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COMUNISTI”:
PENOSO SMARRIRSI DEI CONFINI
TRA COMUNISMO E IDEOLOGIA
BORGHESE
Antefatto
Si facilita l’inquadramento storico-politico della questione richiamando un
antefatto decisivo, citato velocemente da Buchignani e oggetto di
approfondimento specifico nel libro di Pietro Neglie “Fratelli in camicia
nera – Comunisti e fascisti dal corporativismo alla CGIL (1928-
1948)” ( Bologna, Il Mulino 1996).
Il lavoro di Neglie illustra gli sviluppi che ebbero origine dalla cosiddetta
“direttiva entrista” – approvata dal VI Congresso della Terza Internazionale
del luglio-settembre del 1928 – contenente l’indicazione per i comunisti
italiani di penetrare nelle organizzazioni di massa del fascismo (con
essenziale riferimento al sindacato).
Il VI Congresso dell’Internazionale Comunista è notoriamente
caratterizzato dalla linea che, in quella fase, individuava come compito
prioritario quello di combattere come nemico principale la socialdemocrazia;
mentre l’indicazione di infiltrare le organizzazioni fasciste appariva piuttosto
come un corollario secondario rivolto agli italiani.
Se, però, la cosiddetta “teoria del socialfascismo” ebbe vita breve, prima di
venire rigirata in pochi anni nell’opposta indicazione del popolar-frontismo
senza limiti, l’indicazione di penetrare le organizzazioni fasciste conobbe
invece un seguito durevole e significativo.
Ciò in quanto la sua concreta applicazione, di lì a breve e come
conseguenza del generale corso degenerativo del movimento comunista
internazionale, venne a manifestarsi con modalità e contenuti che
contraddicono ogni reale politica comunista che in determinate fasi sia tenuta
ad agire nell’ambito di organizzazioni di massa reazionarie.
Sicché si deve dire, con riferimento al “dialogo” tra “fascisti rossi” e PCI
poi concretizzatosi nell’immediato dopoguerra, che sono stati per primi i
“comunisti” del PCd’I di Togliatti a rivolgersi ai “fratelli in camicia nera”.
Stiamo parlando, beninteso, del PCd’I che sin dal congresso di Lione del
gennaio del 1926, con il supporto autorevole dei deliberati dell’Internazionale
in via di avanzante stalinizzazione, aveva messo fuori gioco la corrente di
sinistra di Amadeo Bordiga, largamente maggioritaria nel partito sin dal
congresso di fondazione di Livorno nel 1921.
Dunque parliamo di un PCd’I in via di mutazione del DNA delle origini e
di involuzione verso quel “partito nuovo” che negli anni successivi avrebbe
modificato sostanzialmente e apertamente il proprio programma (tra l’altro
italianizzando in modo significativo il nome e introducendo il tricolore nel
simbolo: il nome originario di Partito Comunista d’Italia – Sezione della
Internazionale Comunista fu trasformato in quello di Partito Comunista Italiano
dopo il giugno del 1943, quando Stalin e compagnia approvarono lo
scioglimento dell’Internazionale Comunista su richiesta e come omaggio e
pegno di fedeltà ai neo-alleati governi statunitense e inglese).
Sul n. 8 dell’agosto 1936 di “Lo Stato Operaio”(rivista teorica del PCd’I)
venne così pubblicato, in uno slancio di “entrismo”, un manifesto-appello “agli
italiani”, dal titolo “Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo
italiano!”, firmato da tutti i principali dirigenti comunisti, con Togliatti primo
firmatario. Ne riportiamo di seguito i passaggi salienti:
“Lo so, compagni, che oggi non si pone agli operai italiani il problema
di fare ciò che è stato fatto in Russia... L’obbiettivo che noi
proporrremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà
quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo...
proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica,
con una costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le
libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa,
di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la
libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere
schiacciata dai gruppi avidi ed egoisti della plutocrazia, cioè del
grande capitalismo monopolistico. Questo vuol dire che non
proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza e sul
dominio di un solo partito. In una parola nell’Italia democratica e
progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti
corrispondenti alle diverse correnti ideali e di interessi esistenti nella
popolazione italiana...” 6.
La nostra tesi
Così sintetizzati i fatti, esponiamo la nostra tesi.
La questione del fascismo non tradizionale è questione ricorrente e
attualissima.
