piegamento della colonna sempre più accentuato, con un dolore che percepisce come normale e riferisce alla
vecchiaia; in realtà potrebbero essere tanti piccoli crolli vertebrali, da considerare come fratture patologiche.
Gran parte dei pazienti con fratture vertebrali non vengono trattati e, inoltre, una donna su cinque andrà
incontro ad una nuova frattura vertebrale entro un anno dalla prima.
Molto peggiori sono le conseguenze della frattura prossimale del femore: questa è ovviamente sintomatica ed il
paziente si reca in ospedale.
Considerando una fascia di età dai 65 anni in su, 20% di questi pazienti muore entro l’anno (percentuale che sale
al 75% considerando gli ultraottantenni)
Inoltre, di questi pazienti il 50% avrà una disabilità cronica: non riuscirà più a camminare e a fare ciò che faceva
prima.
Infine, il rischio di frattura dell’altro femore entro un anno raddoppia o, addirittura, triplica.
4/8
Si instaura un circolo vizioso per il quale, in seguito alla prima frattura, si ha un aumentato rischio di avere una
nuova frattura, con conseguente dolore, inattività e aumentato rischio di ulteriori nuove fratture, oltre anche a
problemi di ansia e isolamento sociale.
La patologia porta ad una cifosi che peggiora progressivamente, portando la paziente ad avere problemi sia nella
deambulazione sia nella respirazione; è chiaro come la paziente sarà anche sempre meno autosufficiente.
Modificabili:
- inadeguato apporto di calcio e vitamina D (+++)
- fumo (++)
- abuso di alcol (+)
- impiego cronico di glucocorticoidi e/o altri farmaci ad azione osteopenizzante (+++)
- patologie con complicanze osteo-metaboliche (+++)
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Entrando più nel dettaglio, i farmaci correlati ad un maggior rischio di osteoporosi sono:
➢ glucocorticoidi: sono sicuramente la categoria più importante, in quanto l'osteoporsi secondaria
all’utilizzo di glucocorticoidi è una problematica piuttosto frequente dal punto di vista epidemiologico.
➢ eparina a lungo termine
➢ anticonvulsivanti
➢ litio
➢ immunosoppressori (es. Metotrexate, Ciclosporine)
➢ farmaci citotossici
➢ eccesso di Tirosina
➢ agonisti del GnRH (Gonadotropin Realising Hormone)
Per quanto riguarda, invece, i fattori di rischio per fratture da osteoporosi, possiamo elencare:
- eccesso di glucocorticoidi
- BMD (Bone Mineral Density) molto ridotto
- precedenti fratture da osteoporosi; ad esempio:
o una frattura vertebrale da osteoporosi porta ad un rischio 5x di una nuova frattura vertebrale
entro un anno e ad un rischio 2x di frattura di femore entro un anno
o una frattura del femore da osteoporosi porta ad un rischio 2-3x di frattura del femore
controlaterale entro un anno
11.7 Diagnosi
11.7.1 DENSITOMETRIA OSSEA
a) DEXA (Dual-Energy X-ray Absorptiometry)
Importante è misurare la densità minerale ossea (BMD) con tecnica DEXA; questa metodica ha svariate
caratteristiche (da slide):
- bassa esposizione a raggi X
- è in grado di rilevare piccole variazioni di densità
- esistono valori di normalità ben standardizzati
- c’è una correlazione con il rischio di frattura
- può valutare più siti, suddivisibili in
o centrali: colonna vertebrale, femore;
o periferici: avambraccio, falangi, calcagno. Vengono valutati meno frequentemente.
6/8
In particolare, il risultato ottenuto con la DEXA va messo in relazione in funzione del numero di deviazioni
standard rispetto alla media riscontrata in giovani adulti sani (T-score) o in soggetti sani di pari età (Z-score).
Grazie a questi parametri si possono classificare i pazienti in questo modo:
La densitometria potrebbe essere utilizzata come test di screening, ma non per la popolazione generale; la
popolazione da considerare dovrebbe essere quella delle donne in post-menopausa.
b) Ultrasonografia ossea
Introdotta recentemente, sembra avere ulteriori vantaggi in quanto il costo è ancora minore ed è facile da
trasportare. Non dà, però, la stessa accuratezza diagnostica della DEXA.
Riporto la slide con vantaggi e svantaggi, anche se il professore non ha detto altro:
7/8
Queste patologie possono dare:
Fragilità ossea SISTEMICA Fragilità ossea FOCALE
- osteoporosi - lesioni neoplastiche focali
- osteomalacia - displasia fibrosa
- osteogenesi imperfetta - malattia di Sudeck
- iperparatiroidismo primario - osteoporosi gravidica (forma di osteoporosi
- mastocitosi transitoria)
Come detto, è necessaria una valutazione clinica, strumentale e laboratoristica normalmente eseguite dal
medico internista.
A livello laboratoristico, in particolare, possiamo riconoscere:
- esami di primo livello:
o calcemia, fosforemia, creatininemia, VES, emocromo, profilo proteico
o calcio e creatinina urinarie nelle 24h
- esami di secondo livello:
o paratormone, 25-OH-D (nell’anziano sono di primo livello)
- esami di terzo livello (generalmente prescritti da endocrinologo):
o testosterone, cortisolemia/uria, esame feci, funzionalità epatica, TSH, N-metil-istamina, biopsia
ossea…
11.8 Terapia
Bisogna innanzitutto cercare di prevenire l’osteoporosi nei soggetti a rischio ma comunque con BMD ancora nei
limiti; questo si può fare attuando un trattamento non farmacologico, che prevede:
- somministrazione di calcio e vitamina D in caso di apporto insufficiente
- sospensione fumo e alcol
- incoraggiare attività fisica: importante, soprattutto quella in carico (sotto carico); infatti, l’osso quando
subisce stimoli meccanici di una certa entità tende ad irrobustirsi. Inoltre l’attività fisica riduce la
frequenza e la gravità delle cadute negli anziani.
- discutere possibilità di terapia ormonale sostitutiva in donne con sintomi post-menopausali
- sembra che mantenere un pH tendente al basico possa prevenire e migliorare il quadro di osteoporosi
Per quanto riguarda il trattamento farmacologico vero e proprio, questo deve essere rivolto a pazienti che hanno
già subito fratture osteoporotiche, pazienti in terapia steroidea cronica e pazienti con bassi valori di BMD.
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File stronzo n° 1: Lezione 11 – parte 2
Sbobinatore: M.T.
Docente: Zarattini
La struttura trabecolare delle vertebre è organizzata per sopportare al meglio le sollecitazioni meccaniche.
Studi attraverso meccaniche di micro-TC hanno permesso di evidenziare la progressiva rarefazione di questa
impalcatura che si osserva con l’avanzare degli anni.
L’osso, a causa della riduzione di densità minerale, diviene più fragile e va facilmente incontro a deformazioni
in compressione (si parla di “crollo vertebrale”).
Danni di questo tipo, soprattutto se mal trattati, tendono ad evolvere verso una deformità strutturale (cifosi),
la quale rende più probabili nuove fratture, innescando un pericoloso circolo vizioso.
11.A.1 Epidemiologia
Poiché l’osteoporosi è molto diffusa nella popolazione anziana, le fratture vertebrali da compressione
(chiamate con l’acronimo VCF) su base osteoporotica sono considerate un problema sia clinico che sociale.
Si stima che ogni anno vengano spesi circa 377 milioni di euro all’anno in Europa per la gestione di queste
fratture.
11.A.2 Classificazione
La classificazione secondo Genant distingue le fratture, sulla base della morfologia della vertebra, in:
- biconcave, caratterizzate da una depressione localizzata al centro del soma;
- a cuneo: la compressione si verifica solo anteriormente;
- da crollo: l’altezza del soma si riduce in modo uniforme.
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Queste tipologie vengono ulteriormente suddivise in 3 gradi diversi, in base all’entità della riduzione
dell’altezza del corpo vertebrale misurata in 3 punti: anteriore, media e posteriore:
- lieve: riduzione del 20-25%;
- moderata: riduzione del 25-40%;
- grave: riduzione > 40%.
Vanno eseguite valutazioni morfometriche sulle radiografie: vengono tracciati grafici che valutano la
differenza tra l’altezza del muro posteriore e l’altezza del muro anteriore, si attuano una serie di calcoli e
si individua, in questo modo, quali alterazioni morfologiche si sono verificate.
Nell’esempio riportato sopra, si nota una parete posteriore di 24mm ed una parete anteriore di 18mm, che indicano
un (cito testualmente) “6mm di cuneizzazione anteriore”.
11.A.3 Sede
Le fratture su base osteoporotica si localizzano prevalentemente a livello del passaggio toraco-lombare (T12-
L1); è raro riscontrarle più cranialmente.
11.A.4 Diagnosi
Avreste mai detto che sarebbe servita un’RX? Beh, serve proprio un’RX! Attraverso questo esame è possibile
riconoscere la morfologia alterata (secondo la classificazione di Genant) della vertebra interessata, ma non
sempre è evidenziabile la rima di frattura. Per questo è importante ricorrere agli esami di secondo livello (TC
e RM): in particolare, la RM consente di datare la lesione grazie a particolari sequenze (STIR e T2) in grado di
riconoscere l’eventuale presenza di edema intraspongioso (indice di frattura fresca come il cocco che acquisti
in spiaggia).
11.A.5 Patogenesi
Il processo di cuneizzazione anteriore della vertebra fratturata porta ad una progressiva anteriorizzazione
del centro di gravità, aumentando così le forze agenti sulla porzione anteriore delle vertebre adiacenti.
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Questo può innescare un pericoloso effetto domino, tanto che dopo la prima VCF si ha un rischio aumentato
di 5 volte di incorrere in una seconda VCF.
Immaginatevi nel bel mezzo di una sfortunata partita di monopoli, in cui possedete solo vicolo corto, due stazioni e
parco della vittoria (per il quale vi siete sostanzialmente rovinati). State transitando tranquillamente a fianco alla
casella della prigione, quando vi scappa l’occhio e vi accorgete che ci sono 93574 case ben distribuite su tutte le
proprietà dei vostri avversari: così come dopo aver pagato 1500€ in piazza Dante è matematico (perché siete più
sfigati di un dinosauro che incontra Albano) che finiate anche su Largo Colombo e Piazza Giulio Cesare, allo stesso
modo dopo una frattura vertebrale su base osteoporotica è un attimo che vi ritroviate con la gobba del gobbo di
Notre Dame e tutte le vertebre spappolate.
Fratture cuneiformi si associano ad un alto grado di stiramento della componente vertebrale posteriore,
responsabile di una sintomatologia dolorosa piuttosto intensa.
Se non adeguatamente trattate, le deformità scheletriche tendono a
peggiorare progressivamente.
Più frequentemente, invece, la sintomatologia si presenta subdolamente con graduali deformazioni del
rachide e perdita in altezza.
➢ Dolore
Il dolore è esacerbato dai movimenti e si irradia simmetricamente lungo i dermatomeri corrispondenti. Il
riposo, specialmente in decubito supino, allevia la sintomatologia sia nella fase acuta che nella fase cronica.
Il dolore da crollo vertebrale entra in diagnosi differenziale con quello causato da:
- infarto del miocardio;
- colica renale (in caso suggerisco di somministrare 4 cc di
placibio);
- pancreatite;
- dissecazione aortica;
- Herpes zoster;
- processi infettivi;
- cedimenti da localizzazioni secondarie (come in caso di mieloma multiplo).
3/6
La deformità del rachide e il dolore compromettono la funzione della colonna e ne diminuiscono la mobilità.
Si instaura un circolo vizioso, in quanto la diminuzione dell’attività fisica porta ad un’ulteriore perdita di
massa ossea, peggiorando il quadro osteoporotico. Diminuisce, di fatto, la qualità della vita di questi pazienti,
poiché:
- la compressione addominale favorisce una riduzione dell’appetito;
- la funzione polmonare peggiora (una VFC toracica causa una perdita del 6-9% della capacità vitale);
- compaiono disturbi del sonno;
- la diminuzione del ruolo sociale, l’aumento della dipendenza dalle altre persone e l’aumento
dell’ansia contribuiscono sinergicamente allo sviluppo di depressione.
➢ Complicanze neurologiche
Si tratta di un’evenienza rara.
11.A.7 Mortalità
Fratture a livello dell’anca e a livello vertebrale influiscono in maniera significativa (fino al 23%) sulla
mortalità, a differenza di fratture del polso, che non influenzano questo dato (ergo rompetevi tutti i polsi che
volete).
11.A.8 Terapia
Gli strumenti terapeutici disponibili possono essere conservativi (farmaci e tutori) o invasivi (chirurgici).
➢ Terapie conservative
Droghe
Vengono somministrati analgesici, antinfiammatori, decontratturanti (miorilassanti) e si esegue una
profilassi anti-trombotica.
Durante la fase cronica è importante seguire dei programmi riabilitativi incentrati sulla propriocezione,
con l’obiettivo di aumentare il trofismo e la forza muscolare.
Busti ortopedici
Si utilizza generalmente un’ortesi spinale a tre punti in iperestensione (per dettagli si rimanda alla lezione
sulle fratture vertebrali), anche se non sempre si adatta bene alla conformazione del paziente.
Pregi:
o permette di ridurre il periodo di allettamento;
o consente una mobilizzazione precoce.
Difetti:
o la riduzione degli stimoli meccanici a livello osseo favorisce l’osteoporosi (effetto
osteopenizzante);
o determinano una significativa ipotrofia muscolare;
o sono mal tollerati (a me dà fastidio la camicia, figuriamoci un busto)
4/6
➢ Terapia chirurgica
Le metodiche che negli ultimi anni hanno rivoluzionato il trattamento delle fratture vertebrali osteoporotiche
sono la vertebroplastica, la cifoplastica e la vesselplastica. Si tratta di procedure chirurgiche mini-invasive
(percutanee) che consistono nell’iniezione di cemento ortopedico all’interno del soma fratturato. Esistono
diverse varianti tecniche di queste procedure, ma non esistono trial clinici in grado di definire quale sia
migliore rispetto all’altra.
Vertebroplastica
Si inietta il cemento per via transpeduncolare all’interno del corpo della vertebra fratturata.
Cifoplastica
Viene inserito per via transpeduncolare un trocar, che presenta un palloncino alla sua estremità. Una volta
in sede, il palloncino viene gonfiato con aria ad alta pressione per ripristinare l’altezza fisiologica della
vertebra fratturata e successivamente estratto: nella cavità creatasi viene iniettato cemento ortopedico.
Vesselplastica
Costituisce un trattamento a cavallo tra i due precedenti: si utilizza un palloncino in teleftalato (un
materiale poroso) che viene gonfiato direttamente con il cemento ortopedico, il quale penetra all’interno
del corpo vertebrale attraverso le porosità del teleftalato.
5/6
- retropulsione del muro posteriore ≥ 2/3 del canale midollare;
- disordini della coagulazione;
- allergia al PMMA;
- discite o spondilodiscite.
Complicanze
Si tratta di procedure eseguite in anestesia locale2, normalmente ben tollerate dal paziente. In una piccola
percentuale di casi si può verificare la fuoriuscita di
polimetilmetacrilato (cemento) nel canale midollare, più frequente
nel caso di vertebroplastica (14% dei casi contro il 7,6% registrato
nella cifoplastica). In questi casi è raro che si manifesti una
sintomatologia, ma qualora avvenisse è necessario intervenire in
open per decomprimere il midollo spinale.
L’intervento di cifoplastica, in virtù della percentuale nettamente più bassa di complicanze, risulta essere
l’intervento più sicuro.
➢ Schema terapeutico
La scelta terapeutica dipende da diversi fattori, ma il primo aspetto che si osserva è il lasso di tempo che
intercorre tra il trauma e la diagnosi (detto t per comodità):
- se t < 1 mese: TRATTAMENTO CONSERVATIVO per 1 mese:
o se guarito, il paziente può tornare a divertirsi nei centri massaggi;
o se persiste dolore si osserva la deformità della colonna:
▪ se deformità ≥ 30°: CIFOPLASTICA;
▪ se deformità < 30°: VERTEBROPLASTICA;
- se 1 mese < t < 3 mesi: si decide sulla base della deformità (analogamente a quanto scritto sopra);
- se t > 3 mesi: si esegue direttamente la VERTEBROPLASTICA, anche se l’esperienza clinica insegna
che oltre i 3 mesi si innescano dei meccanismi di persistenza del dolore che rendono decisamente
meno efficace il trattamento chirurgico.
