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GUARDANDO AL ‘CELESTE IMPERO’

L’AVVENTURA DELLA VOC IN ASIA ORIENTALE

CAPITOLO I

LE COORDINATE STORICHE

L’EUROPA IN VIAGGIO PER LE ‘INDIE ORIENTALI’

L’occupazione di Ceuta, in Marocco, da parte del Portogallo nel 1415 è tradizionalmente indicata come inizio
dell’era delle grandi esplorazioni geografiche. Da quel momento in poi si inizia a mettere in discussione il
sapere geografico tradizionale. Un primo tentativo, fallito, era stato fatto dai fratelli genovesi Ugolino e
Vadino (Guido) Vivaldi nel 1291, che di fronte all’avanzata islamica in Levante si erano avventurati in pieno
oceano con fragili galee di tipo mediterraneo. Successivamente si erano scoperti e colonizzati gli arcipelaghi
atlantici: Canarie, Madeira, Azzorre e Lanzarote – tutti i nomi che ricordano i primi navigatori. Ma è solo con
l’Infante del Portogallo Enrico il Navigatore (1394-1460) che il movimento di espansione passa dall’essere
sporadico ad essere una vera e propria impresa di Stato. Nei 100 anni successivi i navigatori lusitani, sotto
l’egida della corona, si spingono prima a sud lungo le coste africane - per raggiungere le fonti dell’oro e
dell’avorio nel Sudan e catturare schiavi neri nella Guinea, e poi alla ricerca di un passaggio che consentisse
di circumnavigare l’Africa e raggiungere Cina, India e le Isole delle Spezie. Nel 1487-1488 Bartolomeo Diaz
oltrepassa per la prima volta il Capo di Buona Speranza - che battezza ‘Capo delle Tempeste’, dimostrando
così che l’Oceano Atlantico comunicava con l’Oceano Indiano, e non si trattava di un immenso bacino chiuso
a sud dalla Terra Australis Incognita come aveva postulato Tolomeo e si era creduto fino ad allora. Si apriva
così alla navigazione occidentale quella via marittima della seta e delle spezie per secoli appannaggio
esclusivo dei mercanti arabi, indiani e cinesi. Nel 1492 poi Cristoforo Colombo - genovese al servizio della
Spagna, avrebbe scoperto l’America per un incidente di percorso – cercava una via occidentale per
raggiungere le Indie Orientali. Nel 1498 un altro navigatore portoghese, Vasco da Gama, si addentrò per la
prima volta nell’Oceano Indiano, approdando sulle coste occidentali dell’India, dove scambiò cannonate con
i nativi e imbarcò un considerevole carico di pepe. Con quest’evento termina il predominio italiano
(soprattutto veneziano) nell’intermediazione del trasporto delle spezie. Nel 1500 la flotta di Pedro Alvares
Cabral, in rotta per l’India, toccò le coste del Brasile - altra tappa per definizione confini dell’ecumene. Nel
1519 il portoghese Ferdinando Magellano - a servizio della Spagna, intraprese la prima circumnavigazione del
globo, dimostrando che gli oceani erano tutti comunicanti e navigabili ininterrottamente. Inizia così il
predominio europeo sulle rotte intercontinentali marittime, che poi sarà il preludio al dominio economico e
quindi politico.

Il Portogallo è quindi il primo paese europeo a muovere alla conquista delle Indie Orientali: i lusitani
stabiliscono importanti basi a Goa (India) nel 1510 e a Malacca (Malesia) nel 1511; raggiungono la Cina nel
1513 e il Giappone nel 1543 (approdando a Tanegashima); nel 1557 l’insediamento portoghese di Macao
riceve il benestare informale delle autorità Ming (1368-1644), mentre nel Kyushu la prima attestazione
temporanea è a Hirado negli anni 1550-1562, per poi muovere verso i territori del daimyō Ōmura Sumitada,
primo feudatario convertito al cristianesimo, e ottenere la libertà di commerciare a Nagasaki (Kyushu) nel
1571. Il Portogallo riesce a ritagliarsi un ruolo chiave nei commerci del luogo grazie ad un sistema di licenze
a pagamento in cambio della protezione dei commerci (cartazes) e un incremento generalizzato dei traffici
interasiatici, in parte affiancando e in parte sostituendo gli attori precedenti. Grazie al predominio acquisito
nei traffici locali, il Portogallo finanzia la linea di navigazione tra Lisbona e Goa, chiamata ‘Carreira da India’,
e quelle secondarie per Isole delle Spezie, Cina e Giappone – queste linee divengono così il principale sistema
logistico integrato capace di mettere in comunicazione Oriente e Occidente per un secolo e mezzo.

Per gran parte del Cinquecento il Portogallo è l’unica presenza europea in Estremo Oriente, e solo negli ultimi
decenni del secolo è raggiunto dalla Spagna: questa si insedia a Manila (Filippine) nel 1571 e si spinge verso
i litorali del Kyushu. Il Galeone di Manila o di Acapulco, che ogni anno faceva la spola tra Filippine e Messico
- portando in Asia argento messicano e peruviano, in America sete, lacche, giade, porcellane e rabarbaro
cinesi, era il contraltare spagnolo della Carreira da India portoghese- che legava Lisbona e Goa, ma aveva
diramazioni verso Malacca, Macao, Nagasaki e le Molucche-Indonesia. Pur avendo tratti simili - obiettivi di
espansione e conquista, spirito di proselitismo religioso, i due regni iberici sono stati rivali e si sono scontrati
spesso, sia nelle politiche di conquista sia nelle strategie di evangelizzazione, ma ancora di più negli ambiti
economici e commerciali. La competizione cresce quando il Portogallo entra nell’orbita spagnola (1580-1640)
a causa della morte senza eredi dell’ultimo esponente della casa reale di Aviz, Sebastiano I (m. 1578). Anche
se il Trattato di Tordesillas del 1494 aveva sancito una netta separazione delle rispettive sfere d’influenza,
non mancarono da entrambe le parti i tentativi di ampliare i propri spazi a danno dell’altra. La vendita dei
diritti sulle Molucche da parte di Carlo V al Portogallo nel 1529 per 350.000 ducati d’oro fu solo un episodio
in una storia di rivalità plurisecolare. L’aspirazione al dominio mondiale di Filippo II e i suoi eredi asburgici sul
trono di Spagna coinvolse anche i possedimenti portoghesi, perché essendo più sparsi e isolati rispetto a
quelli castigliani erano più difficili da difendere. Il fine dell’attività di esplorazione e conquista era il profitto
grazie ai traffici con l’Europa – dopotutto metalli preziosi, sete, spezie e porcellane erano le merci più ambite.

Già con la seconda metà del XVI secolo però avvengono importanti trasformazioni nel panorama politico
europeo, che porteranno alla configurazione dei nuovi Stati nazionali. Già i Paesi Bassi nel 1568 esprimono
l’intento di liberarsi dal dominio iberico: Guglielmo I, Principe d’Orange, dichiara l’indipendenza delle Sette
Province del Nord ribellandosi al re Filippo II, in nome della causa protestante e di quella del proprio casato.
Inizia così una lunga e sanguinosa guerra che termina 80 anni dopo (nota appunto come Guerra degli
Ottant’Anni), alle 10.00 del mattino del 5 giugno 1648: Filippo IV di Spagna firma la Pace di Vestfalia,
sancendo l’indipendenza delle Province Unite. Si tratta di anni di profondi mutamenti e guerre intestine, fra
l’emergere degli Stati nazionali (a scapito dell’idea imperiale e unitaria), la Riforma protestante e la
Controriforma cattolica. In questo contesto il controllo dei mercati d’oltremare è fondamentale. Il vecchio
continente, che aveva subito innumerevoli invasioni dall’Asia nei secoli precedenti (popoli a cavallo che
mettevano a ferro e fuoco il continente prima, turchi ottomani che tenevano in scacco i confini sud-orientali
poi) si avvia a divenire uno dei protagonisti assoluti della scena mondiale, inaugurando la cosiddetta ‘era di
Vasco da Gama’: fra ‘500 e ‘700 la nave a vela armata di cannoni a lunga gittata diviene il principale strumento
per il dominio degli oceani (e dei commerci) nel mondo. Gli europei divengono maestri indiscussi dell’arte
della guerra su mare.

I NAVIGATORI OLANDESI SULLE ROTTE DELL’ASIA

Alla fine del XVI secolo abbiamo visto che le Sette Province erano nel pieno della lotta per l’indipendenza
dalla Spagna. È in questo periodo che, su iniziativa delle singole Province, le prime spedizioni marittime
commerciali muovono alla volta dei mercati orientali, per interessi economici. Sino ad allora le rotte
dell’Oceano Indiano erano state di esclusivo dominio iberico, e l’intera Europa era partecipe dei traffici che
giungevano al porto di Lisbona, in subordine alla mediazione iberica. A fine ‘500 però le corone unite di
Spagna e Portogallo, forti di un monopolio esplicitamente dichiarato ed esercitato su tutti i commerci con
l’Oriente, impongono condizioni e modalità di gestione sempre meno convenienti per le Province: se fino ad
allora Anversa (oggi Belgio) era stata il principale centro di distribuzione nell’Europa settentrionale, dopo il
1591 i portoghesi stipulano un contratto di esclusiva con un sindacato internazionale costituito dai banchieri
tedeschi Fuggers e Welsers e da società spagnole e italiane – questo sindacato utilizzava Amburgo (Germania
settentrionale) come porto settentrionale per la distribuzione dei prodotti, tagliando così fuori i mercati
olandesi. Allo stesso tempo però il sistema commerciale portoghese non riusciva a soddisfare l’intera
domanda, soprattutto di pepe: la domanda di spezie era piuttosto anelastica, e il mancato rifornimento nei
mercati europei causò una forte ascesa dei prezzi.

Intanto, in seguito alla ribellione, la situazione nei Paesi Bassi era tesa, a causa dei contrasti fra cattolici
(sostenuti dalla corona) e protestanti (perlopiù ceto mercantile) ma anche per l’inasprimento del popolo a
causa della repressione del Duca d’Alba (spagnolo, governatore Paesi Bassi aa. 1567-1573). Il sacco di Anversa
da parte degli spagnoli nel 1576 e la sua riconquista da parte di Alessandro Farnese nel 1585 significarono la
fine della prosperità di questa città, il cui porto venne bloccato dagli olandesi per molto tempo con
sbarramenti. Gli autorevoli della città si spostano così altrove, in particolare ad Amsterdam, che inizia a
godere di prosperità, divenendo pronta a sostituire la fiamminga. La fuga dei professionisti impoverì il ceto
imprenditoriale delle province meridionali, che non si sarebbero riprese. Data la chiusura dei porti iberici alle
navi olandesi, era necessario provvedere autonomamente al rifornimento di prodotti orientali attraverso
l’allestimento di flotte proprie e di spedizioni mercantili autonome. Anche nel mezzo di un conflitto, le
Province Unite non attendono, lanciandosi alla conquista delle rotte orientali. Prima possibile via di
penetrazione era quella tradizionale (battuta da caracche e galeoni portoghesi) che doppiava il Capo di Buona
Speranza, attraversava l’Oceano Indiano e raggiungeva i mari della Cina. Altra opzione considerata era quella
di una via settentrionale, per evitare di entrare in diretto contrasto con il monopolio iberico: seguendo le
orme degli inglesi, gli olandesi tentano la rotta del Mar Glaciale Artico, contribuendo così allo sviluppo
dell’esplorazione della zona, ma per le enormi difficoltà riscontrate i mercanti di Amsterdam e delle altre
città olandesi preferiscono tentare la sorte lungo la rotta del Capo di Buona Speranza, nonostante il rischio
di incappare nei portoghesi. Nel 1493 con la bolla Inter coetera il papa Borgia, Alessandro VI, aveva diviso il
mondo tra spagnoli e portoghesi, che consideravano quindi la rotta loro esclusiva pertinenza. Le informazioni
geografiche necessarie per il viaggio erano divenute accessibili grazie alla pubblicazione di due opere di Jan
Huygen van Linschoten, “Scritti di Viaggio” (1595) e “Itinerario” (1596): l’avventuriero olandese si era
imbarcato su nave portoghese in rotta per l’Asia Orientale, partendo da Lisbona nel 1584, in compagnia
dell’Arcivescovo di Goa, ritornando in Europa nel 1592. Nei suoi scritti egli descriveva la ‘via marittima della
seta’, basi e avamposti di insediamento iberico nelle ‘Indie Orientali’ (nome che definiva India, Indonesia e
Indocina). Da questi testi si capiva che la presenza spagnola e portoghese in Asia orientale non era né fitta
né compatta, ma lasciava eventuale spazio alla penetrazione olandese. Già sul finire del ’500 l’Olanda si
preparava ad attuare vincenti strategie per affermare la propria supremazia lungo le rotte intercontinentali.
Il successivo XVII secolo si rivela senza dubbio il secolo d’oro della Compagnia Riunita (o Compagnia
Olandese) delle Indie Orientali, abbreviato in VOC. L’arrivo nell’Oceano Indiano dei temibili galeoni olandesi,
potenti, veloci e ben armati, comportò non poche alterazioni negli equilibri internazionali dell’Asia Orientale.
L’indiscusso predominio iberico del XVI secolo è scosso sin dalle fondamenta, e nuovi orizzonti di
espansionismo e conquista si aprono ai ‘barbari dal pelo rosso’ (definizione sprezzante per gli olandesi usata
in Cina) o “pezzenti del mare” (come li chiamavano gli spagnoli, nonostante la loro abilità marinaresca fosse
straordinaria). Sulla scia dei primi navigatori olandesi, anche gli inglesi si mettono in rotta verso l’Estremo
Oriente, giungendovi tra il 1623-1670, restandovi fino ad anni recenti (1997 restituzione di Hong Kongo –
Xianggang – alla Cina). Nei primi decenni del ‘600 quindi nei mari orientali ci sono ben quattro paesi europei:
Portogallo e Spagna i paesi cattolici, Olanda e Inghilterra quelli protestanti. Nel contesto asiatico trovavano
un eco le conflittualità intestine dell’Europa, ma tra XVI-XVII secolo, come avviene per l’Europa, anche i paesi
estremo-orientali vivono profonde trasformazioni e sconvolgimenti significativi.

IL PANORAMA POLITICO ED ECONOMICO

Nel corso del Cinquecento l’impero Ming è nella piena maturazione di una lunga stabilità politica, tradotta in
una notevole crescita economica, culturale e sociale, accompagnata dallo sviluppo di città e centri urbani e
dal miglioramento generale e diffuso delle condizioni di vita. Questo sviluppo caratterizza in particolare le
regioni costiere meridionali, che nel XVI secolo sperimentano una profonda incentivazione dei traffici
marittimi internazionali. Tuttavia, erano già insiti nel sistema i germi della decadenza delle istituzioni
governative, che si stavano allontanando progressivamente dalla realtà sociale del paese. Dalla seconda metà
del secolo, inoltre, ai confini settentrionali prende forma la minaccia delle tribù nomadi: le genti turco-mongole
iniziavano a riunificarsi otto i Mancesi, processo culminato nella fondazione dei Qing nel 1636. Nel XVII secolo
la Cina vive infatti l’ultimo cambio dinastico da Ming a Qing (1644-1911) ritrovandosi soggiogata dal dominio
straniero (mancese) dopo un lungo periodo di guerre sul proprio territorio: se infatti il 1644 è indicato come
data convenzionale del passaggio dinastico, di fatto la definitiva attestazione in Cina dei Qing e la
pacificazione dell’Impero del Centro avvengono solo dopo la sconfitta definitiva dei Ming meridionali
(Nanming: 1644-1662) e della successiva Ribellione dei Tre Feudatari (1673-1681), con la conseguente
annessione di Taiwan alla sovranità dell’impero cinese nel 1683. La Compagnia Riunita si ritrova ad essere
partecipe di questi eventi: la sua attestazione nei mari della Cina e i suoi rapporti con il nascente impero dei
Qing sarebbero stati direttamente connessi al drammatico passaggio dinastico, riguardo cui la base olandese
di Taiwan (1624-1662) sarebbe stato teatro diretto dell’ultima e disperata resistenza dei sostenitori dei Ming
contro gli invasori mancesi.

Anche il Giappone nel corso del ‘500 visse l’acuirsi dei disordini interni: il regime shogunale degli Ashikaga
(1336-1573) perdeva il controllo del paese di giorno in giorno, svuotandosi della propria autorità, a fronte di
una corte imperiale estromessa da ogni esercizio di sovranità e ridotta in miseria. Il Sengoku Jidai (periodo
degli ‘stati combattenti’ o meglio del ‘paese in guerra) esplodeva in toni drammatici – la guerra civile dilagava
in tutto il paese. I disordini favorirono l’autonomia dei potentati locali, in particolare quella dei daimyō del
Kyushu, che poterono lanciarsi nei traffici internazionali, divenendo gli interlocutori privilegiati dei commerci
marittimi – illeciti – della Cina e degli stessi europei. Con Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi però il
Giappone è spinto verso una rinnovata centralizzazione: la battaglia di Sekigahara nell’autunno del 1600
decreta Tokugawa Ieyasu come unico leader dell’arcipelago giapponese. L’insediamento dello shogunato
Tokugawa (1603-1868) in un paese riunificato si accompagna ad un profondo processo di riorganizzazione in
politica interna ed estera. Negli anni ’30 poi il bakufu Tokugawa dà vita ad una politica protezionistica
(erroneamente definita dalla storiografia ‘Sakoku’, ovvero politica del ‘paese in catene’), limitante
drasticamente i rapporti e i traffici internazionali dell’arcipelago. A pagarne le conseguenze sono Portogallo
e Spagna, anche a causa della stretta connessione tra espansionismo economico e proselitismo religioso:
percepiti dal Giappone come minaccia all’integrità economica, territoriale e culturale del paese, furono
espulsi rispettivamente nel 1624 (Spagna) e 1639 (Portogallo). Beneficia però di questa scelta di limitazione
dei commerci esteri la Compagnia Riunita, che rimane l’unica presenza europea in territorio giapponese
(anche se il piccolo insediamento olandese di Deshima, fondato nel 1641, è un isolotto artificiale situato nella
baia di Nagasaki posto sotto stretta sorveglianza dalle autorità giapponesi e costretto all’isolamento forzato).
CAPITOLO II

L’ASIA ORIENTALE MARITTIMA

CINA E GIAPPONESE SUI MARI

Con l’impero Ming la politica marittima delle autorità centrali, dopo la drastica pressione accentratrice ed
autoritaria di Hongwu (1368-1398) penalizza le attività mercantili delle coste meridionali con l’oltremare. Nel
1370 viene concessa l’apertura di 3 porti esclusivamente per le ambascerie ufficiali che recavano il tributo,
con limitazioni notevoli (numero navi, equipaggi, membri delle missioni e tempi), inoltre ai mercanti cinesi
non è consentito di viaggiare oltremare. Ningbo (Zhejiang) accoglieva le ambascerie giapponesi, Quanzhou,
poi sostituita da Fuzhou (entrambe in Fujian) nel 1472, ospitava le missioni provenienti dalle Liuqiu/Ryukyu
(arcipelago giapponese tra Kyushu e Taiwan) e Canton (Guangzhou, nel Guangdong) riceveva i tributi dai
paesi del Sud-est asiatico. Le conseguenze di questa politica non si fanno attendere: contrabbando e pirateria
dilagano lungo le coste dell’Impero Ming. Il Mingshi 明史 (storia ufficiale dei Ming), nella sezione relativa al
Giappone riporta frequentemente resoconti di attacchi e incursioni dei wokō, i pirati giapponesi.
L’attribuzione quasi esclusiva del fenomeno all’arcipelago era sì dovuta a fondamenti reali, ma era un
comodo alibi, per le autorità cinesi, per non riconoscere la stessa poderosa partecipazione cinese: già nel XV
secolo, infatti, la presenza cinese aveva eguagliato la giapponese, arrivando a superarla di gran lunga nel XVI.