Ai giorni nostri viene riproposta da svariate forze – prevalentemente di
destra radicale – e in infinite versioni. Al riguardo non abbiamo qui la pretesa
di una ricognizione, neanche parziale, di queste forze per come esse si
presentano ai nostri giorni, trattandosi piuttosto di centrare il tema e dare
qualche essenziale riferimento storico (quello dei gruppi de ”Il Pensiero
Nazionale” appunto) che valga a inquadrarlo nella sua origine e nel suo
contenuto continuamente riproposto.
Una certa estrema destra (tipo la rivista ”Orion”) ha rilanciato da ultimo,
con dovizia di studi e di riferimenti storici precisi, la lettura del fascismo come
rivoluzione mancata, che sarebbe stata progressiva e risolutrice se solo fosse
stata portata avanti fino in fondo secondo i suoi cardini iniziali.
Costoro vanno oltre e, prendendo a riferimento le posizioni cosiddette
“nazional-bolsceviche” espresse dai tedeschi Heinrich Laufenberg e Fritz
Wolfheim durante la rivoluzione proletaria esplosa in Germania negli ultimi
mesi del 1918, presentano ai giorni nostri come una novità interessante quella
dell’esistenza di una via di contatto tra destra e sinistra, che, scartando sia i
tradimementi del fascismo reale che le aporie del socialismo reale, indicherebbe
agli uni e agli altri la giusta strada da seguire insieme.
La questione in esame, peraltro, può presentarsi anche spogliata del
riferimento formale al fascismo, e può essere propinata – soprattutto di questi
tempi non propriamente brillanti per la cosiddetta “soggettività”
comunista rivoluzionaria – attraverso l’iniziativa di forze prevalentemente
provenienti dalla sinistra, anche estrema.
Forze che giungano anch’esse a divulgare urbi et orbi la scoperta di
originali “laboratori di pensiero” dove non esisterebbero più una destra e una
sinistra che conservino un senso nella identificazione dei programmi politici
agenti nella realtà, e dove, cancellato il fascismo e pensionate destre-e-sinistre,
rispunterebbe però la sostanza di un programma – presentato come salvifico
dai delusi delle due estreme – che coniuga insieme questione nazionale e
questione sociale, nazionalismo e socialismo(vedi sul nostro sito
l’articolo Questione nazionale: marxismo e anti-marxismo, rivoluzione e
controrivoluzione).
Con questa nota sulla vicenda del “fascisti rossi” noi vogliamo dire che si
tratta di un problema che ritorna: è il problema dello smarrirsi in determinate
(anche lunghe) fasi storiche di confini certi tra comunismo e ideologia
borghese e dell’incrociarsi di percorsi che mai potrebbero incontrarsi (e mai si
sono effettivamente incontrati) negli svolti cruciali in cui rivoluzione proletaria
e controrivoluzione borghese si ergono veramente in piedi sui propri
contrapposti programmi per il reale e crudo scontro di vita e di morte.
In tal senso, dopo aver utilizzato in abbondanza la documentazione fornita
da autori quali il Neglie o il Buchignani – reputandola utile sotto il
profilo storiografico –, aggiungiamo una precisazione essenziale che ci
allontana nettamente dall’interpretazione di questi autori (e ci contrappone ad
essa). Buchignani (che si richiama a Renzo De Felice) ritiene di poter
argomentare sulla base dei fatti indagati una lettura “meno ideologica e
schematica” del fascismo e del comunismo e, volendo “restituire questi
fenomeni alla loro reale complessità e articolazione”, ne evince “ciò che viene
comunemente misconosciuto o negato: la contiguità ideologica tra comunismo
e fascismo”. Secondo il Neglie corporativismo fascista e comunismo, nella
ricerca di “vie d’uscita... alla duplice crisi irreversibile del liberalismo e del
socialismo”, avrebbero elaborato entrambi una “terza via” caratterizzata da una
“sostanziale omogeneità di fondo: statalismo, pianificazione dell’economia,
sviluppo di una forte industria, produttivismo, limitazione o autolimitazione
della dialettica sociale”. Da ciò deriverebbe “la convergenza fra questi due
schieramenti politici essenzialmente antitetici”.