2 Fino a qualche anno fa le cifoplastiche venivano fatte in anestesia generale, tuttavia oggi si riesce ad eseguirle anche in anestesia
locale.
6/6
File stronzo n° 5: Lezione 11 – parte 3
Sbobinatore: C.R.
Docente: Zarattini
Nell’VIII-IX decade di vita le donne perdono il 40% della massa ossea del rachide e più del 58% di massa ossea
femorale e questo fa sì che si possano verificare le cosiddette fratture patologiche cioè quelle fratture che si
creano per traumi a bassa energia.
11.B.1 Epidemiologia
Sono 30.000 i casi all’anno di fratture di femore prossimale e si verificano prevalentemente in donne di razza
bianca. Fratture vertebrali, dell’anca (che fanno parte delle fratture prossimali di femore) e del polso sono le
più comuni fratture osteoporotiche. Tra queste tre, quelle che compromettono maggiormente la
sopravvivenza sono quelle dell’anca.
Si tratta di una patologia con un importante impatto socio-economico, prevalentemente a causa di:
- mortalità del 20-30%;
- morbidità (14%): decubiti, infezioni polmonari e urinarie, tvp, sindrome ipocinetica;
- Costi economici: perdita di autosufficienza e conseguente necessità di assistenza.
I fattori prognostici sfavorevoli sono:
- Età biologica e neurologica (il pz con più di 80 anni ha circa il 75% di probabilità di morire entro l’anno)
- Sesso maschile
- Precedenti patologie internistiche
11.B.2 Clinica
La diagnosi clinica è semplice. Il sospetto di frattura è già segnalato in base a:
- dolore e impotenza funzionale;
- atteggiamento antalgico;
- arto accorciato ed extraruotato (questo è il segno più caratteristico di questi tipi di frattura).
1/4
11.B.4 Classificazione
Si distinguono:
- Fratture mediali (50%): riguardano collo e testa del femore. In
questa parte del femore l’articolazione è avvolta dalla capsula
articolare (fratture intracapsulari). Sono suddivise a loro volta
in:
o sottocapitate: appena sotto la testa del femore;
o mediocervicali: a metà del collo femorale;
o basicervicali: alla base del collo femorale.
All’interno della capsula decorrono l’arteria circonflessa inferiore e posteriore che irrorano collo e testa
femorale, perciò nella frattura mediale si possono avere rottura di questi vasi e necrosi della zona
interessata.
- Fratture laterali (50%) il docente si limita a indicare la zona, che è quella in azzurro nell’immagine;
extracapsulari. Divise in:
o basicervicali (alla base del collo femorale)
o pertrocanteriche (la linea di frattura è estesa tra un trocantere e l’altro)
o isolate del gran trocantere
o isolate del piccolo trocantere
o sottotrocanteriche
11.B.5 Trattamento
In questi anni si è capito che il trattamento chirurgico è migliore se effettuato entro 24-48 ore dal trauma
per evitare la cosiddetta sindrome ipocinetica. L’eccezione è rappresentata da pazienti con pluripatologie
perché ci sono dati che indicano che sarebbe meglio prima inquadrarli (da un punto di vista generale) in
maniera completa, rimandando l’intervento oltre i tempi standard.
Il trattamento è, dunque, sempre chirurgico ed è volto ad avere una mobilizzazione precoce per un ritorno
alle normali funzioni deambulatorie.
Esso dipende dal grado della frattura. Esistono due classificazioni, quella di Pauwels e quella di Gardens
che, rispettivamente, dividono le fratture in 3 e 4 gradi: man mano che si sale di grado, aumenta
l’instabilità della frattura.
L’algoritmo di trattamento è importante: per le fratture composte (stabili) l’intervento è l’osteosintesi, per
le scomposte (tendenzialmente instabili) si fa una sostituzione di tipo protesico.
- nelle fratture di grado I e II di Garden, in soggetti di età inferiore ai 60 anni, si tende a fare un
intervento di osteosintesi perché la chance di guarigione è alta. L’osteosintesi prevede incisioni
percutanee in corrispondenza di ogni vite (se ne usano 3 di solito).
- Nelle fratture di grado III e IV, in paziente anziano si sostituisce il pezzo fratturato con un’endoprotesi,
mentre per i pazienti più giovani si utilizza un’artroprotesi.
L’endoprotesi (o protesi biarticolare) si compone di uno stelo da inserire nel canale midollare e di una testa
femorale che si articola con un inserto in polietilene ricoperto da una cupola (nell’immagine questa non è
visibile ma immaginate che circondi la testa del femore). La protesi si articolerà poi con il fondo
2/4
dell’acetabolo. A distanza di 5-6 anni dall’impianto è piuttosto probabile l’infiammazione della protesi e
conseguente cotiloidite, per questo motivo è un trattamento riservato all’anziano. Tali protesi sono
prevalentemente di tipo cementato (nei pazienti più giovani invece si usano di solito protesi non cementate).
Le altre complicanze sono rappresentate da pseudoartrosi (la frattura può non guarire) o necrosi della testa
femorale (per deficit di vascolarizzazione). Possono essere presenti entrambe.
La protesi permette il carico immediato nel giro di 24-48 ore, a differenza dell’osteosintesi, dove il carico è
protetto (parziale) per almeno un mese.
Per le stabili:
- il gold standard è l’osteosintesi con il sistema vite placca a scivolamento (o dinamica). È composto
da una placca nella porzione laterale del femore all’interno della quale viene messa una vite per
compattare e consolidare la frattura;
3/4
- In alternativa si può usare un chiodo endomidollare (o chiodo gamma) che ha un braccio di leva
minore e quindi la forza che agisce sulla zona di frattura è diminuita. Un altro vantaggio del chiodo è
che può essere messo per via percutanea quindi l’intervento è poco invasivo. Per queste ragioni è
sempre più utilizzato non solo nelle fratture instabili (per cui sarebbe il gold standard) ma anche nelle
stabili (tipo A1). Nei casi complessi è più discutibile se usare una placca o una vite (il docente a tal
proposito propone alcuni esempi radiologici di fratture in cui è stato preferibile utilizzare una placca).
Il trattamento post-operatorio è più complesso perché il carico dato sarà parziale (trattandosi di
un’osteosintesi), come detto precedentemente. Nell’osso osteoporotico infatti, i punti di contatto tra vite e
osso sono pochi e questo può portare a cut-out delle viti: l’osso non è abbastanza forte da sopportare il
sistema delle viti. Per limitare questo problema si può innanzitutto fare attenzione al posizionamento delle
viti: è meglio infatti metterle inferiormente (guardando la proiezione anteroposteriore) e posteriormente
(guardando la proiezione latero laterale). Altre complicanze sono il cedimento del mezzo di sintesi (che
dev’essere quindi sostituito) e l’ossidazione dei metalli.
Esistono anche protesi per fratture pertrocanteriche: si devono usare steli più lunghi o normali ma con
accorgimenti particolari. Il problema è che spesso per queste fratture il trattamento protesico ha complicanze
maggiori quindi bisogna prestare particolari attenzione e, se possibile, evitarlo. Bisogna limitarsi a trattare la
frattura e trattare la patologia di base; essendo l’osteoporosi il problema principale, verranno somministrati
calcio e vitamina D o anche farmaci anabolici.
4/4
Sbobinatore: K. I.
Revisore: C. M.
Materia: Medicina fisica e riabilitazione
Docente: Professoressa Maria Vittoria
Comunicazioni: La professoressa ha pubblicato su Teams le slide della Meraviglia
lezione, alcuni articoli del professor Boccardi, uno dei fondatori della medicina Data: 24/05/21
riabilitativa in Italia, un articolo di Antonella delle Fave psicologa che si Lezione n°: 1
occupa di riabilitazione ed una articolo sulla promozione della salute. Qualora Argomenti: Introduzione alla medicina
fossimo interessati sarà inoltre possibile chiedere alla professoressa riabilitativa
materiale di approfondimento riguardante la classificazione ICF trattata a
lezione.
Altre definizioni descrivono la riabilitazione come quella branca della medicina volta al recupero di una
funzione compromessa, come trattamento medico e fisioterapico o in maniera più estensiva come la
reintegrazione di un soggetto nella stima
sociale perduta in seguito ad azioni
ritenute disdicevoli.
1
• Col termine fisioterapia si intende quella branca della medicina che si avvale di mezzi fisici e
dell’attività fisica a fini terapeutici. Il termine è centrato sulla natura e non sull’obiettivo per cui
vengono utilizzati. Terapie molto diffuse, anche se in minima parte validate, sono quelle che
utilizzano l’energia elettrica (elettroterapia), elettromagnetica (radar, marconi, laser) o meccanica
(ultrasuoni, onde d’urto).
• Nella chinesiterapia (terapia del movimento) il movimento costituisce uno degli strumenti più
importanti della riabilitazione motoria, si tratta però di un approccio di scarsa diffusione per via
delle tempistiche dilatate e dei costi.
Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per "riabilitazione" si intende
"l'insieme di interventi che mirano allo sviluppo di una persona verso il suo più alto potenziale sotto il
profilo fisico, psicologico, sociale, occupazionale ed educativo, in relazione al suo deficit fisiologico o
anatomico e all’ambiente”. Si sottolinea in particolare l’importanza qualitativa e quantitativa di questi
nuovi aspetti introdotti nella definizione dell’OMS.
Va poi ricordato che con il termine riabilitazione si intende un intervento che agisce, in primo luogo, sulle
parti sane del paziente, favorendone lo sviluppo, e che al contempo, nonostante i limiti imposti dalla
patologia, consente il raggiungimento del massimo grado di autonomia possibile. Riabilitare implica un
agire all'interno di una relazione, dove il paziente è soggetto partecipe ed il fine è raggiungere la migliore
qualità di vita possibile, con la minor restrizione possibile delle sue scelte operative. Ne consegue che il
trattamento riabilitativo deve interessare il paziente nel suo complesso e va per forza di cose ad
interessare anche la sua sfera sociale.
Centrale nell’uso del termine riabilitazione è quindi il rivolgersi ad una persona nel suo insieme,
comprendendo il contesto personale ed ambientale: “si riabilita il signor Rossi, non l’emiplegia del signor
Rossi”.
Pertanto la riabilitazione non può essere intesa come di esclusiva spettanza medica, e non dovrebbe
ammettere né prefissi né aggettivi che ne qualifichino i settori di applicazione (riabilitazione neurologica,
ortopedica, ecc.), ciò risulta essere in contrasto con una visione più riduzionistica della medicina che
però si scontra con una realtà in cui spesso i soggetti possono presentare contemporaneamente più di
una disabilità necessitando quindi di un approccio che sia il più multidisciplinare e completo possibile.
Secondo il filosofo e sociologo Edgar Morain la riabilitazione segue la legge del secondo principio della
termodinamica e quindi un “pezzo” non può essere scisso dall’altro: osservando il particolare si perde la
visione d’insieme.
Rimane poi il problema dell’intervento su soggetti che non hanno ancora acquisito, e quindi non possono
aver perduto, delle abilità (bambini). E’ stato allora proposto il termine “abilitazione” che non ha avuto
però alcuna fortuna.
Nel meeting “Rehabilitation 2030” svoltosi a Ginevra nel 6 Febbraio del 2017, si propone un’ulteriore
definizione di riabilitazione, la quale è definita come “un insieme di interventi concepiti per ottimizzare il
funzionamento e ridurre la disabilità” in persone che presentano diverse “condizioni di salute”, riferibili a
malattie acute o croniche, disordini, lesioni o traumi. In queste “condizioni di salute” vengono ricomprese
non solo le patologie disabilitanti che rientrano comunemente nell’ambito della riabilitazione, ma anche
situazioni non patologiche che ne limitano, anche temporaneamente, il funzionamento, quali sono ad
esempio la gravidanza, l’invecchiamento fisiologico o lo stress.
Viene ora riportato un estratto dell’intervento di Paolo Boldrini, presidente della società italiana di
medicina fisica e riabilitativa:
Nel meeting viene poi sottolineato come il reddito sia una importante discriminante nell’accesso ai servizi
riabilitativi che oggi sono sempre più spesso ad appannaggio di istituti privati.
La diagnosi fatta dal riabilitatore (fisiatra in questo caso) è diversa da quella clinica (sarebbe meglio
infatti parlare di valutazione piuttosto che di diagnosi), e si prefigura l’acquisizione tramite gli strumenti
adeguati e nel più breve tempo possibile della diagnosi di lesione (alterazione delle struttura), della
diagnosi di funzione (natura del difetto e sua storia naturale) e del profilo di disabilità (cosa è venuto
meno, come può essere recuperato o vicariato, cosa è rimasto e come può essere opportunamente
valorizzato). Il terapista redigererà poi il piano terapeutico (durata e frequenza delle sedute).
Essa deve inoltre tener conto della molteplicità delle funzioni alterate (motorie, percettive,
cognitive, affettive, comunicative e relazionali), delle loro peculiarità e delle loro interazioni
reciproche, nella logica dello sviluppo patologico e nel rispetto dell’individualità e della diversità di
ogni bambino. Ad esempio, un tempo si credeva che i bambini affetti da sindrome di Down non
fossero in grado di svolgere le addizioni in colonna, tuttavia si è poi verificato che con il giusto
approccio educativo ciò non era vero.
3
La rieducazione deve poi operare sistematicamente sul soggetto e sul contesto del cambiamento
(interazione bambino-terapista-ambiente), cioè sulle condizioni ecologiche più adatte, in modo da
facilitare lo sviluppo della funzione compromessa ed il suo utilizzo razionale.
• L’educazione è anche competenza del personale sanitario e dei professionisti del settore
(insegnanti) ed ha per obiettivo sia la preparazione del soggetto ad esercitare il proprio ruolo
sociale (educare il disabile) sia la formazione della comunità, a cominciare dalla scuola, ad
accoglierlo ed integrarlo (educare al disabile), per aumentarne le risorse ed accrescere l’efficacia
del trattamento rieducativo.
• L’assistenza ha per obiettivo il benessere del soggetto e della sua famiglia ed è competenza del
personale tecnico e degli operatori sociali. Essa deve accompagnare senza soluzioni di
continuità il soggetto e la sua famiglia sin dall’insorgere della disabilità.
Il modello culturale di riferimento deve basarsi su una conoscenza aggiornata, supportata dall'evidenza
scientifica e dai contributi delle neuroscienze, dello sviluppo delle funzioni adattive in condizioni normali
e patologiche. In età evolutiva queste funzioni devono essere valutate in modo dinamico al fine di
cogliere la loro variabilità e la loro modificabilità in relazione al soggetto, allo scopo ed al contesto di
utilizzo.
Gli obiettivi terapeutici devono basarsi sulla prognosi di recupero, cioè sulla valutazione dei limiti di
modificabilità di ciascuna funzione in relazione alle risorse possedute dal bambino o dall’adulto, alla sua
motivazione ed alla sua capacità di apprendimento. La rieducazione deve basarsi su un progetto di
cambiamento costruito su misura per ciascun soggetto e deve tener conto del suo contesto sociale.
Ogni procedura terapeutica adottata deve essere fondata su una sperimentazione attiva rispettosa della
propositività del soggetto, dei suoi bisogni come dei suoi desideri. Per il bambino ad esempio può essere
importante ritrovare un ambiente accogliente, colorato, poter giocare o disegnare.
La possibile ripetitività dell’esercizio terapeutico, quando necessario per il raggiungimento di una vera
abilità, non deve risultare in alcun modo stereotipato, oppressivo o afinalistico, ma deve basarsi su una
variazione delle caratteristiche dei compiti e dei contesti in grado di facilitare nel soggetto l’acquisizione
dei meccanismi e delle regole, piuttosto che l’apprendimento delle singole prestazioni motorie.
