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LETTERATURA

INGLESE DA
CHAUCHER ALLA
RESTAURAZIONE

PROF.SSA
G. PERSICO
Corso di laurea in
LINGUE E CULTURE EUROPEE
EUROAMERICANE ED ORIENTALI

2020 /21
LEZIONE 1 05/10/2020

MODULO A:

-manuale di Bertinetti- dalle origini al ‘700 pag da 36 a 314

-in alternativa: Cattaneo da pag 14 a pag 139

+rassegna antologica da stampare su STUDIUM

PROVA IN ITINERE: Colloquio orale:

1-passi antologici leggere tradurre e commentare 2 passi diversi

2- commento del contesto storico

3-domande sull’autore, come si inserisce nel contesto storico, ecc.

LEZIONE 2 07/10/2020

La storia della letteratura inglese è strettamente legata a quella della lingua inglese, la quale appartiene al
gruppo germanico delle lingue indoeuropee. La letteratura inglese si divide in diversi periodi:

 l’OLD ENGLISH PERIOD o ANGLOSAXON PERIOD, che va dal 450 d.C. circa, quando sassoni, juti, angli, e
altre popolazioni germaniche si stabiliscono in Inghilterra dopo la ritirata dei romani dall'isola, alla
conquista dell'isola da parte dei normanni nel 1066;

Il MIDDLE ENGLISH PERIOD, dalla conquista normanna da parte di Guglielmo il Conquistatore nel 1066
che durò fino al 1470;

il CHANCERY STANDARD (tardo inglese medio)

L’OLD ENGLISH PERIOD or ANGLOSASSON PERIOD si colloca orientativamente intorno al V secolo e si conclude
con la conquista normanna dell’Inghilterra. In quel tempo, Giulio Cesare sbarcò con le sue legioni in Britannia,
non riuscendo tuttavia a conquistarla perché dovrà tornare a Roma e sarà pertanto costretto ad abbandonare
l’impresa. Il progetto tuttavia non verrà definitivamente abbandonato in quanto negli anni 40 a.D, il progetto di
conquista della Britannia da parte di Roma, che nel frattempo da Repubblica, è diventata Impero, prosegue. I
romani saranno però non solo osteggiati dalla resistenza dei britanni, ma anche dalle tribù germaniche che
abitano il nord dell’Inghilterra. Tuttavia, i romani proseguiranno ancora la loro opera di conquista anche se in
realtà non arriveranno mai a conquistare l’intera Inghilterra, ma il loro controllo si fermerà esclusivamente alla
parte centro-meridionale.
All’inizio del V secolo, i territori dell’Impero Romano sul continente Europeo, vennero attaccati dalle tribù
barbare. Per difendere il cuore dell’impero, le legioni stanziate in Inghilterra, vennero dunque richiamate a
Roma. Ciò implicava che la parte meridionale dell’Inghilterra rimanesse priva delle legioni romane. Pertanto,
furono chiamati in aiuto, gli Anglo, i Sassoni e gli Juti che si stabiliranno sul territorio. Col passare del tempo
però, il processo che fece sì che gli Anglo, i Sassoni ed in misura minore gli Juti, diventassero parte del territorio
dell’Inghilterra, cominciava ad avanzare. Ecco perché parliamo di ANGLO SASSON PERIOD o OLD ENGLISH
PERIOD a partire dalla seconda metà del V secolo, inizi del VI secolo. Successivamente arriveranno sul territorio

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inglese, altri guerrieri di stirpe germanica, i danesi e i vichinghi. Essi, si approprieranno di gran parte del
territorio inglese con il risultato che i britanni, che erano di razza celtica e gli abitanti originari dell’Inghilterra,
finiranno per essere assoggettati dagli angli, dai sassoni oppure si ritireranno in territori come la Cornovaglia, il
Galles, l’Irlanda. Ciò ci aiuta a comprendere perché nel corso dei secoli, vi siano state diverse rivalità tra le
diverse popolazioni.

Per quanto riguarda Roma, cosa lascia l’Impero Romano nei territori della Gran Bretagna? Il processo di
romanizzazione non si concluderà mai effettivamente, ma vi sono dei simboli significativi a livello di toponimi,
di cultura, di possibilità commerciali. La presenza di Roma sul territorio centro meridionale infatti, aveva
determinato una serie di fenomeni che trovano riscontri in una serie di toponimi, cioè nomi di località. I romani
infatti costruivano i CASTRA, cioè degli accampamenti fortificati. Troviamo traccia della presenza romana, non
soltanto dalle loro rovine ma da toponimi quali sono tratte parole dell’inglese moderno come Caster, Chester,
che rimandano al fatto che in quella località ci sia stato un accampamento romano. Inoltre, quando i romani
arrivavano sul territorio, si preoccupavano delle vie di collegamento che dovevano essere percorribili con i carri
che trasportavano gli approvvigionamenti: costruivano allora i VIA STRADA cioè la strada lastricata da cui
derivano termini che nell’inglese moderno indicano il cammino, il percorso. Inoltre, in un’economia fondata
prevalentemente sul baratto, i romani introdurranno invece l’uso del denaro. In latino denaro era moneta, in
inglese money. I romani inoltre introdurranno la loro cultura e ciò avrà importanti ripercussioni
successivamente. Introdurranno anche la religione cristiana ed un processo di cristianizzazione che andrà a
sostituire il culto pagano delle popolazioni originarie. La lingua inglese moderna è abbastanza rivelatrice del
fenomeno in parole come, ad esempio, “monk” derivante dal latino MONACUS. Dunque, anche la presenza
della religione cristiana nei territori dell’Impero finisce per avere influenza nell’ Inghilterra anglo-sassone.
Nell’Old English Period, i principali centri culturali sono le chiese ed i monasteri: lì operano i LATINAZED CLERKS,
dei chierici latinizzati che si occupano di mettere per iscritto quella che è una tradizione culturale letteraria che
fino a quel momento, era stata soltanto orale. I romani infatti, arrivando in Inghilterra, portano con sé anche gli
strumenti per la scrittura, che precedentemente ad esso, in Inghilterra era prevalentemente basata sulle rune,
adatte esclusivamente ad una scrittura molto sintetica ed incisioni su metallo o pietra.
Il corpus della Anglo-Saxon Literature è racchiuso sostanzialmente in quattro codici manoscritti. Uno di questi
codici contiene quello che è il poema epico germanico più antico e più lungo, arrivatoci concreto: il BEOWULF.
Si tratta di un capolavoro assoluto, nato in forma orale presumibilmente tra il VII e l’ VIII secolo, che racconta
vicende leggendarie collocabili circa intorno alla fine del V secolo-VI secolo. L’opera verrà messa per iscritto da
qualche anonimo latinazed clerk orientativamente intorno all’anno 1000. Senza l’intervento dei latinazed
clercks, non avremmo traccia dell’opera e delle ulteriori composizioni che compongono il corpus della
letteratura dell’old england period. La letteratura nel periodo antico inglese significa essenzialmente
produzione in versi, che sono versi allitterativi (verso basato su dei sounds effects determinati dall’allitterazione
cioè la ripetizione dello stesso suono nelle sillabe accentate del verso). Nella letteratura del periodo antico
inglese è presente anche una produzione significativa in prosa, che anche se estremamente importante, non
viene considerata “letteraria”. Facciamo in tal caso riferimento alle cosiddette Chronicles, un’opera a carattere
storico, stilate anno per anno e che comprendono i principali eventi dell’anno dal punto di vista storico; le
Anglo- Saxon Chronicles vengono iniziate per volontà di un re straordinario, che non era soltanto un cristiano
convinto ma anche un finissimo intellettuale, avente una profonda conoscenza della letteratura latina classica:
King Alfred The Great, Re Alfredo Il Grande, il quale riesce nell’operazione di riunire quelli che sono i diversi
regni in cui era all’epoca ripartita l’Inghilterra centro-meridionale. Egli inoltre darà il via ad un processo di
alfabetizzazione della popolazione, preoccupandosi di istituire un sistema di istruzione che consenta di
apprendere rudimenti della lettura e della scrittura, anche a chi non è destinato a diventare un chierico e ad
intraprendere una carriera di un certo tipo.

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Il 1066 segna la conquista da parte di Guglielmo il Normanno: dalla parte settentrionale della Francia, egli
sbarca con un esercito sulle coste della Gran Bretagna e conquista ciò che era stato il territorio occupato dagli
Angli e dai Sassoni (non arriva però in Scozia), impossessandosi di quella che era già la città più importante,
Londra (originariamente Londinium, fondata dai Romani). Cosa porterà con sé Guglielmo il Normanno? La
propria cultura, la propria lingua, cioè il francese nella varietà franco normanna. Accade allora che per alcuni
secoli, a partire dall’arrivo di Guglielmo il Conquistatore, la lingua ufficiale della corte sarà il francese. Ciò
naturalmente non significa che la gente comune, comincia, dall’oggi al domani a parlare il francese; quello che
la gente parla è quella varietà di inglese che definiamo Middle English. È evidente però che chi, per ragioni
commerciali o qualunque altro motivo si deve rapportare con i Normanni o con quella parte dell’aristocrazia
sassone che a questo punto si è schierata dalla parte dei Normanni, deve quanto meno imparare il francese.
Ecco allora che in quello che era Old English o Anglo-Saxon (inteso come lingua), si vanno ad inserire una serie
di termini che sono dei prestiti o dei calchi dal francese. Si notino i seguenti fenomeni: ci sono termini che
indicano capi di abbigliamento indicati di solito con termini provenienti dal francese come ad esempio shoes,
un termine tipico dell’inglese moderno che sta ad indicare le scarpe; ma shoes è un termine che deriva dal
francese chaussures, la calzatura francese. O ancora, i gradi della gerarchia ecclesiastica più alti di derivazione
francese. Oppure nel caso dei nomi di animali: in inglese ci sono spesso e volentieri due termini diversi, a
seconda che si voglia indicare l’animale vivo o l’animale morto; pig per indicare il maiale vivo e pork per
indicare il maiale macellato. Pig è un termine presente nell’old english, dunque è un termine antico inglese,
pork viene introdotto a seguito della conquista normanna, di derivazione francese. Di solito a dovere badare
agli animali ero pastori o porcari, gente locale, poi venivano macellati e a consumare questa carne erano i
signori del castello e i suoi ospiti che parlavano francese.

Occorre tuttavia precisare che l’old english non era una lingua unitaria ma vi erano diverse varietà che soltanto
verso la fine dell’old english period cominciano ad assumere l’aspetto di una lingua “nazionale”. L’old english
nelle sue diverse varietà era una lingua flessa (come nel caso del latino). Cosa è rimasto dell’old english,
attraverso il passaggio nel middle english e nel modern english? Sono rimasti soltanto dei residui: uno è il
cosiddetto “Possessive Case” che non a caso si chiama Genitivo Sassone. È inoltre rimasta la diversa forma
(modificata sul piano fonologico e ortografico) degli aggettivi possessivi e dimostrativi, sono rimasti alcuni
plurali irregolari (bue ox, al plurale oxen, child che diventa children) e ancora alcuni paradigmi di verbi che
chiamiamo irregolari. Però, nel passare dei secoli, la lingua inglese ha subito un processo di semplificazione
rispetto all’anglosassone.

Nel Middle English period i luoghi dove si praticava cultura di stampo religioso erano fondamentalmente i
monasteri, là dove si studiavano i classici, le opere della patristica (la lingua prevalentemente usata era il
latino); si produceva cultura anche presso le corti dove la lingua ufficiale era diventata il francese. Il middle
english invece era utilizzato come unrecorded common speech cioè lingua comune ma non registrata, dunque
non messa per iscritto. Presso le corti, i modelli letterari utilizzati, erano quelli della Francia dell’epoca.

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LEZIONE 3 09/10/2020

“The Canterbury Tales” è il poema, considerato il testo fondativo della letteratura, in particolare della poesia
del Middle English Period; non solo, si tratta di un’opera fondamentale anche per ciò che riguarda lo sviluppo
della lingua inglese.

It happened in that season that one day Accadde in quella stagione che un giorno in
In Southwark, at The Tabard, as I lay Southwark, nella Taverna, mentre io stavo pronto
Ready to go on pilgrimage and start ad andare in pellegrinaggio e a partire per
For Canterbury, most devout at earth, Canterbury, estremamente devoti nel cuore, la sera
At night there come into that hostelry arrivarono in quell’ostello, locanda, all’incirca
Some nine and twenty in a company ventinove persone in un gruppo di gente diversa,
Of sundry folk happening then to fall eterogenea a cui era accaduto di trovarsi in
In fellowship, and they were pilgrims all compagnia, ed erano tutti pellegrini che
That towards Canterbury meant to ride. intendevano andare a Canterbury.

I Pellegrini, vogliono andare a Canterbury, in quanto lì risiedeva il santuario di Thomas Beckett. Analizziamo la
parte finale di ciascun verso: day e lay costituiscono una rima cioè un DISTICO, un COUPLET, così come start e
earth, hosterly e company, fall e all, ride e wide. I racconti, infatti, in tutto il poema, sono organizzati, per quel
che riguarda la metrica, in couplets, ossia dei distici rimati. Analizzando la divisione in sillabe: esse sono dieci e
strutturalmente il verso è un pentametro giambico.

The rooms and stables of the inn were wide; Le stanze e le stalle della locanda erano ampie;
They made us easy, all was of the best. loro ci trattavano bene, tutto era nella qualità
And, shortly, when the sun had gone to rest, migliore. E in breve, quando il sole se ne fu
by speaking to them all upon the trip andato a riposare (tramontato) parlando a tutti
I was admitted to their fellowship, loro del viaggio, fui ammesso nella loro
And promised to rise early and to take the way compagnia e promisi di alzarmi presto e
To Canterbury, as you heard me say. prendere la strada per Canterbury, come mi
But nonetheless, while I have time and space, avete sentito dire. Ma ciò non di meno, intanto
Before my story takes a further pace, che ho tempo e spazio, prima che la mia storia
It seems a reasonable thing to say prenda un passo ulteriore, sembra una cosa
What their condition was, the fool array ragionevole quale era la loro condizione,
Of each of them, as it appeared to me, l’abbigliamento complessivo di ciascuno di loro,
According to profession and degree, come mi sembrava, a seconda della loro
And what apparel they were riding in; professione e del loro grado sociale e con quale
equipaggiamento loro stavano viaggiando (to
ride andare, viaggiare non a piedi ma con un
mezzo o una cavalcatura.

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Quanto analizzato precedentemente, costituisce l’incipit del General Prologue del The Canterbury Tales.

I “The Canterbury Tales” sono una raccolta di storie, racconti in versi, inquadrati all’interno di quella che
possiamo definire una cornice. Ci troviamo con Chaucer nella seconda metà del 300 (Chaucer è nato, anche
se vi è qualche incertezza sull’anno preciso, nel 1343 ed è morto nel 1400). I racconti di Canterbury sono il
suo capolavoro, ma sono anche l’opera finale della sua produzione. Chaucer, occupò delle posizioni molto
importanti, viaggiando anche molto, specie in Francia, in Italia e nelle Fiandre. In Italia, la letteratura
italiana del ‘300 era una letteratura che aveva avuto uno sviluppo assolutamente straordinario ed era
apprezzata nei luoghi di cultura e dagli intellettuali. Chaucer apprezzava molto, non soltanto la letteratura
francese ma anche la letteratura italiana. Nel 300 in Italia, c’erano state delle raccolte di racconti: in
particolare dobbiamo fare riferimento al Decameron di Boccaccio, che non soltanto mette in scena dei
racconti, ma li inserisce all’interno di una cornice, data dalla peste del 1348, che induce i dieci giovani a
trascorrere il tempo, raccontando storie. Chaucer, non poteva non conoscere Boccaccio e le sue raccolte al
momento della scrittura dei Canterbury Tales; tra l’altro c’erano state altre raccolte di racconti di bordo
posteriore al Decameron di Boccaccio. In ogni caso, Chaucer, al fine di raggruppare le storie, introduce un
pellegrinaggio: quindi i narratori, non appartengono tutti alla stessa classe sociale, non sono dei giovani
aristocratici e di ricca famiglia, ma sono invece delle persone (29+1) che si trovano casualmente insieme nel
pellegrinaggio. Anch’essi, per trascorrere in modo più piacevole possibile, il tempo del viaggio, si accordano
perché ciascuno di loro racconti due storie all’andata e due storie nel viaggio di ritorno, per un totale di 120
storie. L’oste, il proprietario della locanda, si offrirà per fare da giudice, dunque colui il quale racconterà la
storia, a suo giudizio migliore, verrà ospitato senza pagare.
Il poeta però, alla fine dei versi precedentemente descritti, annuncia di voler descrivere ciascuno dei
pellegrini, partendo dal loro abbigliamento e dall’equipaggiamento con il quale stanno viaggiando; Chaucer
cioè si propone di presentare questi pellegrini, ma non sulla base di quella che è l’analisi psicologica del
personaggio, ma vuole presentare i pellegrini partendo dal loro aspetto esteriore così come si presentano e
donerà quelli che sono gli aspetti particolari che si collegano al loro grado e alla loro posizione sociale.

Dopo i versi letti, comincia la presentazione dei pellegrini, l’uno dopo l’altro (non tutti e ventinove ma solo
ventiquattro, in quanto l’opera è incompleta). Essi non sono presentati in ordine casuale, ma in ordine
preciso “from the top to the bottom” cioè da quella che è la parte più alta della scala sociale, fino ai
pellegrini appartenenti agli strati bassi della scala sociale, tra coloro i quali si potevano permettere di
andare in pellegrinaggio o dei fuori casta. In cima alla scala dei pellegrini vi è il “the Knight”, il cavaliere
(anche se non appartiene ai livelli in assoluto più alti della società inglese del tempo). Il poeta, dunque,
comincia proprio la sua descrizione dal cavaliere:
C’era un cavaliere, un uomo
There was a Knight, a most distinguished man, Si era comportato
estremamente nobilmente
distinto, nella
il quale, dal
Who, from the day on which he first began guerra
giorno del suoper
in cui sovrano (combattendo
la prima volta aveva al
To ride abroad had followed chivalry, servizio del suo
cominciato re) e aveva
a cavalcare cavalcato
all’estero, aveva
Truth, honour, greatness of heart and courtesy. nella
seguito la cavalleria, la verità, l’onore, sia
battaglia, più di ogni altro uomo,
He had done nobly in his sovereign’s war in
la luoghi cristiani
grandezza come eanche
del cuore in luoghi
la cortesia.
And ridden into battle, no man more, pagani e sempre era stato onorato per le
As well in Christian as in heathen places, sue nobili grazie. Aveva visto cadere le
And ever honoured for his noble graces. torri di Alessandria (alla battaglia a cui
He saw the town of Alexandria fall; era seguita la caduta di Alessandria);
Often at feasts, the highest place of all Spesso nei banchetti, il posto più alto di
Among the nations fell to him in Prussia. tutti tra i rappresentanti delle nazioni, gli
In Lithuania he had fought, and Russia, toccò in Prussia. Aveva combattuto
anche in Lituania e in Russia, più spesso
di qualunque cristiano del suo rango.
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No Christian man so often, of his rank.

Qui il poeta vuole sottolineare che questo cavaliere è considerato talmente eccellente che viene onorato
dappertutto ed in Prussia spesso e volentieri gli era toccato il posto più alto, che implicava maggior rispetto
e maggior onore tra tutti i rappresentanti delle nazioni.

And he was in Granada when they sank Lui si trovava anche a Granada quando
The town of Algeciras, also in fecero cadere la città di Algesira ed era
North Africa, right through Benamarin; stato anche in Nord Africa, proprio
And in Armenia he had been as well attraverso lo stretto di Benamarin; ed
And fought when Ayas and Attalia fell, era stato pure in Armenia e aveva
For all along the Mediterranean coast combattuto quando erano cadute Ayas
He had embarked with many a noble host. e Attalia, poiché lungo tutta la costa del
Mediterraneo con molti nobili eserciti.

In fifteen mortal battles he had been Lui aveva combattuto in quindici battaglie mortali e
And jousted four our faith at Tramissene aveva giostrato dei cristiani a Tramissene, tre volte
Thrice in the lists, and always killed his man. era stato nel torneo e aveva sempre ucciso il suo
avversario.

Qui il poeta ci sta dicendo che si era sempre comportato benissimo con grande valore, anche nelle giostre
con dei duelli all’ultimo sangue, quelli in cui il vincitore è soltanto chi sopravvive riuscendo ad uccidere il
suo avversario.

Questo stesso distinto cavaliere aveva guidato la carica


This same distinguished knight had led the van
una volta con il Bey di Balat (Bey è un titolo onorifico nel
Once with the Bey of Balat, doing work
contesto turco-musulmano), combattendo per lui contro
For him against another heathen Turk;
un altro turco pagano. Lui era di valore estremo agli
He was of sovereign value in all eyes.
occhi di tutti

Il poeta ci sta dicendo che lui ha combattuto anche al servizio di un musulmano, però non ha combattuto al
servizio del signore musulmano contro i cristiani, ma ha combattuto per lui contro un altro musulmano. Lui
cioè non si mette mai contro i cristiani.
E anche se era così tanto eccellente, lui era
And though so mush distinguished, he was wise saggio e nel suo comportamento era modesto
And in his bearing modest as a maid. come una fanciulla. Lui non aveva mai detto
una parola prima sfrontata in tutta la sua vita,
qualunque cosa succedesse; lui era un autentico
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perfetto gentil-cavaliere
He never yet a boorish thing had said
In all his life to any, come what might;
He was a true, a perfect gentle-knight.

Fin ora il poeta, ci ha parlato del cavaliere, parlando delle sue imprese, del suo valore, della sua nobiltà,
anche della sua modestia, ma, non ha detto alcuna parola relativamente al suo abbigliamento e al suo
equipaggiamento. Questa parte, la riserva agli ultimissimi versi:

Parlando del suo aspetto, possedeva


Speaking of his appearence, he possessed
dei bei cavalli, ma non era vestito
Fine horses, but he was not gaily dressed.
elegantemente.

Quando poi Chaucer ci presenterà lo scudiero che accompagna il cavaliere, l’abbigliamento dello scudiero
verrà indicato in maniera completamente diversa. Lo scudiero è il rappresentante della nuova cavalleria,
della cavalleria contemporanea, mentre invece il cavaliere, è l’espressione di una cavalleria ideale che però
al tempo di Chaucer non esisteva già più. Lo scudiero dunque viene rappresentato da Chaucer, come vestito
elegantemente; addirittura lui porta un giustacuore tutto ricamato con fiori, uccelli, colori vivaci; poi ancora
una tunica che ha le maniche molto ampie al polso, ecc. È dunque vestito secondo l’ultima moda
contemporanea dell’epoca di Chaucer. Lo scudiero è molto attento all’abbigliamento, così come le sue
imprese, che sono principalmente rivolte alla conquista delle dame perché di lui ci viene detto che di notte
dormiva poco. Quindi, è un modello di aspirante cavaliere assolutamente diverso dalla figura ideale del
“Knight”. Del knight ci viene detto che ha dei bei cavalli, però lui non è vestito elegantemente. Poi ancora il
poeta aggiunge:
Lui indossava una tunica di fustagno (stoffa
He wore a fustian tunic stained and dark grezza, robusta) macchiata e scura con delle
With smudges where his armour had left mark; macchie (segni di ruggine) laddove la sua
Just home from service, he had joined our ranks armatura aveva lasciato il segno; appena
To do his pilgrimage and render thanks. rientrato in patria dal servizio, si era unito ai
nostri ranghi per fare il suo pellegrinaggio e
rendere grazie (per averla scampata).

Per quel che riguarda “The Monk”, esso è presentato con modalità decisamente diverse rispetto al The
Knight. The Monk è una delle figure ecclesiastiche, che vengono presentate con una certa abbondanza di
dettagli:

There was a Monk, a leader of the fashions; C’era un monaco, un leader della moda; le sue passioni
Inspecting farms and hunting were his passions, erano ispezionare fattorie e cacciare, un uomo virile, in
A manly man, to be an Abbot able; grado di fare l’Abate; nella stalla aveva molti bei cavalli.
Many a dainty horse he had in stable. La sua brillia, quando lui cavalcava, (a man valore
His bridle, when he rode, a man might hear impersonale), la si poteva sentire tintinnare nel vento
che soffia altrettanto chiaramente, (aye, interiezione,
esclamazione) e forte nella campana della cappella dove
8 il mio signor Monaco era priore della cella. La regola del
buon San Benedetto o San Mauro (ora et labora) lui
Jingling in a whistling wind as clear,
Aye, and as loud as does the chapel bell
Where my lord Monk was Prior of the cell.
The rule of good St. Benet or St. Maur
As old and strict he tended to ignore;
He let go by the things of yesterday
And followed the new world’s more spacious way.
He did not rate that text at a plucked hen
Which says that hunters are not holy men
And that a monk uncloistered is a mere
Fish out of water, flapping on the pier,
That is to say a monk out of his cloister.
That was a text he held not worth an oyster

[…]

This Monk was therefore a good man to horse;Greyhounds Questo monaco era quindi bravo nell’andare a
he had, as swift as birds, to course. cavallo; lui aveva dei levrieri (cani da caccia
Hunting a hare or riding at a fence utilizzati anche per gareggiare) veloci come uccelli
Was all his fun, he spared for no expense. per gareggiare. Cacciare una lepre o scavalcare
I saw his sleeves were garnished at the hand uno steccato era tutto il suo divertimento, per il
With fine grey fur, the finest in the land, quale non badava a spese. Vidi (si rende testimone
And where his hood was fastened at his chin diretto) che le sue maniche erano guarnite al polso
He bad a wrought gold cunningly fashioned pin; di bella pelliccia grigia, la più raffinata
Into a lover’s knot it seemed to pass. dell’Inghilterra e dove il suo cappuccio era
His head was bald and shone as any glass, allacciato al mento lui aveva una spilla d’oro
So did his face, as if it had been greased. sapientemente lavorata; sembrava passare dentro
un nodo d’amore. La sua testa era calva e
splendeva come uno specchio (glass letteralmente
vetro), così anche il suo viso come se fosse stato
ingrassato (spalmato di grasso).

Sembra una notazione casuale ma non lo è affatto: infatti, i


codici estetici dell’epoca avevano una precisa
corrispondenza anche con quelli che erano i codici etici e c’erano una serie di regole, secondo cui ad una
determinata caratteristica fisica, corrispondeva anche un aspetto caratteriale. Il fatto che lui abbia una testa
calva, lucida ed anche il suo viso dà l’impressione di essere stato ben lucidato, dava chiaramente l’idea di
una persona che era dedita ai piaceri della carne, della tavola e non solo. È dunque una notazione che entra
in quella che è una logica complessiva che stabilisce delle precise corrispondenze tra canoni etici e canoni
estetici.

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LEZIONE 4 13/10/2020

Un ulteriore personaggio, descritto da Chaucer nei Canterbury Tales è “The Friar”, il frate. Il frate
rappresenta uno dei migliori ritratti nella galleria satirica di Chaucer.
Analizziamo come viene descritto:

There was a Friar, a wanton one and merry, C’era un frate, lascivo e allegro, un questuante (chi
A limiter, a very festive fellow. chiede l’elemosina), molto festaiolo. In tutti e quattro
In all Four Orders there was none so mellow gli ordini ecclesiastici non ce n’era uno dolce (mellow)
As he in flattery and dalliant speech. come lui nel discorso di adulatore. Lui aveva
He’d fixed up many a marriage, giving each rinsaldato molti matrimoni, dando a ciascuna delle
Of his young women what he could afford her. sue giovani donne ciò che poteva permettersi di
darle. (allude al fatto che non seguiva il voto di
castità). Lui era un nobile pilastro del suo ordine. Lui
10 era molto amato e intimo con la gente di campagna
ovunque si trovasse e di degne donne di città; poiché
He was a noble pillar to his Order.
Highly beloved and intimate was he
With County folk wherever he might be,
And worthy city women with possessions;
For he was qualified to hear confessions,
Or so he said with more than priestly scope;
He had a special license from the Pope
Sweetly he heard his penitents at shrift
With pleasant absolution, for a gift.
He was an easy man in penance-giving
Where he could hope to make a decent living;

[…]

He knew the taverns well in every town Lui conosceva le taverne di ogni città e ogni locandiere
And every innkeeper and barmaid too e cameriere di taverne. Conosceva gente di questo tipo
Better than lepers, beggars and that crew, meglio di lebbrosi e mendicanti, poiché un uomo così
For in so eminent a man as he eccellente come lui non si addiceva alla dignità della
It was not fitting with the dignity sua posizione avere a che fare con questa feccia. Non è
Of his position dealing with such scum. decoroso, niente di buono può derivare dall’avere a
It isn’t decent, nothing good can come che fare con abitanti di bassi fondi, ma semmai avere a
Of having truck with slum-and-gutter dwellers, che fare con i ricchi e i venditori di vettovaglie.
But only with the rich and victual-sellers.

“The Vision”, una delle opere più famose di William Lagland, mostra la forte critica dell’autore nei confronti
degli ecclesiastici, tramite un tono di critica assoluto. A differenza di Lagland, Chaucer porta avanti la sua
critica nei confronti degli ecclesiastici in maniera più leggera. Ciò che emerge dalla critica di Chaucer infatti,
non è sarcastico quanto quello di Lagland e infatti mostrerà un occhio di riguardo verso le debolezze di
questa gente. La sua è una critica meno feroce.

Tra le figure dei pellegrini che si recano a Canterbury, abbiamo altre figure che riguardano l’ambito della
chiesa. È il caso della madre badessa con le monache: essa viene presentata come una donna che vuole
apparire come una donna di cultura. Parlava francese, la lingua privilegiata della corte. Il suo accento però
rivela che la sua, non è una conoscenza autentica del francese, ma una finzione di una lingua che in realtà
non conosce. È tuttavia una donna dal cuore tenero, gentile ed amorevole, che possiede dei cagnolini che
nutre a pane bianco e pezzi di carne arrosto (cibo pregiato che avrebbe potuto donare ai poveri  anche la
monaca ignora lo spirito di carità).
Successivamente Chaucer descrive “The Parson” un prete di campagna, anch’essa una figura idealizzata.
Egli viene descritto come un prete di campagna che rispettava il vangelo e dava quello che aveva ai poveri a
differenza di The Monk e The Friar. In quanto figura idealizzata, Chaucer non descriverà il suo aspetto fisico.

A holy-minded man of good renown C’era un uomo dalla mente santa di buona fama, e
povero, che era il parroco di una cittadina, tuttavia era
ricco di pensieri e opere sante. Lui era anche un uomo
11 istruito, un chierico. Il quale autenticamente
conosceva il vangelo di Cristo ed era solito predicarlo
There was, and poor, the Parson to a town,
Yet he was rich in holy thought and work.
He also was a learned man, a clerk.
Who truly knew Christ’s gospel and would preach it
Devoutly to parishioners, and teach it.
Benign and wonderfully diligent,
And patient when adversity was sent
(For so he proved in great adversity)
He much disliked extorting tithe or fee,
Nay rather he preferred beyond a doubt
Giving to poor parishioners round about
From his own and Easter Offerings.
He found sufficiency in little things
Wide was his parish, with houses far asunder,
Yet he neglected not in rain or thunder,
In sickness or in grief, to pay a call
On the remotest whether great or small
Upon his feet, and in his hand a stave.

[…]

Lui era santo e virtuoso, ma poi non era mai


Holy and virtuous he was, but then sprezzante nei confronti dei peccatori, mai
Never contemptuous of sinful men, troppo orgoglioso e raffinato, ma era discreto e
Never disdainful, never too proud or fine, benevolo. Il suo compito era quello di mostrare
But was discreet in teaching and benign. una bella condotta e così attrarre gli uomini
His business was to show a fair behaviour verso il paradiso e verso il loro salvatore a meno
And draw men thus to Heaven and their Saviour, che un uomo non si ostinasse nel peccare e
Unless indeed a man were obstinate; uomini di questo genere sia che fossero di alta o
And such, whether of high or low estate, bassa condizione lui li rimproverava aspramente.
He put to sharp rebuke to say the least. Penso che non ci sia mai stato un prete migliore.
I think there never was a better priest. Nel suo comportamento ma anche con il suo
He sought no pomp or glory in his dealings. rapporto con gli altri non cercava mai sfarzo ne
No scrupulosity had spiced his feelings. gloria. Nessuna scrupolosità aveva dato sapore ai
Christ and His twelve Apostles and their lore suoi sentimenti. (cioè evita di essere troppo
He taught, but followed it himself before. formale, bada alla sostanza piuttosto che alla
forma, si pone nei confronti degli altri con
comprensione e benevolenza). Lui insegnava
Cristo e i suoi 12 apostoli e il loro insegnamento
ma lui per primo lo seguiva.

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Successivamente Chaucer, descrive “The Plowman”, l’aratore.
L’aratore, così come il parroco e il cavaliere, e in contrasto con il C’era un contadino che era suo fratello (del
monaco e il frate, rappresenta la coerenza alla regola di vita prete). Una volta o l’altra molti dei carichi di
implicita nella sua condizione sociale. Analizziamo la descrizione letame doveva aver trasportato una carriola
che ne da Chaucer: attraverso la rugiada del mattino. Lui era un
lavoratore onesto, buono e vero (possiede
There was a Plowman with him there, his brother. qualcosa, non è un servo della gleba). Lui viveva
Many a load of dung one time or other in pace e perfetta carità e come il vangelo gli
He must have carted through the morning dew. ordinava, così lui faceva, amando Dio sopra ogni
He was an honest worker, good and true, cosa con tutto il suo cuore e tutta la sua mente
Living in peace and perfect charity, e poi ama il suo prossimo come se stesso, non si
And as the gospel bade him, so did he, abbatteva per nessuna sventura, non rallentava
Loving God best with all his heart and mind nelle sue attività per nessuna soddisfazione
And then his neighbour as himself, repined poiché lui fermamente proseguiva il suo lavoro
At no misfortune, slacked for no content, a trebbiare il grano, scavare o fare un fossato.
For steadily about his work he went Lui era solito aiutare i poveri per amore di Cristo
To thrash his corn, to dig or to manure e soleva non prendere neanche un penny. Se
Or make a ditch; and he would help the poor poteva evitarlo, e più prontamente di chiunque,
For love of Christ and never take a penny lui pagava le sue decime alla scadenza su quello
If he could help it, and, as prompt as any, che possedeva e anche sei suoi guadagni.
He paid his tithes in full when they were due:
On what he owned, and on his earnings too.
He wore a tabard smock and rode a mare.

La situazione dei contadini era, nel corso del tempo, andata mutando, e dopo le varie epidemie di peste, la
situazione dei servi della gleba si era modificata e aveva cominciato a consentire una maggior libertà di
movimento. Agli inizi degli anni 80 del 300, c’era stata una rivolta dei contadini per delle tasse che
dovevano pagare ai grandi proprietari terrieri. Quando Chaucer scrisse questi racconti, era già passato
diverso tempo da tale evento.
Quella del 1381, è una rivolta contro l’ennesima pretesa di pagamento di tasse piuttosto significativa. Ma
Chaucer quando ci presenta la sua figura del contadino ideale, lo presenta come un lavoratore serio che
lavora continuamente e paga quello che è giusto pagare perché non corrisponde più alla realtà
contemporanea.

Chi era Chaucer?

Figlio di un ricco mercante di vini, il padre era un tipo ambizioso per sé e per i suoi figli. Pertanto, quando
Chaucer era ancora un ragazzino, lo mandò a servire come paggio alla dimora del principe Lionel. Chaucer,
nella dimora aristocratica del principe, imparerà il latino, l’italiano e il francese. Quando avrà circa 20 anni,
sarà mandato in Francia, durante la prima fase della guerra dei Cent’anni. In Francia, sarà però catturato e
reso prigioniero (non fu messo a pane e acqua) e un anno dopo sarà rilasciato sotto pagamento della

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famiglia, tramite un consistente riscatto. Rientrato in Inghilterra, entrerà nel servizio di John of Gaunt dove
elaborerà delle composizioni in Middle English (prevalentemente parlato negli ambienti colti di Londra).
Il suo essere poeta, riconosciuto e apprezzato, diventerà un mezzo di progressione della sua carriera,
aiutandolo a essere conosciuto e apprezzato da chi conta. Non è scrivendo versi ma facendo letteratura,
che riuscirà a mantenersi. Nel 700 avremo infatti a tutti gli effetti la professione dell’uomo di lettere che si
può permettere di vivere tramite i proventi della sua scrittura. Al tempo di Chaucer non era però così.

LEZIONE 5 14/10/2020

Come detto nelle lezioni precedenti, i “Canterbury Tales” sono effettivamente un “work in progress”, cioè di
un’opera che Chaucer non inizia a scrivere e poi ci lavora continuativamente fino a quando la conclude, ma
si tratta piuttosto di un’opera alla quale Chaucer lavora nel corso di diversi anni. Abbiamo inoltre detto che
vero che lui era un letterato noto, ma il suo lavoro non era certamente quello della composizione poetica
ma erano una serie di incarichi anche abbastanza prestigiosi che nel corso della sua vita gli vennero
conferiti. Nel corso della sua vita lui svolgerà tra l’altro delle missioni diplomatiche, tra cui anche in Italia,
non soltanto in Francia e forse anche in Spagna. È proprio quando si trova in Italia che ha modo di
approfondire e di perfezionare quella conoscenza della letteratura italiana con particolare riferimento ai
grandi trecentisti che saranno un po’ alla base di parte della sua produzione. Sicuramente incontrerà
Petrarca a Milano ed ha modo di conoscere la produzione di Boccaccio e per quanto riguarda Dante, la
produzione dantesca è qualcosa che Chaucer impara a conoscere e ad apprezzare, come può notarsi
dall’influenza considerevole dantesca nei lavori dello stesso Chaucer.
Per quanto riguarda i racconti di Canterbury, secondo quanto ci viene detto nel General Prologue, il prologo
generale che introduce l’opera e nello stesso tempo stabilisce il contesto all’interno del quale si muovono i
pellegrini, questi racconti su proposta dell’oste che si erge a guida e giudice della qualità delle storie che
verranno narrate, i racconti dovrebbero essere 120: due raccontati sulla strada dell’andata verso il

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santuario, due sulla strada del ritorno, da parte di ciascuno dei pellegrini. I pellegrini sono 29 più il poeta,
che si presenta come colui il quale introduce gli altri e raccoglie le storie raccontate dai pellegrini e le mette
per inscritto, non dichiarandosi però come inventore di queste storie. Dunque, considerato che i pellegrini
sono 29 più il poeta, con il poeta 30, dovrebbero essere un totale di 120 storie, ma in realtà noi abbiamo 24
racconti in versi conclusi. Abbiamo anche, in aggiunta al general prologue che ci presenta tutti i pellegrini,
dei prologhi, delle introduzioni a gruppi di racconti. Ecco allora che siccome non conosciamo l’ordine con il
quale questi racconti sono stati scritti e non sappiamo neanche quale dovesse essere l’ordine definitivo che
Chaucer intendeva dare ai singoli racconti che compongono l’opera, uno dei problemi che si è posta la
critica chauceriana è stato quello di stabilire un ordine ed anche in qualche modo di raggruppare i racconti
che abbiamo che sono dei racconti conclusi, ma che comprendono anche dei frammenti. Ecco allora che i
critici hanno raggruppato quanto ci rimane dell’opera di Chaucer in dieci ammenti. Il raggruppamento che è
stato fatto dagli studiosi ci dà racconti che hanno un loro ruolo specifico come entità a sé stanti, ed altri
racconti che invece in qualche modo si possono raggruppare. Quello che sembrerebbe essere il gruppo più
compiuto è il gruppo di racconti che si imperniano sul problema di chi all’interno di una coppia di coniugi
deve comandare. È il marito che deve comandare, così come voleva la consuetudine, oppure è bene che
sia la donna a fare da guida all’interno del matrimonio? Nel caso specifico è un personaggio come la
drappiera di Bath centrale in questo problema. In particolar modo, di lei ci vengono fornite delle
informazioni riguardo al fatto che è già al quarto matrimonio, che tre mariti li ha già seppelliti, che era lei a
comandare nei precedenti matrimoni ed invece nell’ultimo, il cui marito è più giovane di lei, le cose sono
cambiate. Dopo questa serie di informazioni, il racconto della drappiera di Bath va proprio nella direzione di
sostenere che all’interno del matrimonio l’uomo farebbe bene ad affidarsi alla guida della donna. A tal
proposito vi è tutta una storia che viene raccontata da parte della drappiera che fa riferimento ad un
cavaliere, un giovane aristocratico, il quale si macchia di colpe non ben specificate ma abbastanza
vergognose, viene condannato dal re e dalla regina e dunque a scontare le sue colpe facendo una penitenza
molto particolare: essa consiste nel partire per una ricerca, scopo della quale sarà capire che cosa nel
matrimonio deve essere fatto da parte dell’uomo e della donna perché il matrimonio funzioni. La risposta il
cavaliere la cerca in vario modo ma non riesce ad ottenerla, fino a quando non incontra una donna vecchia
e brutta, la quale gli dà la risposta da riferire ai sovrani. In cambio però gli dice che dovrà darle quello che
gli chiederà non appena sarà stato perdonato dai sovrani. Il cavaliere, dunque, ritorna dal re e dalla regina,
riferisce la risposta ed a questo punto deve mantenere l’impegno: esso consisterà nello sposare la donna
vecchia e brutta incontrata precedentemente. Il cavaliere tentenna ma alla fine prevale l’idea che deve
rispettare la parola data, anche perché questa donna vecchia e brutta gli dice che ci sono qualità,
comportamenti, rispetto della virtù e dell’onore che devono prevalere e dal rispetto di queste virtù, non si
potranno che ottenere vantaggi. Il cavaliere, pur tentennando, alla fine fa la scelta di mantenere la
promessa e di esaudire la richiesta della donna, la sposa, e nella notte di nozze scoprirà di avere accanto a
sé non una donna vecchia e brutta ma una sposa giovane e bella. Pertanto, il suo rispetto dell’impegno
preso da una parte, e dall’altra il suo accettare quello che è il suggerimento della donna che ha incontrato
ed il suo privilegiare l’idea che vuole avere accanto a sé una sposa che gli sia fedele, viene premiato. Questo
racconto entra in quello che è un gruppo abbastanza concluso in cui il tema del dibattito e della discussione
che si instaura tra i diversi pellegrini è quello della dominanza nel matrimonio.
È un esempio interessante di come Chaucer non abbia pensato a dei racconti completamente staccati l’uno
dall’altro ma li abbia piuttosto concepiti, almeno in parte, come gruppi di racconti che si vanno a sviluppare
intorno ad un tema, ad una questione di cui vengono presentati aspetti diversi. Quello appena citato è
l’esempio più eclatante.
Se andiamo poi a vedere la tipologia di racconti che vengono raccolti nei Canterbury tales, questa è molto
varia ed è la dimostrazione più palese che Chaucer è stato veramente in grado di pescare e raccogliere

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elementi dalle fonti più disparate ma anche di raccogliere e fare proprie quelle che sono le influenze che gli
arrivano anche da tradizioni letterarie diverse. Nei racconti di Canterbury ci troviamo di fronte al Night tale
che pesca in quella che è la categoria dei romances, cioè dei racconti di ambientazione cavalleresca e che si
imperniano sulle questioni della virtù, dell’onore e dell’amor cortese; dei racconti che si riferiscono alla vita
quotidiana e alle esperienze di vario genere compiute da persone che si trovano nella posizione mediana
della società, sono dei racconti che in qualche modo si legano alle professioni dei pellegrini oppure alle idee
dei pellegrini che appartengono a gruppi sociali diversi; abbiamo anche la tipologia dei racconti agiografici
che viene messa in gioco per esempio attraverso il racconto della badessa, la cui storia si riferisce al
martirio di un giovinetto, un bambino cristiano, che si trova ad attraversare un quartiere ebraico e viene
letteralmente lapidato perché riconosciuto come cristiano. Potremmo ancora continuare per esempio con i
pabliò che hanno come protagonisti degli animali che sono antropomorfizzati, cioè che hanno a tutti gli
effetti delle caratteristiche di esseri umani. Celeberrimo è a tal proposito il racconto del gallo e della gallina,
che discutono su questioni che hanno a che fare con la vita quotidiana; o ancora, dei racconti che hanno a
che fare con eventi diventati ormai leggendari e che sfiorano la tragedia.
Ci troviamo dunque davvero di fronte ad una tipologia di narrazioni che sono molto varie e che dimostrano
la straordinaria capacità di Chaucer di pescare da fonti diverse, da tradizioni culturali anche diverse.
Ma cosa c’è anche di straordinariamente importante nei racconti di Chaucer? Il fatto che ci troviamo di
fronte a tutti gli effetti a quella che è la prima straordinaria opera in lingua inglese che abbia una
ambientazione, una tipologia di personaggi, una serie di situazioni, che fanno specifico riferimento alla
realtà storico sociale dell’Inghilterra del tempo.
Se noi andiamo alla grande tradizione dell’Old English Literature, il capolavoro assoluto di quella tradizione
letteraria è il Beowulf, un anglo-saxon o Old English poem, la cui vicenda tuttavia non è ambientata in
Inghilterra ma si svolge fra la Danimarca e la parte meridionale della Svezia, cioè è un ambito che
culturalmente diverso da quello dell’Old England. Se andiamo ad altre opere del Middle English period, ci
troviamo di fronte ad opere che sono principalmente a carattere allegorico ed in quanto tali di solito non
hanno un ambientazione riconoscibile dal punto di vista storico geografico culturale.
Con Chaucer invece, ed in particolare con i racconti di Canterbury, davvero è l’Inghilterra del tempo, con la
cultura e la società che Chaucer conosceva bene, che era quella che gli apparteneva, quella che viene
rappresentata. Ecco allora che, per questa ragione, oltre che naturalmente per il fatto che i racconti di
Canterbury sono un’opera che ebbe un gradimento ed una diffusione straordinari, possiamo parlare con
quest’ultima opera di Chaucer, di quello che è il primo grande capolavoro di una letteratura che sia
propriamente inglese. Ecco allora che Chaucer viene definito ed indicato dagli storici della letteratura
inglese come il “The father of English Literature”.
Quello che è inoltre importante dei racconti di Canterbury, è che anche se nessuno degli autori
immediatamente successivi a Chaucer, riuscirà a raggiungere le vette straordinarie della sua opera, i
racconti di Canterbury diventano una sorta di modello condiviso, dal quale autori diversi dopo Chaucer
finiscono con l’attingere.
Inoltre, oltre ad essere considerato “The father of English Literature”, Chaucer è considerato come “The
father of the English language”, il padre della lingua inglese. Qual è il contributo di Chaucer alla definizione
delle caratteristiche della lingua inglese? Il fatto che il grande successo della sua opera, il fatto che
quest’opera si diffonda nelle varie regioni della Gran Bretagna, fa sì, in un momento in cui la lingua inglese è
in una fase di continue trasformazioni ed incertezze, che in qualche modo anche dal punto di vista
linguistico, i racconti di Canterbury diventino una sorta di modello.