Infatti, dopo aver scacciato la dinastia mongola Yuan (1279-1368) la nuova dinastia dei Ming voleva affermare
la propria supremazia politica, economica e culturale sull’intera Asia Orientale. Il terzo imperatore Yongle
(r.1403-1424) si sforza di rendere più sicuri i confini terrestri, ad esempio, rafforza la Grande Muraglia per
proteggere il paese dalle incursioni dei nomadi siberiani, attua offensive militari verso l’Asia centrale per
sottomettere le tribù ribelli e ricacciare i mongoli verso i territori aviti, avvia un programma di espansione
marittima (affidato all’eunuco Zheng He, 1371-1435, di religione musulmana) che per oltre 20 anni consente
alla Cina di acquisire il dominio di una parte significativa della via marittima delle spezie: tra il 1405 e il 1433
si susseguono sette spedizioni che toccano i principali porti compresi fra le coste della Cina e quelle
dell’Africa. Il successo di queste iniziative è straordinario: in Estremo Oriente giungono merci rare e preziose,
animali esotici e misteriosi (come la giraffa), uomini e donne dall’aspetto inusuale. Intanto i popoli che si
affacciavano sulle sponde del Golfo del Bengala e del Mar Arabico imparano a conoscere ed apprezzare i
prodotti artigianali cinesi. I costi di imprese del genere però, sia in termini umano che materiali, si rivelano
troppo elevati anche per il più potente impero del mondo, a fronte di guadagni minimi e puramente di
facciata. Certo il prestigio della Cina viene consolidato in quelle aree, e il sistema dei tributi si dimostra capace
di garantire un flusso costante di prodotti stravaganti a corte, ma il resto del paese non ne trae beneficio.
Con il quarto imperatore della dinastia Ming, Hongxi (r.1425) si abbandona il progetto del predecessore,
vietando anche la costruzione di giunche con più di due alberi e bruciando i documenti attestanti l’opera di
Zheng He e dei suoi collaboratori. Il commercio privato continua anche nel periodo successivo, soprattutto
grazie alle comunità cinesi insediatesi all’estero, ma senza più l’appoggio dello Stato e guardato con sospetto
dalle autorità - perché foriero di influenze straniere e quindi nefaste. È così che il testimone dell’esplorazione
delle rotte marittime e dell’espansione coloniale passa alla civiltà europea, più arretrata tecnicamente di
quella cinese ma maggiormente determinata nel perseguire i risultati. Di conseguenza la via delle spezie da
prettamente costiera diviene oceanica, poiché le traversate avvengono per lunghi tratti in alto mare – si
rinuncia a punti di riferimento terrestri preferendo quelli celesti (grazie anche al miglioramento del bagaglio
scientifico dei naviganti e al perfezionamento della strumentazione di bordo).
Parallelamente l’arcipelago giapponese a fine XIV secolo si era presentato sui mari come grande e temibile
potenza navale: Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408) aveva affermato il suo potere su gran parte del territorio
nazionale, riunificando nel 1392 le due corti di Yoshino e Kyoto, e intervenendo come elemento frenante sui
potentati regionali. Cerca così di convogliare sotto il suo controllo le molteplici potenzialità marittime del
Giappone, compresa la pirateria (soprattutto a vantaggio dei traffici con la Cina). In seguito agli accordi tra
Yoshimitsu e i Ming nei primi anni del XV secolo, questi ultimi avevano pensato di poter godere di un certo
respiro sul fronte estremo-orientale, indirizzando le spedizioni di Zheng He verso i mari sud-orientali. Presto
però i Ming si sarebbero ricreduti: il successore di Yoshimitsu, Ashikaga Yoshimochi (1386-1428) non
mantiene la stessa politica conciliante adottata dal padre, interrompendo le relazioni con i Ming. Il flusso
incontrollato di traffici più o meno leciti si riversa sulle coste cinesi (contrabbando e pirateria). Il governo
Ming decide quindi di vietare a chiunque di sbarcare armato, dislocare guarnigioni militari lungo i litorali e
costruire numerosi fortilizi e mura, inoltre rafforza la marina militare. In seguito, prende misure ancora più
drastiche: pattugliamento serrato delle coste, ulteriore rafforzamento militare delle zone strategiche,
assoluta proibizione ai cinesi di commerciare con i giapponesi senza autorizzazione, pena la morte. In tal
modo però il governo Ming lede gli interessi delle stesse popolazioni costiere cinesi, costrette a rifugiarsi
nelle isole, a volte unendosi ai pirati e a volte creando gruppi autonomi sotto le mentite spoglie di wokō. Il
risultato è il manifestarsi di una pirateria cinese o di un’aggregazione di questa alla pirateria giapponese o
coreana. Il suicidio del Governatore Zhu Wan (1494-1550), che in più rapporti e memoriali denunciava il
profondo coinvolgimento delle regioni costiere (in particolare Fujian) in quelle attività illecite (dagli individui
ai margini della società a funzionari di prestigio) dimostra la posta in gioco e la volontaria cecità del potere
centrale. Già l’incidente Ningbo del 1523 - conflitto tra rappresentati commerciali di due clan giapponesi di
daimyō nella città cinese, a scapito dei residenti locali, danneggiati e saccheggiati, aveva preannunciato
l’interruzione dei rapporti ufficiali con il Giappone, già da tempo inficiati. Il secolo e mezzo di relazioni tra i
due paesi, dal 1404 al 1549, era stato caratterizzato (a seconda dei casi) da missioni ufficiali regolate dal
sistema dei kanhe (kanhe maoyi, kangō bōeki: il ‘commercio dei sigilli’) e veicolo di commerci illeciti, oppure da
invasioni e scorrerie di flotte di pirati, accompagnate da saccheggi e contrabbando.

PIRATERIA E COMMERCI UFFICIALI

I primi europei in Estremo Oriente non erano estranei alla situazione, e più di una volta avevano collaborato
con i predoni dei mari. Verso la metà del XVI secolo tutte le regioni costiere meridionali della Cina avevano
vissuto anni di fuoco della pirateria, con continui incursioni e saccheggi. Attorno al 1560 il commercio privato
d’oltremare, per quanto illegale, raggiunge proporzioni tali da costringere le autorità centrali ad allentare (in
parte) il rigido divieto imposto ai mercanti cinesi: è lo stesso sovrintendente generale del Fujian, Tu Zemin
(m. 1569) a proporre di concedere l’apertura di Haicheng (Liaoning) ai traffici marittimi, legalizzando così le
attività illecite, per controllarle e tassarle – ciò avrebbe ridotto in parte gli attacchi di wokō e Haikou. Nel 1567
quindi Haicheng entra ufficialmente nei commerci marittimi internazionali della Cina, unico porto dal quale
il mercantilismo cinese può lanciarsi sulle rotte dell’Oceano Indiano, pur rimanendo il veto sui traffici con il
Giappone. Negli ultimi decenni del XVI secolo c’è un costante flusso migratorio dalle zone costiere della Cina
meridionale (in particolare dal Fujian) che interessa l’intero Sud-est asiatico: è l’epoca del grande
espansionismo cinese. Le comunità cinesi d’oltremare e i nihonmachi (quartieri giapponesi) collegavano
insieme l’intera Asia sud-orientale, fungendo da scali indispensabili per i navigatori e i mercanti europei.
Sebbene l’ostracismo imposto al Giappone impedisse un diretto invio di navi mercantili, cinesi e giapponesi
avevano una sorta di cooperazione-rivalità, ricostruendo un mercantilismo estremo-orientale in opposizione
alle agguerrite marinerie europee: non a caso le basi europee vengono a lungo collocate lungo le rotte
tradizionalmente battute dai mercanti-pirati del Sud-est asiatico. In quegli anni, fino alle fallimentari
spedizioni di Toyotomi Hideyoshi in Corea (1592, 1597-1598) le marinerie giapponesi erano ancora molto
attive (complice l’instabilità della situazione politica interna, che favoriva le attività mercantili dei potenti
daimyō delle coste, soprattutto del Kyushu).

L’apertura di Haicheng nel 1567 aveva di fatto facilitato lo scambio tra i due paesi. Interessante come la
parziale liberalizzazione delle attività marittime cinesi avesse significato anche la trasformazione dei gruppi
di avventurieri-pirati: da quel momento erano più orientati verso il contrabbando, invece che su atti di
pirateria vera e propria (perlomeno sulle coste cinesi), poiché i mercantili in navigazione erano preda molto
ambita. Il flusso di commerci marittimi giapponesi avveniva dunque, in gran parte, mediante gli illeciti
(secondo la Cina) traffici di questi gruppi. Già con Hideyoshi però le marinerie giapponesi sono sottoposte ad
un più rigido controllo, il cui fine era l’accentramento dell’iniziativa mercantile privata nelle mani del governo,
politica ulteriormente perseguita dal regime Tokugawa. L’attività individuale dei daimyō viene così frenata e
incanalata in una sorta di mercantilismo centralizzato, origine delle shuinsen, ovvero ‘navi dal sigillo di
cinabro’ che solcavano i mari della Cina su mandato ufficiale del bakufu Tokugawa. Le conseguenze di questa
politica furono in parte controproducenti: i daimyō delle coste non gradivano l’ingerenza del potere centrale
nei loro affari, cercando di ottenere autonomia in altro modo – non potendo partecipare direttamente ai
traffici con spedizioni e marinerie proprie, finanziavano quelle cinesi, delegando ai già menzionati gruppi di
contrabbandieri (perlopiù cinesi) l’espletamento di attività fino ad allora condotte da marinerie giapponesi.
Lo stesso bakufu Tokugawa inoltre affidava alle marinerie cinesi una considerevole parte del flusso di
commerci internazionali del Giappone, e molti cinesi ricevettero quindi il ‘sigillo di cinabro’ (shuinjo) del
bakufu. Nei primi decenni del XVII secolo quindi il mercantilismo cinese in Giappone, già di grande importanza
per i daimyō, veniva investito del fregio dell’ufficialità, solcando i mari dell’Oceano Indiano su mandato del
governo giapponese.

LE MARINERIE CINESI

Il mercantilismo cinese e le attività marittime del Fujian, che ne erano il fulcro, costituivano la struttura
portante dei traffici internazionali del Sud-est asiatico, contraddicendo la pretesa politica di ostracismo verso
i commerci marittimi perseguita dal governo Ming, la cui limitatissima deroga dell’apertura di Haicheng non
aveva apportato grandi modifiche. L’espansionismo europeo si trova quindi di fronte ad una rete di traffici e
commerci marittimi già salda ed efficiente, controllata dalle marinerie cinesi. L’insediamento in Asia orientale
è caratterizzato quindi da un graduale affiancarsi delle postazioni europee alle preesistenti basi delle
marinerie sino-giapponesi, avvalendosi di rotte di navigazione già collaudate. Teniamo conto del fatto che
tutti i paesi europei espletavano commerci e traffici nei mari estremo-orientali, usufruendo di capitali e
mercanzie già presenti sul mercato orientale. Se escludiamo l’investimento inziale necessario in Europa per
allestire le flotte delle grandi compagnie inviate alla conquista delle Indie Orientali, una volta avvenuto
l’insediamento l’intervento europeo è in gran parte di mediazione: le compagnie europee cercavano di
sostituirsi alle marinerie orientali, trasportando ad esempio spezie indiane in Estremo Oriente, l’argento
giapponese in Cina, le sete cinesi in Giappone ecc. Ceto, parte delle mercanzie giungeva in Europa, ma il
grosso dell’attività si svolgeva nei mari asiatici, generando profitti impiegati per mantenere le basi nei territori
d’oltremare. L’incontro/scontro del mercantilismo europeo con quello orientale (nello specifico cinese) ha
un aspetto duplice: gli europei dovevano servirsi e al contempo sostituirsi alla mediazione cinese; le attività
commerciali cinesi traevano stimolo dalla presenza europea, ma dovevano difendersi da essa. La
competizione mercantilistica vedeva un continuo alternarsi di alleanze e rivalità, con veti e proibizioni spesso
elusi o ignorati (non esistendo un diritto internazionale al di sopra delle parti, molto eterogenee). Le
marinerie cinesi continuavano comunque a condurre i loro traffici in tutto il Sud-est asiatico, fungendo da
mediatrici nei commerci d’oltremare degli europei e sostituendosi, dal XVII secolo, a mercanti e navigatori
giapponesi (frenati dal regime Tokugawa). I cinesi, e in particolare i Minnanren (‘genti del Min’ – Fujian
meridionale) erano abituati a trattare con gli europei, e molti di loro conoscevano il portoghese (in genere
imparato a Macao), lingua franca del commercio interasiatico del periodo. Verso il XVII secolo però comincia
a diffondersi la conoscenza dell’olandese, e sono molti i cinesi assoldati dalla Compagnia Riunita in qualità di
interpreti, anche se di altre lingue (es. portoghese), come Zheng Zhilong (m. 1661). A prescindere dalle
conoscenze tecniche, commerciali e linguistiche essenziali per lo svolgimento di queste attività, si rivelava
indispensabile anche la presenza di una solida e ben organizzata struttura di gruppo; i gruppi dovevano essere
in grado di sfuggire ai controlli e possedere quindi caratteristiche di grande mobilità e mimetismo (difficile
però analizzare queste organizzazioni, date le enormi differenze l’una dall’altra).

IL MERCANTILISMO ESTREMO-ORIENTALE

Nei decenni tra il ‘500 e il ‘600 la struttura di questi gruppi di mercanti/avventurieri/pirati si trasforma
profondamente, riflettendo di volta in volta il clima politico internazionale, ed esprimendo i cambiamenti
anche nelle attività esplicitate. Già l’apertura di Haicheng nel 1567 aveva significato, come abbiamo detto,
un graduale incanalarsi delle attività piratesche (razzie, scorrerie…) verso attività di contrabbando o
commercio più o meno lecite, circoscrivendo le manifestazioni più violente ad assalti a navigli e mercantili
spesso stranieri. La presenza europea però, divenendo più numerosa, stava assumendo maggior peso in
contesto marittimo e diventando un interlocutore importante: bisognava organizzarsi per far fronte a
possibilità di commerci e transazioni internazionali, fungere da mediatori, interpreti, diplomatici, e ancora
saper trattare. Inoltre, gli europei erano abili nell’uso delle armi, ed era quindi necessario poter competere
con loro sia economicamente che militarmente – cosa impossibile se non attraverso l’unione di gruppi in
organizzazioni più grandi e forti, con maggior capitale da investire nei commerci e maggior potenziale bellico
in uomini, armi e navi. Inoltre, il controllo sempre più rigido delle autorità giapponesi sulle iniziative private
dei daimyō li aveva privati di una grossa fetta di profitti nei commerci d’oltremare: alle marinerie cinesi viene
così inaspettatamente offerta la possibilità di condurre una parte notevole dei traffici mercantili
dell’arcipelago al posto delle marinerie giapponesi. Ciò costituisce un grosso impulso allo sviluppo e
rafforzamento del mercantilismo cinese, soprattutto quando agli informali (e più o meno illeciti) investimenti
dei daimyō del Kyushu fanno seguito le assegnazioni ufficiali del bakufu Tokugawa, che fregia questi
mercanti/avventurieri/pirati del ‘sigillo di cinabro’ delle shuinsen.

È nei primi decenni del XVII secolo che si compie il processo di unificazione e centralizzazione del
mercantilismo cinese, prima con Li Dan (m.1625) e poi con Zheng Zhilong. Le autorità Ming, nonostante la
pretesa politica di opposizione e contenimento delle attività cinesi con l’oltremare attuata fino ad allora, non
potevano più rimanere estranee a ciò che avveniva lungo le coste meridionali della Cina. L’attenzione delle
autorità si fa più viva, anche per gli scarsi risultati della rigida politica. Inoltre, i mancesi erano alle porte, ed
in un contesto di crescente destabilizzazione della dinastia il controllo delle regioni costiere diveniva
fondamentale. In queste zone la situazione non era favorevole per i Ming: gli europei esercitavano pressioni
(anche militari), l’attività mercantilistica aveva di fatto assunto una totale autonomia, sfuggendo all’autorità
governativa – un riavvicinamento al mercantilismo cinese avrebbe ricondotto alla legalità e alla sovranità
dell’impero, fornendo una potente flotta imperiale agli ordini dei Ming, da opporre agli europei ed
eventualmente ai mancesi. Dopo aver invano di sottomettere con la forza la potente organizzazione pirata
di Zheng Zhilong (succeduto a Li Dan nel comando), il governo Ming non può far altro che concedere lui delle
cariche ufficiali, nella speranza di trarne beneficio. Zheng Zhilong dirigeva ormai il grosso delle attività
mercantilistiche cinesi, e il riconoscimento ufficiale significò ulteriore rafforzamento: la famiglia Zheng negli
anni ’30 del secolo riuscì ad esercitare un vero e proprio ‘monopolio’ sui traffici mercantili cinesi. Il processo
di unificazione e centralizzazione delle attività marittimo-commerciali cinesi giungeva a compimento, non a
caso in concomitanza con l’intensificarsi delle presenze europee. La potente organizzazione mercantilistica
agli ordini di Zheng Zhilong era in grado di monopolizzare i traffici marittimi cinesi e costituiva allo stesso
tempo un enorme potenziale bellico. L’investitura ufficiale conferita dai Ming dava a questo organismo
economico-militare anche una connotazione politica (passiva, livello difensivo). Questo impero marittimo-
commerciale avrebbe conseguito piena autonomia con Zheng Chenggong (1624-1662), ed il mercantilismo
cinese sarebbe divenuto da allora un potente organismo, dotato di stabile e precisa struttura interna, al
comando della famiglia Zheng e di grosso peso economico, militare e politico negli eventi del tempo.
CAPITOLO III

LA FONDAZIONE DELLA COMPAGNIA RIUNITA DELLE INDIE ORIENTALI

LE PRIME SPEDIZIONI

Con la conquista di Malacca da parte di Alfonso de Albuquerque nel 1511 e l’approdo di Jorge Alvares a Lintin
(Lingting, Guangdong) nel 1513, per la prima volta nella storia i portoghesi aprono una via marittima diretta
tra Europa ed Estremo Oriente, rendendo i porti delle Indie Orientali meta ambita e contesa per gli
occidentali. Il successivo approdo degli spagnoli nelle Filippine (1565) pone le basi per la creazione di un
circuito di dimensioni mondiali. Il Portogallo e l’allora alleata Spagna dominavano le rotte estremo-orientali,
e potevano contare anche sulle miniere d’argento americane – erano quindi le uniche due potenze ad avere
sufficienti mezzi di pagamento per poter essere accolte in quel contesto commerciale. L’Olanda considerava
urgente prendere parte ai lucrosi traffici in quella zona e sottrarre ai paesi iberici, con cui era in guerra, il
redditizio monopolio. Nel marzo 1594 quindi gli olandesi organizzano il primo viaggio commerciale nelle Indie
Orientali: nove mercanti di Amsterdam uniscono i propri capitali e finanziano una spedizione in cerca di
spezie, dando vita alla Compagnia dei Paesi Lontani con un capitale di 290.000 fiorini. L’anno seguente
Cornelis de Houtman, al comando di una flotta di 4 navi, approda a Banten, principale porto del pepe della
Giava occidentale, dopo una traversata di 15 mesi. Le loro istruzioni erano precise: procurarsi delle spezie a
buon mercato, evitare possibilmente i portoghesi e stringere rapporti amichevoli con gli indigeni. Tuttavia, a
causa delle sue scarse doti diplomatiche Houtman finì per scontrarsi sia con gli uni che con gli altri, tornando
dal viaggio con un terzo degli uomini (89 su 248) e una nave in meno – perdite molto alte e carico di spezie
acquistato che copriva a malapena le spese iniziali. Gli accordi raggiunti con il Sultano di Giava però
sembravano porre le basi per futuri guadagni. Nel 1597, al ritorno di de Houtman in patria nacquero cinque
compagnie, divenute otto nel 1601. Queste inviarono in Oriente, fra il 1595 e il 1602, ben 14 flotte, con un
totale di 65 navi, in un’atmosfera di frenetica rivalità per accaparrarsi le occasioni migliori. Una o due flotte
andarono perdute ma la maggior parte produsse profitti. La competizione tra le varie Province risultò però
per l’Olanda controproducente: per farsi largo sui mercati orientali bisognava prima scalzare la concorrenza
degli spagnoli e dei portoghesi, già saldamente insediativi (anche se tra 1591 e 1601 erano partite solo 46
spedizioni da Lisbona). Era chiaro che una competizione interna non poteva aiutare, per fortuna però le
Province Unite ne erano consapevoli, quindi scelsero coordinamento e strategia generale. In particolare, il
secondo viaggio della Vecchia Compagnia (o Compagnia di Amsterdam), 1600-1602, capitanato da Jacob van
Neck, riscosse tale successo da dimostrare la validità degli investimenti nelle imprese oltreoceano. Era tempo
che le Province Unite convergessero su una strategia economica condivisa per mostrare fonte comune sia in
Asia che in Europa (ad essere dannosa era stata soprattutto la competizione tra Compagnia di Amsterdam e
Compagnia di Zelanda). Sull’esempio dell’Olanda, anche l’Inghilterra comincia a mostrare interesse per i
mercati orientali – fino ad allora le navi inglesi, che avevano raggiunto le Indie Orientali qualche anno prima
di quelle olandesi, erano state per spedizioni sporadiche senza strategia o finalità di attestazione (ad esempio,
incursione militare a lungo raggio, spedizione di Sir Francis Drake attorno al mondo, 1577-1580). Sulla base
delle esperienze olandesi quindi l’Inghilterra dà vita alla Compagnia Inglese delle Indie Orientali (East India
Company – EIC) il 31 dicembre 1600, quando la regina Elisabetta I accorda una ‘carta’ (o patente reale) che
le conferiva per 21 anni il monopolio del commercio nell’Oceano Indiano, anticipando di due anni la nascita
della VOC. Il capitale iniziale della EIC è di 72.000 sterline, suddiviso tra 125 azionisti, è gestita da un
Governatore e 24 direttori nominati (Corte dei Direttori), responsabili davanti all’assemblea dei proprietari.
L’Olanda può intanto contare su una marina militare potente e agguerrita, che nel 1588 era stata in grado di
sconfiggere l’Invincibile Armata spagnola, contribuendo indirettamente all’indipendenza dei Paesi Bassi
settentrionali – questa era una minaccia non sottovalutabile dalla marineria britannica, che aveva una
tradizione di vittorio risalente al tardo Medioevo sia contro Francia che Spagna. I navigatori inglesi inoltre
erano impegnati da quasi un secolo nella ricerca di nuove rotte a nord di Russia e Canada che consentissero
di aggirare il blocco iberico, ottenendo discreti successi nelle zone (con il commercio di pellicce), non
trovando però mai i passaggi a nord-est o nord-ovest.