Il programma terapeutico deve procedere per ipotesi e verifiche, porsi degli obiettivi raggiungibili e
misurabili (da dichiarare al paziente), ammettere l’esistenza di limiti non superabili. Il progetto è proposto
in prima istanza dal medico, sono poi presenti competenze trasversali condivise con terapisti, infermieri,
assistenti sanitari e tecnici vari.
In questo contesto la formazione dei vari professionisti richiede un aggiornamento continuo per il
perfezionamento degli strumenti e delle procedure di cura, perché ogni progetto terapeutico possa
essere ideato, pianificato e realizzato per ciascun soggetto nel modo più aggiornato ed efficace
possibile.
Il gruppo di lavoro deve essere composto da personale specializzato (medici, psicologi, terapisti, tecnici,
ecc.) in un rapporto numerico adeguato rispetto ai soggetti in carico, deve essere dotato di spazi dedicati
e di attrezzature adatte, disporre del tempo necessario per la raccolta di informazioni sulla evoluzione
clinica di ciascun paziente e per la discussione interdisciplinare periodica del caso. Nel caso di bambini
può essere utile richiedere ai genitori dei reperti video che siano grado di mostrarci il reale
comportamento del soggetto nel suo ambiente, spesso questo è molto diverso da quello che osserviamo
in ospedale.
Il gruppo di lavoro deve garantire una gestione unitaria e complessiva dell’intervento riabilitativo
(globalità), seppure attraverso programmi selettivi e mirati (specificità), erogati tempestivamente
(efficienza) e per il tempo necessario (efficacia) sin dalla prima infanzia, quando maggiori sono le
possibilità di influenzare favorevolmente lo sviluppo del soggetto. E’ importante la figura del leader
all’interno del gruppo di lavoro, questo soggetto viene riconosciuto dal gruppo di lavoro e si occupa in
primis della comunicazione col paziente.
4
E’ poi importante costituire una rete integrata di servizi di riabilitazione del soggetto, la quale deve
possedere collegamenti organici nazionali, per permettere una sistematica organizzazione delle
esperienze e delle conoscenze epidemiologiche, dei protocolli di diagnosi e cura, delle procedure
riabilitative più accreditate e per l’individuazione dei criteri di valutazione e di verifica dei risultati comuni.
Il processo di riabilitazione non dovrebbe alterare eccessivamente la vita del soggetto, è ad esempio
impensabile svolgere un trattamento in modo continuativo se questo si svolge molto lontano da casa.
La famiglia deve essere sostenuta a governare l’incertezza (presa a carico e relazione di aiuto) e guidata
a costruire intorno al bambino o all’adulto il miglior contesto di vita possibile fisico, psicologico e sociale
(cultura della partecipazione). Il messaggio che arriva alla famiglia deve essere univoco pur
coinvolgendo diversi professionisti e deve coinvolgerla in maniera attiva attraverso il processo di
comunicazione della diagnosi e della prognosi, la determinazione degli obiettivi e degli strumenti, la
distribuzione dei compiti, l’adattamento del contesto ed il sostegno materiale per la risoluzione dei
problemi logistici, economici e gestionali. Anche la scuola che è parte integrante della vita del bambino
andrebbe coinvolta in questo processo.
Oggi ha assunto molta importanza anche il così detto “terzo settore”, ovvero il volontariato e le varie
forme di solidarietà sociale, che collaborano al processo di assistenza e di socializzazione del soggetto
al fine di amplificarne le possibilità di integrazione e le capacità di relazione sociale. Va ricordato come
nonostante questo tipo di intervento nasca su base volontaria, sia necessario per I volontari avvalersi di
percorsi di formazione ed aggiornamento adeguati.
Nel 1976 Ivan Illic propone nel suo libro “nemesi medica”
un nuovo concetto, quello dell’emancipazione dalla figura
del medico settecentesco, che con tutte le sue forze cerca
di lottare contro la morte finendo tuttavia spesso e volentieri
per creare un danno al paziente (iatrogenesi sociale).
Secondo Ivan Illich sarebbe quindi necessario un processo
di demedicalizzazone della società, in questo libro in
particolare si analizza come il fenomeno della morte venga
vissuto nelle varie epoche e culture.
5
popolazione in un determinato periodo e in una determinata epoca. La patocenosi racchiude quindi un
complesso di malattie, variabile sia quantitativamente sia qualitativamente, in cui la frequenza di ogni
malattia dipende dalle altre malattie o da fattori ambientali. Ad esempio in Europa nella seconda metà
dell’ottocento, imperversava la
tubercolosi, altre patologie
caratterizzanti quest’epoca sono
poi state ad esempio la pellagra,
la sifilide o lo scorbuto. La
patologia che ha invece vessato
il secolo scorso è stata senza
dubbio l’HIV; il concetto di
patocenosi è quindi in continuo
cambiamento, possiamo citare le
attualissime problematiche
legate alle zoonosi, che sempre
di pìù richiederanno una
coordinazione internazionale e
multidisciplinare per il loro
contenimento.
6
soprattutto nei bambini, in particolar modo nei loro primi 1000 giorni di vita.
Nel futuro sarà quindi fondamentale curare tutti quegli aspetti che vanno a condizionare la nostra salute,
soprattutto nell’ambito delle patologie cronico-degenerative, che saranno sempre più centrali per via
dell’allungamento dell’aspettativa di vita.
In particolare si sottolineano come siano dannosi il fumo e l’alcol: contrariamente a quello che si pensa
quest’ultimo non è un nutriente e anzi il suo abuso è tossico per l’organismo.
La professoressa ci consiglia inoltre di consultare il sito “dors Piemonte” per ulteriori informazioni sui
determinanti di salute.
8
Sbobinatore: V.C.
Revisore: B.M.
Materia: Medicina fisica e riabilitazione
Docente: Professoressa Maria Vittoria Meraviglia
Data: 31/05/21
Lezione n°: 2
Argomenti: Evoluzione e sviluppo del SNC; metodi e
tecniche di riabilitazione
Comunicazioni: il prof Milano farà un esame con domande aperte, con una domanda per ogni corso
e dando un tempo stabilito. La prof spende molto tempo ipotizzando come possa figurare l’esame e
come possano comportarsi le domande di conseguenza: se fosse a crocette escluderebbe la terapia
fisica come oggetto di domanda, se fosse a domande aperte invece ci sarebbe un’unica domanda,
di carattere molto generale ed ampio. Propone di passare le ultime due ore della prossima lezione
a rispondere a delle domande aperte
“Evoluzione” è un termine che richiama il processo evolutivo che parte da specie che sono comparse
sul pianeta prima di noi fino alla comparsa di H.sapiens, quindi un processo attuatosi
contestualmente allo sviluppo della vita stesso.
Il termine “sviluppo”, invece, presuppone che ci sia una sorta di engramma1 che, attraverso una
serie di attività, azioni e pensieri, emerge e si sviluppa; questo processo avviene nei bambini,
continuando poi anche nell’adulto.
Questo processo di sviluppo neurologico somiglia concettualmente allo sviluppo delle fotografie a
partire dal negativo.
1. Evoluzione filogenetica
Filogenesi = sviluppo della specie a partire dai primi Phyla.
1 Engramma: Un engramma è un ipotetico elemento neurobiologico che consentirebbe alla memoria di ricordare fatti
e sensazioni immagazzinandoli come variazioni biofisiche o biochimiche nel tessuto del cervello e di altre strutture
nervose.
2 La figura di Aristotele è assimilabile a quella di un biologo marino; Alessandro Magno era un pessimo allievo, ma era
molto ricco, quindi gli faceva da mecenate così che lui poté aprire il liceo
9
Uno dei primi studiosi dell’anatomia umana e del sistema SNC fu Aristotele3 (IV sec a.C. vs
Ippocrate V sec a.C.). Egli fece le sue prime osservazioni sugli embrioni di pollo attraverso un
“approccio anatomico”, che consiste nel comparare anatomia e fisiologia di varie specie.
Dopo Aristotele, un altro importante studioso fu William Harvey (XVII sec d.C.), colui che scoprì la
circolazione del sangue; prima si credeva che il sangue fosse fermo, che le arterie portassero aria 4.
Per quanto riguarda il nostro odierno interesse Harvey disse “ex ovo omnia”, indicando che secondo
lui ogni nuova vita dovesse avere come sua genesi un uovo.
Ci fu poi una divergenza tra scienziati dell’epoca tra epigenesi (formazione di organi avviene ex
novo) e preformismo (nei gameti esiste un homunculus che sta alla base dello sviluppo
dell’embrione)
Tra fine ‘700 e inizio ‘800 ricordiamo Karl Ernst von Baer, che
utilizzò un approccio embriologico comparato sulle orme di
Aristotele in cui studiava gli embrioni ed il loro sviluppo; osservò
che negli stadi embrionali di diverse specie ci sono molte similitudini
che progressivamente tendono a perdersi nel corso della
differenziazione delle varie specie stesse.
3 La figura di Aristotele è assimilabile a quella di un biologo marino; Alessandro Magno era un pessimo allievo, ma era
molto ricco, quindi gli faceva da mecenate; proprio grazie a quest’ultimo, egli poté aprire il liceo
4 Poche ore dopo il decesso all’autopsia le arterie sono vuote e beanti; le vene sono invece nastriformi in quanto
collabiscono; per questo motivo, si credeva che le arterie portassero lo “pneuma” al cervello dove, secondo la
concezione del tempo, poteva essere utilizzato per il raffreddamento
10
Konrad Lorenz (‘900)
Nobel per la medicina nel 1973 ed iniziatore dell’etologia, ossia lo studio scientifico delle altre specie
animali. Ha scritto “L’anello di re Salomone” (personaggio biblico noto per la sua saggezza e il cui
anello, ruotato intorno al dito, gli conferiva il potere di comprendere il linguaggio animale), in cui
narra delle sue osservazioni sul comportamento delle anatre nel suo stagno ad Altenberg, che lo
portarono a definire quello che oggi chiamiamo “imprinting” (quando si schiude l’uovo, la prima
persona che viene vista muoversi è considerata la mamma).
Nei suoi studi di etologia notò che curiosità, gioco, ricerca e arte sono tutte funzioni imparentate che
esistono di per sé e non per ottenere uno scopo qualsiasi o per ottenere un risultato; questo è quello
che fa un bambino, giusto per diletto, non per raggiungere uno specifico fine.
- La stella marina ha un
sistema simil-reticolare,
ma radiale. Questa ha
cinque bracci e per ogni
braccio ha un
prolungamento; uno dei
bracci è dominante sugli altri e quindi organizza tutto il corpo della stella. Se questa dovesse
perdere il braccio dominante, uno degli altri vicaria il dominante. Questo fa capire come le
possibilità di recupero dell’organismo siano proprie anche delle altre specie.
11
- Calamaro gigante: studiato a lungo per i meccanismi della memoria, comodo perché ha
grosse cellule nervose. Ha nervi scheletrici, gangli, polo cefalico detto cervello, un ganglio
otico: organismo molto evoluto e studiato.
Abbiamo dunque una sorta di somma dei cervelli visti nelle altre specie: c’è
- una parte reticolata da cui partono simpatico e parasimpatico;
- una parte gangliare con simpatico e parasimpatico;
- nervi con altrettanti reticoli;
- neuroni.
12
2.2 Brain gym
Nella slide di fianco è schematizazta
l’ipotesi proposta da Paul MacLean
dagli anni 80 del ‘900 sul coesistere
del cervello rettiliano, mesencefalo e
neopallio (poi screditata). In questa
ipotesi vengono associate alle varie
parti del cervello delle funzioni; ad
esempio, dal cervello rettiliano
vengono messi in atto
comportamenti di predazione,
esplorazione, la territorialità, la
sessualità e le pratiche ripetitive che
corrispondono alle abitudini,
cerimonie…
Nel cervello emotivo, secondo
MacLean, troviamo le relazioni di
accudimento, attaccamento, la sfera
sessuale, l’agonismo e la
cooperazione.
Da questa teoria prese origine la “brain gym”, un’attività motoria inventata nel ‘900 da una
fisioterapista svedese ed un ortopedico; consiglia tutta una serie di esercizi per la lateralità, il sopra,
il sotto… gli esercizi non fanno male, ma la base su cui si fondano è falsa.
13
Tutto ciò ha portato alla crescita del cervello,
portando all’acquisizione di nuove funzioni,
passando dall’evoluzione biologica all’evoluzione
culturale. Questa è andata molto più rapida di
quella biologica portandoci in poche centinaia di
anni ad essere quello che siamo: una popolazione
sedentaria.5
Sono cambiati anche i palmi delle mani, fino ad arrivare
al pollice opponente.
Quindi, il bipedismo libera le mani, garantisce un
diverso controllo motorio ed un adattamento del
cervello.
3.1 Dieta
La dieta dei nostri antenati fu alla base di un’altra importante spinta evolutiva: da erbivori passarono
ad una dieta proteica, data dall’aver imparato a cacciare, uccidere e cuocere la carne. Questa dieta
con qualità proteica più alta e portò alla riduzione anatomica di stomaco ed annessi, all’incremento
dello spazio dedicato al cervello e alla possibilità di comportamenti più complessi, come il movimento
balistico, che altre specie non posseggono.
Di conseguenza diminuirono il volume di addome e
cassa toracica: un erbivoro deve mangiare molta erba
per avere le stesse calorie che hanno altri alimenti. In
questo stomaco e fegato erano molto sviluppati, il
cervello meno, rene e cuore similmente: la diminuzione
del volume occupato dall’apparato digerente è andato
a favore di un maggiore sviluppo del cervello,
contenuto nella scatola cranica.
5nella preistoria H.sapiens uomo percorreva circa 20 km/die, mentre le donne erano più “sedentarie”(10km) perché
accudivano la prole e raccoglievano; ciò oggi non accade più, con delle ripercussioni sulla salute
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3.2 Ontogenesi dei neuroni
A partire dall’iniziale mitosi i neuroni migrano,
non si sa come, nel momento giusto e nel posto
giusto; si differenziano poi nei vari tipi
specializzati; dopo di che inizia la sinaptogenesi.
Alla nascita i neuroni smettono di riprodursi e
quelli non utilizzati cominciano a morire
(apoptosi programmata), ma si moltiplicano le
sinapsi, contatti fra le varie cellule; questo ha
l’obiettivo di dare più spazio alle cellule per
specializzarsi, in modo diverso a seconda
dell’utilizzo che ne fa l’organismo.
I movimenti in cui il feto si pone a testa in giù, con la testa contro il canale da parto, sono una forma
di collaborazione al parto: in questo consiste
l’importanza del movimento prenatale. Premendo sul
canale del parto viene liberata ossitocina in circolo.
Nella slide di fianco si vedono midollo, polo cefalico e
le due cavità ventricolari pari e simmetriche vicino al
rachide e al cranio: il SNC alla nascita è pronto, con
le circonvoluzioni. In un nato pretermine (esempio 26
settimane) le circonvoluzioni non sono ancora
presenti e formate.
Ricordiamo che la durata della gravidanza in
H.Sapiens è di 40 settimane (circa corrispondenti ai 9
mesi di cui comunemente si parla).
15
Alla nascita il cervello maschile è più pesante rispetto a quello femminile, ma il peso non correla con
le capacità cognitive.
3.4.2 Neurogenesi
Nell’immagine di fianco si può osservare lo sviluppo del cervello a
partire dalle prime settimane di gestazione fino alla nascita. Si
osserva che all’inizio prevalgono strutture come tronco e bulbo; alla
fine prende il sopravvento lo sviluppo della corteccia (telencefalo).
Le persone in coma vegetativo conservano le funzioni appunto
vegetative se mantengono la funzione delle strutture
embriologicamente più arcaiche; la corteccia non da segni di attività,
ma più in basso il SN resta attivo per dare respiro e battito cardiaco
autonomo.