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Analizziamo adesso il poeta inglese Langland ed il suo testo “The field full of folk”. Siamo in quello che è
l’incipit di questo dream poem, vale a dire un poema visione, poema sonno. Sin dal titolo, e come possiamo
notare dal primo verso, è evidente un’allitterazione determinata dalla ripetizione di uno stesso suono nelle
sillabe accentate del verso. (una consonante, un gruppo di consonanti e vocali, più raramente di una
vocale)

In a summer season when the sun was soft,


Durante la stagione estiva quando il sole era dolce, io
[…]
andai in questo vasto mondo per sentire cose
I went into this wide world to hear wonders.
straordinarie. Ma una mattina di maggio sulle colline
But on a May morning on Malvern hills,
di Malvern, mi imbattei in una cosa straordinaria,
I met a marvel, of fairy, methought.
una fiera, credo. Ero stanco per il girovagare e andai
I was weary with wandering and went for a rest
a riposare sotto l’ampia riva a fianco di un ruscello. E
Under a broad bank by the side of a brook.
mentre io stavo lì sdraiato e appoggiato e guardavo
And as I lay and leaned and looked on the waters
le acque, caddi addormentato per la gioia del suono
I fell into a sleep for the joy of the sound.
(il gorgoglio del ruscello). Mi ritrovai in un luogo
I was in a wilderness, I didn’t know where.
selvaggio, non sapevo dove. Mentre guardavo verso
As I looked into east, upward into the sun,
est (tradizionalmente il simbolo di rinascita, proprio
I saw a tower finely built on a toft,
perché è da est che sorge il sole), su verso il sole, vidi
And a deep dale and a dungeon therein,
una torre ben costruita sopra un rialzo del terreno, e
With deep ditches, and dark and dreadful to see.
una valle profonda e dentro una prigione
A fair field full of folk I found there between,
sotterranea, con profondi fossati, e scura e terribile a
Of all manner of men, the mean and the rich,
vedersi. Lì in mezzo un bel campo (prato) pieno di
Working and wandering as the world asks.
gente, di ogni specie di individui, quelli di umile
condizione e i ricchi, che lavoravano e girovagavano
così come il mondo richiede.

Da questa rappresentazione che il poeta ci dà, emerge uno spaccato della società dell’epoca, che non è
presentato in tono neutro, perché Langland utilizza quello che è un sarcasmo, una satira anche molto forte
nei confronti in particolare dei rappresentanti delle varie gerarchie ecclesiastiche e di coloro i quali
vorrebbero farsi passare come legati alla Chiesa ma che in realtà badano soltanto al proprio interesse.
Chi era William Langland? A proposito dell’autore abbiamo scarse notizie. È addirittura incerto il fatto che
l’autore di The vision si chiamasse davvero William Langland. È pur vero però che dal poema stesso, si
ricava che il nome del poeta dovesse essere Will: questo è contemporaneamente abbreviazione di William
e sta ad indicare anche volontà, dunque implicherebbe la volontà del protagonista di compiere un percorso
di rigenerazione spirituale alla ricerca della vera vita cristiana all’interno di una Chiesa rigenerata. Quello
che possiamo dedurre in parte dalle caratteristiche del poema ed in parte ricostruire sulla base delle scarse
e frammentarie notizie che gli storici hanno potuto reperire è che l’autore doveva appartenere agli ordini
ecclesiastici minori. Egli era cioè legato alla Chiesa ma non faceva parte in maniera totale di quello che era
l’establishment delle gerarchie ecclesiastiche. Quello che è certo comunque è che l’autore è in rotta di
collisione con le autorità ecclesiastiche e la sua opera nasce in un contesto provinciale rispetto a quello
della metropoli ed è un contesto nel quale la protesta, la ribellione dei membri delle classi inferiori nei
confronti dei più potenti, cominciava a farsi sentire.

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LEZIONE 6 16/10/2020
Thomas Malory è l’autore il quale ha scritto un’opera dal titolo “Le morte d’Arthur”, opera che nonostante
presenti un titolo in francese, è scritta in lingua inglese, in prosa. In particolar modo, si tratta del primo
straordinario esempio di prosa letteraria in lingua inglese. È opportuno precisare che non è che non
esistessero opere in prosa precedenti a Le morte d’Arthur di Malory, ma il problema è che queste opere in
prosa precedenti non erano di argomento letterario, ma di carattere filosofico e soprattutto di carattere
religioso, ma non di altro genere.
La materia dell’opera di Malory è la materia legata alla concezione ideale dei cavalieri per eccellenza perché
stiamo parlando della materia arturiana. Malory, infatti, aveva vissuto in prima persona quella che poteva
essere l’attività del cavaliere all’epoca, in quanto egli proveniva da una famiglia aristocratica,
probabilmente si trattava di un figlio cadetto, probabilmente ad un certo punto sia il desiderio di avventura,
di compiere imprese di vario genere, sia l’inquietudine del suo temperamento lo portarono ad
intraprendere la strada della cavalleria. Fatto sta, che da un certo momento in poi, Malory entra a pieno
titolo in quella che è la pratica della cavalleria attiva, intesa proprio come partecipazione a battaglie, tornei,
e così via. Egli ebbe dunque una vita piuttosto movimentata, all’interno della quale o si macchiò di tutta una
serie di colpe e delitti di vario genere (per niente onorevoli ed in linea con quelli che erano gli ideali

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cavallereschi) oppure venne accusato dai nemici di avere compiuto crimini disonorevoli. Sicuramente
Malory si macchiò di colpe anche gravi, ma che si sia macchiato di tutte le colpe di cui ad un certo punto
venne accusato, è piuttosto indubbio. Anche perché Malory prese parte attiva a quella che è la guerra
dinastica delle due rose, che si prolungherà per un arco temporale lunghissimo, di ben trent’anni, nel corso
dei quali egli si schiererà da una parte ben precisa. Sembrerebbe che abbia inoltre svolto missioni di
spionaggio. Quello che è certo è che Malory ad un certo punto viene catturato, rimanendo in prigione per
diverso tempo, e morendo probabilmente in prigione stessa. È quasi certamente durante quel periodo che
Malory dà vita a quel capolavoro assoluto che è “Le morte d’Arthur”, laddove la materia è la cosiddetta
materia di Britannia che vede al centro re Artù e i suoi cavalieri della tavola rotonda con la ricerca del Santo
Graal. Ad ispirare Malory sarà evidentemente Chaucer quando scrisse i racconti di Canterbury ed in
particolare il “Knight’s Tale”. Da quando Chauser scrisse quest’ultima opera alla stesura dell’opera di
Malory sarà infatti passato molto tempo, quasi un secolo. Malory, infatti, nacque presumibilmente intorno
al 1405 e morirà nel 1471. La materia cavalleresca, dunque, sotto molti punti di vista, è già quasi diventata
una materia tradizionale.
Quali sono le fonti dalla quale Malory attinge? Esse sono molto varie e disparate. In primo luogo, abbiamo i
romances medievali francesi, vale a dire dei romanzi di argomento fantastico amoroso cavalleresco che
circolavano ampiamente nella Francia medievale. L’argomento base dei romances era vario, ma vi erano
fondamentalmente tre diversi gruppi di romances: alcuni caratterizzati dalla materia di Francia che
riguardava fondamentalmente le avventure di Carlo Magno e dei suoi paladini; altri imperniati sulla materia
di Roma, cioè riguardanti la storia di Roma; infine romances imperniati sulla materia di Britannia, laddove
per Britannia si intendeva la parte settentrionale della Francia ma anche la stessa Inghilterra (ricordiamo
che a seguito della conquista normanna i franco-normanni erano entrati in Inghilterra e ne avevano preso
possesso). Dunque, una delle fonti principali era questo ciclo di romances, così chiamati perché scritti in
una lingua romanza, cioè derivati dalla lingua di Roma, ovvero dal latino. I romances si possono in un certo
qual modo considerare gli antecedenti anche del romanzo moderno, inteso come novel, apparso tra la fine
del Seicento e gli inizi del Settecento, con una differenza particolare: il novel è un’opera narrativa di stampo
realistico, mentre invece questo elemento del realismo, nei romances, in linea di massima non c’è.
Tra le altre fonti, delle fonte storiche, una delle quali era costituita dalla “Historia Regum Britanniae”, scritta
da Goffredo di Monmouth, un’opera del primo medioevo che era stata tradotta in inglese ed aveva avuto
una notevole diffusione non in toto, ma per quanto riguarda le parti che si riferivano alle vicende di un re,
re Artù. Re Artù era fondamentalmente un condottiero celtico, o forse il figlio di un generale romano che
però si era radicato nel territorio dell’Inghilterra conquistata dai romani e che si era opposto agli attacchi
delle tribù del nord dell’Inghilterra. Comunque sia, sia che si tratti di un condottiero, sia che si tratti del
figlio di un condottiero romano, rimane il fatto che Artù, personaggio tra storia e leggenda, si era battuto
con delle imprese straordinarie contro i tentativi di conquista e di invasione di membri delle tribù del Nord,
diventando una sorta di simbolo della lotta tra una parte dell’Inghilterra civilizzata proprio grazie anche
all’influenza dei Romani e i barbari che ancora abitavano il resto dell’odierna Gran Bretagna.
Se è vero che le fonti di Malory sono il ciclo dei romances, in parte il testo storico di Goffredo di Monmouth,
è anche vero che la storia di Artù era stata già cantata in letteratura, attraverso due opere poetiche in versi.
In particolare, si tratta della Le Morte d’Arthur allitterativa (composta in versi allitterativi) ed un’altra
versione della Le Morte d’Arthur stanzaica (composta in versi raggruppati in strofe). In altre parole, Malory
compie un’operazione straordinarie che non riguarda l’invenzione del personaggio di re Artù e dei vari
cavalieri, ma questa operazione straordinaria si ricollega al suo tentativo di mettere insieme questi
materiali molto disparati e tirarne fuori un’opera che se non unitaria nel progetto complessivo, però
comunque che raggruppa una serie di vicende e leggende precedenti cercando di dargli un minimo di
coerenza. Coerenza parziale, tuttavia, perché in realtà il titolo Le morte d’Arthur si riferisce all’ultimo degli

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otto books che compongono l’opera. Ciascuno di questi otto books si impernia fondamentalmente sulle
vicende di un personaggio di un cavaliere in particolare, che pur essendo in qualche modo legato agli altri
libri che compongono l’opera nel suo complesso, si può considerare anche a sé. Ecco perché parliamo di
una struttura un po’ particolare che presenta solo in parte degli elementi di coesione interna.
Analizziamo adesso alcuni estratti di testo, tratti dall’ultimo libro che compone l’opera e specie nell’ultima
parte, cioè quella in cui effettivamente Re Artù morirà:

Allora re Artù si guardò intorno e si rese conto che era laddove Ser Mordred stava in piedi
appoggiandosi alla spada in mezzo ad un grande mucchio di morti. “Adesso dammi la lancia” disse
re Artù a Ser Lucano, “poiché ho visto il traditore che ha causato tutto questo dolore”. “Sire,
lasciatelo stare” disse Ser Lucano “[…] per amor di Dio, mio signore, lasciatelo andare; sia benedetto
il signore, voi avete vinto il campo (la battaglia) e insieme con noi ne sono rimasti vivi altri tre,
mentre invece nessuno (è rimasto vivo) con Ser Mordred. Quindi se voi lasciate perdere ora, questo
crudele giorno del destino è passato!”
“Adesso è l’ora della mia morte, o l’ora della mia vita”, disse il re, “adesso lo vedo da solo, e non mi
sfuggirà dalle mani! Non avrò mai un’altra occasione del genere”. “Dio ti dia una buona velocità!”
(formula rituale, che letteralmente non ha significato, che si può rendere con Dio vi assista) disse
Ser Bedivere. Allora il re tenne la lancia con entrambe le mani e si slanciò di corsa contro Ser
Mordred “Traditore, ora l’ora della tua morte è giunta!”. Quando Sir Mordred vide re Artù si scagliò
contro di lui con la spada sguainata e re Artù colpì Ser Mordred sotto lo scudo con la punta della sua
lancia e penetrò nel suo corpo per più di una tesa (molto in profondità). E quando Ser Mordred si
rese conto che aveva ricevuto una ferita mortale, si scagliò contro re Artù con tutta la forza che gli
rimaneva, e proprio così colpì suo padre con la spada che reggeva con entrambe le mani sul lato
della testa e la spada squarciò l’elmo e l’osso. Allora cadde a terra morto stecchito. Però anche il
nobile re Artù cadde. Ser Lucano e Ser Bedivere lo portarono ad una piccola cappella non lontana
dal mare […] Allora sentirono della gente gridare nel campo di battaglia. Il re disse “Andate Ser
Lucano, per informarmi su cosa significa questo rumore nel campo di battaglia.” Così Ser Lucano
andò malamente ferito com’era in molte parti del corpo e vide e sentì nel chiaro di luna come dei
predatori e saccheggiatori che erano arrivati sul campo di battaglia per depredare e derubare molti
nobili cavalieri delle loro spille e dei loro bracciali e di molti bei anelli e preziosi gioielli. E quelli che
non erano ancora morti furono massacrati per le loro armi e per le loro ricchezze. Quando Ser
Lucano comprese che cosa stava succedendo, ritornò dal re il più rapidamente possibile e gli disse
quello che aveva sentito e che aveva visto.

Analizziamo adesso il secondo frammento:

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Allora Ser Bedivere pianse per la morte del fratello: “Ora smettila di lamentare la morte e di piangere,
gentile cavaliere”, disse il re, “poiché tutto questo è inutile. […] e il mio tempo trascorre velocemente,
quindi prendi Excalibur, la mia preziosa spada, e vai sulla riva dell’acqua e una volta che sei lì io ti ordino di
gettare la mia spada dentro l’acqua, e poi di ritornare a dirmi cosa hai visto là.” “Mio Lord”, disse Ser
Bedivere, “il tuo ordine sarà fatto […]”. Così Ser Bedivere andò. E/ma lungo il cammino egli guardò

Questa nobile spada, e il pomello e l’elsa erano tutti incastonati di pietre preziose. E allora disse tra sé “se io
getto questa spada preziosa dentro l’acqua non ne deriverà nessun bene ma piuttosto, danno e perdita”. E
allora Ser Bedivere nascose Excalibur sotto un albero, e il più rapidamente possibile ritornò dal re e disse
che era stato sulla riva del mare e che aveva buttato la spada nell’acqua. “Cosa hai visto là?” disse il re.
“Sire”, rispose lui, “non ho visto altro che onde e venti”. “Questo è falso”, disse il re, “quindi vai e obbedisci
al mio ordine, getta la spada nell’acqua”. Allora Ser Bedivere ritornò e prese la spada tra le mani e tuttavia
pensava che era una vergogna buttare quella nobile spada. E così di nuovo la nascose e ritornò dal re e gli
disse che era stato sulla riva dell’acqua e che aveva obbedito al suo ordine. “che cosa hai visto lì?” disse il re.
“Sire”, egli disse, “non ho visto altro che acqua che lambiva e il vento che soffiava”. “traditore e falso” disse
il re Artù, “adesso mi hai tradito due volte! Chi crederebbe che tu sei stato così caro a me che ti ha reso un
nobile cavaliere e che ora mi tradisci per le ricchezze di questa spada? Ma adesso vai di nuovo, svelto, il tuo
lungo indugiare mi mette in grande pericolo di vita, poiché sto sentendo freddo. E a meno che tu non faccia
ora come io ti ordino, semmai ti vedrò di nuovo, ti ucciderò con le mie stese mani poiché tu mi vorresti
vedere morto per la mia preziosa spada”. Allora Ser Bevidere ritornò dove c’era la spada e rapidamente la
raccolse e andò sulla riva dell’acqua. E lì gettò la spada il più lontano possibile dentro l’acqua. E allora un
braccio e una mano si alzarono dall’acqua, presero la spada, la scossero tre volte e la brandirono e poi svanì
dentro l’acqua insieme alla spada. Così Sir Bedivere ritornò dal re e gli disse cosa aveva visto. “Ahimè” disse
il re, “aiutami poiché temo di aver indugiato troppo a lungo”. Allora Ser Bedivere si caricò re Artù sulle spalle
e andò con lui sulla riva. E quando furono lì, rapidamente dalla riva giunse una piccola imbarcazione con a
bordo molte belle dame, e in mezzo a tutte loro c’era una regina, e tutte loro avevano dei cappucci neri.
“Adesso mettimi in questa imbarcazione” disse il re. E così lui fece con delicatezza, e il re fu accolto da tre
dame con grandi lamenti. E così loro lo distesero, e re Artù poggiò il capo sul grembo di una di loro. E allora
la regina disse: ”ah, mio caro fratello, perché hai indugiato così a lungo lontano da me?. Ahimè questa ferita
sul tuo capo ha preso troppo freddo”. E subito loro remarono verso il mare aperto, e Ser Bedivere pianse e
disse “Ah, mio sire Artù, cosa sarà di me, ora che voi ve ne andate dia da me e mi lasciate qui da solo tra i
miei nemici?”. “Consolati” disse il re, “e fai il meglio che puoi. Non ci si può più fidare di me dal momento
che devo andare nella valle di Avalon per guarire la mia dolorosa ferita. E se tu sentirai ancora parlare di me
22
prega per la mia anima!” […] Ora io non sono mai riuscito a trovare altro sulla morte di Re Artù, salvo che
Malory poteva davvero credere che Artù potesse ritornare su questa terra? Difficile crederlo, però è anche
vero che l’Artù così come viene presentato dalle leggende e ripreso dallo stesso Malory, è una figura di
sovrano ideale, portatore di valori positivi, anche se il suo regno è stato distrutto a causa di tradimenti
interni ed esterni a Camelot. Ma proprio questa figura di sovrano ideale, illuminato, che aveva il progetto di
creare un regno dominato da valori positivi, in un certo qual modo Malory la vede preconizzata da quello
che sarà poi il primo sovrano della dinastia Tudor, Henry VII.

LEZIONE 7 20/10/2020

Da un certo momento in poi, siamo già poco prima dell’anno 1000, si vanno man a mano sviluppando, in
momenti particolari della liturgia ecclesiastica, con particolare riferimento a quella del Natale e più ancora
della Pasqua, all’interno della rappresentazione sacra, delle mini-rappresentazioni. Celeberrimo è il caso del
cosiddetto “Quem queritis”, due parole latine che rimandano al significato di “chi cercate”. Si pensi alla
liturgia pasquale: c’è un momento nella lettura dei Vangeli in cui si dice come le pie donne che vanno al
sepolcro per onorare il corpo di Cristo, ma non possono entrare nel sepolcro perché davanti a questo vi è
un angelo il quale letteralmente seduto sulla pietra tombale domanda alle pie donne “Quem queritis?”.
Allora, da quel momento in poi, comincia, in diverse Chiese d’Inghilterra, (siamo ancora in quello che in
Inghilterra è ancora l’Old English period, anche se nel resto di Europa possiamo parlare a tutti gli effetti di
alto medioevo) ad essere messa in atto, durante la liturgia pasquale, questa sorta di mini-rappresentazione:
cioè, invece di esservi semplicemente la voce del sacerdote, oppure di chi assiste il sacerdote durante la
Messa, a leggere questa parte del Vangelo, ci sono delle persone che interpretano le pie donne e l’angelo e
che letteralmente mettono in scena questa mini-rappresentazione del Quem Queritis. Quest’ultima,
avviene in un primo momento proprio sull’altare o immediatamente nella parte della chiesa antistante
l’altare; tecnicamente questa mini-rappresentazione viene definita “trope”, un tropo, vale a dire una
rappresentazione che scaturisce come una sorta di escrescenza da un’altra realtà come se fosse un tessuto
organico. In questo caso il tessuto organico è quello della messa, della liturgia pasquale e questa
escrescenza, tropo è appunto il Quem Queritis. Tradizionalmente si dice che da lì, si può far iniziare quello
che poi diventerà il Teatro Inglese (non siamo ancora in Inghilterra in quello che viene definito Middle
English period, però siamo comunque molto vicini all’anno 1000).
Man a mano, da quella che è una prima mini-rappresentazione, che avviene fatta sull’altare o
immediatamente nello spazio antistante l’altare, se ne cominciano a fare altre. Non abbiamo dei testi
precisi che ci sono giunti, che ci dicono esattamente quali fossero le parole che venivano pronunciate o le
modalità con cui queste avvenivano, però abbiamo una serie di testimonianze. Diciamo che questa
presenza di tropi, si va tuttavia pian piano arricchendo, sempre però con riferimenti specifici a quelli che
sono momenti della liturgia solenne della Pasqua e del Natale. Pertanto, dacché diventano più complesse,
esse si spostano dalla zona dell’altare, ad altre parti della chiesa fino a che arriviamo al sagrato della Chiesa,
quindi lo spazio esterno alla chiesa. Da lì queste rappresentazioni legate alla liturgia, prenderanno direzioni
e dimensioni diverse.
A proposito del Middle English Theatre, possiamo parlare fondamentalmente di alcune tipologie principali
di rappresentazioni; tra queste, una tipologia è costituita dai “mistery plays”, così come dai “miracle plays”.
Mistery plays e Miracle plays, secondo alcuni storici della letteratura inglese, vanno considerati distinti;
secondo altri invece si possono fondere perché sia gli uni che gli altri sono tratti comunque dalla Bibbia o da
materia sacra. Diciamo che solitamente, i Mistery plays attingono la loro materia dal vecchio testamento ed

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in parte anche dal nuovo; i Miracle plays invece, non attingono la loro materia dal Vecchio testamento ma
la attingono in parte dal Nuovo o ancora dalle vite dei santi. In ogni caso, si tratta comunque di materia
sacra. Proprio per questa ragione, secondo alcuni storici della letteratura inglese, vanno considerati come
una categoria unica.
Chi erano gli autori di queste opere? In verità, non ci sono arrivati dei nomi, ma comunque data la materia,
erano quasi certamente dei chierici. Dunque, o si trattava di individui integralmente inseriti in quello che
era il corpo della Chiesa oppure si trattava di individui che alla Chiesa o alla gerarchia ecclesiastica erano
legati.
Accanto ai Mistery plays e i Miracle Plays, si colloca un’altra categoria, che è quella del Morality Plays.
Questi ultimi, hanno anch’essi una finalità didattico- didascalica educativa, hanno dei contenuti che sono
certamente legati alla religione e la morale, ma, la materia che trattano non è strettamente legata né ai
testi sacri, né ai vari momenti della liturgia ecclesiastica. Quindi come concezione, sono in un certo senso
più laici rispetto ai Mistery e i Miracle plays.
Abbiamo poi altre tipologie di rappresentazioni che noi troviamo nel Middle English Period che sono i
cosiddetti “Interludes”, gli interludi, che erano in genere delle brevi rappresentazioni, scenette che
venivano messe in scena nelle dimore nobiliari, per esempio, per allietare i banchetti tra una portata e
l’altra a mo’ di intermezzo.
Fondamentalmente, erano queste le principali forme di rappresentazione nel teatro medioevale. Un
ulteriore rappresentazione che possiamo aggiungere è costituita dal “Mask”, che era una rappresentazione
a carattere allegorico, spesso e volentieri con contenuto mitologico. Il Mask troverà grande sviluppo
soprattutto nel periodo immediatamente successivo ( i primi Mask li cominciamo a trovare sul finire del
Middle English period [XV sec], ma avranno principalmente sviluppo nel periodo elisabettiano e
giacomiano).
Andiamo ad analizzare uno dei testi più importanti del Middle English Theatre or Drama, “Everyman”.
Everyman è a tutti gli effetti un Morality play, abbastanza tardo perché appartiene all’ultimo scorcio del
Middle English period (XV sec. ) ed anche qui l’autore è anonimo; sappiamo però che Everyman, il cui testo
ci è pervenuto integralmente, è spesso e volentieri ancora oggi rappresentato. In quanto Morality play è
un’opera a carattere allegorico che ha un preciso intento morale.

D. Almighty God I am here at your will Dio onnipotente io sono qui a tua disposizione per
Your commandment to fulfil. eseguire il tuo ordine. Vai tu da Everyman, (thou
G. Go thou to Everyman, (Imperativo) pronome personale 2 p. sing. In forma di soggetto) e
And show him, in my name, mostragli a nome mio che deve prendere su di sé un
A pilgrimage he must on him take, pellegrinaggio al quale non può sfuggire in nessun
Which he in no wise may escape; modo; e mostragli che deve portare con sé un sicuro
And that he bring with him a sure reckoning resoconto, senza ritardo o alcun indugio (Dio si
Without delay or any tarryng. [God withdraws] ritira). Signore io andrò in tutto il mondo e
D. Lord I will in the world go run overall crudelmente (senza pietà) scandaglierò sia i grandi
And cruelly outsearch both great and small; che i piccoli; io rintraccerò ogni uomo che vive (th
Every man will I beset that liveth beastly corrisponde alla s dell’inglese moderno della 3
Out of God’s laws and dredeth not folly. persona singolare del verbo) al di fuori delle leggi di
He that loveth riches I will strike with my dart Dio e che non teme la follia. Colui il quale ama le
His sight to blind and from heaven to depart-- ricchezze io lo colpirò col mio dardo per accecare la
Except that alms be his good friend-- sua vista e per separarlo dal paradiso a meno che le
In hell for to dwell world without end. elemosine, la carità, non sia un suo buon amico, per
Lo, yonder I see Everyman walking. farlo dimorare nell’inferno che è un mondo senza
fine. Guarda, laggiù io vedo Everyman che cammina.
Molto poco egli pensa al mio arrivo; la sua mente è
24 rivolta ai piaceri carnali e al suo tesoro e grande
dolore gli causerà (endure lett. Sopportare)
Full little he thinketh on my coming;
His mind is on fleshy lusts and his treasure
And great pain it shall cause him to endure
Before the Lord, Heaven King.

Everyman è ognuno, indicato come nome proprio in quanto personaggio principale, quello che dà il nome
al Moral Play. Ma Everyman chiaramente sta ad indicare tutta l’umanità Everyman è un personaggio del
dramma, ma nello stesso tempo è anche un’allegoria dell’umanità tutta.

Everyman, stand still! Whither art thou going Everyman, fermati! Dove stai andando (art
Thus gaily? Hast thou thy Maker forget? corrisponde all’odierno are- 2 p. sing. del presente
[…] del verbo to be; ad art è stata elisa la s) così
E. What desireth God of me? allegramente? (hast stesso discorso) Hai tu
D. That shall I show thee: dimenticato il tuo creatore? (thy agg. Poss. 2. p. e
A reckoning he will needs have corrisponde a your) Che cosa vuole Dio da me?
Without any longer respite. Questo io te lo mostrerò: deve avere per forza un
[…] rendiconto senza alcun indugio. Del tutto
E. Full unready I am such reckoning to give. impreparato sono a fornire questo rendiconto. Io
I know thee not. What messanger art thou? non ti conosco. Che messaggero sei tu? Io sono la
D. I am Death, that no man dreadeth morte, che non teme nessuno poiché io blocco
For every man I rest, and no man spareth; ogni uomo e non risparmio nessuno poiché è
For it is God’s commandment volontà di Dio che tutti mi debbano obbedire. O
That all to me should be obedient. morte, tu arrivi quando io meno ti avevo in mente!
E. O Death, thou comest when I had thee least in mind! In tuo potere sta salvarmi; e tuttavia di mia
In thy powe it lieth me to save; spontanea volontà (will volontà come sostantivo) ti
Yet of my good will I give thee, if thou will be kind – do, se tu sarai gentile, si, mille sterline avrai, se
Yea, a thousand pound shalt thou have – rimanderai questa faccenda fino ad un altro giorno.
And defer this matter till another day. (and ha anche valore di se). Everyman non è
D. Everyman, it may not be, by no way: possibile in nessun modo: io non mi fermo né per
I set not by gold, silver, not riches, l’oro, né per l’argento, né per le ricchezze, né per il
Ne by pope, emperor king, duke, ne princes; papa, l’imperatore, il re, il duca, né per i principi;
For, an I would receive gifts great, poiché (an corrisponde ad if, se) se volessi ricevere
All the world I might get; grandi doni io potrei ottenere tutto il mondo; ma il
But my custom is clean contrary. mio costume è tutto l’opposto. Io non ti do alcun
I give thee no respite. Come hence, and not tarry. indugio. Vieni qui, e non tardare.

Everyman naturalmente continuerà a cercare di convincerla ma la morte dirà di no, in quanto l’ordine di
Dio è che si presenti al suo cospetto con ciò che ha fatto durante la sua vita immediatamente. Everyman,
l’unica cosa che riuscirà ad ottenere dalla morte, sarà quella di essere accompagnato da chi lo vorrà
seguire. Ecco allora che si rivolge a quelli che considera suoi amici, i quali in un primo momento gli dicono di
sì, ma poi uno alla volta lo abbandoneranno così come le abbandonano quelle che possiamo considerare le
qualità dell’uomo quali la giovinezza, l’intelletto, ecc. Rimane con lui soltanto un’altra figura: buone azioni.

25
Egli è un amico che lui durante la sua vita ha molto trascurato. Sarà solo lui a seguirlo fino alla porta del
sepolcro e sarà colui che parlerà in favore di Everyman davanti a Dio.
La morale è chiara e comprende due elementi importanti: la chiamata di Dio può arrivare in qualsiasi
momento e che tutte le caratteristiche individuali, così come anche quello che nella vita si pensa di essere
riusciti ad ottenere (ricchezza, potere, successo, ecc.) nel momento di presentarsi davanti a Dio, non
contano assolutamente nulla. Quello che conta sono soltanto le buone azioni, quello che di bene si è fatto
nel corso della vita.
Pertanto, la morale non è legata ad un testo sacro specifico o ad un episodio della Bibbia intesa come
vecchio o nuovo testamento. Si tratta di un Morality play, che ha una morale al centro della
rappresentazione ed il fine della rappresentazione stessa. Ma i Morality plays erano anche dei veri e propri
drammi allegorici, vale a dire che sono a tutti gli effetti delle allegorie, costruiti in modalità tale che ci
troviamo difronte ad un primo livello di lettura che è quello letterale ed uno superiore, quello allegorico. Il
livello letterale della vicenda messa in scena in Everyman, è esso stesso che viene chiamato dalla morte,
cerca di resistere ma alla fine si deve presentare davanti a Dio. Il livello secondario, quello allegorico di
interpretazione è che Everyman non è un individuo qualunque che si chiama “ognuno” ma è l’umanità
stessa e l’insegnamento che scaturisce dalla vicenda è un insegnamento che tocca l’umanità per intero.

Accanto ai Morality, Miracle, Mistery plays, vi erano inoltre i Cycle plays, ovvero cicli di rappresentazioni
che erano strettamente legati ai grandi momenti delle liturgie solenni. Essi prendevano il nome dalle città in
cui venivano svolti e messi in scena. Ecco allora che abbiamo il cosiddetto York Cycle, oppure il Ciclo di
Chester e un N. town laddove n non indica il nome della città ma una città indeterminata, per essere
utilizzato in città diverse. I Cycle plays, strettamente legati ai momenti delle liturgie solenni, in particolare
quella di Natale e di Pasqua, comprendevano una serie di “episodi” diversi che venivano rappresentati su
dei carri mobili che erano attrezzati. Ciascuno di questi carri era attrezzato in modo da consentire lo
svolgimento di una scena o una rappresentazione non troppo lunga. Questi carri erano inoltre congeniati in
modo da potersi spostare da una parte all’altra della città; di solito quello che avveniva è che c’era appunto
un ciclo di rappresentazioni: una parte dell’episodio si svolgeva sempre sullo stesso carro che però si
spostava da una parte all’altra della città. Anche nel caso dei Cycle plays abbiamo alcune testimonianze ma
non ci sono sempre delle certezze assolute; comunque, l’ipotesi più accreditata è che questi cicli di
rappresentazione, mettessero in scena dei momenti particolari tratti quasi sempre dai testi sacri o dalle vite
dai santi.
Gli attori dei Cycle plays, almeno fino ad un certo momento e presumibilmente anche quelli dei Morality
plays, per lo più non erano attori professionisti (non che non esistessero figure di performences
professionisti, ma non erano comuni e comunque operavano più nelle fiere) ma erano cittadini del luogo
coadiuvati per le parti più importanti da attori professionisti. Di solito anche, ad occuparsi di una parte
specifica del ciclo era una corporazione e le diverse corporazioni di arti e mestieri si facevano carico della
gestione dal punto di vista materiale ed economico di una parte, un episodio del ciclo. Quello di cui
ciascuna corporazione si faceva carico era un episodio legato alla professione dei membri della
corporazione: per esempio se si doveva rappresentare la cacciata dal paradiso di lucifero e poi dal paradiso
terrestre di Adamo ed Eva, a farsene carico era di solito la corporazione degli armaioli perché l’arcangelo
Gabriele viene rappresentato con la spada fiammeggiante in mano e dunque è un’arma; oppure ancora
l’episodio del diluvio universale, a seconda delle diverse parti, poteva essere presa in carico dai barcaioli o
dai falegnami se si trattava di mettere in risalto la costruzione dell’arca oppure ancora da quella degli osti se
si faceva rappresentare l’ebrezza di Noè e così via.
Sempre per quanto riguarda l’ambito degli attori, in Inghilterra, sembrerebbe, nel caso dei Cycle Plays, che
di donne che agissero sul palcoscenico, non ce ne fossero e fossero tutti quanti uomini.

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Vedi voci su glossario dei Mistery plays, Miracle, Morality, Interlude (studium)

LEZIONE 8
21/10/2020

Come detto precedentemente, i Morality plays sembrerebbero l’ultima forma di Drama of the Middle
English period a svilupparsi ed è anche quella che però avrà un’esistenza più duratura, nel senso che,
aspetti dei Morality plays verranno in qualche modo recuperati e ripresi anche dai grandi drammaturghi
della English Renaissance (Marlow).
Al fine di introdurre Marlow ed il suo teatro, occorre fare un excursus inerente a quello che è il primo
periodo della monarchia Tudor, che coincide con quello che è a tutti gli effetti la prima fase del Modern
English Period. Il primissimo periodo del Modern English period, è quello che solitamente viene definito
periodo dell’English Humanism, che a sua volta è la prima fase del Rinascimento inglese. Quando parliamo
di Umanesimo e di Rinascimento inglese, rispetto a quanto avviene in particolare in Italia, dobbiamo in
qualche modo posticipare di qualche decennio, sia l’Umanesimo che soprattutto il Rinascimento. Ci sono
comunque dei collegamenti molto stretti tra quella che è la vita culturale e la vita politica del tempo ed il
modo in cui le questioni che sembrerebbero non essere di stretta pertinenza culturale e letteraria, si
intrecciano invece con la politica dell’epoca.
Tra i Lancaster e gli York, le due casate che si contendono il regno di Inghilterra, finirà con l’avere la meglio
una terza casata: quella dei Tudor, imparentata con i Lancaster (tramite Enrico Tudor, che con la battaglia di
Bostworth riesce ad assicurarsi il potere, che è imparentato con la casata dei Lancaster ma non è
direttamente un Lancaster). Per indicare una linea di continuità con i sovrani precedenti, Enrico Tudor
finisce col salire al trono con il nome di Enrico VII (invece di Enrico I Tudor). Enrico VII è a tutti gli effetti un
sovrano illuminato, un uomo di cultura che ha studiato, conosce i classici, conosce le lingue, e vuole per il
figlio, che salirà poi al trono con il nome di Enrico VIII, una preparazione di base che lo apra al mondo. Ecco
che allora chiama a svolgere il ruolo di precettore del figlio il più famoso umanista inglese dell’epoca,
Thomas Moore o Tommaso Moro, che diventerà in seguito anche consigliere di Enrico VIII.
Siamo alla fine del 1400, inizi del 1500; Thomas Moore studia ad Oxford, che già all’epoca era l’università
più prestigiosa, e studia legge ed anche le lingue classiche, ed in particolare il greco ed il latino. Non solo,
viaggia parecchio, ha una conoscenza del mondo al di là degli stretti confini dell’Inghilterra che gli consente
in qualche modo di confrontarsi alla pari con quelli che sono i principali intellettuali europei ed in
particolare con Erasmo da Rotterdam. I due diventeranno amici, corrispondendosi quotidianamente in
latino, in quanto lingua universale per il mondo della cultura. Thomas Moore, come detto
precedentemente, diventa prima precettore e poi amico e consigliere del figlio di Enrico VII, Enrico VIII.
Enrico VIII darà all’amico consigliere Thomas Moore tutta una serie di cariche che sono molto importanti
nominandolo tra l’altro Lord Cancelliere, il che significa che lo rende in pratica primo ministro del regno. I
problemi cominciano a sorgere quando Thomas Moore entra nel vivo di una polemica relativa alla
traduzione della Bibbia. C’era stata con Lutero e la posizione delle 25 tesi sulla porta di Wittenberg, l’inizio
della Riforma Protestante, vale a dire l’inizio della separazione dei cristiani tra Cattolici e Protestanti con la
conseguente separazione della Chiesa Cattolica e la nuova chiesa, la Chiesa protestante. Alla base della

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nuova religione, vi sono alcune idee fondamentali: la prima è quella che si riferisce al diritto-dovere dei
fedeli di accedere al testo sacro per eccellenza, la Bibbia. Vi sono poi altri elementi importanti del
protestantesimo che mettono in discussione l’autorità del papa così come anche l’autorità dei ministri della
Chiesa perché è il fedele che deve avere accesso diretto al testo sacro e quindi l’intermediazione da un
punto di vista autoritario dei ministri della Chiesa per i luterani diventa una sovrastruttura che non ha
motivo di esistere. Vi sono anche altri elementi che vanno a ricollegarsi a quella che è una sorta di
iconoclastia, cioè una ostilità nei confronti delle rappresentazioni del sacro, che in quanto tale, non può e
non deve essere rappresentato.
Elemento chiave che in qualche modo è già indicato da Lutero e verrà poi ulteriormente ripreso è quello
legato alla teoria della predestinazione, che è in rotta di collisione con l’idea cattolica che la salvezza è
determinata sì dalla grazia che viene concessa da Dio, ma la concezione della grazia da parte di Dio per i
cattolici è strettamente legata alle opere che l’individuo compie. Mentre invece per Lutero e per in generale
i protestanti, la dottrina della predestinazione indica che ad essere salvati saranno un certo numero
indeterminato e stabilito da Dio di eletti, i quali arriveranno alla salvezza eterna indipendentemente dalle
opere. C’è poi tutta la questione legata al libero arbitrio secondo cui l’uomo è libero di peccare oppure no e
così via, tutte questioni strettamente correlate ma che mettono in discussione quella che è la modalità
consueta di vivere la fede da parte dei cattolici.
Tommaso Moro è strettamente legato alla Chiesa cattolica, crede nel cattolicesimo in quanto tale, crede
nella necessità che l’autorità spirituale del papa venga mantenuta; contemporaneamente Thomas Moore,
da umanista si rende conto del fatto che è necessario ampliare quella che è la conoscenza che la gente
comune può avere del testo sacro. Infatti, si sviluppa all’epoca un dibattito sulla traduzione della Bibbia:
Lutero, come uno dei primi atti della sua ribellione all’autorità della chiesa di Roma, aveva promosso la
traduzione della Bibbia (ancora scritti in latino). Non è un caso che il primo libro stampato in Europa, di cui
si abbia notizia e di cui si abbia una diffusione considerevole è proprio la Bibbia di Gutenberg, colui il quale
inventa la stampa. In Inghilterra, a farsi sostenitore della necessità di una traduzione della Bibbia che sia
fedele al testo sacro e che allo stesso tempo non si discosti dalla dottrina della chiesa di Roma, è da una
parte Thomas Moore e dall’altra parte Tym Dale che si fa promotore di una traduzione della Bibbia in lingua
inglese. Thomas Moore condivide questa idea di base ma entrerà in polemica con Tim Dale perché
entrambi intendono partire non dalla Vulgata latina ma dal testo greco della Bibbia di cui la Vulgata latina
era già una traduzione; entrano in rotta di collisione perché secondo Moore la traduzione traduce in
maniera non filologicamente corretta e non coerente con la dottrina della chiesa alcuni termini chiave. È
una polemica che può sembrare una polemica tra intellettuali impegnati nell’ambito della religione ma in
realtà è qualcosa di più perché finisce con l’avere una serie di conseguenze. Le conseguenze sono cioè che
le convinzioni di Moore relativamente alla volontà di mantenere la fedeltà alla chiesa cattolica in qualche
modo si radicalizzano. Questa sua radicalizzazione nella fedeltà alla chiesa cattolica romana lo porterà
anche a quello che sarà a tutti gli effetti uno scontro diretto con il sovrano. Enrico VIII per ragioni personali
e politiche, non tanto religiose, metterà ad un certo punto in atto quello che è lo Scisma dalla chiesa di
Roma e darà vita ad una nuova chiesa, staccata dalla chiesa di Roma, che diventerà la chiesa anglicana, di
cui si proclama il capo. Egli lo fa con quello che è l”Act of Supremacy”. Questa decisione molto importante
era stata, come detto precedentemente determinata anche da ragioni di carattere personale: Enrico VIII era
sposato con Caterina D’Aragona, spagnola di nascita che apparteneva ad una famiglia importantissima
perché il padre era sovrano di Spagna ed il fratello sarebbe poi diventato l’imperatore spagnolo con il nome
di Carlo V. Caterina D’Aragona era ovviamente cattolica; Enrico VIII non riesce ad ottenere però da Caterina
l’agognato erede maschio in quanto darà alla luce una figlia, Maria, che diventerà per un breve periodo
regina e soprannominata dagli inglesi Bloody Mary, Maria la sanguinaria. Enrico VIII vuole dunque ottenere
l’annullamento del matrimonio, una prassi che peraltro, in altre occasioni, i papi avevano adottato andando

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in contro a quelle che erano le richieste dei potenti. Papa Clemente però, si rifiuta di concedere
l’annullamento del matrimonio, perché questo lo metterebbe in rotta di collisione con la Spagna, che è un
potente sostenitore del papato. Oltre a volersi separare da Caterina perché non gli ha dato un erede
maschio, c’è anche il fatto che Enrico VIII nel frattempo sta frequentando una dama di corte, Anna Bolena e
vuole sposarla. Quello che ne viene fuori determina lo scisma anglicano cioè di fronte alla negazione del
papa di concedergli l’annullamento del matrimonio, Enrico VIII separa la Chiesa d’Inghilterra da quella di
Roma.
Accanto a queste scelte di Enrico VIII, si collocano delle ragioni politiche molto importanti, che si
intrecciano anche a ragioni economiche: la chiesa cattolica romana, in Inghilterra, aveva una quantità
notevole di possedimenti.
Nel momento in cui con l’Act of Supremacy, Enrico VIII determina la fondazione di una nuova chiesa di cui
lui è il capo supremo, ecco che i beni della chiesa cattolica in Inghilterra, non appartengono più alla Chiesa
ma secondo il sovrano appartengono direttamente alla corona. Conseguentemente, il sovrano è libero di
disporne come meglio crede. Egli intende disporne sia per rimpinguare le casse del regno che erano
abbondantemente in sofferenza anche a seguito delle guerre di successione precedenti alla sua ascesa;
alienare a sé i beni appartenenti alla chiesa implica anche per Enrico VIII la possibilità di favorire una serie di
personaggi che a questo punto saranno legati a lui per motivi di fedeltà ma anche per interesse. Thomas
Moore a questo punto, si rifiuterà, nella maniera più categorica, nonostante le pressanti e ripetute
sollecitazioni del sovrano, di aderire a questa politica del sovrano; anzi sarà assolutamente contrario al
divorzio di Enrico VIII da Caterina, ad Anna Bolena e si pronuncerà anche assolutamente contro quello che è
lo scisma. A dispetto di quello che poteva essere un intellettuale, a dispetto di quello che era stato il suo
precettore, a dispetto dell’amicizia che li aveva uniti, Enrico VIII finirà per sentirsi tradito nelle sue
aspettative da parte di Tommaso Moro e per questa ragione verrà imprigionato nella torre di Londra ed a
fronte del suo ostinato rifiuto a giurare fedeltà al sovrano in quanto capo della Chiesa d’Inghilterra, verrà
giustiziato per alto tradimento. Dunque, l’umanista, intellettuale, ma anche uomo di fede cattolica, Thomas
Moore finirà la sua esistenza in maniera tragica.
Prima però, avrà modo di scrivere una serie di opere importanti e tra queste, quella che è ancora oggi più
nota, è senz’altro Utopia. Utopia è un’opera scritta originariamente in latino, pubblicata nel 1516; essa ha
una circolazione ampia nella cerchia di intellettuali inglesi ed europei e verrà successivamente tradotta in
inglese, un inglese molto accessibile nonostante la presenza di alcuni termini specifici. La traduzione di
Utopia avverrà soltanto dopo la morte di Thomas Moore. Comunque, sia in latino, sia in lingua inglese,
ebbe un’ampia circolazione. Essa darà da una parte l’immagine di un Inghilterra che necessita di essere
riformata perché Utopia è un’opera fortemente critica nei confronti della società e della politica inglese così
come si era andata concretizzando all’epoca di Thomas; contemporaneamente darà l’immagine di un
modello utopico, di società ideale al quale ispirarsi per mettere in atto maggiore giustizia sociale,
correttezza nella legislazione, per evitare la corruzione, e così via.
Analizziamo il testo:
Il nome Utopia viene dall’unione di due parole greche: “u” +“topos” che significano nessun luogo. Utopia è
pertanto un luogo che non esiste, un luogo ideale che viene presentato come modello positivo. Essa si
compone di due libri “Books”, che Moore scrive in parte mentre sta viaggiando per l’Europa (dunque ha
modo di confrontarsi anche con realtà diverse) e in parte al suo rientro in Inghilterra. Per conto di Enrico
VIII Thomas Moore era stato anche a capo di parecchie missioni diplomatiche, sia come intellettuale sia su
mandato del sovrano, aveva viaggiato parecchio in Europa.
Il testo che segue è tratto dal primo libro: immaginiamo questa parte come un dialogo che si svolge tra un
personaggio, che è Master More, padron More, che dovrebbe essere una sorta di alter ego del filosofo (il
personaggio attraverso cui il filosofo rappresenta sé stesso) e un abitante dello stato di Utopia.