LA COSTITUZIONE DELLA VOC

Il 20 marzo 1602 nasce la Compagnia Riunita delle Indie Orientali (VOC), sulla base di una Carta, approvata
dagli Stati Generali d’Olanda, che le concedeva per 21 anni il monopolio dei commerci lungo la rotta del Capo
di Buona Speranza e quella dello Stretto di Magellano. In considerazione degli inconvenienti derivati
dall’esistenza di più compagnie e dei maggiori profitti derivati da una sola, le autorità olandesi danno vita ad
un’unica organizzazione per condurre i commerci orientali nel nome comune delle Province Unite. Lo statuto
(valido dal 1602 al 1623) conferiva alla Compagnia una struttura chiara: le Sei Camere (Kamers) sostituivano
le precedenti compagnie di Amsterdam, Zelanda (Middelburg), Rotterdam, Delft, Hoorn ed Enkhuizen; il
capitale sociale ammontava a 6.459.840 fiorini forniti in quantità diversa dalle città. La spartizione delle
attività legate alle spedizioni - costruzione delle navi, gestione dei viaggi, compravendita, distribuzione dei
profitti, era esplicitamente stabilita nella Carta: nello specifico, la metà toccava ad Amsterdam, un quarto
alla Zelanda, e il rimanente quarto diviso in sedicesimi per le restanti quattro Camere, ma non
proporzionalmente agli investimenti di capitale iniziale (ad esempio, Delft e Enkhuizen avevano investito
molto di più di Rotterdam e Hoorn), questo perché la Zelanda temeva di rimanere schiacciata dalla superiorità
economica di Amsterdam, qualora il controllo della VOC fosse dipeso da una proporzione legata ai capitali
investito. Nonostante ciò, la superiorità della città-simbolo dell’Olanda era evidente: molti suoi investitori
agivano attraverso prestanome presso le altre Camere, insieme ad alcuni inglesi e tedeschi che operavano
presso la Borsa della città. Verso fine XVII secolo, ad esempio, a Middelburg figuravano 160 soci stranieri con
somma di 600.000 fiorini (più di metà dell’intero capitale), e di questi 108 (439.000 fiorini) provenivano da
Amsterdam. Il numero di governanti, bewindhebbers, viene fissato inizialmente a 76 - tanti quanti i direttori
delle precedenti compagnie al momento della fusione, ma vennero poi in pochi anni ridotti a 60, per assenza
nuove nomine in caso di decesso: 20 per la Camera di Amsterdam, 12 per quella della Zelanda e 7 per ognuna
delle altre Camere. Il collegio dei XVII Signori (Heeren XVII), organo direttivo della Compagnia, era composto
da 8 membri eletti dalla Camera di Amsterdam, 4 dalla Camera della Zelanda, 1 per ciascuna Camera
rimanente. Il diciassettesimo membro veniva scelto a turno nel gruppo della Zelanda o di una Camera minore
a rotazione (così che, in teoria, i membri della Camera di Amsterdam potessero esser messi in minoranza
nelle votazioni – nei fatti però Amsterdam era predominante nelle scelte politiche della Compagnia) le
riunioni del collegio dei XVII Signori avvenivano regolarmente due o tre volte l’anno (ad Amsterdam e
Middelburg) e stabilivano le linee guida della politica centrale della VOC. I XVII signori avevano poi eletto un
Avvocato, unico organo monocratico, con la tendenza ad assumere sempre più un ruolo guida negli affari. La
Carta conferiva alla VOC pieni poteri di agire in Estremo Oriente in nome e per conto degli Stati Generali
olandesi - monopolio commercio nei mari orientali, potere di stipulare accordi e contratti, costruire forti,
nominare governatori e magistrati, reclutare soldati.

La Compagnia era quindi privilegiata - secondo lo storico Femme S. Gaastra addirittura la VOC non era
soggetto di diritto né godeva di deleghe di sovranità da parte del governo, ma era una diretta emanazione di
esso; altri invece vedono nella VOC l’embrionale formazione di uno ‘Stato nello Stato’. Nel corso del tempo
le autorità olandesi perdono influenza sulle decisioni del collegio dei XVII signori - la regola che le decisioni
dovessero essere approvate dagli Stati Generali fu presto disattesa. La salda struttura interna e l’autonomia
acquisita ed esercitata rispetto alla sovranità degli Stati Generali sarebbero stati gli elementi vincenti della
VOC nello scalzare il predominio iberico ed affermarsi come presenza dominante nell’Asia orientale del XVII
secolo. La struttura oligarchica interna e la sua stretta connessione con i gruppi dominanti della Repubblica
permettevano ai direttori di condurre affari badando ai propri interessi. C’era obbligo di pagamento puntuale
dei dividendi e non era prevista l’accumulazione di un capitale di riserva, anche se la Compagnia aveva
sempre bisogno di somme da investire, per cui presto si giunse alla mancanza di liquidità. Il capitale di base
non venne mai considerevolmente aumentato, preferendo piuttosto ricorrere a prestiti coperti con le scorte
delle merci impiegate per manovrare i prezzi – dato che i prestiti erano sottoscritti perlopiù dai direttori e
dai loro familiari, questi anticipavano denaro alla Compagnia senza alcun rischio, ricavando grandi interessi
sulle spese dei partecipanti abituali.

ORGANIZZAZIONE E STRUTTURA

Il percorso per ottenere una compagnia unita non era stato facile – il Gran Pensionario d’Olanda, e cioè il più
importante funzionario del paese, Johan van Oldenbarneveldt, aveva supportato una fusione per due
obiettivi prioritari: la sconfitta del nemico (corone unite di Spagna e Portogallo) e la difesa della madrepatria,
minacciata nella sua indipendenza politica ed economica. Tuttavia, i molteplici interessi - spesso
contrapposti, di mercanti influenti, oligarchie cittadine e singole compagnie private, dovevano avere un
corrispettivo nell’organizzazione della VOC, e doveva essere loro garantito un tornaconto. A convincerli fu
quindi l’elemento economico, ma diveniva allora chiaro che lanciarsi alla conquista dei mercati orientali
avrebbe portato a conflitti armati con gli iberici. I dipendenti della Compagnia dovevano quindi essere
mercati e soldati allo stesso tempo – compito non semplice ed inconsueto - come l’Ammiraglio Cornelis
Matelieff avrebbe detto qualche anno dopo, nel 1608. È però questo elemento ad aver rappresentato il tratto
vincente nel periodo di ascesa della VOC. Abbiamo visto come altro vantaggio fu l’indipendenza della VOC.
Anche la scelta dei XVII signori, che spesso non avevano esperienze dirette in Asia, organo supremo della
Compagnia, avveniva in accordo con le autorità cittadine e le locali oligarchie – ciò nel tempo consentì una
sempre maggiore compenetrazione della leadership della VOC con gli interessi economici delle principali città
dei Paesi Bassi. Gli investimenti di capitale nei viaggi della VOC venivano infatti da un ampio spettro degli
strati sociali della popolazione (commercianti, banchieri, aristocratici, politici, artigiani, lavoratori salariati e
perfino investitori stranieri), con quote oscillanti tra 50.000-97.000 fiorini. I soci abituali avevano diritto alle
rispettive quote di utili ma non avevano potere nelle decisioni effettive. Venivano poi scelti dei soci principali
(con più di 6000 fiorini di capitale nella Camera di Amsterdam e più di 3000 nelle altre), ai quali veniva affidato
il potere decisionale nella conduzione degli affari. Il connubio tra classe governante e classe mercantile
anticipava una situazione particolare: in caso di lamentele, proteste o denunce contro possibili abusi o
comportamenti scorretti della VOC, a risolvere le controversie poste dai querelanti erano gli stessi individui
contro cui le istanze erano sollevate – ciò dimostra lo stratificato tessuto sociale nel quale la Compagnia
aveva sviluppato le proprie radici e l’identità di fini ed interessi creatosi tra oligarchie olandesi e dirigenza
della VOC. A partire dal 1650 viene preposta una commissione permanente per questi compiti, che
raccoglieva e leggeva la documentazione, selezionava il materiale, preparava risposte e sottoponeva al
collegio dei XVII Signori la documentazione da firmare e sottoscrivere – era loro la decisione finale.

Ognuna delle Sei Camere poteva organizzare in autonomia le proprie spedizioni, ma competeva ai XVII Signori
approvare la struttura e composizione definitiva della spedizione in partenza, che avrebbe issato lo stendardo
della Compagnia: la bandiera olandese a tre strisce orizzontali con il marchio VOC nella parte bianca,
sormontato dell’iniziale della Camera cui apparteneva la nave. Con il progressivo sviluppo di commerci e basi
in Asia orientale divenne necessario avere un Quartiere Generale in loco, che fu stabilito a Batavia, l’attuale
Jakarta, nel 1619, con l’assegnazione di un Governatore Generale posto sotto controllo della sede centrale
di Batavia. In ogni singola sede fu nominato un capo dell’agenzia - comunemente chiamato ‘governatore’,
per provvedere alla gestione locale. In ogni sede agli ordini del governatore si trovava uno staff di alti ufficiali
di grado e mansioni diversificate, ad esempio c’è chi si occupava di redigere registri attività commerciali,
interpretariato. Tutte le sedi mandavano regolarmente resoconti quotidiani alla base centrale di Batavia, che
trasmetteva a sua volta resoconti sulle attività della VOC al collegio dei XVII Signori. La documentazione era
ponderosa e richiedeva impegno costante, i suoi contenuti spaziavano da attività quotidiane più o meno
regolari e monotone a registri commerciali e di gestione di sede, da scelte commerciali e politiche legate
talvolta ad incidenti di navigazione, scontri militari, conflittualità, particolarmente importante fu il rapporto
tra VOC ed i Zheng, i veri interlocutori-antagonisti commerciali, militari e politici della Compagnia Riunita per
tutto il ‘600. Poi c’erano i dipendenti, che erano divisi in varie categorie: più importanti quelli con funzioni di
carattere mercantile, di vario grado – ad esempio c’era il mercante anziano con funzioni di comando, oppure
‘assistent’, con funzioni di segretario-scrivano, secondo gruppo quello del personale militare e marittimo di
ogni ordine e grado, reclutato di volta in volta prima della partenza di una flotta (prestava quindi servizio a
bordo/terra per tempo determinato), del terzo gruppo facevano parte i predicatori calvinisti, che ebbero
ruolo rilevante in particolare a Taiwan al momento dell’insediamento olandese sull’isola - Jan Pieterszoon
Coen ne postulava la presenza per favorire la disciplina e l’educazione di marinai e soldati olandesi oltre che
dei futuri coloni, il quarto gruppo era formato dagli artigiani e dai carpentieri, che ricevevano paga migliore
dei semplici soldati o marinai per il loro alto livello di specializzazione. Il personale era assoldato attraverso
liste nominative a cui quasi tutti potevano iscriversi – spesso però le richieste per le posizioni più umili erano
fatte da elementi poco raccomandabili, che sceglievano di imbarcarsi per avere occasione di cambiare vita.

IL NETWORK

Gli obiettivi prioritari della VOC - scalzare gli iberici e stabilire accordi commerciali vantaggiosi con i potenti
locali, risultarono chiari da subito, e da qui evidente l’importanza dell’elemento militare nella VOC, sia per
combattere gli iberici che per imporre alle autorità dei vari Stati (anche e soprattutto con le armi) contratti
capestro e condizioni inaccettabili. Questa tattica di esplicita aggressione e sfruttamento accompagnò tutto
il processo di attestazione della Compagnia nelle India Orientali, con l’eccezione della Cina e del Giappone,
dove la VOC si trova a dover interagire con due imperi sovrani. Sia nel Sud-est asiatico che sulle coste
dell’India, comunque, le strategie di espansione dei XVII Signori riscuotono successo, riuscendo a imporsi nel
commercio locale ed interasiatico. Un’incessante campagna d’assalto ai capisaldi nemici fa sì che
gradualmente la VOC si sostituisse al Portogallo e alla Spagna nel contesto asiatico (dal Golfo Persico a quello
del Bengala e dai mari della Cina a quelli del Giappone): il predominio iberico esercitato nel XVI secolo viene
smantellato.

Tra le postazioni più importanti della VOC: Batavia (ora Jakarta, Indonesia), Hirado e Deshima (Giappone),
Taiwan (o Tainan) e Canton (dal ‘700); ancora basi nel Siam (Ayutthaya, 1607), sulle coste dell’India (Surat
nel 1616 e Wingurla nel 1636), in Arabia (1616), sull’isola di Sumatra (Palembang, 1619), in Persia (Gombrun,
Shiraz e Ispahan, 1623-1625), nel nord e nel sud del Vietnam (1636-1637). Inoltre, la VOC aveva numerose
sedi su entrambe le sponde dello Stretto di Malacca, punto di passaggio obbligato per il traffico di spezie,
cotonine indiane e sete cinesi.

Jan Pieterszoon Coen (1587-1629) meditava anche la conquista di Macao, Manila e Malacca allo scadere della
Tregua dei Dodici Anni con la Spagna (1609-1621), programma realizzato solo in parte ma che permise alla
VOC di divenire la potenza dominante nei mari orientali. Anche gli inglesi cercavano di ritagliarsi i loro spazi
- la rivalità tra potenze scatenò uno scontro esplicito, breve e ufficioso già nel 1619, seguito dalla fondazione
della Fleet of Defense (di breve durata 1620-1622), mirata a colpire i portoghesi a Macao nel 1622. L’anno
successivo il ‘massacro di Ambonia’ - uccisione da parte del locale governatore olandese della colonia di
mercanti inglesi e loro interpreti, accusati di tramare contro la VOC, ribadiva la supremazia olandese nelle
Isole delle Spezie. L’incidente avrebbe dato vita ad una rivalità sfruttata dagli inglesi per scatenare due guerre
contro gli olandesi (162-1654 e 1665-1667), la seconda delle quali conclusa con la Pace di Breda, che avrebbe
consentito agli inglesi di ottenere (come ‘riparazione del torto subito’) la città di Nuova Amsterdam (ora New
York), in cambio della rinuncia definitiva ad ogni pretesa sulle Molucche. Da quel momento la EIC si concentra
soprattutto sull’India, nella quale assume una posizione dominante - anche grazie all’acquisizione dell’isola
di Bombay tramite il matrimonio, nel 1661, della principessa portoghese Caterina di Braganza con l’erede al
trono inglese Carlo II, lasciando alle Province Unite l’Indonesia. Solo in India gli olandesi non riuscirono a
scardinare il sistema commerciale portoghese, anche vincendo sempre negli scontri navali – i primi successi
furono ottenuti da Anton van Diemen (1593-1645), che Coen aveva indicato come proprio successore. Van
Diemen fu nominato Governatore Generale nel 1636 e fino alla morte, nonostante fosse considerato
eccessivamente esuberante dai XVII Signori, per le iniziative troppo costose e poco remunerative. Da subito
parte la sua offensiva, mirata all’appropriazione del commercio della cannella di Ceylon (Sri Lanka) e del pepe
del Malabar (sud ovest India), le due uniche spezie di alto valore rimaste fuori dal controllo olandese. I signori
del principato di Kandy (interno del Ceylon) erano da tempo in conflitto con i portoghesi e pensavano di
servirsi degli olandesi per scacciarli. Nel 1638 la VOC conquista Batticola ad est e nel 1640 Galle, nel sud,
ovvero le principali città del territorio della cannella. Contemporaneamente Van Diemen invia ogni anno (dal
1636) una flotta a bloccare il porto di Goa, capitale dell’Estado da India portoghese – con la paralisi di Goa il
controllo dei portoghesi sui commerci diviene impossibile, i collegamenti con Malacca e Macao interrotti.
Malacca cade quindi nel 1641 nelle mani degli olandesi (che la tengono per due secoli, anche quando il porto
perde importanza). Il ruolo dei portoghesi nei mari orientali è finito, Macao isolata. Nel 1641 in India giunge
la notizia della ribellione portoghese contro il dominio spagnolo e dell’armistizio stipulato tra nuovo governo
di Lisbona con i Paesi Bassi, ma Van Diemen (tenendo a bada i portoghesi con le trattative) prolunga il blocco
navale fino al 1643, in modo da ottenere condizioni più favorevoli all’atto dell’armistizio. Nel 1647 gli olandesi
riescono ad insediare una prima filiale sulle coste del Malabar (a Kayankulan) e a inserirsi nel commercio del
pepe. Allo scadere dell’armistizio con il Portogallo (1652), che si era alleato con l’Inghilterra per cercare di
riconquistare alcune delle posizioni perdute, gli olandesi riprendono l’offensiva. Nel 1656 cade Colombo e
nel 1658 Jaffnapatam, quindi tutta la costa di Ceylon passa sotto il controllo della Compagnia Riunita. La
conquista della costa del Malabar negli anni seguenti avviene non tanto grazie al Governatore Generale
(Johan Maetsuyker, dal 1653 al 1678) quanto per l’aggressivo Rijklo van Goens il vecchio, comandante
supremo nell’Oceano Indiano (poi Governatore Generale 1678-1681). Nel 1661 cade Quilon, l’anno dopo
Cranganore, nel 1683 Cochin e infine Cannanore (tutte in India). Nel 1656 intanto sulla costa del Coromandel
(Nuova Zelanda) era stata occupata Tuticorin, di fronte a Ceylon, e nel 1658 conquistata Nagappattinam.
Altre basi caddero una dopo l’altra nelle mani degli olandesi, finché i portoghesi nel 1662 vengono scacciati
dal principe di Golconda (India meridionale). Gli olandesi stessi espulsero e confinarono a Goa dalle città
conquistate tutti i cittadini portoghesi.