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Il neurone è una cellula molto dinamica, in
grado di modificare la sua forma, la sua
arborizzazione dendritica, il suo assone e le
sue sinapsi anche in tempi relativamente brevi
con collegamenti con la cellula adiacente che
possono aumentare o diminuire: questo implica
che il cervello sia un sistema in continua
modificazione, estremamente dinamico.
Infatti, andando ad osservare il cervello in età
differenti, con il passare degli anni le
connessioni aumentano enormemente, a
scapito anche del numero di neuroni.
NB: dopo nascita l’unica struttura che conserva la possibilità di duplicare le cellule in età adulta è
l’ippocampo. Questo è stato studiato in persone malate di Alzheimer, nelle quali l’ippocampo non
produce più cellule; non significa che la patogenesi dell’Alzheimer sia legata a questa mancata
produzione. Per ora, comunque, non ci sono risvolti terapeutici, in quanto non sembra che
l’ippocampo possa riuscire a sopperire alla morte neuronale che si verifica in questa malattia
neurodegenerativa.
Nello sviluppo del cervello, quindi, sembra avere un ruolo maggiore l’epigenetica della genetica. Non
solo: anche nell’obesità infantile, in alcune neoplasie ed in patologie che chiamiamo “idiopatiche”
sembra esserci un ruolo dell’epigenetica, trasmissibile anche agli eredi.
In particolare, l’obesità non è legata solamente all’alimentazione e la distribuzione del grasso nei
bambini obesi è diversa da quella che, invece, caratterizza i bambini che sono semplicemente soliti
mangiare in eccesso. Differenze, quindi, si individuano anche a livello della genesi oltre che a livello
del metabolismo.
Ricordiamo che un fattore di protezione è rappresentato dal latte materno: sono stati studiati
contenuto e proprietà del latte materno e si è visto che tutte le popolazioni di cellule che compongono
la materia cerebrale traggono maggior beneficio dal latte materno rispetto al latte artificiale.
La professoressa auspica che queste conoscenze possano da noi essere applicate in campo
preventivo; in tal modo i bambini diverranno adulti in salute.
1. Excursus storico
Storicamente l’impiego dei mezzi fisici in terapia (termalismo, salassoterapia, elettricità) risale agli
antichi greci e romani: ad esempio nell’antica Grecia venivano utilizzati alcuni pesci elettrici, come
ad esempio la Torpedo mamarata, per la cura della cefalea.
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Tuttora vengono utilizzati massaggi, mobilizzazione del corpo, che riescono a portare beneficio agli
ammalati.
Tra i primi studiosi che hanno studiato altre forme di energia presenti in natura ci fu Alfonso Borelli
(‘600). Egli scrisse un libro che venne pubblicato postumo, “De moto animalium”, in cui studia il
movimento degli animali ed applica le leggi della meccanica alla funzione dell’organismo vivente.
Nel ‘700 von Haller va a studiare l’utilizzo di stimolazioni meccaniche e chimiche sui muscoli
scheletrici nel suo libro “Elementa Physiologiae”.
Ci fu poi la diatriba tra Luigi Galvani e Alessandro Volta, in cui si scontravano l’elettricità prodotta
chimicamente con quella animale. Alla fine, vinse Volta con l’elettricità prodotta chimicamente, in
quanto si ebbe la dimostrazione che la corrente che muoveva le zampe del preparato di Galvani
derivava comunque da quella “chimica”.
Altre forme di elettricità sono i raggi X, scoperti da Conrad Roentgen in maniera accidentale: fece
“per sbaglio” una radiografia alla mano della moglie dopo essersi dimenticato acceso un apparecchio
che emetteva i raggi che stava studiando, che denominò raggi X.
Questi vennero poi impiegati da Marie Curie; oltre aver scoperto polonio e radio, attrezzò un furgone
da campo con un apparecchio simile a quello di Roentgen che venne impiegato in guerra per poter
prestare soccorso ai feriti; usò questi raggi per la diagnosi delle patologie ossee. Questi oggi non
sono più usatissimi, sostituiti da più moderne TC, che comunque funziona a raggi X, ed altre
sostanze, come l’emissione di positroni, la RM e via dicendo.
Alcune di queste forme di energia possono essere utilizzate in riabilitazione (slide 6), come ad
esempio la magnetoterapia, che consolida più velocemente la calcificazione delle fratture; altre
forme meccaniche sono gli ultrasuoni o le onde d’urto, che servono ad esempio nel litotritore per
frammentare calcoli renali o per trattare patologie ossee, come nella calcificazione di spalla,
migliorando il dolore da periartrite.
Ci sono poi terapie con corrente elettrica, con freddo e caldo.
2. Tecniche di riabilitazione
2.1 Radarterapia
Utilizza le onde elettromagnetiche della banda di frequenza delle microonde per ottenere un effetto
antidolorifico. Tali onde sviluppano nei tessuti trattati un calore che si trasmette in profondità.
Controindicate in portatori di pacemaker, perché le microonde scaricano la pila.
2.2 Marconiterapia
È una varietà di elettroterapia con correnti ad alta frequenza, detta anche terapia con onde corte.
2.3 Laserterapia
(LASER = Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation); ce ne sono di vario tipo:
dall’infrarosso, che semplicemente riscalda la superficie della cute e pochi mm sotto, ad altri con
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una portata maggiore, che a contatto con la retina possono dare origine a una degenerazione
retinica e possono essere utilizzati solo da mano medica.
2.4 Tecarterapia
Utilizza la diatermia da contatto; (TECAR = Trasferimento Energetico Capacitivo Resistivo) utilizza
correnti elettriche alternate ad alta frequenza per mezzo di una coppia di elettrodi d’acciaio che,
applicati in modo non invasivo ad un segmento corporeo del paziente, consentono l’applicazione
dell’energia generata dal dispositivo in modo selettivo e profondo. Può giovare a una serie di
patologie che colpiscono i segmenti dell’apparato locomotore di alcuni pazienti. Scopo antalgico e
trofico.
2.5 Fototerapia
- con infrarossi: si utilizza una lampada a irradiazione con un radiatore per il trattamento
mediante riscaldamento del tessuto cutaneo che utilizza il calore prodotto dalla luce della
lampada.
- con ultravioletti: la luce solare, con o senza l’ausilio di sostanza fotosensibilizzanti, è stata
impiegata fin dall’antichità per la cura di alcune malattie della pelle (ad esempio la psoriasi).
Tra i diversi tipi di radiazioni elettromagnetiche emesse dal sole i raggi UV, che non
penetrano più in profondità del derma, esercitano sulla pelle importanti azioni biologiche,
prime tra tutte quelle antiproliferativa ed immunomodulante.
Bisogna prestare attenzione agli occhi, vista l’esistenza di UVA e UVB.
2.6 Elettrostimolazione
È una terapia fisica che prevede l’uso di correnti eccito-motorie ad onda quadra bifasica, in grado di
produrre una contrazione muscolare. Queste sono veicolate tramite l’applicazione di elettrodi sulla
cute soprastante il muscolo e possono essere applicate a muscoli normoinnervati, parzialmente
innervati o denervati utilizzando programmi specifici. L’elettrostimolazione, attivando il muscolo
mediante la stimolazione delle placche neuromotorie, recupera in tempi rapidi il tono muscolare
consentendo un ritorno alle attività contro resistenza con le quali il muscolo può recuperare trofismo.
Viene molto usata negli sportivi che non si possono allenare perché hanno, ad esempio, problemi
articolari; in questo modo si mantiene un certo tono muscolare ed un certo trofismo, affinché possa
riprendere la kinesiterapia: dopo 15 giorni il trofismo muscolare di un atleta di alto livello decade.
Non hanno controindicazioni se non in presenza di neoplasie note e nelle cartilagini in accrescimento
(così come gli ultrasuoni).
Possono essere usate anche nei centri estetici con apparecchiature che raggiungono intensità
inferiori a quelle usate in terapia.
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negativa che impedisce l’accomodazione delle fibre nervose e non produce danni alle membrane.
Viene eseguita dai fisioterapisti e funziona abbastanza.
La professoressa consiglia di focalizzare l’attenzione su tens terapia ed onde d’urto, in particolare
sul tipo di onda che viene utilizzata dall’apparecchiatura.
2.8 Ionoforesi
Non si utilizza più. Detta anche elettrolisi medicamentosa, è una tecnica terapeutica antalgica che
utilizza corrente continua unidirezionale per trasportare i farmaci allo stato ionico attraverso la cute.
Non funziona.
2.9 Magnetoterapia
Utilizza impulsi elettromagnetici statici o tempo variabili a bassa frequenza ed alta intensità, stimola
la rigenerazione dei tessuti ossei e cutanei, migliora la circolazione sanguigna e stimola al
produzione di endorfine da parte del sistema neurovegetativo. Questa va applicata per tempi lunghi
ed è efficace se utilizzata per molte ore; spesso se usata per la mezz’ora di terapia il consolidamento
dell’osso non si ha. Oggi ci sono anche apparecchi che danno intensità maggiori ma con rischi
maggiori.
2.10 Ultrasuonoterapia
Fa uso di vibrazioni meccaniche ottenute in modo artificiale, sfruttando la proprietà di alcuni cristalli
minerali sottoposti all’azione di un campo elettrico di corrente alternata. Per il dolore cervicale non
si fa più perché la glottide non è molto lontana (?). sono utili, fatte in acqua, per il dolore al gomito,
per il quale non funziona nient’altro. Non vanno fatte assolutamente nei bambini (blocca
l’accrescimento delle cartilagini) e quando c’è in atto una neoplasia (ne stimola la proliferazione).
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2.12 Kinesiterapia
Si svolge in palestre con vari strumenti ed attrezzi, anche messi in acqua per lavorare con forza di
gravità ridotta (questo per la sclerosi multipla nella fase a poussé).
La riabilitazione in acqua ne sfrutta i vantaggi fisici:
- la spinta di Archimede si oppone alla forza peso alleggerendo il paziente.
- è viscosa, opponendosi al movimento maggiormente. Questo porta a rinforzare la
muscolatura senza adoperare sovraccarichi e pesi aggiuntivi.
- Pressione idrostatica: viene esercitata perpendicolarmente in ogni punto della superficie
corporea migliorando l’equilibrio e la propriocezione; questo porta ad un miglioramento della
postura, della coordinazione e dell’equilibrio
- Temperatura: posso usare acqua calda se voglio indurre rilassamento o alternare acqua
calda e fredda per migliorare il circolo.
- La propriocettività: altro effetto dato dall’acqua è il manifestarsi di fenomeni sensoriali quali
un miglior apprezzamento della posizione del corpo e del senso di movimento dovuti alla
percezione della pressione esercitata dall’acqua su tutto il corpo che si traduce in una
sensazione di maggior sicurezza nell’esecuzione dei movimenti.
In acqua si possono mettere anche strumenti come pedane, cyclette, pesi… tutti esercizi che si
possono anche fare fuori dall’acqua. Sono tipicamente utilizzate per lo più per infortuni in persone
sportive.
L’idrochinesi terapia rappresenta la metodica massima e migliore integrazione tra le proprietà
fisiche dell’acqua e terapeutiche del movimento.
3. Metodi di riabilitazione
La Kabat metodica di riabilitazione sia per adulti che per bambini, a differenza della Bobath e della
Vojta (basata sulla stimolazione di punti trigger), che è esclusivamente pediatrica.
Doman fu il primo sviluppatore di una metodologia per i bambini Down e prevede che il bambino
ripercorra le tappe di sviluppo che aveva saltato. Può essere efficace, ma socialmente e
mentalmente può non giovare, in quanto invece che giocare il bambino fa le sue ore di “gattonaggio”
e di striscio con gli operatori addetti; i bambini Down, infatti, necessitano di poca fisioterapia per il
movimento.
Carlo Perfetti sfruttava la tecnica della propriocezione, in particolare per la mano ed il piede. Faceva
riconoscere oggetti (forma, tipo di oggetto) con mano e piede, ma con tempi di riabilitazione
abbastanza lunghi (1 anno). L’idea era di non rimettere il paziente in carico fin quando non avesse
sviluppato la propriocezione. Anche questa venne abbandonata perché troppo laboriosa.
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Ginnastica posturale Meziers: inventata da una signora che a 98 anni arrivò ad avere una
flessibilità notevole; tuttavia, per avere quella flessibilità occorre praticare la ginnastica
costantemente ad un buon livello, solo così si arriva a quell’età in quella forma.
McKenzie brevettò un’altra ginnastica posturale, che allunga molto il rachide. Sta al fisiatra e al
reumatologo indicarla in terapia e darle una graduazione d’intensità, in quanto può non esser sempre
indicata.
3.1 Pilates
Inventato dal Joseph Hubert Pilates. Ci sono forme di pilates acrobatico, ma anche forme fattibili per
anziani con buona mobilità, giovani adulti…
Nel caso di grosse platee spesso si tratta di esercizi a bassa intensità di carattere ludico, che non
sono esattamente terapeutici.
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3.5 Realtà virtuale
I costi di queste terapie divengono abbastanza proibitivi, così come la realtà virtuale.
Ci sono delle esperienze immersive nei mondi virtuali e nei mondi specchio (si utilizza uno specchio
per muovere l’arto plegico, invertendo i lati), così come c’è la realtà aumentata, che è una realtà non
immersiva che si fa ad esempio utilizzando uno specchio e che viene vissuta nel mondo reale, non
nel virtuale.
Quindi bisogna avere a disposizione dei computer e strumenti di realtà virtuale; funziona. In forma
di gioco può essere utilizzata in molti utenti che hanno una playstation, ma se non è indicata i costi
di questo tipo di trattamento sono ancora troppo alti: occorre indossare una tutina con elettrodi che
vadano ad attivare gli elettrodi attraverso tutto un complesso tipo di trasmissione; questi ultimi
mandano una stimolazione al muscolo.
3.6 Robotica
Nell’immagine di fianco è raffigurato un esoscheletro con
elettrodi; il paziente pensando di estendere la gamba,
attraverso la trasmissione con o senza fili, riesce a compiere
il movimento.
Il rapporto costi-benefici in confronto alle parallele è ancora
favorevole alle parallele. Certo è che in persone di certe età,
magari giovani con traumi spinali, può valer la pena fare
delle sperimentazioni con queste terapie, che possono
anche servire.
Resta valida questa affermazione di Mochet Feldenkreis
“when you know what you are doing, then you can do what
you want”: quando io so cosa sto accadendo so cosa fare,
non devo subire passivamente questi avvenimenti.
4. Conclusioni
La professoressa conclude la lezione accenando ad alcune possibili domande che potrebbero
capitarci in sede d’esame:
- Come può essere definita la riabilitazione?
- Quali sono le componenti della riabilitazione?
- Come stabilire indicazioni e controindicazioni della riabilitazione?
- Chi si occupa del progetto e del programma riabilitativo? (in questo caso dovremmo
distinguire il progetto di terapia da quello di educazione: nel primo intervengono professionisti
sanitari, nel secondo troviamo, nelle scuole, educatori professionali e insegnanti)
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Sbobinatore: M.R.
Revisore: M.B.
Materia: Medicina fisica e riabilitazione
Docente: Maria Vittoria Meraviglia
Data: 07/06/2021
Lezione n°: 3
Argomenti: Le basi neurobiologiche della
riabilitazione
Comunicazioni: Per quanto riguarda l’esame le date della sessione estiva le date (21/06, 05/07,
19/07) sono le stesse per tutti i moduli, ci sarà una domanda aperta per ogni modulo. Per
ciascuna domanda la professoressa suppone una risposta di 10-20 righe perché poi il sistema
manda avanti a quella successiva. Il pull di domande da lei scelte sono molto generiche, una
buona metà sono tratte dalle slide sulla prima lezione sul concetto di riabilitazione. La Prof
suggerisce che potremmo parlare di tutto: definizione di riabilitazione, le tre “branche” della
riabilitazione, la storia. Per esempio potrebbe essere utile riportare nella risposta il concetto per
cui la riabilitazione terapeutica viene effettuata in un gruppo di lavoro e ognuno degli afferenti a
questo gruppo ha le sue caratteristiche (fisioterapista, logopedista, fisiatra, altri specialisti) e
partecipa alla stesura del programma riabilitativo terapeutico. Il programma terapeutico ha un
inizio e una fine. Infatti, mentre l’assistenza e l’educazione possono avere un inizio e una fine
molto allargati, ovvero noi possiamo continuare ad apprendere e ricevere assistenza per tutta la
vita, per la terapia è importante stabilire degli obiettivi che siano raggiungibili e condivisi (ad
esempio nel bambino condivisi con la famiglia e la scuola, nell’adulto con l’ambiente di lavoro).