Entrambi questi autori, quando parlano del comunismo, si crogiuolano
nell’omettere ogni riferimento alla battaglia teorica e politica del marxismo
senza aggettivi (che noi integralmente rivendichiamo) e al corrispondente
dispiegamento di lotta rivoluzionaria della massa proletaria nella Comune
parigina e nella rivoluzione del primo dopoguerra vittoriosa in Russia e
sconfitta (questo il punto di svolta di tutti i seguiti) in Germania. In alternativa
si dilettano a dichiararli superati “definitivamente” dall’ “irreversibile
fallimento”.
Essi preferiscono cancellare come secondario incidente di percorso (tipo il
“malinteso” di Togliatti...) lo scontro frontale negli anni decisivi tra Partito
Comunista e reazione statual-borghese (bande e partiti fascisti compresi) e
amano invece legittimare le proprie intepretazioni prendendo a piene mani dalla
melma della successiva degenerazione del movimento comunista
internazionale, dove lo stalinismo è per noi un aspetto della trionfante
controrivoluzione borghese.
Possono farlo finché il proletariato non tornerà a riprendere in mano il filo
rosso della lotta rivoluzionaria per l’emancipazione dallo sfruttamento. A noi
compete di condurre la battaglia di classe (per quel che oggi è dato) in questa
prospettiva.
Vogliamo dire che, quando c’erano il fascismo vero e il comunismo vero,
questo tipo di dialogo era altamente improbabile.
Mussolini, ad esempio, poteva certamente occhieggiare a una
collaborazione con i riformisti, finalizzata a guadagnarsi la più rapida
sottomissione della massa operaia al programma nazionale del fascismo.
Poteva a tal fine chiamare al dialogo quei dirigenti socialisti e della CGL
che nell’agosto del 1921 si precipitarono a sottoscrivere il “patto di
pacificazione” con i fascisti, “pacificazione” rifiutata dal Partito Comunista
d’Italia allora veramente tale. Con costoro sarebbero stati senz’altro possibili la
pacificazione e l’accordo che favorissero, in modo ancor più netto di quanto in
effetti non si potè “concordare”, l’arretramento della lotta operaia di fronte alla
reazione statual-fascista della borghesia, se non ci fosse stato il PCd’I a tenere
viva tra i proletari la posizione determinata a combattere invece la battaglia di
classe.
Mussolini poteva e potè collaborare ancora con quella CGL che infine
“capitolò” il 5 gennaio del 1927 quando decise di propria
iniziativa l’autoscioglimento, dichiarando inoltre di accettare la legislazione
fascista e di volersi impegnare a una “critica costruttiva” del sindacato unico
fascista (vedi la dichiarazione di Rigola e altri dirigenti CGL del 2 febbraio
1927). Dirigenti CGL che mantennero poi la promessa fatta al fascismo, così
costituendosi nell’ “Associazione Nazionale per lo studio dei problemi del
lavoro” ed editando durante il ventennio riviste “costruttive” sui temi del
lavoro (“Problemi del lavoro”), per ripresentarsi “dopo la liberazione” più che
allenati e in palla per mettere a frutto nel “nuovo sindacato democratico” le
lezioni del ventennale tirocinio corporativo.
Tutto ciò, insomma, era senz’altro possibile nei confronti dei partiti
e dei dirigenti sindacali opportunisti (e il dialogo con lo Stato e i suoi
scherani offerto o acccettato, nei passaggi cruciali dello scontro, da opportunisti
e voltagabbana vari era – e sarà – esso stesso espressione e strumento
dell’offensiva antiproletaria).
Ma con i comunisti del PCd’I che lottavano apertamente e con fermezza
per gli interessi storici della classe operaia e per la rivoluzione internazionale,
terreno arabile per dialoghi e incroci di questo o altro genere davvero non ce
n’era.
La praticabilità del dialogo tra “comunismo” e nazional-fascismo salta
fuori dopo la sconfitta dell’assalto proletario, cui decisamente contribuisce
l’aggressione portata dalla controrivoluzione borghese che arma e promuove il
fascismo (altro che “fascismo rivoluzionario”, “contiguità ideologica” e
“convergenze”!).
Salta poi fuori nelle fasi in cui diviene egemone nel movimento operaio il
“comunismo” tricolore del PCI che, nell’immediato dopoguerra – secondo un
decorso evidentemente non slegato dalla vicenda degenerativa più ampia del
comunismo internazionale –, ha rimosso e cancellato ogni contenuto reale già
corrispondente al proprio nome (il discorso vale sull’opposto versante per il
fascismo).