Grandi successi per loro anche in Persia: lo shah Abbas il Grande cercava alleati in Europa contro gli ottomani
e progettava di collocare la seta persiana direttamente in Occidente, aggirando il blocco turco. Si rivolge
prima agli Asburgo (Spagna e Austria), venendone deluso, poi agli inglesi, che decidono di aiutarlo a
conquistare la portoghese Hormuz (Isola golfo persico, Iran) nel 1622 – al posto di questa sarebbe nata la
persiana Bandar Abbas. Sempre lì però l’anno dopo (1623) sarebbe nata una succursale olandese con basi
all’interno, che presto avrebbe rivendicato la supremazia nel commercio della seta grezza persiana – benché
pagato con argento, infatti, questo prodotto costituiva eccezionale fonte di guadagno.
Altrettanto importante il commercio delle cotonine indiane: il vantaggioso rifornimento di materie prime, le
capacità tecniche e i salari bassi avevano fatto dell’India il principale produttore di tessuti di cotone grezzo e
raffinato, bianchi, stampati e colorati. I tessuti indiani erano così richiesti anche ad est di Malacca che
potevano essere utilizzati vantaggiosamente per l’acquisto delle spezie indonesiane. L’esportazione in
Europa di questi prodotti si sviluppò come aspetto secondario delle relazioni commerciali, ma assunse presto
importanza. Il nuovo sistema di potere olandese non era molto diverso dal precedente portoghese, come
invece si potrebbe supporre dalla diversa struttura organizzativa (capitalismo di Stato portoghese vs società
per azioni formalmente privata olandese). Disporre di una tale rete di capisaldi significò per gli olandesi poter
istituire una serie di linee di navigazione regolari che convogliavano a Batavia merci da Estremo Oriente, Sud
Est Asiatico, India e Medio Oriente, ridistribuite poi sui mercati asiatici o esportate su quello europeo. Sete e
tessuti di cotone, perle e pietre preziose, pepe e cannella, lacche e porcellane (tutti questi i prodotti più
richiesti) viaggiavano prevalentemente sulle navi olandesi. La VOC sarebbe divenuta la più grande compagnia
commerciale del mondo: nel 1669 aveva una trentina di insediamenti in Asia, 150 navi mercantili 4 da guerra,
50.000 impiegati e un esercito privato di 10.000 uomini. La Compagnia spesso deteneva il monopolio della
produzione nei luoghi in cui si riforniva di certe merci, e poteva quindi stabilire i prezzi a proprio vantaggio,
sia rispetto ai produttori asiatici che agli acquirenti europei. Amsterdam era divenuta la capitale
dell’economia-mondo occidentale, luogo di concentramento e smistamento di merci provenienti da tutto il
mondo (in particolare dall’Oriente) – attorno a lei ruotavano tutte le altre capitali europee. Lo spirito di libertà
e intraprendenza che aleggiava per la città permetteva a chiunque di tentare di migliorare la propria
condizione a prescindere dalle origini (anche se l’etica calvinista privilegiava certe caratteristiche). È però
proprio nel momento di maggiore espansione che la VOC si ritrova ad avere un rivale in grado di contrastarla
in Asia Orientale: i Zheng.
CAPITOLO IV

IN VIAGGIO CON LA VOC

LE NAVI

Le flotte delle Indie Orientali salpavano dall’Olanda tre volte l’anno: durante festività natalizie, pasquali e a
settembre. In tarda primavera/inizio estate, dopo che i XVII Signori avevano scelto il numero di navi per il
primo convoglio, in base al carico di ritorno che speravano di smerciare con profitto, le sei Camere erano
chiamate ad approntare i bastimenti. La Compagnia Riunita utilizzava quasi esclusivamente navi di sua
proprietà: aveva quindi cantieri navali e infrastrutture per manutenzione ed allestimento delle flotte. Gli
interessi economici legati alle attività della VOC erano di varia natura, e coinvolgevano le più svariate
componenti sociali (maestri d’ascia, carpentieri, fabbri, cannonieri ecc.), allo stesso modo, le forniture
necessarie davano lavoro a più produttori ed imprese: i cantieri navali erano una straordinaria fonte di lavoro
e ricchezza per l’intera comunità. I molti materiali di cui necessitava la VOC erano spesso forniti da altri paesi
europei, e ciò significava un notevole movimento di merci, lavoro e denaro per tutta Europa.

La partecipazione alla costruzione delle navi avveniva secondo quanto stabilito nella Carta del 1602: metà
spettava alla Camera di Amsterdam, un quarto a quella di Zelanda e 1/16 alle altre Camere. Nel XVII secolo
la cantieristica olandese era considerata all’avanguardia in Europa, sia per la qualità di progettazione e
costruzione, ma anche perché in grado di contenere i costi standardizzando al massimo la produzione e
trasformando l’assemblaggio in una specie di catena di montaggio.

Altra ragione per la quale le navi erano costruite in patria era il fatto che gli ‘East Indiamen’, e cioè le navi
mercantili, erano armati quanto navi da guerra, in modo tale da essere utilizzati come unità ausiliarie o in
prima linea in caso di conflitto. In tal modo le Province Unite avevano sempre una flotta abbastanza
numerosa, pur non mantenendo inutilmente le unità che la componevano – questo espediente sarebbe poi
stato inappropriato, per la crescente specializzazione dei tipi navali. La costruzione era eseguita con cautela,
controllando ogni singolo pezzo e la sua funzione; il processo di assemblamento dello scafo durava circa tre
mesi, poi si attendeva che il legno si asciugasse per evitare rotture. Non c’era grande differenza tra queste
navi e le coeve unità militari (galeoni nel ‘500-‘600 e vascelli fra ‘600-‘700), mentre si differenziavano da
quelle mercantili per la poppa (in questo caso quadrata, le mercantili di dimensioni minori l’avevano tonda)
– in generale erano solo un po’ più larghe delle navi da guerra per far posto al carico e con la poppa un po’
più alta per far spazio ai passeggeri. Le navi più grandi, chiamate retourschip perché destinante a compiere
l’intero circuito di andata e ritorno con le Indie Orientali, misuravano 55 m in lunghezza, 13 m in larghezza e
6 m in altezza, per un peso tra 1110 e 1200 tonnellate; le navi più piccole misuravano 20x6,5x2,5 m per un
peso di 400 tonnellate, le più diffuse erano una ‘via di mezzo’ lunghe 30-50 mt e pesanti 600-800 tonnellate.
Nonostante la loro imponenza non erano comunque le più grandi navi in Europa nel periodo – spagnoli e
portoghesi preferivano concentrare le loro merci su avi di dimensioni maggiori, riducendo il numero dei
trasporti, perché si illudevano che le dimensioni rendessero il viaggio più sicuro: le ripetute catture di
caracche e galeoni spagnoli e portoghesi di ritorno da parte di corsari e pirati inglesi e olandesi dimostrano il
contrario.

La VOC si occupava quindi di supervisionare la costruzione delle proprie navi, godendo di una vasta serie di
cantieri sparsi in tutti i Paesi Bassi, ma anche in India e Indonesia (sfruttandone le ricchissime risorse forestali
locali e i legni di maggior durata) – il più grande era comunque ad Amsterdam, su un’isola artificiale lungo il
fiume realizzata intorno a metà ‘600. La centralizzazione delle attività permetteva alla VOC di programmare
accuratamente, nella tarda primavera o all’inizio dell’estate di un dato anno, tutte le fasi di costruzione delle
sue navi. Durante i due secoli della sua esistenza la VOC costruisce 1461 bastimenti, più di 7 l’anno (di cui 3
prodotti ad Amsterdam), ottenendo così una consistenza di circa 150 unità per la flotta della Compagnia,
paragonabile ad una grossa marina da guerra. A fine ‘600 il costo di una nave era circa di 100.000 fiorini, nel
secolo successivo 150.000.

LE ROTTE

Quando la nave era pronta era accuratamente ispezionata da capitano e capomastro, poi tirata fuori – nel
caso di costruzione ad Amsterdam, anche se scarichi i pesanti bastimenti avevano difficoltà a destreggiarsi
nei bassifondi al largo di Amsterdam o Enkhuizen, tanto da dover ricorrere ai ‘cammelli’ (serbatoi di
galleggiamento). Le navi che partivano da Rotterdam o Delft invece dovevano compiere un tortuoso percorso
tra isole e banchi nel delta della Mosa e della Schelda prima di arrivare in acque profonde, per prendere poi
il mare tra dicembre-gennaio e aprile-maggio. La ‘flotta di Natale’ doveva affrontare le peggiori condizioni
nel Canale della Manica e nell’Atlantico settentrionale, ma arrivava all’Equatore in tempo per sfruttare nel
modo migliore gli alisei e controalisei. Partendo subito dopo il periodo di macellamento degli animali da carne
in Olanda, le navi salpavano trasportando carne fresca. La ‘flotta di Pasqua’ viaggiava in condizioni
metereologiche migliori alle alte latitudini ma rimaneva spesso bloccata al momento di attraversare
l’equatore. Con l’aumento delle navi aumentavano le partenze, scaglionate nel corso dell’anno. Appena tolta
l’ancora le navi decidevano se discendere rapidamente la Manica oppure (in caso di condizioni politiche
sfavorevoli) fare rotta a nord, aggirando la Scozia. Le due rotte si ricongiungevano a largo della Spagna e da
lì gli East Indiamen percorrevano la medesima rotta, quella ‘obbligata’ per essere spinti dai venti portanti.

Al largo dell’Africa occidentale la strategia era determinata dal gioco delle correnti: se i vascelli fossero stati
troppo vicini alla costa avrebbero rischiato di essere trascinati nel Golfo di Guinea, fuori dai venti migliori, ma
se fossero stati troppo a largo avrebbero rischiato di incappare nella corrente equatoriale, che rischiava di
portarli eccessivamente ad oriente. Nel 1627 la VOC individua una wageweg, letteralmente ‘strada
principale’, riportata sulle carte e che i singoli capitani erano invitati a seguire. Una volta passato l’equatore
la rotta canonica piegava verso la costa brasiliana fino ai 30° di Latitudine sud – da lì si virava verso est,
puntando al Capo di Buona Speranza (dove nel 1652 gli olandesi, sotto il comando di Jan Van Riebeeck,
avevano costituito una base permanente). I coloni stanziati qui, con l’aiuto di schiavi neri, coltivavano grano
e vite ed allevavano ovini e bovini per rifornire di viveri le navi in transito. Città del Capo era chiamata “la
taverna dei due mari” e godeva di una posizione strategica così invidiabile che gli inglesi, appena poterono,
si precipitarono a strapparla ai rivali. Lasciato il Capo le navi olandesi si lanciavano verso est sfruttando i venti
chiamati ‘Quaranta Ruggenti’ (mentre i portoghesi risalivano la costa africana): questa rotta era stata
scoperta dal capitano olandese Hendrik Brouwer nel 1611 ed era divenuta ‘obbligatoria’ per tutti gli East
Indiamen, ma seguirla non era facile.

Il carico delle navi era sistemato nelle stive in base al peso (prima merci pesanti, come salnitro e zucchero,
poi spezie e pepe in sacchi, infine i tessuti. Tutti gli spazi vuoti erano riempiti, e come zavorra si preferivano
alle tipiche pietre e sabbia, per il viaggio di ritorno, le porcellane acquistate in Cina o Giappone: i piatti erano
impilati a decine in speciali ceste per proteggerli contro gli urti e servivano egregiamente per il bilanciamento
dello scafo, venendo poi venduti con buon profitto all’arrivo. Dato che le navi potevano salpare sia durante
il monsone estivo che durante quello invernale, mettevano vela solo quando il carico era completato, ma a
causa dei frequenti conflitti si prese presto l’abitudine di far viaggiare i bastimenti in convoglio: all’inizio la
partenza era fissata per fine dicembre, poi partivano 3-4 flotte più piccole tra ottobre e febbraio. Più tardi
ancora, per evitare la stagione dei cicloni nell’Oceano Indiano meridionale (che tra il 1720-40 avevano fatto
affondare 19 navi della VOC), le partenze vennero fissate a settembre e a fine gennaio. Dopo 2-3 mesi le navi
facevano sosta a Città del Capo per rifornirsi di viveri e acqua e riparare eventuali danni, ripartendo poi per
l’Atlantico, passando per Sant’Elena e le Azzorre. In prossimità della Manica, le navi erano attese da altre
della Compagnia (e spesso da una squadra della marina militare) che le accompagnavano nel tratto più
pericoloso del viaggio (per condizioni politiche) – se le condizioni fossero state gravi il tragitto si sarebbe
allungato oltre la Scozia, approdando a Bergen, in Norvegia, ma per convincere i marinai a ritardare
ulteriormente il loro rientro bisognava promettere loro 3 mesi di paga supplementare. Una volta ormeggiate
le navi l’equipaggio era sbarcato immediatamente e ciascun marinaio poteva portare con sé solo gli effetti
personali indispensabili, mentre il resto del bagaglio era ispezionato presso la sede della Compagnia e solo
allora restituito. Il comandante della flotta invece, una volta consegnate ufficialmente le navi nelle mani dei
responsabili delle varie Camere l’alto ufficiale riceveva una medaglia d’oro del valore di circa mille fiorini (pari
alla paga di un anno di un capitano).

GLI EQUIPAGGI

Le navi olandesi richiedevano un numero di uomini inferiore di due terzi circa rispetto a quello delle altre
marinerie europee; quindi, una nave da 600 tonnellate era tranquillamente manovrata da una decina di
marinai. Ciò consentiva di armare un numero di navi molto più elevato delle altre potenze europee. Assoldare
i marinai per formare gli equipaggi non era semplice: il viaggio estenuante, la paga non elevata, condizioni di
vita difficili a bordo, rischi delle traversate oceaniche non rendevano allettanti le offerte di lavoro della
Compagnia riunita. Essa non ebbe comunque tante difficoltà quante quelle dei portoghesi ad ingaggiare
uomini. Ad Amsterdam esisteva un folto proletariato spinto dalla disoccupazione a imbarcarsi sulle navi della
VOC – ogni anno a dicembre si ripeteva il rituale di arruolamento ad Amsterdam, dove per l’occasione
confluivano aspiranti marinai da tutta Europa. Gran parte di questi rappresentava il peggio della società
dell’epoca – ubriaconi, derelitti, malnutriti, ex-galeotti, senza tetto ecc., tutti coloro che per mera speranza
di sopravvivenza si spingevano in un’impresa estremamente rischiosa e poco redditizia. La promessa di
viaggiare in posti meravigliosi, all’avventura, la presenza di belle donne e una paga regolare su base di un
contratto quinquennale - sebbene il basso salario rispetto a tutti gli altri marinai europei, riuscivano a
convincerli. Condizione di partenza era però di sottoscrivere un debito di 150 fiorini da restituire nel tempo.
I marinai erano condotti in speciali alloggi a terra e messi sottochiave fino alla partenza, costretti ad una
convivenza forzata quasi disumana. Una volta imbarcati iniziavano a riscuotere il salario - tranne le prime due
rimesse, a rimborso parziale del debito contratto. Spesso il marinaio moriva durante il viaggio e chi aveva
anticipato la somma ci rimetteva, ma altre volte il debito era onorato fino in fondo. Paga ridotta a parte, vitto
e alloggio erano garantiti ed erano comunque meglio di ciò che mangiavano i poveri dell’epoca. A bordo,
inoltre, si poteva fare carriera, poiché in mare valgono effettivamente le reali capacità del singolo. In caso di
decesso, eventuali vedova e figli ricevevano un piccolo indennizzo dalla Compagnia.

Nel corso del XVII secolo il fabbisogno degli uomini cresce (dagli 8000 all’anno tra 1602-1610 ai 45.000
all’anno fra 1670-1680). Al rientro dal viaggio è consentito portare con sé un po’ di merce a titolo personale,
da vendere in proprio, chiamata in gergo ‘paccottiglia’ (non erano però ammesse mercanzie preziose, sulle
quali la VOC esercitava monopolio). I commerci privati si trasformavano però in un contrabbando con la
connivenza degli ufficiali che avrebbero dovuto svolgere i controlli, si creavano addirittura piccole società per
azioni tra impiegati della Compagnia preposte a questo traffico illecito, che eludevano il monopolio del datore
di lavoro. A fine XVII secolo la corruzione raggiunge livelli elevati, procurando gravi danni (tanto che
l’acronimo VOC è utilizzato anche per ‘Vergaan Onder Corruptie’, ovvero ‘perita per corruzione’), ma non al
gruppo dirigente, che riusciva a lucrare anche in situazioni di illegalità. Tra fine ‘600 e l’intero ‘700 le difficoltà
ad arruolare diventano tali da costringere la Compagnia ad accettare anche uomini malati, inefficienti e
furfanti – risparmiando su salario e vitto dei marinai nel ‘600 gli olandesi erano sì riusciti ad ottenere la
preminenza assoluta nel trasporto marittimo, ma nel tempo le condizioni rigidissime non furono più
accettate, e si ridusse quindi anche il vantaggio competitivo.

LA VITA A BORDO

Un equipaggio del genere era difficile da gestire, e spesso entrava in conflitto con gli ufficiali di bordo (inoltre
le condizioni di vita accendevano ancor più gli animi). La conflittualità esplodeva soprattutto tra olandesi e
non-olandesi, considerati degli intrusi anche se indispensabili al funzionamento della VOC. A bordo non erano
poi ammesse donne (anche se alcune mogli di ufficiali talvolta si travestivano da uomini per seguire il coniuge,
e se scoperte erano immediatamente sbarcate e rispedite indietro). Restavano solo le prostitute (mandate
nei possedimenti d’oltremare per redimerle e procurare una moglie ai funzionari di basso rango locali.
L’omosessualità, pur frequente, era vietata e punita. Particolarmente dure le punizioni in caso di
insubordinazione e non si tolleravano disobbedienze di sorta – tra le pene un regime a pane e acqua,
punizioni corporali, torture, morte (molto comuni i giri di chiglia, ovvero legare il colpevole ad una cima che
dal parapetto su un lato della nave raggiungeva l'altro lato passando appunto sotto la chiglia - il punito doveva
quindi resistere in apnea all'immersione forzata e spesso moriva per questo o per lo sfregamento contro lo
scafo irto di teredini e molluschi marini); chi feriva un compagno con un coltello era inchiodato all’albero per
la mano e doveva liberarsi sfilando l’arma attraverso la carne viva; in caso di omicidio il colpevole era legato
con il cadavere schiena contro schiena e gettato in pasto ai pesci. A bordo i tecnici specializzati (cannonieri,
falegnami, cuochi ecc.) occupavano il castello di prua assieme ai sottufficiali; i gentiluomini (capitano, ufficiali,
medico, funzionari della VOC e mercanti) godevano di qualche comodità in più negli alloggiamenti; i marinai
semplici, mozzi e soldati dormivano su amache sospese fra i cannoni sul ponte di batteria o quello di
corridoio; i passeggeri semplici si accontentavano della stiva. Dato l’alto rischio di mortalità dovuto
all’ammassamento di così tante persone in uno spazio ristretto la Compagnia prestava molta attenzione alle
condizioni igieniche, imponendo l’uso di aceto e polvere da sparo nella pulizia di utensili, oggetti personali e
ponti; inoltre l’aerazione degli spazi era svolta con scrupolo e regolarità (se non in caso di cattivo tempo – in
questo momento la stiva, con dentro 200-300 uomini, provviste, armi e merci, diveniva un potenziale focolaio
di infezioni e malattie). Il medico di bordo era una sorta di chirurgo con scarsa o inesistente formazione
accademica ma con una lunga esperienza pratica alle spalle (prima della partenza doveva sostenere un esame
presso la sede della VOC per dimostrare le proprie capacità). Durante la navigazione visitava i malati due
volte al giorno e chi marcava la visita doveva presentarsi a rapporto. La mortalità era elevata (solo 1 su 3
tornava in patria), i corpi dei defunti erano buttati in mare avvolti in lenzuoli o sudari, con rituali più o meno
solenni in base al rango. Tra le più probabili cause di decesso la pessima qualità del cibo e delle bevande.