In tutto questo è sempre importante che noi ci occupiamo della persona e non della terapia, il
nostro obiettivo è che la persona che compie il percorso riabilitativo acquisisca maggiore
benessere. Se vogliamo possiamo anche parlare del concetto di salute e di come è cambiato
nel tempo dalla prima conferenza dell’OMS nel 1948 fino ai nostri giorni. Possiamo anche fare
riferimento al fatto che la pandemia ci ha riportato un po’ a ripensare alle malattie infettive
diffusive e quindi alle malattie acute, mentre ancora oggi l’ultimo piano regionale era incentrato
sulle malattie croniche degenerative. L’aspetto della malattia acuta pertanto non deve essere
tralasciato, ci potrebbe cogliere di nuovo impreparati ed è importante che la riabilitazione si
allarghi anche su questi argomenti. Invita a ricordarci dei trattamenti, sempre però mettendo in
primo piano la persona. Quello che a noi importa è la persona con il suo ambiente e non tanto
le tecniche della riabilitazione. Per concludere è importante focalizzarsi sui principi generali
della riabilitazione (“termine ombrello”) e poi possiamo portare il discorso dove preferiamo,
magari dicendo qualcosa in dettaglio di quello a cui siamo più interessati.
1.1 Introduzione
Camillo Golgi nel XIV secolo inventò la
tecnica dell’impregnazione argentica per
colorare i neuroni. Egli considerò i
neuroni come una rete di cellule
continue, senza una netta separazione
tra l’una e l’altra. Nello stesso periodo in
Spagna Ramòn y Cajal, invece,
conducendo studi simili giunse alla
conclusione che esistesse uno spazio di
separazione tra una cellula e l’altra.
Questa diatriba continuò a lungo, fino a
quando con la scoperta del microscopio
elettronico non vi furono più dubbi
sull’esistenza dello spazio sinaptico.
Nell’immagine si possono vedere i
neuroni con i loro corpi cellulari, i
dendriti (ramificazioni ad albero dei
1
neuroni) e gli assoni (ramificazione in genere singola del neurone che costituisce la via
d’uscita). La sinapsi più classica, nell’immagine a sinistra, è la asso-dendritica in cui l’assone di
un neurone termina sui dendriti di un altro neurone. Si nota come alcuni assoni siano avvolti da
un manicotto di sostanza bianca che chiamiamo mielina. La mielina, ad esempio, avvolge gli
assoni delle cellule neuromotrici più veloci, perché gli assoni non mielinizzati hanno una
trasmissione del segnale nervoso punto a punto mentre la guaina di mielina consente una
conduzione saltatoria da un nodo all’altro e quindi più rapida.
Le connessioni neuronali all’interno del SN sono determinate dalle sinapsi. Queste possono
variare e spostarsi, innervando più dendriti, più assoni e più cellule, formando così una rete
neuronale. Un concetto moderno, ma ancora in fase di studio, è quello di “connettoma” che
pone l’accento sulle connessioni a cui queste sinapsi possono dare luogo nel nostro sistema
nervoso. È molto importante nella riabilitazione perché è alla base della plasticità neuronale e
delle modalità di recupero e guarigione rispetto ad un evento che ha causato un
malfunzionamento.
I neuroni originano da cellule staminali situate attorno ai ventricoli cerebrali. Finora si pensava
che i neuroni non venissero più prodotti dal momento dalla nascita, invece si è visto come
alcune strutture, tra cui l’Ippocampo e l’Amigdala, continuino a produrli anche in età adulta. È
stato osservato che i pazienti affetti da malattia di Alzheimer perdono questa capacità
dell’Ippocampo di generare nuovi neuroni. Questo non significa che l’Alzheimer sia dovuto
all’incapacità dell’Ippocampo di generare nuovi neuroni, infatti si stanno facendo degli studi per
capire se ciò abbia un ruolo nell’origine e nella progressione della malattia ma non ci sono
prove.
Per ciò che riguarda la patologia esiste una sorta di evoluzione, anche chiamata storia naturale
della malattia, che può essere modificata attraverso:
- Farmacoterapia
- Terapia con mezzi fisici
- Prevenzione (vaccinazione, modifica degli stili di vita)
- Epigenetica
1.2 Recupero
I fattori che condizionano il recupero riabilitativo sono:
- Tipo di danno (trauma, emorragia, ischemia)
- Estensione del danno
- Localizzazione del danno
- Plasticità neuronale
I frenologi ci hanno insegnato che ogni zona dell’encefalo ha le proprie prerogative, quindi in
base alla sede del danno avremo un determinato deficit, di cui il mio programma riabilitativo
deve tenere conto (contattando gli specialisti di quell’area). L’anamnesi risulta essere
fondamentale per ottenere un recupero importante.
2
Il fenomeno di Sprouting è stato studiato da Rita Levi Montalcini e grazie a questo ha vinto il
Nobel. Nell’immagine a sinistra A si hanno due assoni di neuroni paralleli che vanno ad
innervare ciascuno un altro neurone. Nell’immagine B il secondo assone è leso e sarebbe
destinato ad atrofizzarsi. Quello che succede e che vediamo in C è che l’assone soprastante
emette un collaterale che va ad innervare la cellula lasciata orfana dall’assone sottostante e va
a vicariare l’innervazione. Nel frattempo l’assone del neurone sottostante può ricrescere.
Questo fenomeno è più tipico a livello del SN periferico.
Nell’immagine seguente si osserva l’encefalo di un furetto. In alto è presente il muso del furetto,
nell’immagine a sinistra sul retro prende contrasto la zona occipitale che è deputata alla visione.
Il furetto è un animale predatore e come tale è dotato di un’ottima vista. Durante lo svolgimento
di un esperimento i ricercatori sono andati a interrompere i nervi ottici in prossimità della
corteccia occipitale. Il furetto inizialmente ha perso la funzione visiva. Successivamente i nervi
ottici hanno mostrato un fenomeno parziale di ricrescita, ma non sono arrivati ad innervare la
corretta sede della lesione d’origine, rappresentata dalla regione occipitale; essi infatti si sono
diretti verso la zona temporale (immagine di destra). Di conseguenza questa non corretta
innervazione (per quanto riguarda la sede) ha avuto come conseguenza una diminuzione della
sua acuità visiva. Quindi, anche in vivo, questo fenomeno di ricrescita nervosa avviene.
Probabilmente se i ricercatori avessero indirizzato il nervo a crescere più a lungo si avrebbe
avuto anche un’innervazione più idonea. Un po’ di mancata funzione comunque residua sempre
e questo è uno dei limiti della riabilitazione. In ogni caso bisogna ricordare che nessuno torna
più quello che era prima di
un evento, anche solo per il
fatto che il trauma o la
malattia che abbiamo
attraversato ci hanno
cambiati e che comunque
passa del tempo. Noi
dobbiamo sempre
consderarci come un tutto
fatto di aspetti
neurobiologici ma anche
psicorelazionali.
3
Sotto viene rappresentata una sezione coronale dell’area sensitiva primaria di un emisfero che
si trova subito dietro la scissura di Rolando. È rappresentata la distribuzione della sensibilità a
livello della corteccia e si può osservare come ci siano zone del nostro corpo che risultano
maggiormente rappresentate. La mano, insieme al volto, risulta tra le zone maggiormente
sensibili. L’estensione della rappresentatività centrale è correlata con la raffinatezza della
percezione sensitiva.
4
Nell’immagine in alto a sinistra è stato testato l’esperimento opposto attraverso la rimozione del
terzo dito. Di conseguenza nella rappresentazione della mappa corticale si osserva come l’area
D3 sparisca. Questo ci fa capire che la fake news riguardante il fatto che noi usiamo solo il 20%
del nostro cervello non è assolutamente dimostrata, difatti una zona che risulta inutile viene
subito occupata dalle zone limitrofe. Nulla nel nostro cervello rimane inattivo. Quindi nel caso in
cui un arto venga amputato, a livello centrale si osserva una riorganizzazione per quanto
riguarda la mappa corticale della sensibilità in cui l’arto non viene più rappresentato.
Al contrario se io vado a stimolare elettricamente la mano, come nell’immagine a destra, a
livello dell’encefalo otterrò un ingrandimento per quanto riguarda la rappresentazione
dell’innervazione.
5
1.4 Neuroriabilitazione Infantile
Alla nascita il cervello è già formato per ciò che riguarda la sostanza grigia, mentre per ciò che
riguarda la componente bianca abbiamo un ritardo in quanto le fibre non sono ancora
mielinizzate. Tra i quattro mesi e l’anno l’enecefalo aumenta di volume e le fibre si mielinizzano:
maturano prima quelle che sostengono il capo, poi il tronco, gli arti inferiori, la stazione eretta e
il cammino. Questa sequenza di mielinizzazione rende ragione del fatto che tra i quattro mesi e
l’anno è più facile raddrizzare il capo da proni rispetto che da supini. Tra i due e i cinque anni si
verifica, invece, la maturazione dei centri del linguaggio. Poi tra i cinque e sei anni il bambino è
in grado di imparare a leggere e scrivere perché abbiamo la coordinazione oculare, l’utilizzo
sincrono delle mani e altre cose possibili grazie alla maturazione della mielina. La maturazione
della mielina si viene a stabilizzare tra i quindici e i sedici anni, quando ormai è assai simile a
quella dell’adulto. Le cellule della sostanza grigia con le connessioni sinaptiche, invece,
continuano a maturare anche oltre i vent’anni e poi continuano per tutta la vita attraverso gli
apprendimenti.
6
La gravidanza si misura in settimane ed è esattamente di 40 settimane. Il controllo
neuromotorio inizia a ventotto/ventotto settimane e mezzo di gestazione. Il neuropsichiatra
infantile Adriano Milani Comparetti, attraverso una serie di ecografie in gravidanza, ha
dimostrato che il bambino già alla 32esima settimana ha un buon controllo neuromotorio e alla
40esima è in grado di assumere la posizione eretta, ma, prima di assumere la posizione eretta,
cammina sulle pareti uterine e si posiziona a testa in giù. Appoggiandosi con la testa
sull’imbocco del canale del parto manda in circolo l’ossitocina in maniera del tutto naturale.
Tutte queste operazioni motorie A. Milani Comparetti le ha chiamate “competenza a nascere”
perché il bambino aiuta la mamma a innescare e a procedere nel meccanismo del parto
(purchè sia arrivato a termine).
Il prematuro di 28 settimane non è in grado di collaborare, è necessario il taglio cesareo e dopo
ciò il bimbo va tenuto in culla termica fino alle 40esima settimana che è il momento in cui
comincia l’età neurologica 0. Quindi l’età cronologica 0 (settimane alla nascita) può essere
diversa dall’età neurologica 0 (che corrisponde alle 40 settimane). Nelle visite successive, più o
meno fino ad un anno di età, è importante conoscere le settimane alla nascita perché devo
calcolare questo divario. Quindi in un bimbo nato prematuro io non avrò a tot mesi tutte le
funzioni neuropsichiatriche (es: a due mesi seduto con appoggio, a sette mesi seduto senza
appoggio, a nove mesi stazione eretta, a tredici mesi cammino) che ho in un bimbo nato a 40
settimane in cui età cronologica ed età neurologica corrispondono, ma le avrò più tardi sulla
base del divario.
Esiste infine un’architettura di una funzione, ad esempio quella che vogliamo riabilitare.
L’architettura della funzione prevede componenti:
- Top Down (dal centro alla periferia) - > considerate una volta quelle del SNC (oggi
sappiamo che non tutto il SNC funziona in questo senso)
- Bottom Up (dalla periferia al centro) -> l’apparato locomotore
- Coping Solutions - > strategie individuali
- Aspetti motori -> moduli, prassie (sono quelle che poi passano sotto i movimenti
automatici) e azioni (prassia con contenuto intenzionale)
- Aspetti percettivi -> sensazioni (grazie ai recettori), percezioni (quando integro tutte le
sensazioni a livello centrale) e rappresentazioni
- Aspetti intenzionali -> motivazione e autostima
8
La stessa cosa avviene anche nell’ascolto della musica. Le vie uditive, che si sviluppano tra i
due e i cinque anni, sono quelle che poi ci aiutano ad emettere anche la parola. Si è visto che
spesso pazienti con afasia nei quali prevale la difficoltà all’eloquio e che fanno fatica a ripetere
una sequenza di parole cantandole riescono a esprimersi. Quindi questi due centri del
linguaggio, uno in un emisfero e uno in un altro, sono in stretta correlazione tra loro.
Alla base dello sviluppo della comunicazione verbale sono necessarie 4 abilità tra cui:
- Comprensione del linguaggio altrui
- Esatta comprensione delle parole
- Costruzione del vocabolario
- Combinazione delle parole in frasi
9
Sbobinatore: SD
Revisore: PS
Materia: Medicina Fisica e Riabilitativa
Docente: Maria Vittoria Meraviglia
Data: 07/06/2021
Lezione n°: 4
Argomenti: i neuroni specchio
Comunicazioni: a causa di problemi iniziali di connessione, la lezione inizia con un po’ di ritardo. Di
conseguenza la professoressa spiega in modo approssimativo le prime slide. In corsivo vengono
riportate alcune digressioni e citazioni della docente.
I NEURONI SPECCHIO
1.1 Introduzione
Nella prima immagine si può osservare uno schema
riassuntivo del sistema nervoso centrale e periferico. Si
ricorda pertanto che il midollo spinale appartiene al SNC
1
Il suo esaurimento porta alla malattia di Parkinson
I nuclei della base, al contrario, mandano delle efferenze a livello periferico. Per questo motivo, nel
momento in cui vi sono delle lesioni a livello di questi nuclei, si possono avere dei deficit
dell’esecuzione motoria.
A destra invece si può osservare il sistema limbico caratterizzato dal giro del cingolo (zona profonda
che si pensa possa essere implicata nella gestione delle emozioni), l’ippocampo2 (coinvolto
maggiormente nei sistemi di memoria) e l’amigdala (definita da LeDoux “il mozzo della ruota della
paura” in quanto è l’area che gestisce la sensazione primaria della paura). Oltre a questo, il sistema
limbico è fortemente interconnesso al sistema di ricezione degli odori (bulbo olfattivo) l’unico tra i 5
sensi che non manda delle efferenze a livello corticale.
L’immagine a lato è uno schema riassuntivo che
mostra le varie interconnessioni tra corteccia
primitiva e secondaria, cervelletto, tronco
encefalico e midollo (“l’unico esempio di computer
vivente che riesce a lavorare
contemporaneamente in serie e in parallelo senza
creare conflitti”)
2
Ippocampo = cavalluccio marino. Suddetto nome venne dato dagli antichi anatomisti che riscontrarono una
somiglianza morfologica di questo nucleo con un cavalluccio marino.
L’immagine mostra nuovamente le zone adibite
all’esecuzione del movimento ma pone l’accento sulla
cosiddetta area motoria supplementare, nonché l’area che
presiede alla coordinazione simultanea bilaterale e fine
delle due mani.
La sezione mesiale mette in evidenza il fatto che la zona
primaria e l’area motoria supplementare si approfondano
nella zona profonda dell’encefalo.
3
ad oggi il DNA ha subito un forte ridimensionamento in seguito all’introduzione dell’epigenetica. La percentuale di
DNA che codifica per proteine che vengono trasmesse geneticamente è rappresentata dal 2%. Il restante 98%, fino a
qualche tempo fa definito DNA spazzatura, non trasmette geneticamente ma dà informazioni di tipo epigenetico che si
integra a fattori bio-fisico-sociale. Questa parte di DNA sembra essere alla base di alcune patologie a trasmissione non
mendeliana quali ad esempio l’obesità. L’obesità infatti non viene trasmessa geneticamente ma si può osservare una
familiarità nei discendenti di soggetti obesi.