E salta fuori oggi in una fase di penoso smarrimento di ogni lume della
ragione tra i cosiddetti “marxisti rivoluzionari”, fino a ieri alla sinistra del PCI,
dove si brancola alla ricerca di “nuove vie”, senza conoscere la storia che ritorna
attraverso quelle “sperimentazioni” e senza avvedersi che ci si avvicina
piuttosto al ciglio di stravecchissimi burroni indicati al proletariato come “vie
inedite” da imboccare.
Nel secondo dopoguerra, quindi, a promuovere l’incrocio era la destra
verso la sinistra. Insomma, era Ruinas che andava a cercare Togliatti. Non tanto
per la pur oggettiva difficoltà degli ex-fascisti nel passaggio alla democrazia
(che anzi la vicenda dei “fascisti rossi” va letta, a nostro avviso, come ulteriore
tassello – e conferma – della naturale complessiva trasmigrazione armi e
bagagli del fascismo di tutti i gusti e orientamenti nel composito nuovo arco
costituzionale della rinascente democrazia), quanto perché in quella fase, a
differenza di oggi, si andava ricostituendo una certa struttura organizzata della
sinistra (riformista) nella quale la classe operaia si riconosceva.
Con quella forza organizzata si doveva comunque fare i conti, e soprattutto
li dovevano fare i “fascisti rossi”, che nella classe operaia vedevano anch’essi
il nodo centrale su cui far leva (per una politica che è all’opposto della nostra),
se intendevano dare un senso ai dichiarati programmi di “nazionalizzazione
delle masse”.
Dopo la “liberazione” del 1945, secondo la nostra tesi, la democrazia
conserva tutti gli istituti essenziali del fascismo, ovvero eredita molte delle
“riforme” del fascismo in quanto valido ammodernamento del modello
borghese verso cui fascismo e democrazia entrambi tendono. Ed è questa la
base reale che rende possibili tutte le migrazioni di fascisti e ex-fascisti a destra,
al centro e alla “sinistra” del nuovo arco costituzionale (la cosiddetta
“riconciliazione sul piano della democrazia”...).
Quanto a migrazioni (di uomini e di contenuti) dal corporativismo fascista
al nuovo sindacato del dopoguerra, la ricerca di Buchigani (pagg. 26-27) dà
conto di un particolare significativo e niente affatto unico nel suo genere,
documentando il percorso di “un manipolo di fascisti di sinistra corridoniani”
(Ravenna, Benevento, Landolfi, Romano e Daquanno) che contrastarono
dall’interno la “svolta a destra” del MSI, per approdare nel 1948 al PN di
Ruinas, venendo poi indirizzati da Luigi Fontanelli – direttore della rivista
”Lavoro fascista” e teorico della sinistra corporativa durante il ventennio – alla
UIL, concludendo la migrazione nel PSI. Ebbene, nel riferito manipolo spicca
il nome di Ruggero Ravenna, il futuro segretario generale della UIL.
Peraltro la migrazione sul versante sindacale non è per nulla circoscritta ai
ranghi delle scissioniste (dagli interessi di classe del proletariato, n.n.) CISL e
UIL, perché sono gli stessi campioni della nuova CGIL, proprio quelli
dell’“autoscioglimento costruttivo”, a dichiarare apertamente che il
corporativismo fascista presentava molte novità di cui tenere conto per l’azione
sindacale futura, con particolare riferimento alla
istituzionalizzazione/costituzionalizzazione del sindacato e alla sua, parziale
ma reale, integrazione nella macchina politica dello Stato (trasmigrazione di
principi corporativi codificata nell’art. 39 della nuova carta costituzionale e
nella prassi concreta del sindacato democratico). Istituzionalizzazione e
integrazione nello Stato che presuppongono e realizzano l’abbandono del
criterio della lotta di classe e della distinzione (figuriamoci poi
dell’antagonismo) dell’organizzazione di difesa immediata del proletariato.
Dunque nel dopoguerra sono i fascisti di sinistra a rivolgersi alle forze
politiche e sindacali della sinistra costituzionale, che non disdegnano di dare
seguito all’invito (non disdegna in particolare il PCI di Togliattti; molto meno,
inizialmente, il PSI di Nenni).