La giornata di navigazione era intensa: turni di guardia ogni quattro ore, tempo lento e monotono nelle calme
equatoriali (con caldo opprimente e mancanza di attività), mentre opposta la situazione in caso di tempesta
(l’equipaggio doveva dar fondo a tutte le proprie energie, se necessario alleggerendo il carico per salvare la
nave). Nel corso del lungo viaggio l’equipaggio passava da freddo polare a caldo tropicale, sopportava venti
impetuosi, correnti traditrici e ondate spaventose. Le ore di riposo erano occupate in vari modi (dormendo,
scherzando, giocando a scacchi e dama, o, anche se proibiti, con dadi e carte). Chi sapeva leggere lo faceva,
spesso si improvvisavano rappresentazioni teatrali. Una certa attenzione era riservata alla religione: le navi
ospitavano un prete o, più spesso, un predicatore laico – questi teneva sermoni due volte al giorno (prima di
colazione e prima di cena) a partecipazione obbligatoria, pena la mancata distribuzione della razione
quotidiana di liquore. I naufragi erano tra le cause principali di morte (coinvolgevano interi equipaggi); altro
pericolo l’incendio (per le navi in legno stagionato e impeciato, cariche di polvere da sparo, illuminate da
candele e con focolare per cucinare, ma ancora per la presenza di fumatori di pipa), che quando capitava si
tentava di risolvere con secchi e soffocamento delle fiamme. Frequenti anche gli arrembaggi e gli assalti dei
pirati, con finalità di rapina e saccheggio o sequestro di persona (per chiedere un riscatto). Giungendo
nell’Asia Orientale la VOC trovava come immediati interlocutori di traffici e commerci proprio piraterie e
marinerie estremo-orientali: se i rapporti ufficiali con Cina e Giappone sono stati senza dubbio fondamentali,
altrettanto significativo è stato il profondo interagire con pirati, avventurieri e mercanti, rappresentanti la
chiave di volta dell’avventura olandese.
CAPITOLO V

LA BASE DI HIRADO

L’ARRIVO IN GIAPPONE

Sul precoce approdo di Dirck Gerritszoon Pomp in Giappone nel 1585, imbarcato sulla nave portoghese Santa
Cruz e sulla sua sosta nell’arcipelago per diversi mesi, non tutti sono d’accordo. In una sua opera egli racconta
del Giappone ai connazionali, ma queste informazioni potrebbe averle raccolte durante il soggiorno in Cina,
sul quale non vi sono dubbi. Anche dell’arrivo di una prima nave olandese a Hirado nel 1597 si ha incerta
menzione. Già nell’ultimo scorcio di secolo però, prima ancora di creare la VOC, l’Olanda si era interessata
all’arcipelago nipponico. Nel 1598 l’Ammiraglio Jacques Mahu e il suo vice, Simon de Cordes, furono posti
alla guida di una flotta di 5 navi allestita a Rotterdam: De Hoop, De Liefde (comandata da Jacob
Quaeckernaeck), ‘T Geloof, De Trouw, De Blijde, Boodschap (quest’ultima comandata da Pomp). La rotta
prevista aveva come tappe Brasile - Stretto di Magellano - navigazione lungo le coste di Cile e Perù - Giappone.
La flotta andò però incontro ad un destino avverso, e solo la ‘T Geloof sarebbe tornata in Olanda. Innanzi
tutto, le due navi De Trouw e De Blikde Boodschap furono assalite e catturate dai portoghesi. Presso l’isola
Santa Maria (Cile) la De Hoop e la De Liefde si incontrarono per l’ultima volta, e in quell’occasione l’inglese
William Adams (1564-1620), prima pilota della De Hoop, si trasferì a bordo della De Liefde – il viaggio di
quest’ultima proseguì verso il Giappone (mentre la De Hoop si disperse nel Pacifico). La De Liefde avvistò una
prima isola attorno al 24 marzo, giungendo alle coste del Kyushu il 19 aprile 1600: l’approdo fu nella baia di
Beppu. Gli uomini a bordo erano stremati, pressoché in fin di vita, e l’intero equipaggio fu accolto con
curiosità dai giapponesi. Tra i presenti c’erano anche due gesuiti portoghesi che pensarono questo fosse un
bastimento spagnolo finito fuori rotta, chiedendo alle autorità giapponesi di prestare soccorso all’equipaggio
– quando si accorsero di avere di fronte nemici olandesi era troppo tardi, gli uomini della De Liefde erano già
stati assistiti. I portoghesi tentarono di mettere in cattiva luce i nuovi arrivati, aiutati dal fatto che il carico
della De Liefde comprendeva una notevole quantità di armi da fuoco e polvere da sparo: temendo che si
trattasse di pirati, tutti gli uomini dell’equipaggio furono imprigionati e posti sotto sorveglianza, il carico
ispezionato e sequestrato, Tokugawa Ieyasu informato. A meno di 10 giorni dal suo arrivo, il 28 aprile 1600,
William Adams fu convocato ad Osaka per un colloquio con Ieyasu.

L’INGLESE WILLIAM ADAMS

Il 12 maggio 1600 Adams fu ammesso alla presenza della massima autorità giapponese, sebbene la sua
preminenza non fosse stata ancora formalmente ratificata: Adams era giunto in Giappone pochi mesi prima
della battaglia di Sekigahara (21 ottobre 1600), momento in cui Ieyasu avrebbe vinto contro la coalizione
Toyotomi, fondando poi il bakufu Tokugawa nel 1603. Nell’incontro tra i due, in un’atmosfera di relativa
benevolenza, William Adams fu interrogato per circa tre ore - con l’ausilio di un interprete di portoghese, a
cui seguirono altri colloqui – Ieyasu apprezzava la conversazione con il suo ‘ospite’ e cominciava a vedere
sotto una nuova luce gli olandesi. Secondo alcune fonti i cannoni della De Liefde e il suo equipaggio
contribuirono alla vittoria di Ieyasu del 21 ottobre. Gli incontri proseguirono con sempre maggiore frequenza,
e presto a Adams e ai suoi uomini fu restituita la libertà, oltre ad un sostegno economico per la permanenza
in territorio giapponese. Una volta divenuto shogun nel 1603 Ieyasu continuava a rinnovare le conversazioni
con Adams, in un clima di fiducia e amicizia, tanto che lo shogun chiese agli olandesi di costruire una nave
secondo le loro tecniche: all’obiezione di Adams, che non si riteneva all’altezza del compito, Ieyasu rispose
di provarci comunque. Adams ebbe inoltre il permesso di commerciare liberamente sul territorio giapponese,
e presto quindi sarebbe stata aperta la sede olandese di Hirado - nel 1605 il comandante Jacob
Quaeckernaeck e Melchior van Santvoort furono autorizzati a lasciare l’arcipelago per raggiungere i delegati
della VOC a Patani (Nigeria) e proporre di stabilire una base della VOC in Giappone.

Il daimyō Matsuura di Hirado mise a disposizione una sua nave per il viaggio: gli uomini della De Liefde e il
suo comandante gli avevano insegnato a fondere i cannoni e usare l’artiglieria – era un clima di autentico
spirito di collaborazione, ormai sostituitosi all’iniziale diffidenza. Sul finire del 1607 furono trasmesse due
lettere per William Adams da parte della direzione della VOC da consegnare a Ieyasu, e nel dicembre dello
stesso anno la De Roode Leeuw met Pijlen e la De Griffioen, parte di una flotta più numerosa, partirono
dall’Olanda alla volta dell’Estremo Oriente, per giungere nel luglio del seguente anno in Giappone, via
Indonesia. Nel 1609 la VOC apre quindi la sede di Hirado sotto il comando di Jacques Specx (poi Governatore
Generale dal 1629-1632), il primo opperhoofdt della nuova base commerciale. Qualche anno più tardi, nel
1613, anche la EIC avrebbe stabilito lì i propri uffici - con l’arrivo di John Saris al comando della Clove.
Entrambe le compagnie erano ospitate nello han dei Matsuura, grazie anche all’intermediazione di Adams
(che si era integrato a tal punto da sposare una giapponese, nonostante avesse una moglie in patria).

TOKUGAWA IEYASU

Il primo shogun Tokugawa non era facilmente manovrabile e non aveva alcun interesse a prendere posizione
tra i contendenti europei e farsi coinvolgere nei loro conflitti. Al contrario, voleva trasmettere all’estero
l’immagine di un Giappone riunificato e pacificato, che si lasciava alle spalle le mire aggressive ed
espansionistiche di Hideyoshi e sostituiva al rigido clima di tensione instauratosi in precedenza una distensiva
apertura verso normali relazioni diplomatiche. Non appena insediatosi Ieyasu inviò missive di pace per la
riapertura dei commerci marittimi in tutti i paesi dell’area estremo-orientale e del Sud est asiatico, ma doveva
muoversi con cautela e mantenere un attento equilibrio nell’ospitare contemporaneamente sul proprio
territorio i due opposti schieramenti europei, esercitando anche controllo del bakufu sulle attività espletate
in Giappone da portoghesi, spagnoli, olandesi e inglesi. Sebbene il graduale infiltrarsi degli iberici in Kyushu
fosse stato tamponato con la requisizione di Nagasaki nel 1588, il diffondersi del missionariato e il
moltiplicarsi e rafforzarsi dei legami interpersonali cominciavano ad assumere un discreto rilievo. Tokugawa
Ieyasu non vela la situazione si ripetesse con Olanda e Inghilterra, e la stessa presenza della coalizione rivale
avrebbe potuto fungere da monito per gli iberici, non più gli unici a gestire i commerci tra Giappone e
Occidente. In questo contesto Hirado si rivelava una scelta ideale sia considerando i rapporti con i portoghesi
(che l’avevano esclusa dalle loro rotte), sia per le peculiarità geografiche (che limitavano il campo d’azione di
olandesi e inglesi e ne favorivano il controlla da parte delle autorità grazie alla presenza dei daimyō
Matsuura). Ieyasu offriva quindi sì alle due compagnie ottime possibilità di sviluppare i commerci, com’era
suo interesse (moltiplicando i canali di mediazione per i traffici dell’arcipelago giocava a suo favore su
competitività di prezzi e merci), ma non dimenticava di controllare da vicino tali attività, limitando anche i
porti d’accoglienza: qualche anno più tardi, nel 1616, il bakufu Tokugawa avrebbe circoscritto ai soli porti di
Hirado e Nagasaki (quest’ultima sede delle potenze portoghesi e spagnole) l’ingresso del mercantilismo
internazionale. Ieyasu era anche conscio del ruolo svolto dalla presenza cinese in Giappone e sull’isola di
Hirado in particolare, che da secoli garantiva costante mediazione nei commerci con la Cina.

HIRADO, ANTICO CROCEVIA MARITTIMO


Tra la fine XVI e l’inizio XVII secolo le attività marittime cinesi e giapponesi vissero una fase di grande
espansione, frutto in parte dei problemi interni dei rispettivi paesi (il graduale indebolimento della Cina Ming
favorì l’iniziativa privata dei mercanti cinesi lungo le coste meridionali, che moltiplicarono le attività
mercantili, diramandole per l’Estremo Oriente e il Sud Est Asiatico, fino alle coste dell’India; il mercantilismo
giapponese si affianca con le sue comunità alle presenze giapponesi). La presenza europea era stata di grande
stimolo per i traffici internazionali, e le postazioni europee erano spesso in località già segnate dalle rotte del
mercantilismo estremo-orientale. Nella maggior parte dei casi le attività di questi gruppi di avventurieri
includevano più postazioni: Macao e il meridione cinese, Indonesia, Filippine, Taiwan e Giappone. Già
all’indomani della morte di Hideyoshi e del ritiro delle truppe giapponesi in Corea i mercanti-pirati cinesi
ripresero le rotte per il Giappone e la comunità cinese di Hirado si rinvigorì grazie ai nuovi arrivi. Anche i
disordini in Cina provocarono una crescente migrazione di fuggitivi per l’avanzata mancese. Ieyasu favoriva
il flusso dei mercanti cinesi verso l’arcipelago attraverso una politica di calda accoglienza. Come Hideyoshi
prima di lui, anche lo shogun Tokugawa ambiva al ripristino del sistema del kangō bōeki (commercio dei
sigilli), inviando più volte missive in tal senso al sovrintendente del Fujian, ma invano. La politica di benvenuto
iniziava a dare i suoi frutti. Sempre per porre sotto diretto controllo i commerci condotti dalle marinerie cinesi
in territorio nipponico, Ieyasu nel 1603-4 nomina il primo interprete ufficiale cinese (forse segno premonitore
degli avvenimenti che avrebbero portato, dopo i provvedimenti riguardo il Sakoku, alla scelta di Nagasaki
quale quasi unico porto d’ingresso dei traffici internazionali (1635). Questa scelta avrebbe colpito Hirado,
proprio nella sua funzione di postazione internazionale, e la VOC, costretta a trasferire le proprie attività nel
1641 a Deshima, isoletta artificiale nella baia di Nagasaki. A metà del XVII secolo si forma l’Ufficio degli
Interpreti Cinesi di Nagasaki (Nagasaki totsuji kaisho): tra le varie mansioni, gli interpreti cinesi avevano
l’importante compito di controllare la comunità cinese. All’arrivo di olandesi e inglesi quindi la comunità di
Hirado era già costruita e in fervente attività in quanto mediatrice dei traffici con l’oltremare dei Matsuura,
fra i più attivi del settore. Matsuura Shigenobu aveva tutto l’interesse a sviluppare i legami commerciali con
i cinesi e le due compagnie europee, che creavano nuove prospettive di arricchimento. A capo della locale
comunità cinese in quegli anni c’era il pirata-avventuriero-mercante Li Dan, conosciuto dalle fonti europee
come Andrea Dittis o Captain China. I documenti olandesi e cinesi parlano in dettaglio del quotidiano legame
stabilitosi tra Li Dan e gli europei e della significativa mediazione svolta da questi tra i Matsuura e i delegati
delle due compagnie, così come dell’intercessione di Li Dan presso le autorità governative di Nagasaki e del
suo personale legame con il bugyō di Nagasaki (Hasegawa Gonrokuro Morinao). Li Dan aveva quindi un luogo
chiave ad Hirado: i traffici mercantili in transito per l’isola passavano attraverso la sua mediazione e venivano
per gran parte condotti dai suoi uomini e le sue navi. Inoltre, spesso, in quanto ospite dei Matsuura,
partecipava agli incontri ufficiali con i delegati europei, e il legame con il bugyō di Nagasaki gli garantiva il
sostegno delle autorità locali. Il ruolo da lui svolto non era ignorabile dalle autorità del bakufu:
coerentemente con la politica di Ieyasu di incanalare gradualmente il commercio estero del Giappone
nell’ambito della sovranità del governo centrale, lo shogun assegna a Li Dan e ai suoi più volte le licenze delle
goshuinsen. Si preferiva avallare formalmente uno stato di fatto piuttosto che rischiare di interrompere un
flusso commerciale così redditizio per il Giappone, sia pure mediato da un ‘pirata’ cinese. Anche le stesse
autorità cinesi usufruiscono della mediazione di Li Dan nel trasferimento della base olandese dalle Penghu
(Pescadores, 1622-1623) a Taiwan nel 1624. A mano a mano che il potere e il prestigio di ‘Captain China’
crescevano, il suo gruppo assorbiva numerosi altri gruppi e bande di pirati-avventurieri cinesi e si affermava
saldo nei mari estremo-orientali. Nei decenni iniziali del ‘600 il mercantilismo cinese attraversa
un’importante fase di transizione, per giungere a una sorta di centralizzazione dei gruppi di pirati-
avventurieri-mercanti in un’unica organizzazione al comando di Zheng Zhilong (braccio destro di Li Dan). In
questo processo l’immissione dei capitali giapponesi (privati e governativi) fu determinante, come anche il
rapporto instaurato con gli europei. Questa organizzazione rappresenta per la VOC l’ostacolo all’espansione
in Asia orientale: i Zheng sono il reale interlocutore della VOC in Estremo Oriente, non le autorità.

LA VITA SULL’ISOLA

Il 2 ottobre 1609, l’opperhoofdt di Hirado (Jacques Specx) si ritrova a capo di una nuova sede della Compagnia
Riunita, con un vice, Hans Verstreepen, due assistenti e un giovanissimo interprete. Come scorta di mercanzie
aveva solo qualche rotolo di seta e pepe – si rende conto di essere in un paese straniero in balia delle autorità
del luogo. La profonda consapevolezza di essere ospiti tollerati più o meno di buon grado accompagna l’intero
periodo di permanenza della VOC nell’arcipelago giapponese, sia a Hirado (fino al 1641) sia a Deshima (dal
1641 in poi). Specx ha due mandati in qualità di governatore di Hirado (1609-1613 e 1614-1621), poi è
Governatore Generale della Compagnia dal 1629 al 1632, carica ottenuta proprio per l’esperienza in
Giappone. Al momento dell’apertura della filiale di Hirado Specx deve porre le basi per una nuova sede
partendo da zero, provvedere al suo sostentamento e funzionamento e inserirla al più presto nelle rotte
commerciali della VOC. Bisognava inoltre provvedere al rifornimento di merci adatte per lo scambio con i
prodotti locali, e in tal senso Specx si mosse inviando i suoi collaboratori nelle basi della VOC in Indonesia e
poi andandovi di persona (necessitando in questo caso di farsi condurre da navi giapponesi in possesso dello
shuinjo, lasciapassare shogunale). Specx prova a stabilire un rapporto commerciale con la Corea, ma viene
fermato a Tsushima dai So, i daimyō del luogo, che non volevano inimicarsi lo shogun lasciando il passo alla
VOC – Specx dovette ritornare a Hirado. Sui locali utilizzati alla Compagnia si sa poco, se non che in qualche
anno (con il benestare del daimyō Matsuura) sarebbe stata costruita una resistenza per il governatore e, si
suppone, anche per gli altri delegati. Il governatore della EIC (John Saris) aveva preso in affitto i locali per la
sede inglese da Li Dan, creando sin dall’inizio un rapporto privilegiato (anche se non vantaggioso per gli
inglesi), con Captain China. I primi anni sono i più difficili per la VOC: per ambientarsi i delegati olandesi
dovevano imparare a districarsi su più fronti nel corso dei 30 anni lì (1609-1641). L’autorità suprema sull’isola
era la potente famiglia dei Matsuura, di antico lignaggio e con una sicura esperienza in fatto di traffici
internazionali (nei testi giapponesi dell’epoca si parla di ‘clan dei pirati Matsuura’ a dimostrazione dei
trascorsi dei daimyō del luogo). Proprio per i loro trascorsi ‘non cristallini’ era però più facile stringere rapporti
d’affari con loro. Sia Matsuura che VOC erano però soggetti alla più alta autorità dello shogun e del governo
di Edo. La postazione olandese di Hirado vive in prima linea le scelte politiche sempre più restrittive del
governo, che determineranno in ultimo la chiusura ed il trasferimento coatto dei delegati della VOC
nell’isolotto artificiale di Deshima, nella baia di Nagasaki, ultimo atto del cosiddetto ‘Sakoku’. Altro
importante fattore era la significativa presenza cinese sull’isola, il cui leader, Li Dan assommava in sé
molteplici funzioni. La mediazione di Li Dan e poi di Zheng Zhilong è fondamentale per i delegati olandesi (ma
anche per l’alleata-rivale EIC). Le stesse relazioni con gli inglesi non furono di facile gestione durante il
decennio di ‘coabitazione forzata’. La Fleet of Defense (anni 1620-1622), risposta eccessiva al conflitto del
1619, fu il culmine di una situazione tesa. La vista minacciosa della flotta congiunta inoltre causò scompiglio
ad Hirado, finché le autorità giapponesi non intervennero espellendola. La partecipazione degli inglesi al
fianco degli olandesi nell’attacco contro Macao (1622) fu l’ultimo atto della EIC prima dello spontaneo ritiro
dal Giappone, con la chiusura degli uffici della Compagnia l’anno seguente. A parte la Clove, infatti, solo altre
3 navi erano giunte in Giappone direttamente dall’Inghilterra e tutte avevano mostrato notevole carenza
organizzativa (le loro merci non interessavano i nipponici). L’insediamento riesce a sopravvivere per un
decennio solo grazie ai buoni uffici di William Adams, divenuto nel frattempo dipendente della Compagnia
Inglese, che condusse traffici con il sud-est asiatico scambiando prodotti cinesi con argento giapponese. Alla
morte di Adams però, nel 1620, le possibilità di proseguire la redditizia attività venne meno. Il bugyō di
Nagasaki, oltre che responsabile amministrativo della città, era anche l’emanazione ultima del bakufu
Tokugawa, un portavoce della sua volontà suprema: altra personalità influente della quale tenere conto
durante le trattative. In ultimo veniva il contesto quotidiano con cui misurarsi: una lingua incomprensibile (il
‘rangaku’, ovvero studi olandesi, era ancora lontano), abitudini ed usanze aliene. Ogni espressione e gesto
andavano misurati. Ciò nonostante, molti degli olandesi in servizio a Hirado si stabilirono definitivamente in
Giappone – almeno fino al trasferimento a Deshima il luogo era stato ospitale per la VOC.
CAPITOLO VI