L’epigenetica, scienza di nuova scoperta, sta prendendo sempre più piede nello studio di alcune patologie biofisiche e
mentali come i disturbi dello spettro autistico.
I neuroni specchio sono un pool di neuroni scoperti dal neuroscienziato Rizzolati4 localizzati a livello
dell’area di Broca e del parietale che vanno ad influenzare gli aspetti sensitivi, motori e cognitivi
L’immagine a lato riassume a grandi linee il ruolo dei neuroni specchio.
4
In realtà non tutti gli studiosi accettano l’esistenza dei neuroni specchio
5
L’empatia è un processo complesso che sta alla base di una relazione, sia essa terapeutica che non. La differenza
sostanziale è che, per quanto riguarda la relazione empatica terapeutica, questa deve basarsi sulla comprensione dello
stato d’animo del paziente mantenendo però un certo grado di distacco.
6
La docente cita la sindrome di Asperger. I pazienti affetti da questa sindrome hanno una spiccata intelligenza e qualità
di apprendimento molto dissimili dalla maggior parte delle persone. Ad esempio, come nel film Rain man, sono in grado
di contare senza numerare (capacità che si pensa essere localizzata nel lobo di destra) quanti fiammiferi sono caduti a
terra.
Normalmente, la capacità di contare senza numerare (span) può raggiungere al massimo i 5-6 oggetti. Oltre tale
numero, la persona deve numerare i vari oggetti.
7
Questa scoperta gli fece ottenere la candidatura per il Nobel. Successivamente, però, uscì un articolo da un collega
neurologo Caramazza il quale dimostrava l’esistenza dei neuroni specchio anche nell’uomo.
Rizzolatti, dunque, non solo non ricevette il premio Nobel ma la sua candidatura venne ritirata.
Al di là di questa spiacevole vicenda, la docente afferma che molti altri premi sono stati attribuiti a Rizzolatti
8
La docente spiega come homo sapiens e primati, siano caratterizzati da una somiglianza importante sia per quanto
riguarda il DNA (99,9%) sia per quanto riguarda altre peculiarità.
Una delle differenze sostanziali consta nella struttura della laringe dei primati che non permette l’emissione di suoni
articolati ma di suoni simile a urla. Queste, unitamente al linguaggio non verbale, caratterizzano il loro linguaggio che
spesso “può essere scambiato anche con noi”.
Si può dunque affermare, teoria sostenuta anche da studi elettroencefalografici, che l’imitazione di
un’azione di un conspecifico viene svolta dai neuroni specchio.
Lo studio elettroencefalografico delle varie aree cerebrali nei primati e nell’uomo ha messo in
evidenza come vi sia un corrispettivo morfo-funzionale nella distribuzione e localizzazione delle aree
di Broca e di Wernicke nell’encefalo di homo sapiens piuttosto che in quello di scimpanzè.
Le aree F4 e F5, rispettivamente area premotoria ventrale caudale e rostrale, dei primati furono
osservate casualmente durante un esperimento per altri scopi da Rizzolatti e collaboratori a Parma.
Un macaco, collegato ad un’apparecchiatura elettroencefalografica, durante la pausa pranzo, venne
lasciato solo con uno studente nello studio. Quando i ricercatori tornarono, osservarono che il
tracciato elettroencefalografico aveva subito delle variazioni rispetto al fisiologico, in particolare si
erano attivate aree che prima non risultavano attivate. Incuriositi, chiesero delucidazioni sul
comportamento del macaco durante la loro assenza, ma lo studente negò qualsiasi azione degna di
nota. Osservando e confrontando le onde presenti nel tracciato durante l’assenza dei ricercatori, con
le onde registrate precedentemente per capire i movimenti del macaco, i ricercatori notarono che i
tracciati erano pressochè sovrapponibili.
Chiesero dunque al tirocinante se il macaco avesse afferrato qualche oggetto, mangiato qualche
acino di uva9 ma lo studente negò. Ricordò però che egli stesso aveva avuto fame e che aveva
mangiato qualche acino d’uva mentre il macaco lo stava ad osservare.
Si ebbe così la dimostrazione scientifica dell’esistenza dei neuroni che furono definiti specchio
proprio perché il tracciato elettroencefalografico rifletteva un’azione non svolta dal macaco bensì
dallo studente.
Ad oggi si può affermare con relativa certezza che qualsiasi essere umano è in grado di
comprendere la finalità di un’azione di un’altra persona in base al contesto.
Un’esempio si può osservare nell’immagine a destra:
le aree che si attivano nel momento in cui si osserva
una persona afferrare una tazza, sono rappresentate
dall’area del Broca. In base al contesto si può inoltre
dedurre quale sia l’intenzione dell’umano, se quella di
bere la tazza (immagine a sx) o quella di spostare e di
riordinare il tavolo (immagine a dx)
9
La professoressa sottolinea come in realtà vi siano tante versioni della vicenda. Alcune raccontano del pranzo dello
studente a base di acini d’uva, altri a base di banane. Rizzolatti in un’intervista, parla però di acini d’uva.
10
Digressione sui dinosauri erbivori e carnivori. Secondo la docente i dinosauri carnivori mangiarono una moltitudine di
homo sapiens
In seguito a queste teorie, la domanda successiva riguardò la possibilità che questi neuroni si
ereditassero geneticamente o meno.
L’imitazione è una caratteristica propria dell’uomo.
Osservando le reti neurali che si attivano durante il processo
imitativo, queste coinvolgono l’intera corteccia. Oltre a
questo, nel processo imitativo, il cervello è in grado di predire
la possibilità di errore e di correggerlo in tempo reale.
L’imitazione, secondo quanto detto precedente, si può
osservare già in epoca neonatale. Di conseguenza è molto
auspicabile pensare che i neuroni specchio siano ereditati
geneticamente. Allo stesso tempo però, osservando il
comportamento dei neonati, si evince come questo, nel
momento in cui viene posto di fronte ad uno specchio, non riconosca se stesso, ma un’altra entità
diversa da lui. Il bimbo, a questo punto, inizia a toccare sé e lo specchio finchè arriva alla
comprensione che lo specchio rifletta i suoi movimenti, arrivando alla consapevolezza di quello che
Freud11 definì “l’IO”12. La comprensione dell’Io e di ciò che non è Io, si può osservare anche in altri
contesti. Un neonato infatti, quando tenta di esprimere un bisogno, non utilizza la prima persona ma
parla di sé come una terza persona.
Concludendo si può affermare che i neuroni specchio non sono direttamente ereditabili e ognuno di
noi è in grado di sviluppare neuroni specchio. La diatriba ad oggi aperta riguarda lo sviluppo dei
neuroni mirror in seguito all’adattamento del soggetto in un determinato ambiente piuttosto che in
seguito all’associazione di un’azione svolta da altri per cui il soggetto riesce a capire le intenzioni di
azioni compiute da altri.
11
Il contributo allo studio dello sviluppo del bambino è da attribuirsi ad Anna Freud, figlia di Sigmund Freud
12
Ad oggi, le conoscenze riguardo Io, SuperIo ed Inconscio si sono ulteriormente evolute. Questo però non invalida la
teoria di Freud per cui esistano dei meccanismi che possiamo correlare con delle strutture anatomo-funzionali.
Uno studio aggiunge come sia più semplice intuire le intenzioni di azioni di persone della stessa
etnia rispetto a persone di etnia differente. Anche in questo caso però, si dovrà andare a prendere
in considerazione l’ambiente in cui il soggetto ha vissuto, indipendentemente dall’etnia di origine.
Inoltre, si sta tentando di capire quale sia il ruolo dei neuroni specchio nello spettro dei disturbi
autistici. Gallese, come visto precedentemente, afferma che soggetti affetti da queste patologie
siano caratterizzati da un appannaggio dei neuroni specchio.
Le patologie che caratterizzate da disturbi relazionali importanti quali i disturbi dello spettro autistico
o le malattie mentali, si pensa possano essere caratterizzate da un ipofunzionamento del sistema
mirror. Sono stati fatti vari studi di vario tipo a riguardo.
La sfida per il futuro sarà quella di capire quale sia l’interfaccia tra il livello cellulare e il livello globale
della funzione. Ad oggi le conoscenze riguardo i geni, molecole, trasportatori e sinapsi e
trasmissione del segnale sono ampiamente state definite ma non è ancora chiaro il complesso
sistema delle reti neurali, del comportamento e della cognizione. Questo ha fatto si che il termine
rete neurale venisse convertito con il termine di connettoma, ovvero una rete molto complessa
formata da tanti hubs e spots. Il progetto di decodifica di questo connettoma è stato chiamato, per
analogia a quello di decodifica del genoma umano, club dei ricchi (per la moltitudine di reti diverse)
del connettoma umano. Fino ad oggi sono state studiate le analogie e le differenze dei vari
connettomi a livello cerebrale nei due differenti sessi.
La professoressa si accinge alla conclusione consigliando due diversi libri per quanto riguarda la
teoria dei neuroni specchio:
• Daniel Lieberman, la storia del corpo umano: romanzo che spiega come siamo strutturati
anatomicamente
• Gregory Hickok, il mito dei neuroni a specchio: libro che contrasta la teoria dei neuroni
specchio, spiegando il funzionamento dei nostri pensieri.
La docente conclude la lezione con una foto rappresentativa della funzione dei neuroni specchio.
(per l’esame i punti degni di maggiore attenzione sono:
ICF
1
APPRENDIMENTO, MOVIMENTO E COMUNICAZIONE
2.1 Le 5 reti neurali secondo Mesulam
L’inizio della vicenda si ebbe intorno all’anno 2000, precisamente nel 1998, quando sulla rivista Brain
(n° 121, pag. 1013-1052) uscì questo articolo di Marsel Mesulam: “Dalla sensazione alla cognizione”.
Questo articolo creò una piccola
rivoluzione nell’ambiente dei neurologi,
perché fu il primo articolo in cui si
parlava di reti neurali. Marsel Mesulam
sosteneva questa sua ipotesi di reti
neurali e che il nostro cervello ne
avesse almeno 5 diverse. Ora
sappiamo che sono molte più di 5, ma
per Mesulam erano queste: una
deputata alla percezione spaziale, una
per il linguaggio, una dedicata alla
memoria esplicita e all’elaborazione
delle emozioni, una per il
riconoscimento dei volti e degli oggetti
(le gnosie e i corrispettivi disturbi, le
agnosie, termini creati da S. Freud) ed
infine una per la memoria di lavoro e le funzioni esecutive.
Una strana classificazione, pensandoci, ma la prima che prevedeva un percorso di rete.
La memoria di lavoro è quella cosiddetta volatile, quella che come con i PC apriamo quando
dobbiamo eseguire alcuni compiti per poi rimuoverla dalla scrivania. Le sue alterazioni sono
importanti soprattutto per quella che viene definita memoria procedurale che si ritrova, ad esempio,
nella demenza da Alzheimer.
Le funzioni esecutive sono quelle che ci portano al decision making, che è un’altra funzione che noi
riteniamo essere esclusiva dell’homo sapiens, ma se pensiamo anche solo ai nostri animali da
affezione capiamo che hanno una capacità decisionale non indifferente. Quello che manca è la
capacità di comunicare tra diverse specie in modo esplicito.
(La professoressa precisa che le sue domande d’esame non saranno nozionistiche, ovvero non
chiederà quali sono le 5 reti, ma se nel discorso riteniamo utile inserire questo aspetto della proposta
di Mesulam, può andare bene).
2
Sulla percezione altrettanti studi più clinici vennero fatti da Nikolai Bernstein, uno dei primi studiosi
e fondatore della cibernetica, cioè la scienza del movimento. Anch’egli sostenne uno dei dogmi
dell’apprendimento motorio: la base essenziale di un movimento corretto, ergonomico, ben fatto è
un flusso normale di impulsi afferenti cutaneo-cinestetici. Ovvero io mi muovo bene se percepisco
bene. Se ho un deficit percettivo anche il mio movimento non sarà armonico e ben definito, come lo
vorrei. Basti pensare, ad esempio, come cammina un non vedente o un ipovedente o un non udente:
hanno un’andatura particolare che ci fa notare che c’è qualcosa di errato e di non completo nella
percezione. Va ricordato infatti che nell’orecchio interno, oltre all’organo dell’udito, c’è anche l’organo
dell’equilibrio che si correla poi con la coordinazione a livello cerebellare.
Quindi tutti gli imput sensitivi che giungono ai nostri recettori di qualsiasi tipo vengono poi integrati a
livello talamico, da lì vanno in corteccia e diventano “coscienti”. A livello corticale abbiamo quella
che viene definita la percezione, cioè la somma e l’integrazione delle percezioni.
Riguardo all’immagine a lato: intorno agli anni ’30-’40 del 900. Non esistevano filmati, quindi i
fotografi scattavano foto in sequenza che poi riviste
velocemente davano l’idea del movimento. Questa
tecnica venne utilizzata da Walt Disney per creare i
primi cartoni animati, che venivano creati facendo
disegnare le figure con delle piccole alterazioni nel
movimento, ad esempio Topolino che tende la mano
a Paperino: si vedeva la mano in posizione diversa e
poi venivano proiettate in rapida successione.
Successivamente sono intervenute anche le
videocamere, da qui nasce infatti l’idea delle
videoriprese.
Si veda quindi quante forme sensitive possiamo avere, tutte colpiscono i nostri recettori e arrivano
poi all’integrazione centrale; tant’è che Alain Berthoz (ingegnere) ha studiato le sensazioni e le
sensibilità umane e ha scritto un libro che ha come titolo “Il senso del movimento”. In questo libro
introduce il concetto che in realtà i sensi non sono solo i 5 canonici che studiamo alle elementari,
ma abbiamo molte più possibilità di percezione: i canali semicircolari, la chiocciola, le placche
motrici, i recettori articolari, i recettori all’interno del muscolo, i corpuscoli di Golgi a livello cutaneo.
Abbiamo tutta una serie di percezioni diverse e di recettori diversi che ci fanno sentire per esempio
la sensibilità vibratoria che noi non consideriamo tra le sensibilità primarie, ma è da tenere presente
che i non udenti non sentono i suoni e spesso avvertono la sensibilità vibratoria e discriminano i
3
suoni attraverso il diverso tipo di vibrazione che percepiscono. La plasticità cerebrale fa sì che la
loro percezione permetta di avvertire cose che noi non notiamo. Se si ha mai avuto occasione di
sentire le vibrazioni di un terremoto sono particolarissime: si trasmettono attraverso la terra, gli
edifici, le nostre ossa, e danno una sensazione indescrivibile di vibrazione, sprofondamento e di
quant’altro (la professoressa ci augura di non provare la sensazione e racconta che lei avvertì al
tempo il terremoto in Friuli).
Vedete quanti sistemi abbiamo: la posizione, il tono, le coordinate visivo spaziali con cui ci
orientiamo, il sistema vestibolare e l’equilibrio e tanti altri ancora.
Per cui, ormai da una trentina d’anni, i neurologi non amano più parlare di sistema sensitivo o
sistema motorio, ma di sistema sensorimotorio. È presente anche in altre specie (in verde il
sensitivo, in viola il motorio) e la distribuzione è diversa nel ratto e nel gatto, non è dualistica come
nelle scimmie e negli umani, ma si vedono zone verdi
e viola anche negli altri mammiferi. Questo perché c’è
distinzione tra percezione sensitiva e azione motoria
che, anche se ha delle zone ben stabilite, è in realtà
funzionalmente un tutt’uno senza limite. La scissura di
Rolando, pur essendo una scissura, non blocca gli
input della sensazione verso la percezione.
