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IL MITO DI MERCURIO
Ermete (Mercurio per i Romani) era figlio di Maia, una ninfa, e di Zeus.La
madre dimorava in una grotta ombrosa e là si recava Zeus per possederla
mentre Era dormiva. Nessuno sapeva di questo segreto di Zeus; Maia partorì
quindi un figlio molto astuto, talmente furbo che già nella primissima infanzia
rubò le giovenche di Apollo, la spada di Ares e perfino le tenaglie di Efesto; egli
dunque era un dio ladro, un bandito e uno spione notturno. Nato all’alba, a
mezzogiorno già aveva fabbricato la lira con cui suonava e la sera aveva
rubato i buoi a Helios: ed era appena uscito dal corpo della madre! Ecco come
si svolsero i fatti: con il guscio di una tartaruga costruì la lira e poi andò in
cerca dei buoi di Helios per rubarli; per trafugare il bestiame lo fece passare su
un terreno sabbioso camminando a ritroso, in modo che fosse impossibile
seguire la strada fatta, e lo portò fino al fiume Alfeo. Lì decise di mangiarselo,
perciò abbattè due bestie, accese il fuoco (il primo fuoco acceso sulla terra), lo
alimentò con la legna e pose la carni ad arrostire, però, per quanto avesse
voglia di mangiarsele, resistette per offrire un sacrifico agli dèi, poi mangio e
lasciò i resti a bruciare sul fuoco. Tornato nella grotta, si stese nella culla, si
avvolse le fasce addosso e si mise a giocare come un bambino piccolo. Ma sua
madre, che aveva visto tutto, gli chiese: “Da dove vieni a quest’ora di notte?
Tuo padre ti ha forse generato per infastidire gli uomini sulla terra?”. Ermete
era buono però, perché parte del bestiame lo aveva sacrificato prima agli dèi
dell’Olimpo e la sua mamma era a conoscenza di tutto. Sapeva della lira e che
aveva rubato le giovenche sacre ad Helios (Apollo).
Helios intanto le cercava e vide le loro orme, ma messe alla rovescia, e non si
lasciò ingannare dal fatto che, entrando nella grotta, vedesse Ermete scalciare
nella culla come un bambino appena nato. Così gli disse: “Guarda, o tu mi ridai
le vacche oppure io ti scaraventerò nell’Ade dove non c’è salvezza”; allora
Ermete, che era scaltro, gli rispose: “Ma di quali vacche stai parlando? Io non
ho udito niente, non posso dirti niente; non sono un uomo robusto, sono un
bambino, devo bere il latte materno e devo stare fra le fasce “. Allora Helios si
mise a ridere, molto divertito: “Tu che parli come un ladro perfetto sarai capo
dei ladri per tutta l’eternità”. Quindi lo afferrò e lo portò davanti a Zeus che gli
disse, anche lui ridendo: “Restituisci subito le giovenche a tuo fratello! Sei
appena nato e già compi di queste imprese! Apollo era già un grande dio, i due
però erano comunque fratelli e dovevano andare d’accordo; così questi
meravigliosi figli di Zeus riandarono a Pilo alla grotta; già da lontano Helios
scorse le pelli stese a seccare e vide così che il suo fratellino era riuscito ad
abbattere ben due vacche; riprese allora le giovenche rimaste. Ermete per
rabbonirlo incominciò a suonare la lira, le cui note armoniose penetrarono nel
suo cuore; allora Apollo desiderò ardentemente quello strumento, e trovò che
esso valeva l’armento che il fratello gli aveva rubato, anche perché la lira
infondeva serenità e amore e favoriva un sonno magnifico. Disse che avrebbe
perdonato il fratello purchè gli avesse regalato la lira; lo scaltro Ermete allora
accondiscese e ottenne da Helios in cambio la verga e la dignità di pastore;
però prima dovette giurare al fratello che non avrebbe mai cercato di rubargli
la lira e nemmeno l’arco; quando ebbe giurato, Helios gli consegnò una verga
fatta d’oro e ornata di tre foglie, che produceva ricchezza, e inoltre regalò ad
Ermete il dono del vaticinio, gli trasmise il suo potere sugli animali, lo nominò
messaggero presso la casa di Ade (Plutone) negli Inferi e, ninfe, gli dette
l’incarico di guida delle anime, cioè di psicopompos.
Dante colloca nel Canto V del Paradiso (vv. 85- 139). Dante insieme a Beatrice
ascende velocissimo alla seconda sfera celeste, a Mercurio, dove per la luce
emanata dal riso di Beatrice si illumina tutto il pianeta e subito intorno ai due
viandanti si affollano più di mille splendori, come nell’acqua limpida di una
peschiera affiorano a galla numerosi pesci, attirati dalla lusinga del cibo. Ogni
ombra traspare nella vivida luce che la circonda e che emana da lei,
espressione della sua gioia e del suo ardore di carità. Uno degli spiriti,
interrogato da Dante sulla condizione, si fa ancora più fulgido perché, nella
gioia di accondiscendere al desiderio del poeta, diventa ancora più brillante e si
alimenta della sua fiamma di carità, a un punto tale che l’immagine fisica,
viene cancellata e sparisce dentro l’alone luminoso, a somiglianza del Sole che,
quando c’è troppa luce, non è percepibile all’occhio umano, perché con il calore
dei suoi raggi ha diradato e quasi consumato i vapori che lo volevano e ne
temperavano il fulgore.