LA REGINA D’ORIENTE

L’ASCESA DELLA VOC

Come accennato, erano pochi i Direttori della VOC che avevano avuto personale esperienza in Asia, e nella
maggioranza dei casi si trattava di una conoscenza indiretta poco attendibile. Il collegio dei XVII Signori cerca
di ovviare a ciò dando vita in pochi anni ad un Alto Consiglio (Hoge Regeering) con sede nelle Indie e a capo
un Governatore Generale. La finalità dell’Alto Consiglio era di rendere la struttura della Compagnia il più
efficiente possibile per ottimizzarne le attività, quindi i risultati e i profitti. In un’epoca vicinissima al
mercantilismo, le Province Unite danno vita con la VOC ad una sorta di primordiale ‘società per azioni’,
esplicita emanazione dello Stato, esperimento economico riuscito che in pochi anni avrebbe consentito agli
olandesi di smantellare il monopolio iberico nei traffici orientali e affermare la propria egemonia tra le
presenze europee in concorrenza sui mercati asiatici. Anche in patria la Compagnia era divenuta la più
importante impresa nazionale che non solo procurava profitti agli investitori, ma dava lavoro a migliaia di
olandesi e altri europei. Il successo era dovuto alla scelta degli uomini ‘giusti’ per gli incarichi di responsabilità,
oltre che dell’autonomia decisionale che tenesse conto delle reali circostanze in cui la VOC operava, e desse
immediata risposta alle istanze che si presentavano di giorno in giorno. Se l’Alto Consiglio delle Indie
rispondeva già in parte a tale esigenza, la Compagnia necessitava anche di una sede stabile più vicina all’area
operativa, una postazione facilmente raggiungibile e in prima linea rispetto alle principali correnti di traffico
– bisognava stabilire una base nelle Indie Orientali che fungesse da quartiere generale, dove insediare il
Consiglio delle Indie e il suo presidente, il Governatore Generale. Nel processo di riorganizzazione degli organi
decisionali della Compagnia aveva avuto parte diretta l’ammiraglio Cornelis Matelieff, che dopo aver
sperimentato il fallimento dei suoi attacchi alle basi iberiche aveva ribadito spesso ai XVII Signori la necessità
di una struttura (sul modello portoghese dell’Estado de India), che rispondesse alle esigenze dell’espansione
olandese in Asia. Gli obiettivi erano quindi 3: creare un Alto Consiglio delle Indie, stabilire una sede
permanente come luogo di concentrazione delle flotte della VOC in Asia (per ricevere ordini, destinazioni,
riparazioni ecc.); stabilire dei monopoli sulla produzione e il commercio delle spezie (cuore delle attività della
VOC). L’errore principale commesso dai portoghesi era stato l’incapacità di acquisire il controllo diretto ed
immediato della produzione e del commercio delle spezie pregiate, per cui non erano stati in grado di
assicurarsi un rifornimento costante a prezzi concordati e soprattutto di garantirsi che altri non potessero
ottenere lo stesso, mimando quindi le basi stesse del loro monopolio. Nei primissimi anni di attività della VOC
quindi la priorità era di ritagliarsi uno spazio nei traffici interasiatici (stabilendo basi, possibilmente
sottraendole agli iberici, rifornirsi di mercanzie a condizioni vantaggiose, possibilmente in regime di
monopolio). Primo obiettivo è l’inserimento nel traffico delle spezie che, soprattutto nel primo trentennio di
vita della VOC ma anche per tutto il ‘600, rappresentarono una voce fondamentale nel bilancio della VOC –
primo passo concreto è compiuto con l’insediamento nelle Isole delle Spezie dal 1605 (conquista di Forte
Victoria ad Ambonia, Indonesia, e imposizione di un contratto per il monopolio della commercializzazione
delle spezie). Nello stesso anno i portoghesi sono espulsi da Tidore (Indonesia), riconquistata nel 1606 dagli
spagnoli provenienti dalle Filippine e tenuta per mezzo secolo. Nel 1607 Ternate (Indonesia) si pone sotto la
protezione olandese e stipula un contratto per la fornitura esclusiva dei chiodi di garofano. Gli abitanti delle
isole Banda (Indonesia) sono costretti nel 1605 a stipulare contratti per il monopolio delle merci, poi annullati
(non per molto) sotto l’influenza dei concorrenti della VOC, giavanesi ed inglesi. Un ammiraglio olandese
volle introdurre nel 1609 una nuova regolamentazione nell’arcipelago, ma venne ucciso con 46 dei suoi
uomini – nonostante gli olandesi avessero ristabilito immediatamente il controllo, i bandadesi rimasero
sempre soci poco affidabili. Il primo Governatore Generale fu Pieter Both (nominato 1609, in servizio 1610-
1614). La sede doveva essere situata, per ragioni strategiche, nell’area della Penisola di Malacca, punto di
passaggio obbligato attraverso cui transitava la maggior patte del commercio interasiatico: la prima scelta
ricadde su Banten (1609) e subito dopo su Jacatra (1610), situata poco oltre lo Stretto della Sonda, che grazie
alla nuova rotta individuata dagli olandesi si presentava come la via più facile per entrare nell’arcipelago
indonesiano e raggiungere direttamente le Isole delle Spezie.

JAN PIETERSZOON COEN

L’energetica politica di alcuni dei primi governatori generali si rivelò fondamentale per garantire solidità alla
VOC in Asia orientale: tra questi Coen, che fu Governatore Generale dal 1619 al 1623 e di nuovo dal 1627 al
1629. Durante il suo mandato la VOC compie un vero e proprio salto di qualità, riuscendo a stabilire una base
permanente in Indonesia. I precedenti governatori generali non erano riusciti nell’intento: Banten, dove la
Compagnia si era insediata all’inizio, si era sviluppata notevolmente come centro amministrativo, con
l’insediamento del Consiglio, ma non era riuscita ad emergere come quartiere generale delle flotte. Il
reggente di Banten (il sovrano era ancora in tenera età) non aveva intenzione di concedere a una nazione
straniera privilegi eccezionali sul proprio territorio, tanto più che il commercio marittimo era l’entrata più
cospicua per le casse del regno. Inoltre, il commercio del pepe era gestito dalle marinerie cinesi, che a Banten
avevano una consistente comunità – anche in questo caso la VOC deve cedere il passo e dipendere dalla
mediazione cinese. È proprio per la totale dipendenza dalle marinerie cinesi per il rifornimento di molte
mercanzie che lo sviluppo risulta limitato, nell’agguerrita competizione con i Zheng. Quando Coen prende
servizio quindi si rende conto di avere poco spazio di manovra a Banten (sia per ruolo dei cinesi sia per la
forzata condivisione dei commerci con la EIC). Già precedentemente Jacatra era stata individuata come
possibile alternativa, perché il principe del luogo sembrava essere più favorevole agli europei, cui era disposto
a concedere maggiore libertà. Coen, quindi, decide di rendere concreta questa possibilità muovendosi nel
1618, ma il conflitto che insorse con gli inglesi nella baia di Jacatra lo costrinse a cercare sostegno a Malacca.
Durante la sua assenza gli inglesi, le forze di Banten e Jacatra si alternarono nell’assedio agli olandesi, ma
senza coordinamento. Al rientro di Coen la battaglia fu vinta: Jacatra, o meglio la neonata Batavia, diveniva
quartiere generale della Compagnia Riunita in Asia (1619). Oltre alla fondazione di Batavia il grande merito
di Coen era quello di aver concepito una strategia di penetrazione aggressiva ma mirata ed efficace – la VOC
doveva sostituirsi alle marinerie e piraterie estremo-orientali nella gestione dei traffici internazionali
dell’Oceano Indiano e del Pacifico. Ciò significava trarre profitto dal trasporto delle sete cinesi in Giappone,
dal trasferimento dell’argento dall’arcipelago nipponico all’Indonesia, dalla compravendita delle spezie di
sud-est asiatico ed India. Una parte di queste merci avrebbe raggiunto l’Europa, ma la maggior parte dei
guadagni derivava dai commerci interasiatici., il sistema infatti congiungeva (‘aggiornando’ il modello
portoghese) Macao, Nagasaki, Amoy (ovvero Xiamen, di fronte Taiwan) e Goa. Parte della strategia di Coen
era indirizzata a destabilizzare il più possibile le comunicazioni iberiche, con continui assalti ai loro galeoni.
Tra gli obiettivi del Governatore Generale c’era anche ovviamente la Cina.

BATAVIA, “REGINA D’ORIENTE”

Nonostante Coen volesse onorare il suo luogo natio, chiamando ‘Nieuw Hoorn’ la vinta Jacatra, i XVII signori
imposero il nome di Batavia - per celebrare la guerra d’indipendenza contro la Spagna con il ricordo della
tribù dei Batavi ribellatisi ai romani. L’avamposto olandese è costruito su disegno del matematico Simon
Stevin – Coen (emulando i portoghesi) voleva fosse costruito un castello per controllare gli ingressi via mare
alla baia della città. Numerosi isolotti erano sparpagliati all’ingresso, garantendo acque sempre calme, che
rendevano il luogo un porto ideale. La sede olandese è completata con una chiesa, un viale per passeggiate,
ospedali, mura attorno agli abitati (queste negli insediamenti iberici dividevano le etnie, con la comunità
cinese in particolar modo posta esternamente alla cinta; nel caso di Batavia tutti gli abitanti risiedevano
all’interno, anche perché i cinesi residenti a Batavia avevano partecipato per oltre 2/3 alla costruzione della
cinta muraria ed altre opere pubbliche). La città era situata alla foce del fiume Ciliwong ed era protetta da
cannoni e torri di avvistamento. Il clima era gradevole anche grazie alla posizione vicina all’equatore, con
brezza mattutina e serale ad alleviare il caldo. Nasce così la ‘Regina d’Oriente’. La funzione di sede centrale
di raccordo dei commerci della VOC era resa evidente dai numerosi magazzini adibiti alla raccolta delle merci
in transito. Inoltre, poiché luogo di raduno delle flotte della Compagnia, era necessario che la città disponesse
di grandi quantità di cibo (doveva provvedere a sostentamento popolo ma anche a rifornimento navi). Grazie
alle merci in transito la base godeva di cibi e bevande provenienti sia da Europa che Asia (il carico di prodotti
della madrepatria era particolarmente agognato). La sede doveva inoltre essere perfettamente attrezzata
per affrontare le emergenze (es. riparazioni navi, cura delle ciurme – molti uomini giungevano ammalati,
feriti, in fin di vita). I lavori di raddobbo delle navi si svolgevano in città o nei cantieri sorti nelle isole al largo
della costa: si trattava di stabilimenti di grandi dimensioni, con ampi scali e moderne attrezzature (es.
segherie azionate da mulini a vento, forge …). In molti casi la VOC commissionava a questi impianti la
costruzione di navi destinate ai traffici interasiatici; il problema era procurarsi i materiali da costruzione
adatti, perché solo in parte si poteva sopperire con le risorse locali (il resto veniva dai Paesi Bassi, a costi
molto alti e con gravi rischi di deterioramento o perdita per il lungo viaggio). Inoltre, mancavano maestri
d’ascia veramente preparati e manodopera addestrata – i tecnici giunti dall’Europa cercavano di fermarsi il
meno possibile e non sempre riuscivano a trasmettere gli insegnamenti agli allievi indigeni. Il porto di Batavia
era protetto da due moli lunghi un migliaio di metri ciascuno e poteva ospitare una trentina di navi
contemporaneamente – era il maggiore insediamento europeo oltre il Capo di Buona Speranza. Le
retourschip erano caricate già in rada, per mezzo di barche a fondo piatto. Le merci da zavorra pesanti e
voluminose (come il salnitro, richiesto per la polvere da sparo) erano poste sul fondo, coperte da stuoie, con
sopra sacchi di spezie coperti da teloni di juta per evitare che prendessero umidità. Nell’ordine seguivano poi
le balle dei tessuti comuni e quelle di tessuti pregiati. Gli interstizi erano riempiti con pepe sciolto o trucioli
di verzino, utili per produrre una tintura rossa. La seta grezza e le altre merci di valore erano poste sotto il
cassero, le provviste nell’interponte. All’inizio del XVII secolo la partenza avveniva a stive piene, ma lo stato
di guerra con le altre potenze imponeva alle navi di raggrupparsi in convoglio appena giungevano in acque
pericolose – questo sistema sarebbe stato istituzionalizzato (con qualche detrimento per il guadagno finale,
ma con deciso miglioramento per la sicurezza). La ‘flotta di Natale’ spalava a fine dicembre, seguita a metà
gennaio da diverse unità di retroguardia, che aspettavano i carichi fino all’ultimo e cercavano di raggiungerla
in navigazione o in qualche punto di rendez-vous prestabilito. Tra febbraio e ottobre partivano altre 3-4 flotte
più piccole – l’appuntamento per tutte era al Capo. Il Governatore Generale doveva supervisionare tutte
queste attività, come anche la verifica del carico-scarico merci e relativi registri, la supervisione dell’operato
dei governatori delle varie sedi in Asia, la scelta di strategie e politiche da adottare – a questo compito
partecipavano anche i 5 membri del Consiglio delle Indie e un Direttore Generale, sorta di vicegovernatore
che svolgeva soprattutto compiti governativi. Con il passare del tempo è aggiunto uno staff per coadiuvarlo
in tutte le funzioni, composto dall’ispettore generale responsabile delle succursali, l’avvocato fiscale
(sostituto procuratore della repubblica) e un incaricato per gli affari militari e le flotte. I quattro governatori
di Amboina, Molucche, Banda e Ceylon (primi 3 Indonesia, 4° Sri Lanka) se assenti erano rappresentati da
consiglieri straordinari. Batavia e i suoi dintorni erano invece sotto il diretto controllo del Governatore
Generale. C’erano poi 8 governatori che agivano a fianco dei 4 titolari di Makassar, della parte nord-orientale
di Giava e del Sudafrica. Il sistema era molto complesso e richiedeva oltre a grande capacità organizzativa un
controllo ferreo sulle aree di interesse strategico.
IL SISTEMA COMMERCIALE

Studiosi come Leonard Blussé e Robert Parthesius hanno analizzato il funzionamento del sistema olandese
cercando di individuarne le ragioni dell’efficienza (sia in ambito commerciale che militare). La risposta è nella
tipologia delle imbarcazioni utilizzate, ognuna diversa per dimensioni e classe a seconda di destinazione e
finalità. Negli anni 1595-1660 il numero di viaggi delle flotte della VOC fu piuttosto variabile (circa 1368
intorno al Capo di Buona Speranza e 11.507 nei mari orientali). I viaggi erano condizionati dal ritmo stagionale
dei monsoni. Le navi lasciavano Batavia tra maggio e luglio se dirette in Giappone (dove esportavano tessili
indiani e olandesi, pelli e spezie, e si rifornivano di prodotti importati dalla Cina, monete d’oro e argento,
rame, lacche, sete, porcellane, tè); le navi dirette in Persia o nel Bengala salpavano in autunno, arrivandovi a
febbraio-marzo, e tornando dopo aver completato il carico con altri prodotti cinesi e stagno acquistato a
Malacca; le navi destinate alla costa orientale dell’India partivano tra aprile e agosto, passando per Ceylon e
arrivando a Pulicat (dove si rifornivano di lastroni in pietra, salnitro, tessili e diamanti), tornando a Batavia in
settembre. Per Ceylon, Surat e la Persia le navi lasciavano gli ormeggi in settembre con un carico di spezie e
ordinativi vari, proseguendo ad ottobre per il Malabar e Wingurla (oggi Vengurla, India sud-occidentale), dove
si rifornivano di pepe, noci di cocco e altro per rifornire Surat e Persia. Alcune navi erano invece mandate
direttamente lì da Ceylon. Tra febbraio e marzo le navi erano preparate per il rientro a Batavia con sete
persiane, frutti, broccati, tessili, gioielli e cavalli. A maggio Ceylon inviava direttamente a Batavia due navi
speciali cariche di cannella (prodotto principale dell’isola). Tra luglio e agosto partivano le navi per il Bengala
con a bordo l’argento giapponese (che serviva a procurarsi sete per il Giappone e tessuti di cotone e oppio
per Giava). Ancora le destinazioni di Sumatra, Malacca, Siam (ovvero odierna Thailandia) ecc., che fornivano
prodotti per incrementare i profitti della Compagnia e a mantenere il controllo sulle principali linee di
comunicazione. Particolare il ruolo delle Molucche, le ‘Isole delle Spezie’ – a queste venivano destinate le
flotte che salpavano tra dicembre e febbraio, con un carico di riso, pancetta, aceto, vino e olio, che doveva
rifornire gli olandesi delle varie sedi della VOC. Dalle Molucche arrivavano noce moscata, chiodi di garofano
e macis, i carichi più preziosi delle flotte delle Indie, sia in relazione ai traffici con l’Europa sia a quelli con Cina
e Giappone. Nel periodo maggio-agosto quindi la vita a Batavia era movimentata per lo sviluppo dei
commerci interasiatici, mentre tra settembre-novembre molte flotte erano di ritorno e necessitavano della
dovuta manutenzione per essere pronte per la stagione successiva; bisognava poi rimpiazzare i deceduti o
ammalati e gli uomini che avevano disertato, spesso ingaggiando avventurieri e delinquenti, magari indigeni,
che faticavano a sopravvivere nei climi rigidi delle alte latitudini (meridionali e settentrionali). Quasi tutte le
navi (eccetto alcuni viaggi diretti per Ceylon) del commercio interasiatico ed europeo dovevano fare scalo
obbligatoriamente a Batavia, che svolgeva una funzione di snodo. Un tale sistema era economicamente
vantaggioso per la Compagnia: utilizzando uomini, merci e capitali già presenti in contesto asiatico la VOC si
inseriva nelle reti mercantili internazionali preesistenti prima affiancandosi e poi sostituendosi alle marine
orientali nella conduzione di tali commerci.

LA MEDIAZIONE CINESI

Al momento della vittoria olandese, il 30 maggio 1619, la situazione era critica: tutti gli abitanti di Jacatra
avevano seguito il principe regnante, rifugiandosi a Banten (Giava occidentale). Ciò significava da un lato non
rischiare atti di ribellione o boicottaggio, ma dall’altro lasciava la VOC senza manodopera per la costruzione
della base. Inusuale conquistare una città vuota – gli unici che avevano deciso di rimanere erano i cinesi ivi
residenti con le loro attività commerciali, perché a loro il cambio della gestione politica non dava problemi,
anzi in prospettiva migliorava le cose. In aggiunta il Governatore Generale Coen dovette sopportare per
l’anno successivo (1620), l’armistizio sottoscritto dall’Olanda con l’Inghilterra e la costruzione della ‘Fleet of
Defense’: per il Governatore, che aveva appena sconfitto gli inglesi, era difficile da accettare. Anche a Batavia,
come era successo a Hirado, la mediazione cinese e il suo coinvolgimento nella costruzione della città furono
fondamentali. Il cinese Jan Con (nome con cui è indicato nelle fonti olandesi), divenne braccio destro dei
delegati della VOC, una delle personalità più importanti della comunità locale cinese. Questi nel corso del
ventennio si avvicinò a personalità come quella di Coen e poi Anton van Diemen. La stessa gestione dei gran
parte dei lavori pubblici per edificare la città di Batavia fu assegnata a Jan Con, che godeva della massima
stima e fiducia. Gli appalti per costruzione di canali, bonifica e coltivazione di terre, l’assunzione di mano
d’opera tra gli stessi cinesi, l’esazione delle tasse sulle attività dei propri connazionali, furono compiti che Jan
Con svolse su mandato per conto degli olandesi. Le autorità di Batavia gli delegarono più volte la conduzione
dei commerci della VOC, garantendogli notevole credito. Nel periodo iniziale della Het Kasteel Zeelandia
(Tainan, sud di Taiwan), il governatore di Formosa (Gerrit Frederickszoon de Witt) attendeva con impazienza
l’arrivo di Jan Con per affidargli il compito di stabilire l’apertura dei traffici con la Cina (in particolare con il
Fujian). Qualche anno più tardi lo stesso Jan Con avrebbe ammonito l’Alto Consiglio delle Indie e il suo
Governatore Generale a smettere con la tattica di aggressione lungo le coste cinesi e a non inimicarsi il
potente Zheng Zhilong, ammiraglio della flotta Ming, che proprio negli anni ’30 realizzava la sua ascesa al
potere. Come era già avvenuto con gli inglesi ad Hirado però, presto gli europei si sarebbero ritrovati a dover
fare i conti con un elevato credito impossibile da riscuotere. Anton van Diemen imparò che la presenza cinese
non era solo rivolta ad un’intermediazione dei traffici con la dovuta commissione, ma tendeva ad appropriarsi
della gestione in sé delle transazioni commerciali – difatti dietro la mediazione di individui come Jan Con
c’erano esigenze non sempre coincidenti con quelle europee. Pur avendo imposto il monopolio su tutti i
commerci in entrata e in uscita dal proprio quartiere generale, la Compagnia Riunita doveva riconoscere
l’impossibilità, per quasi tutto il Seicento, di stabilire un accesso commerciale diretto alle coste continentali
della Cina (insuccesso derivato da diversi fattori, che vedremo). Vediamo il commercio delle giunche cinesi:
questo a Batavia era di gran lunga antecedente all’arrivo della VOC, e il flusso di commerci gestito dalle
marinerie cinesi su Batavia riforniva la Compagnia proprio di quei prodotti cinesi che altrimenti non avrebbe
potuto ottenere, come le sete di Zhengzhou, lo zucchero, le porcellane, la carta, vari oggetti in legno, frutta
fresca ed essiccata; in cambio esportavano monete d’argento, prodotti tropicali e spezie (es. pepe indiano),
avorio, corno, varie droghe. Le navi cinesi lasciavano Batavia per recarsi a Nagasaki, dove si univano ai navigli
cinesi e facevano la spola con il meridione della Cina, chiudendo un circuito che collegava l’intero Estremo
Oriente. Ciò significò, a metà del ‘600, una dipendenza della VOC dai traffici gestiti dalle marinerie cinesi per
l’approvvigionamento dei prodotti del continente. Anche se vittoriosa nell’insediarsi in Indonesia e nel
costituire un proficuo sistema di commerci interasiatico, la VOC necessitava un accesso diretto alla
terraferma cinese.