Questo l’abbiamo già visto la volta scorsa: oltre a quello
motorio esiste anche l’homunculus sensitivo. Si noti
quanto spazio cerebrale si occupa della nostra attività
motoria; questo è il confronto tra il sensitivo e il motorio:
in realtà, sia la sensazione che la finezza motoria sono
più rappresentate e accurate in alcune zone come le
labbra, la lingua, il volto, le mani (soprattutto il primo
dito opponente). La sensibilità anche più nel piede
rispetto al movimento. Poi dipende dall’uso che se ne fa di ciascuna parte corporea.
(Viene interrotta la lezione per chiedere di avviare la registrazione e la professoressa dice che
comunque questa parte finora è più introduttiva che altro. Tutto questo preambolo è stato fatto
perché lei ritiene che ci sia sempre qualcosa da scoprire che non si era notato la volta prima, per cui
è sempre utile fare un po’ di riepilogo).
I movimenti vengono distinti per comodità didattica in MOVIMENTI RIFLESSI. Vedete l’immagine di
un’opera di Cartesio sulla
percezione del dolore. Vedete che
quando la persona avvicina la
mano o un piede alla fiamma c’è
questa sorta di catena che decorre
lungo la colonna fino al cervello
che trasporta la percezione del
dolore, in seguito al quale
allontaniamo la parte che è più
vicina alla fiamma. Questo venne
già descritto da Cartesio e oggi
sappiamo che è realtà: se si tocca
qualcosa di pungente, un input
sensitivo entra nelle corna
posteriori del midollo, viene
passato dagli inter neuroni alle
corna anteriori dove ci sono i
neuroni motori che mandano
attraverso i nervi motori l’input in
uscita che genera il movimento.
4
Questo per esempio è un riflesso patellare che si evoca nei pazienti percuotendo il tendine di Achille:
se il paziente è rilassato e il piede non è poggiato a terra si vede un’estensione della gamba sulla
coscia; se il paziente invece è contratto, non esegue questa estensione, ma i medici utilizzano degli
stratagemmi che sono le manovre distraenti, tra questa vi è per esempio la manovra di Jendrassik
(prendere le dita unite e provare a separarle).
Rispetto a quando venne scoperto nell’800 quando l’assenza, la troppo spiccata presenza o
l’asimmetria del riflesso venivano considerati segnali di patologia, oggi sappiamo che non è così
semplicistica la cosa e che in realtà un riflesso aumentato non è patognomonico, così come tanti
altri elementi di semeiotica che vanno considerati in un tutto integrato.
Sicuramente questo riflesso magari non indica un’irritazione del sistema piramidale come si diceva
ai tempi passati, ma ha un significato evolutivo che si comprende bene da queste due figure
soprastanti: si vede una persona che regge in mano una tazza e il suo gatto che si appoggia
improvvisamente non visto sull’avambraccio.
Cosa succede alla tazza se il gatto si appoggiasse all’avambraccio senza che il soggetto se ne
accorga? Se si guarda il bicipite, a seguito del movimento del gatto si opera un movimento
isocinetico, senza modificare la distanza dell’avambraccio dal braccio e si esegue una contrazione
che impedisce che la tazza cada. Quindi questo riflesso ha una sua utilità e per questo si dice valore
di tipo evolutivo, cioè che è stato conservato nel corso dell’evoluzione. Magari vedendo il riflesso
patellare potremmo invece chiederci “a cosa serve?”; anche questo infatti ha la sua utilità, per la
deambulazione, per calciare e per tutta una serie di altre funzioni. Li chiamiamo tutt’ora comunque
riflessi, come se non avessero un valore funzionale.
Un altro movimento riflesso è la marcia automatica. Se poggiate il dorso del piede al fasciatoio a un
neonato retto per le ascelle, il neonato flette i piedi, li poggia sul fasciatoio e inizia a fare un
movimento come se volesse compiere un passo. Cioè fa una marcia automatica (“automatica”
perché si presuppone che non abbia l’intenzione di spostarsi deambulando).
Questa possibilità di marcia automatica
solitamente viene persa dopo 20-30 giorni dalla
nascita. Si pensava fosse un riflesso che serviva
in ambiente uterino e che quindi non servendo
più dopo la nascita sparisce, ma non è così.
Un altro riflesso discusso a lezione è quello della
prensione: se si mette un dito nel palmo della
mano di un bambino, questo lo stringe forte e fa
fatica a rilassarlo, tranne che non si stimoli il
dorso della mano da distale a prossimale,
facilitando l’apertura della mano. Il significato deriva dal fatto che un tempo ci muovevamo per
brachiazione, quindi questo riflesso di prensione aveva un’utilità ben definita; si è conservato, perché
la prensione è una delle funzioni che ancora ci servono, anche se le capacità della nostra mano
sono molto superiori a quelle necessarie alla brachiazione.
5
Oltre ai movimenti riflessi abbiamo i MOVIMENTI
AUTOMATIZZATI: possono essere inizialmente riflessi, ma
sono per lo più acquisiti o appresi e a un certo punto diventano
automatizzati.
L’esempio più lampante tra questi è il cammino: quando intorno
all’anno di età il bambino impara a camminare deve metterci la
testa e pensare al movimento, così come si impara anche a
masticare: non è spontaneo e deve essere insegnato, anche se
sembra qualcosa di naturale.
Anche andare in bicicletta o guidare l’auto all’inizio richiede
“pensarlo”, e una volta che si impara il cervelletto assume
sempre più il comando. Anche il cervelletto ha un suo
homunculus, diverso da quello della corteccia, con la
rappresentazione delle nostre parti motorie, soprattutto sul
verme.
Esperimento: mangiare mentre si cammina, qualcosa che si fa senza problemi. Provate però a bere
da un bicchiere mentre camminate: ci si rovescia addosso il liquido. Se si inizia a bere camminando,
pensandoci man mano, si diventa però più abili anche in questa capacità.
I movimenti automatici hanno il loro perché nella facilitazione del movimento e nel loro
apprendimento.
La maggior parte dei movimenti sono MOVIMENTI VOLONTARI, cioè appresi: c’è distinzione tra
funzioni geneticamente determinate e apprese o epigenetiche. Vanno ricordate le due slide
precedentemente mostrate dalla professoressa: alcuni danno soddisfazione e alcuni sono richieste
fondamentali per la nostra sopravvivenza, altri servono ad esempio per imparare e arricchire le
nostre capacità mentali.
I movimenti volontari, anche dal punto di vista motorio, sono composti da un sistema osteo-mio-
articolare che nel suo insieme possiede infiniti gradi di libertà anche se, basti pensare all’estensione
del gomito, c’è un limite. Sommando tutte le altre articolazioni e le loro capacità anche nei movimenti
rotatori, siamo in grado di svolgere qualsiasi movimento sia necessario e a raggiungere l’obiettivo,
attraverso una composizione varia di movimenti, di tensione del tono muscolare e di innervazione
delle placche motrici e degli altri recettori. Si riesce a raggiungere un movimento invariante
attraverso movimenti che hanno una variabilità praticamente infinita.
Dalla nostra origine ai tempi odierni abbiamo subìto molte modifiche del nostro sistema nervoso e
degli adattamenti di tipo ambientale ed epigenetico, per cui gli apprendimenti epigenetici sono stati
importanti. L’evoluzione tecnico scientifica informatica è andata però molto più veloce
dell’evoluzione biologica, per cui noi oggi ci ritroviamo con la necessità per esempio di muoverci
molto, di camminare (circa 20km al giorno i maschi e circa 10km le femmine) per stare in buona
salute e per sentirci bene, perché questo è l’adattamento evolutivo. La professoressa riporta un
paragone scherzoso tra noi studenti ed Homer Simpson;
se noi facessimo come lui, sicuramente non godremmo di
buona salute (le lezioni a distanza ci hanno reso ancora più
sedentari).
Aristotele nel IV sec a.C. insegnava al Lyceum, scuola
donata dal suo allievo Alessandro il Grande, ed era solito
camminare sotto i porticati insegnando agli allievi durante
una passeggiata (per questo venivano detti peripatetici).
Rapidamente dobbiamo cercare di tenere insieme il nostro
corpo con il cervello. Come ci insegnano anche le filosofie
orientali, la mente e il cervello non sono due cose distinte
e dobbiamo pensarli come un’unità integrata: il cervello supporta tutte le funzioni motorie e l’apparato
muscolare e scheletrico lavora in sinergia per l’esecuzione di un compito. Nell’immagine vedete un
cuore che si fa un selfie con il nostro cervello, perché d’altronde anche il cuore è un organo con delle
6
connessioni preferenziali con il cervello: ci sono alcune fibre che partono dal tessuto di trasmissione
del cuore arrivando molto più rapidamente delle altre all’attenzione del nostro cervello. Forse quello
che dicevano gli antichi aveva un perché: il coraggio è una facoltà che risiede nel cuore e oggi
sappiamo che questa facoltà è dovuta anche alla nostra mente. È una nozione che gli antichi non
avevano, ma ha qualcosa di tangibile ed evidente ai giorni nostri: molte volte le aritmie insorgono
per motivi di ansia, per esempio, cioè qualcosa che si genera a livello mentale. Al giorno d’oggi si
tende a pensare che a livello mentale ci sia esclusivamente qualcosa di molto volatile a differenza
di ciò che è biologico, che si trova solo a livello corporeo, ma non è così.
7
Ci sono anche dei meccanismi della visione che vengono risolti con la fisica newtoniana ed altri che
necessitano invece della fisica ondulatoria, mentre altri invece ricorrono alla fisica quantistica.
Il 65% del nostro corpo è composto da acqua e il cervello usufruisce dell’80% di questa quota
d’acqua. Oggi sappiamo che un bambino dovrebbe bere almeno 2 litri d’acqua al giorno (ma non
contiamo solo l’acqua: anche tè, acqua contenuta negli alimenti e così via) e alla nostra età 1 litro/1
litro e mezzo non farebbe male, soprattutto col caldo. Bisogna bere soprattutto se ci si sente stanchi
e un po’ addormentati.
Il corpo allena anche il cervello, quindi provando nuovi movimenti più appropriati, utili e rapidi si
costruiscono le nuove sinapsi, le nuove connessioni neuronali: manipolazione, ritmo, equilibrio con
stimolazione del vestibolo integrano l’apprendimento, tant’è che poi verranno mostrati dei metodi
che vengono usati anche in riabilitazione, ma servono soprattutto a mantenere le proprie energie,
che si basano su queste osservazioni di cui non conosciamo ancora bene tutti i dettagli. Per
esempio, è stato osservato che anche gli adulti quando ascoltano delle conferenze o corsi di
aggiornamento riescono a focalizzare meglio l’attenzione scarabocchiando o giocherellando sul
cellulare, perché questa attività delle mani (studiato da Carla Hannaford, biologa statunitense)
contribuisce a concentrare l’attenzione. Dopo l’uscita degli articoli di Hanneford, la cantante
Madonna lanciò la moda di andare alle conferenze lavorando a maglia per stare più attenti. L’attività
motoria non è perciò solo un esercizio di fitness, ma ha numerose prerogative.
Ripensiamo ad Alain Berthoz quando ci parlava del senso di movimento: quante abilità motorie
devo utilizzare per fare un gesto semplice come spostarmi in bici in piano? Equilibrio, coordinazione,
sistema visivo, corteccia visiva che poi manda alla motoria, sistema vestibolare, cervelletto,
pensiero: il movimento attiva tutto il nostro corpo.
Abbiamo visto la scorsa volta che nell’acquisizione del linguaggio i bambini, nella fase di lallazione,
compiono dei movimenti ritmici con le mani e che anche la musica può essere un facilitatore del
linguaggio (si prendano in considerazione gli afasici anche adulti, magari per un evento
cerebrovascolare: se si fanno cantare loro le stesse parole, le pronunciano). Il ritmo, il suono, la
musica sono tutti dei facilitatori.
8
Sull’intelligenza abbiamo discusso in lungo e in largo,
ne discutiamo dai tempi in cui si misurava l’intelligenza
con il Q.I. e si fa ancora, anche se esistono metodi più
aggiornati. In realtà l’intelligenza è funzione
dell’esperienza, nel senso che non siamo nati
intelligenti, ma con la potenzialità di diventarlo, quindi è
una funzione epigenetica.
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Anche darsi la mano ha un significato
culturale, che ora con l’emergenza Covid
abbiamo dovuto modificare; anche i
sorrisi sono spariti dal nostro codice, al
momento.
Il problema delle distanze, anche se è stato meno considerato, è importante come quello
dell’indossare la mascherina, del non potersi stringere la mano, dell’adottare comportamenti che
devono assumere un significato per la nostra cultura.
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2.6 Tipologie di apprendimento:
COOPERATIVE LEARNING (AC)
Tra i vari tipi di apprendimento esiste il cooperative learning
(apprendimento cooperativo) che adesso viene usato molto
nelle scuole, anche primarie, che si basa sull’interagire
all’interno di gruppi di allievi che collaborano tra di loro per
raggiungere un obiettivo comune con un lavoro di
approfondimento che porta poi a nuove conoscenze. Non c’è
più la competizione di un tempo. Quindi si ha un cambio di
paradigma, da multidisciplinare a interdisciplinare, forse
anche transdisciplinare. L’apprendimento cooperativo
coinvolge emotivamente e cognitivamente, perché si è visto
che l’emozione facilita il cognitivo ed è uno strumento di
apprendimento alternativo alle tradizionali lezioni
accademiche frontali.
Basti pensare a quante cose mostrate sulle slide avremmo
potuto apprendere con la pratica in presenza, magari
formando dei piccoli gruppi di lavoro che ci avrebbero portato
poi alla stessa conclusione precedentemente espressa.
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Quando impariamo qualcosa di nuovo impariamo il 40% di ciò che discutiamo (anche
se in remoto si fatica ad intavolare una discussione), l’80% di ciò che sperimentiamo
direttamente o che proviamo a fare e il 90% di ciò che proviamo ad insegnare agli
altri; per questo si impara meglio studiando in compagnia e provando a spiegarsi a
vicenda.
Quando il compito richiede sequenze motorie complessi, come nella danza, attivo
tutta una serie di aree cerebrali composte praticamente di tutte le mie funzioni cognitive.
Non sempre però i movimenti devono essere variegati e connessi con il cognitivo. Esistono anche
movimenti globali e ripetitivi, come ad esempio le danze rituali dei popoli primitivi, che riequilibrano
i mediatori chimici cerebrali inducendo un comportamento calmo ed un aumento dell’autostima.
Questo spiega il motivo dei rave party per esempio, dove molti ragazzi hanno persino perso la vita
per disidratazione, perché danzando forsennatamente uno vicino all’altro non c’è evaporazione del
sudore, avviene il colpo di calore ed infine l’arresto del sistema cardiocircolatorio e la morte per
mancanza di soccorso. Ciò che va compreso è che ogni comportamento in realtà ha delle
motivazioni.
Torniamo a Carla Hannaford, che ha scritto questo libro che non è mai stato tradotto in italiano. Lei
aveva una figlia dislessica, per cui ha fatto tutta una serie di studi anche sulla dislessia, la quale
spesso non è una lesione cerebrale ma un difetto oculomotore nel momento delle saccadi: il rimbalzo
delle saccadi non viene più effettuato in persone che prima degli 8 anni hanno visto moltissime
immagini in movimento. Questa non è vera dislessia, però se
si fanno passare le parole di fronte alla persona dislessica,
questa legge, perché vede scorrere la parola come vedeva
scorrere le immagini sui device prima degli 8 anni. Per questo
i pediatri raccomandano di non far vedere troppa televisione
ai bambini prima degli 8 anni.
Questo è un esperimento condotto negli Stati Uniti per dimostrare come l’attività fisica non affatichi,
ma addirittura sviluppi l’attivazione delle proprie aree cerebrali. Queste sono due mappe cerebrali:
a sx uno scolaro seduto tranquillamente insieme a tutti i
compagni di classe sottoposto a un test di matematica.
A dx una classe diversa, ma equivalente, che ha fatto
un’attività fisica prima dello stesso compito di
matematica.
Gli studenti del primo gruppo hanno ottenuto risultati
mediamente più bassi, rispetto alla classe che aveva
fatto i 20 minuti di attività fisica medio-intensa.