I “fascisti rossi” diventano appetibili per Botteghe Oscure sia per questioni
di bottega nell’accesissima contesa elettorale che si scatena una volta archiviata
l’alleanza ciellenistica (è ovvio che sono i partiti di destra e di centro a
imbarcare il maggior numero di rappresentanti e di consensi dei nostalgici del
ventennio, ma anche il gruppo di Ruinas mette sul piatto a più riprese i numeri
di 15-20.000 quadri e di un paio di milioni di rivendicati simpatizzanti delle
proprie posizioni “autenticamente fasciste”); sia per la ragione sostanziale del
trovarsi effettivamente sullo stesso cammino e di vedere – da parte dei
rispettivi gruppi dirigenti – che un comune cammino poteva esserci utilmente
per essi in molti sensi.
In particolare il vertice del PCI vede che il coordinamento per una battaglia
politica parallela con gli “ex fascisti di sinistra” poteva avvenire attraverso lo
smussamento di molte “pazzie estremiste” della classe operaia, sicché per esso
va molto bene incamminarsi per la strada che riconduca questa all’ovile
dell’interclassismo, in nome delle “responsabilità di classe nazionale” da
assumersi. E gli va più che bene di condividere il percorso con chi è del tutto
funzionale e dunque lo aiuta a demarcare questo tracciato e questa meta nella
stessa massa proletaria.
Se Buchignani documenta i rapporti intercorsi tra i “fascisti rossi” e la
sinistra istituzionale nell’immediato dopoguerra, noi oggi vediamo – ecco la
nostra tesi– come i contenuti di questa politica dell’incrocio e del dialogo
destra-sinistra o non-più-destre-e-sinistre si vanno diffondendo ed
insinuando verso la stessa sinistra estrema e cosiddetta “rivoluzionaria”.
I “fascisti rossi” hanno animato e trasmesso l’ideologia e il programma del
nazionalismo a tinte sociali e “di sinistra” (in chiave italica od europea, la
sostanza non cambia), di una vagheggiata rivoluzione nazionale che sarebbe
chiamata a “completare il Risorgimento interrotto”. Essi hanno avuto e hanno
chiaro che la classe operaia è il nodo centrale dello scontro politico e hanno
preminente la prospettiva dell’auspicato sviluppo “nazional-bolscevico” delle
dinamiche sociali del proprio paese negli svolti cruciali.
Su questa strada i loro eredi vanno oggi trovandosi con i marxisti pentiti,
delusi questi del proletariato che non si mobilita, estasiati dalla
accesa verve anti-americana dei primi in quanto nemici giurati
dell’imperialismo a stelle e strisce, soprattutto ipnotizzati (mentre dichiarano
tuttora valida la teoria dell’imperialismo di Lenin, così invece volta nel suo
contrario) dalle argomentazioni sulla (peraltro ovvia) numerazione del “rango”
degli imperialismi, che preludono alla legittimazione della difesa della propria
nazione – di rango minore – contro lo strapotere (realmente intollerabile e
odioso, n.n.) dell’imperialismo n. 1 (il problema è: strapotere su chi? quale
soggetto deve attrezzarsi a scrollarsene il peso? con quale programma? per
quale prospettiva?).
Nel 1947 i “fascisti rossi” facevano la coda verso il PCI con l’obiettivo di
indirizzarne e influenzarne determinati motivi e posizioni e come chiave di
ingresso della loro propaganda verso la massa operaia.
Oggi questa mentalità “nazional-comunista” sta diventando
egemone, anche se non si chiama direttamemente così e anche nei casi in
cui sembrano o sono realmente scomparsi portatori d’acqua
dichiaratamente fascisti.
Oggi, in (negativa) aggiunta, la mentalità “nazional-comunista” diviene
egemone non solo nel campo della sinistra ufficiale riformista –
già approdata da quel lontano 1936 e per suo conto verso quei lidi, seguendo la
degenerazione dello stalinismo –, ma anche in quella sinistra estrema e
“rivoluzionaria” che da sempre alla prima si era opposta (nella generalità dei
casi senza riuscire a demarcarsi realmente dall’orizzonte politico stalinian-
togliattiano e gli attuali approdi ne danno più che conferma).