IL “QUARTIERE GIAPPONESE”

Batavia ospitò sin dagli inizi anche una piccola presenza giapponese (secondo lo storico Murakami Naojiro si
trattava di 108 persone nel 1632, su un totale di 8058 residenti). Già dalla fondazione della base VOC a Hirado,
nel 1609, i delegati della Compagnia Riunita avevano apprezzato l’abilità dei giapponesi nel combattimento:
nel 1611 alcuni di loro forse erano imbarcati sulle navi della VOC in partenza dal Kyushu per Java, e
certamente lo erano nel 1613, quando il capo della sede VOC di Hirado (Hendrick Brouwer) invia 68
giapponesi a Jacatra, informando il Governatore Generale Pieter Both in una lettera del 29 gennaio 1613 che
per problemi di capienza delle navi non aveva potuto inviare i 300 uomini richiesti. Nel 1615 a Hirado veniva
stipulato un contratto triennale con 59 giapponesi, assoldati al servizio della VOC prevalentemente in qualità
di marinai e combattenti (e qualche carpentiere). I soldati giapponesi furono un elemento vincente nel
conflitto del 1619, all’atto di conquista di Jacatra. I mercenari giapponesi erano molto quotati nell’intero
contesto dell’Asia Orientale, e non era raro fossero assoldati dagli europei e dalle autorità asiatiche locali in
caso di conflitti interni – la VOC non faceva eccezione, e infatti negli anni 1619-1620 chiese più volte alla sede
di Hirado di inviare un gran numero di mercenari giapponesi, ottenendo effettivamente significativi
trasferimenti (preziosi nei primi anni soprattutto perché la VOC doveva difendersi dagli attacchi di Banten).
Le autorità Tokugawa però non gradivano l’espatrio di giapponesi, al soldo della VOC, soprattutto a Batavia.
Già nel 1621 il bakufu Tokugawa proibisce alla VOC di imbarcare sulle proprie navi i sudditi giapponesi per
condurli all’estero, ordinando ai daimyō Matsuura di controllare attentamente che il veto fosse rispettato.
Nell’ottobre dello stesso anno avviene l’esecuzione di 3 giapponesi che avevano cercato di imbarcarsi
clandestinamente. Almeno per il momento, comunque, le navi dell’arcipelago potevano ancora recarsi
oltremare sebbene fosse già in atto il sistema degli shuinsen: in seguito al clima di apertura internazionale
del fondatore Ieyasu, il secondo shogun, Tokugawa Hidetada, si appropria del diretto controllo sulle attività
marittimo-commerciali dell’arcipelago. Pertanto, dalle altre destinazioni raggiunte dai mercantili giapponesi
(dove sorgevano i ‘quartieri giapponesi’, i nihonmachi), la Compagnia Riunita poteva comunque continuare
ad assoldare mercenari giapponesi. Una volta fondata la base di Batavia le autorità della VOC promossero in
più occasioni l’insediarsi di una piccola comunità di giapponesi d’oltremare (con prevalenza di combattenti
ma anche civili con svariate mansioni – quindi anche di donne – per dar vita ad un insediamento stabile). La
funzione dei giapponesi si sarebbe diversificata nel tempo, staccandosi dall’apporto quasi esclusivamente
bellico, e assumendo un ruolo economico importante nel corso del XVII secolo: spesso i mercanti giapponesi
finanziavano le attività commerciali dei cinesi di Batavia, poiché prestavano loro i capitali necessari per
allestimento e realizzazione dei traffici marittimo-commerciali ad un tasso d’interesse moderato. A Batavia
si riproponeva lo stesso rapporto che per secoli aveva caratterizzato le relazioni commerciali sino-giapponesi:
un investimento di capitale nell’arcipelago (esplicito o no) a sostegno di traffici mercantili cinesi (leciti o
illeciti).

CAPITOLO VII

L’INCONTRO CON LA CINA DEI MING

UN DIALOGO DIFFICILE
Alle origini del complicato rapporto tra VOC e l’impero cinese per quasi tutto il Seicento (in particolare fino
agli anni ’60) ci sono motivazioni di varia natura. Come già accennato il passaggio dalla dinastia Ming alla
Qing è un processo lungo e sanguinoso, che pone gli europei di fronte al dilemma di quale autorità cinese
fosse da considerare suprema e legittima e con la quale dunque rapportarsi. Gli stessi missionari cattolici, i
gesuiti prima di tutto, diedero risposte contraddittorie: rimanendo alcuni fedeli alla dinastia Ming, con la
quale avevano instaurato solidi rapporti (buon numero di convertiti tra i mandarini); altri, con maggiore senso
politico, passarono dalla parte dei Mancesi, continuando ad alimentare il dialogo tra Europa e Cina,
soprattutto culturale e scientifico piuttosto che religioso, presso la nuova corte dei Qing. È questo il caso dei
gesuiti Michael Boym e Martino Martini, schieratosi il primo con i Ming e il secondo inizialmente con i Ming
e poi con i Mancesi – creando così una situazione di imbarazzo presso la stessa Santa Sede. Entrambe le
fazioni cattoliche non vedevano di buon occhio l’ingresso degli eretici olandesi nello scacchiere estremo-
orientale, perché la loro ostilità si sarebbe rivelata nociva per la presenza del cattolicesimo. Come i religiosi
portoghesi in Giappone avevano tentato di screditare olandesi e inglesi di fronte alle autorità locali, sembra
che i missionari cattolici abbiano fatto lo stesso presso le autorità imperiali sia Ming che Qing. Oltre ai rivali
cattolici la VOC si trova di fronte ad una concezione profondamente diversa da quella occidentale dei
commerci ufficiali internazionali: il tradizionale e plurisecolare ‘sistema del tributi’ della Cina imperiale.
L’ordine del mondo è visto dai cinesi in maniera molto sinocentrica (non a caso il paese è tutt’ora chiamato
Zhongguo, “Paese del Centro”, e nella Cina antica era chiamato Tianxia, “ciò che è sotto il cielo”): la Cina
concedeva agli altri paesi che le orbitavano intorno di rapportarsi con lei seguendo regole precise, che
contemplavano il permesso di inviare missioni tributarie in segno di deferenza e sottomissione. Questo
sistema aveva regolato per secoli le relazioni internazionali dei paesi dell’Asia orientale, che avevano dovuto
accettare l’implicita sovranità dell’impero cinese. Faceva eccezione il Giappone, che si era più volte dissociato
da questo sistema sino-centrico, pena l’interruzione delle relazioni ufficiali e dei relativi commerci. In
occasione dell’arrivo alla capitale dell’ambasceria tributaria, dopo un certo tempo di attesa l’imperatore
cinese accoglieva in udienza gli ambasciatori e ricambiava i tributi ricevuti. Questo scambio di doni di
notevolissima consistenza costituiva il fulcro dei commerci internazionali consentiti: in alcuni periodi l’impero
cinese aveva interdetto l’arrivo di ambascerie tributarie per l’eccessivo onere che queste comportavano per
l’erario. I traffici privati e ufficiosi, talvolta illeciti, che la Cina intratteneva con tutti i paesi (spesso tollerati e
solo a volte contrastati) erano ben altra cosa. Tale concezione dei commerci internazionali e soprattutto
l’implicita imposizione di rapporti non paritari, costituiva un enorme scoglio per gli intenti della VOC. Innanzi
tutto, il sistema del tributo era offensivo in sé e poneva la VOC, rappresentante ufficiale degli Stati Generali,
in esplicita subordinazione (estesa all’intera Olanda). Inoltre, accettare di entrare a far parte del sistema sino-
centrico e stabilire relazioni tributarie con il “Celeste Impero” con cadenza semi-decennale di rapporti, non
era un grande affare, e non rispondeva alle esigenze degli olandesi (che avevano bisogno di continui introiti
commerciali). Anche il protocollo, piuttosto umiliante per gli europei (il kotow, con inchini e prostrazioni al
cospetto dell’imperatore), avrebbe dato vita a molteplici incidenti diplomatici. Altro problema quello della
lingua: i delegati olandesi erano lontani dalle capacità linguistiche di personalità gesuite come Matteo Ricci,
Giulio Aleni e Martino Martini – per questo dovevano accompagnarsi a interpreti cinesi di lingua portoghese,
le cui competenze linguistiche erano di scarsissimo livello, e quindi inadeguate a situazioni ufficiali così
delicate. A tutto ciò si aggiungono le aspettative olandesi che, come gli altri europei, pensavano di riuscire
(anche con la forza) a imporre le proprie condizioni (per presunta superiorità militare) come era successo in
altre parti dell’Asia. Non potendo allacciare relazioni ufficiali con le autorità imperiali quindi alla VOC non
restava altro che cercare di stabilire legami e collaborazioni con i pirati-avventurieri-mercanti-cinesi. Il
network delle marinerie cinesi, con le loro comunità situate nei crocevia-chiave, congiungeva tutti gli scali
internazionali delle rotte orientali: erano per la VOC gli unici interlocutori possibili per accedere alle agognate
mercanzie del continente cinese.
I PIRATI, INTERLOCUTORI INCONSUETI

All’inizio del XVII secolo, Li Dan si muoveva con disinvoltura tra le basi di Fujian, Taiwan e Hirado,
nascondendosi qui, al riparo dalle autorità giapponesi, nel momento di pericolo. ‘Captain China’ era stato
chiamato così dagli europei, con cui era costantemente in contatto: è proprio grazie ai documenti europei
che vi fanno ampio riferimento che è stato possibile ricostruire gli elementi che evidenziano il ruolo giocato
da Li Dan: dei suoi primi anni di attività non si sa molto (ignota data di nascita, probabilmente nativo di
Quanzhou, in Fujian), forse era capo della comunità cinese di Manila tra fine XVI e l’inizio XVII secolo (poco
probabile), o semplicemente uno dei numerosi mercanti-pirati dei mari estremo orientali in affari con gli
spagnoli. In seguito a controversie economiche con questi Li Dan è costretto ad abbandonare Manila e
trasferirsi ad Hirado. Sono gli anni della sua affermazione, ed egli ha ai suoi ordini una banda di avventurieri
(chiamati dalle fonti giapponesi ‘mitsubōeki shūdan’). I servigi offerti da Li Dan avevano grandemente favorito
gli olandesi in questa prima fase, ma non la EIC di stanza a Hirado: sebbene i rapporti commerciali con questi
fossero uguali a quelli con gli olandesi, forse gli inglesi avevano concesso troppa fiducia a Li Dan nel ruolo di
mediatore – quando la Compagnia Inglese si ritira nel 1623 chiudendo gli uffici di Hirado, il governatore
inglese Richard Cooks (1566-1624) aveva un alto credito da riscuotere da Li Dan, che non sarebbe mai riuscito
ad ottenere. Bisogna considerare che la competizione in Estremo Oriente si faceva ogni giorno più serrata, e
per Li Dan i rapporti sia con inglesi e olandesi significavano lucrosi profitti. Della stessa competizione
soffrivano in quegli anni le marinerie giapponesi, costrette a ripiegare su sé stesse dinnanzi all’agguerrito
espansionismo europeo e al confronto (perdente) con le marinerie cinesi – scelta causata anche dalla politica
marittima del bakufu Tokugawa, che tentando di centralizzare le potenzialità marittime del Giappone finisce
per favorire e ratificare la supremazia del mercantilismo cinese, che si sostituisce definitivamente alle
marinerie dell’arcipelago e acquisisce anche una pericolosa influenza sul mercato estero e interno del
Giappone (e quindi della sua intera economia). Nel decennio 1614-1624 quasi tutte le licenze shogunali
(shuinjo) che il bakufu Tokugawa assegnava di volta in volta ai cinesi vennero conferite a Li Dan (1617-18 e
dal 1622 al 1624), Li Huayu (dal 1614 al 1618) e Niquan (1617-18 e 1620), fratelli di Li Dan. Li Dan controllava
quasi completamente le spedizioni commerciali che i cinesi conducevano sotto l’egida dello shogunato
Tokugawa. Tra le assegnazioni non è menzionato Zheng Zhilong. Questi era in contatto sin da giovane con il
mondo mercantile estremo-orientale: lasciata presto la casa paterna si era recato a Macao dallo zio materno
(Huang Cheng) per alcuni anni, affiancandolo nelle attività. A Macao aveva modo di realizzare scambi
commerciali con i portoghesi ed impararne la lingua, iniziando la propria carriera di mediatore ed interprete.
Forse sperando di poter realizzare più facilmente scambi con gli iberici, Zheng Zhilong si era convertito al
cattolicesimo, ricevendo come nome di battesimo ‘Nicholas Gaspard’. Successivamente si sarebbe recato a
Manila per prendere contatto con la realtà spagnola. Inserendosi gradualmente nei traffici mercantili Zhilong
avrebbe cominciato la sua carriera di avventuriero dei mari e mediatore dei commerci con gli europei,
entrando a far parte delle schiere di Li Dan. Non si sa dove si incontrarono i due e quando iniziarono a
collaborare: dopo il soggiorno a Macao, alcune fonti giapponesi registrano l’arrivo di Zheng Zhilong sulle coste
dell’arcipelago nel 1612. Intorno agli anni ’20 Zhilong era già membro della banda di Li Dan, che si affermava
sempre più potente. Erano gli anni d’oro di ‘Captain China’, come testimoniato da una lettera del governatore
Cocks datata 10 marzo 1620:

«This Andrea Dittis (Li Dan) is now chosen captain chief commander of all the Chinese in Japon, both at Nagasaque
(Nagasaki), Firando (Hirado), and elsewheare. »

Nel 1625 Zheng Zhilong sostituisce Li Dan al comando della potente organizzazione pirata, e in pochi anni,
sotto la guida di I-quan (Yiguan/Ikkan, nome che più spesso lo individua nei documenti olandesi) essa diviene
sempre più potente, abile e raffinata, divenendo struttura portante di un mercantilismo cinese centralizzato
dal peso determinante nel contesto marittimo internazionale. Prendeva forma un pericoloso rivale della VOC.

STRATEGIE DI CONQUISTA DELLA COMPAGNIA

Giunta in Asia in ritardo rispetto agli iberici, l’Olanda aveva dato inizio da subito ad un’agguerrita strategia di
disturbo dei commerci iberici, cercando al contempo di creare le basi per la propria attestazione.
L’insediamento in Giappone era periferico nel contesto marittimo dell’Asia orientale ed era inoltre da
condividere con spagnoli e portoghesi (insediati a Nagasaki), il cui flusso di commerci era di gran lunga
superiore (grazie alle basi di Macao e Manila). Bisognava quindi creare nuovi avamposti che consentissero
all’Olanda di inserirsi saldamente nei mari e territori estremo-orientali. Meta più ambita la Cina (che invano
cercarono di costringere ad aprire i porti con ripetuti attacchi costieri e spingendosi con azioni di disturbo
anche nelle acque di Macao). Una prima apparizione a largo della postazione portoghese avvenne nel 1601,
ancor prima della nascita della VOC, con la flotta olandese comandata da Jacob van Neck. La presenza delle
navi nemiche provocò la decisa reazione portoghese e la cattura e messa a morte di una dozzina di olandesi
(tre risparmiati, tra cui due ragazzi). I pattugliamenti attorno a Macao e le aggressioni contro le navi
portoghesi si sarebbero susseguiti incessantemente negli anni a venire e non solo – molti erano gli attacchi
nei confronti di navi portoghesi, ma anche spagnole e cinesi che facevano la spola tra Macao, Nagasaki,
Manila e Goa (causando interruzioni di collegamenti e gravi perdite economiche). Lo stato di tensione era
continuo. Nel 1606, in accordo con il raja di Johor (Malesia), l’ammiraglio Cornelis Maatelieff de Jonge pose
l’assedio a Malacca, chiave del commercio interasiatico, venendo però sconfitto dai portoghesi, aiutati da un
contingente di avventurieri giapponesi. L’anno successivo lo stesso Maatelieff avrebbe riconquistato parte di
Ternate (Indonesia) dalla Spagna, raggiungendo un novo equilibrio nelle Isole delle Spezie. La VOC voleva
eliminare dal contesto estremo-orientale la presenza iberica per controllare i mercati internazionali dell’Asia
orientale, e la conquista di Macao era tappa fondamentale del processo. A seguire si sarebbe indebolita
anche la postazione spagnola di Manila (perché legata al possedimento portoghese per lo scambio
dell’argento americano con la seta e la porcellana cinese, sempre con l’intermediazione delle marinerie cinesi
– si calcola infatti che circa la metà dell’argento ricavato in Messico e Perù nel periodo di dominazione
spagnola sia servito per pagare le importazioni da Cina e Giappone).

PRIORITÀ ASSOLUTE: LA PRESA DI MACAO

Una volta consolidata la propria posizione nell’arcipelago giapponese con l’apertura degli uffici della VOC ad
Hirado nel 1609, l’Olanda inizia a pianificare concretamente l’assalto all’avamposto portoghese di Macao.
Nel gennaio 1614 Jan Pieterszoon Coen, in un rapporto inviato alla direzione centrale della Compagnia ad
Amsterdam, esprimeva la sua piena convinzione della necessità di un attacco alla base portoghese (e a quella
spagnola di Manila), magari con l’impiego di truppe mercenarie giapponesi. Successivamente inoltre sarebbe
stata proposta la partecipazione inglese (come dimostra una lettera di Richard Cocks del settembre 1621
indirizzata ai suoi superiori di Londra, in cui egli sostiene che un attacco a Macao non sarebbe stato difficile,
per l’assenza di mura fortificate e per il fatto che al “Re della Cina” non sarebbe dispiaciuto). I preparativi per
colpire Macao avrebbero quindi avuto lunga gestazione, e l’appoggio inglese sarebbe stato ritenuto
necessario. Li Dan era pienamente coinvolto nel piano di aggressione ai portoghesi e in qualità di ‘amico
fidato’ degli inglesi si poneva quale intermediario per l’accesso al continente. La Compagnia Riunita assegna
però alla EIC (nonostante gli accordi sanciti con la creazione della comune Fleet of Defense) un ruolo di
secondo piano – agli inglesi non è consentito di partecipare direttamente all’attacco a Macao, devono fare
da retroguardia, pattugliando i mari intorno a Manila e impedendo un eventuale intervento spagnolo a
sostegno dei portoghesi. Certo il ruolo era utile, ma era stato ‘studiato’ dagli olandesi: si voleva evitare la
diretta partecipazione inglese per non dover condividere il bottino in caso di vittoria. L’alleanza anglo-
olandese è quindi inficiata sul nascere, ragione in più per gli inglesi per abbandonare Hirado l’anno seguente
(1623) e ritirarsi, per il momento, dall’Estremo Oriente (motivo principale d’abbandono era però economico
– la sede giapponese era sull’orlo della bancarotta). La dinamica della campagna militare fu la seguente:
Cornelis Reijersen (al comando delle operazioni) aveva l’ordine di assicurare a tutti i costi alla VOC una base
sui litorali cinesi. A fianco degli olandesi operava anche uno squadrone giapponese, mentre al comando della
flotta anglo-olandese c’era l’ammiraglio William Janszoon. Il 10 aprile 1622 Reijersen lascia Batavia, e
Janszoon con la flotta è inviato a Manila. Le navi guidate da Reijersen giungono a vista di Macao il 21 giugno
e sono poi raggiunte da 4 navi del gruppo di Janszoon (per un totale di 13 navi e circa 1300 uomini). I
portoghesi organizzano la difesa cercando di mettere insieme tutte le forze possibili, poiché per ordine dei
Ming a Macao non si era potuta erigere alcuna fortificazione – anche gesuiti, frati e schiavi vengono armati.
Nonostante la precaria situazione difensiva, Macao ne esce vittoriosa: i Capitani Lopo Sarmiento de Carvalho
e Joao Soares Vivas si distinguono per la loro eroica azione in battaglia e la Compagnia Riunita ne esce
sconfitta e con gravi perdite. Interessante aneddoto riguarda il gesuita tedesco Johann Adam Schall von Bell,
allora semplice missionario a Macao, ma poi divenuto noto astronomo alla corte di Beijing: sembra sia lui ad
aver sparato il colpo fatale che fece saltare in aria le riserve di polvere da sparo degli olandesi, colpo che
decise le sorti della battaglia – una versione ritenuta più veritiera della storia afferma invece che egli abbia
catturato il capitano di una delle navi olandesi. Certo è che i gesuiti ebbero un ruolo determinante nella
fabbricazione e manovra dei cannoni per la difesa della piazzaforte, dimostrando abilità in campo
metallurgico e balistico (come confermato poi da padre Martino Martini che, aiutando inizialmente i Ming
nella difesa contro i Qing, ebbe il soprannome di ‘mandarino polvere di cannone’, e ancora padre Ferdinand
Berbeist che, come responsabile della fonderia di Beijing, fece colare centinaia di cannoni per l’imperatore
Kangxi, (r.1662-1722). Nel 1622 quindi la VOC è costretta a ripiegare sulle Pescadores (o Isole Penghu, poste
tra Cina Continentale e Taiwan).