Nell’immagine infatti è importante notare che ci sono più
zone cerebrali attivate e a livello maggiore. Dopo altri 20
minuti seduti, il cervello ritorna allo stato iniziale. Questo
si tratta comunque un dato, non vanno tratte conclusioni
affrettate.
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Sono un gruppo di movimenti studiati da una fisioterapista e da uno psicologo svedese che hanno
creato una ginnastica cerebrale che si può fare in classe,
piuttosto che in ufficio. Sono movimenti di compressione di
alcuni punti o di incrocio della parte destra e sinistra (mani, arti
inferiori, dita…). La pratica si basa sulla teoria del cervello trino
di Paul MacLean che negli anni ’80 ebbe grande clamore, per
poi rivelarsi una fake news. Sosteneva che dal punto di vista
filogenetico il nostro cervello è formato da come una
sovrapposizione di cervelli diversi: una parte reticolare (come gli
animali acquatici e l’anemone), una parte gangliare (come i
gangli del sn simpatico e parasimpatico, come i vermi anellidi), una parte di tipo limbico, che è quella
che presiede l’elaborazione delle emozioni, l’olfatto e la corteccia, che è la parte del cognitivo.
Quindi è come se avessimo tre mantelli che si sovrappongono: archipalio, paleopalio e neopalio. Dal
più antico (dei rettili), quello di mezzo (quello limbico delle emozioni) e quello nuovo (neocorteccia).
Anatomicamente potrebbe essere, ma funzionalmente non è così e non vi è stata alcuna
dimostrazione.
Sigrid Loos propone una serie di esercizi che separano, ad esempio, la metà anteriore da quella
posteriore del nostro corpo. Questi inducono focalizzazione, cioè attivazione del cervello rettile
(quello più basso del tronco encefalico) varcando e incrociando ad esempio la parte anteriore con
la parte posteriore. Movimenti come rotazione o mettere le mani dietro la schiena.
(La professoressa precisa che ha lasciato un file che spiega la pratica della Brain Gym e dice di
prenderla come una curiosità, dato che non si usa in terapia, ma solamente nelle classi o negli uffici
come pratica per sgranchirsi durante il lavoro, non avendo molto spazio a disposizione).
Un altro gruppo di movimenti si basa sulla centratura, cioè la linea mediana superiore (per esempio
la flessione). Con questi si cerca la
stabilizzazione e lo stimolo il cervello
limbico, consolidando l’equilibrio
emozionale e l’autostima. È tutto ipotetico,
magari se si è convinti davvero funziona, ma
tutta la parte psicologica, come al solito, la
si può verificare solo attraverso
comportamenti, quindi non abbiamo la prova
che effettivamente questi movimenti
coinvolgano queste funzioni.
Per ultimi, gli esercizi che riguardano la
lateralità, cioè gli incroci sulla linea
mediana, che lavorano sulla neocorteccia:
coordinazione, comprensione di concetti,
pianificazione, ragionamento. I bambini che
hanno difficoltà nel riconoscere destra e
sinistra con questi esercizi possono avere una facilitazione nel riconoscimento di queste facoltà.
Noi abbiamo anche studiato che il cervello è composto da due emisferi pari simmetrici e che ognuno
di essi è dotato di proprie peculiarità, ma questo è falso e non dimostrato.
In realtà le funzioni occupano e “vagano”, perché le reti non sono fisse (connettoma), in entrambi gli
emisferi con anche delle corrispondenze di genere. L’idea che nell’emisfero destro ci fosse la
creatività, l’immaginazione, l’utilizzo della mano sinistra, mentre nell’emisfero sinistro le capacità
matematiche, di fare i conti, di linguaggio e l’utilizzo della mano destra, sono false.
Sappiamo che esistono dei mancini veri, che fanno tutto con la mano sinistra, perché hanno i centri
del linguaggio scambiati dalla nascita, geneticamente determinati, e altri che sono mancini
epigenetici, cioè bambini che alla nascita hanno avuto piccoli screzi neurologici nella corona radiata,
nella sostanza della capsula interna o esterna, per cui il centro del linguaggio è al suo posto, ma il
bambino ha spostato la funzione dall’altro lato quando la plasticità neuronale è molto forte. Quindi il
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bambino è mancino, ma se inizia a usare la mano destra diventa ambidestro. Anche sulla dominanza
c’è una variabilità incredibile.
Come si determina la dominanza tra gli occhi? Si provi a fissare un oggetto sul muro, magari un
quadro, centrandolo attraverso le dita messe a cerchio (facendo “ok” con la mano). Lo si guardi
prima con entrambi gli occhi, poi chiudendone uno alla volta: quando si chiude uno dei due occhi
l’immagine si decentra. Quello che non si decentra quando lo chiudete è l’occhio dominante.
Alcune volte la dominanza è la stessa, altre volte è incrociata. Ciò può anche cambiare nel corso
dell’età o portando gli occhiali correttivi. Questo esempio ci fa
capire come queste funzioni non siano fisse e immutabili e apre
tutta una serie di prospettive.
Sono numerosi altri esempi di esercizi da fare se ci si vuole
divertire, come l’esercizio dell’8 e dell’infinito, in cui viene
spiegato il significato. Non è attendibile, ma è una curiosità che
può valere la pena guardare. Si tratta di un esercizio che
mediante l’apprendimento motorio può migliorare funzioni
anche non motorie, ma cognitive. (Per chi fosse interessato, le
spiegazioni sono reperibili nel materiale lasciato dalla
professoressa)
- IF: Integrazione funzionale. Si tratta di una lezione singola in cui l’insegnante con le mani e
le parole fa sentire i movimenti. C’è un esercizio che si chiama l’orologio in cui ci si mette
supini e si muove il bacino imitando i movimenti dell’orologio; si nota come il bacino è una
parte del corpo che ha poca mobilità. Feldenkrais, primo allievo judoka in Europa e diretto
allievo di Kano Jigoro, disse che la nostra cultura europea ci spinge a non mobilizzare molto
il bacino. Pensate ad esempio alle danze caraibiche: noi non ci sogneremmo mai di
camminare ancheggiando, perché la nostra cultura non è propensa, nonostante questa
mobilità del bacino abbia una sua funzione. Invece noi irrigidiamo il tratto lombare e, andando
avanti con gli anni, questo perde la fisiologica lordosi fino a raddrizzarsi. A quel punto
avanziamo il baricentro che cade avanti all’appoggio dei nostri piedi ed ecco che da anziani
cadiamo in avanti. Dobbiamo invece conservare la naturale lordosi, con esercizi, ma
soprattutto con la percezione (utili in questo caso le lezioni di ballo, col metodo Feldenkrais).
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È una soluzione che non provoca dolore, non comporta fatica e impedisce di cadere o
provocarsi danni, quindi bisogna trovare degli schemi funzionali. Feldenkrais questo lo
faceva con chi aveva avuto problemi neurologici e non, ma non come terapia. Trattò una
bambina emiplegica e scrisse un libro; semplicemente insegnandole a muoversi meglio e più
comodamente, migliorò l’emiplegia. Non abbiamo casistiche sufficienti per affermare che il
metodo Feldenkrais sia una terapia, è semplicemente un modo di muoversi.
Il link feldenkrais.it porta al sito di Mara Della Pergola, unica allieva diretta di Feldenkrais operativa
in Italia. È attiva nel suo studio a Milano e adesso propone attività online (forse nel periodo
autunnale c’è la possibilità di fare una lezione gratuita di prova). Ha degli allievi anche a Brescia. Si
tratta di qualcosa che può essere
consigliato anche ai propri pazienti, in
quanto non provoca problemi che
potrebbero esserci invece con altri
metodi.
La formazione è molto lunga (4 anni) e costosa. Il costo proibitivo comprende anche un soggiorno
estivo di 10 giorni ad Asiago, i libri, i materiali, le sedute, i filmati. È un investimento, ma la
professoressa stessa ammette di non essersi mai sentita di seguire il corso per mancanza di tempo.
La professoressa lascia in aggiunta al materiale anche due articoli di Feldenkrais stesso e di Mara
Della Pergola. Inoltre, riguardo all’esame dice che ne avremo una di domanda, ma che per paura
che quell’unica domanda possa riguardare questi argomenti ha preferito parlarne, in modo da non
avere particolari problemi (apprendimento motorio, guadagno cognitivo..)
La professoressa infine ricorda che ha organizzato io materiale in cartelle e che oltre alle slide
potrebbero essere presenti anche degli allegati.
(La professoressa comincia una nuova presentazione)
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2.11 Tummy time
Del tummy time se ne è parlato rapidamente anche la scorsa volta: è un tipo di attività ludico
ricreativa per i lattanti.
Per il fatto che i neonati dormano supini,
succede spesso che abbiano una prominenza
della bozza frontale e dietro la parte
omolaterale appiattita o addirittura tutta la
squamo-occipitale appiattita (fisiologico per i
bambini di etnia asiatica). Non è un problema
unicamente estetico, perché gli occhi e le
orecchie non si trovano più in asse e
l’asimmetria potrebbe richiedere interventi di
odonto-gnatologia infantile. Sono interventi
costosi, lunghi e fastidiosi per i bambini. Se si
interviene sui bambini già intorno ai 3 anni (ormai si utilizzano le mascherine trasparenti, non si usa
più l’apparecchio odontoiatrico) per il raggiungimento dell’età scolare, con attività fisica e
prevenzione, la plagiocefalia può essere risolta. Plagiocefalia è un termine greco che significa
“cranio a parallelepipedo” che si può vedere nel bambino guardandolo dall’alto. Esistono anche delle
app con cui basta inquadrare il cranio per avere il calcolo del grado di asimmetria. A seconda dei
gradi c’è una classificazione che indica l’intervento che servirà: interventi di tipo ludico-ricreativo,
preventivo, fisioterapia e accorgimenti che possono variare fino al dover portare l’elmetto e
l’intervento chirurgico nel caso si tratti di una sinostosi.
Spesso viene chiesta la consulenza del neurochirurgo o del neuropsichiatra e questo può turbare i
genitori. È bene sapere chi sono i pediatri esperti a cui fare riferimento o diventare voi stessi dei
pediatri in grado di fare una diagnosi di plagiocefalia posizionale e torcicollo associato. Una volta
visti un po’ di casi non è complicato.
Come prevenire la plagiocefalia? Si mette il bambino sveglio sulla pancia e lo si intrattiene con dei
giochi (Tummy Time) sotto la supervisione di un adulto. I giochi possono essere diversi a seconda
dell’età; i bambini imparano ad esempio a liberare un braccio per poter interagire con il gioco (il
bambino della terza immagine è molto piccolo, per questo guarda dei disegni semplici e
monocromatici, dato che la visione cromatica non è immediata alla nascita, per i bambini molto
piccoli sono ideali le figure con grande contrasto bianco/nero o giallo/rosso). Il National Institute of
Child Health and Human Development raccomanda il Tummy Time come momento fondamentale
per lo sviluppo e il rafforzamento dei muscoli del collo e del cingolo scapolare, che porterà il bambino
a sviluppare prima la reazione anti-gravitaria e poi a raddrizzarsi prima.
Questo inoltre evita l’appiattimento del cranio e sviluppa le capacità motorie come il rotolamento e
lo striscio.
Un’altra cosa importante per prevenire la plagiocefalia per chi allatta artificialmente è ricordarsi di
alternare le braccia con cui tiene il bambino, perché con l’allattamento al seno è naturale
l’alternanza tra i due seni, mentre con il biberon si tende a tenere il bambino con il braccio con cui si
è più comodi.
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L’importante è lasciar il bambino provarci da solo, mentre
se ha difficoltà il fisioterapista può insegnare quelle
piccole strategie che permettono di vincere la gravità,
passare dalla posizione orizzontale a quella verticale e
poi camminare.
Ester Thelen ha postulato la teoria chiamata “modelli dei sistemi dinamici” negli anni ’80. Le principali
tappe storiche vengono rapidamente riassunte in questo modo:
Anni ’20-’40 modello maturativo di Gesell: il bambino deve maturare prima le strutture
cerebrali per poi acquisire le funzioni.
Anni ’50approccio cognitivo di Piaget: il bambino vede e osserva chi vive intorno a lui, si
forma l’idea poi prova e impara per trials and errors. Matura il pensiero, poi fa.
Anni ’70 elaborazione dell’informazione di Vygotskij: il bambino prima imita poi acquisisce
la funzione (il contrario di quanto diceva Piaget).
Sono tutte modalità che esistono in diversi bambini o possono coesistere nello stesso bambino.
Quello che introduce un elemento di novità è il modello dei sistemi dinamici di Thelen, per cui ci sono
dei fattori multipli nello svolgersi dello sviluppo motorio che non sono solo appannaggio del sistema
nervoso centrale, ma riguardano le caratteristiche biomeccaniche o periferiche del nostro corpo o
anche fattori ambientali, che non c’entrano nemmeno con il sistema nervoso, come dicevano tutte
le altre teorie.
Nell’immagine si osserva Gesell e Thelen che esaminano un bambino; si può notare che la modalità
non è molto cambiata: una mano o un appoggio che
sostiene la testa. Ciò che cambia è la concezione:
l’approccio maturazionista prevedeva la
maturazione della struttura e poi l’acquisizione della
funzione fino al cammino; per quanto riguarda
invece il modello dei sistemi dinamici, esso sostiene
il bisogno dello sviluppo motorio, ma anche il
bisogno delle caratteristiche biomeccaniche che
nessuno aveva mai considerato, del patrimonio
genetico, dei fattori ambientali, dell’attività motoria
che il bambino sa già svolgere mettendo insieme il
tutto. Dal 2000 in poi ci si è concentrati su questa
idea.
Questo non è argomento d’esame, ma sono semplicemente approfondimenti inseriti nelle slide da
parte della professoressa per chi fosse interessato:
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Thelen aveva notato che il riflesso della marcia
automatica (stepping neonatale), dopo un po’ di tempo,
scompare nella maggior parte dei bambini (il bambino a
un mese di età non ce l’ha più, tranne particolari casi).
Aveva anche notato che questi movimenti alternati degli
arti continuavano a lungo in quello che è definito
pedalaggio (kicking), quando il bambino messo sdraiato
fa esattamente lo stesso movimento con gli stessi muscoli
e le stesse articolazioni.
Thelen si chiese cosa impediva al bambino di fare questi
movimenti in piedi, dato che era in grado di farli da supino.
Non certo i muscoli, le articolazioni o il SNC, dato che il
movimento è lo stesso. Thelen provò quindi immergendo il
bambino in una bacinella d’acqua fino alla vita e notò che lo
stepping durava di più nel tempo e proseguiva fino alla
comparsa della vera e propria marcia, cioè il cammino.
Non è quindi un problema centrale, ma di un altro elemento
non ancora individuato.
Nella slide a lato si vedono due bambini, entrambi sani:
bisogna prestare attenzione agli arti inferiori. Quelli del
bimbo di destra sono ricchi di massa grassa, a differenza del bimbo a sinistra. Hanno infatti una
qualità biofisica che salta all’occhio e che si comprende meglio leggendo il testo sottostante.
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Thelen poté così concludere che non si trattava di fattori neurologici, ma di fattori biofisici di altro
tipo, come per esempio il volume della massa grassa, che viene misurato dall’ipofisi.
L’ipofisi è importante infatti anche per quanto riguarda l’alimentazione, poiché ha la percezione e
induce senso di sazietà anche dopo un certo numero di atti masticatori tramite uno stimolo che parte
dal condilo della mandibola. L’ipofisi registra il volume, non il peso.
Uno studente interrompe facendo presente che la professoressa è andata oltre il suo orario ed è già
iniziata la lezione successiva. La professoressa fa scorrere così velocemente le ultime slide e ci
consiglia di darci un occhio velocemente. Seguono immagini sulla pet therapy con cane e cavallo.
Se vi dovesse essere la pet therapy come argomento della domanda è consigliata la visione del
materiale.
Per qualsiasi problema la professoressa consiglia di contattarla via e-mail oppure telefonicamente.
Si rende disponibile anche per eventuali riunioni online su qualsiasi piattaforma.
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