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Padron More, per dirvi ciò che penso sinceramente, ovunque le proprietà siano private (be- forma di
congiuntivo presente) laddove il denaro è tutto, è difficile e quasi impossibile che lì lo stato (lett. Ricchezza
comune) sia governato giustamente e che fiorisca in modo prospero. A meno che voi non pensiate che ci sia
giustizia laddove tutte le cose sono nelle mani dei malvagi oppure che possa fiorire in modo prospero
laddove tutto è diviso tra alcuni i quali ciò non di meno non vivono in modo molto ricco mentre tutti gli altri
vivono in modo miserevole, poverissimo e da mendicanti (miserably indica una miseria non soltanto
materiale ma anche spirituale; wretchedly indica invece una povertà assoluta sul piano materiale. Per cui io
rifletto e soppeso tra me e me le sagge e buone ordinanze degli abitanti di Utopia. Tra loro con pochissime
leggi, tutte le cose sono ordinate bene e riccamente dal momento che tutte le cose lì sono in comune
(utilizza una forma gerundiva). E ancora d’altro canto io paragono con loro tante nazioni che
continuamente fanno nuove leggi, e tuttavia nessuna di loro è bene e adeguatamente fornita di leggi. In
queste nazioni ciascuno definisce (considera, reclama) ciò che ha come sua proprietà individuale e

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personale e tuttavia tante leggi fatte quotidianamente non sono sufficienti perché ciascuno goda, difenda e
riconosca ciò che è suo da ciò che appartiene a un altro. Tutto questo è chiaramente dimostrato dalle
infinte controversie legali che quotidianamente sorgono per non concludersi mai. Nessuna sorpresa,
considerato tutto questo, che Platone (l’altro grande filosofo che aveva immaginato uno stato ideale) si
rifiutò di fare le leggi, per coloro i quali si rifiutavano di avere e di godere di parti uguali di ricchezza e di
beni. Quel saggio uomo previde facilmente che questo è l’unica e sola via verso la prosperità di uno Stato
quando l’uguaglianza di tutte le cose è introdotta e stabilita. Questo chiaramente non è possibile laddove le
proprietà di ognuno sono individuali e peculiari a lui. Laddove ognuno con la scusa di certi titoli e pretese
attrae e coglie per sé, il più possibile e così pochi, si dividono fra loro le risorse che ci sono a dispetto di ogni
abbondanza e riserva lì alla moltitudine sono lasciate soltanto mancanza, e povertà. E nella maggior parte
dei casi, questa seconda specie di individui, (cioè quelli che sono lasciati nel bisogno), capita che sia più
degna di godere della ricchezza degli altri (la prima tipologia). I ricchi, infatti, sono arroganti accaparratori e
non profittevoli (non sono di alcuna utilità per lo Stato). Dall’altro lato i poveri sono umili, semplici e tramite
la loro fatica quotidiana sono più profittevoli (più utitli) allo stato che a loro stessi. Conseguentemente,
sono convinto che nessuna distribuzione eguale e giusta delle cose, possa essere fatta, né che la perfetta
ricchezza potrà mai esistere tra gli uomini, a meno che questa proprietà (proprietà privata) non sia esiliata e
bandita. E intanto che continuerà ad esserci, il fardello pesante ed inevitabile della povertà e della miseria
(o infelicità) rimarrà tra la parte più numerosa e migliore degli uomini. Io sì lo ammetto, che questo fardello
può essere in certo qual modo alleggerito ma io nego assolutamente che possa essere totalmente
eliminato. Immaginiamo, che venga fatta una legge, normativa, per virtù della quale nessuno dovrebbe
possedere più di una certa quantità di terreno, e che nessuno dovrebbe avere nella sua riserva più di una
somma di denaro prescritta e stabilita. Immaginiamo che vengano decretati certe leggi tramite le quali né il
re debba avere troppo potere né il popolo possa essere troppo orgoglioso e ricco. Che gli uffici (le cariche
pubbliche), non debbano essere ottenute tramite corteggiamenti, lusinghe, modalità corruttive, non solo e
che non possano essere anche comprate e vendute (la compravendita era una pratica molto diffusa). Né
che dovrebbe essere necessario per coloro i quali ricoprono incarichi pubblici dal momento che questa è
l’occasione per i pubblici ufficiali di raccogliere i loro soldi tramite la frode e l’inganno. Ma, dal momento
che gli uffici sono tenuti soltanto tramite regali e tangenti, soltanto i ricchi si possono permettere di
occupare la posizione che dovrebbe essere affidata ai saggi. Tramite une legislazione di questo tipo (che
mitighi in qualche modo, che introduca dei correttivi) io dico, questi mali potrebbero essere mitigati ma
solo come organismi, corpi malati che sono in condizioni disperate, possono essere mantenuti e rimessi
insieme per un po' con continue buone attenzioni. Ma che questi mali, possano essere perfettamente curati
e portati ad una condizione buona e sana, questo non lo si può sperare, fin tanto che ciascuno è padrone in
sé e per sé di ciò che gli appartiene. E mentre tu te ne vai in giro a curare una parte (di quello stato)
renderai più grande il dolore di un’altra parte. Così aiutare uno, causa il male di un’altra parte dal momento
che nulla può essere dato ad uno a meno che non venga sottratto ad un altro (è chiaro in una società in cui
esiste la proprietà privata).
Ma io la penso in modo totalmente opposto, dissi io, poiché penso che gli uomini non vivranno mai
riccamente laddove le cose sono in comune. Infatti, come può esserci abbondanza di beni o di qualunque
cosa. Chi non è portato al lavoro dalla considerazione del proprio guadagno?

31
LEZIONE 9
23/10/2020
Leggiamo in primo luogo il sonetto “Whoso List to Hunt”:

Who so list to hunt, I know where is a hind, A chi desidera cacciare, io so dove c’è una
But, as for me, hélas, I may no more: cerva, ma quanto a me, (hélas è
The vain travail hath wearied me so sore, un’interiezione) ahimè, io non posso più
I am of them that farthest cometh behind; cacciarla: l’inutile travaglio mi ha stancato così
Yet may I by no means my wearied mind terribilmente che io sono tra coloro che più da
Draw from the deer: but as she fleeth afore, lontano la seguono; tuttavia, io non posso in
Fainting I follow. I leave off therefore, alcun modo, la mia mente stanca, distogliere
Sithens in a net I seek to hold the wind. dalla cerva: ma mentre lei fugge via, io seguo
Who list her hunt, I put him out of doubt, venendo meno. Quindi io rinuncio, dal
As well as I may spend his time in vain: momento che in una rete cerco di trattenere il
And, graven with diamonds, in letters plain, vento. A chi desidera cacciarla, io gli tolgo ogni
There is written, her fair neck round about: dubbio, esattamente come me può spendere il
Noli me tangere, for Caesar's I am, suo tempo: e, inciso con diamanti, a chiare
And wild for to hold, though I seem tame. lettere, c’è scritto intorno al suo bel collo: non
mi toccare, poiché io sono di Cesare, e sono
selvaggia da tenere, anche se sembro mite.

“Whoso List to Hunt” di Sir Thomas Wyatt (pag. 24), è una sorta di trasposizione del sonetto di Petrarca,
“Una candida cerva”, sebbene vi siano delle differenze significative. La prima differenza importante si
riferisce a quella che è la struttura del sonetto. Il sonetto petrarchesco o comunque il sonetto italiano, si
consolida evidentemente come una forma di composizione poetica breve, di 14 versi, che sono organizzati
in una ottava e una sestina, o meglio ancora, due quartine e due terzine. Nella trasposizione adoperata da
Wyatt invece, ci troviamo di fronte a quello che diventerà poi la forma standard del sonetto inglese, cioè tre
quartine ed un distico finale. Dunque, i versi sono in totale sempre 14, ma sono organizzati al suo interno,
diversamente. Ci sono poi delle differenze che si riferiscono invece al sistema metrico, e dunque come le
rime si susseguono all’interno di questa organizzazione in quartine e terzine. Però diciamo che la differenza
principale è proprio in questa suddivisione dei versi. Questo per quanto riguarda l’aspetto formale più
evidente, ma vi sono delle altre differenze significative che vanno più nella direzione del contenuto. Anche
Whoso List to Hunt, si può considerare un sonetto che ha al suo centro una figura femminile che è oggetto
del desiderio d’amore del poeta, ma a differenza della Laura petrarchesca, la figura amata ed inseguita
invano dal poeta, finisce con l’avere della caratteristiche molto più sfuggenti da una parte ma nello stesso
tempo anche molto più concrete e carnali; così come anche il fatto che il desiderio di possedere la cerva
non si possa realizzare è determinato da ragioni che sono fondamentalmente delle ragioni concrete, reali:
non è la Laura, figura ideale che rappresenta una concezione dell’amore che di terreno non ha nulla. La
candida cerva che è qui rappresentata sfugge a tutti perché ha già un padrone, che è il sovrano Cesare.
La Candida cerva raffigura a tutti gli effetti la figura di Anna Bolena: quello del rapporto tra Anna Bolena e
Thomas Wyatt è stato infatti un argomento ampiamente discusso e che tra l’altro ha avuto anche delle
ricadute nella vita del poeta perché ad un certo punto egli venne anche accusato di avere intrattenuto una

32
relazione con Anna Bolena quando ella era già diventata la sposa di Enrico VIII. Questa fu una delle ragioni
che da una parte contribuirono a far condannare Anna Bolena, ma dall’altra parte mise nei guai anche
Thomas Wyatt che venne arrestato. A differenza di quanto accadde ad altri cinque corteggiatori di Anna
Bolena con i quali la stessa Anna Bolena era stata accusata di aver intrattenuto relazioni adulterine, a
Thomas Wyatt tutto sommato andò bene perché dopo un breve periodo di imprigionamento fu rilasciato.
Tra l’altro, i suoi rapporti con Enrico VIII furono dei rapporti che nel corso del tempo ebbero dei momenti di
crisi perché Thomas Wyatt venne, per varie ragioni, ma fondamentalmente perché era entrato in contrasto
con il sovrano per i motivi più disparati, imprigionato e poi rilasciato per tre volte.
Thomas Wyatt, insieme a Surrey rappresentano le due figure chiave nell’operazione di rinnovamento della
tradizione poetica inglese, che viene effettuata in quella che possiamo dire la fase iniziale della English
Renaissance e che trae motivo di ispirazione e spunti concreti da quella che è la grande tradizione poetica
italiana rinascimentale ma anche precedente al Rinascimento.
Chi era Thomas Wyatt? Thomas Wyatt era a tutti gli effetti un cortigiano, nel senso nobile del termine, cioè
nel senso che egli era un uomo della corte, un aristocratico di alto livello, un uomo che si era nutrito della
grande tradizione culturale fondata sui classici, conosceva molto bene il latino ma aveva anche un ampia ed
approfondita conoscenza delle lingue moderne (tra queste, il francese e l’italiano). Vediamo inoltre che
Thomas Wyatt comincerà ad occupare posizioni di rilievo alla corte di Enrico VIII, verrà mandato
ripetutamente a svolgere delle missioni di carattere diplomatico e viaggerà anche molto per ragioni
personali, per un arricchimento della propria conoscenza del mondo e delle tradizioni culturali dei paesi al
di fuori dell’Inghilterra. Le sue vicende personali si complicheranno anche perché vivere alla morte di Enrico
VIII e mantenere i favori del sovrano in maniera continuativa non era per niente facile, come dimostreranno
vari imprigionamenti ed in qualche caso anche esecuzioni capitali di cui erano stati vittime personaggi
illustri che in un primo momento gli erano stati molto vicini. Nel caso di Thomas Wyatt vi saranno alterne
vicende, sarà infatti imprigionato ma poi anche rilasciato in quanto i rapporti personali con Enrico VII, tutto
sommato, finiranno per risolversi positivamente. Nel corso della sua esistenza, sicuramente Thomas Wyatt
corteggiò Anna Bolena ma molto probabilmente prima che Anna Bolena diventasse ufficialmente l’oggetto
del desiderio del sovrano e poi la sua sposa. Quando quindi Anna Bolena venne accusata di avere tradito il
re, con tutta una serie di amanti, tra i quali venne menzionato anche Thomas Wyatt, queste accuse furono
più strumentali a quella che era la decisione di Enrico VIII di liberarsi di questa moglie diventata scomoda e
che non voleva assolutamente accettare l’annullamento del matrimonio per consentirgli di convolare a
nuove nozze, piuttosto che il risultato di una situazione ancora attuale. In altre parole, vero è che Thomas
Wyatt aveva corteggiato Anna Bolena (non sappiamo con quanto successo), però è altrettanto vero che nel
momento in cui Anna Bolena venne accusata di aver tradito il re e di averlo tradito anche con Thomas
Wyatt, questo rapporto non era più in essere.
Qual è l’importanza di Thomas Wyatt nella storia della letteratura inglese? Come già detto, quello di avere
dato il via a quello che è un modo nuovo di fare poesia, che è fortemente focalizzato ed ispirato a quelli che
sono modelli continentali che però non sono più quelli francesi ma sono quelli dell’Italia rinascimentale.
Quello che Thomas Wyatt fa, anche sfruttando i suoi soggiorni in Italia, è riprendere quelli che secondo lui
sono gli aspetti più significativi e salienti di quella che è la tradizione poetica italiana, con particolare, ma
non esclusivo riferimento alla tradizione sonettistica e cercare di trasporre questi modelli in Inghilterra.
Come già detto, Thomas Wyatt conosceva molto bene la lingua italiana, tanto bene da potersi permettere
di sperimentare la forma sonetto anche scrivendo in un numero non grandissimo ma significativo di sonetti
in italiano. Dopodiché Thomas Wyatt mette in atto quella che è un’operazione di traduzione/trasposizione
di testi poetici, in particolare sonetti italiani appartenenti sia a Petrarca come anche e ancora di più ai
seguaci di Petrarca, e li traspone e li adatta in inglese. Ciò implica che le sue traduzioni non sono in realtà
delle traduzioni vere e proprie ma sono piuttosto delle operazioni di adattamento di quelli che erano temi,

33
motivi, tradizionali della sonettistica italiana a quello che era il contesto inglese. In questa operazione di
adattamento/trasposizione diciamo che cambia un po’ quella che è la concezione della donna che viene
percepita e rappresentata come molto più concreta rispetto a quanto non avveniva nella tradizione di
partenza. Wyatt è dunque importante proprio perché dà il via a quello che è una nuova tendenza nella
letteratura inglese.
Surrey si dimostrerà dal punto di vista della capacità poetica, se vogliamo, molto più abile di Wyatt, ma
Wyatt rimane comunque il primo. Surrey opererà invece sulla sua scia e a lui dobbiamo anche l’invenzione
di quello che diventerà un tipo di verso della tradizione letteraria inglese: il Blank vers. Il Blank vers è un
decasillabo sciolto, cioè non rimato. Esso diventerà il metro fondamentale della produzione
drammaturgica; infatti, il teatro elisabettiano è in buona parte prodotto utilizzando il Blank vers.
Contemporaneamente esso diventerà anche centrale, in buona parte, della produzione poetica. Esso sarà
destinato sia a caratterizzare una parte molto importante della produzione elisabettiana, ma avrà grande
sviluppo anche dopo.
In particolare, Surrey non utilizza il Blank vers per scrivere drammi teatrali, ma lo utilizzerà nella sua celebre
traduzioni in versi dell’Eneide, che è una traduzione filologicamente corretta, fedele all’originale ma
piuttosto che cercare di rispettare pari pari il metro del testo originale utilizza un tipi di versificazione
regolare (dieci sillabe) privo di rima.
Dunque, Wyatt e Surrey rappresentano coloro i quali introducono nella letteratura inglese, un modo nuovo
rispetto a quel contesto, di fare poesia. Un modo nuovo di fare poesia che introducono anche rispetto a
Skelton, che è anche lui un membro della corte, ma i cui versi sono molto più legati ad una tradizione
precedente, piuttosto che puntare a modificare la tradizione esistente sulla base di modelli continentali, in
particolare italiani. In altre parole, Skelton è molto più legato ad una tradizione autoctona piuttosto che ad
una tradizione nuova. I versi di Skelton risultano in molti casi efficaci, anche per la loro brevità, ma
sicuramente anche per quanto riguarda la padronanza della tecnica poetica e anche l’utilizzo del linguaggio,
Skelton si rivela molto più rozzo di quanto non siano invece i raffinati Wyatt e soprattutto Surrey.
Come si diffondono le opere di Wyatt e Surrrey? Secondo l’uso del tempo esse escono saltuariamente, a
mano a mano che certe composizioni poetiche vengono scritte. Ma il salto di qualità per quanto riguarda la
diffusione della produzione poetica e in particolare sonettistica di Wyatt e di Surrey si avrà con la
pubblicazione della Tottel's Miscellany, che raccoglie un numero significativo delle composizioni di Surrey e
di Wyatt. A questo punto le produzioni di Wyatt e Surrey diventeranno un modello anche per altri autori e
poeti che con l’ambiente della corte non hanno nulla a che vedere.
Facciamo infine un’ultima notazione sui modelli culturali che si vanno diffondendo in questo periodo. Sia
Wyatt che Surrey erano profondamente imbevuti di cultura classica, con specifico riferimento alla
tradizione latina. Entrambi erano uomini di mondo, che viaggiavano, che frequentavano le corti europee ed
in particolare le varie corti degli Stati italiani. È lì che si impregnano di questa cultura italiana, nei confronti
della quale gli inglesi sembravano avere una sorta di atteggiamento schizofrenico. Vediamo che vengono
pubblicati, intorno alla fine del XV secolo, inizi del XVI secolo, in Italia, dei manuali che in qualche modo
definiscono le caratteristiche del perfetto uomo di corte e di colui il quale è un uomo di cultura che sa
muoversi adeguatamente nei diversi contesti. Abbiamo allora da una parte il Cortegiano e dall’altra parte il
Galateo, i due testi che segnano le linee di comportamento per l’individuo colto. Sia l’uno che l’altro testo
troveranno ampia diffusione in Inghilterra in traduzione e diverranno una sorta di modello di
comportamento. Da una parte dunque abbiamo la definizione di un modello alto percepito come positivo,
ma dall’altra parte c’è, da parte degli inglesi, una percezione negativa di quanto avviene nella politica
italiana. Ecco allora che da un lato si sviluppa una sorta di ammirazione assoluta per la cultura e le arti
italiane, ma d’altra parte si va diffondendo una percezione negativa in termini politici dei diversi Stati che
all’epoca andavano a comporre l’Italia. Questa percezione negativa si concretizzerà nel modo in cui gli

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inglesi finiranno per rappresentare Machiavelli (indicato con il soprannome di Old Nick, lo stesso
soprannome del diavolo). Egli non a caso era stato autore di moltissimi testi tra cui “Il Principe”, laddove si
delinea la figura di un capo di Stato che deve essere in grado di tenere saldamente in mano le redini del
potere.
Passiamo adesso a parlare di “The tragicall history of Doctor Faustus” di Marlowe. Esso viene scritto o
comunque rappresentato per la prima volta nel 1592. Christopher Marlowe è il più grande drammaturgo
elisabettiano pre-shakespeariano. Shakespeare e Marlowe nascono quasi certamente nello stesso anno, o
al massimo ad un anno di distanza; in particolare, secondo alcuni studiosi di Marlowe, egli nasce un anno
prima di Shakespeare, mentre secondo altri nasce esattamente nello stesso anno di Shakespeare. Tuttavia,
c’è una differenza importante: Marlowe comincia molto presto a scrivere, scrivendo versi e per il teatro e
cominciando a farsi un nome. La sua prima grande opera teatrale (non la prima, ma probabilmente la prima
opera che scrive da solo, non in collaborazione) e che ha un grande successo è “Tamburlaine the Great”. In
un arco temporale molto ristretto, seguiranno gli altri suoi scritti importanti, tra i quali appunto il celebre
“The tragicall history of Doctor Faustus”. Marlowe, tuttavia, ha una vita molto breve: egli muore infatti a
soli ventinove anni. Contemporaneamente, Shakespeare, si trova a Stratford-upon-Avon, dove è nato e
dove ha compiuto un corso di studi (non proseguendoli all’università, a differenza di Marlowe), dove si
sposa con una donna più grande di lui, ha dei figli, e ad un certo punto, per ragioni sconosciute (cause
finanziarie, insoddisfazioni personali, ecc.) abbandona Stratford-upon-Avon e va a Londra, dove comincia a
muoversi nell’ambito del teatro. Marlowe fa in un primo momento da attore, e dopo un po’ di tempo,
comincia a scrivere testi per la compagnia all’interno della quale si trova a lavorare. Ma quando
Shakespeare comincia la sua carriera come drammaturgo, Marlowe è già all’apice della sua carriera. Poi,
Marlowe produce i suoi capolavori assoluti e infine muore, non sapendo che cosa avrebbe potuto scrivere
dopo. Ciò che sappiamo è che in ogni caso, quanto ha prodotto, lo rende a tutti gli effetti un drammaturgo
straordinario che tra l’altro segna il momento di passaggio tra quella che è una tradizione teatrale
precedente a quella che è la tradizione nuova del teatro elisabettiano propriamente detto. Shakespeare che
ha, secondo gli standard dell’epoca, una vita tutto sommato lunga, oltre che prospera, chiaramente avrà
modo di maturare, sviluppare ulteriormente il proprio ingegno e produrre una serie di capolavori assoluto
che lo rendono a tutti gli effetti il massimo drammaturgo dell’intera storia letteraria inglese.
Andiamo dunque a vedere “The tragicall history of Doctor Faustus”. Il Doctor Faustus è uno studioso
tedesco, il quale vive e lavora all’interno di una famosa università, è apprezzato da tutti per la sua sapienza,
ha acquisito tutto quanto è possibile acquisire in termini di conoscenze, ma proprio perché ormai ha
acquisito tutto il sapere possibile, è insoddisfatto. Al prologo iniziale, segue la prima scena dell’opera
all’interno della quale viene rappresentato il Doctor Faustus, nel suo studio, che dopo aver passato in
rassegna i vari tomi del suo studio, comprende di possedere tutto quello che la scienza umana dell’epoca
consente di conoscere. Egli ha però l’aspirazione ad andare al di là di quelle conoscenze ed ovviamente il
demonio, che è sempre pronto a cogliere l’attimo che gli consenta di impadronirsi dell’anima di un uomo,
manda il suo inviato che si presenta sottoforma del demonio Mephistophilis. Egli propone al Doctor Faustus
un patto: ventiquattro anni in cui sarà al suo servizio e gli consentirà di superare i limiti imposti alla
conoscenza umana; dopodiché, Faustus dovrà cedere la sua anima al demonio, e dunque sarà dannato.
Nelle scene finali dell’opera, il Faustus di Marlowe sarà effettivamente dannato (nella versione più tarda di
Goethe, Faustus sarà invece salvato per mezzo dell’intercessione di Margherita).
Andiamo a leggere una parte del primo atto. In questa prima scena Mefistofele è già entrato in scena e ha
già fatto la sua proposta. Adesso Faustus rientra nel suo studio e parla tra sé e sè.

[Enter Faustus in his Study.] Ora, Faustus, (must thou needs  utilizza una
FAUSTUS. formula che indica un obbligo assoluto) devi tu per
forza essere dannato, e non puoi tu essere salvato?
Ma a che cosa serve allora pensare a Dio o al
35 Paradiso? Basta con queste inutili fantasie e con
questa disperazione
Now, Faustus, must thou needs be damned,
And canst thou not be saved?
What boots it then to think of God or heaven?
Away with such vain fancies and despair,
Despair in God and trust in Belzebub.(5) Disperati Dio e confida in Belzebub. Ora non
Now go not backward. No, Faustus, be resolute. indietreggiare. No, Faustus, sii resoluto. Perché
Why waverest thou? O, something soundeth in mine ears tentenni? Oh, qualcosa mi risuona nelle orecchie
“Abjure this magic, turn to God again. “abiura questa magia (magia nera), volgiti
Ay, and Faustus will turn to God again.(10) nuovamente a Dio. Sì, e Faustus si volgerà
To God? He loves thee not. nuovamente a Dio. A Dio? Lui non ti ama. Il Dio
The God thou servest is thine own appetite, che tu servi è il tuo proprio appetito, (desideri) in
Wherein is fixed the love of Belzebub. cui è fissato l’amore per Belzebub. A lui io
To him I'll build an altar and a church, costruirò un altare ed una chiesa, e gli offrirò
And offer lukewarm blood of new-born babes.(15) sangue tiepido di bambini appena nati.

[Enter the Good and Evil Angesl.] [entrano l’angelo buono e l’angelo cattivo]
GOOD ANGEL. Dolce Faustus, abbandona quell’arte esecrabile.
Sweet Faustus, leave that execrable art. Contrizione, preghiera, pentimento, a cosa
FAUSTUS. servono? Oh, sono dei mezzi per portarti al
Contrition, prayer, repentance, What of these? Paradiso. Piuttosto si tratta di illusioni, frutti della
GOOD ANGEL. follia, che rende sciocchi gli uomini che
Oh, they are means to bring thee unto heaven. maggiormente confidano in loro. Dolce Faustus,
EVIL ANGEL. pensa al Paradiso e alle cose celesti. No Faustus,
Rather illusions, fruits of lunacy,(20) pensa all’onore e alla ricchezza.
That makes men foolish that do trust them most.
Alla ricchezza! Bene (why non con valore
GOOD ANGEL.
interrogativo ma come interiezione), la signoria di
Sweet Faustus, think of Heaven and heavenly things.
Emden sarà mia. Quando Mefistofele mi sarà
EVIL ANGEL.
accanto, quale Dio ti potrà fare del male, Faustus?
No, Faustus, think of honour and of wealth.
Tu sei salvo. Non dubitare più. Mefistofele, vieni.

[Exeunt Angels.] [Mefistofele entra, Faustus è pronto a firmare il


FAUSTUS. contratto con il diavolo] dimmi, Faustus, avrò
Of wealth! (25) dunque la tua anima? E io sarò tuo schiavo e io ti
Why, the signiory of Emden shall be mine. servirò (wait+on) e ti darò più di quanto tu possa
When Mephistophilis shall stand by me, immaginare. Si, Mefistofele, te la darò. Allora,
What God can hurt thee, Faustus? thou art safe. Faustus, colpisci (o pugnala) coraggiosamente il
Cast no more doubts. Come, Mephistophilis, tuo braccio. E impegna la tua anima, affinchè in un
certo giorno, il grande Lucifero la possa reclamare
[Enter Mephistophilis Faustus is ready to sign with his own come sua; e allora sii tu altrettanto grande come
blood his contract with the devil] Lucifero. Guarda Mefistofele, per amor tuo
[…]tell me, Faustus, shall I have thy soul?
And I will be thy slave and wait on thee,
And give thee more than thou hast wit to ask.
Ay, Mephostohilis, I’ll give it thee.
Then, Faustus, stab thy arm courageously.
And bind thy soul, that at some certain day

36
Great Lucifer may claim it as his own;
And then be thou as great as Lucifer.(55)
FAUSTUS.
Lo, Mephistophilis, for love of thee
I cut mine arm, and with my proper blood Io mi taglio il braccio e con il mio proprio sangue
Assure my soul to be great Lucifer's, assicuro che la mia anima appartiene al grande
Chief lord and regent of perpetual night. (60) Lucifero, signore supremo e reggente della notte
View here the blood that trickles from mine arm, perpetua. Guarda il sangue che gocciola dal mio
And let it be propitious for my wish. braccio, e fa che sia propizio per il mio desiderio. Ma,
MEPHISTOPHILIS. Faustus, devi scriverlo sottoforma di atto di
But, Faustus, thou must write in manner of a deed of gift. donazione. Si, lo farò. Ma Mefistofele, il mio sangue
FAUSTUS. si congela e non è più fluido. Ti vado subito a
Ay, so I will. But Mephistophilis, (65) prendere del fuoco per scioglierlo immediatamente.
My blood congeals, and I can write no more.
MEPHISTOPHILIS.
I'll fetch thee fire to dissolve it straight.
[esce] Cosa può significare il fatto che il mio sangue
si è fermato? Il mio sangue non vuole che io scriva
[Exit.]
questo atto di donazione. Perché non scorre di
FAUSTUS.
nuovo in modo che io possa continuare a scrivere?
What might the staying of my blood portend?
“Faustus ti ha dato la sua anima”. Ah ecco è lì che si
Is it unwilling I should write this bill.
è fermato! E perché non dovresti? Non è forse la tua
Why streams it not, that I may write afresh? (70)
anima tua? E allora scrivi di nuovo, “Faustus ti dà la
"Faustus gives to thee his soul". Ah, there it stayed!
sua anima”. Ecco qui il fuoco. Suvvia, Faustus,
Why shouldst thou not? Is not thy soul thine own?
metticelo sopra. Così il mio sangue ricomincia a
Then write again, "Faustus gives to thee his soul."
schiarirsi; ora vi porrò fine immediatamente. Ah che
MEPHISTOPHILIS.
cosa non farei per ottenere la sua anima!
Here's fire. Come, Faustus, set it on.
Consummatus est: è concluso questo atto, e Faustus
FAUSTUS.
ha impegnato la sua anima a Lucifero. Ma che cosa è
So now the blood begins to clear again;(75)
questa iscrizione che c’è sul mio braccio? Fugge
Now will I make an end immediately.
l’uomo! Ma dove devo fuggire? Se fuggo verso il
MEPHISTOPHILIS.
cielo, colui che sta in cielo mi scaglierà giù
Oh, what will not I do to obtain his soul!
all’inferno. I miei sensi si ingannano; qui non c’è
FAUSTUS.
scritto niente! Ma sì, lo vedo chiaramente; persino
Consummatum est: this bill is ended,
qui c’è scritto homo fuge. E tuttavia Faustus non
And Faustus hath bequeathed his soul to Lucifer.
fuggirà. Gli porterò qualcosa per dilettare la sua
But what is this inscription on mine arm?(80)
mente.
Homo, fuge! Whither should I fly?
If unto God, he'll throw me down to hell. [entrano dei demoni, i quali danno corone e ricche
My senses are deceived; here's nothing writ! vesti a Faustus, danzano e poi escono di scena. Entra
Oh, yes, I see it plain; Even here is writ Mefistofele.] Che cosa significa questo spettacolo?
Homo, fuge. Yet shall not Faustus fly. (85) Mefistofele, parla.
MEPHISTOPHILIS.
I'll fetch him somewhat to delight his mind.

[Exit}

37
[Enter Devils, giving crowns and rich apparels to Faustus; they dance, and than depart. Enter
Mephostophilis]
FAUSTUS.
What means this show? Speak, Mephistophilis.
MEPHISTOPHILIS.
Nothing, Faustus, but to delight thy mind, Niente, Faustus, se non dilettare la tua mente e farti
And let thee see what magic can perform.(90 vedere che cosa la tua magia può realizzare. Ma
posso io evocare questi spiriti quando mi va? Sì
FAUSTUS. Mefistofele e anche fare delle cose più grandi di
But may I raise such spirits when I please? queste. E allora ce n’è abbastanza per mille anime.
MEPHISTOPHILIS.
Ay, Faustus, and do greater things than these.
FAUSTUS.
Then there's enough for a thousand souls.

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LEZIONE 10
27/10/2020

Come trattato nella lezione precedente, riprendiamo il testo “The tragicall history of Doctor Faustus” di
Marlowe. In questa scena in particolare, l’atto di donazione è finito, la stesura è stata completata e Faustus
lo accetta per lo seconda volta.

[The deed of gift is ready, Faustus accepts it for the second time]

MEPHOSTOPHILIS: So now, Faustus, ask me what thou wilt. Dunque ora, Faustus, chiedimi quello che vuoi.
FAUSTUS: First I will question with thee about hell. Per prima cosa ti interrogherò (discuterò con te)
Tell me, where is the place that men call hell? riguardo all’inferno. Dimmi, dove si trova il
MEPHOSTOPHILIS: Under the heavens. luogo che gli uomini chiamano Inferno? (inteso
FAUSTUS: Ay, so are all things else; but whereabouts? come luogo) Si trova sotto i cieli (concezione
MEPHOSTOPHILIS: Within the bowels of these elements, medievale dei diversi cieli). Si certo, tutte le cose
Where we are tortured and remain forever. si trovano sotto i cieli, ma dove? Dentro le
Hell hath no limits, nor is circumscribed viscere di questi elementi, dove noi siamo
In one self place. But where we are is hell, torturati e rimaniamo in eterno. L’inferno non
And where hell is there must we ever be. ha limiti e non è neppure circoscritto in un unico
And to be short, when all the world dissolves posto. Ma dove noi siamo è inferno e laddove è
And every creature shall be purified, inferno lì noi dobbiamo rimanere per sempre. E
All places shall be hell that is not heaven. per farla breve quando tutto il mondo si
dissolverà ed ogni creatura sarà purificata,
saranno inferno tutti i luoghi che non sono
paradiso. (quando ci sarà il giudizio universale e
la natura si dissolverà ecco che allora ci saranno
soltanto l’inferno e il paradiso).

Mefistofele non sta dunque dicendo a Faustus che l’inferno è un luogo a cui tutti ambiscono andare, ma sta
dicendo a suo modo quella che è la verità rispetto all’inferno e rispetto al fatto che l’inferno, con la
dannazione, è una condizione esistenziale.

Se andiamo a vedere la struttura di “The tragicall history of Doctor Faustus”, il dramma sostanzialmente si
condensa in quelle che sono le scene iniziali e la scena finale. Vi è prima un prologo, presentato in forma di
coro (come se vi fosse una ripresa delle modalità del teatro classico greco) che ci presenta la figura di
Faustus; subito dopo vi è il protagonista nel suo studio con la firma del patto diabolico. La scena finale ci

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presenta un Faustus, che è arrivato al termine dei 24 anni, è consapevole che sta per arrivare il momento in
cui dovrà consegnare la propria anima al demonio, e però in qualche modo ha dei dubbi. Egli sa che sta per
arrivare il momento finale, ma si chiede se non potrebbe chiedere perdono, si domanda se non potrebbe
implorare il perdono di Dio. Si dà però una risposta che è quella che lo condanna inesorabilmente: la
risposta che si da è che Dio non può avere compassione di uno come lui che ha peccato in maniera così
grave. Di fronte alla incapacità di Faustus di credere nella possibilità che eventualmente Dio, nella sua
infinita misericordia, lo possa perdonare, sarà l’elemento che determinerà la sua condanna definitiva. Ci
sarà, così come all’inizio vi era stato un prologo pronunciato da un coro, alla fine della tragedia, un coro,
che in questo caso è costituito dalle voci dei suoi compagni di studi, i quali, l’indomani mattina, entrando
nello studio di Faustus, trovano tutto sconvolto, Faustus scomparso ed ecco allora che commentano la sua
scomparsa, dando una sorta di indicazione ufficiale di quella che è stata la sua dannazione. Dal punto di
vista drammatico, la tragedia si condensa nella parte iniziale e nella parte finale. Ma, che cosa c’è nel
mezzo? Nel mezzo c’è tutta una serie di episodi e situazioni in cui Faustus, si diverte a sperimentare le
possibilità che avere al proprio servizio Mefistofile gli offre. Ma il senso vero della tragedia di Faustus è
racchiuso nella parte iniziale e nella parte finale. Il resto è una sorta di insieme di parti, di episodi, alcuni dei
quali neanche di grandissimo valore dal punto di vista poetico e drammatico, tanto che ci sono studiosi che
hanno ipotizzato che almeno le parti in cui compare la figura del clown, sia un risultato di una
collaborazione, dovuta alla necessità di dare alla tragedia una lunghezza adeguata, a consentirne la messa
in scena secondo quelli che erano gli standard di durata delle opere rappresentate in teatro. Rimane il fatto,
che la straordinaria abilità di Marlowe, va principalmente nella direzione della poesia drammatica. I suoi
personaggi, in primis, il Doctor Faustus, sono dei personaggi tragici e questo lo vedremo anche nelle altre
sue opere teatrali.

Analizziamo adesso la figura di Christopher Marlowe, chi era e come arriva a diventare lo straordinario
drammaturgo elisabettiano che è. Per quanto riguarda la sua appartenenza sociale, Marlowe è un
individuo che proviene dalla Middle class, da quella borghesia fatta da commercianti, artigiani, che non ha
niente a che vedere con l’aristocrazia. Viene però notato, quando è ancora molto giovane, da persone
importanti, e grazie all’appoggio di tali personalità importanti sul piano politico, ottiene una borsa di studio
che gli consente di entrare all’Università di Cambridge. Dunque, Marlowe sarà a tutti gli effetti uno degli
“University wits”, degli ingegni universitari, cioè un gruppo di autori del periodo elisabettiano che fruiscono
di una istruzione di altissimo livello. Marlowe, all’interno dell’università di Cambridge, si distinguerà, da
una parte per il suo straordinario ingegno, per la sua abilità di scrittura dei versi, ma si distinguerà anche
per una condotta non propriamente osservante delle regole. I suoi atteggiamenti, la sua difficoltà ad
osservare le regole, senza contare certi comportamenti decisamente contrari a quella che era la morale del
tempo, lo metteranno ripetutamente in difficoltà. Ci saranno delle accuse che gli vengono rivolte, già nel
periodo universitario, accuse legate anche all’omosessualità, ma specie legate all’ateismo. Ciò anche a
seguito di uno scritto di Marlowe, uscito anonimo, ma che comunque ha una certa circolazione. In ogni
caso, la sua incapacità di seguire le regole e di essere a tutti gli effetti lo studente inquadrato nel sistema
universitario dell’epoca, fa sì che persino la sua possibilità di ottenere il titolo di studio, nonostante la sua
genialità, venga messa in pericolo, in quanto viene espulso dalle autorità accademiche. Verrà però
reintegrato all’università ed otterrà alla fine il titolo di studio, ancora una volta mediante l’intercessione di
potenti personalità politiche, direttamente legate alla regina Elisabetta.
Ma come mai queste intercessioni di protezioni che vengono dall’alto, dai massimi livelli della vita politica
dell’epoca? Perché Marlowe, era stato, sembrerebbe fin da quando era stato adocchiato per il suo ingegno
e premiato con una borsa di studio, adocchiato come potenziale membro dell’Intelligence dell’epoca. Si
pensa che egli abbia lavorato come membro dell’Intelligence, dei servizi segreti della corona e che abbia

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operato come spia o anche come agente provocatore. Tra l’altro, quando rischia di non potersi laureare, si
era allontanato dall’università di Cambridge, sembrerebbe che si fosse recato nei Paesi Bassi, proprio per
mettere in atto una missione segreta per conto dell’Intelligence reale.
In ogni caso, quello che è certo, è che con Marlowe, ci troviamo difronte ad un individuo dall’ingegno
straordinario, un individuo che aveva davvero nelle sue corde la capacità di scrivere grande poesia tragica,
ma che nella sua vita è assolutamente al di fuori di quelle che sono le regole. Era di temperamento violento
e litigioso, si trovava spesso e volentieri in situazioni problematiche ed anche la sua morte, sarà una morte
provocata quasi certamente da certe sue attività non ufficialmente riconosciute. Marlowe infatti muore a
soli 29 anni, egli era infatti nato nel febbraio del 64 o, secondo alcune ipotesi alla fine del 63. L’ipotesi che
sia nato alla fine del 64 sembrerebbe essere la più probabile perché sono stati trovati documenti relativi al
suo battesimo nel febbraio del 64. Egli muore in quella che viene considerata la conseguenza di una lite di
taverna, ma che probabilmente era ben altro. Nelle sue operazioni di spionaggio, controspionaggio,
diciamo che Marlowe, molto probabilmente, aveva finito col rendere sì grandi servigi alla corona, ma nello
stesso tempo anche col creare fastidio. Pertanto, sicuramente si era procurato tutta una serie di nemici.
Quello che succede è che, in una rissa di taverna, scoppiata presumibilmente per futili motivi, Marlowe e il
suo avversario, si colpiscono a vicenda, Marlowe viene ferito con un’arma da taglio in un occhio, la ferita si
infetta ed il giorno dopo, a seguito di questa infezione, Marlowe morirà. Secondo una ricostruzione più
recente, non si tratterebbe di una rissa di taverna scoppiata tra un Marlowe ubriaco e un suo antagonista
altrettanto ubriaco, ma si tratterebbe di un’operazione messa in atto volutamente per liberarsi di un
personaggio che era stato utile, ma che a questo punto, per varie ragioni, era diventato scomodo. Dunque,
potrebbe essersi trattata di un’operazione di tipo politico proprio per liberarsi di Marlowe. Marlowe tra
l’altro, aveva avuto problemi con la legge ripetutamente nel corso della sua vita, ma ne era sempre uscito
bene grazie alle protezioni che aveva ricevuto da personaggi potenti. Poco tempo prima di questa rissa che
determinerà la sua morte, Marlowe, era stato arrestato perché accusato di atti contrari alla religione e alla
morale.
Analizziamo però la produzione artistica di Marlowe: la vena artistica di Marlowe, lo portava
essenzialmente nella direzione della grande poesia tragica. Marlowe è soprattutto un poeta tragico. Però, la
produzione per cui Marlowe è particolarmente famoso, non è la sua produzione poetica, quanto la sua
produzione teatrale. Non è un caso che a proposito di Marlowe, siano molti gli studiosi che parlano di un
grande poeta tragico prestato al teatro, perché la sua vena era essenzialmente poetica, ma lui scrive per il
teatro e come drammaturgo soprattutto diventò noto e continua ad essere noto tutt’ora e la sua scrittura
per il teatro si deve a motivazioni contingenti. Scrivere versi, dunque svolgere l’attività di un poeta, da un
punto di vista pratico, non era produttivo di guadagni, incassi rilevanti e immediati. Marlowe proprio per il
suo stile di vita era costantemente bisognoso di denaro; scrivere per il teatro, aveva invece questo
vantaggio: c’era la possibilità di ottenere, in cambio della propria opera, del denaro direttamente o dagli
impresari delle singole compagnie teatrali, oppure dai responsabili dei teatri dove le varie opere si
andavano a rappresentare. Quindi sembrerebbero stati dei motivi in qualche modo contingenti, che
spingono Marlowe a dedicare il suo genio all’attività teatrale. È pertanto in questo ambito, che lui
effettivamente introduce degli elementi straordinari di novità. Tra questi, fondamentalmente la creazione
di personaggi protagonisti che sono in primo luogo degli individui, individui straordinari, in cui l’uomo
medio fa fatica a riconoscersi, perché si tratta sempre di individui che sono mossi, nelle loro azioni, da
quella che è una passione dominante che governa per intero le loro vite e che ne determina il destino.
Occorre insistere sul fatto che sono degli individui, in quanto la grande tradizione del teatro medioevale
laico aveva trovato il suo coronamento nella produzione dei Morality plays, delle moralità; ma queste
ultime avevano come interpreti secondari, ma anche come personaggi protagonisti, delle figure allegoriche.
Nel caso di Marlowe, in particolare con “Tamburlaine The Great”, “The Jew of Malta”, e in minoranza con

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“The tragicall History of Doctor Faustus”, mette in primo piano un individuo straordinario, che magari può
rappresentare anche un qualche vizio, ma rimane comunque un individuo mosso da una passione
straordinaria, quella che Freud avrebbe poi definito libido, cioè un desiderio smodato di qualche cosa. Nel
caso di “Tamburlaine The Great”, la libido che lo muove è il desiderio di conquista; Tamburlaine è il grande
Tamerlano, è il conquistatore, colui il quale, da semplice pastore, arriva ad essere a capo di un impero che
ha un’estensione enorme. Nel caso di “The Jew of Malta”, l’ebreo Barabba, è mosso da quello che è una
libido di oro e di ricchezze; è questo desiderio smodato che determina le sue azioni: per lui tutto, comprese
le persone, hanno un valore soltanto nella misura in cui possono accrescere la sua ricchezza. Nel caso di
“Faustus”, abbiamo visto che la sua libido è un desiderio smodato di conoscenza, tanto smodato che deve
superare quelli che sono i limiti imposti da Dio alla possibilità di conoscenza dell’uomo.
Si passa dunque in maniera effettiva da quella che è la visione TEOCENTRICA dell’universo, che era stata
caratteristica della produzione del Medioevo, ad una visione ANTROPOCENTRICA, al cui centro
dell’attenzione dell’artista c’è l’uomo, con i suoi bisogni e le sue esigenze, piuttosto che Dio. Tra le varie
opere di Marlowe, tra quelle che ne determinano un successo immediato, vi sono appunto “Tamburlaine
The Great”, la prima ad essere rappresentata, “The Jew of malta” ed il capolavoro assoluto “The tragicall
history of Doctor Faustus”.
Come detto precedentemente nelle scorse lezioni, Marlowe è a tutti gli effetti, per quanto riguarda lo
sviluppo del teatro inglese, anche una sorta di ponte, di collegamento tra quella che è la tradizione tardo-
medievale dei Morality Plays e la nuova tradizione del teatro elisabettiano, che vedrà come suo massimo
rappresentante William Shakespeare. Ponte dunque, significa che Marlowe nel suo teatro, si proietta verso
un modo nuovo di concepire l’uomo ma nello stesso tempo si aggancia a quella che è una tradizione
precedente; nello specifico la tradizione dei Morality Plays la troviamo presente anche nelle opere di
Marlowe. Se pensiamo a “The tragicall history of doctor Faustus”, abbiamo le figure dell’angelo buono e
dell’angelo cattivo, la figura dell’old man, il vecchio, che sono chiaramente delle figure recuperate dalla
tradizione dei Morality plays o ancora, se vogliamo, il senso stesso del peccato, che si riaggancia a quella
che era l’importanza della religione e della osservanza della legge divina, che aveva caratterizzato le
moralità medievali.

