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MARTE

Marte ha il suo domicilio nel segno dell’Ariete; ha una distanza dal Sole
superiore a quella della Terra e, quando è al massimo della sua luce, è secondo
solo a Venere; il suo diametro è di 6750 chilometri, quindi molto più piccolo di
quello della Terra - e impiega circa due anni per compiere la sua rivoluzione
intorno al Sole; mostra un colore rosso-arancio striato da segni più sicuri. Ha
anche due satelliti: Deimos e Fobos.

IL MITO DI MARTE
Per i Greci Marte era Ares, figlio di Zeus ed era considerato, fin dall’epoca del
poeta Omero, il dio della guerra; oltre ai figli Deimos (Paura) e Fobos
(Terrore), era accompagnato anche da Eris (la Discordia). La sua patria era la
Tracia, considerata, da sempre paese di stirpe guerriera: infatti le sue figlie
erano le feroci Amazzoni; il dio amava la violenza, la distruzione e quando
poteva dare il peggio di sé sul campo di battaglia era felice. Questo non
significava che anche lui ogni tanto non fosse sconfitto; infatti una volta Eracle,
con l’ausilio di Atena, lo ferì a una coscia, mentre cercava di aiutare il figlio
Cicno (che poi lui stesso uccise in combattimento) e questa fu la seconda volta
che Ares venne ferito per mano di Eracle, perché già un’altra volta l’eroe lo
aveva sconfitto in battaglia davanti a Pilo.

Al contrario di Atena che era controllata anche in guerra, Ares rappresentava


gli aspetti più terribili della battaglia, e spesso si vantava come uno sbruffone;
quindi non dispiaceva ai Greci raccontare che a volte, nonostante tutta la sua
bellicosità, le buscava; infatti Omero narra che, sotto le mura di Troia,
Diomede, che per valore era secondo solo ad Achille, riuscì a ferirlo insieme ad
Afrodite; una tradizione antica, riportata sempre dall’autore dell’Iliade e
dell’Odissea, lo fa nascere dalla sola Era, infuriata per le scappatelle di Zeus; la
dea toccata dalla pianta della fecondità, donatale dalla dea Flora, avrebbe
concepito tutta sola il dio della guerra e, incinta , si sarebbe ritirata in Tracia
dove poi sarebbe nato Ares; questo racconto potrebbe avere radici molto
antiche, addirittura arcaiche. Tra le sconfitte di Ares, particolarmente
meritevoli di essere narrate, possiamo ricordare quella in seguito alla quale fu
rinchiuso dai fratelli giganti Aloadi in un vaso di bronzo, dove restò per tredici
mesi. Sarebbe addirittura morto, se la matrigna di questi due gemelli Aloadi, di
nome Eribea, non avesse rivelato dove era andato a finire allo scaltro Ermete,
che lo trovò in questo orcio mezzo morto e riuscì a liberarlo; in antichissime
raffigurazioni etrusche si vede questo fanciullo, cioè Ares, catturato dagli Aloadi
nella prima giovinezza, ritratto sull’orlo di un recipiente alla cui base arde un
fuoco.