Beninteso, in assenza di una effettiva mobilitazione sociale delle masse, si
tratta oggi di una “egemonia” riferibile alle ”elités” politiche, epperò, sia pur
entro questi limiti, significativa di quelli che potranno essere gli sviluppi a
venire. Nella massa proletaria, in assenza di una vera lotta e di un programma
comunista effettivamente visibile e agente, non ci nascondiamo che, insieme
alla più totale confusione e al disorientamento (o contro-orientamento al carro
dei più diversi programmi reazionari e relative illusioni, sia pur soltanto o –
nelle punte massime – poco più che elettoralistico), si diffonde se non
l’egemonia che diriga mobilitazioni che non ci sono, però senz’altro, nelle
debolissime reazioni pur evocate dall’attacco padronale, una mentalità che non
sbagliamo a definire come “nazional-comunista”, ovvero di difesa degli
interessi dei lavoratori in quanto difesa minima subordinata al rilancio vincente
del proprio capitalismo e della propria azienda, in quanto lavoratori “italiani”
da non confondere e ai quali non voler riservare lo stesso trattamento di
“polaccchi” o “serbi”, etc..
Nelle condizioni date non sarebbe davvero per noi una sorpresa se la
ripartenza delle lotte avvenisse effettivamente sotto le insegne di concrete
parole d’ordine e programmi e forze organizzate in chiave nazional-
socialisteggiante come sia e a questi passaggi dobbiamo attrezzarci per
combattere la nostra battaglia di classe.
Valga dunque questa nota (che prosegue i nostri interventi sul tema) a
fornire utili elementi di conoscenza e necessari cardini di battaglia per non farsi
risucchiare in questa melma, contrastandola invece efficacemente in situazioni
che sappiamo essere sufficientemente scomode per chi non ha alcuna intenzione
di unirsi alla schiera degli aggiornatori, revisori, rivitalizzatori, in realtà “s-
venditori” di comunismo e marxismo.
___________________
NOTE
1
Gino Bardi, federale di Roma all’epoca di Salò, quello della “banda Bardi-Pollastrini” contro cui tuonava
l’Unità, e la cui partecipazione a un dibattito “sulla pace” organizzato dal PCI provocò –
nella testimonianza del “fascista di sinistra” Lando Dell’Amico – “reazioni emotive tali da farmi poi dire
da Berlinguer di non strafare” (Buchignani, op. cit. pag. 48).
2
Mentre “la Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 firmata dall’onorevole De Gasperi ci annulla come
nazione e riduce l’Italia alla condizione di colonia”: così scrive Lando Dell’Amico su “Pattuglia”–
rivista del PCI – del 30 marzo 1952.
3
Nel primo numero del 15 maggio 1947 de Il Pensiero nazionale è pubblicato l’articolo di Raffaele Di
Lauro con titolo Comunismo, stalinismo e lotta di classe dove si attacca l’imperialismo sovietico insieme
a quello americano e si denuncia la subordinazione a Mosca dei partiti comunisti. Nondimeno una nota
redazionale si dissocia dall’articolo di Di Lauro, che esprimerebbe “una tesi trotzkista”, e chiarisce, sin dal
primo numero, la linea “filocomunista” della rivista, che, in linea con il PCI, sostiene che in URSS è stato
eliminato “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo” ed “è stata realizzata la più grande conquista dei tempi
moderni dalla rivoluzione francese ad oggi”.
4
“Alla fine del 1952 circa 34.000 giovani e meno giovani ’erresseisti’ erano tracimati a sinistra” secondo
la contabilità della cosiddetta “operazione Caronte” che Lando Dell’Amico attribuisce a una nota della
direzione del Pci mostratagli da Pecchioli (Buchignani, op. cit. pag. 51).
5
Dunque i primi contatti e incontri tra “fascisti di sinistra” e il vertice del PCI precedono l’uscita della
rivista “Il Pensiero Nazionale”, che nascerà a Roma solo nel maggio del 1947 (mentre Ruinas dall’ottobre
del 1945 al novembre del 1946 diresse di fatto a Venezia la rivista “Diogene – Settimanale della
ricostruzione”, foglio di area socialdemocratica vicino a Zaniboni, Saragat e Silone).
6
In “La politica di unità nazionale dei comunisti”, rapporto di Togliatti ai quadri della federazione di
Napoli, 11 aprile 1944, in “Politica comunista”, vedi in Paolo Spriano, “Storia del partito
comunista italiano – 8. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo”, parte seconda pag. 389.
27 settembre 2010