Analizzando il resto della produzione di Marlowe, essendo un “university wit”, aveva compiuto degli studi
che comprendevano lo studio dei classici greci e latini. Ecco allora che una parte della sua produzione, non
la più importante, comprende delle traduzioni. In particolare, egli traduce gli “amores” di Ovidio, così come
passi della “Pharsalia” di Lucano. Comincia anche la sua attività nel mondo del teatro, con un’opera minore,
che spesso e volentieri non viene citata più di tanto, ma che segna quello che sembra essere stati l’ingresso
ufficiale di Marlowe nel mondo del teatro. Si tratta di “Dido, Queen of Carthage”, Didone, regina di
Cartagine, che è sicuramente un’opera minore, non scritta soltanto da Marlowe, ma scritta in
collaborazione con altri drammaturghi dell’epoca.
Abbiamo anche dei versi, sparsi, ma che all’epoca avevano una qualche circolazione. Tra le opere nate
proprio come specificatamente poetiche, quella a cui Marlowe, sembra avere dedicato la sua maggiore
attenzione, è un poemetto molto elegante, per quanto riguarda il linguaggio, che si intitola “Hero and
Leander”. Anche quest’opera, in versi, fu probabilmente l’unica che Marlowe tentò di pubblicare, e che
forse pubblicò in parte; essa è fondata su un mito classico: Ero e Leandro erano due innamorati; lei era una
sacerdotessa di Afrodite, mentre Leandro era un nobile personaggio. I due vivevano sulle sponde opposte
dell’Ellesponto ed ogni notte per raggiungere la sua amata, Leandro attraversava a nuoto l’Ellesponto,
guidato da una lucerna che tutte le noti Ero accendeva, perché facesse da guida. Se non che una notte la
lucerna si spegne e Leandro troverà una tragica morte nelle acque del mare. Ero, ritroverà sulla spiaggia il
cadavere dopo qualche giorno e presa dalla disperazione si ucciderà anche lei, buttandosi nelle acque del

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mare. Questa è la storia tragica che faceva parte del mito classico e che era stata già celebrata da altri
poeti, tra i quali Ovidio. Marlowe, riprende tale storia tragica, ma in aggiunta a quella che è la straordinaria
ricchezza ed eleganza del linguaggio, inserisce una serie di elementi che vanno nella direzione di una
celebrazione dell’amore e del desiderio (anche fisico), che non è soltanto quello tra uomo e donna, ma che
ha anche un alto tasso di omoeroticità. Leandro, infatti, viene rappresentato in maniera così sublime e in un
certo qual modo effeminata, da essere spesso e volentieri scambiato per una fanciulla; non solo, ci sono i
versi in cui Marlowe ci mostra Leandro che attraversa lo stretto ed è in qualche modo desiderato ed
accarezzato dallo stesso dio del mare. Quindi non è un caso che in questo poemetto, siano state
rintracciate tracce significative di quella che quasi certamente era la omosessualità di Marlowe.
Abbiamo anche, tra le grandi tragedie di Marlowe, oltre a Tamerlano il Grande, che viene presentato come
il conquistatore che si lascia travolgere dalla brama di conquista fino a quella che sarà la rovina, “The Jew of
Malta”, in cui il protagonista è l’ebreo Barabba, che è una sorta di rappresentazione basata anche su una
tradizione, ormai consolidata, della figura dell’ebreo come contrario e nemico del cristianesimo; oltretutto
avido fino all’inverosimile e proprio per questo servo a tutti gli effetti del demonio. Nel dramma di
Marlowe, che fu il primo dramma assolutamente attribuito a lui, e che ebbe un notevole successo quando
fu messo in scena, l’ebreo Barabba, è un po’ la quinta essenza del male, è una sorta di compendio di quelli
che erano gli stereotipi negativi, pregiudizi nei confronti dell’ebreo all’epoca ed in molte delle
rappresentazioni del tempo, Barabba, non a caso, veniva rappresentato da un attore che indossava una
parrucca rossa, ad indicare il segno del diavolo. Barabba, con le sue trame volte a diventare sempre più
ricco, ad accaparrarsi sempre più oro, a scapito dei cristiani, finirà col determinare la propria rovina, perché
la morte orribile che lui aveva progettato per i suoi nemici, sarà la morte che toccherà a lui.
L’altro grande dramma, in aggiunta a “the tragicall history of Doctor Faustus” è quella di “Edward II”, che in
realtà è costituito da due drammi (Part 1 e Part 2), in cui il protagonista è un personaggio tratto dalla storia
d’Inghilterra, e poi rivisitato da Marlowe. Il protagonista si caratterizza sempre come individuo mosso dai
suoi desideri e dalle sue pulsioni, ma anche dall’amore, di tipo omosessuale. È dunque un’opera in cui la
omosessualità diventa parte integrante della rappresentazione.
La morte tragica di Marlowe pone fine a quella che è la carriera, una produzione, che già era stata
particolarmente significativa e che lo sarebbe stata maggiormente se Marlowe avesse continuato a vivere e
a scrivere, sia nell’ambito della poesia sia nell’ambito del teatro.
Si tenga presente, comunque, che Marlowe è a tutti gli effetti il più grande poeta elisabettiano pre-
shakespeariano e che gli anni in cui Marlowe è attivo nel teatro, sono gli anni in cui Shakespeare arriva a
Londra e comincia a muovere i primi passi all’interno di quel mondo del teatro che lo vedrà trionfare.
Tuttavia, Marlowe muore a 29 anni, mentre Shakespeare, proseguirà la sua carriera a scrivere per il teatro,
ma non soltanto, ancora per molti anni. Ma, l’ispirazione che a Shakespeare proviene da Marlowe, non va
assolutamente sottovalutata.

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Analizziamo adesso, alcune delle opere, in particolare dei sonetti, di Philip Sidney, facenti parte della
raccolta che si intitola “Astrophel and Stella”, la quale si configura a tutti gli effetti come un canzoniere, cioè
è una raccolta strutturata in qualche modo. Astrophel è il personaggio maschile che in realtà è lo stesso
Philip Sidney; Astrophel infatti è un nome che deriva dal greco e che sta a significare colui il quale ama
Stella. Nello stesso tempo Astrophel contiene il nome del poeta stesso perché Phel rimanda a Philip. Stella
invece è il nome della donna, un nome di derivazione latina. Già il titolo, indica quella che è una
impossibilità di una unione dei due personaggi.

In martial sports I had my cunning tried, Io avevo messo alla prova la mia astuzia (abilità)
And yet to break more staves did me address: negli sport marziali (la giostra cavalleresca) e
While with the people’s shouts, I must confess, tuttavia mi indirizzavo (apprestavo) a spezzare
Youth, luck, and praise, even filled my veins with pride; altre lance: mentre, con le grida della gente, lo
When Cupid having me his slave descried, devo confessare, la giovinezza, la fortuna, e la
In Mars’s livery, prancing in the press: lode continuavano a riempirmi di orgoglio le vene;
“What now, Sir Fool,” said he; “I would no less. quando Cupido avendomi decretato come suo
Look here, I say.” I looked and Stella spied, schiavo, avanzando tra la folla, nella livrea di
Who hard by made a window send forth light. Marte (vestito da guerriero): “e che ora ser
My heart then quaked, then dazzled were mine eyes; Sciocco”, dice “io non avrei fatto da meno”
One hand forgot to rule, th’other to fight; “guarda qui, dico”. Io guardai e scorsi Stella, la
Nor trumpet’s sound I heard, nor friendly cries; quale vicinissima faceva emanare luce da una
My foe came on, and beat the air for me, finestra. Il mio cuore tremò, poi i miei occhi
Till that her blush taught me my shame to see. furono abbagliati; una mano si dimenticò di
governare (il cavallo), l’altra si dimenticò di
combattere; io ne sentii il suono della tromba,
neppure le grida amichevoli; il mio nemico
avanzò, e batté l’aria per me (l’avversario si trova
a combattere da solo perché lui è abbagliato dagli
occhi di Stella), fino a quando il rossore di lei mi
insegnò a vedere la mia vergogna.

Per poter comprendere il sonetto, dobbiamo tenere presente il contesto. È un contesto in qualche modo
ancora che riprende la concezione dell’amore cortese-cavalleresca anche se arricchita da elementi ulteriori.
Il protagonista si presenta come colui il quale sta per ottenere la vittoria, se non che, gli obblighi della sua
donna che lo conducono a sentirsi smarrito durante questo combattimento. D’altra parte, però la vittoria in
un contesto cortese cavalleresco per un cavaliere che combatte in nome e per amore di una donna, porta
onore alla donna stessa. Ed il fatto che lui sia lì imbambolato e di fronte al nemico non reagisca proprio, fa
sì che Stella che dalla finestra guarda tutto, arrossisce di vergogna. Ecco allora che con il rossore di lei, lui
comprende la vergogna e da quel momento reagisce e riprende a combattere, per vincere in nome della

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donna che ama. Con delle immagini molto vive abbiamo una ripresa di una serie di elementi che
appartengono alla tradizione dell’amore cortese, ma nello stesso tempo questi elementi vengono
concretizzati. L’intera raccolta di Astrophile e Stella è proprio costruita su questa ripresa di elementi che
appartengono alla tradizione della poesia amorosa di derivazione medievale. Contemporaneamente però,
questa ripresa di tali elementi si arricchisce di una concezione della donna che è molto più reale e concreta
di quanto non appartenesse alla tradizione originaria. Non solo, ma l’intera sequenza di sonetti, si compone
di 108 sonetti e 11 songs . L’intera sequenza, presenta al pubblico una vicenda amorosa in cui la donna
rimane sempre l’oggetto del desiderio, ma è una donna che spesso e volentieri si sottrae al desiderio del
poeta, anche se rimane sempre presente come fonte di ispirazione. Ad ispirare questo canzoniere, fu la
vicenda reale dell’amore di Philips Sidney per una giovane aristocratica. Anche Sidney era un aristocratico
ma lei apparteneva ad una famiglia che vantava una posizione decisamente più alta di quella della famiglia
di Sidney; non solo, ma per la giovane, la famiglia aveva scelto un marito, un altro aristocratico di altissimo
lignaggio e decisamente molto più ricco di Sidney. E Stella, anche se in un primo momento sembra
rispondere alle sollecitazioni amorose del poeta, comunque, sceglie di rispettare la volontà della famiglia e
di sposare questo ricco e potente nobile personaggio che compare nella raccolta.

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LEZIONE 11 28/10/2020
Nella lezione precedente, avevamo analizzato uno, dei sonetti che compono la raccolta di “Astrophel and
Stella”, il cui autore è Philip Sidney. Analizziamo il secondo sonetto presentato dalla raccolta:

When I was forced from Stella, ever dear, Quando fui obbligato da Stella, sempre cara,
Stella, food of my thoughts, heart of my heart, Stella,nutrimento dei pensieri, cuore del mio
Stella, whose eyes make all my tempests clear, cuore, Stella, i cui occhi schiariscono tutte le mie
By iron laws of duty to depart; tempeste, a separarmi dalle leggi del dovere di
Alas, I found that she with me did smart, Stella (quelle che le impongono di eseguire la
I saw that tears did in her eyes appear; volontà della sua famiglia, che non vedeva di buon
I saw that sighs her sweetest lips did part, occhio il rapporto con Phililp Sidney); ahimè, io mi
And her sad words my saddened sense did hear. resi conto che lei con me si addolorava, io vidi che
For me, I wept, to see pearls scattered so; delle lacrime comparivano nei suoi occhi, vidi che
I sighed her sighs, and wailed for her woe; dei sospiri schiudevano le sue labbra dolcissime, e
Yet swam in joy, such love in her was seen. le sue parole tristi il mio udito addolorato sentì.
Thus, while th’effect most bitter was to me, Quanto a me, io piansi, nel vedere delle perle
And nothing than the cause more sweet could be, (lacrime) sparse in questo modo; io sospirai i suoi
I had been vexed, if vexed I had not been. sospiri, e mi addolorai per il suo dolore; e tuttavia
nuotavo nella gioia, tale era l’amore che si vedeva
in lei. (condivide il dolore di lei, ma nello stesso
tempo ciò è la dimostrazione che lo ama).
Così,mentre l’effetto era per me estremamente
amaro, e null’altro che quella causa avrebbe
potuto essere più dolce, io sarei stato preoccupato
se non fossi stato addolorato.

Sembra quasi un pasticcio di parole, ma in realtà, nella logica dell’innamorato, ha un suo filo conduttore
ben preciso: il sentimento d’amore, dalle lacrime di lei, dal dolore che lei prova per questa separazione, il
poeta ha la dimostrazione che è un sentimento d’amore condiviso. Ecco allora che vederla addolorata per
la partenza forzata, diventa un dolore necessario, proprio perché il dolore di lei gli dà la prova del fatto che
lo ami e quindi se lei fosse stata non addolorata, indifferente per questa loro separazione, ecco che allora
lui sarebbe stato addolorato.
È una fraseologia che non è certamente una novità assoluta adotatta da Sidney, perché appartiene un po’ a
quella che è la tradizione,una tradizione sonettistica consolidata. Nello stesso tempo però, il riferimento è
davvero ad una donna in carne d’ossa, una donna che piange, che si addolora per questa separazione. La
capacità di Sidney di unire quello che è un repertorio di immagini, di frasi fatte, di espressioni che sono un
cliché ricorrente nella tradizione poetica amorosa ed in particolare sonettistica, alla percezione di una
donna che è in carne d’ossa, è un po’ quanto caratterizza la raccolta di Astrophel and Stella.

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Andiamo ad analizzare la figura di Philip Sidney: egli è un altro di quei membri della corte elisabettiana che
produce cultura poesia e che muore giovane, all’età di 32 anni. Nonostante muoia giovane, egli fa in tempo
a lasciare una serie di opere significative che non verranno pubblicate da lui in vita, anche se queste opere
hanno comunque una certa circolazione nel contesto degli aristocratici della corte, ma verranno pubblicate
soltanto dopo la sua morte, come atto d’omaggio, di riconoscimento della sua capacità poetica, ma anche
del suo valore come gentil’uomo e verranno pubblicate dalla sorella e da un gruppo di amici, che proprio
arrivano in un certo senso a creare un culto della memoria di Philip Sidney. Questo culto ce lo presenta
come il perfetto gentil’uomo della corte elisabettiana: è bello, è istruito, ha una concezione della cultura
come non soltanto conoscenza ma come qualcosa che deve contribuire a formare l’individuo e a renderlo
adatto alla vita sociale e politica ed oltretutto è anche un grande sperimentatore per quanto riguarda la
produzione poetica. Era inoltre stato un abile diplomatico, perché era stato mandato dalla regina in diverse
missioni che aveva risolto più che onorevolmente e per giunta aveva svolto il ruolo del combattente di colui
il quale, alla sua regina, che è l’incarnazione stessa della nazione, dedica la sua stessa vita. Ciò in quanto
Philip Sidney morirà nelle Fiandre, durante una campagna che rientra nella lotta che la regina Elisabetta
aveva intrapreso contro la Spagna che in quel periodo, tramite Filippo II era una avversaria formidabile per
l’Inghilterra. Dunque davvero ser Philip Sidney sembra incarnare e riassumere in sé un po’ tutte le virtù del
perfetto gentil’uomo dell’aristocratico, che non è soltanto un uomo di cultura di pensiero ma è anche un
uomo di sentimenti e di azione.
Per quel che riguarda le opere di Sidney, a causa della sua morte prematura, non sono tantissime; tuttavia,
tra queste opere, figurano alcune decisamente significative che vale la pena di ricordare. Intanto la
Astrophel and Stella, questa raccolta di poesie che fa riferimento ad una storia d’amore che non è destinata
ad avere una felice conclusione. Di questo il poeta è da subito consapevole. Vi è inoltre “l’Arcadia”, una
sorta di romanzo in prosa in cui vicende, situazioni, elementi che sono caratteristici dell’Inghilterra del suo
tempo e della corte, vengono presentati e trasposti in quello che è un ambiente pastorale. Dunque
l’Arcadia, di cui vi sono due versioni, la Old Arcadia e la New Arcadia, è un’opera pastorale in apparenza, ma
in realtà si tarta di un’opera che unisce tutta una serie di elementi e che fa specifico riferimento a quella
che è la realtà contemporanea, con particolare riferimento alla corte di Elisabetta.
Tra le altre opere si colloca la “Difense of Poesy”, una difesa della poesia, che è un’analisi sistematica delle
caratteristiche e delle funzioni della poesia che per l’aristocratico Sidney è a tutti gli effetti la più nobile
delle arti e deve avere una funzione che è formativa, contribuendo a formare il perfetto gentil’uomo, anche
sul piano morale. Dunque, la poesia ha anche una funzione educativa importante. La sua defense of poesy
parte da un’analisi della grande tradizione classica, per arrivare poi a quella contemporanea. È in un certo
senso il primo saggio sitematico in lingua inglese, in cui la tradizione della poesia viene presentata,
analizzata in quelli che sono i suoi pregi ed in qualche caso i suoi limiti. Quindi pur nella sua relativa brevità,
questo saggio in prosa ha una sua specifica importanza per meglio comprendere le caratteristiche della
poesia del Rinascimento Inglese, ma anche per meglio comprendere l’atteggiamento dell’uomo colto nei
confronti delle arti in generale e della poesia in particolare in quello specifico periodo.

Come detto precedenemente, Philips Sidney morirà in guerra a soli 32 anni nelle Fiandre, durante una
campagna che rientra nella lotta che la regina Elisabetta aveva intrapreso contro la Spagna che in quel
periodo. Ma quali sono le ragioni di questa ostilità tra la regina Elisabetta e Filippo II di Spagna? Le ragioni
erano molteplici, ma soprattutto, quella di Elisabetta contro Filippo, è un’ostilità che si traduce in una
guerra che andrà avanti anche per parecchio tempo e che è una lotta più difensiva, che offensiva. È vero
che le truppe di Elisabetta combattono nelle Fiandre e si oppongono alle truppe spagnole in quel territorio,
però è altrettanto vero che Elisabetta I comprendeva perfettamente l’assoluta necessità per lei come

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persona e come regina e per l’Inghilterra come nazione, di opporsi alle mire espansionistiche di Filippo II.
Filippo II era stato il marito di Maria, la sorella di Elisabetta, che aveva sposato Filippo di Spagna, figlio
dell’imperatore di Spagna, e tramite questo matrimonio, messo in atto tra la cattolicissima Maria e Filippo,
che si proclamava difensore della fede cattolica, da un lato si era assicurata un marito e una protezione
potente per quanto riguarda l’ambito religioso; d’altra parte però, per la Spagna questo matrimonio aveva
avanzato delle specifiche pretese di controllo sull’Inghilterra.Nel momento in cui Maria la cattolica, Bloody
Mary, muore e al trono sale Elisabetta I d’Inghilterra, la quale non è cattolica ma anzi si proclama assoluta
sostenitrice nell’effettuare lo scisma dalla chiesa di Roma e dal papa viene anche scomunicato e comunque
si trova a doversi difendere da una parte dai tentativi di Mary Stuart di mettere le mani sul suo regno,
Filippo II non si rassegnò a mollare la presa sui territori dell’Inghilterra e aveva ripetutamente fatto una
proposta di matrimonio ad Elisabetta. Ella, abilissima anche come donna politica, era riuscita a tenere a
bada Filippo II rimandando una risposta precisa al re di Spagna, il quale però a un certo punto, resosi conto
che non sarebbe riuscito ad impadronirsi dell’Inghilterra tramite appunto il matrimonio, decide che era
arrivato il momento di attuare una strategia. Ecco allora che quella che era una lotta tra il re di Spagna ed
Elisabetta si era svolta a livello diplomatico, diventa a tutti gli effetti una guerra, che si combatterà senza
esclusione di mezzi. È una guerra che si combatte non tanto sul suolo inglese, perché le truppe spagnole
non arrivano a sbarcare in massa sul territorio inglese, però si svolge in altri territori europei, come nel caso
specifico che vede coinvolto Philip Sidney nel territorio fiammingo. Ma vi sono altre modalità con cui la
regina Elisabetta tenta di contrastare le mire di Filippo e ci riesce. Filippo ad un certo punto, resosi conto
che non può vincerla con la diplomazia oppure cercando di isolare l’Inghilterra sul piano diplomatico, mette
insieme quella che è una flotta poderosa, composta in particolare da navi armate, la cosiddetta Invincibile
Armata. Essa dovrà trasportare le truppe sul suolo inglese per sconfiggere una volta per tutte questa regina
che gli si oppone e non accetta di chinare la testa davanti al suo potere.
Il risultato dell’impresa dell’Invincibile Armata però, sarà tutt’altro che favorevole per Filippo II, per varie
ragioni. Tra queste, c’entra anche il destino, in quanto si scatena una tempesta che quando la flotta non è
ormai troppo lontana dalle coste inglesi, che fa sì che i pesanti galeoni spagnoli che hanno difficoltà a
muoversi in quelle acque agitate, in parte affondino ed in parte sono costretti a tornare indietro. I soldati
spagnoli che riescono a sbarcare sul territorio inglese, verranno sconfitti e massacrati dalle truppe inglesi,
che la regina non soltanto è riuscita a riunire e a mandare sulle coste per prevenire lo sbarco, ma
addirittura va personalmente ad incitare le truppe, vestita con un’armatura, come se lei stessa fosse la
guerriera ed ecco che effettivamente c’è una vittoria clamorosa che metterà fine a quelle che sono le
ambizioni di conquista del territorio inglese da parte di Filippo II sul piano militare.
Non si tratta soltanto di un fatto storico, ma la regina Elisabetta come ispiratrice dell’azione ed anche come
condottiero, trova in qualche modo riscontro in quella che diventerà la celebrazione della regina stessa da
parte dei poeti dell’epoca, ed in particolare da parte di Spencer. Non solo Spencer, ma anche Sidney celebra
ripetutamente la figura della regina Elisabetta, che diventa a tutti gli effetti il simbolo della nazione.
Tra i consiglieri della regina Elisabetta, ci sarà Sir Walter Raleigh, che è un altro personaggio assolutamente
straordinario della corte di Elisabetta. Egli è un uomo di profonda cultura, autore di poesie che sono in
parte anche in qualche modo riferite ad Elisabetta, ma Sir Walter Raleigh è anche colui il quale ha ben
chiara la necessità che l’Inghilterra, espanda la propria influenza al di fuori dei confini nazionali. È infatti nel
periodo elisabettiano che l’Inghilterra darà il via a quella politica di controllo di territori esterni alla nazione,
che poi nell’800, porterà l’Inghilterra stessa ad essere la più grande potenza coloniale ed imperiale del
mondo.
Un altro aspetto che dimostra la capacità di Elisabetta di muoversi in un mondo particolarmente complesso
e difficile è il rapporto che lei ha con Sir Francis Drake. Egli era il corsaro per eccellenza al servizio della
regina, forse un piccolo aristocratico, un abilissimo navigante e combattente. Egli conquista l’attenzione

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della regina e da quest’ultima riceve sottobanco di minacciare e di depredare in tutti i modi possibili le navi
spagnole che ritornavano dal nuovo mondo cariche di ricchezze. Ecco allora che Francis Drake, che poi verrà
chiamato con il titolo di Sir Francis Drake, su incarico della regina, assalta queste navi spagnole ottenendo
un duplice risultato: da un lato ovviamente riduce quella che è la potenza di fuoco della potenza spagnola,
dall’altro ricava dalle sue imprese una quantità notevole di merci preziose, di oro, di denaro. Queste
ricchezze sottratte alla Spagna diventano lo strumento tramite il quale la regina Elisabetta finanzia le tasche
dello stato e contemporaneamente finanzia anche almeno in parte la costruzione di quella flotta inglese
che poi renderà a tutti gli effetti l’Inghilterra una potenza navale.
Dunque, l’intelligenza strategica, la capacità di avere un progetto ed un piano anche per il futuro della
nazione, si dimostra anche in questo suo favorire le imprese di Francis Drake, che è un corsaro, non un
pirata. Si attenzioni che i pirati assaltano, affondano, depredano, uccidono in conto proprio, per il proprio
interesse, mentre il corsaro, le sue imprese non le compie a beneficio proprio ma a beneficio della corona,
per conto della sua regina. Evidentemente non è una cosa che poteva essere ufficialmente dichiarata, ma
un personaggio come Sir Francis Drake, oltretutto un uomo colto e raffinato, le compie avendo una
patente, un permesso, autorizzazione della regina.
Non è un caso che sia la figura di Elisabetta, centrale, anche per la vita culturale del tempo: Elisabetta entra
a tutti gli effetti anche nella poesia del tempo, nella produzione letteraria proprio perché diventa a tutti gli
effetti il simbolo della nazione. Ciò lo vediamo nell’attenzione che nella costruzione della sua figura e del
suo mito dedicano non soltanto i personaggi che a corte le sono vicini, i suoi consiglieri, ma anche i letterati
dell’epoca. Lo fa in parte Sidney, lo fanno altri autori, ma quello che è il massimo della celebrazione di
Elisabetta come simbolo e madre della nazione, lo troveremo in particolare nell’opera di Edmund Spenser e
soprattutto nel suo “the fairy queen”, la regina delle fate.

A differenza degli altri poeti del Rinascimento inglese, Edmund Spenser, non era un aristocratico. Egli infatti
proveniva da una famiglia di estrazione sociale tutto sommato medio-bassa, ma per tutta la sua vita lottò
per provarsi ad entrare in quello che era il cerchio magico dell corte. Tentò in vari modi, non ci riuscì mai
pienamente, però, grazie al suo ingegno, riuscì a procurarsi una serie di posizioni anche abbastanza
significative come segretario di personaggi importanti. Mentre svolgeva queste funzioni, scriveva, versi in
particolare; egli scrisse parecchie opere poetiche e tra queste le più importanti, quelle che ebbero una
circolazione che contribuirono alla sua fama furono in un primo momento “The Shepheards Calendar”, il
calendario dei pastori, una raccolta di ecloghe, una composizione d’ambito pastorale di derivazione
classica, in particolare latina. Il suo “Shepheards Calendar” era una raccolta di 12 ecloghe, una per ciascuno
dei mesi dell’anno, in cui attraverso le vicende che riguardavano pastori e pastorelle, principi e principesse
che si trasferiscono in un contesto bucolico, in realtà Spenser, faceva anche riferimento a quella che era la
situazione politica del suo tempo. Le ecloghe, sono interessanti anche perché diventa una sorta di
“palestra”, nel senso che è in quest’opera che Spenser sperimenta una varietà di metri. Egli fu un
grandissimo sperimentatore per quanto riguarda la poetica ed a lui dobbiamo la cosiddetta “spenserian
stanza” o strofa spenseriana che si compone di nove versi (otto versi chiusi da un verso alessandrino, un
verso più lungo degli altri perché si compone di undici sillabe); essa ha una particolare musicalità proprio
per il gioco di rime che l’autore riesce ad inserire. È un tipo di strofa che davvero, è allo stesso tempo varia
e musicale. E Spenser, dal punto di vista della sperimentazione del verso, fu davvero straordinariamente
abile. Lo “Shepheards Calendar” è appunto un’opera in cui questa sperimentazione si comincia a vedere.
Egli inoltre scriverà la raccolta degli Amoretti, una raccolta in cui celebra quello che è il suo patto privato,
l’evento più importante della sua vita privata che è questo amore felice, questo matrimonio con Elizabeth
Boyle. Scriverà anche “Epithalamion”, una composizione anch’essa concentrata sul matrimonio, non il suo
matrimonio ma quello di un personaggio importante della corte. C’è dunque da parte di Spenser

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un’attenzione particolare verso il matrimonio felice, soddisfatto, un elemento nuovo rispetto alla tradizione
sonettistica precedente. Inoltre egli scriverà uno Hymn che è un inno in onore dell’amore e della bellezza
che riprende una serie di temi ed elementi tipici della tradizione petrarchesca.
Dobbiamo inoltre aggiungere un’altra opera “Colin Clouts Come home again” cioè Colin Clouts ritorna a
casa, che ha a che fare con l’Irlanda. Tra gli incarichi che gli vennero assegnati nel corso della vita, si ritrovò
ad essere anche segretario personale plenipotenziario dell’Inghilterra in Irlanda. In questa opera, il poeta
che si presenta con Colin Clouts, che era un pastore che era stato un personaggio di opere precedenti,
celebra quello che è il suo distacco (definitivo) dalla corte reale nel momento in cui ritorna in Irlanda. La
permanenza in Irlanda di Spenser in realtà non era particolarmente soddisfacente per lui; l’Irlanda era a
tutti gli effetti una colonia dell’Inghilterra e come tale veniva trattata. Spenser che aspirava ad entrare in
quelli che erano i circoli colti, raffinati della corte e che vedrà queste sue aspettative mai realizzate a pieno,
si trova catapultato in Irlanda e letteralmente si scontra con quella che è la realtà di quella terra che lui
considera a tutti gli effetti una terra barbara, popolata da individui che sono dei selvaggi ignoranti. A tal
proposito c’è anche un suo scritto, accompagnato anche da sue illustrazioni di suo pugno, che si intitola “a
view of the present State of Ireland”, una visione di quella che è la condizione attuale dell’Irlanda, da cui
emerge una rappresentazione dell’Irlanda da cui non si salva nulla. Spenser riconosce agli irlandesi, in
particolare ai capi clan rappresentazioni di individui che sembrano più vicini agli uomini delle caverne che
non ai gentil uomini raffinati, civilizzati che invece secondo Spenser erano il prodotto della corte
d’Inghilterra. Contemporaneamente però, quando Spenser ritornerà per un periodo, verso la fine della sua
vita in Inghilterra, e tornerà a frequentare la corte inglese, la vedrà diversa da come la ricordava e da qui,
dalla percezione che non soltanto qualcosa è cambiato, ma che la situazione sia ulteriolmente complicata
anche dal punto di vista politico, scaturirà poi quello scritto citato in precedenza, in cui non in maniera
esplicita, ma comunque perfettamente comprensibile, esprime le sue riserve nei confronti di come la
situazione alla corte si sia andata a modificare.
L’opera fondamentale di Spenser è però “The fairy queen”, un’opera assolutamente straordinaria, anche se
non è finita. È un’opera straordinaria per quanto riguarda la concezione, per quanto riguarda il lunguaggio,
la ricchezza della imagerie, ma anche per le intenzioni che Spenser ha nel creare quest’opera, intenzioni che
porta avanti. The fairy queen è un’opera che lui aveva concepito in 12 libri, cosa non casuale perché ciò
rimanda direttamente all’articolazione dell’Eneide. L’eneide era quel grande poema classico latino che
aveva celebrato la nascita di Roma come impero, cantando le gesta di Enea da cui Augusto si proclamava
diretto discendente. Il Virgilio dell’Eneide che canta le gesta, le imprese di Enea, l’arrivo di Enea dopo la
sconfitta di Troia, l’arrivo di Enea sulle coste del Lazio, diventa il momento iniziale di quella che sarà poi la
grande epopea nazionale legata alla fondazione di quello che sarà l’Impero romano. Dunque, Virgilio aveva
scritto l’Eneide tenendo in mente questo progetto celebrativo di Roma e del suo impero. L’intenzione di
Spenser era per certi versi analoga, cioè arrivare a celebrare la grandezza della nazione inglese del suo
tempo, andando a ricostruire il mito delle origini. Quindi la scelta di pensare The fairy queen in 12 libri,
come l’Eneide non era casuale: ciascuno dei libri a sua volta era diviso in 12 canti. Di questi 12 libri però
Spenser ne scrive prima 3 che escono ed incontrano un apprezzamento piuttosto ampio; riuscirà a scriverne
poi altri 3 per un totale di 6. Del settimo abbiamo solo piccoli stralci, gli altri non arriverà a scriverli. Il suo
progetto però comprendeva al centro di tutto Gloriana, la rappresentazione della regina Elisabetta.
Ciascuno dei libri era imperniato sulle imprese di un cavaliere, Artù ed i cavalieri impersonavano ciascuna
delle 12 virtù aristoteliche. Contemporaneamente però il poema è ricco di simboli che rimandano
direttamente il cristianesimo.
Dunque da un lato abbiamo un richiamo alla grande tradizione classica greca con le virtù aristoteliche, ma
anche il recupero di una figura mitica come quella di Artù e dei cavalieri della tavola rotonda con la loro
ricerca strettamente legata al cristianesimo. Tutto questo si arricchisce anche di quella che è la ripresa di

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temi, motivi, elementi mediati dai poemi epici cavallereschi del rinascimento italiano (Orlando furioso e in
minoranza la Gerusalemme liberata).

LEZIONE 12
30/10/2020
La nascita del teatro elisabettiano è un fenomeno assolutamente straordinario. Tra i diversi generi letterari
che erano ampiamente praticati nel periodo elisabettiano e più in generale della English Renaissance,
diciamo che il teatro è sicuramente quello che maggiormente merita di essere ricordato e che ha avuto vita
più lunga. È sicuramente un fenomeno che all’epoca ebbe grande popolarità, ma veniva considerata la
produzione teatrale, di seconda categoria rispetto alle produzioni letterarie più nobili. Cioè era
fondamentalmente la poesia il genere che veniva considerata la produzione letteraria per eccellenza.
Mentre invece, il teatro, per quanto popolare nel periodo elisabettiano, veniva considerato non una
produzione letteraria all’altezza della poesia. Questo ci aiuta a comprendere come mai autori
importantissimi in questo ambito come in primo luogo Shakespeare, ma anche tanti altri, non si
preoccuparono di pubblicare le loro opere.
Il primo teatro, inteso come “play house”, luogo che nasce appositamente per consentire la
rappresentazione di un’opera teatrale, lo abbiamo soltanto nel 1576, grazie a Burbage, un attore ed
impresario, il quale a seguito di una legislazione emanata dalla municipalità della city londinese nel 1574,
decide che è arrivato il momento di costruire un luogo apposito per la rappresentazione. Ciò perché le
rappresentazioni teatrali che si svolgevano in luoghi pubblici e che erano aperti ad un pubblico molto
composito, erano state considerate dalle autorità della city di Londra, un fenomeno assolutamente
negativo da contrastare. Prima della costruzione delle “Play houses”, edifici dedicati alla rappresentazione
teatrale, dove si svolgevano queste ultime? Nel periodo medievale, come precedentemente detto, si va
diffondendo l’abitudine di effettuare delle rappresentazioni anche nei cortili delle locande, oppure in luoghi
destinati ad un altro genere di spettacolo, come per esempio quei luoghi dove si svolgevano i
combattimenti fra animali. Non c’erano tuttavia dei luoghi deputati al teatro. Esisteva anche il fenomeno
delle rappresentazioni che si potevano svolgere all’interno delle dimore private, ma appunto, in quanto
dimore private, non erano dei luoghi aperti al pubblico.
Ma cosa determina la nascita delle Play houses, come luoghi dedicati alla rappresentazione? Il fatto che le
autorità della city di Londra proibiscono lo svolgimento di spettacoli teatrali nei luoghi che fino a quel
momento erano stati utilizzati. Le ragioni sono di due tipi: un ordine di ragioni ha a che fare con la morale.
Quello che avviene durante la recitazione è infatti un insieme di falsità perché abbiamo degli individui,
attori i quali impersonano dei personaggi, fingendo di essere qualcuno che in realtà non sono; mettono in
scena delle situazioni che sono frutto di invenzione o di rielaborazione fantastica; come se non bastasse il
teatro che si era andato sviluppando fino a quel momento, aveva finito per mettere in scena, tutta una
serie di vicende e di situazioni ad alto tasso di moralità (la ripresa del teatro senechiano, lo sviluppo del
filone del teatro della vendetta, ecc.). In ogni caso, la rappresentazione teatrale, finisce per essere vista dai
moralisti del tempo, che erano soprattutto i puritani, i quali stavano prendendo sempre più potere, come
un insieme di falsità e come conseguentemente qualcosa da cancellare, eliminare perché assolutamente
contraria alla volontà di Dio. Dunque vi sono ragioni morali legate a ragioni religiose. Vi era però un altro
ordine di motivi per cui il teatro viene osteggiato dalle autorità della city, cioè il radunarsi di tanta gente
appartenente a gruppi sociali diversi, l’assembramento di tante persone, diventava l’occasione per furti,

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per scoppi di liti, per commettere reati di vario genere compreso l’adescamento; poi ancora, secondo la
mentalità puritana che si cominciava ad affermare, il fatto che si riunissero insieme per assistere allo
spettacolo, uomini e donne, poteva dare adito a tutta una serie di situazioni che potevano diventare
esplosive.
Vi sono dunque motivi diversi per cui si sviluppa questo atteggiamento negativo da parte della autorità
della city nei confronti di tutto quello che ha a che fre con la rappresentazione. Il discorso dei teatri privati
esula da questo atteggiamento negativo, perché svolgendosi all’interno di edifici che non erano pubblici,
ma che appartenevano di solito a personaggi di rango, sfuggiva a quello che era il controllo della
municipalità, e non solo, in quanto il tipo di spettatori era ampiamente diverso. Dunque quello che si cerca
di normare e di sradicare è proprio questo svolgersi di rappresentazioni all’interno della city. Ecco allora che
quando nel 1576, viene costruito il primo teatro, “The Theatre”, viene costruito non dentro la city, ma al di
là dei limiti territoriali della city dunque al di là della possibilità di controllo delle autorità della city di
Londra. Quando poi dopo la grande fortuna che The theatre ha, altri teatri vengono costruiti, questi ultimi
saranno sempre costruiti al di fuori della city. Nell’arco di pochi anni si costruiscono parecchie plays houses
a Londra. Queste ultime erano degli edifici nati appositamente per costruire la rappresentazione teatrale;
essi sono aperti al pubblico, un pubblico di ogni classe sociale. Ad assistere ad uno spettacolo nelle play
houses elisabettiane, andavano persone che potevano appartenere alle classi sociali più diverse.
Tali edifici presentavano una pianta poligonale; nel caso del “Globe”, che è il teatro che viene costruito
dalla compagnia di Shakespeare e di cui Shakespeare diventerà ad un certo punto un co-proprietario, la
pianta è simil circolare. Dalle ricostruzioni che sono state fatte, il numero di lati che compongono il poligono
è talmente numeroso che dà praticamente l’idea che il perimetro sia costituito da un cerchio. Essi inoltre,
non avevano una copertura totale: lungo il perimetro si sviluppavano le cosiddette “galleries”. Vi erano 3
ordini di galleries l’una sopra l’altra, evidentemente coperte: la seconda dava il tetto alla prima, la terza
copriva la seconda e la terza aveva un tetto. Mentre invece, la parte centrale delle play houses rimaneva
scoperta, priva di un tetto. Ciò implicava che la possibilità di mettere in scena gli spettacoli, era anche legata
a quelle che erano le condizioni atmosferiche. Una parte del perimetro coperta, era costituito dallo
“stage””, il palcoscenico vero e proprio, parte del luogo dove si svolgeva la recitazione in quanto
solitamente lo stage si prolungava nel “pit”, tramite la “platform”, che era a tutti gli effetti una piattaforma
che prolungava lo spazio della rappresentazione, rialzata rispetto al fondo del pit; per cui, quello che
succedeva durante la rappresentazione, gli spettatori che stavno in piedi nel pit circondavano la platform.
Lo stage, era poi suddiviso in spazi diversi: uno che era al livello della platform e un’altra che invece era più
in alto; quest’ultima era quella che consentiva la messa in scena di elementi particolari delle scene
rappresentate. Per esempio, la famosa scena del balcone in Romeo and Juliet, si svolge con Romeo che sta
sullo spazio dello stage, mentre Juliet sta nello spazio dell’upper-stage e poi Romeo raggiunge Juliet
nell’upper-stage. La parte più interna del palcoscenico, veniva denominata in-stage, lo spazio che si trovava
più sul fondo del palcoscenico stesso. Anche quest’ultimo veniva utilizzato per mettere in scena momenti e
situazioni particolari della vicenda. La recitazione, cioè lo spazio occupato dagli attori che recitavano, era
comunque fondamentalmente quello dello stage, insieme con quello della platform.
Nel momento in cui la platform era circondata da tre lati, dal pubblico in piedi che tra l’altro aveva
ampissima possibilità di muoversi, quello che poteva succedere era che durante la rappresentazione, ci
fosse una sorta di interazione diretta tra gli attori sul palcoscenico e il pubblico nel pit. Spesso e volentieri,
poteva capitare che qualcuno del pubblico reagisse alla battuta pronunciata dall’attore sulla scena, e
l’attore sulla scena a sua volta reagiva con una battuta o modificando in qualche modo quello che era il
copione prestabilito. Però, questo fenomeno è abbastanza interessante da considerare, perché dà l’idea di
come il teatro fosse qualcosa di vitale, qualcosa che davvero dava luogo anche ad una partecipazione da
parte del pubblico.

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Ad aumentare la possibilità di partecipazione del pubblico, c’era anche un’altra possiblità cioè quella che
pagando evidentemente una cifra superiore, qualche spettatore ottenesse di avere un posto posizionato
sulla platform. Questo ovviamente era un qualcosa che chiedeva o chi voleva fruire direttamente più da
vicino, di quanto avveniva sulla scena, o di chi per ragioni sue aveva piacere di mettersi in vista.
Tali luoghi delegati alla rappresentazione davano luogo a spettacoli solitamente nel pomeriggio; potevano
esserci spettacoli mattutini ma era più comune che fossero di pomeriggio.
Una delle ragioni per cui si sviluppa l’ostilità della autorità cittadine nei confronti di tutto quanto ha a che
fare con il teatro, è legata anche all’idea che proprio per andare ad assistere gli spettacoli, le persone si
esimessero dallo svolgere i loro compiti abituali (invece di andare a lavorare preferivano andare ad
assistere uno spettacolo).
Inoltre, all’interno del teatro, non c’era un sistema di luci artificiali ( se non qualche cosa di molto
rudimentale) e non essendoci copertura della parte centrale dell’edificio, anche le condizioni atmosferiche
incidevano sulla possibilità o meno di vedere uno spettacolo.
Se andiamo a vedere qual era la situazione degli attori, diciamo che è una situazione che si va in un certo
qual modo complicando, proprio a seguito della ostilità delle autorità ufficiali. Nel periodo medioevale,
durante il periodo dell’affermazione dei Mistery, Miracle, e Morality plays, diciamo che in Inghilterra,
l’attore professionista era molto limitato. Di solito, a mettere in scena Mistery e Miracle plays erano
fondamentalmente i membri delle corporazioni assistiti eventualmente da qualche attore più esperto che lo
faceva per professione. Nel caso dei Morality plays l’intervento di attori professionisti si va ampliando, ma
in ogni caso la figura dell’attore professionista si comincia ad affermare in Inghilterra, in maniera
significativa, soltanto verso la fine del Middle English period ed a partire da quella che è la English
Renaissance, ma, con molte limitazioni. Ci sono però, degli elementi che in qualche modo mettono in
evidenza il ruolo dell’attore professionista e l’importanza di avere figure di questo genere. In particolare,
verso la fine del 400- inizi del 500, cominciamo a vedere che sul territorio inglese, arrivano una serie di
compagnie di attori professionisti. Erano in particolar modo alcune compagnie italiane della commedia
dell’arte che andranno a sviluppare il gusto del pubblico inglese per un tipo di spettacolo a cui il pubblico
non è avvezzo e che oltretutto prevede la presenza di attori professionisti. Le compagnie provenienti dal
continente avevano anche la figura dell’attrice; quello che però succede nel teatro elisabettiano è che le
varie compagnie di attori non avranno al loro interno delle donne che recitano. La figura dell’attrice in
quanto tale dunque, nel teatro elisabettiano, non esiste. Ad interpretare dei ruoli femminili di solito erano
attori giovani, che vestivano i panni di donne, oppure ancora attori che si erano specializzati in parti
femminili e conseguentemente interpretavano questi ruoli. Ciò agli occhi delle autorità civili e religiose
diventa un ulteriore elemento di condanna, proprio perché c’è la finzione nella finzione in relazione a
quello che è il sesso della figura del personaggio che viene interpretato sulla scena.
Nel momento in cui la legislazione che viene emanata già nel 1574, che dichiara le compagnie di attori
illegali e che proibisce lo svolgimento di spettacoli teatrali dentro i confini della municipalità di Londra, ecco
che gli attori si trovano in grande difficoltà, in quanto secondo quella legislazione, possono essere arrestati
per una serie di reati: per vagabondaggio, per compimento di atti contrari alla morale e al senso comune.
Ecco allora che tali compagnie di attori, hanno la necessità di avere qualcuno che li protegga. Ciascuna delle
compagnie di attori nel periodo elisabettiano, deve riuscire ad avere un patrono, un personaggio pubblico,
un qualcuno che abbia una certa influenza ed importanza del quale possano figurare ufficialmente come
dipendenti e servitori. In realtà non sono servitori, ma ne vestono la livrea. È questo stratagemma che
consente agli attori delle compagnie dell’epoca, di sfuggire all’arresto per vagabondaggio o altri reati.
Lo stesso Shakespeare, con la sua compagnia, nell’ultimo periodo, potè godere della protezione del Lord
ammiraglio e poi addirittura di quella del re. La compagnia di Shakespeare passa attraverso la protezione di
quattro potenti personaggi: i primi due sono incerti, però, per quanto riguarda la terza si tratta sicuramente

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di Lord ammiraglio, una delle massime autorità del tempo (infatti la compagnia prende il nome di “The
Admiral’s Men”) ed infine, dopo la morte della regina Elisabetta e l’ascesa al trono di Giacomo I, diventa la
compagnia dei “King’s Men”, proprio perché almeno ufficialmente, questi grandissimi personaggi,
assicuravano la loro protezione. Formalemente gli attori della compagnia risultavano legati a queste figure.
Non è un caso che si riferisce solo alla compagnia di Shakespeare, ma era un fenomeno molto diffuso e che
era legato alla necessità di avere un protettore, per evitare di incorrere nei rigori della legge.
Sempre ancora per quanto riguarda i teatri pubblici, gli attrezzi di scena, così come si vanno a sviluppare nel
periodo successivo con tutta una serie di marchingegni che devono aiutare il pubblico a ritenere vera ed
autentica la vicenda che si svolge sulla scena, nel teatro elisabettiano non ci sono. Abbiamo semplicemente
delle quinte che consentono l’ingresso degli attori, ma fondali mobili, attrezzature complicate, nel teatro
pubblico elisabettiano non ce ne sono. Diciamo però, che se è vero che pochi elementi bastano a creare nel
pubblico la suggestione dell’ambiente in cui la scena dell’intera vicenda si svolge, è altrettanto vero che è al
potere evocativo della parola del drammaturgo e dell’attore, che viene affidato il compito di evocare nella
mente dello spettatore lo scenario in cui una scena si svolge.
C’è da dire però, che non è soltanto il teatro pubblico quello che si afferma nel periodo elisabettiano.
Infatti, abbiamo almeno altre tipologie di teatri che vanno tenute presenti, anche se sono meno importanti
rispetto allo sviluppo del teatro pubblico. Una di queste tipologie è data dal cosiddetto “Private theatre”,
che erano spesso e volentieri o sale di banchetti all’interno di dimore aristocratiche, o un locale che poteva
in caso di necessità essere adibito a luogo per lo svolgimento di uno spettacolo. I private theatres erano
luoghi chiaramente coperti, dunque la rappresentazione poteva svolgersi indipendentemente dalle
condizioni atmosferiche; ciò che era molto diverso rispetto ai teatri pubblici era che di solito gli spettatori
stavano seduti in file ordinate di sedie che si trovavano davanti allo spazio delegato alla rappresentazione.
L’interazione tra gli attori sul palcoscenico ed il pubblico che stava ad assistere allo spettacolo risultava
sicuramente meno immediata; ancora, il pubblico di tali teatri aveva un’appartenenza sociale diversa
rispetto a quella dei teatri pubblici, perché mentre nei teatri pubblici andavano persone che appartenevano
alle classi sociali più disparate, nei teatri privati, dove si pagava un biglietto più sostanzioso, di solito
andavano borghesi, o addirittura aristocratici. In ogni caso non c’è quella varietà del pubblico che invece
abbiamo nel teatro pubblico.
Quanto succedeva era che il repertorio messo in scena nei teatri privati, in parte coincideva con quello dei
teatri pubblici; poteva succedere che alcune opere venissero rappresentate prima nei teatri privati (succede
per esempio per alcune delle opere di Shakespeare, specie per i romances) e poi nei teatri pubblici; ma in
ogni caso, quanto veniva messo in scena nei teatri privati, diciamo che solitamente tendeva ad evitare
quegli eccessi nell’utilizzo di linguaggi e situazioni ritenuti volgari.
Un fenomeno particolare che si sviluppa nel periodo elisabettiano è il cosiddetto teatro dei bambini: vi sono
delle Childrens Companies, compagnie di attori bambini, che una volta superata la fase dell’infanzia, o al
massimo dell’adolescenza, cessano di far parte di quella compagnia. Sono delle compagnie di attori tra le
quali la più famosa è quella legata alla cattedrale di St. Paul, in cui vi sono i Paul’s children che incontrano il
gradimento di un certo tipo di pubblico, un pubblico disposto a pagare delle cifre più alte per assistere ai
loro spettacoli. Si tratta di un fenomeno interessante perché queste compagnie di attori bambini hanno un
tale successo da costituire a tutti gli effetti dei rivali delle compagnie di attori adulti. Abbiamo delle
attestazioni a riguardo anche attraverso le battute di alcune opere, dove chi è sulla scena si lamenta o
critica la presenza di queste compagnie di attori rivali. Queste children companies sono un fenomeno
talmente consolidato, che vi sono addirittura dei drammaturghi i quali scrivono dei testi appositamente per
loro. Tra questi Lili, uno degli university wits, il quale scrive dei testi per questi attori bambini.
Infine occorre citare il fenomeno del teatro di corte, che ha una certa rilevanza. Evidentemente se parliamo
di teatro di corte, parliamo di spettacoli che vengono eseguiti e rappresentati a corte o nelle dimore

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aristocratiche. Si tratta per lo più di un tipo di teatro in cui è prevista la presenza di costumi, di elementi
scenografici molto raffinati e costosi, qualche cosa che esula dalle disponibiltà dei teatri pubblici. Per
quanto riguarda i testi, essi possono essere anche molto diversi, però sarà proprio all’interno del teatro di
corte che si andrà a sviluppare quel tipo di produzione che è definito “Mask” per il quale si impegneranno
nella composizione di testi autori importanti come lo stesso Ben Johnson.
Il mask è un tipo di spettacolo che è allegorico e mitologico per quanto riguarda la materia e gli argomenti.
Non soltanto l’argomento è raffinato, mitologico e allegorico, ma abbiamo anche degli attori che spesso e
volentieri non sono attori professionisti ma attori aristocratici che in prima persona interpretano i vari ruoli.
Di solito a rappresentare i ruoli positivi sono gli aristocratici (comprese stavolta le donne) mentre invece i
ruoli negativi o più bassi, vengono interpretati da professionisti. Il mask si sviluppa particolarmente nella
fase finale del periodo elisabettiano ed avrà anche un notevole sviluppo nel periodo di regno del sovrano
Giacomo I D’Inghilterra e vedrà la partecipazione di Inigo Jones che è uno scenografo architetto nonché
costumista. Le sue scenografie e i macchingegni che inventa per rendere spettacolari le messe in scena,
nonché i costumi che inventa per i diversi personaggi, sono assolutamente straordinari e fantasiosi.