Quanto alla educazione di Ares, egli fu affidato dalla madre Era a Priapo – il dio
fallico – fin da fanciullo, perché ne facesse il suo allievo. Priapo fece di lui un
danzatore, ma in un secondo tempo lo istruì nell’arte guerresca e ne fece un
grande guerriero. Questo dio, bellicoso e un po’ sbruffone, nonostante fosse il
più odiato da tutti gli dèi, non era privo di fascino amoroso e non gli
mancarono gli incontri clandestini con la splendida Afrodite, che era la moglie
legittima di Efesto. Ares per i Romani era Marte, dio della guerra, ma anche dio
della primavera (e qui ci si ricollega al segno dell’Ariete) perché la guerra
iniziava sempre sul finire della stagione invernale; e fu proprio Marte che
fecondò la vestale Rea Silvia e le fece concepire i due gemelli Romolo e Remo.
Gli animali attribuiti a Marte erano il picchio, il lupo, il cane e l’avvoltoio. Anche
la lancia era sacra al dio. Dunque a Roma Marte era considerato, insieme con
Giove – re degli dèi-, uno dei due protettori della città e per questo diede il suo
nome al mese di Marzo, durante il quale, i suoi sacerdoti, detti Salii
(“saltatori”) celebravano la sua festa con danze e cantici di tipo guerresco; il
territorio a sinistra del fiume Tiber (Tevere), consacrato agli esercizi militari e
ginnici, era detto “Campo di Marte”, perfino la lupa che allattò i gemelli Romolo
e Remo, deve ricollegarsi al lupo sacro, al dio Ares. Marte in astrologia
rappresenta anche la pulsione sessuale e quel tipo di erotismo chiamato
marziano. Indica il grado di volitività di cui il soggetto è dotato, la forza di
volontà, il carattere, l’energia; inoltre esso simboleggia i fratelli maggiori e- in
un tema femminile – gli innamorati. Il suo elemento è il Fuoco, il suo metallo è
il ferro, il suo colore è il rosso - sangue. Protegge i nativi dell’Ariete. Il pianeta,
secondo l’antica tradizione astrologica, governa il trigemino, il tono muscolare,
gli organi maschili e regola anche il contenuto di emoglobina nel sangue.

Quando è positivo nel tema natale, segnala una grande forza di volontà,
un’energia sorprendente e soprattutto indica il coraggio; ma quando,
purtroppo, è negativo, provoca tendenza alla collera, alla sopraffazione, alla
violenza. Il suo segno grafico consiste in un cerchio sormontato da una freccia
che parte verso destra diretta in alto, simbolo di energia; se essa riesce a
sciogliersi dal cerchio e a liberarsi dalle catene della carne, si libra in alto,
verso una meta trascendente (ricordiamo a questo proposito il segno del
Sagittario, che ha anch’esso una freccia che si dirige verso destra): quindi
parte dalla terra (rappresentata dal circolo), per arrivare al cielo. Ma questa
forza deve essere di tipo razionale, cioè legata al concreto e in un certo senso
imbrigliata, e non sempre può sciogliersi da questo circolo che la tiene
ancorata alle cose terrene; quando si scioglie come nel caso in cui la figura
gigantesca di Marte rimane colpita da una pietra lanciategli da Atena, vuol dire
che la freccia è partita da sola, senza il peso dell’umanità, della razionalità che
la ancora alla terra, e quindi diventa priva di ogni misura umana; se invece la
freccia rimane collegata al circolo, Marte diventa un simbolo di rinascita, di
forza, di dinamica, che si trasforma nel bene, come espressione di grandissima
forza vitale. Nel paradiso di Dante, Marte è collocato nel Quinto Cielo; si
racconta, nel canto XIV (vv. 82-139), che il poeta si trova ad un tratto portato
in un cielo alto, più alto del precedente, dove una stella risplende di luce
rossastra; siamo arrivati al Cielo di Marte in cui si mostrano al poeta gli spiriti
combattivi per la fede fino all’estremo; questi spiriti sono disposti in modo da
formare una grandissima croce, con tanti lumi di diversa grandezza e di
intensità diverse.
Il movimento instancabile e turbinoso di questi lumi, dal braccio destro al
sinistro della Croce, dalla striscia orizzontale a quella verticale e lo scintillare
ora più debole ora più vivace per l’aumento della carità e della letizia, nell’atto
di incontrarsi e oltrepassarsi l’un l’altro; infine la musica sublime che si regola
con questo canto meraviglioso, costituiscono uno spettacolo per cui l’anima del
poeta si immerge in un incanto soave e smemorato. La visione della croce nel
Cielo di Marte è la prima delle più grandi invenzioni che il poeta introduce in
questo prodigioso gioco per variare lo scenario del suo viaggio tra gli spiriti dei
beati; l’energia di Marte vissuta in senso positivo può condurre alla
trascendenza divina, che si esplica, come sempre nel sacrificio della Croce.

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