Quando parliamo di teatro in età elisabettiana, dobbiamo tenere presente che ci troviamo di fronte ad una
forma che affonda le sue radici, intanto, nei Morality plays in particolare. Nelle diverse tipologie di teatro
medievale, infatti, i Morality plays sono in qualche modo la forma di teatro più laica, cioè quella meno
strettamente legata alla chiesa e alle autorità ecclesiastiche.
Gli autori del teatro elisabettiano, con un'unica eccezione importante costituita da Ben Johnson, da quello
che è il rispetto delle cosiddette unità aristoteliche (unità di luogo, di tempo e di azione). Secondo le tre
cosiddette unità aristoteliche, la vicenda messa in scena deve essere fondamentalmente una, il luogo deve
essere lo stesso ed il tempo deve corrispondere alla durata del giorno naturale (24h). Gli autori del teatro
elisabettiano, dunque, non rispettano le tre unità aristoteliche. Ben Johson, si rifà più che alla grande
tradizione del teatro classico greco, alla tradizione del teatro latino, con particolare riferimento alla
produzione di Terenzio.
Vi sono però degli autori classici che comunque hanno notevole influenza sugli elisabettiani. Facciamo
riferimento in particolare a Seneca. Seneca era un filosofo, il padre dello Stoicismo; egli però per far
comprendere le sue idee aveva scritto dei drammi, delle tragedie. Tali tragedie erano ampiamente
conosciute nel periodo elisabettiano sia nell’originale latino, sia nelle versioni tradotte in inglese. Gli
elisabettiani però, così come da quella che è la cultura italiana, traggono soltanto degli elementi che sono
per loro di particolare interesse e spesso e volentieri li travisano in maniera difforme rispetto a quella che
era la tradizione originaria nel contesto italiano, con la stessa operazione di ripresa ma anche di
travisamento, la mettono in scena anche nelle tragedie senechiane. Seneca scrive queste tragedie che però
non nascono per essere messe in scena, quanto per essere lette ed attraverso la lettura per diventare
oggetto di riflessione. La caratteristica delle tragedie di Seneca fondamentalmente è che la filosofia stoica
parte dal presupposto che gli uomini non sono padroni del proprio destino, ma a governare il loro destino è
il fato. Il destino, è un’entità avversa agli uomini, o nella migliore delle ipotesi, indifferente agli individui. In
ogni caso, l’uomo è di per sé, destinato a patire nel corso della sua esistenza ingiustizie, sofferenze di vario
genere, ecc. L’uomo, dunque, che si identifica con la filosofia stoica, non può fare altro che accettare
quanto di male il destino gli ha riservato con dignità. Un altro elemento importante è che tutti gli elementi
negativi nella vita dell’uomo, Seneca non li mette in primo piano ma nelle sue tragedie rimangono sullo
sfondo, perché quello che a lui interessa è far vedere come l’individuo stoico reagisce a queste sventure.
Gli elisabettiani invece, riprendono Seneca, ma a modo loro, travisandolo e cogliendo dalle tragedie
senechiane soltanto gli elementi che a loro interessano. Agli elisabettiani interessa piuttosto, mettere in
primo piano quelle che sono le ingiustizie, i tradimenti, le morte violenti, le mutilazioni, tutto ciò che di

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male l’individuo subisce. Dunque quello che Seneca aveva mantenuto sullo sfondo, gli elisabettiani lo
mettono in primo piano. Non solo, ma mettono i protagonisti in una condizione tale che spesso e volentieri
reagiscono con altrettanta violenza. Ecco che allora proprio con questa ripresa della tragedia senechiana,
che oltretutto comprende anche una serie di monologhi, in cui l’individuo chiaramente dichiara quali sono
le sue reazioni, segna in maniera molto significativa in particolare la prima fase di sviluppo del teatro
elisabettiano.

The Spanish Tragedy è una tragedia in cui il protagonista vive tutta una serie di disgrazie. Suo figlio viene
ucciso a tradimento, con l’inganno, a seguito da una trama messa in atto dal potente pre il quale lo stesso
protagonista. Sarà proprio lui a scoprire il cadavere del figlio impiccato nel giardino, comprende che cosa ci
può essere dietro la sua morte, ma non può apertamente reagire. Tuttavia, decide di vendicare la morte del
figlio, a sua volta mettendo in atto una serie di atrocità. La prima atrocità che mette in atto è una
automutilazione. Per impedire che con la tortura si possano rivelare le sue intenzioni e che cosa via via
andrà facendo, si recide la lingua, in modo da non poter parlare. Dunque, c’è sulla scena
un’automutilazione e sempre sulla scena, verranno, nel corso della vicenda, presentati altri atti violenti.
Abbiamo la bellezza di otto tra omicidi e suicidi, delle violenze che vengono perpetrate da altri personaggi
ed anche quello che diventerà poi un elemento ripreso successivamente da altri autori e in particolare dallo
stesso Shakespeare: il play within the play. Si tratta del teatro dentro il teatro, in quanto, il protagonista,
per mettere il suo principe difronte alla gravità delle azioni che ha commesso, ingaggia una compagnia di
attori e fa in modo che tale compagnia metta in scena l’omicidio di suo figlio davanti alla corte schierata, in
modo da verificare, attraverso le reazioni del suo signore, se la sua ipotesi corrisponde a verità. Dunque, in
primo piano abbiamo una serie di atti di violenza, poi ancora la presenza del play within the play, e
l’elemento della vendetta. Dunque, l’individuo che ha subito ingiustizie non accetta stoicamente quanto il
destino gli ha riservato ma piuttosto reagisce cercando la vendetta. Dunque, elementi del teatro
senechiano vengono ripresi ma contemporaneamente viene snaturato l’insegnamento che Seneca si
proponeva di dare. Questa modalità di rappresentazione nel periodo elisabettiano trova enorme fortuna e
avrà tutta una serie di riprese, esempi che lo segneranno fortemente.
Per inciso, qualcosa di legato alla rappresentazione di atti violenti sul palcoscenico l’abbiamo anche con
Marlowe, se si pensi a “The Jew of Malta” che progetta un tradimento nei confronti dei cristiani, il quale a
sua volta sarà vittima della sua trama andando a finire dentro il calderone pieno di olio bollente.

Andiamo adesso ad analizzare l’Amleto, il quale ha avuto e continua oggi ad avere un successo
straordinario. È un’opera assolutamente emblematica che è stata più volte ripresa e riletta secondo quelle
che erano le esigenze e il contesto culturale, non soltanto quello di partenza ma anche quello di arrivo. È
un’opera talmente densa di significato che è stata letta in modi diversi e ciascuno ha trovato dentro
l’Amleto la possibilità di vedere riecheggiati problemi, esitazioni, incertezze, elementi del periodo
dell’epoca. Dunque non è un caso che tale opera di Shakespeare continui ancora oggi ad essere
rappresentata e sia stata oggetto di messe in scena, anche molto diverse tra di loro, e di riletture, proprio
perché è un’opera talmente emblematica che davvero sembra poter contenere tutta una serie di elementi
e di condizioni che si riferiscono alla condizione stessa della vita dell’individuo.
Amleto è il principe di Danimarca, il figlio del re Amleto. Egli è stato a studiare all’estero, è un giovane
uomo di contemplazione, che ama pensare e riflettere piuttosto che agire. Nel momento in cui Amleto
ritorna in Danimarca trova che il padre, il re Amleto è morto, sua madre, la regina Gertrude ha sposato lo
zio, Claudius che è il fratello del re Amleto. La prima scena dell’Amleto mostra al pubblico il fantasma del re
che compare sugli spalti del castello e dice ad Amleto come è stato ucciso a tradimento. Secondo il
racconto del fantasma, mentre si trovava in giardino addormentato, il fratello Claudius, aveva fatto in modo

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di versargli nell’orecchio il veleno di un serpente e questo aveva provocato la sua morte. Non è dunque una
morte naturale o dovuta ad un incidente, ma appunto il risultato di un tradimento metto in atto da un
congiunto. Il fantasma del re, chiede vendetta e vuole che a metterla in atto sia Amleto. Tutto il resto della
vicenda, si sviluppa con Amleto, che è a tutti gli effetti incapace di decidere una linea d’azione. Quando
Amleto si deciderà ad agire, il risultato sarà una catastrofe totale. Nel frattempo, Ofelia, la giovane donna
che è innamorata di lui, sarà morta perché presumibilmente si è suicidata dopo essere stata da lui respinta;
ci sarà la morte dell’amico fraterno di Amleto, ed una serie di altri tradimenti e sventure. Ma a determinare
Amleto nella scelta finale di agire, anche se questa azione darà luogo ad una catastrofe assoluta, sarà il
fatto che per verificare la verità di quanto il fantasma ha detto, Amleto farà in modo di sfruttare la presenza
di una compagnia di attori per il quale scrive un’opera che devono mettere in scena davanti alla corte.
Questo testo ripropone pari pari quello che è il racconto del fantasma relativamente alla sua morte.
Osservando la reazione dello zio Claudius e di altri personaggi che sono presenti, diciamo che Amleto avrà
la prova che il fantasma gli ha detto la verità e allora proseguirà nella sua vendetta in nome del padre. La
scena finale mostrerà quella che è a tutti gli effetti un’ecatombe e ci sarà soltanto l’arrivo di Forte braccio
che rappresenta le forze nuove, positive del regno, che con il suo esercito arriva finalmente a prendere il
potere e rimettere ordine in questo regno di Danimarca sconvolto dal tradimento e precipitato nel caos.
Il monologo, “to be or not to be” avviene nell’atto centrale dell’opera, nella prima scena del terzo atto.
Quanto Amleto dice, si rivolge non ad altri personaggi sulla scena, ma piuttosto occupa l’asse esterno della
comunicazione teatrale, perché si rivolge direttamente al pubblico e non ad altri personaggi che sono in
scena.

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LEZIONE 13
3/11/2020
Come già accennato nella lezione precedente, analizziamo il famoso monologo di Shakespeare “To be or
not to be”, il quale si colloca nella prima scena dell’atto terzo dell’Amleto, dunque, considerato che
l’Amleto si compone di cinque atti, siamo all’inizio dell’atto centrale. Amleto in particolare entra sul
palcoscenico, è da solo, si tratta di un monologo, dunque, una comunicazione che si svolge sull’asse esterno
della comunicazione teatrale, nel senso che si rivolge esclusivamente al pubblico.

To be, or not to be: that is the question: Essere, o non essere: questo è il problema: se sia più
Whether 'tis nobler in the mind to suffer nobile soffrire nella mente le punture della fortuna
The slings and arrows of outrageous fortune, oltraggiosa, o prendere le armi contro un mare di guai,
Or to take arms against a sea of troubles, e opponendovisi porre loro fine? Morire: dormire:
And by opposing end them? To die: to sleep; basta; e tramite un sonno dire che poniamo fine al
No more; and by a sleep to say we end dolore del cuore e alle migliaia di corpi naturali di cui
The heart-ache and the thousand natural shocks la carne è erede da desiderare con devozione. Morire,
That flesh is heir to, 'tis a consummation dormire; dormire: forse sognare: eh sì, questo è il
Devoutly to be wish'd. To die, to sleep; punto; poiché in quel sonno di morte quali sogni
To sleep: perchance to dream: ay, there's the rub; possono arrivare quando noi ci siamo liberati di questo
For in that sleep of death what dreams may come tormento mortale, ci devono fare pensare: lì c’è la
When we have shuffled off this mortal coil, considerazione che rende la sventura di così lunga vita;
Must give us pause: there's the respect poiché chi sopporterebbe i colpi di frusta e gli spregi
That makes calamity of so long life; del tempo, i torti dell’oppressore, l’offesa da parte
For who would bear the whips and scorns of time, degli orgogliosi, gli spasimi dell’amore disprezzato, il
The oppressor's wrong, the proud man's contumely, ritardo della legge, l’insolenza dei funzionari pubblici e
The pangs of despised love, the law's delay, gli insulti che il merito paziente riceve dagli indegni,
The insolence of office and the spurns quando lui stesso potrebbe darsi pace con un pugnale
That patient merit of the unworthy takes, nudo (sguainato suicidio)? Chi sopporterebbe questi
When he himself might his quietus make fardelli, il grognire e sudare sotto una vita faticosa, se
With a bare bodkin? who would fardels bear, non fosse che il timore di qualcosa dopo la morte, la
To grunt and sweat under a weary life, terra sconosciuta dai cui limiti nessun viaggiatore
But that the dread of something after death, ritorna, sconcerta la volontà e ci fa piuttosto
The undiscover'd country from whose bourn sopportare i mali che abbiamo e indirizzarci verso altri
No traveller returns, puzzles the will che non conosciamo? Così la coscienza ci rende tutti
And makes us rather bear those ills we have codardi; e così il colore originario della risoluzione
Than fly to others that we know not of? viene reso malaticcio dal pallido colore del pensiero (il
colore vivo della risolutezza viene reso pallido, di un
pallore malaticcio dal pensiero) e imprese di grande
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altezza e importanza con questa riflessione deviano il
Thus conscience does make cowards of us all;
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o'er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pith and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.

Questo monologo, che è probabilmente il monologo shakespeariano più noto in assoluto, occupa non
soltanto una posizione centrale nella posizione del dramma, ma è assolutamente centrale anche all’intera
vicenda di Amleto. Non è un caso che questo monologo sia una sorta di prova di attore, in cui tutti coloro i
quali aspirano ad essere considerati degli attori di un certo valore, si sono cimentati.
Analizziamo quali sono gli elementi importanti all’interno dell’Amleto. Questa tragedia è una tragedia che
appartiene al gruppo delle “Great tragedies” shakespeariane; venne rappresentata per la prima volta, quasi
certamente, nel 1601, quindi siamo praticamente sul finire del regno di Elisabetta. È un momento storico in
cui, la situazione in Inghilterra, dal punto di vista politico è alquanto complessa. Delle ricadute o per meglio
dire delle considerazioni che hanno a che fare con la politica, in qualche modo nell’Amleto ci sono ; fermo
restando che l’Amleto non è ambientato in Inghilterra, ma è strategicamente ambientato nell’immaginario
regno di Danimarca. Se Shakespeare l’avesse ambientato in Inghilterra, considerato che ci sono dei
riferimenti alla situazione e a certi personaggi politici, in particolare la figura di Polonio e con le trame che
Polonio mette in atto, non avrebbe quest’opera passato il vaglio della censura. Invece, quest’opera, ottiene
l’autorizzazione ad essere rappresentata.
La situazione di questo immaginario regno di Danimarca è complessa. In una battuta famosa Amleto dice
tra l’altro che c’è del marcio in Danimarca; questo marcio ha proprio a che fare con quella che è la
situazione della corte. Amleto è il principe di Danimarca, figlio del re di Danimarca, il quale re è morto e
dopo la sua morte il fratello del re, Claudius, ha preso la corona ed è diventato anche il marito della regina
Gertrude, cioè la vedova del re Amleto. Amleto, che si trovava impegnato nei suoi studi all’università di
Wittenberg, dunque al di fuori dei confini della Danimarca, viene richiamato in patria proprio in
conseguenza della morte del padre. Si troverà di fronte ad una situazione che non comprende e che non gli
piace.
Nella parte iniziale, dunque nel primo atto dell’Amleto, si vede comparire il fantasma del re, il quale fa
capire che vuole parlare con il figlio perché vuole vendetta. Nel colloquio tra il fantasma del padre ed il
principe Amleto, il fantasma dice di essere stato ucciso a tradimento dallo stesso fratello e lascia intendere
che forse, potrebbe esserci stata qualche complicità ulteriore. Quindi, chiede di una vendetta che per l’etica
del tempo sarebbe un atto di giustizia: il fantasma è condannato a rimanere sulla terra, dichiara di trovarsi
in una sorta di limbo (una specie di Purgatorio) e di non poter trovare pace proprio perché la sua morte non
è stata seguita da un atto di giustizia.
Ecco allora che Amleto si trova di fronte a quello che è il primo dei dubbi che finiscono con l’essere la
caratteristica del suo personaggio: il dubbio come condizione esistenziale. Il primo dubbio è se il fantasma è
davvero il fantasma del re che chiede vendetta oppure è qualcosa di diverso. Le esitazioni, i dubbi di Amleto
sulla natura del fantasma, sono strettamente correlati a quello che era il contesto culturale. All’epoca per
gli elisabettiani che credevano fermamente nel soprannaturale, per quanto riguarda spiriti e fantasmi, si
dibattevano tra quelle che erano due concezioni diverse: c’era chi riteneva spiriti e fantasmi anime
inquiete, individui che erano morti di morte violenta e che non potevano trovare pace, per cui erano
condannati a vagare su questa terra fino a che la loro morte non fosse stata seguita da un atto di giustizia;

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c’era però chi riteneva che questi spiriti e fantasmi non erano nient’altro che demoni, che fingevano di
essere anime inquiete ma il cui unico scopo era quello di portare gli uomini alla perdizione costringendoli a
compiere atti violenti.
Più avanti, per capire se questo fantasma è davvero il fantasma del padre, Amleto sfrutterà la presenza di
una compagnia di attori ai quali farà recitare un dramma scritto da lui stesso attraverso il quale mette in
scena la morte del re Amleto così come gli stata rappresentata dal fantasma. Osservare le reazioni di
Claudius e le reazioni di sua madre, la regina Gertrude, gli consentirà di capire come sono andate le cose.
Un ulteriore dubbio di Amleto è relativo al ruolo avuto nell’intera vicenda dalla madre, la regina Gertrude, o
meglio un dubbio nel comprendere a pieno i propri sentimenti nei confronti della madre, una madre tanto
amata ma nello stesso tempo una madre che forse all’origine ha un desiderio che poi Freud avrebbe
indicato come un desiderio represso, di natura sessuale, che è alla base del cosiddetto complesso di Edipo,
indicato da Freud alla fine dell’800, che sembra avere un ruolo importante nei comportamenti, negli
atteggiamenti di Amleto. Egli, infatti, che prima era stato probabilmente geloso del padre, adesso è
sicuramente, non solo ostile allo zio per quello che sospetta abbia compiuto, ma anche perché lo zio è
riuscito laddove segretamente forse lui avrebbe desiderato arrivare.
Vi è un dubbio anche per quanto riguarda Ofelia: vi erano state promesse d’amore per quanto riguarda la
giovane Ofelia, la figlia di Polonio, il consigliere del re, che è a tutti gli effetti il prototipo dell’uomo che non
guarda in faccia a niente e nessuno per ottenere i suoi scopi, è l’uomo politico deteriore, è l’uomo politico
che compie intrighi e manovre di vario genere che però finirà per rimanere vittima di questi suoi stessi
intrighi. Dunque, dubbio relativamente all’amore di Ofelia: essi si erano scambiati delle promesse, ma
Ofelia, adesso che lui è ritornato e che gli dimostra in tutti i modi che il suo amore per lui continua ad
essere presente, potrebbe essere, questo è il dubbio di Amleto al suo riguardo, una pedina nelle mani di
Polonio, e conseguentemente una pedina di Polonio negli intrighi con il re Claudio. Ecco allora che anche
relativamente all’amore, Amleto non ha certezza alcuna. Il suo mettere in dubbio che l’amore di Ofelia sia
autentico, lo porta a trattare la giovane Ofelia con tale crudeltà e tale disprezzo che Ofelia finirà con
l’uccidersi. Ella infatti scivola nell’acqua, anche se non vi è certezza che sia una morte volontaria o
accidentale. Quello che è certo è che il trattamento che Amleto riserva ad Ofelia è tale da portarla alla
pazzia, una follia dolce, che non si manifesta con atti violenti, ma con una sorta di regressione con una
condizione che la distacca da quelli che sono i mali del mondo ma che contemporaneamente la rende quasi
inconscia di quanto avviene intorno a lei.
Poi ancora vi sono altri dubbi che tormentano Amleto. Nel monologo analizzato, il dubbio che Amleto
manifesta è legato alla possibilità che dopo la morte ci sia qualcosa. Amleto non ha la certezza della fede,
sembra non credere nella possibilità dell’esistenza di Dio, ma pur non avendo le salde certezze della fede,
non è neppure sicuro che per quanto riguarda la possibilità di una vita dopo la morte, questa vita non ci sia.
Se non ci fosse, sarebbe facile, dice Amleto nel monologo, sottrarsi a tutto quello che di terribile c’è nella
vita dell’uomo. Elenca i mali che dall’amore possono derivare, l’amore disprezzato, o ancora i torti da parte
dei potenti, tutto quello che di male una fortuna oltraggiosa riserva all’uomo. Sarebbe facile liberarsene se
non ci fosse il dubbio di qualcosa che c’è dopo la morte: basterebbe semplicemente il suicidio, ma che cosa
è che trattiene l’uomo e nello specifico trattiene Amleto dal commetterlo e quindi dal liberarsi con il sonno
eterno da tutti i mali che la vita riserva all’uomo. Al trattenerlo è l’incertezza, il non sapere, il dubbio se
esiste una vita dopo la morte. Se esiste, chiaramente il suicido non sarebbe la soluzione, ma un ulteriore
elemento di tormento. Ecco allora che a segnare la condizione di Amleto è il fatto stesso che il suo essere
abbia come caratteristica quella dell’essere l’individuo che dubita, l’individuo che è portato a riflettere dal
suo interrogarsi sulle cose; è il suo essere individuo che dubita che in qualche modo lo caratterizza.
Amleto alla fine prenderà una decisione, si convince che il fantasma è davvero il fantasma del padre,
dunque decide di vendicare la morte del padre ma nello stesso tempo anche a rivendicare per sé la regina

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Gertrude e però lo fa con modalità tali, che insieme al tradimento ulteriore di Claudius e a una serie di
circostanze, producono quella che è a tutti gli effetti una ecatombe, una strage. Ci sono infatti ben 8 morti
in questa tragedia e l’ordine nel regno sconvolto di Danimarca sarà portato da Fortebraccio e dall’amico di
Amleto, l’unico che gli è rimasto fedele, Orazio. Dunque, specie Fortebraccio rimette ordine, non soltanto
nel castello del signore ma nel regno stesso perché nell’Amleto così come in genere in Shakespeare quello
che è lo sconvolgimento dell’ordine morale e sociale all’interno del castello, in qualche modo si riflette in
quello che è lo sconvolgimento dell’ordine all’esterno delle mura del castello.

Il Fool, che compare nelle prime scene ma soprattutto finisce col diventare una figura di riferimento
importante, nel teatro elisabettiano in genere, e in quello shakespeariano ha un ruolo molto importante. Il
Fool, cioè il buffone di corte, il folle, il pazzo, è colui il quale ha facoltà di dire verità scomode, sottoforma di
scherzo, di battuta. Verità che dette da altri personaggi costerebbero loro la testa, il Fool ha la facoltà di
dirle. Lo vediamo in molte opere elisabettiane e shakespeariane in particolare, ma ha un ruolo
particolarmente importante anche in un’altra tragedia di Shakespeare, il King Lear.
Il Fool nel King Lear compare nella prima parte e dice al re, il protagonista, delle verità scomode. Il Fool poi,
nel King Lear scomparirà nella scena; il suo ruolo però verrà in qualche modo preso in carico da un altro
personaggio che non è più il Fool, ma un altro personaggio che si finge pazzo e in questa finzione di pazzia
può permettersi di dire la verità. Per inciso, anche Amleto, per poter meglio comprendere come stanno le
cose, ma anche per potersi permettere di dire determinate cose, si finge pazzo. Questa finzione della
pazzia, per arrivare alla scoperta della verità, ma anche per avere libertà d’azione che l’uomo sano di mente
non ha, è uno stratagemma che troviamo molto spesso nel teatro elisabettiano e che si trova in maniera
abbastanza consistente nel cosiddetto filone della “Revenge tragedy”. L’Amleto rientra tra le tante cose, in
questo filone.

Passiamo dunque ad analizzare un brano tratto da un’altra grande tragedia di Shakespeare, il King Lear.
Qui, ci troviamo nella parte iniziale dell’opera, nella scena prima del primo atto. Siamo alla corte del re, e
sul palcoscenico entrano i membri della corte, con lo stesso re e le sue tre figlie. Si comprenderà dalle
parole di Lear, che egli ha preso una decisione: Lear è un re rispettato, amato, ma è un re vecchio che sente
ormai la fatica non soltanto degli anni, ma anche della responsabilità del potere, e ha deciso di lasciare il
regno alle sue tre figlie, dividendolo per evitare che alla sua morte ci possano essere lotte tra le tre sorelle e
i mariti delle due figlie maggiori e con quello che diventerà il marito della figlia più giovane. Quindi, in linea
teorica, la sua decisione potrebbe sembrare responsabile, meditata, però, in realtà contiene in sé una
pecca, perché Lear vuole sì liberarsi dal peso del governo del regno, ma pensa di poter mantenere gli onori
che spettano ad un sovrano. Questo, dovrà rendersi conto a sue spese, che non è possibile.
Così come l’Amleto di Shakespeare era stato costruito tenendo presente una versione precedente della
storia del principe di Danimarca, anche nel caso del King Lear, Shakespeare una fonte preesistente. Sia
nell’uno che nell’altro caso, ma anche come sarà pratica costante di Shakespeare, Shakespeare però
modifica le fonti originarie, non gli interessa seguirle in maniera pedissequa. Sono spunti quelli che trae da
opere precedenti e da culture precedenti.

[Enter one bearing a coronet; then Lear; then the Dukes of Albany and Cornwall; next, Goneril, Regan,
Cordelia, with Followers.]
Lear. Badate ai signori di Francia e Borgogna,
Lear. Attend the lords of France and Burgundy,
Gloucester. Sì mio signore.
Gloucester.
Earl of Gloucester. I shall, my liege. Nel frattempo, noi esprimeremo le nostre più oscure
Exeunt [Gloucester and Edmund]. intenzioni. Datemi quella mappa. Sappiate che
abbiamo diviso il nostro regno in tre; e che è nostra
ferma intenzione scuotere via, dalla nostra vecchiaia
61 tutte le preoccupazioni e gli affari conferendoli su forze
più giovani mentre noi privi di fardello (sgravati)
Lear. Meantime we shall express our darker purpose.
Give me the map there. Know we have divided
In three our kingdom; and 'tis our fast intent
To shake all cares and business from our age,
Conferring them on younger strengths while we
Unburthen'd crawl toward death. Our son of Cornwall,
And you, our no less loving son of Albany,
We have this hour a constant will to publish
Our daughters' several dowers, that future strife
May be prevented now. The princes, France and Burgundy,
Great rivals in our youngest daughter's love,
Long in our court have made their amorous sojourn,
And here are to be answer'd. Tell me, my daughters
(Since now we will divest us both of rule,
Interest of territory, cares of state), Ditemi figlie mie, (dal momento che ora noi ci
Which of you shall we say doth love us most? spoglieremo sia del governo, dell’interesse del
That we our largest bounty may extend territorio, delle preoccupazioni dello Stato), ditemi
Where nature doth with merit challenge. Goneril, quale di voi diremo che ci ama di più? affinché noi
Our eldest-born, speak first. possiamo estendere la nostra più grande
Goneril. Sir, I love you more than words can wield the matter; generosità laddove la natura fa a gara con il
Dearer than eyesight, space, and liberty; merito. Gonerilla. Tu che sei la maggiore, parla
Beyond what can be valued, rich or rare; per prima. Sire, vi amo più di quanto si possa dire
No less than life, with grace, health, beauty, honour; a parole; mi siete più caro della vista, dello spazio,
As much as child e'er lov'd, or father found; e della libertà; vi amo al di là di quanto può essere
A love that makes breath poor, and speech unable. considerato prezioso o raro; vi amo non meno
Beyond all manner of so much I love you. della vita, compagnata insieme a grazia, salute,
Cordelia. [aside] What shall Cordelia speak? Love, and be silent. bellezza, onore; quanto mai un figlio abbia amato
Lear. Of all these bounds, even from this line to this, o un padre si sia trovato amato; un amore che
With shadowy forests and with champains rich'd, rende il respiro povero e la parola inadeguata. Io
With plenteous rivers and wide-skirted meads, vi amo più di tutto questo. Cordelia. [qualcosa che
We make thee lady. To thine and Albany's issue il personaggio dice sull’asse esterno della
Be this perpetual.- What says our second daughter, comunicazione] cosa deve dire Cordelia? Amare e
Our dearest Regan, wife to Cornwall? Speak. tacere. Di tutti questi confini, da questa linea fino
Regan. Sir, I am made a quest’altra, arricchiti da foreste ombrose e da
Of the selfsame metal that my sister is, campagne, con fiumi abbondanti e ampie distese,
And prize me at her worth. In my true heart noi ti facciamo signora. Alla discendenza tua e di
I find she names my very deed of love; Albany questo apparterrà per sempre. Cosa dice
Only she comes too short, that I profess la nostra secondogenita? La nostra carissima
Myself an enemy to all other joys Regana, moglie di Cornovaglia? Parla. Regana.
Which the most precious square of sense possesses, Sono fatta dello stesso metallo di mia sorella, e mi
And find I am alone felicitate pregio altrettanto degna di lei. Nel mio cuore
In your dear Highness' love. sincero io vedo che lei menziona i miei stessi gesti
Cordelia. [aside] Then poor Cordelia! d’amore; solo che lei si ferma troppo presto,
And yet not so; since I am sure my love's poiché io mi dichiaro nemica a tutte le altre gioie
More richer than my tongue. possedute dall’insieme più prezioso dei segni e
Lear. To thee and thine hereditary ever trovo di essere felice soltanto nell’amore di vostra
altezza. E allora povera Cordelia! E tuttavia non
così; dato che, sono certa che il mio amore sia più
62
ponderoso della mia lingua. Lear. A te e alla tua
Remain this ample third of our fair kingdom,
No less in space, validity, and pleasure
Than that conferr'd on Goneril.- Now, our joy,
Although the last, not least; to whose young love
The vines of France and milk of Burgundy
Strive to be interest; what can you say to draw
A third more opulent than your sisters? Speak.

Cordelia. Nothing, my lord. Niente mio signore. Niente? Niente. Niente verrà dal
Lear. Nothing? niente. Parla ancora. Infelice che sono, non posso
Cordelia. Nothing. portare il cuore in bocca (non posso dire a parole quello
Lear. Nothing can come of nothing. Speak again. che sento). Io amo vostra Maestà secondo il mio legame
Cordelia. Unhappy that I am, I cannot heave (secondo quanto mi compete); non di più non di meno.
My heart into my mouth. I love your Majesty Come come Cordelia? Aggiusta un poco il tuo discorso,
According to my bond; no more nor less. a meno che tu possa rovinare la tua fortuna. Mio buon
Lear. How, how, Cordelia? Mend your speech a little, signore, voi mi avete generata, cresciuta, amata; io vi
Lest it may mar your fortunes. restituisco questi doveri come è giusto, vi obbedisco, vi
Cordelia. Good my lord, amo e vi onoro assolutamente. Perché le mie sorelle
You have begot me, bred me, lov'd me; I hanno dei mariti se dicono che amano soltanto voi?
Return those duties back as are right fit, Certo, quando mi sposerò, quel signore la cui mano
Obey you, love you, and most honour you. prenderà il mio impegno, porterà con sé metà del mio
Why have my sisters husbands, if they say amore, metà della mia cura e del mio dovere. Di certo,
They love you all? Haply, when I shall wed, non mi sposerò mai come le mie sorelle per amare solo
That lord whose hand must take my plight shall carry mio padre. Ma il tuo cuore va con questo (le parole
Half my love with him, half my care and duty. sono in sintonia con il tuo cuore). Si mio buon signore.
Sure I shall never marry like my sisters, Così giovane e così priva di tenerezza? Così giovane mio
To love my father all. signore e sincera. E così sia! La tua verità, quindi, sia la
Lear. But goes thy heart with this? tua dote! Poiché, per il temuto splendore del sole, per i
Cordelia. Ay, good my lord. misteri di Ecate (divinità degli inferi) e della notte; per
Lear. So young, and so untender? tutte le orbite dei corpi celesti grazie ai quali noi
Cordelia. So young, my lord, and true. esistiamo e cessiamo di esistere; qui io rinnego ogni mia
Lear. Let it be so! thy truth then be thy dower! cura paterna, ogni vicinanza e proprietà di sangue, e da
For, by the sacred radiance of the sun, questo momento per sempre ti considero come
The mysteries of Hecate and the night; un’estranea al mio cuore e a me. Il barbaro Scytha, o
By all the operation of the orbs colui il quale fa strage dei suoi figli per saziare il proprio
From whom we do exist and cease to be; appetito, sarà al mio cuore altrettanto ben accolto,
Here I disclaim all my paternal care, compatito, e sollevato, come te che un tempo eri mia
Propinquity and property of blood, figlia. Mio buon signore- taci Kent! Non ti frapporre fra
And as a stranger to my heart and me il drago e la sua era. L’ho amata più di tutte, e avevo
Hold thee from this for ever. The barbarous Scythian, pensato di affidare il mio riposo alle sue cure gentili. –
vattene ed evita la mia vista! – così la mia tomba sia la
mia pace poiché io qui tolgo via da lei il mio cuore di
63
padre!
Or he that makes his generation messes
To gorge his appetite, shall to my bosom
Be as well neighbour'd, pitied, and reliev'd,
As thou my sometime daughter.
Earl of Kent. Good my liege-
Lear. Peace, Kent!
Come not between the dragon and his wrath.
I lov'd her most, and thought to set my rest
On her kind nursery.- Hence and avoid my sight!-
So be my grave my peace as here I give
Her father's heart from her!

LEZIONE 14
4/11/2020
Nella lezione precedente, abbiamo analizzato un passo tratto da “King Lear”. Come detto
precedentemente, King Lear è una delle grandi tragedie di Shakespeare, piuttosto nota e che continua
ancora oggi ad essere rappresentata dai teatri di tutto il mondo. Ciò che abbiamo analizzato ieri è l’esordio
dell’opera; è proprio da questa situazione iniziale che scaturiranno una serie di episodi che porteranno
all’epilogo tragico finale.
King Lear è un re molto anziano, stanco delle preoccupazioni dello Stato, stanco delle incombenze che in
quanto sovrano gli competono, il quale decide praticamente di abdicare, di rinunciare al trono per conferire
il potere e le tre parti in cui ha deciso di dividere il suo regno, alle tre figlie: Gonerilla, Regana e Cordilia.
Abbiamo inoltre visto che alla sua richiesta alle tre figlie di dichiarargli il loro amore davanti alla corte
schierata, le prime due, Gonerilla e Regana, rispondono riempiendosi la bocca di grandi parole, grandi
dichiarazioni di affetto, mentre invece Cordilia, la più giovane e la figlia preferita, si rifiuta. Ella si rifiuta di
piegare il suo amore per il padre a una manifestazione di vanità del padre stesso; in un certo senso, usando
un linguaggio molto forte, potremmo dire, che si rifiuta di prostituire il suo amore per il padre alla vanità e
al potere della parola. L’amore vero, sia quando si tratta di un sentimento nei confronti di un genitore, sia
per quanto riguarda l’amore tra un uomo e una donna, quando è vero, non ha bisogno di tante parole ma si
deve tradurre nei gesti, nelle azioni; l’amore vero non si esprime tramite la parola ma è qualcosa che
scaturisce dal cuore e nel cuore deve risiedere. Questa era una convinzione molto diffusa.
Il rifiuto di Cordilia di esprimere a parole il suo amore nei confronti del padre determina la reazione
furibonda di Lear, il quale a tutti gli effetti la rinnega come figlia e la disereda. La parte di regno, la più ricca,
la più bella che Lear aveva già destinato a Cordilia, la dividerà tra le altre due figlie mentre invece Cordilia
viene bandita dal regno e cacciata dalla corte, privata di ogni possibile eredità. Cordilia sarà pertanto
soccorsa da uno dei suoi due pretendenti, cioè dal principe di Francia, il quale capisce il senso del rifiuto di
Cordilia e impressionato anche dalla autenticità dei suoi sentimenti, la porta in Francia con sé facendone la
sua sposa. La scelta di Lear di cacciare Cordilia sarà in qualche modo contestata da alcuni membri della
corte, in particolare Kent che è uno dei nobili della corte, che sembra essere dotato di particolare buon
senso, ma il tentativo di Kent non avrà nessun effetto.
L’errore compiuto da Lear, sia nella scelta di privarsi della corona, sia nella scelta di cacciare la figlia, sarà in
qualche modo rimarcato dal Fool (il buffone di corte).
Il buffone cerca di far ragionare Lear; Lear voleva spogliarsi delle responsabilità del regno e del controllo dei
territori del regno, in altre parole di quella che è la sostanza del regno, mantenendo però gli onori che

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competono ad un sovrano, la forma del potere. Il Fool gli dirà a un certo punto che sta facendo una
sciocchezza. Lear, non solo non ascolta il Fool, ma è esacerbato nei confronti di Cordelia e rimane fermo
nella sua decisione. Una decisione che porterà ben presto ad eventi assolutamente tragici: le due figlie che
erano interessate esclusivamente ad appropriarsi del regno non hanno alcuna intenzione di consentire al
padre di mantenere la forma del potere.
Alla fine, Lear, in mezzo alla furia degli elementi che lo travolgono, Lear comprenderà l’errore che ha
commesso; egli impazzisce ma la sua follia diventa esattamente l’opposto, perché è nella sua follia, che lui
riesce a vedere la verità: l’egoismo delle figlie maggiori, e le ragioni del rifiuto di Cordilia di dichiarare il suo
amore davanti a tutti.
Tra i temi principali il primo tema è quello che si riferisce al sovrano, al ruolo del sovrano; King Lear è infatti
un re, che però sceglie di rinunciare alla sostanza del potere prima del tempo. Un ulteriore tema è quello
del rapporto genitori-figli ed il rapporto tra anziani-giovani; un rapporto che viene travisato, un rapporto in
cui l’ansia dei giovani, nel caso specifico di Edmund e Regana e Gonerilla, di subentrare ai vecchi per quanto
riguarda il potere. Poi ancora il tema del rapporto tra follia e ragione, così come quello del rapporto tra
cecità e capacità di vedere. Tali valori vengono praticamente invertiti: Lear diventa sano di mente, nel senso
che è in grado di comprendere che cosa è accaduto e quali sono le intenzioni vere delle figlie soltanto nel
momento in cui diventa pazzo nella scena della tempesta; per anto riguarda Gloster, acquista capacità di
vedere davvero la natura dei due figli e l’inganno che Edmund ha perpetrato ai suoi danni, soltanto quando
diventa cieco. Vi è dunque proprio un ribaltamento di quello che è il comune modo di percepire la follia e la
capacità di vedere.

Il king Lear di Shakespeare, così come praticamente tutte le opere shakespeariane è basato su delle fonti.
La straordinaria capacità di Shakespeare non è tanto quella di inventarsi di sana pianta delle storie, quanto
piuttosto quella di utilizzare dei materiali di vario genere, del tipo più disparato, e però di recuperare tali
materiali, di rielaborarli e di piegarli a quelle che sono le sue specifiche intenzioni ma anche la necessità
della rappresentazione teatrale. Nel caso specifico di King Lear, esisteva una tradizione consolidata che
faceva riferimento ad un re Leir, sovrano di un tempo non ben precisato e che rinuncia al potere dividendo
il regno tra le figlie. Shakespeare recupera questo dramma che apparteneva ad una tradizione precedente,
ma lo arricchisce di tutta una serie di elementi nuovi; egli soprattutto drammatizza, in maniera
assolutamente straordinaria quelli che sono degli elementi di un dibattito culturale che all’epoca era molto
vivace. Dibattito culturale che si riferiva da una parte al ruolo e alla funzione del sovrano, e dall’altra un
dibattito culturale che aveva a che fare con il rapporto intergenerazionale (padri e figlie).
Dunque, vi è appunto questa straordinaria capacità di Shakespeare di pescare da fonti diverse; nel caso
specifico da una parte vi è un’opera preesistente che non ci è arrivata, ma sappiamo che esisteva e che
trattava della vicenda che viene ripresa da Shakespeare; d’altra parte, Shakespeare recupera elementi dai
contesti più disparati. In qualche modo la storia di Cordilia che viene rifiutata e che si ritrova da sola, anche
se poi il suo valore morale viene riconosciuto, in qualche modo si riallaccia alla storia della fanciulla
bistrattata che però è fondamentalmente buona che viene riconosciuta per quello che vale che è alla base
del mito di Cinderella. In altri casi, Shakespeare utilizza in maniera molto libera delle fonti a carattere
storico oppure ancora utilizza delle fonti che appartengono a contesti letterari altri. Per esempio, con la
storia di Romeo and Juliet, alla base c’è sia una delle novelle del Bandello, sia una novello di Da Pozzo, due
autori italiani che avevano scritto delle raccolte di novelle che hanno in Inghilterra una certa diffusione.
Anche in tal caso Shakespeare utilizza elementi base della vicenda per poi drammatizzare in maniera
straordinaria.
Oppure ancora, Shakespeare utilizza quelle che sono le vicende della storia romana; in particolare recupera
personaggi che erano stati trattati da Plutarco nelle sue “vite parallele”. L’opera di Plutarco era stata

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tradotta in inglese e c’era una tradizione consolidata che faceva riferimento ai grandi episodi della storia
romana e che con la traduzione si arricchisce di altri elementi.
Shakespeare pesca anche da quelle che sono le tradizioni popolari e il folklore; per esempio, recupera il
ruolo delle creature magiche secondo le tradizioni popolari e lo fa in tanti dei suoi romances.
La grandezza di Shakespeare sta nella enorme varietà di tipologie drammatiche che riesce ad usare in
maniera assolutamente straordinaria, ma anche nella sua straordinaria capacità di servirsi in maniera molto
libera, per quelli che sono i suoi fini, di una serie di fonti preesistenti.

Shakespeare nasce presumibilmente nel 1564. Da una parte vi sono delle incertezze riguardo alla vita di
Shakespeare, che sicuramente è decisamente molto più priva di eventi importanti, particolarmente
conosciuti come avviene invece nel caso di altri autori.
Sembrerebbe piuttosto una vita, quella di Shakespeare, sotto molti aspetti, decisamente meno
movimentata di quella di Malory, Marlowe, ma anche decisamente meno movimentata per esempio della
prima parte della vita di Ben Johnson che ha una giovinezza abbastanza turbolenta.
Abbiamo comunque una serie di documenti, non legati alla nascita, quanto relativi al battesimo. Siccome il
battesimo del nuovo nato poteva essere fatto nei giorni immediatamente successivi alla nascita, oppure
dopo qualche mese, abbiamo certezza della data del battesimo ma non è altrettanto certa la data di
nascita.
Sappiamo inoltre, in quanto vi sono dei documenti a riguardo, che nasce a Stratford-upon-Avon, che veniva
da una famiglia tutto sommato abbastanza benestante. Il padre faceva parte della corporazione dei gloves,
cioè di coloro i quali fabbricavano guanti; sappiamo anche che a soli 18 anni si sposa. Si sposerà con una
donna che apparteneva probabilmente ad una famiglia che aveva una posizione di un certo prestigio: Anne
Hathawey. Da questa ragazza che ha 8 anni più del giovane Shakespeare, egli avrà tre figli. Egli rimane a
Stratford dopo il matrimonio per alcuni anni, ma ad un certo punto Shakespeare ritiene di dover cercare la
sua strada altrove. Stratford non gli offre grandi possibilità, probabilmente anche l’appoggio finanziario
delle famiglie non è più sufficiente per mantenere il proprio nucleo familiare ed ecco che si trasferisce nella
capitale (mentre la famiglia rimane a Stratford-upon-Avon). Ritornerà nuovamente a Stratford di tanto in
tanto, e quando si ritirerà dalle scene, per gli anni che gli rimangono da vivere, lì rimarrà stabilmente.
Giunto a Londra, egli comincia a frequentare gli ambienti del teatro. Quello che sappiamo per certo è che
egli comincia la sua carriera nei teatri come attore: dalle testimonianze che ci sono arrivate, sembrerebbe
essere stato un attore abbastanza decente.
Il periodo che Shakespeare trascorre a Londra lavorando come attore, non soltanto lo mette a contatto
diretto con il mondo nel quale ambiva ad entrare, ma gli dà anche la possibilità di rendersi conto
direttamente in prima persona di quelli che sono i meccanismi che regolano il fatto teatrale in quanto tale;
questo gli tornerà straordinariamente utile nel momento in cui alla attività di attore comincia ad affiancare
quella di autore di testi per le compagnie per le quali lavora.
Il successo che ottiene come autore di testi farà sì che Shakespeare abbandoni totalmente la carriera di
attore per dedicarsi praticamente in esclusiva a quella di drammaturgo. Comincia come drammaturgo a
farsi notare e a far suscitare l’invidia di autori rivali. Il periodo elisabettiano per quanto riguarda il teatro,
come detto precedentemente, è un periodo straordinariamente ricco, un periodo in cui davvero abbiamo
un fiorire di attività teatrali ma anche un numero molto alto di autori che scrivono per il teatro. L’arrivo di
questo provinciale nella capitale ed il fatto che cominci a scrivere, suscita l’invidia dei rivali; in particolare
Greene il quale parla di un qualcuno arrivato dalla provincia che si fa bello rivestendosi delle piume di
uccelli nobili che con lui non hanno niente a che vedere e che oltretutto pensa di poter scuotere le scene
con le sue produzioni (Greene definisce Shakespeare uno Shake- Seen: qualcuno che scuote le scene o

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pensa di poterle scuotere con la sua produzione mettendo dentro un po' di tutto, però secondo Greene
facendosi bello in pratica con le piume del pavone e quindi facendosi bello con fatiche che non sono sue
scopiazzando a destra e a manca). Tutta la storia di Shakespeare come individuo presenta delle zone
d’ombra, ma ancora di più presenta zone d’ombra la storia di Shakespeare come autore: da più parti, data
la straordinaria varietà della produzione shakespeariana, è stato messo in dubbio che Shakespeare sia
davvero l’autore delle opere che gli vengono attribuite. Sono state fatte delle ipotesi, ipotesi che però non
sono suffragate da una documentazione certa. William Shakespeare come persona fisica continua a
coincidere con William Shakespeare autore di un insieme di opere che sono straordinarie. Però, proprio per
la straordinaria varietà, ma anche per la qualità delle opere attribuite a William Shakespeare da una
tradizione ormai consolidata, c’è stato chi ha voluto metterne in dubbio la paternità. Tra le varie ipotesi,
che in realtà l’autore di almeno parte delle opere di Shakespeare potesse essere stato forse Marlowe, o
altri autori o oppure ancora qualche aristocratico, in particolare il conte di Southampton che fu il protettore
dello stesso Shakespeare. Egli, in quanto aristocratico, non poteva esporsi pubblicamente e quindi, secondo
questa interpretazione, Shakespeare sarebbe stato fondamentalmente un presta-nome. Si tratta comunque
di ipotesi, che non sono suffragate da una documentazione che consenta di dire che le cose stanno davvero
così.
A proposito di queste varie ipotesi, una delle ipotesi è legata al fatto che in realtà Shakespeare non sarebbe
stato il William Shakespeare nato a Stratford-upon-Avon ma piuttosto un immigrato italiano. Secondo una
di queste ipotesi, sarebbe stato un siciliano, forse messinese o forse originario del siracusano il cui nome
era originariamente “Crollalanza”; crollare significa anche scrollare cioè scuotere, dunque da qui “Shake”,
mentre Lanza cioè lancia sarebbe “Speare”. Pertanto, secondo questa ipotesi, che per quanto suggestiva,
non ha trovato riscontri effettivi, William Shakespeare sarebbe stato un tale Guglielmo Crollalanza emigrato
dalla Sicilia in Inghilterra. Secondo altre ipotesi sarebbe stato John Florio, o meglio uno dei suoi figli, ossia
un altro italiano emigrato a Londra.
Greene, dunque, nella sua critica a questa nuova figura che si muove nel teatro inglese, lo definisce Shake
Seen cioè anche lui gioca sul cognome di Shakespeare, vale a dire colui che scuote la scena ritenendosi
abile. A parlare nel caso di Greene era evidentemente l’invidia per il successo che questo provinciale,
arrivato a Londra, stava evidentemente riscuotendo.
Shakespeare, diventato il drammaturgo ufficiale dei Lord Chamberlaine’s man, la compagnia che poi
diventerà con l’avvento di Giacomo I la compagnia dei King’s men. In ogni caso, Shakespeare drammaturgo,
ha un tale successo che potrà permettersi di diventare “shareholder”, azionista dunque potrà condividere
in maniera significativa quelli che sono i guadagni della compagnia, non come attore, ma come autore dei
drammi. Successivamente diventerà co-proprietario del Globe, un teatro che viene costruito
appositamente per consentire le rappresentazioni delle compagnie di attori per cui Shakespeare scrive i
drammi.
Le opere di Shakespeare verranno rappresentate sia al Globe sia al Black Friars, un altro teatro che era un
teatro privato in cui i drammi di Shakespeare finirono per essere messi in scena quando al Globe la
rappresentazione non era possibile.
Ci sono altri elementi che vanno messi in evidenza per quanto riguarda la produzione di Shakespeare, cioè il
fatto che per quanto riguarda i drammi non abbiamo delle edizioni che siano state direttamente curate o
pubblicate da Shakespeare. Egli, così come tanti altri drammaturghi del suo tempo, non si preoccupa di far
pubblicare i suoi drammi: essa avverrà soltanto dopo la sua morte. Non è l’unico drammaturgo
elisabettiano che sceglie questa strada ma sicuramente è il più importante.
Egli non si preoccupa di far pubblicare i suoi drammi per varie ragioni: la prima ragione è che la produzione
per il teatro veniva considerata di secondo ordine, non era considerata letteratura degna di questo nome;
conseguentemente Shakespeare, che è anche autore di diversi poemetti si preoccuperà, dopo averli scritti,

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di curare personalmente la pubblicazione di due poemetti d’argomento mitologico e leggendario come
“Venus and Adonis” (che riprende il mito di Venere e Adone) e “The rape of Lucrece” che riprende la storia
della virtuosa Lucrezia, la quale viene violata dal figlio dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo ed invece
di tacere la vergogna denuncia davanti al Senato lo stupro di cui è stata vittima e poi si uccide proprio per
salvaguardare il suo onore; il suo gesto determinerà la rivolta dei senatori e del popolo romano contro il re,
dunque da lì con la guida di uno dei senatori anziani, Lucio Giunio Bruto, avrà inizio la Repubblica. Di queste
due opere, di un certo valore anche se si tratta di opere meno note, Shakespeare si preoccupa di curare la
pubblicazione. Per ragioni diverse egli non si occuperà neanche di curare la rappresentazione dei sonetti
che scrive in quantità notevole a formare un Canzoniere di 144 sonetti.
La pubblicazione di queste opere citate avrà luogo soltanto alcuni anni dopo la morte di Shakespeare, nel
1623 ad opera di due ex attori della compagnia che presentano l’operazione come un doveroso atto
d’omaggio nei confronti di questo drammaturgo straordinario.
Un’ulteriore ragione per cui le opere non furono da lui pubblicate è una ragione molto pratica: non
esistevano all’epoca i diritti d’autore come li conosciamo oggi, ma al massimo venivano garantiti i diritti
dello stampatore. Conseguentemente stampare le proprie opere avrebbe significato mettere quelle opere a
disposizione della concorrenza quindi di compagnie di rivali che già si davano parecchio da fare per potere
mettere le mani su drammi che riscuotevano un certo successo (era una prassi abbastanza diffusa che
quando si annunciava l’uscita di una nuova opera tra il pubblico che andava ad assistere ci fossero delle
vere e proprie spie che annotavano le battute tentando di ricostruire il testo)

Per quel che riguarda il canone shakespeariano, innanzitutto occorre precisare la nozione di canone. Il
canone, originariamente una parola greca, indicava uno strumento che serviva per definire in maniera certa
quelle che erano le proporzioni di un qualcosa. Successivamente, il significato di canone viene esteso fino
ad indicare una lista od un catalogo di qualcosa (elementi caratterizzanti di un oggetto, di un tipo).
Successivamente ancora comincia ad essere applicato per indicare quella lista di libri della Bibbia ebraica e
del Nuovo testamento che le autorità ecclesiastiche avevano indicato come le sacre scritture autentiche.
Poi ancora, il termine canone venne utilizzato per indicare la lista di opere secolari accettate dagli esperti
come autenticamente scritte da uno specifico autore.
Pertanto, quando parliamo di canone shakespeariano intendiamo l’insieme delle opere che una tradizione
critica consolidata attribuisce a Shakespeare.
In epoca più recente, l’espressione canone letterario è arrivata a designare nella letteratura mondiale, nella
letteratura europea, ma più frequentemente nella letteratura nazionale, quegli autori che tramite il
consenso congiunto di critici, studiosi e persone informate, sono arrivati ad essere ampiamente riconosciuti
come autori maggiori, cioè autori che hanno scritto opere accolte come classici letterari. Ecco allora che
possiamo parlare di un canone della letteratura europea, canone della letteratura italiana, inglese, di
canone del romanticismo inglese, e così via.

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LEZIONE 15
6/11/2020
Come detto nella lezione precedente, il First Folio, che raccoglie la produzione teatrale di Shakespeare,
comprende 36 opere. In realtà, se parliamo di opere teatrali, a Shakespeare ne sono attribuite 38 (2 non
sarebbero state inserite nel First Folio forse perché considerate minori oppure perché c’erano problemi di
diritti). Insomma, la produzione complessiva di Shakespeare è stata riconosciuta dagli studiosi
shakespeariani in 38 opere, mentre il First Folio ne contiene 36. Vi è dunque un problema per quanto
riguarda la collocazione temporale di tali opere: sono stati fatti degli studi, che, incrociando anche dati di
provenienza diversa, hanno determinato quello che a questo punto viene considerato l’ordine più probabile
di queste opere shakespeariane.
Come possiamo ripartire questo canone? Possiamo seguire modalità differenti, cioè possiamo raggrupparle
per tipologia, oppure, ed è questa la ripartizione più semplice, seguire l’ordine cronologico e parlare nella
produzione di Shakespeare di fasi. Tali fasi sono state determinate da E.K.Chambers e sono state
determinate in quattro diversi periodi: il primo periodo è quello che viene definito dell’apprendistato (in
realtà ci sono altri studiosi che non parlano di quattro fasi ma preferiscono parlare di cinque fasi). Tale fase
andrebbe dal 1590-91 fino al 1596: è quella in cui, il drammaturgo, che sta ancora inizialmente lavorando
come attore, si comincia a muovere sulla scena teatrale londinese, producendosi nella produzione di
drammi. Cominciamo ad avere in questa fase i primi che andranno a costituire i Chronicle o History plays,
cioè quelle opere che riprendono, modificandole per fini legati alla celebrazioni della dinastia Tudor,
momenti particolarmente importanti della storia recente dell’Inghilterra. In particolare, riprendendo le
Chronicles di Holinshed, Shakespeare utilizza il materiale di partenza per contribuire alla costruzione del
mito della dinastia Tudor. A questa prima fase appartengono anche alcune commedie romantiche, ma
anche commedie degli errori, perché quello che avviene è uno scambio dei personaggi che è un po’ una
ripresa di certi elementi della commedia degli errori di tradizione latina.
In questa fase abbiamo anche l’opera “Titus Andronicus”, una tragedia che è ambientata a Roma, ma non
fa parte del gruppo dei Roman Plays, bensì riprende quelli che sono gli elementi tipici della tragedia di
vendetta così come era stata prodotta in parte da Keats e poi da Marlowe, che è a tutti gli effetti in questa
prima fase il grande rivale di Shakespeare per quanto riguarda il successo nel contesto del teatro. A questa
prima fase appartiene anche un’altra opera straordinaria: Romeo and Juliet.

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Essa è tra le opere più note di Shakespeare, che è stata anche abbondantemente ripresa anche in epoca
moderna, a cui sono stati fatti una serie di rifacimenti nelle ambientazioni e con un articolazione diversa
rispetto all’originale.

Romeo and Juliet è un’opera “giovanile” in quanto appartiene a tale prima fase che è ancora la fase di
apprendistato dell’autore. È comunque un’opera straordinaria perché presenta tutta una serie di elementi
di novità che tra l’altro rendono anche difficile classificarla: fino al terzo atto decisamente ha tutte le
caratteristiche della commedia; commedia che in qualche punto, in particolare con gli interventi della
nutrice e di altri personaggi minori sembra addirittura quasi diventare una farsa; contemporaneamente
però, la conclusione di quest’opera è una conclusione tragica dunque andiamo nella direzione della
tragedia; allo stesso tempo, quest’opera presenta una celebrazione dell’amore e dunque andiamo
nell’ambito del romance. Come allora definire Romeo and Juliet? La definizione che sembrerebbe essere
più appropriata, date le caratteristiche complessive dell’opera, è che si tratti di una tragedia lirica: tragedia
proprio in relazione alla conclusione tragica (i due giovani protagonisti della vicenda muoiono entrambi
suicidi; in conseguenza di un fraintendimento Romeo crede che Juliet sia morta quando la trova nel
sepolcro mentre invece Juliet è soltanto in uno stato di morte apparente; quando Juliet a sua volta si
risveglierà dentro il sepolcro e vedrà accanto a sé Romeo morto, si suicida. È una tragedia anche per
l’impossibilità di portare avanti quella che è la loro storia d’amore, dalle incomprensioni degli anziani nei
confronti delle esigenze dei sentimenti dei giovani, e dalle ostilità che le famiglie dei due giovani continuano
a mettere in atto indifferenti al fatto che questo porta scompiglio nella città di Verona e determina
l’infelicità dei figli); è una tragedia lirica in quanto vi è la celebrazione di un amore giovane puro, una
celebrazione che avviene da parte di Shakespeare sì utilizzando un po’ quello che era il linguaggio
convenzionale della poesia amorosa, ma è un linguaggio in apparenza convenzionale che Shakespeare
riesce a rinnovare arricchendolo con tutta una serie di metafore che sono assolutamente straordinarie e
esulano da quelle che erano le modalità più convenzionali della tradizione della poesia amorosa. Quindi
definizione più appropriata dell’opera è proprio quella di tragedia lirica.

La fase successiva è quella che va dal 1596 fino al 1600, che è una fase che comprende altri Chronicle Plays
(più maturi rispetto a quelli della prima fase) e poi ancora delle commedie che sono a tutti gli affetti
commedie amorose. In questa fase, le opere più importanti che possiamo individuare sono “King Jhon”, ma
anche la prima e la seconda parte dell’“Henry IV” in cui ci troviamo davanti alla rappresentazione del
principe Hal e del suo amico Falstaff; in quest’opera, la vicenda che tocca il personaggio di alto lignaggio il
principe Hal, va in qualche modo di pari passo con la vicenda del suo amico Falstaff che è tutta una vicenda
che si muove in quelli che sono i bassi fondi; dunque c’è questa unione delle vicende che toccano l’alto (che
vede come protagonista il principe Hal, che si abbassa a vivere una serie di avventure legate ai piaceri della
carne) e il basso.
Sempre nella seconda fase si colloca “The merchant of Venice”, ma anche un’opera importante come il
“Julius Caesar”, che rientra nel gruppo dei Roman plays. [il gruppo dei Roman plays che comprende il Julius
Caesar, Antony and Cleopatra, e Coriolanus, è in buona misura mediato per quanto riguarda l’utilizzo delle
fonti dalla traduzione inglese delle Vite Parallele di Plutarco, fermo restando però che a Shakespeare non
interessa mettere in scena la vicenda di questi grandi personaggi, ma interessa a lui piuttosto trasformare in
materia drammatica una serie di eventi, di figure anche conosciute che mettano in risalto le cosiddette
“roman virtus”, le virtù romane].
La terza fase va dal 1600 al 1608; all’interno di quest’opera abbiamo una delle più grandi opere: le Great
Tragedies e le cosiddette Dark comedies, cioè delle commedie in cui ci sono degli elementi che non sono

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del tutto positivi e preludono ad una conclusione che non è sempre quello positivo che ci si aspetterebbe
da una commedia. In questo gruppo rientrano “Amlet”, ma anche, tra le dark comedies, “The Merry Wives
of Windsor”, le allegre comari di Windsor, che vede come protagonista quel Falstaff che era stato un
personaggio tutt’altro che secondario nei Chronicle plays che avevano visto come fulcro le avventure del
principe Hal. È in Merry wives of Windsor che vediamo Falstaff come protagonista assoluto ma
praticamente le sue malefatte, i suoi tentativi di imbrogliare coloro con i quali si trova a che fare, il suo
tentativo di godere delle grazie delle diverse signore di Windsor si conclude per lui in maniera non positiva.
Sempre in questa fase e nel gruppo delle great tragedies dobbiamo menzionare “l’Otello”, ambientato a
Venezia e a Cipro: il generale Moro che ha combattuto per Venezia è un uomo valoroso, un uomo
coraggioso, anziano che si innamora ricambiato della bella Desdemona, la giovane e bellissima figlia di una
bellissima di una famiglia aristocratica veneziana. Il generale la sposa, portandola a Cipro, contro il parere
della famiglia di lei ma suscitando anche l’invidia di individui che sono tanto inferiori a lui e che provocano
la sua gelosia portandolo a uccidere e a soffocare la bella Desdemona perché gli fanno credere che lei lo
abbia tradito. Anche questa tragedia si concluderà poi, non solo con la morte di Desdemona ma anche con
la morte dello stesso Otello che rimane travolto dalla gravità del gesto che ha compiuto.
Sempre nel gruppo delle grandi tragedie che Shakespeare produce nella terza fase, occorre citare il King
Lear, già citato in precedenza, ed il Macbeth. Sono parte integrante di questa terza fase anche l’”Antony
and Cleopatra” e “Coriolanus”, cioè le altre due grandi opere che rientrano nella categoria dei Roman plays.
“Coriolanus” è la storia del generale romano il quale ritiene che i suoi meriti non vengano adeguatamente
riconosciuti dai senatori di Roma ed ecco che allora abbandona Roma e viene accolto dai Volsci, che sono
una popolazione ostile a Roma; la madre e la moglie di Coriolano andranno allora a pregare il figlio, che si è
messo a capo dell’esercito dei Volsci, implorandolo di ripensarci, di mantenere quella che è la sua fedeltà a
Roma. Ecco allora che Coriolano, ritornerà sulla propria decisione ma ovviamente questo comporta un
prezzo altissimo da pagare, un prezzo che peraltro Coriolano è perfettamente consapevole nel momento in
cui dice ai Volsci che non sarà più il capo del loro esercito: sarà dunque sottoposto ad un supplizio terribile,
rinchiuso dentro una botte piena di chiodi e fatto rotolare lungo una collina. Quello che interessa a
Shakespeare, qui come nel Julius Caesar è affermare quella che per gli elisabettiani era l’idea stessa delle
virtù romane, che per loro si identificavano con il modo di essere e di vivere dell’antica Roma e che sono
fondamentalmente l’onore, il senso di appartenenza e di fedeltà alla patria, la capacità di sacrificare la
propria vita per salvaguardare onore e patria.
L’altra opera che rientra in questa fase della produzione di Shakespeare e che appartiene al gruppo dei
Roman plays è l’Antony and Cleopatra, dove Shakespeare mette in scena quella che è l’ultima fase della
storia di Antonio e Cleopatra. È una storia assolutamente straordinaria in cui Shakespeare dimostra di
sapere utilizzare una tradizione già consolidata, dimostra di sapere utilizzare la fonte, però, dal momento
che lui è un drammaturgo, ciò che gli interessa è mettere in evidenza due opposte concezioni della vita.
Non rispetta assolutamente in nessuna delle sue opere le unità aristoteliche, ma qui, la cosa diventa ancora
più evidente: per esempio per quanto riguarda il luogo, quest’opera si orienta alternativamente ad
Alessandria d’Egitto, la capitale del regno di Cleopatra, e Roma; non solo, rispetto alla fonte, gli eventi che
vengono drammatizzati da Shakespeare, vengono condensati in un arco temporale che è molto più breve
(pochi giorni rispetto a quanto invece vi è nella fonte storica); Shakespeare inventa anche, non solo
situazioni particolari che mettono in evidenza le qualità straordinarie della regina Cleopatra, ma nello
stesso tempo, anche i suoi limiti, i suoi capricci rispetto ad Antonio che la ama appassionatamente, ma
anche una figura particolare che è quella di Enobarbo, che non esiste nella versione plutarchiana e neanche
nella tradizione. È ad Enobarbo, che è uno dei membri della corte di Cleopatra, che Shakespeare affida il
compito di celebrare la figura straordinaria di Cleopatra e la capacità di Cleopatra di mettersi in scena.
Nell’Antonio e Cleopatra vi è dunque una dimensione meta teatrale che è fortissima e che ritroviamo in

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diversi livelli di quest’opera; uno di questi livelli è dato dalla narrazione di Enobarbo: egli racconta per
esempio con un linguaggio estremamente ricco, quello che è il viaggio che Antonio e Cleopatra compiono
sull’imbarcazione reale lungo il corso del Nilo.
All’interno di quest’opera vi è anche la rappresentazione che Cleopatra fa di sé mettendo letteralmente in
scena sia il proprio trionfo, sia la propria morte.
Andando poi alla quarta fase, dunque l’ultima fase della produzione teatrale di Shakespeare, è quella che va
dal 1608-9 fino al 1613, l’anno in cui Shakespeare si ritira dalle scene, lascia Londra, lascia il teatro e torna a
Stratford-upon-Avon dove morirà pochi anni dopo. In quest’ultima fase vi sono i cosiddetti “romances” vale
a dire delle commedie amorose dove molto forte è anche l’elemento fantastico.
Appartengono a questa fase opere come Pericles, The Winter’s Tale, Cymbeline, The Two Noble Kinsmen,
ma anche The tempest. Quest’ultima è stata da alcuni critici considerata a tutti gli effetti come l’ultima
opera scritta da Shakespeare; poi, in realtà, questa ipotesi è stata contestata da altri studiosi shakespeariani
che l’hanno individuata come sicuramente appartenente all’ultima fase della produzione di Shakespeare,
ma non l’ultima opera in assoluto.
In ogni caso, ciò che è interessante vedere in The tempest, è che vi è una identificazione assoluta tra il
protagonista della vicenda, Prospero, il duca di Milano, che è stato tradito dal fratello Antonio, il quale ha
cercato letteralmente di farlo uccidere insieme alla figlia Miranda, l’erede del ducato in caso di morte di
Prospero. Prospero e Miranda si salveranno, in quanto troveranno rifugio sull’isola su cui si svolge la
vicenda. Dunque, ciò che è interessante vedere è che in The tempest vi sia una identificazione assoluta tra il
protagonista, che viene presentato come il mago, colui il quale si è dedicato allo studio della magia bianca
(basata sulla conoscenza della natura), colui che è capace di evocare delle creature magiche, in quanto egli
diventa una sorta di alter-ego del drammaturgo, perché così come Prospero è capace di creare illusione con
il potere della magia e con l’aiuto delle creature magiche che sono al suo servizio, anche il drammaturgo è
in grado di creare mondi con il potere magico della parola. Così come Prospero è in grado di fare muovere i
personaggi che si trovano sull’isola, secondo il suo volere, allo stesso modo, il drammaturgo costruisce con
la sua immaginazione creativa vicende e fa muovere i personaggi secondo il suo volere. Alla fine dell’opera,
nell’epilogo, l’identificazione tra Shakespeare e il mago, diventa ancora più evidente, in quanto così come
Prospero ha rinunciato alla magia, anche il drammaturgo, che ha sperimentato tutte le possibili forme di
spettacolo teatrale, se ne è impadronito, le conosce e ne fa una rapida rassegna, è pronto per abbandonare
le scene.
Dunque, in parte per questa identificazione, in parte per i plays within the plays che sono presenti
all’interno di The tempest, essa è probabilmente in assoluto l’opera in cui la dimensione meta teatrale è più
forte.

Ritornando sul concetto di canone shakespeariano, il canone dunque si compone del corpus enorme e
straordinario della sua produzione teatrale, i due poemetti d’argomento classico e mitologico, ma
comprende anche quelli che sono i sonetti che compongono un canzoniere.
Questo canzoniere, in realtà non nasce come canzoniere: ciò che sappiamo per certo è che Shakespeare
scrisse i 154 sonetti, in un arco temporale abbastanza lungo, man non definito (presumibilmente tra il 1593
e il 1599). L’ipotesi più accreditata è che lui abbia scritto buona parte di questi sonetti, in particolare nei
periodi in cui l’attività teatrale non poteva svolgersi (è un periodo in cui vi sono delle fasi di chiusura dei
teatri in conseguenza delle epidemie di peste).
Le ragioni per cui Shakespeare non raccoglie i sonetti in un canzoniere e non ne cura in prima persona la
pubblicazione sono diverse: per i testi teatrali erano delle ragioni puramente pratiche (sarebbe stato un
dispendio economico mettere a disposizione i suoi testi di compagnie rivali), per i sonetti la ragione è che

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sono delle composizione che pertengono più a quella che è la sfera privata dell’autore e li concepisce
piuttosto come destinati ad una circolazione limitata all’interno di una cerchia molto ristretta.
Ciò che succede però, è che questi sonetti, che comunque sono particolarmente apprezzati e quindi si
diffondono, verranno raccolti da Thomas Thorpe, un editore il quale li stamperà tutti insieme, senza però
che questa operazione sia stata autorizzata da Shakespeare (anche se Shakespeare è ancora vivo ed attivo).
Non sarà lui però a dare l’autorizzazione per la stampa dei suoi sonetti, non sarà lui a rivederli per la
pubblicazione; anche questo ha determinato dei problemi che gli studiosi di Shakespeare hanno cercato di
risolvere.
Anche per quanto riguarda la loro successione in termini cronologici non abbiamo delle certezze; diciamo
però che l’ordine che a questi sonetti è stato dato, sulla base di riscontri di specialisti, è un ordine che viene
considerato come quello più corretto.
Per quanto riguarda altre questioni legate al canzoniere, il destinatario dei sonetti è un individuo
sicuramente di alto rango, indicato soltanto con le iniziali: W. H. l’ipotesi più probabile è che il destinatario
dei sonetti dovesse essere il conte di Southampton, il quale era un giovane aristocratico di grande cultura,
amante delle arti, del teatro, della poesia ed era uno dei protettori di Shakespeare. Proprio il dedicatario,
che dovrebbe coincidere con il personaggio del “Fair Youth”, il bel giovane, potrebbe indicare il conte di
Southampton.

Andiamo ad analizzare alcuni dei sonetti:

SONNET 18
Shall I compare thee to a summer's day? Chi devo paragonare ad un giorno d’estate? Tu
Thou art more lovely and more temperate: sei più bello e più temperato di un giorno
Rough winds do shake the darling buds of May, d’estate: venti rozzi (impetuosi) scuotono i
And Summer's lease hath all too short a date: teneri germogli di maggio, e il tempo
Sometime too hot the eye of heaven shines, dell’estate ha una durata troppo breve: a volte
And often is his gold complexion dimm’d, l’occhio del cielo (il sole) risplende troppo
And every fair from fair sometime declines, ardente, e spesso la sua carnagione dorata (il
By chance, or nature's changing course untrimm’d: colore) è oscurato, e ogni cosa bella dalla
But thy eternal Summer shall not fade, bellezza prima o poi declina, scompigliata dal
Nor lose possession of that fair thou ow'st, caso, oppure dal corso mutevole della natura:
Nor shall Death brag thou wander'st in his shade, ma la tua estate eterna non svanirà, né
When in eternal lines to time thou grow'st, perderà il possesso della bellezza che tu
So long as men can breathe, or eyes can see, possiedi, né la morte si vanterà che tu vaghi
So long lives this, and this gives life to thee. nella sua ombra, quando tu crescerai per
l’eternità in versi eterni, fino a che gli uomini
potranno respirare, o occhi potranno vedere,
fino ad allora vivrà questo (il sonetto) e questo
dà a te la vita.

Analizzando la struttura formale del sonetto, già la disposizione dei versi, ci fa vedere come c’è un distico
finale, un gruppo di due versi che rimano tra loro. Andando a guardare gli altri 12 versi, vediamo che sono

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organizzati in tre quartine in cui si presenta una successione di rime: abab cdcd efef. Il sonetto segue
dunque la tipica struttura del sonetto elisabettiano, cioè tre quartine e un distico finale.
Tra la prima parte del sonetto e la seconda parte c’è una contrapposizione tra il Fair Youth e quanto è bello
nella natura: quanto è bello nella natura è destinato con il tempo a vedere scemare questa bellezza fino a
perderla; mentre invece l’estate eterna e la bellezza del Fair Youth sono destinate a non svanire perché
persino la morte sarà sconfitta dal fatto che la bellezza del Fair Youth è celebrata da versi che sono destinati
a rimanere.
Dunque, quello che celebra il Sonnet 18, è sì la bellezza del Fair Youth ma soprattutto, ad essere celebrato è
il potere eternatore della poesia; la poesia è l’arte che può rendere eterna la bellezza del Fair Youth. Si noti
che quando parliamo di bellezza chiaramente non si intende esclusivamente la bellezza fisica ma qualcosa
di molto più complesso.

SONNET 30 Quando alle adunanze dei dolci pensieri silenti


When to the sessions of sweet silent thought io convoco ricordi di cose passate, io sospiro
I summon up remembrance of things past, per la mancanza di molte cose che ho cercato,
I sigh the lack of many a thing I sought, e con le vecchie sventure di nuovo lamento lo
And with old woes new wail my dear time's waste: spreco del mio caro tempo: allora posso
Then can I drown an eye, unused to flow, inondare un occhio, che non è solito fare
For precious friends hid in death's dateless night, scorrere, e piangere di nuovo pene d’amore da
And weep afresh love's long since cancelled woe, lungo tempo cancellate, e lamentare di nuovo
And moan the expense of many a vanished sight: la perdita di molte visioni sparite: allora io
Then can I grieve at grievances foregone, posso dolermi per dolori trascorsi,
And heavily from woe to woe tell o'er E pesantemente di dolore in dolore posso
The sad account of fore-bemoaned moan, riraccontare il triste rendiconto di dolori già
Which I new pay as if not paid before. lamentati, che io patisco di nuovo come se non
But if the while I think on thee, dear friend, li avessi sofferti prima. Ma se nel frattempo io
All losses are restor'd and sorrows end. penso a te, caro amico, tutte le perdite sono
ripagate e i dolori finiscono.

I temi principali di questo sonetto sono legati al tempo, alla memoria, ma anche alla dimenticanza, la
perdita della memoria, alla morte di persone care. Tutti questi elementi negativi che tormentano la vita
dell’uomo in generale e quella del poeta in particolare, trovano una loro compensazione nel pensiero del
Dear friend. Dunque, è l’amicizia del Dear friend che è ancora viva nel presente, che può fare da
consolazione rispetto ai dolori, ai patimenti, alle sofferenze, sofferenze che quando vengono ricordate
vengono patite di nuovo, perché il ricordo della perdita riattualizza il dolore, riportandolo, tramite la
memoria, al presente. Dunque, da una parte vi è la sofferenza, il patimento, ma dall’altro lato però c’è il
potere consolatore dell’amicizia che ristora tutte le perdite e consola il poeta per quanto è perduto per
sempre.

Come detto precedentemente, a comporre il canzoniere di Shakespeare sono 154 sonetti, sonetti che
vedono al loro centro tre figure importanti: tra queste, tra le più fondamentali, quella del Fair Youth. Al Fair
Youth sono direttamente o indirettamente dedicati ben 136 dei 154 sonetti; vi è poi un gruppo abbastanza
significativo che si imperna sulla figura della Dark Lady of the Sonnets; due sonetti si imperniano sulla figura
del Rival poet che compare nei due sonetti ma ha un ruolo più secondario.

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Quali sono gli elementi di novità presentati dal Canzoniere? Intanto, rispetto alla tradizione sonettistica
consolidata, la figura principale non è una donna ma il Fair Youth, un uomo. Il rapporto d’amore che lega il
poeta al Fair Youth è un rapporto che è stato in vario modo discusso: il Fair Youth è oggetto d’interesse per
il poeta per le sue straordinarie qualità e virtù. Questo amore si identifica almeno in parte con quella che è
una concezione di amore nobile che prescinde dal sesso ma che si riferisce proprio alle qualità straordinarie
dell’oggetto di questo amore.
La Dark lady, che pure è una figura importante all’interno del canzoniere shakespeariano, è comunque una
figura subordinata rispetto al Fair youth: non solo, ma la Dark lady che è oggetto contemporaneamente
dell’amore per il Fair youth e almeno per un certo tempo dell’interesse anche amoroso del poeta, è
appunto una dark lady, una dama scura, bruna, laddove il dark si riferisce sia alla carnagione sia alla
capigliatura, sia alle sue caratteristiche personali. Ella, è tutt’altro che eterea, anzi è una figura femminile
molto carnale, che come tale viene celebrata.

LEZIONE 16
10/11/2020
Riprendiamo alcune delle caratteristiche del canzoniere shakespeariano: si tratta di una raccolta di 154
sonetti, che non nasce come una vera e propria raccolta. I sonetti vengono raccolti indipendentemente
dalla volontà di Shakespeare o in ogni caso l’autore non ne curerà la rappresentazione, in quanto
pubblicati, come detto precedentemente da Thomas Thorpe nel 1616. I sonetti vengono inoltre scritti in un
arco temporale abbastanza lungo, presumibilmente tra il 1593 e il 1599-1600; non abbiamo certezze per
quel che riguarda l’ordine originario in cui i sonetti sono stati scritti, proprio perché la raccolta è stata fatta
da Thomas Thorpe, il quale ha raccolto i sonetti che circolavano e li ha inseriti senza che l’ordine
corrispondesse necessariamente a quello di composizione. Uno dei problemi che gli studiosi si sono trovati
a dover risolvere è proprio quello che riguarda la successione dei sonetti.
Si tratta inoltre di sonetti in cui frequenti sono i temi dell’amore, dell’amicizia, della perdita, della memoria,
della morte, dei rapporti interpersonali, e poi ancora il tema legato al ruolo dell’arte, in particolare della
poesia, la quale ha una funzione eternatrice. Quello che in natura (e la natura è un altro dei temi importanti
del canzoniere) è destinato a scomparire, può essere invece reso eterno dal potere del verso, della parola e
della poesia.
Altro elemento di straordinaria novità nel canzoniere shakespeariano è che tali sonetti non ruotano attorno
ad una figura di una donna amata dal poeta ma piuttosto attorno al Fair Youth, un bel giovane, indicato
come dedicatario dei sonetti nell’edizione in Folio con le sole iniziali, il quale è stato identificato con il conte
di Southampton, uno dei protettori di Shakespeare ed amico. Sono in particolar modo celebrate le sue
virtù, che si riferiscono sia alla dimensione etica della vita del giovane, sia alla sua cultura, sia alle
straordinarie doti.

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Compare anche una figura femminile, ma è comunque un ruolo minore, più defilato, rispetto a quello del
Fair Youth: la Dark Lady of the Sonnets, la cosiddetta dama bruna. Come detto nella scorsa lezione, si tratta
di una figura dark, da intendersi sia in senso letterale che in senso metaforico: questa dama è infatti bruna
di capelli e di carnagione, ma è dark anche per le sue caratteristiche morali. La dark lady od the Sonnets è
tutt’altro che la giovane donna innocente e pura oggetto di un amore ideale, ma si rivela come un’amante
avida e sensuale, e il desiderio che suscita tra gli uomini che di lei si innamorano (e tra questi vi è anche il
poeta) è un desiderio che ha una dimensione sensuale molto forte. Non solo, la dark lady, piuttosto che
essere ispiratrice di nobili sentimenti nel Canzoniere viene da una parte celebrata come figura affascinante
ma d’altra parte è anche la causa dei contrasti tra il Fair youth e il poeta.
Sulla base dell’articolazione dei sonetti del canzoniere shakespeariano si è tracciata quella che potremmo
definire una sorta di storia d’amore complicata tra il Fair youth, la dark lady, e il poeta. La dark lady, infatti,
diventa l’oggetto di desiderio del poeta, ma lo diventa anche del Fair Youth e finisce con l’essere una soorta
di elemento di disturbo in quello che è il rapporto, che possiamo definire rapporto d’amore, tra il poeta e il
fair youth. In sostanza, la Dark lady sarebbe una sorta di terzo elemento in quello che potremmo definire
un triangolo amoroso.
Sempre nel canzoniere, abbiamo anche il personaggio del Rival poet, una figura assolutamente secondaria
rispetto alle altre due. Anche qui, non è indicato con chiarezza, sono stati fatti dei tentativi di
identificazione, e la ipotesi più probabile è che si tratti di Chapman, un poeta che l’autore percepisce come
suo rivale oltre che come un poeta che esprime delle critiche nei suoi confronti.
Il canzoniere è dunque a tutti gli effetti un’opera straordinaria, per la ricchezza del linguaggio di
Shakespeare, una imagerie assolutamente straordinaria, che riprende in parte le immagini e le metafore
che erano tipiche della tradizione sonettistica del momento, ma che vengono utilizzate in modo nuovo e
diverso, arricchendole ulteriormente.

Introduciamo adesso la figura di Ben Jonson; come detto precedentemente, nel periodo elisabettiano
abbiamo il fenomeno straordinario del teatro, che è molto ricco per quanto riguarda il numero di opere e
produzioni che vengono scritte e realizzate, ma c’è anche una straordinaria quantità e qualità di autori e
drammaturghi. Tra questi, non possiamo non citare la figura di Ben Jonson.
Egli, era di qualche anno più giovane di Shakespeare, all’incirca di otto anni più giovane, e che continuò a
scrivere per il teatro anche dopo che Shakespeare si era già ritirato dalle scene.
Ben Jonson è una figura sotto molti aspetti assolutamente unica nel contesto del teatro elisabettiano,
perché a differenza di altri autori del periodo, egli fu colui il quale si preoccupò in prima persona di
pubblicare l’edizione completa delle sue opere, comprese quelle teatrali.
Nel 1616, lo stesso anno in cui a cura di Thorbe usciva il canzoniere di Shakespeare, Ben Jonson pubblicò
con il titolo di “the Works”, quella che era la raccolta delle sue opere, sia poetiche che opere teatrali, scritte
fino a quel momento. È un edizione a stampa di cui Ben Jonson si preoccupa in prima persona,
assolutamente un eccezione per quel tempo.
Non dobbiamo infatti dimenticare che per quanto riguarda la produzione teatrale, la scrittura per il teatro
era considerata all’epoca non propriamente meritevole del titolo di letteratura, di produzione di grande
importanza artistica. Ben Jonson, dunque, costituisce un’eccezione perché pubblica, curandola in prima
persona, la raccolta delle sue opere, comprese quelle teatrali. Non solo, egli si dimostra pienamente
consapevole del valore della sua produzione, il quale, ripetutamente, viene ribadito, sia nelle introduzioni a
singole opere in qualche caso, sia in altri scritti in cui sottolinea non solo le caratteristiche delle sue opere
ma le mette anche a contrasto con opere di altro periodo. In particolare, se la prende con quella che era
stata la moda, soprattutto nello scorcio finale del Cinquecento, della Revenge Tragedy e menziona

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esplicitamente sia The Spanish Tragedy di Kyd, come anche il Titus Andronicus di Shakespeare, accusandole
di fare un teatro ormai apparentemente superato, che appartiene a tempi passati. Egli attacca anche con
quella che lui considera una commistione deleteria di alto e basso, che vede come caratteristica di tante
altre opere contemporanee.
Ben Jonson, sembrerebbe che sia un nemico di Shakespeare, ma non è esattamente così; in realtà, Ben
Jonson, almeno per un certo periodo, non soltanto fu conoscente ed amico di Shakespeare, ma addirittura i
due collaborarono ed almeno in un’opera di Ben Jonson sappiamo Shakespeare partecipò alla messa in
scena perché ebbe un ruolo abbastanza importante come attore.
Tuttavia, Ben Jonson, rispetto a Shakespeare e tanti altri autori del periodo elisabettiano, tiene a
sottolineare quella che è la sua formazione classica. È una formazione particolarmente solida quella che egli
ebbe, attraverso le lezioni di uno dei più noti classicisti dell’epoca. La sottolineerà più volte, sia per quanto
riguarda la sua produzione poetica, sia per quanto riguarda la sua produzione teatrale.
Per quanto riguarda il teatro, tra l’altro, mentre la stragrande maggioranza degli autori elisabettiani, non si
preoccupano affatto di rispettare minimamente le cosiddette unità aristoteliche, Ben Jonson se ne fa un
punto d’onore. Dunque, nella sua produzione, le unità aristoteliche, in particolare quella di luogo e quella di
azione, sono sempre rispettate (anche se a volte c’è qualche piccola deroga per quanto riguarda il rispetto
dell’unità di tempo).
Andando a vedere il percorso di Ben Jonson, egli ebbe una giovinezza abbastanza movimentata. Ben
Johnson proveniva da una solida famiglia borghese (il padre era una sorta di mastro carpentiere), tanto che
Ben ebbe la possibilità di studiare con dei tutori di grande importanza e di grande cultura e di approfondire
la conoscenza delle opere classiche. Poi però, Ben Jonson si arruolò nell’esercito, andando a combattere
nelle Fiandre e quando ritornò si inserì in quello che era il mondo del teatro cominciando il suo percorso di
avvicinamento al teatro come attore e soltanto successivamente si dedicò alla scrittura di testi.
Egli ebbe una giovinezza abbastanza movimentata perché pare che Ben Jonson non fosse una persona
molto tranquilla in quanto nel corso di una lite violenta pare che uccise un attore rivale, per cui rischiò di
essere incarcerato; successivamente andò in prigione per un primo periodo perché aveva in una delle sue
opere, fatto esprimere ad uno dei personaggi delle critiche nei confronti della Scozia, proprio nel momento
in cui al trono d’Inghilterra era salito Giacomo I di Scozia che ovviamente non aveva preso bene gli attacchi
alla Scozia e al popolo scozzese.
Dunque, trascorse una vita che almeno nella sua prima parte fu tutt’altro che tranquilla. Diciamo però che
una volta che Ben Johnson si comincia ad affermare nel contesto del teatro dell’epoca e nel contesto della
produzione artistica del tempo, la sua esistenza procederà su binari decisamente più tranquilli. Lui
addirittura arriverà ad affermarsi come una sorta di voce ufficiale dell’Inghilterra dell’epoca, e gli verrà
conferito il titolo di Poet Laureate che in pratica comportava anche una pensione pagata dalle casse reali.

Andiamo adesso ad analizzare la produzione di Ben Jonson. Egli, come detto precedentemente segue le
unità aristoteliche applicandole alla sua produzione. Si muove sia nell’ambito della commedia come anche
nell’ambito della tragedia, ma è soprattutto nella commedia che sembra veramente brillare.
Si tratta comunque di commedie piuttosto particolari, perché sono costruite anche sulla base della
cosiddetta “Teoria degli umori”. Essa si basa sulla convinzione che nell’uomo ci siano quattro fluidi
principali, i qualo fruiscono all’interno dell’organismo dell’uomo; il carattere equilibrato scaturisce
dall’armonica presenza di tali quattro fluidi o umori. Nel momento in cui invece uno di questi fluidi prende il
sopravvento in maniera significativa rispetto agli altri, non ci troviamo più di fronte a un individuo
equilibrato, ma di fronte ad un individuo il cui carattere è segnato in maniera assoluta e totale dalla
preponderanza di tale umore. Tra gli umori, il sangue, la flemma, la bile, e la bile “nera”, che danno origine
nel momento in cui prevalgono a tipi diversi: il tipo collerico, il tipo malinconico, sanguigno, e il tipo che si

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muove sulla base di una avidità. Dunque nel teatro di Ben Johnson abbiamo una forte preponderanza
nell’ambito della commedia che viene definita “Comedy of Humors”. È in quest’ambito che egli dimostra
una straordinaria abilità.
Queste sue comedies hanno alcune particolarità che si riferiscono non soltanto al fatto che i personaggi
sono a tutti gli effetti dei tipi umani che si caratterizzano per la preponderanza di uno specifico umore che
ne determina le caratteristiche personali ed i comportamenti, ma si caratterizzano anche perché sono di
ambientazione contemporanea (non sempre ambientate a Londra).
Per quanto riguarda le commedie occorre citare Every Man in his Humour; in questa commedia ciascuno
dei personaggi agisce secondo le caratteristiche indicate dal suo umore cioè rispetta perfettamente quelle
che sono le caratteristiche del tipo. Ad Every Man in his Humour fa seguito Every Man out of his Humour, in
cui invece ci troviamo di fronte a personaggi i quali agiscono in maniera che sembra contraddittoria rispetto
a quelle che sono o che dovrebbero essere le caratteristiche del tipo sulla base dell’umore che prevale.
Quelle che possiamo considerare le migliori commedie di Jonson, sono da una parte The Alchemist e d’altra
parte Volpone; sono entrambe delle opere incentrate sull’avidità che determina i comportamenti dei vari
personaggi (anche se questa avidità si traduce in comportamenti che non sono uguali per tutti). In The
Alchemist ci troviamo di fronte ad un falso scienziato, un alchimista il quale fa credere di essere in grado di
trasformare il piombo in oro; riesce con le sue chiacchere e i suoi imbrogli, per i quali è aiutato dal suo
servitore assistente, ad imbrogliare una quantità considerevole di persone, le quali però, si capisce che a
loro volte sono mosse dall’avidità. Dunque, vi è la rappresentazione di una umanità che è decisamente
negativa, in cui non si salva nessuno, perché tutti, in un modo o nell’altro, sono mossi dalla sete di denaro.
Alla fine, si comprenderà che l’alchimista è assolutamente un imbroglione e non può portare la sua finzione
oltre un certo punto ma comunque riuscirà a sfuggire ai rigori della legge. Diventa a questo punto chiaro
che non soltanto quella società si è meritata l’imbroglio dell’alchimista, ma diventa altrettanto chiaro che
l’alchimista è pronto a portare i suoi imbrogli in altre realtà.
Decisamente più complessa è la vicenda di Volpone, che è ambientata in una Venezia di Fantasia. Volpone è
chiaramente un nome in qualche modo italianizzato; oltretutto il nome di per sé sta ad indicare le
caratteristiche del personaggio. Il protagonista eponimo di questa commedia è un truffatore, aiutato nei
suoi imbrogli dal suo servitore di nome Mosca. Volpone finge di essere molto ricco, fa sfoggio di grandi
ricchezze, facendo credere di vivere in un palazzo sontuoso, quando in realtà è pieno di debiti. Finge però di
essere in punto di morte e siccome non ha eredi, attorno a lui si riuniscono una serie di personaggi che
sono mossi dal desiderio di essere nominati suoi eredi e che per attirare la sua benevolenza cominciano a
fargli una serie di regali, anche molto importanti. C’è addirittura chi pensa di poter ottenere la sua
benevolenza offrendogli addirittura la giovane e innocente Celia, che è l’unico personaggio positivo della
commedia. L’imbroglio di Volpone verrà alla fine scoperto e si capirà che egli non è né in punto di morte, né
è ricco così come aveva fatto credere. Verrà dunque scoperto e verrà condannato dal Senato veneziano (il
quale però non rappresenta anche questo qualcosa di positivo, perché la legge viene messa in atto da figure
anch’essi mossi da avidità).
Nella produzione teatrale di Ben Jonson figurano anche una serie di tragedie, prevalentemente di
argomento romano; in particolare, tra le più note citiamo Sejanus his Fall e Catiline his Cospiracy. Esse
sono, con l’unica eccezione delle Roman plays di Shakespeare, le uniche opere di argomento romano che
abbiano davvero una valenza artistica significativa. Sono entrambe delle opere in cui le virtù romane per
eccellenza, la fedeltà, l’onore, il rispetto della famiglia, sono messe in evidenza e sono difese in quello che è
un contesto che invece rischia di non considerarle completamente.
Ben Jonson, per quanto riguarda il teatro, fu anche autore di un numero considerevole di Masques, vale a
dire delle opere teatrali, sia per il tipo di pubblico a cui si riferiscono, sia per quanto riguarda le modalità
della rappresentazione. I Masques sono delle rappresentazioni d’argomento mitologico e allegorico,

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dunque l’argomento che viene messo in scena e i personaggi che in questa scena vi entrano sono delle
figure mitologiche. Il nome Masques deriva dal fatto che tali rappresentazioni venivano messe in scena da
attori che indossavano una maschera, non davanti al pubblico del teatro elisabettiano, ma davanti alla
corte, che si rivolgono ad un pubblico aristocratico. Non solo, si tratta di rappresentazioni in cui sono
elementi di assoluta importanza anche la musica e la danza, che entrano come parti integranti dello
spettacolo. Proprio per il tipo di pubblico a cui sono destinate e perché si tratta di opere che vengono
rappresentate a corte, una straordinaria importanza è data dalle scenografie e i costumi. Ecco che Ben
Jonson, collaborò in maniera molto forte anche se non sempre senza contrasti, con quello che è il grande
architetto scenografo e costumista del tardo periodo elisabettiano e soprattutto periodo giacomiano: Inigo
Jones. Ben Jonson scriveva i testi, venivano poi messi in scena con l’ausilio delle scenografie, dei macchinari
scenici e dei costumi di Inigo Jones. Erano degli spettacoli molto particolari perché erano in qualche modo
codificati: mettevano in vario modo in scena quello che era il contrasto tra il vizio e la virtù; il vizio o meglio
gli elementi che erano produttivi di disordine nella rappresentazione, venivano poi fatti letteralmente
scomparire dalla presenza di quegli elementi rappresentativi di un ordine, di una armonia universale che
erano le forze del bene.
Solitamente i personaggi negativi erano rappresentati da attori professionisti mentre invece le figure
positive, le cosiddette forze del bene erano spesso e volentieri rappresentate dagli stessi membri della
corte che non erano soltanto spettatori ma finivano con l’essere parte attiva della rappresentazione.
Ben Jonson sarà autore di circa 30 Masques, e furono tutte opere che ebbero a corte un successo
considerevole.
Ben Jonson, inoltre, fu anche poeta; l’edizione del “The Works” pubblicata da lui, comprendeva tanto la sua
produzione teatrale quanto le sue poesie, poesie che rispecchiano in maniera molto specifica e voluta le
modalità della grande tradizione classica, con particolare riferimento alla elegia. Sono delle poesie che tra
l’altro celebrano un idea di ordine e di armonia che si deve applicare a tutti i livelli, celebrano anche la
natura (non una natura selvaggia ma una natura che riesce a comunicare pace, armonia).
La produzione poetica di Ben Jonson entra in rotta di collisione con quella di un poeta del tempo, cioè con
quella di John Donne, che è invece a tutti gli effetti il caposcuola dei cosiddetti “Metaphysical poetry”.
Per quanto riguarda la produzione teatrale con riferimento alla “Comedy of Humor”, Ben Jonson non ha
seguaci; rappresenta a tutti gli effetti un unicum nella produzione del tempo. Per quanto riguarda invece la
sua produzione poetica, lo seguiranno nel suo sforzo di ripresa e di vitalizzazione della tradizione classica, lo
seguiranno i “Cavalier Poets”, i poeti cavalieri, che sono sostenitori di un tipo di poesia che abbia un effetto
pacificatore, che sia produttiva di armonia, che riprenda quelli che sono i grandi principi della tradizione
classica (in particolare oraziana). I cavalier poets sono definiti non a caso Ben Tribe’s, la tribù di Ben Jonson,
proprio perché alla sua produzione poetica si richiamavano in maniera specifica.
Nello stesso periodo, agli inizi del 600, abbiamo la grande produzione dei cosiddetti Metafisici, che
riconoscono come loro caposcuola un poeta come Jhon Donne, il quale non intendeva esserne l’iniziatore,
però fu un poeta straordinario che diede il via in Inghilterra a un modo nuovo di fare poesia.
Andiamo ad analizzare una poesia di John Donne:

Death, be not proud, though some have called thee Morte, non essere orgogliosa, anche se alcuni ti
Mighty and dreadful, for thou art not so;
hanno definita possente e terribile, poiché tu non sei
For those whom thou think'st thou dost overthrow
Die not, poor Death, nor yet canst thou kill me. così; poiché coloro i quali tu pensi di sopraffare non
From rest and sleep, which but thy pictures be, muoiono, povera morte, neppure puoi tu uccidere
Much pleasure; then from thee much more must flow, me. Dal riposo e dal sonno, che non sono altro che
And soonest our best men with thee do go, tue immagini, molto piacere (flow, scaturisce); quindi
Rest of their bones, and soul's delivery. da te molto di più ne deve scaturire, e per primi i
nostri buoni migliori se ne vanno (con te), riposo
delle loro ossa, e liberazione dell’anima. Tu sei
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schiava del destino, del caso, dei re, e degli uomini
Thou art slave to fate, chance, kings, and desperate men,
And dost with poison, war, and sickness dwell,
And poppy or charms can make us sleep as well
And better than thy stroke; why swell'st thou then?
One short sleep past, we wakeeternally
And death shall be no more; Death, thou shalt die.

Si tratta di un sonetto tratto da un gruppo tratto dalla raccolta “The Holy Sonnets”. Il sonetto presenta 14
versi, la struttura consueta del sonetto elisabettiano, ripartito in tre quartine ed un distico finale. Vi sono
tutta una serie di elementi di novità: innanzitutto, il poeta si rivolge direttamente alla morte, senza nessun
timore reverenziale. La morte è dunque uno dei temi del sonetto, accanto al tema principale della
resurrezione. Non solo la morte è uno dei temi del sonetto, ma essa diventa anche la destinataria delle
parole del poeta, a cui il poeta si rivolge senza nessun timore reverenziale.
Si tratta di una composizione che ha delle implicazioni religiose assolute, cosa che rimanda un po' a quella
che è non soltanto la vicenda personale di John Donne ma anche al suo percorso di fede e il modo
assolutamente originale in cui lui si serve della forma poetica come il sonetto che era ormai parte di una
tradizione consolidata.

John Donne era nato a Londra, contemporaneo di Shakespeare e di Ben Jonson, nato in una famiglia di
tradizione cattolica. All’epoca i cattolici erano soggetti ad una serie di restrizioni e persecuzioni in quanto la
religione ufficiale dell’Inghilterra era a tutti gli effetti quella anglicana. John Donne era stato istruito da
gesuiti, ufficialmente fuori legge ma che in qualche modo erano riusciti comunque a rientrare nella capitale,
mettendo in atto la loro pratica educativa.
L’imprinting religioso che gli viene fornito gli servirà per tutta la sua esistenza, dandogli in maniera molto
forte il senso del peccato, ma nello stesso tempo anche la fede nella vita dell’aldilà. Però, il giovane Donne,
non si negò le esperienze dell’amore e di una vita disordinata sotto molti punti di vista. Donne comincia
giovanissimo a produrre versi che cominciano a circolare in maniera ufficiosa ed hanno un certo
gradimento.
Il punto di svolta nella vicenda personale di John Donne arriverà quando il giovane poeta che è diventato
segretario di un personaggio importante, si innamora della nipote della moglie del suo protettore e la sposa
segretamente. La necessità di questo matrimonio segreto si viene a realizzare perché, essendo questa
ragazza giovanissima, aveva all’epoca soltanto 17 anni, una delle lady della regina, per poterla sposare,
Donne avrebbe dovuto ottenere il permesso. Questo permesso non gli sarebbe stato dato per la differenza
sociale dei due, con il risultato che Donne sposa la donna segretamente ma la conseguenza sarà che lui
perderà il suo lavoro e per alcuni anni lui e la giovane moglie avranno serie difficoltà economiche, finché la
donna non morirà.

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LEZIONE 17 11/11/2020

Ritorniamo all’argomento della lezione precedente, John Donne e le caratteristiche della poesia metafisica.
Per quanto riguarda Jhon Donne abbiamo già parlato dell’esistenza di John Donne e di come sia passato da
una giovinezza se non proprio dissoluta, vissuta con grande liberà e con grande quantità di esperienze di
tipo amoroso, fino a che arriva il matrimonio, vi sono diversi cambiamenti nella sua vita, sino alla morte
della giovane moglie. Successivamente, cambia il modo di Donne di rapportarsi con la vita e con la morte:
segue infatti la conversione di Donne da quella che era la religione cattolica alla religione anglicana. A
seguito della morte della moglie, Donne riconquista l’attenzione ed il favore di personaggi importanti legati
alla corte reale; prenderà il posto di Dean of St.Paul, il decano della Cattedrale di San Paolo, e finirà per
diventarne il predicatore ufficiale. Oltretutto, fu un predicatore ufficiale particolarmente gradito ai sovrani:
da Giacomo I nell’ultima fase del suo regno, e poi, sarà particolarmente apprezzato dal figlio di Giacomo I,
Carlo, il quale subentra al padre nel 1625.
La produzione di Donne si divide in due fasi: una prima fase che è quella che pertiene al periodo della sua
giovinezza, caratterizzata in particolare da poesie che vedono al loro centro la donna e l’amore, ed una
seconda fase in cui invece al centro della produzione vi è la morte. Sono fasi, non nettamente separate tra
loro, in quanto quello che è particolare nella produzione di Donne è che sempre e comunque, sia nelle
poesie della prima fase, sia in quelle della seconda fase, c’è un’attenzione particolare del poeta per quello
che è il rapporto tra l’anima e il corpo. La fase finale della produzione di Donne sarà segnata da un interesse
molto specifico e molto forte per la morte e tutto ciò che la morte comporta. C’è dunque una continuità

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anche se cambia il modo di vivere del poeta, il quale segna questa sua divaricazione nella propria esistenza
e nel modo di rapportarsi alla vita stessa e ai piaceri che la vita può offrire, addirittura indicando come
opera di “Jack Donne”, la prima parte della sua produzione, mentre invece “John Donne” sarebbe il lui che
si è convertito e si è dedicato alla vita della religione.
La poesia di Donne come detto precedentemente verrà definita “poesia metafisica”; a definirla in modo
tale, sarà per primo Jon Dryden, il quale è un poeta che opera intorno alla prima metà del 600 e nel periodo
della restaurazione. John Dryden, poeta e drammaturgo poi non utilizza questa definizione come un
complimento nei confronti di John Donne e dei suoi seguaci, ma esprime questa definizione come una
critica; per Dryden, infatti, questa definizione implica che si tratta di una poesia che fondamentalmente per
lui è astrusa. Questa definizione verrà successivamente ripresa da Samuel Johnson (siamo nel 700),
definizione che finirà per diventare quella con cui Donne e i suoi seguaci, i poeti della School of Wit
finiscono con l’essere indicati e riconosciuti. Quindi da che nasce come definizione che vuole essere in
qualche modo offensiva e derogatoria, finirà invece col diventare un’etichetta che vuole esprimere le
caratteristiche più peculiari e più innovative, sperimentali della produzione poetica di Donne e dei suoi
seguaci, che fanno parte della School of Wit (cioè il gruppo dei poeti che si servono del Wit, vale a dire
l’arguzia e che utilizza il concetto arguto che si traduce in un utilizzo di metafore, similitudini, immagini che
vengono tratte dai campi più diversi dell’esperienza e che sono nuove, diverse rispetto a quelle che la
tradizione aveva fino ad allora consegnato). (vedi definizioni su glossario)
Donne è anche autore di sermoni; solitamente i sermoni, cioè le predicazioni fatte in quello che è un
contesto prettamente ecclesiastico, difficilmente entrano nel novero della produzione letteraria in quanto
tale. Nel caso di Donne però, i suoi sermoni costituiscono davvero un nucleo significativo di opere, in cui
l’autore riflette sul suo rapporto con Dio, con la morte, con la chiesa ma si tratta di sermoni che non hanno
una valenza esclusivamente religiosa ma anche letteraria.
Tra l’altro Donne apparteneva alla scuola di pensiero che vedeva il sermone, dunque la predicazione a cui
lui era chiamato in quanto Dean of Saint Paul, non come qualcosa che si potesse improvvisare, ma qualche
cosa che doveva essere costruita in maniera attenta e doveva colpire l’attenzione dell’ascoltatore anche
con l’utilizzo con delle immagini che sono nuove, inusuali, ma nello stesso tempo con un linguaggio che
fosse semplice ed accessibile a tutti. Ci sono alcuni dei suoi sermoni che possiamo considerare a tutti gli
effetti dei capolavori, o che comunque hanno un’altissima valenza letteraria. In particolare, vale la pena di
ricordare quello che lui scrive poco tempo prima della sua morte, quando era già malato, è che è a tutti gli
effetti una riflessione sulla morte, riflettendo su ciò che dopo la morte dovrà avvenire, ossia la resurrezione.
C’è tuttavia anche un altro sermone che ha finito col diventare famoso perché al suo interno contiene due
espressioni che sono state riprese ripetutamente anche se in contesti diversi. Quest’altro sermone,
intitolato “For whom the bell tolls” o “per chi suona la campana”, diventerà poi il titolo di un famosissimo
romanzo dell’americano Ernest Hemingway scritto nel Novecento. Nello stesso sermone c’è anche un'altra
espressione che fa riferimento alla condizione dell’uomo. Analizziamone un frammento, che è
particolarmente significativo:

'No Man is an Island' Nessun uomo è un’isola interamente da sola; ogni


No man is an island entire of itself; every man uomo è un pezzo del continente, e una parte del
is a piece of the continent, a part of the main; territorio; se un sasso è spazzata via dal mare, l’Europa
if a clod be washed away by the sea, Europe intera ne viene diminuita, così come se fosse
is the less, as well as if a promontory were, as cancellato un promontorio, così come se la dimora del
well as any manner of thy friends or of thine tuo amico oppure la tua stessa dimora fossero
own were; any man's death diminishes me, cancellate; la morte di qualunque uomo mi riduce,
because I am involved in mankind. perché io sono coinvolto nell’umanità. E quindi non
mandare mai a chiedere per chi suona la campana (to
tall indica il rintoccare della campana, rintocchi
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lugubri); suona per te.
And therefore never send to know for whom
the bell tolls; it tolls for thee.

Questo frammento di sermone, dunque, sottolinea questo legame tra il singolo e l’umanità intera che viene
ribadito e viene indicato con delle immagini e con un linguaggio che è nuovo.
Per inciso, il linguaggio che John Donne utilizza nei sermoni, è un linguaggio che fa molto uso di frasi che
sono brevi, incisive nella loro brevità ed anche questo è funzionale ad attirare, a colpire l’attenzione e
l’interesse di chi legge o di chi ascolta.
John Donne, come detto precedentemente, ha una serie di seguaci: tra questi, coloro che vanno a
comporre la scuola dei cosiddetti poeti metafisici, i più noti sono George Herbert, Richard Crashaw ed
Henry Vaughan. Tutti e tre, scrissero fondamentalmente delle poesie di stampo religioso, anche perché in
particolare Herbert e Crashaw erano membri della chiesa anglicana, nel senso che facevano parte della
gerarchia della chiesa anglicana.
Herbert che è l’autore di una serie di liriche che sono poesie sacre e giaculatorie (la giaculatoria è
l’invocazione a Dio e ai santi con preghiere e ripetizioni) scrisse una serie di poesie in cui la sperimentazione
linguistica va a toccare anche quella che è la dimensione visiva. Per esempio, in “Easter Wings”, ma anche
in “The temple”, la successione dei versi è organizzata in maniera tale che i versi hanno una lunghezza
diversa che sulla pagina, nel momento in cui si guarda la poesia nel suo complesso, danno l’idea grafica,
visiva dell’immagine delle ali, nel caso specifico di Easter Wings (sembra quasi di vedere una colomba che
vola con delle ali aperte) ed in “The temple” quella che viene fuori sembra essere l’immagine di un tempio.
Quindi, la sperimentazione portata avanti da questi poeti e da Herbert in particolare, è una
sperimentazione che tocca il linguaggio, l’uso del linguaggio, l’innovazione nell’uso di similitudini, metafore
e immagini, e la dimensione visuale della costruzione del testo poetico.

Il teatro giacomiano e quello carolino successivamente, che si sviluppa nei decenni iniziali del Seicento,
presentano delle caratteristiche notevolmente diverse rispetto al teatro elisabettiano. Abbiamo intanto
l’affermarsi di un tipo di produzione teatrale che vede come protagonisti principali John Fletcher e Francis
Beaumont, i quali spesso collaborarono nella composizione di testi teatrali. Quello che producono è
fondamentalmente il genere della “tragi-comedy” che è definita tale, secondo lo stesso Fletcher, perché si
caratterizza perché sullo sfondo vi è la morte, morte che non viene rappresentata. Conseguentemente la
dimensione tragica c’è, perché c’è comunque la morte, ma questa morte che non viene messa in scena, fa
sì che la tragedia non sia una tragedia a tutto tondo come nel teatro elisabettiano. Dunque, non è una
commedia perché non c’è la dimensione comica, positiva, ma nello stesso tempo, la morte, tipica della
tragedia, non viene rappresentata.
Un altro tipo di produzione teatrale che si afferma agli inizi del Seicento è la cosiddetta “city comedy” cioè
un tipo di commedia che viene ambientata proprio nel contesto metropolitano. Il rappresentante principale
sembra esserne Thomas Middleton, il quale è autore, tra l’altro, di “The Roaring Girl”, “la ragazza
ruggente”, laddove la protagonista Moll, si traveste da uomo per poter girare indisturbata per la città, in
contesti che non sarebbero consentiti ad una donna per bene. Travestita da uomo si potrà permettere di
essere testimone e di prendere parte a quella che è la vita metropolitana più turbolenta.

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Oppure ancora, un altro autore che ha un ruolo importante nel teatro tardo-elisabettiano, ma anche nel
teatro giacomiano è Thomas Dekker, che collabora con Middleton per alcune opere ma che è anche autore
di sue opere. Tra queste “The Shoemaker's Holiday” il cui titolo significa “la vacanza del calzolaio”, che è a
tutti gli effetti una celebrazione di quello che è l’orgoglio professionale e di quella che era una categoria che
si stava affermando. Dunque, in tale opera, c’è una rappresentazione molto vivace della vita nella
metropoli, in un contesto che nulla ha a che fare con quello aristocratico nobiliare, ma è piuttosto, quello
delle categorie professionali che si stanno affermando e che appartengono alla piccola-media borghesia.
Essa vede infatti come protagonisti il calzolaio e sua figlia ed il calzolaio nella parte finale della commedia
finirà per diventare sindaco di Londra, in virtù delle sue qualità personali e professionali.
Abbiamo anche il proseguimento di quello che è il filone della tragedia di vendetta, che però si differenzia
dalla tragedia di vendetta più specificatamente elisabettiana perché qui gli eventi tragici e la vendetta
vengono messi in atto in contesti che non hanno niente a che fare con il regicidio e con la corte, bensì si
vanno a concretizzare in contesti che sono più bassi. In pratica, se parliamo della tragedia, è una tragedia
quella del teatro giacomiano che si va a concretizzare nell’esistenza di individui borghesi, quindi è l’uomo
comune, non l’aristocratico altolocato.
Tra le tragedie del teatro giacomiano figura una tragedia anonima, di cui non si conosce l’autore, ma che
ebbe comunque un grande successo, che recupera quello che era stato un fatto di cronaca: il protagonista
viene ucciso a tradimento, assassinato per volontà della moglie (c’è la rappresentazione di un matrimonio
in cui la severità del protagonista maschile si scontra con la voglia di indipendenza della giovane moglie che
è stata costretta a sposarlo); sarà ucciso in un agguato mentre si trova ad attraversare in un bosco, e poi,
quello che seguirà, sarà da una parte il fatto che il delitto viene scoperto e dall’altra il pentimento della
donna.
Oppure ancora, possiamo menzionare la tragedia di Thomas Heywood,“A Woman Killed with Kindness”,
“una donna uccisa con gentilezza”. Anche qui, il contesto in cui tale tragedia, che possiamo definire
domestica, si svolge, si trova ancora in una situazione in cui c’è un matrimonio, nel quale la sposa a un certo
punto, insoddisfatta di come il suo matrimonio sta andando, si trova un amante; viene scoperta in flagrante
dal marito, il quale però, invece di farla punire dalla legge in maniera molto severa, decide di punirla con
dolcezza, allontanandola da sé e dai figli. Ecco allora che la donna, allontanata dalla casa, dal marito e dai
figli, si rende conto di quello che ha perduto e per il rimorso e il dolore morirà. Dunque, la punizione arriva,
la fedifraga viene punita, ma la punizione non arriva tramite un atto violento o con il rigore della legge,
bensì arriva con questa modalità diversa, con la dolcezza, la gentilezza e la generosità del marito che si
limita ad allontanarla da casa, anche se quest’ultimo, scatena il rimorso e il dolore della donna che muore.
Vi è anche una ripresa, come detto precedentemente del filone della tragedia di vendetta, che esaspera
ancora di più i toni, rispetto a quelli della tragedia elisabettiana, ma che nello stesso tempo, modifica anche
le modalità della tragedia di vendetta elisabettiana.
In questo filone possiamo indicare la “The Revenger’s tragedy” di Middleton in cui ancora una volta il
contesto è un contesto borghese, oppure Webster, il quale fu autore di un’opera all’epoca molto famosa,
“The Duchess of Malfi”, ma anche di “The white devil”. Tutte e due sono opere ambientate in Italia, un
Italia che viene indicata come la culla del tradimento e della corruzione. In “The Duchess of Malfi”, abbiamo
una tragedia di vendetta, ma che fa riferimento anche ad un contesto particolare, Amalfi, che fa riferimento
ad un fatto reale che si era verificato ad Ancona; la protagonista eponima è una donna di grande integrità
morale, molto volitiva e bella, la quale sceglie di sposare un uomo inferiore a lei per posizione sociale e di
ritirarsi a vivere con lui una vita semplice. Un matrimonio che sarebbe felice, se non ci fosse, l’invidia ma
anche la perfidia dei fratelli di lei, i quali si sentono insultati da questo matrimonio che la sorella ha voluto
con tutte le sue forze e dal quale tra l’altro sono già nati dei figli. I fratelli pertanto, in quanto offesi, faranno
non solo in modo di uccidere il marito della sorella, ma dato che la sorella rifiuta comunque di piegarsi alla

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loro volontà, cercano di farla impazzire, mettendo in atto una serie di torture psicologiche, alle quali lei fino
ad un certo punto riesce a resistere. Quindi vi sono una serie di elementi di novità nell’utilizzo del filone
della tragedia di vendetta.
A questo filone appartiene anche “The white devil” che vede come protagonista, anche in questo caso, una
figura femminile che è il diavolo bianco del titolo. Il titolo è praticamente un ossimoro: il diavolo non è
bianco, ma è o viene solitamente rappresentato come nero, mentre il bianco è il colore dell’innocenza.
Effettivamente, la protagonista, che viene accusata dell’omicidio del marito, è innocente. Anche in questo
caso l’ambientazione è in Italia, più specificatamente a Venezia, che viene presentata come una realtà
particolarmente corrotta per quanto riguarda i costumi, una realtà in cui l’innocente viene accusato di
qualcosa che non ha commesso, perché questo serve a coprire i vizi dei veri colpevoli.
Poi ancora un’altra opera che occorre ricordare è ‘”Tis Pity She's a Whore”, “peccato che sia una puttana”,
di John Ford, in cui viene messa in scena quello che è un rapporto d’amore fortissimo e assoluto, ma nello
stesso tempo incestuoso da due fratelli. Quello che ne segue è una tragedia con relativa vendetta, perché
quando quella che è la sacralità del loro amore viene messa a rischio dal fatto che la sorella è obbligata
dalla famiglia ad un matrimonio che assolutamente non desidera, ecco che il fratello, uccide la sorella
“traditrice” con il consenso di lei. Quindi, c’è la tragedia, ma anche la vendetta di quello che viene
considerato un tradimento, e poi, seguiranno i rigori della legge.
Per inciso, tutte queste tragedie, storie di tradimenti, di incesti che si vanno a inquadrare in quello che è un
contesto sociale indicato come immorale, ovviamente finirono con l’aggravare quella che era la percezione
negativa dei puritani nei confronti del teatro e di tutto quello che con il teatro aveva a che vedere.
Contribuì tutto questo anche a determinare, quando i puritani presero il potere in Inghilterra, e diedero il
via alla cosiddetta Parentesi repubblicana, la chiusura dei teatri.

Analizziamo adesso un sonetto scritto da Jhon Milton, un’opera minore nel contesto del macrotesto
miltoniano, ma è nello stesso tempo, un’opera significativa sia perché è indicativa di qualcosa che avviene
nella vita di Milton e che lo segna fortemente, ma è indicativa anche di un modo che Milton ha, di utilizzare
quelle che sono delle forme poetiche preesistenti, già consolidate, ma in modo nuovo.
Si tratta in particolare del Sonnet XVII:

When I consider how my light is spent,


Ere half my days, in this dark world and wide,
And that one talent which is death to hide
Lodged with me useless, though my soul more bent
To serve therewith my maker, and present
My true account, lest He returning chide;
"Doth God exact day-labour, light denied?"
I fondly ask. But Patience, to prevent
That murmur, soon replies, "God doth not need
Either man's work or his own gifts; who best
Bear his mild yoke, they serve him best. His state
Is kingly: thousands at his bidding speed,
And post o'er land and ocean without rest;
They also serve who only stand and wait."

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È un sonetto in cui Milton fa riferimento alla cecità che lo sta colpendo, ed è un sonetto che ha delle
implicazioni fortissime; non solo, ma è un sonetto in cui Milton si interroga su quello che è il dovere
dell’individuo e in particolare in quanto poeta che ha una vocazione particolare e a cui Dio ha dato un
talento particolare. Quindi, come sottofondo abbiamo quello che è il richiamo alla parabola evangelica dei
talenti.

LEZIONE 17 17/11/2020

Riprendiamo il sonetto analizzato nella lezione precedente di John Milton:

When I consider how my light is spent, Quando penso a come la mia luce si è spenta,
Ere half my days, in this dark world and wide, prima della metà dei miei giorni, in questo mondo
And that one talent which is death to hide
scuro e vasto, e che un talento che è morte
Lodged with me useless, though my soul more bent
To serve therewith my maker, and present nascondere è rimasto presso di me inutile, anche
My true account, lest He returning chide; se il mio animo era più incline a servire con questo
"Doth God exact day-labour, light denied?" talento il mio creatore, e a presentare il mio vero
I fondly ask. But Patience, to prevent rendiconto, affinché egli ritornando non mi
That murmur, soon replies, "God doth not need rimproveri, io appassionatamente mi chiedo; “Dio
Either man's work or his own gifts; who best
esige il lavoro quotidiano quando la vista è
Bear his mild yoke, they serve him best. His state
spenta?”. Ma la pazienza, per prevenire questo
Is kingly: thousands at his bidding speed,
And post o'er land and ocean without rest; brontolio, immediatamente risponde, “Dio non ha
They also serve who only stand and wait." bisogno né del lavoro dell’uomo, né delle sue
opere; coloro i quali sopportano il suo dolce giogo,
l’osservano meglio. La condizione del creatore è
reale: migliaia ad un suo cenno, si affrettano e si
muovono sulla terra e sull’oceano senza posa; ma
servono anche coloro i quali rimangono fermi ad
attendere”.

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Per poter comprendere il significato di tale sonetto, occorre tenere presente due riferimenti: innanzitutto,
alla base di questo sonetto vi è la parabola dei talenti, raccontata nel Vangelo di Matteo; in secondo luogo,
occorre far riferimento a quella che Milton riteneva la sua vocazione: Milton si considerava, ed
effettivamente aveva, la vocazione del poeta epico. Quando Milton scrive questo sonetto, aveva da tempo
in mente di comporre un grande poema epico che però non ha ancora fatto; allora, il talento che Dio gli ha
dato, che è consapevole che sia il talento per la poesia epica è rimasto presso di lui inutilizzato: allora, si
chiede, ma Dio, una volta che mi viene negata la vista, può pretendere che io mantenga l’impegno implicito
nel talento che lo stesso Dio mi ha dato? La risposta, che tramite la Pazienza si dà, è che Dio non ha bisogno
delle opere dell’uomo in quanto sovrano assoluto, e contemporaneamente Dio, non pretende che tutti gli
uomini lo servano alla stessa maniera, in quanto ci sono modi diversi di servirlo. Anche rimanere ad
attendere che venga il momento opportuno per mettere in atto i talenti che Dio ha elargito all’uomo, è un
modo per servire Dio.
Occorre inoltre fare riferimento alla parabola dei talenti: un ricco signore parte per un viaggio e affida i suoi
beni ai suoi servi. A un servo affida cinque talenti, a un secondo due talenti e a un terzo un talento. I primi
due, sfruttando la somma ricevuta, riescono a raddoppiarne l'importo; il terzo invece va a nascondere il
talento ricevuto e lo sotterra. Quando il padrone ritorna apprezza l'operato dei primi due servi e condanna,
invece, il comportamento dell'ultimo.
Il senso della parabola dei talenti è che ciascun individuo riceve da Dio un talento, dunque la capacità di
fare qualcosa, ma questo qualcosa si deve impegnare per metterlo a frutto.

Chi era John Milton? Egli era nato a Londra, da una ricca famiglia di fede puritana (non erano
semplicemente degli anglicani, ma erano convinti sia della necessità dello scisma della chiesa inglese dalla
chiesa cattolica romana, ma anche puritani, dunque protestanti convinti). In quanto proveniente da una
famiglia protestante, Milton poté frequentare l’Università di Cambridge: già all’università Milton poté
distinguersi. Egli, infatti, si distinse per il suo ingegno e per quella che è la sua serietà morale: Milton, infatti,
entrò in polemica con le autorità accademiche perché le riteneva troppo lassiste. Vale a dire, quella che era
una abitudine consolidata di gran parte degli studenti dell’università di Cambridge era un’esistenza, gran
parte dedicata allo studio ma anche ad una vita dissoluta; dunque, non erano infrequenti casi di alcolismo,
casi di prostituzione, quindi c’erano una serie di comportamenti dei suoi colleghi che Milton non
condivideva. Milton, inoltre, si distinse per le sue straordinarie qualità e capacità nello studio delle
discipline classiche.
Un altro aspetto del cursum studiorum che viene messo sotto accusa da Milton è l’attenzione che durante il
corso di studi viene attribuita alla retorica, l’arte del parlare bene. Milton non era contro l’arte della
retorica, ma le esercitazioni di retorica venivano fatte svolgere mettendo gli studenti in condizione di
sostenere, con la loro eloquenza e con la loro capacità di illustrare e sostenere delle tesi,
indipendentemente che esse fossero corrette o sbagliate o moralmente riprovevoli. Cioè, in pratica, quello
che Milton andava a censurare era il fatto che la maniera in cui gli studi di retorica venivano praticati
prescindevano dalla sostenibilità morale della tesi che ci si trovava a dovere difendere e portare avanti. Egli
stesso però, si servirà degli studi di retorica, solo che i suoi retori più efficaci, più bravi nell’utilizzare l’arte
del parlare bene, saranno principalmente dei personaggi negativi. Vedremo infatti che in “Paradise Lost”
Satana è un retore abilissimo, così come altri personaggi delle sue opere.
Dunque, la problematicità della concezione della pratica della retorica egli la utilizza facendo usare il
discorso fortemente retorico proprio a queste figure negative che sono abilissime nel presentare come
accattivante quella che era una falsità.
Ritornando al percorso di Milton, egli completa gli studi con il massimo degli onori e poi comincia a
viaggiare per l’Europa. Tra l’altro, sarà anche per un periodo di tempo abbastanza lungo, in Italia. Milton,
nel corso dei suoi studi, aveva imparato e conosceva molto bene le lingue classiche, dunque conosceva il
greco, il latino, l’ebraico e pare che conoscesse anche il sanscrito. Aveva però anche studiato le lingue
moderne e tra queste, oltre alla lingua francese, anche l’italiano. In Italia egli perfeziona la sua conoscenza
dell’italiano, ma in Italia, entrerà anche in contatto con quelli che sono certi aspetti della cultura

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rinascimentale e tardo rinascimentale, che riprende e come sempre farà nella sua produzione, finirà per
adattare a quelli che sono i suoi scopi particolari. La sua conoscenza dell’italiano e la sua familiarità con la
tradizione culturale italiana, lo porterà ad utilizzare la forma del sonetto; non solo, scriverà anche alcuni
sonetti in italiano. Il suo utilizzo della forma del sonetto è però una forma particolare, perché recupera
quella che è una forma poetica, una tipologia di testo ormai consolidata, ma riempiendola di contenuti
nuovi. Per esempio, nel sonetto precedentemente letto, egli parla della cecità, mettendo una sua
condizione personale, e mettendo dentro i suoi interrogativi relativamente a quello che è il suo compito
particolare. In altri sonetti, egli utilizzerà la forma sonettistica per denunciare il massacro dei Valdesi in
Piemonte.
Poi ancora, mentre si trova in Italia, viene informato dal padre che in Inghilterra sta succedendo qualcosa di
molto importante dal punto di vista politico; immediatamente Milton ritorna in Inghilterra, con l’intenzione
specifica di entrare nel vivo di questa attività, di avere una partecipazione attiva a quello che sta
succedendo in Inghilterra. Da questo momento in poi, vedremo Milton nettamente schierato a favore delle
forze repubblicane e assolutamente antimonarchiche, nonché puritane.
Dal punto di vista storico infatti, in Inghilterra, intorno al 1625, alla morte di Giacomo I era succeduto il
figlio, Carlo I. Già vi erano stati dei problemi nei rapporti tra Giacomo ed il Parlamento; con il figlio, questa
situazione piuttosto conflittuale si esaspera per varie ragioni: innanzitutto, vi sono delle ragioni di tipo
religioso. Carlo I, anche se ufficialmente è sovrano anglicano, dunque capo della chiesa anglicana, in realtà
era sospettato di avere forti simpatie cattoliche (i cattolici erano visti come nemici all’epoca in Inghilterra
dalle forze protestanti); non solo, la regina che era francese, si sapeva per certo che era di religione
cattolica e si sospettava che fosse in combutta con dei rappresentanti del papa, per tentare di riportare i
cattolici al potere in Inghilterra. Per quanto riguarda l’aspetto politico, Carlo I era sostenitore di un’idea di
monarchia assoluta quindi il sovrano, come signore e padrone della nazione e il ruolo del parlamento con le
due camere, quella dei Lords e quella dei Comuni, era in una posizione assolutamente subordinata. Cioè,
secondo Carlo I, non soltanto il sovrano in quanto unto del Signore, era da considerarsi sacro, ma il suo
potere ed il suo volere, non doveva essere messo in discussione. Non solo, ma c’erano anche dei problemi
di natura economica: c’erano state tutta una serie di spese messe in atto dalla corona, prima da Giacomo I e
poi dal figlio Carlo, che erano in parte destinate al tentativo di consolidare il potere del re, ma in parte,
soprattutto con Carlo I, erano state anche destinate al mantenimento dei favoriti del re e anche spese che
avevano a che fare con lo sfarzo, con il lusso che la corte reale si concedeva. Evidentemente tali spese
avevano svuotato le casse dello stato ed il re, Carlo, nel tentativo di rimpinguare queste casse, aveva
chiesto al Parlamento di autorizzare l’emissione di nuove tasse. Aveva ricevuto una risposta negativa e
aveva reagito letteralmente facendo chiudere le porte del parlamento, per tentare di costringere, in
particolare i rappresentati della camera dei Comuni, ad accogliere le sue richieste. Non c’era stata da parte
del parlamento alcuna concessione al riguardo e quello che c’era stato era stato un conflitto tra il sovrano
ed il parlamento, con una vera e propria guerra civile.
Ad avere la meglio saranno le forze puritane, repubblicane con a capo Oliver Cromwell, il quale diventerà a
tutti gli effetti il capo del “Parliament of Saints”, perché tali si proclamavano. Il re Carlo I, sconfitto, viene
catturato, tenuto prigioniero per diverso tempo nella torre di Londra, fino a che il parlamento prende la
decisione di condannare il re per alto tradimento e verrà decapitato.
Come entra in tutto questo Milton? Milton, non appena ha notizia che in Inghilterra sta succedendo
qualcosa di serio dal punto di vista politico e religioso, rientra nel suo paese. Non solo, si impegna
attivamente per difendere il governo repubblicano e puritano, che si va costituendo. Scriverà in questo
periodo soprattutto dei “pamphlet”, vale a dire degli scritti in cui difende certe posizioni, che sono quelle
adottate dal governo puritano e repubblicano e si schiera nettamente a favore di Cromwell e del suo
potere. Verrà anche ad un certo punto nominato “Latin Secretary” che è una carica importantissima che
corrisponde a quella di un Ministro degli Esteri del nuovo governo repubblicano; in questa veste avrà
contatti diplomatici con tutta una serie di potenze straniere e svolgerà un’attività potentissima.
Proprio questo suo impegno sul piano politico, lo porterà a trascurare quella che era la sua vocazione, che
lui riteneva essere quella del poeta epico.
Ecco perché quando scrive il Sonnet XVII si interroga su questo talento che Dio gli ha dato ma che finora è
rimasto non utilizzato. Quando Milton utilizzerà il suo grande talento da poeta epico? Quando il governo
puritano e repubblicano cesserà e ci sarà il ritorno della monarchia. Praticamente, Cromwell viene

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nominato Lord protettore d’Inghilterra, gli viene proposta la corona dopo la morte di Carlo I, la rifiuta,
nominando però come suo successore il figlio, ma quando muore, quest’ultimo dimostra di non avere la
stessa capacità del padre. Dunque, il suo potere dura pochissimo. Nel frattempo tra l’altro, la stessa
popolazione inglese, che in un primo momento aveva accolto con favore la rivoluzione puritana, in un certo
qual senso si dimostra stanca del rigore messo in atto in tutte le espressioni della vita quotidiana dai
puritani, e quando il figlio di Carlo I, che aveva trovato rifugio in Francia insieme a degli aristocratici inglesi
che si erano trovati costretti a fuggire, riesce a mettere insieme un esercito, ci sono degli scontri con
l’esercito puritano, ma la popolazione, invece di schierarsi dalla parte dei puritani, fondamentalmente sta a
guardare. Il risultato sarà che Cromwell è morto nel 1659, il figlio non ha la forza né il carisma per
mantenere il potere, nel 1660 le truppe realiste (le forze monarchiche) tornano ad avere il sopravvento e
avremo la Restaurazione, vale a dire la restaurazione della monarchia. Carlo, che è il figlio di Carlo I, sale al
trono con il titolo di Carlo II anche per indicare questa continuità nella linea monarchica.
Evidentemente Milton, che tanto si era speso, anche pubblicamente, per la causa puritana e repubblicana,
paga il prezzo di questo suo schierarsi: sarà arrestato, anche se sembrerebbe per un periodo non troppo
lungo, ma in ogni caso si ritirerà dalla vita pubblica e a questo punto, anche se è totalmente cieco, si
dedicherà alla composizione dei suoi poemi epici. Questa fase della sua vita è quella che vede la nascita dei
suoi capolavori, in primis “Paradise Lost”.
Un’opera certamente inferiore al Paradise Lost è “Paradise Regained”, anch’esso un poema epico; un’altra
grande opera è “Samson Agonistes” che è una tragedia che vede al centro la vicenda di Sansone.
Andando a vedere la produzione di Milton, dobbiamo distinguere tra diverse fasi:
-la prima fase giovanile in cui Milton scrive una serie di poesie che saranno raccolte soltanto più tardi, tra le
quali spicca la “On the Morning of Christ's Nativity”, l’elegia “Lycidas”, un’opera scritta con lo scopo di
celebrare la figura di un amico morto;
-la seconda fase del periodo del suo impegno politico che vede in particolare la composizione di pamphlets
tra i quali vanno ricordati quelli sul divorzio e l’Aeropagitica.
-la terza fase, che comprende la sua produzione maggiore e le sue opere che sono poemi epici.
I sonetti si collocano lungo questo percorso, in quanto essendo delle composizioni brevi, Milton le scrive
quando l’urgenza dettata da certi eventi o da certe sue esigenze personali si fa sentire. Dunque, i sonetti
sono distribuiti in un arco temporale abbastanza lungo.
Per quel che riguarda i pamphlets, quelli che lui scrive relativamente al divorzio, sono più di uno: li scrive
per sostenere la sacralità del matrimonio, ma nello stesso tempo per difendere e sostenere la possibilità del
divorzio. Sembra una contraddizione, ma in realtà non è così, perché la tesi sostenuta da Milton è che
proprio perché il matrimonio è un vincolo sacro che è pronunciato davanti a Dio, deve mantenere questo
carattere di sacralità che viene meno quando fra due coniugi si verifica una sorta di divisione dovuta ad una
contrapposizione di modi di essere e di attitudini di pensiero diversi; quando c’è questa divisione, proprio
per confermare la sacralità del vincolo matrimoniale, l’unica soluzione è il divorzio.
Questa tesi dipende dal fatto che Milton si sposò due volte: il primo matrimonio però si rivelò da subito un
totale fallimento. Spinti infatti dalle relative famiglie, Milton sposò una giovane donna che sembrava avesse
determinate caratteristiche, anche di serietà che Milton riteneva essenziali, senonché nel momento in cui il
matrimonio venne celebrato Milton e la giovane sposa riscontrarono delle incompatibilità di carattere.
Sembrerebbe che ci furono varie tentativi di riconciliazione ma l’incompatibilità si verificò insuperabile. Da
qui, la tesi di Milton sul divorzio.
Per quanto riguarda l’Aeropagetica, si tratta di un pamphlet in cui, anche in questo caso la posizione di
Milton sembra paradossale, in quanto Milton si schiera in difesa della libertà di stampa contro i
provvedimenti presi dal governo puritano. Era successo in particolar modo che il governo puritano aveva
emanato dei provvedimenti che mettevano in atto una censura preventiva, cioè qualunque tipo di scritto
doveva essere vagliato e approvato; qualora ritenuto immorale e non ritenuto in linea con la visione della
vita dei puritani, doveva essere censurato e non dato alle stampe.

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Milton che pure è puritano convinto si schiera contro questo provvedimento difendendo nell’opera la
libertà di stampa. Anche in questo caso la sua difesa della libertà di stampa contro la censura non scaturisce
da un prendere alla leggera l’attività dello scrittore e la produzione letteraria nelle sue diverse tipologie, ma
scaturisce dalla convinzione che Dio ha dotato l’uomo di libero arbitrio quindi l’autore decide
autonomamente sulla base del libero arbitrio che cosa scrivere e cosa pubblicare. Evidentemente questo
non significa che non ci debba essere un controllo da parte delle autorità civili e religiose, ma questo
controllo non deve essere preventivo bensì successivo.

Analizziamo adesso il “Paradise Lost”, un poema epico-religioso. La funzione del poema epico è
fondamentalmente quella di celebrare, attraverso le gesta e le imprese dell’eroe, quelli che sono i miti
fondanti di una nazione o di un popolo. Si pensi all’Iliade, all’Odissea, all’Eneide, che attraverso le gesta di
Enea celebra in fondo quella che è la nascita di Roma e dell’Impero Romano.
Milton aveva riflettuto a lungo su un’opera epica che svolgesse questa funzione e che andasse anche nella
direzione di un tentativo di mettere in atto una unità nazionale, senonché nel momento in cui, ormai
ritiratosi dalla vita pubblica, può mettere mano alla composizione di questo grande poema epico, amplia
ulteriormente il suo progetto perché il Paradise Lost non si limita a celebrare il mito fondante
dell’Inghilterra ma piuttosto va a celebrare il mito fondante di una comunità. Egli lo fa agganciandosi alla
tradizione biblica ed in particolare al libro delle Genesi. Dunque quello di Milton è a tutti gli effetti un
poema epico-religioso che prende ispirazione da fonti diverse: una fonte classica, legata al poema epico
classico dell’Eneide, ed una fonte religiosa, quella biblica.
Nell’incipit, tratto dal libro I, vi è l’invocazione (parte della tradizione epica con la differenza che nella
tradizione epica classica l’invocazione si rivolge alla musa mentre invece qui si rivolge allo spirito santo).

Analizziamo l’incipit:
[…] O Spirit […] O Spirito, ciò che è in me è oscuro, illuminalo, ciò
[…] What in me is dark che è basso elevalo e sostienilo; affinché all’altezza
Illumine, what is low raise and support; di questo grande argomento (la perdita del paradiso)
That to the height of this great argument io possa affermare l’eterna provvidenza, e possa far
I may assert eternal providence, comprendere il modo in cui Dio opera agli uomini.
And justify the ways of God to men. Lui Dio Onnipotente lo scagliò a testa in giù in
[…] Him the Almighty Power fiamme dal cielo etereo, con orribile rovina e
Hurled headlong flaming from the thereal sky, combustione, nella perdizione senza fondo, per
With hideous ruin and combustion, down dimorare là in catene adamantine e fuoco
To bottomless perdition, there to dwell penitenziale colui che osò sfidare l’onnipotente in
In adamantine chains and penal fire, armi. Nove volte lo spazio che misura il giorno e la
Who durst defy the omnipotent to arms. notte per gli uomini mortali, lui, insieme alla sua
Nine times the space that measures day and night orribile compagnia, giacque vinto, roteando nel fiero
To mortal men, he, with his horrid crew, abisso, sconfitto, sebbene immortale. Ma il suo
Lay vanquished, rolling in the fiery gulf, destino gli riservava altra ira, poiché ora il pensiero
Confounded, though immortal. But his doom sia della felicità perduta sia del dolore duraturo lo
Reserved him to more wrath; for now the thought tormenta: tutto intorno egli fa roteare i suoi occhi
Both of lost happiness and lasting pain terribili, che furono testimoni di pesante afflizione e
Torments him: round he throws his baleful eyes, disperazione, misti a orgoglio smisurato e odio
That witnessed huge affliction and dismay, duraturo. Con un colpo solo, come gli angeli sanno
Mixed with obdurate pride and steadfast hate. fare, egli vede il terribile luogo deserto e selvaggio.
Una terribile prigione, in fiamme su tutti i lati come
una grande fornace; tuttavia, da quelle fiamme
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nessuna luce; ma piuttosto l’oscurità visibile serviva
At once, as far as Angels ken, he views
The dismal situation waste and wild.
A dungeon horrible, on all sides round,
As one great furnace flamed; yet from those flames
No light; but rather darkness visible
Served only to discover sights of woe,
Regions of sorrow, doleful shades, where peace
And rest can never dwell, hope never comes
That comes to all, but torture without end
Still urges, and a fiery deluge, fed
With ever-burning sulphur unconsumed.

Questo poema, anche dal punto di vista strutturale si richiama all’Eneide; dunque, come l’Eneide si
compone di 12 libri, e non di 24 come l’Iliade e l’Odissea. Come l’Eneide comincia anche in medias res, ossia
nel pieno dell’azione. Sarà soltanto nei libri successivi che si andrà in retrospettiva e quindi verranno narrati
gli eventi che precedono quanto narrato nel libro I. Nel libro I assistiamo alla cacciata di Lucifero dal
Paradiso.

LEZIONE 18 20/11/2020

Nella lezione precedente, abbiamo analizzato il frammento che ci forniva la versione di Lucifero della
cacciata e del modo in cui Lucifero si ritrova all’Inferno, questo luogo terribile, che non ha confini e per dare
un idea del quale Milton si inventa addirittura un linguaggio nuovo. Questo luogo è infatti circondato da
fiamme che non si consumano mai, è un luogo che viene definito come orribile, che è abitato da anime
dolenti e da spiriti che sono spiriti che in questo momento sono ancora gli stessi angeli caduti, quindi
demoni che sono destinati a non trovare mai pace.
Andiamo adesso ad analizzare il passo successivo, tratto sempre dal Libro I, in cui a parlare è ancora
Lucifero, l’angelo che si credeva pari a Dio, se non addirittura superiore, e che proprio pere questo, non
accettando il dominio di Dio, che considera un tiranno, gli si è ribellato.

[…] What though the field be lost? […] che cosa importa se il campo è perduto? (il
All is not lost; the unconquerable will, campo qui sta per il campo di battaglia) non tutto
And study of revenge, immortal hate, è perduto; la volontà invincibile e la ricerca della
And courage never to submit or yield: vendetta, l’odio immortale e il coraggio di non
And what is else not to be overcome? sottomettersi e di non cedere mai: e cos’altro è
That Glory never shall his wrath or might non essere sconfitti? Quella gloria (la gloria di
Extort from me. To bow and sue for grace potermi considerare sconfitto) mai la sua ira o la
With suppliant knee, and deify his power, sua potenza potranno estorcere da me. Inchinarsi
Who from the terror of this Arm so late ed implorare la grazia supplicando in ginocchio, e
Doubted his Empire, that were low indeed, deificare il potere di colui il quale per il terrore di
questo esercito così di recente ha dubitato il suo
impero, quello sarebbe davvero vile, quella
91 sarebbe un’ignominia e una vergogna interiore a
questa caduta (cioè quello sarebbe davvero il
That were an ignominy and shame beneath
This downfall; since by fate the strength of gods
And this Empyreal substance cannot fail,
Since through experience of this great event
In Arms not worse, in foresight much advanced,
We may with more successful hope resolve
To wage by force or guile eternal war
Irreconcilable, to our grand foe,
Who now triumphs, and in the excess of joy
Sole reigning holds the Tyranny of heaven.

Come possiamo vedere, Milton per il Paradise Lost, adopera il Blank vers, il decasillabo non rimato, usato
proprio per la grande produzione drammatica del periodo elisabettiano.
In questo frammento, qui Milton distingue tra una battaglia, che è stata perduta, ma Dio non lo ha sconfitto
definitivamente; anzi, la guerra secondo Lucifero, non è affatto perduta, perché la guerra risulterà perduta
soltanto se e quando eventualmente, la sua volontà invincibile, la ricerca della vendetta, l’odio immortale,
tutto questo verrà meno. Ma Lucifero è ben deciso a far sì che questo non accada quindi considera la sua
cacciata dal paradiso e la sua sconfitta soltanto qualcosa di temporaneo; è una battaglia che ha perduto
all’interno però di una guerra che lui è ben deciso a portare avanti nei confronti di Dio. Tuttavia, Lucifero si
rende conto che forse la forza, da sola, non potrà essere sufficiente a sconfiggere Dio e allora sta già
immaginando di portare avanti la sua guerra eterna nei confronti di Dio tramite la forza oppure l’inganno.
Dunque, per riassumere, il Paradise Lost consta di dodici libri; si tratta come detto precedentemente di un
poema epico-religioso in cui l’autore riprende quella che è la struttura dei poemi epici ed in particolare
quelli della latinità ed in particolare si riferisce all’Eneide. Anche l’Eneide, infatti, si compone di dodici canti
o libri e qui appunto Milton riprende questa struttura. Il primo libro ci presenta Lucifero subito dopo la
cacciata dal Paradiso, quindi la vicenda che viene raccontata, viene raccontata non dall’inizio, perché
l’antefatto, quanto precede la cacciata di Lucifero e la sua caduta a cui poi seguirà la creazione dell’uomo, la
sua tentazione da parte di Lucifero e poi la perdita del paradiso terrestre, verrà raccontato dopo. Ma c’è
comunque un antefatto, rispetto alla caduta di Lucifero e questo sarà raccontato nei libri successivi. Ciò
vuol dire che il poema inizia in medias res, ossia la narrazione non avviene dall’inizio della vicenda narrata,
ma ad azione già iniziata, al quale segue un racconto in retrospettiva e un proseguimento ulteriore della
storia.
Andiamo adesso ad un altro passo, che si intitola “In the skin of a snake”. Ci troviamo nel Book IX ed è qui,
nel nono libro che avremo il racconto della perdita del paradiso da parte dell’uomo ad opera di Lucifero che
è diventato Satana per effetto della cacciata. In particolar modo, in questa scena, Lucifero sta cercando di
penetrare nel paradiso terrestre, perché non essendo riuscito a sconfiggere Dio con la forza, a questo punto
sta tentando di mettere in atto la sua lotta contro Dio, servendosi dell’inganno, ma per poterlo fare ha
bisogno di servirsi di Adamo ed Eva.

[…] Of these the vigilance […] io temo di non riuscire ad eludere la vigilanza di questi,
così avvolto nella nebbia del vapore notturno, scivolo
oscuro e spio in ogni cespuglio e boschetto, dove per caso,
92 io possa trovare il serpente addormentato nelle cui pieghe
labirintinee (le spire del serpente) nascondere me, e
I dread, to elude, thus wrapped in mist
Of midnight vapour glide obscure, and pry
In every Bush and Brake, where hap may find
The Serpent sleeping, in whose mazie folds
To hide me, and the dark intent I bring.
O foul descent! that I who erst contended
With Gods to sit the highest, am now constrained
Into a Beast, and mixed with bestial slime,
This essence to incarnate and imbrute,
That to the height of deity aspired;
But what will not ambition and revenge
Descend to? who aspires must down as low
As high he soared, obnoxious first or last
To basest things. Revenge, at first though sweet,
Bitter ere long back on itself recoils;
Let it; I reck not, so it light well aimed,
Since higher I fall short, on him who next
Provokes my envy, this new favourite
Of heaven, this Man of Clay, Son of despite,
Whom us the more to spite his Maker raised
From dust: spite then with spite is best repaid.

So saying, through each Thicket Dank or Dry, Così dicendo, attraverso ogni boschetto umido o
Like a black mist low creeping, he held on secco, strisciando in basso come una nebbia nera,
His midnight search, where soonest he might find egli proseguì la sua ricerca notturna, di dove più
The Serpent: him fast sleeping soon he found rapidamente potesse trovare il serpente: presto
In Labyrinth of many a round self-rolled, lui lo trovò profondamente addormentato,
His head the midst, well stored with subtle wiles: arrotolato su se stesso in un labirinto di molte
Not yet in horrid Shade or dismal Den, spire, con la testa nel mezzo, ben fornita di sottili
Nor nocent yet, but on the grassy Herb astuzie: non ancora dentro un orribile ombra o
Fearless, unfeared he slept. In at his Mouth una tana spaventosa, non ancora nocivo, ma
The Devil enterd, and his brutal sense, piuttosto sul prato erboso, privo di timore, non
In heart or head, possessing soon inspired temuto dormiva. Il demonio gli entrò dentro dalla
With act intelligential; but his sleep bocca, e impadronendosi del suo senso brutale,
Disturbed not, waiting close the approach of Morn. nel cuore o nella testa, presto lo ispirò con azioni
intelligenti; ma non disturbò il suo sonno,
attendendo da vicino l’arrivo del mattino.

In questo passo vediamo come dunque Satana, non soltanto deciso a mettere in atto la sua vendetta contro
Dio, servendosi dell’astuzia, ma anche ad abbassarsi, tanto quanto alta è stata la sua ambizione, altrettanto
è l’ampiezza della sua caduta. Poi ancora, tutto quel discorso sul mirare basso, sul non mirare troppo in alto
perché altrimenti cade troppo vicino, fa riferimento ad un’immagine qui sottointesa, che si riferisce a quella
di un arciere o comunque a qualcuno che punta un’arma. Se infatti un arciere mirasse troppo in alto, la
freccia cadrebbe troppo vicino a lui; se invece vuole raggiungere una preda che è più lontana, ecco allora

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che la direzione della freccia, si dovrà abbassare. Ed è esattamente quello che sta cercando di fare Satana.
Egli, entrando nel corpo del serpente che sta cercando, non soltanto si è abbassato ma sta mirando, per
ottenere la sua vendetta, non al bersaglio che sta in alto, Dio, ma piuttosto a quello che sta in basso,
l’uomo.
L’altro elemento importante che emerge da questi versi è l’interpretazione che Lucifero-Satana dà della
creazione dell’uomo: per Satana, l’uomo non è stato creato da Dio come un atto d’amore, ma piuttosto Dio
ha voluto creare l’uomo, oltretutto creandolo dal fango, dall’argilla, per mostrare il suo disprezzo nei
confronti di quegli esseri angelici, ed in particolare dello stesso Lucifero, che si sono ribellati. Dunque, non
un atto d’amore ma piuttosto un disprezzo assoluto e profondo nei confronti di Lucifero e degli angeli
ribelli.
Dopo essersi impossessato del corpo del serpente, Satana metterà in atto la sua tentazione: cogliendo Eva
da sola. Satana, infatti, sa bene che la sua tentazione non potrà avere effetto se troverà insieme Adamo ed
Eva; insieme potrebbero opporglisi, o perlomeno, l’uno potrebbe mettere in guardia l’altro e
conseguentemente fare in modo che Eva sfugga alla tentazione diabolica. Ecco allora che il serpente coglie
il momento in cui Eva si trova da sola nel giardino terrestre; Satana quindi si rivolge ad Eva, sottoforma di
serpente e mette in atto la sua tentazione, adulandola. Le si rivolge con grandi parole di lode, le dice che è
certamente la creatura più bella del creato e poi insinua il dubbio che il divieto di Dio che loro colgano e si
cibino del frutto proibito, sia qualcosa di assolutamente irrazionale e qualcosa che punta ad impedire loro
di acquisire quella conoscenza che li renderebbe simili a Dio stesso. Chiaramente la storia che viene
raccontata da Milton a proposito della tentazione di Eva e della cacciata dal paradiso terreste, certamente
non è stata inventata da lui, ma Milton attribuisce alla sua Eva una serie di caratteristiche che sono tutte
negative: la Eva di Milton fondamentalmente viene presentata come vanitosa, come incapace di quella
profondità di pensiero, di quella capacità di riflettere che invece è prerogativa dell’uomo, di Adamo. Adamo
viene presentato come colui il quale, pur consapevole del grande errore, del peccato assoluto e totale
commesso da Eva, sceglie per amore di lei di condividerne il destino. Adamo è dunque l’uomo che segue la
sorte della compagna che Dio gli ha dato come atto di amore nei suoi confronti. Però a fronte della vanità,
della leggerezza, in fondo della suprema stupidità di Eva, c’è invece la capacità di ragionare, il senso del
limite, la generosità dell’uomo di Adamo, che sceglie di condividere il destino della sua compagna. Per
questa ragione, anche lui, si nutre del frutto proibito.
Abbiamo insistito su questo aspetto e la modalità con la quale Milton presenta Eva, perché non è un caso,
molti critici vi hanno rinvenuto delle tracce molto profonde di un sentimento assolutamente misogino.
Tanto Milton era convinto della superiore capacità dell’uomo di ragionare, di pensare, altrettanto era
convinto dei limiti intellettuali della donna e questa sua convinzione emerge chiaramente nella
rappresentazione che egli ci fornisce di Eva.

Andiamo a vedere le caratteristiche di quest’opera che ha segnato profondamente tutto il percorso della
letteratura inglese successiva ma anche l’immaginario degli inglesi. Milton, infatti, è stato uno straordinario
inventore di immagini e di metafore che hanno segnato molto profondamente l’immaginario collettivo
successivo. Come già detto, da un punto di vista strutturale, l’opera si compone di dodici libri, seguendo il
modello della grande tradizione classica epica dell’Eneide. Trattandosi di un poema epico, i personaggi che
lo animano, non sono personaggi comuni: nella grande tradizione epica, abbiamo divinità, eroi, regine; qui,
abbiamo Dio, gli angeli ribelli, i nostri progenitori. Dunque, certamente, i personaggi che animano il
Paradise Lost rispecchiano quella che è la grande tradizione epica classica.
Ci sono però naturalmente delle grandi differenze: di solito, i grandi poemi classici celebrano sì gli eroi, ma
in qualche modo celebrano anche una storia che si conclude con qualcosa di positivo, una vittoria. Nel caso
invece del Paradise Lost, abbiamo la celebrazione di quella che è una caduta e una cacciata. Non solo, ma

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quello che può sembrare in un primo momento una sorta di eroe, sia pure eroe negativo perché si oppone
a quello che è un Dio che percepisce come un tiranno, in realtà è il demonio stesso. L’interpretazione della
figura di Lucifero che poi diventa Satana, è stata oggetto non soltanto di studi e discussioni, ma in qualche
caso anche di fraintendimenti. In particolare, saranno soprattutto i Romantici, a partire da Blake, a leggere
la figura di Lucifero come quella dell’eroe, sia pure eroe negativo. In realtà non è così, perché vero è che il
Lucifero di Milton spicca proprio per certe sue caratteristiche di grandiosità, ma in ogni caso, non soltanto si
tratta di un essere del tutto inferiore a Dio, ma si tratta anche di un essere che si caratterizza per un uso
distorto delle qualità che ha, mentre invece a tutti gli effetti l’eroe, sia pure l’eroe il cui destino è segnato
dalla perdita del Paradiso, è lo stesso Adamo, il quale Adamo ha tutte quelle caratteristiche di onestà,
capacità intellettuale, rispetto della virtù, che per Milton erano assolutamente essenziali. Certo, la perdita
del Paradiso c’è, ma è da questa perdita dell’Eden che avrà poi il via il destino dell’umanità come la
conosciamo, un’umanità che attraverso il sacrificio di Cristo, ha avuto la possibilità di riconquistare il
paradiso stesso.
Per quel che riguarda il linguaggio utilizzato da Milton, ovviamente, trattandosi di un’opera che celebra e
presenta degli eventi e delle figure straordinarie, non può utilizzare un linguaggio comune. Il registro
linguistico del Paradise Lost, quindi, è assolutamente un registro linguistico molto elevato. Inoltre, la
familiarità di Milton, non soltanto con le opere ma anche con le lingue classiche, greco e latino in
particolare, la troviamo riflessa anche in certi aspetti della sua sintassi e del lessico. La lingua di Milton nel
Paradise Lost è fortemente influenzata dal latino: non soltanto troviamo molti termini che sono calchi o
prestiti dal latino ma troviamo anche una sintassi fortemente influenzata dalla costruzione latina.

Andiamo adesso a vedere la produzione complessiva di Milton. Abbiamo già visto che questa è
caratterizzata da una serie di fasi, così come abbiamo già visto quanto Milton sia assolutamente impegnato
in quella che è l’attività politica che vede arrivare al potere i puritani di Cromwell. L’interesse di Milton per
la politica e in particolare per quanto i puritani, una volta giunti al potere fanno, non è un interesse di
convenienza; egli era profondamente convinto che la riforma che voleva essere in primo luogo una riforma
morale, messa in atto dai puritani fosse qualcosa di assolutamente giusto, così come era anche
profondamente convinto del fatto che il regime monarchico fosse un tipo di regime che vedendo al potere
un individuo che poteva dominare la nazione da solo, fosse di per sé un regime sbagliato, produttivo non
soltanto di abusi a vario livello ma anche di storture e di corruzioni. Dunque quando Milton ritorna in
Inghilterra, dall’Italia, per sostenere i puritani che stanno cominciando ad opporsi al sovrano, lo fa, non per
interesse ma perché profondamente convinto che sia necessario modificare lo status quo.
Abbiamo già visto come Milton svolgerà un ruolo attivo all’interno del governo parlamentare di Cromwell e
nel 1649 addirittura verrà nominato ad una sorta di ministro degli esteri e della cultura. Ancora prima eprò
di avere questa importantissima carica ufficiale all’interno del governo parlamentare, Milton si spenderà in
difesa di quella concezione politica e religiosa, scrivendo una serie di opere ed in particolare di pamphlets,
vale a dire delle opere in prosa all’interno della quale Milton sostiene in maniera argomentata e ampia una
tesi. Tra i suoi pamphlets più significativi ne abbiamo un gruppo che è imperniato sul divorzio ( a seguito di
una infelice situazione personale Milton diventerà un acceso sostenitore del divorzio, che lo vede non come
qualcosa da prendere alla leggera ma come un qualcosa a cui fare ricorso nel momento in cui diventa
necessario sostenere la sacralità stessa del matrimonio). Al di là di questo gruppo di pamphlets che hanno a
che fare con le sue vicende personali, ve ne sono altri che sono d’ambito più squisitamente morale e
politico. Egli infatti scrive diffusamente relativamente alla necessità della riforma morale della popolazione
ma scrive anche diffusamente a sostegno di un governo repubblicano, l’unico in grado di garantire una
corretta gestione del potere a fronte di una monarchia che è di per sé produttiva di tirannia e di abusi.
Scrive anche un pamphlet a sostegno del dovere del popolo e dei rappresentanti del popolo di liberarsi del

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sovrano, nel momento in cui questo sovrano si dimostri corrotto e non adeguato a quelle che sono le
esigenze morali e religiose della popolazione. Scriverà anche a sostegno della libertà di stampa in un
pamphlet che si intitola Aeropagitica. Il titolo deriva dalla parola greca aeropagus, ed è in questo pamphlet
che Milton sostiene, sulla base della libertà di scelta che Dio conferisce gli uomini, il diritto di ciascuno di
scrivere e pubblicare quello che vuole, prendendosi le sue responsabilità. Quindi egli condanna e critica le
disposizioni e le leggi che il governo parlamentare, che pure lui sostiene, che cercano di mettere in atto una
censura preventiva.
Tra le sue opere dobbiamo segnalare l’importanza in un ode, appartenente alla “fase giovanile”, Ode on
Christ's Nativity. Si tratta in quanto ode, di una composizione in versi che riprende la forma dell’ode
classica. Quello che è diverso rispetto all’ode della tradizione classica, è il contenuto. Qui, ad essere
celebrata è la nascita di Cristo, che viene presentata come un momento straordinario nella storia dell’uomo
che vede la sconfitta delle divinità pagane. Esse, sconfitte dalla nascita del bambino divino, verranno
sostituite come entità negative dai demoni, che opereranno in maniera sotterranea sempre per tentare di
portare l’uomo alla distruzione. Dunque, abbiamo da una parte la ripresa di una forma poetica che ha una
lunghissima tradizione, ma anche la ripresa di figure, di espressioni, di quella che era la tradizione classica.
Nello stesso tempo però abbiamo l’esaltazione del sentimento religioso incentrato sulla certezza della
possibilità di rinascita determinato dall’arrivo di Cristo. Già in questa ode abbiamo l’unione di quelli che
sono i due filoni caratterizzanti della produzione di Milton: classicità e religione.
A questa prima fase giovanile, appartengono anche “L’allegro e il pensieroso”: qui, Milton descrive quelli
che sono due modi di essere (non sono però visti come l’uno il male e l’altro come il bene) in cui si privilegia
nel primo (l’allegro) il diletto e la gradevolezza di una vita spensierata in cui l’uomo si dedica a vari piaceri;
nel pensieroso invece viene presentato un tipo di vita in cui l’uomo si dedica ai piaceri della riflessione,
della meditazione. Certamente messi a confronto, lo stile di vita del pensieroso risulta moralmente più alto,
più significativo di quello dell’allegro, ma sarebbe sbagliato vedere l’uno come il male assoluto e l’altro
come il bene assoluto.
Sempre a questa prima parte della sua produzione appartiene anche “Comus”, un mask. Del mask abbiamo
parlato a proposito della produzione teatrale strettamente legata al teatro di corte, che caratterizza la fine
del periodo elisabettiano e un po’ i periodo giacomiano, ma anche il periodo successivo al regno di Giacomo
I. Scritto nel 1634, siamo in un momento in cui regna un solo sovrano, che peraltro è molto amante di
questo tipo di spettacolo, che nasce come spettacolo di corte, anche se il Comus di Milton già si distanzia e
si differenzia da quello che è il mask così come si era sviluppato sino ad allora. Esso viene scritto da Milton
in segno di rispetto e di amicizia per i membri di una famiglia aristocratica, però nel Comus, quello che noi
abbiamo è la ripresa di figure che appartengono alla mitologia classica: Comus è un satiro, il figlio del dio
Bacco; vi è anche la ripresa dell’allegoria che va a caratterizzare il mask, però qui la vicenda che viene
delineata ha a che fare con il contrasto tra il vizio e la virtù, o, meglio ancora, tra quelli che sono i piaceri
sensuali sostenuti da Comus e la virtù, l’innocenza, incarnati dalla figura della protagonista femminile. Nella
vicenda, Comus mette in atto tutta la sua capacità di fascinazione ma anche la sua capacità retorica per
convincere la protagonista femminile a cedere alle tentazione della sensualità. La giovane lady sarà aiutata
a resistere alle tentazioni di Comus non soltanto dalla sua innata virtù ma anche dall’intervento della ninfa
Sabrina, la quale la aiuta a comprendere la verità. Quindi la natura allegorica e mitologica del Mask viene
assolutamente rispettata, ma è il senso complessivo del mask che Milton modifica e trasforma.

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LEZIONE 19 24/11/2020

Nella lezione precedente abbiamo concluso il discorso su Milton, che scrive le sue opere principali nel
periodo della Restaurazione, cioè quando, con il ritorno sul trono dell’erede del legittimo sovrano che era
stato catturato e poi condannato per alto tradimento e giustiziato dal governo repubblicano, con il nome di
Carlo II. Nel momento in cui vi è appunto la restaurazione della monarchia, sia Milton, sia tutti coloro i quali
avevano avuto un ruolo attivo nel governo repubblicano, chiaramente vengono estromessi dalla gestione
della cosa pubblica e in qualche caso, imprigionati. È stato il caso di Milton, che comunque potrà dopo poco
essere liberato ed in ogni caso dedicherà gli ultimi anni della sua vita alla composizione delle sue grandi
opere ed in particolare del grande poema epico che aveva in mente ma che non aveva avuto modo di
scrivere negli anni precedenti; ma è in un certo senso anche il destino di altri autori, impegnati sul piano
religioso e schierati a favore dei puritani, ma che si trovano in difficoltà nel momento in cui la monarchia
recupera il potere. È questo in particolare il caso di Bunyan, il quale scrive un’opera che si intitola “The
Pilgrim’s progress”. Mentre Milton proveniva da una ricca famiglia per cui aveva avuto una serie di
possibilità per quanto riguarda la sua formazione e dunque si muove in un contesto culturalmente molto
elevato, nel caso di Bunyan, ci troviamo di fronte ad uno scrittore, il quale appartiene invece ai ranghi bassi
della popolazione. Egli aveva precedentemente svolto la professione di fabbro, dopodiché era entrato
nell’esercito repubblicano di Cromwell. Bunyan inoltre ha un percorso di formazione fondamentalmente di
tipo religioso che lo porta ad essere assolutamente convinto della necessità di definire quello che è un
percorso di avvicinamento all’autentica fede. Ciò lo porterà, nel momento in cui ritorna al potere la
monarchia, ad essere imprigionato. In prigione ripenserà a quello che è stato il suo percorso, esce dalla
prigione ancora più convinto delle sue idee religiose (assolutamente contrapposte al cattolicesimo ma
anche all’anglicanesimo) e scriverà quelle che sono le sue opere maggiori. Una prima opera è una
autobiografia, e dunque un’analisi in prima persona del suo personale percorso di conversione a quella che
per lui è la vera fede, quella protestante. Questa autobiografia pone sostanzialmente le basi per quello che

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sarà poi il suo lavoro più famoso, “The pilgrim’s progress”, laddove attraverso la storia di Christian, il
protagonista, Bunyan definisce e delinea il percorso del vero cristiano, il quale con il sostegno delle tre virtù
teologali, fede speranza, carità, può sperare di arrivare nel regno dei cieli, cioè nella meravigliosa città
celeste, dopo essere fuggito da quella che è invece la città della desolazione. Si tratta di un testo in prosa; la
caratteristica però di quest’opera è che si tratta di una prosa molto accessibile, è una prosa che utilizza il
linguaggio comune vale a dire l’inglese parlato dalla gente comune, ma che comunque, nello stesso tempo
riesce ad essere estremamente vivace nelle sue descrizioni.
Se vogliamo fare un confronto fra l’opera di Bunyan ed altri precedenti letterari, diciamo che un aggancio ci
può essere con i morality plays medievali. Ovviamente nel caso dei “Pilgrim’s progress” abbiamo una
produzione che non è volta ad una rappresentazione, ma è una narrazione in prosa però possiamo scorgere
una serie di analogie. In primo luogo, il fatto che si tratta di un’opera allegorica, esattamente come abbiamo
visto nel caso dei Morality plays ed in particolare nel caso di Everyman; tutti i personaggi a partire dal
protagonista Christian, per arrivare alla moglie Cristiana, ai suoi amici uno dei quali è Hopeful che incarna la
speranza, sino a tutte le figure negative che entrano nella narrazione, ecco tutti i personaggi sono a tutti gli
effetti dei personaggi allegorici. Ancora, un altro aggancio che vale la pena di fare è quello con la tradizione
del “Dream poem”, il poema sogno, visto con Langland e Chauser. Quella del poema sogno era una
tradizione fortemente consolidata che Bunyan riprende. O meglio, egli riprende la modalità del sogno,
trasponendola però in chiave non soltanto narrativa, ma anche utilizzando come mezzo espressivo la prosa.
Possiamo dire dunque che Bunyan recupera quelli che sono aspetti di una tradizione precedente a quella
che precede immediatamente il momento storico in cui lui scrive. È interessante dire inoltre che l’opera di
Bunyan non ebbe immediatamente un grandissimo successo: ci fu naturalmente una grande diffusione
però fu soltanto con le edizioni successive alla prima che quest’opera andò incontro ad una fortuna
straordinaria e finì per diventare una sorta di lettura quasi obbligata per tutti coloro i quali in Inghilterra si
muovevano, per quanto riguarda la fede religiosa, nell’ambito di una fede che fosse in qualche modo
diversa da quella ufficiale (anglicana). Non solo, ma anche nelle case anglicane, ad un certo punto, cominciò
ad essere presente il “Pilgrim’s progress” di Bunyan come una sorta di lettura quasi obbligata, vale a dire
cioè che accanto alla Bibbia, spesso e volentieri si trovava una copia di quest’opera.
È anche attraverso quest’opera, in prosa, che ha un fondo narrativo molto forte, che cominciamo a vedere
le basi di quella che, nel secolo successivo, diventerà a tutti gli effetti la grande tradizione del novel, cioè del
romanzo realistico.
Tra gli altri esponenti della Restaurazione, occorre citare Aphra Behn. Ella era una scrittrice, dalla vita molto
movimentata ed anche estremamente interessante come figura di donna e di scrittrice, la quale in un certo
senso può essere considerata a tutti gli effetti, la prima scrittrice di professione, intendendo con questo che
si tratta di una scrittrice che con le sue opere riesce a guadagnare tanto da potersi mantenere con i suoi
proventi ed il frutto della sua scrittura. La figura dello scrittore di professione non si era ancora affermata in
quel periodo: cominceremo a vedere l’affermazione di questa figura intorno al Settecento. La figura della
scrittrice di professione era invece ancora più delicata: vero è che contemporaneamente ad Aphra Behn
c’erano donne che scrivevano anche opere di grande interesse culturale, storico e artistico ma o si trattava
di donne che scrivevano mosse fondamentalmente da un sentimento religioso (ma che non avevano la
scrittura come loro mezzo di sostentamento), oppure si trattava comunque di scrittrici che appartenevano
ai ranghi più elevati della società e che conseguentemente non scrivevano certo per procurarsi i mezzi per
vivere. Nel caso di Aphra Behn invece, che non ebbe una vita molto lunga, morendo prima dei
cinquant’anni, ebbe con i suoi scritti, ed in particolare con quelli teatrali un successo tale da poter a tutti gli
effetti, essere considerata una scrittrice di professione. Secondo Virginia Woolf, è la prima scrittrice di
professione nella letteratura inglese.

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Chi era Aphra Behn? Ella era una donna, di estrazione sociale tutt’altro che elevata, che aveva cominciato la
sua carriera, muovendosi nell’ambito del teatro. Aveva cominciato come attrice, poi si era dedicata alla
scrittura, in particolare di commedie, che ebbero anche un certo successo. Tra queste, quella che appare
più significativa, “The Rover”, il vagabondo, colui il quale viaggia e vaga. In questa commedia, che entra a
pieno in quello che è il filone della commedia della Restaurazione, in aggiunta al personaggio protagonista
maschile, che dà il titolo all’opera, abbiamo la presenza di una figura femminile che è interessante perché
mette in atto una serie di condotte devianti rispetto alla norma ed i costumi ed in particolare, consapevole
delle limitazioni imposte da quella società alle donne, si traveste da uomo per potersi muovere liberamente
negli ambienti più disparati. La vicenda di “The rover” si svolge a Napoli, evidentemente di fantasia, ma in
cui i diversi contesti sociali sono rappresentati con una certa vivacità.
Al centro della produzione teatrale di Aphra Behn, una produzione molto ricca, ci sono diverse questioni,
per lo più legate alla condizione femminile, ma più ancora a quella che possiamo considerare una
rappresentazione critica del matrimonio, così come all’epoca era concepito. Dunque, Aphra Behn è
sicuramente una figura di scrittrice molto interessante nell’ambito del teatro, ma quello che è significativo
ancora di più, della sua produzione teatrale, è il fatto che Aphra Behn scrive un’opera in prosa che
possiamo considerare a tutti gli effetti una sorta di precursore di quello che poi diventerà il filone del novel
(anche se tradizionalmente gli storici fanno nascere il novel, inteso come romanzo realistico, con Defoe).
Ma è con “Oroonoko” che la Behn scrive un’opera che davvero anticipa le caratteristiche di quello che poi
sarà il romanzo realistico. “Oroonoko” è ambientato in una terra esotica, precisamente nel Suriname, una
regione del Sud America che all’epoca era una colonia inglese. Per inciso, la Behn, nella sua vita molto
movimentata, andò davvero nel Suriname, occupando anche una certa posizione di rilievo, perché ad un
certo punto diventò la moglie di un personaggio importante, un nobile, al quale venne affidato il ruolo di
governatore di questa colonia inglese. Di cosa tratta Orinooko? Tratta di un eroe, il personaggio
protagonista, che è un principe africano che è stato catturato con l’inganno e che sempre con inganno è
stato portato nella colonia inglese del Suriname, in cui è a tutti gli effetti uno schiavo. Occorre precisare che
Orinooko, il principe africano, non è il rappresentante di una cultura primitiva, ma è piuttosto l’esponente
di una cultura che in qualche modo si può confrontare con quella cosiddetta occidentale. La vicenda
raccontata da Aphra Behn si impernia appunto sulle vicissitudini, sulle sventure, che il potere coloniale
infligge a questo nobile principe africano e sulla donna che lui ama che è altrettanto nobile oltre che
bellissima. Si tratta dunque di un’opera in cui ad essere messo sotto accusa è il sistema di sfruttamento
messo in atto dal potere coloniale.
Se la Behn si muove nel contesto della Restaurazione, diciamo che ci sono altri autori che vale la pena di
prendere in considerazione, sia pure brevemente, perché in qualche modo anche loro finiscono con
l’anticipare quelli che saranno i caratteri della produzione in prosa successiva.
Facciamo in particolare riferimento ai diaristi, cioè agli autori di diari ed in particolare Evelyn e Pepys. Si
tratta di due scrittori, che non con l’intento di pubblicare i loro diari, perché scrivono in un primo momento
con l’intenzione di registrare per sé, ma soltanto successivamente arriverà la pubblicazione, che prendono
nota quasi quotidianamente di quelli che sono gli eventi sia relativi alla loro vita personale e alla loro
famiglia, sia eventi relativi al contesto sociale in cui si muovono. In particolare, abbiamo una
documentazione, attraverso questi diari, precisa da un punto di vista di persone di una certa cultura, di
quelli che sono gli eventi principali sul piano politico ma anche sul piano culturale e sociale dell’epoca oltre
a tutta una serie di notazioni che sono di carattere personale. Ecco allora che in particolare nei diari di
Pepys avremo un resoconto degli effetti di quel tragico evento che fu l’epidemia di peste che colpì Londra
nel 1665, così come anche un altro tragico evento che colpì la città di Londra, il grande incendio di Londra
che distrusse buona parte degli edifici della capitale. Sempre nei diari di Pepys, inoltre, abbiamo una serie

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di riferimenti a quanto avviene nella scena culturale e letteraria dell’epoca, per cui vengono descritte
rappresentazioni teatrali, le conseguenti reazioni del pubblico, e così via.
È anche attraverso le loro descrizioni di eventi che si cominciano a mettere le basi per quel tipo di
narrazione diaristica, che poi è l’essenza costitutiva del novel.
Tra gli autori che appartengono al periodo della Restaurazione, c’è anche una figura che vale la pena di
citare, perché effettivamente si tratta di uno scrittore che occupa un posto importante nella produzione
della Restaurazione. Stiamo parlando della figura di John Dryden, figura già nominata in relazione ai poeti
metafisici. Dryden era un letterato, di grandissima cultura, di formazione classica, ma anche un uomo
dotato di un’ambizione enorme. Vedremo infatti che nel suo percorso letterario e umano, John Dryden si
troverà più di una volta a cambiare bandiera. Proprio perché estremamente ambizioso, non soltanto
ambisce a fare della letteratura la propria professione, ma ambisce a fare della letteratura lo strumento con
il quale affermarsi e con il quale essere vicino ai potenti. Ecco allora che lo troviamo in un primo momento,
schierato a favore di Cromwell, in onore del quale scrive un ode; poi, Cromwell muore, il governo puritano
lascia il posto alla monarchia ed ecco allora che egli scrive l’opera “Astraea Redux”, laddove il protagonista
è lo stesso sovrano, Carlo II; da che era repubblicano, nonché puritano, si schiera a favore della monarchia,
entra nei circoli di corte e diventerà a tutti gli effetti anglicano dal punto di vista religioso. Dopodiché la sua
carriera sarà segnata dalla produzione di diverse opere poetiche e scriverà ad un certo punto anche
un’opera intitolata “Absalom and Achitophel”, un’opera satirica che prende spunto da quelli che sono i
contrasti sul piano politico, che si verificano intorno alla fine degli anni Settanta, inizi anni Ottanta del
Seicento. In quest’opera accusa, anche con termini molto pesanti, il duca di Monmouth, il quale aveva
sostenuto le pretese del figlio bastardo del sovrano morto contro il potere del fratello del sovrano, che era
salito al trono con il nome di Giacomo II. Diciamo che recupera la vicenda biblica di Absalom e Achitophel e
della ribellione di Absalom al padre, che era il re Saul, poi terribilmente punito da Dio per questa sua
trasgressione.
Dryden, comunque, riuscirà anche ad avere un seguito nella corte reale, e diventerà a tutti gli effetti una
sorta di poeta ufficiale dell’Inghilterra dell’epoca. Nelle ultime fasi della sua vita, si convertirà al
cattolicesimo. Uno dei risultati di questa sua conversione al cattolicesimo sarà “The Hind and the Panther”
che è un altro poema d’ambito religioso.
Dryden non è una figura di spicco solamente per la sua figura di poeta, ma lo è anche per il suo ruolo di
critico letterario e come drammaturgo. Come critico letterario scrisse tra l’altro a proposito di Shakespeare,
del quale disse che si trattava di uno straordinario poeta, nonché padre del teatro inglese. Ma a lui
dobbiamo anche “An Essay of Dramatick Poesie”, laddove fa una sorta di rassegna di quelle che sono le
tipologie teatrali del suo tempo ed entra nel vivo della discussione dichiarando quali sono secondo lui le
forme di rappresentazione più valide. C’è da dire che nel suo esercizio critico, ma anche nella sua
produzione teatrale, Dryden fa riferimento alla sua cultura classica ed in particolare nella sua produzione
teatrale va a recuperare le cosiddette unità aristoteliche che invece il teatro elisabettiano, con l’eccezione
di Ben Johnson aveva finito con l’ignorare. Nella sua produzione teatrale, Dryden va anche alla ricerca di
quella misura che secondo lui era andata smarrita. Ecco allora che scrive delle opere originali, che si
muovono nel filone della commedia della restaurazione, ma scrive anche delle tragedie che si differenziano
dalla grande tradizione della tragedia elisabettiana perché spesso e volentieri non hanno neanche un finale
tragico.
Qual è il genere letterario che maggiormente spicca nel periodo della Restaurazione? Da un punto di vista
storico, la Restaurazione fondamentalmente è un arco di 40 anni che va dal 1660, anno in cui viene
restaurata la monarchia con Carlo II, fino al 1700. Dal punto di vista politico e sociale si tratta di un periodo
tutt’altro che semplice: anzi, ci sono una serie di problemi. I puritani che erano stati al potere fino al 1660,
avevano introdotto, ma soprattutto imposto, non soltanto un regime politico diverso dalla monarchia, la

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Repubblica, ma avevano anche introdotto una severità di costumi, che in teoria andava nella direzione di un
maggiore rigore morale, di una maggiore onestà nella gestione della cosa pubblica, ma che nella pratica
aveva finito col tradursi in una serie di disposizioni che erano abbastanza vessatorie nei confronti della
popolazione. Essa in un primo momento aveva visto con grande favore la rivoluzione puritana, ma poi
aveva cominciato a stancarsi di questo rigore formale e di questo moralismo estremo che i puritani avevano
imposto. Il risultato, quando Carlo ritornò al potere dall’esilio in Francia, salì al potere con il nome di Carlo
II, non incontrerà grande resistenza da parte della popolazione. Con l’arrivo di Carlo II però, il quale
ritornando dalla Francia insieme a diversi aristocratici, che a seguito della rivoluzione puritana erano stati
costretti a fuggire dall’Inghilterra e avevano trovato rifugio in Europa, salendo al potere, porterà con se
tutta una serie di abitudini acquisite alla corte di Francia nel contesto della cultura francese. Quello che si
registra, è, per quanto riguarda l’ambito specifico della corte, ma anche più in generale nella società
dell’epoca, quello che potremmo definire un rilassamento dei costumi (soprattutto rispetto al precedente
rigore imposto dai puritani). Carlo II inoltre non era ufficialmente cattolico, ma aveva chiaramente delle
simpatie cattoliche, per cui quello che si verificherà è che vengono revocati una serie di atti che avevano
precedentemente escluso in maniera assoluta e totale, la possibilità per coloro i quali non fossero anglicani
ed in particolare i cattolici, di occupare delle posizioni di un certo rilievo nella vita pubblica del tempo.
Carlo II però, finirà ben presto con l’inimicarsi buona parte della popolazione a causa delle spese smodate,
dei lussi, che la sua corte si concederà e che naturalmente dovevano essere pagati tramite l’imposizione di
tasse. Aggiungiamo inoltre a questo tutta una questione dinastica: Carlo II, fratello di Giacomo, il quale
sembrerebbe essere in mancanza di un erede maschio, il suo erede designato, ma c’è anche un problema
con il figlio illegittimo. In sostanza si scatenano una serie di contrasti proprio in relazione alla successione al
sovrano.
Alla morte di Carlo II, salirà al trono, Giacomo II, ma salito al trono Giacomo II, che mette in atto una serie di
politiche dichiaratamente a favore dei cattolici e che oltretutto sembra subire molto l’influenza anche
politica della Francia, e che a un certo punto con la moglie ha un figlio maschio, determina una reazione
forte da parte degli anglicani. Il risultato è che ci sarà una rivoluzione che avviene nel 1688, che porterà sul
trono la figlia protestante di Giacomo II e suo marito Guglielmo d’Orange. L’incoronazione di Guglielmo
d’Orange e sua moglie avverrà nel 1689 e sarà determinata da quella che viene definita “The glorious
revolution, la rivoluzione gloriosa, perché si tratta di una rivoluzione che viene messa in atto senza
spargimento di sangue. La situazione politica e sociale, dunque, in quest’arco di quarant’anni, non soltanto
non rimane identica a se stessa, ma piuttosto, abbiamo una serie di fenomeni ed eventi che complicano
notevolmente la scena sociale e politica dell’epoca. Di questi eventi, troveremo riscontro in particolare nel
Lucius Junius Brutus.
Dal punto di vista strettamente letterario, dobbiamo dire che la Restaurazione determina in Inghilterra un
fenomeno che è strettamente legato alla produzione teatrale. Sappiamo che i puritani, che vedevano il
teatro come il luogo privilegiato della falsità, della corruzione, del peccato, avevano, una volta scesi al
potere, chiuso i teatri. Quando arriva invece al potere Carlo II, egli porta con sé i gusti e le abitudini
acquisite alla corte di Francia, ma anche l’amore per il teatro. Proprio perché il teatro, era stato tra i generi
letterari, quello che più aveva sofferto nel periodo della parentesi repubblicana, nel momento in cui sul
trono ritorna la monarchia, il teatro è il genere letterario che va incontro ad una sorta di rinascita.
Si tratta però di un tipo di teatro che presenta delle differenze considerevoli rispetto alla grande tradizione
del teatro elisabettiano e giacomiano. Tanto per cominciare, vi sono delle differenze considerevoli proprio
per quanto riguarda i teatri intesi come Playhouses, come luoghi della rappresentazione. Il teatro pubblico
elisabettiano, caratterizzato da una forma o circolare o poligonale, senza tetto sul pit o arena, caratterizzata
da un palcoscenico che si proiettava nel pit o arena tramite la plat, viene meno.

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Con Carlo II e ad opera degli architetti incaricati da Carlo II ed in particolare ad opera di Christopher Wren,
si costruiscono a Londra dei teatri nuovi, che somigliano molto a quelli che erano i teatri privati del periodo
elisabettiano o anche ai teatri che Carlo II aveva conosciuto in Europa, in particolare in Francia. Il teatro è
adesso costituito essenzialmente da un edificio appositamente costruito, che ha forma rettangolare di
solito, coperto (dunque le rappresentazioni si possono svolgere indipendentemente dalle condizioni
atmosferiche), illuminato artificialmente tramite candele, è dotato di un palcoscenico che può avere un
prolungamento nella platform, ma è estremamente ridotta rispetto al periodo elisabettiano, e poi
gradualmente andrà a scomparire, come una sorta di prolungamento del palcoscenico, quindi dello stage, a
forma trapezoidale o rettangolare. Non solo, ma il pubblico in quello che è il pit o arena, non sta in piedi ma
ci sono piuttosto delle file di sedie, spazio di solito leggermente in discesa in modo da consentire anche agli
spettatori delle file posteriori di avere una buona visione di quanto avviene sul palcoscenico. Poi
naturalmente sui tre lati dell’edificio ci sono le file di galleries con i posti più costosi. Inoltre, vengono alzati
i prezzi dei biglietti e conseguentemente a frequentare i teatri nel periodo della Restaurazione sono
fondamentalmente gli aristocratici o comunque i rappresentanti della borghesia, mentre invece nel periodo
elisabettiano il teatro era frequentato da gente di ogni estrazione sociale.
La variazione relativamente alla composizione del pubblico ha influenza notevolissima anche sul tipo di
produzioni teatrali che vengono messe in scena.
Poi ancora, sempre per quanto riguarda il teatro e dunque lo spazio della rappresentazione, questo si
arricchisce di scenari: fondali dipinti, quinte mobili, sul fondo del palcoscenico dei binari che in qualche
modo consentono di fare scorrere i diversi scenari. Dunque mentre nel teatro elisabettiano il setting non
consentiva e non c’era nessun tentativo di dare un’immagine realistica (la definizione del setting era
affidata alla capacità del drammaturgo di mettere in bocca all’attore delle battute che potessero evocare il
setting, farlo immaginare allo spettatore); ora invece, tramite questi scenari dipinti, che oltretutto possono
cambiare durante la rappresentazione, c’è il tentativo di dare una rappresentazione visiva del setting che va
a sostituire la capacità della parola di stimolare l’immaginazione dello spettatore.
Vengono inoltre utilizzati, ed in particolare nella tragedia, tutta una serie di macchinari, anche abbastanza
complessi, che hanno la funzione di suscitare la meraviglia dello spettatore.
C’è poi, per quanto riguarda le compagnie di attori, la reintroduzione delle compagnie (che si erano
disperse durante il periodo della rivoluzione puritana) vede, per quanto riguarda la città di Londra,
fondamentalmente due che hanno un’apposita licenza da parte del re: la compagnia del duc’s man e quella
del king’s man. Per quanto riguarda gli attori, inoltre, abbiamo un’introduzione di una figura che nel teatro
elisabettiano inglese assolutamente non c’era: quella dell’attrice. È una novità quella della presenza
dell’attrice che viene accolta con molto favore (dal pubblico aristocratico), ma addirittura si costruiranno
dei testi che possano mettere in risalto le capacità dell’attrice.

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