COSTRETTI A RIPIEGARE

L’occupazione delle Pescadores da parte olandese (1622-1624) costringe il governo Ming a intervenire per
difendere la propria sovranità, prima in via diplomatica (infruttuosa) e poi con spedizione militare – di fronte
a questa minaccia la VOC decide di negoziare, con la mediazione di Li Dan e Zheng Zhilong, per il trasferimento
della sede a Taiwan, per evitare confronto diretto con la Cina (su Taiwan, infatti, l’impero cinese non
esercitava alcuna sovranità). Interessante come fosse permesso a dei pirati di condurre trattative
internazionali di natura così delicata – forse perché dal punto di vista cinese si delegava a dei banditi del mare
di trattare con dei barbari, anch’essi “banditi del mare” nel contesto specifico – ciò rientrava infatti nella
lunga tradizione cinese di combattere e vincere i pirati utilizzando altri pirati. Le autorità Ming vanno però
oltre: impongono a Li Dan, con il ricatto, di intervenire affinché gli olandesi liberassero le Pescadores e si
trasferissero a Taiwan. Era infatti fondamentale, per gestire il notevole flusso di commerci dalle sue basi a
Taiwan e in Giappone, che Li Dan avesse connessioni salde con il continente cinese, sia per quanto riguardava
gli interlocutori dei traffici sia in relazione alle eventuali connivenze con ufficiali e burocrati delle sedi
governative. I traffici marittimi, per quanto al limite della legalità o illegali, recavano notevole benessere
economico alle regioni costiere, e quindi possibili guadagli per gli stessi funzionari – questo significava
maggiore stabilità sociale e miglior controllo e gestione amministrativa di queste regioni da parte delle
autorità. Ciò era valido ancor più per il Fujian, secolare patria di pirati, avventurieri, mercanti e navigatori,
che traeva sostentamento quasi esclusivamente dai commerci marittimi e dalle attività legate. I funzionari
locali erano ben consci delle attività svolte da Li Dan e dal suo gruppo, nonché delle sue relazioni con la VOC,
così come erano noti i nomi degli intermediari commerciali che risiedevano nel continente: Xu Xinsi
(principale interlocutore di questi traffici ad Amoy, ovvero Xiamen, in Fujian) fu preso in ostaggio dalle
autorità – in cambio della sua libertà Li Dan doveva operare il trasferimento della postazione olandese dalle
Pescadores a Taiwan. Li Dan lo fa – abbandonando temporaneamente la base giapponese di Hirado si
stabilisce a Formosa (Taiwan) negli anni 1623-24 per condurre le trattative necessarie, imponendo inoltre
alla VOC di assumere Zheng Zhilong in qualità di interprete di portoghese, così da avere un fidato informatore
dei piani e delle mosse olandesi. Nel 1624 inizia quindi la costruzione di Forte Zeelandia, nella baia
dell’odierna Tainan. Con l’arrivo della VOC nell’isola questa era catapultata nel tumultuoso contesto
internazionale dei mari estremo-orientali, e per la sua posizione strategica e l’abbandono (per indifferenza)
delle autorità cinesi, Taiwan si trova ad essere tra le più contese basi del mercantilismo internazionali,
rivelandosi elemento chiave nell’ultima fase di transizione dinastica Ming-Qing, evento al quale sono legate
anche le sorti della VOC.

CAPITOLO VIII

L’INSEDIAMENTO A TAIWAN

L’”ILHA FORMOSA”

I portoghesi sono i primi europei a rimanere colpiti dalla bellezza di Taiwan, ribattezzandola Formosa, ovvero
‘La Bella’. Sembra che l’appellativo si sia tramandato grazie ad un ufficiale olandese su nave portoghese che
ne aveva annotato nome e posizione – forse era Jan Huygen van Linschoten, partito alla metà degli anni ’80
da Lisbona e rientrato in Europa nel 1592. L’episodio si verificò probabilmente durante uno dei viaggi di
raccordo con Macao effettuati dai portoghesi – questi non pensarono però alla posizione ideale dell’isola
nell’ambito delle rotte estremo-orientali. A quel tempo Taiwan affiancava alle svariate comunità di nativi in
assetto tribale le presenze cinesi, che svolgevano indipendentemente le loro attività di traffici marittimi
illeciti, costretti all’espatrio dalle politiche restrittive Ming. Uno dei motivi del disinteresse delle autorità
cinesi nei confronti di Taiwan - su cui non rivendicava sovranità, era il fatto che l’isola era abitata da gruppi
etnici non Han – sull’origine di questi gruppi ci sono opinioni discordanti, ma due sono le ipotesi principali:
alcuni studiosi ritengono che gli aborigeni fossero malaio-polinesiani dell’Indonesia; altri, sulla base di reperti
archeologici, che fossero connessi, in modo remoto, al continente cinese. A comprendere e sfruttare la
posizione di Taiwan per i traffici marittimi erano stati i mercati-pirati-avventurieri cinesi, soprattutto del
Fujian, che l’avevano resa una base-rifugio in cui svolgere le proprie attività di contrabbando, pirateria e
commercio, senza rischi. Affacciandosi alla costa del Fujian, l’isola fungeva da scalo ideale lungo le rotte
commerciali dell’Asia orientale che collegavano Cina, Giappone, Liuqiu, Filippine, Indonesia. Non si sa con
esattezza a quando risalgano i primi arrivi sull’isola, ma durante la dinastia Ming la presenza di comunità
cinesi si rafforza, in particolare nel XVI secolo, in concomitanza allo sviluppo dei commerci con l’oltremare.

LA PRESENZA CINESE NELL’ISOLA

Alla metà del XVI secolo, con la fine delle relazioni ufficiali con il Giappone nel 1549, le coste cinesi subivano
continui assalti e saccheggi da pirati e il contrabbando prosperava: erano gli anni di Wang Zhi (Ochoku, in
giapponese), il ‘Re di Huizhou’ (Guangdong). Il governatore del Fujian (Zhu Wan) in un rapporto del 1548
riconosceva nel Fujian la provincia più coinvolta e colpita dal fenomeno della pirateria; nel 1563 il
comandante Yu Dayou con un attacco costringeva il capo-pirata Lin Daoqian a rifugiarsi prima nelle
Pescadores e poi a Taiwan (dove Yu Dayoun non l’avrebbe inseguito, forse perché non preparato o perché
l’isola non rientrava nella sua giurisdizione). Dalla base di Taiwan Lin Daoqian sferrava nuovamente un
attacco alle coste cinesi nel 1567, rimanendo in attività fino al 1580. Il governo Ming iniziava a capire
l’importanza della posizione di Formosa. Il 1567 è però lo stesso anno in cui le autorità centrali cinesi, incapaci
di controllare i traffici illeciti lungo le coste, erano state costrette ad una deroga dalle loro posizioni di
ostruzionismo ai commerci d’oltremare, per limitare almeno in parte le attività piratesche, incanalandole
entro attività riconosciute e dunque tassabili – ai mercanti e navigatori cinesi era quindi consentito prendere
il mare da Haicheng (Fujian), fermo restando il veto riguardante il Giappone. Taiwan entra così nell’orbita del
mercantilismo cinese, con un insediamento cinese sull’isola a inizio ‘600, che andava ampliandosi e
articolandosi con una struttura comunitaria sempre meglio organizzata. Sia per Li Dan che Zheng Zhilong
Taiwan diviene una base di vitale importanza, postazione chiave nel complesso scacchiere marittimo
internazionale, contesa da più paesi, Giappone incluso.

L’ARRIVO DEI GIAPPONESI

Dal 1539 le relazioni ufficiali tra Cina e Giappone erano interrotte (i Ming temevano l’aggressività
giapponese), ma non i commerci ufficiosi. Nell’arcipelago i punti d’incontro con il mercantilismo cinese erano
Hirado, Nagasaki e tanti insediamenti cinesi sparsi lungo le coste nipponiche. l’atmosfera di crescente ostilità
tra i due paesi culmina negli attacchi di Hideyoshi alla Corea (1592, 1597-1598), che rendono ancora più
arduo il commercio sino-giapponese. Sebbene la politica internazionale intrapresa poi da Tokugawa Ieyasu
fosse tesa al ripristino dei rapporti ufficiali con la Cina, un analogo fine espansionistico ne guidava la politica
estera: è in questo contesto che va interpretato l’attacco degli Shimazu di Satsuma (Kyushu) alle Liuqiu nel
1609, suggerito dallo stesso Ieyasu – attraverso le Liuqiu infatti il Giappone commerciava con la Cina da
sempre, sopperendo almeno in parte all’insufficiente flusso di commerci ufficiali, ora però definitivamente
interrotto. Il controllo giapponese sul piccolo arcipelago delle Liuqiu era divenuto quindi indispensabile.
Anche Taiwan però, non ricadendo sotto la giurisdizione cinese, rappresentava un terreno neutrale
d’incontro per le transazioni commerciali con la Cina. Situata a metà strada tra Macao e Giappone, costituiva
uno scalo ideale per i traffici mercantili con la postazione portoghese e con la base spagnola di Manila.
Tokugawa Ieyasu, estremamente attento al contesto internazionale dei mari estremo-orientali, si rende
conto di ciò, e nel febbraio del 1609 (dopo l’attacco alle Liuqiu) manda una spedizione militare capitanata da
Arima Harunobu verso Taiwan. Lo scopo primario è stabilire una postazione stabile in prossimità della costa,
così da creare un porto adeguato per i traffici mercantili e porre sotto vigilanza l’isola attraverso
pattugliamenti. Il pretesto era che i capi-tribù di Taiwan non avevano inviato ambascerie tributarie al
Giappone, venendo meno al loro dovere nei confronti del sovrano – lo stesso pretesto sarebbe stato utilizzato
per l’invasione delle Liuqiu. La reazione delle comunità aborigene, dall’organizzazione tribale, è di estrema
violenza – i giapponesi sono decimati in breve tempo e costretti a riprendere il mare. Alcuni nativi sono
catturati dal gruppo sopravvissuto e condotti alla presenza dello shogun ma vengono poi liberati. Il Giappone,
comunque, non si arrende e nel 1616, con il consenso delle autorità di Edo, il daikan di Nagasaki (Murayama
Toan) invia un’altra spedizione composta da 13 navi: ancora una volta le milizie giapponesi hanno la peggio
e molti periscono, ma un piccolo gruppo riesce a insediarsi sull’isola di Taiwan. La permanenza nipponica si
conclude in connessione alla presenza olandese: la Compagnia Riunita infatti poco tempo dopo avrebbe
aperto i suoi uffici e costruito i suoi forti nel sud di Taiwan – l’isola era prossima a divenire terreno di dispute
internazionali.

“HET KATSEEL ZEELANDIA”

Già durante l’occupazione delle Pescadores, negli anni 1622-1623, la VOC prende in considerazione l’ipotesi
di muovere verso Taiwan, inviando gruppi in avanscoperta sull’isola comprendendo la difficoltà di imporre il
proprio stanziamento nelle Penghu durante il “braccio di ferro” con i Ming. Nell’ottobre 1623 Jacob Constant,
delegato della VOC; da via all’insediamento olandese con una prima staccionata (rudimentale) sulla penisola
che affaccia sulla baia dell’odierna Tainan. La palizzata, simbolo dell’appropriazione di uno spazio territoriale,
era stata edificata utilizzando materiali ottenuti dagli aborigeni del luogo. Sin dall’inizio sorgono conflitti: la
comunità cinese, di molto antecedente all’arrivo della VOC, aizza gli abitanti del villaggio di Mu-chia-liu-wan
contro gli olandesi (anche nel timore che la VOC possa influire nel traffico cinese di pelli di daino, fonte di
guadagno da tempo). Con il trasferimento definitivo nel 1624 la staccionata assume le sembianze di una
fortificazione: nasce Het Kasteel Zeelandia. Nei primi mesi del 1625 la Compagnia Riunita riesce ad
espandere il territorio sotto il suo controllo acquistando Saccam (Ch’i-k’an), una zona situata all’interno della
baia, per costruirvi abitazioni e depositi merci. Il terreno ricadeva sotto la giurisdizione del villaggio di Hsin-
kang e gli olandesi lo avevano acquistato dagli abitanti al prezzo di 15 rotoli di tessuto. A dispetto dei tentativi
cinesi, i funzionari della VOC stabiliscono rapporti cordiali e amichevoli con i villaggi dei nativi prossimi al loro
stanziamento (Hsin-kang, Hsiao-lung, Ma-tou, Mu-chia-liu-wan), ma i rapporti tra una comunità di villaggio e
l’altra non erano pacifici: gli olandesi intervengono in difesa di Hisn-kang contro gli assalti di Ma-tou, cosa
che favorisce ulteriormente i rapporti della VOC con il primo villaggio. Nel corso del tempo la Compagnia si
ritrova a dover fronteggiare numerosi scontri con i villaggi indigeni – le comunità aborigene, diverse tra loro,
avevano abitudini anche ‘selvagge’ (in alcuni casi perfino cannibalismo). Il controllo del territorio richiedeva
la (almeno parziale) sottomissione di tali comunità, o perlomeno di quelle più vicine all’insediamento
olandese, e soprattutto delle più pericolosi ed ostili tra queste. Questo processo ha richiesto tempo e
numerosi conflitti militari: è solo dal 1635 che gli olandesi godono di una certa tranquillità, e le vittorie
conseguite portano lontano la fama di combattenti degli uomini della VOC, tanto che tribù anche distanti
dell’isola vi si sottomettono spontaneamente per la protezione della Compagnia, con grande vantaggio
economico per quest’ultima. Nella neonata sede di Forte Zeelandia la VOC deve però tener conto di un’altra
presenza scomoda: il piccolo gruppo di giapponesi stanziatosi sull’isola nel 1616. Già dal 1625 infatti il
governatore Gerrit Frederickszoon de Witt cerca di imporre la tassazione della Compagnia a tutte le comunità
dell’isola, compresi i giapponesi, che si rifiutano (iniziando lunga disputa). Altro serio problema inizia nel
1626: gli spagnoli si stabiliscono nel nord dell’isola, con l’intento di assicurarsi una posizione strategica nella
confluenza delle rotte tra Cina, Giappone e Filippine e controbattere l’espansionismo olandese che
minacciava la loro attestazione in Estremo Oriente.

PIETER NUYTS

Non appena insediatisi sull’isola i delegati della Compagnia mettono in funzione la ‘struttura governativa’,
imponendo quindi restrizioni e tasse alle comunità aborigene (che vengono gradualmente ‘civilizzate’
dall’opera missionaria dei religiosi protestanti), ai cinesi che ivi risiedevano (circa 25.000 uomini in grado di
combattere, a parte donne e bambini), al piccolo gruppo di giapponesi. Questi ultimi però invocano a ragione
l’accordo commerciale che esisteva tra i due paesi (e del quale gli olandesi beneficiavano nella base di
Hirado), rifiutandosi di pagare e di riconoscere l’autorità olandese sull’isola: sostengono di avere gli stessi
diritti degli olandesi di risiedere a Taiwan, e comunque vi si erano stabiliti alcuni anni prima. Della disputa si
ha presto notizia a Edo e Pieter Janszoon Muysert, capo dei mercanti e ambasciatore presso la capitale
giapponese registra già nel 1626 il clima di risentimento e irritazione creatosi. Le autorità giapponesi non
volevano rinunciare alla possibilità di condurre Taiwan sotto la propria sovranità, e l’insediamento della VOC
guastava i piani espansionistici del bakufu Tokugawa. Il gruppo giapponese sull’isola prende provvedimenti
per inficiare a monte la pretesa affermazione di sovranità olandese sull’isola: nel 1627, Hamada Yahei, un
mercante di Nagasaki, conduce con sé a Edo 16 abitanti di Hsin-kang e due interpreti cinesi per portarli dallo
shogun – il fine era consegnare ‘spontaneamente’ alla sovranità giapponese l’isola di Taiwan, cosa che in
amicizia (e soprattutto con ingenuità) gli ospiti non avrebbero mancato di fare. Questo è stato ovviamente
un pretesto da parte giapponese per accampare diritti (esigere tasse ecc.) sulle comunità aborigene e sulla
stessa Taiwan: iniziativa di Hamada Yahei per contrastare la politica di espropriazione della VOC.
Contestualmente all’arrivo degli aborigeni alla corte shogunale anche il giovane e inesperto Pieter Nuyts è
inviato a Edo in qualità di ambasciatore olandese, con il fine di chiarire la questione della supremazia su
Formosa. Lo shogun Tokugawa Iemitsu rifiuta di ricevere entrambe le delegazioni. Nel 1627 lo stesso Nuyts
entra in servizio come governatore di Formosa, con lo scopo di dirimere la contesa sorta con il Giappone –
l’intervento del governatore però, già maldisposto per il fallimento della sua missione ad Edo e amareggiato
per il rifiuto subito, è troppo energico. Al rientro dei 16 abitanti di Hsin-kang Pieter Nuyts li fa mettere agli
arresti (4 riescono a fuggire) e sequestra il carico delle navi di Hamada Yahei, trattenendole a forza nella baia
di Tainan. Ai giapponesi è negata la possibilità di lasciare l’isola per rientrare in patria, perché il governatore
olandese temeva che il racconto degli eventi potesse compromettere i rapporti tra la Compagnia Riunita e le
autorità di Edo. La reazione dei giapponesi non si fa attendere: riescono a prendere in ostaggio Nuyts, suo
figlio ed altri ufficiali olandesi – tra le condizioni imposte pretendono il rilascio immediato dei prigionieri di
Hsin-kang, e dopo trattative sotto la minaccia del coltello i giapponesi salpano per l’arcipelago con a bordo
alcuni ostaggi, tra i quali il figlio di Nuyts, di sette anni. Al rientro di Hamada in Giappone, messe al corrente
le autorità dell’accaduto, le ritorsioni del bakufu sono pesanti: gli ostaggi sono imprigionati (tra cui il bambino,
che sarebbe morto qualche anno dopo nelle galere del daimyō Ōmura Sumitada). Inoltre, la sede della VOC
di Hirado si vede interdire i commerci per quattro anni (1628-1632). Il veto viene tolto e i prigionieri liberati
nel 1632 in cambio di un nuovo ostaggio: Pieter Nuyts, che, già sollevato da ogni incarico, era stato posto agli
arresti domiciliari a Batavia, per venire poi consegnato alle autorità nipponiche senza alcuna condizione in
quanto vero responsabile dei fatti. Il Governatore Generale Jacques Specx, con alle spalle una lunga e diretta
conoscenza del Giappone, sperava così di soddisfare lo shogun e chiudere l’incidente, oltre che sperare nella
riapertura del normale traffico commerciale nella sede di Hirado – come sarebbe effettivamente avvenuto.
Era la prima ed ultima volta che la VOC consegnava un proprio servant in balia delle autorità di un paese
asiatico perché fosse giudicato e punito. Dopo 4 anni di arresti domiciliari, nel 1636, Pieter Nuyts sarebbe
stato riconsegnato alla VOC. Nonostante l’incidente (definito dai testi giapponesi Noitsu jiken, ovvero
l’incidente di Nuyts) le relazioni non si sarebbero interrotte: gli interessi economici in gioco erano troppo
importanti per entrambe le parti. Gli eventi avrebbero comunque lasciato il segno, accrescendo la reciproca
diffidenza. In Giappone poi il clima politico stava mutando: la Spagna era stata espulsa nel 1624, ed erano
iniziati episodi di severa intolleranza contro gli occidentali (es. massacro di Nagasaki 1622, crocifissione di
decine di cristiani). Dal 1633 il bakufu Tokugawa dà il via agli editti definiti ‘Sakokurei’: si è prossimi alla
politica detta ‘di isolamento’.

L’ATTESTAZIONE SPAGNOLA

Gli spagnoli stabiliscono una loro base a nord di Taiwan nel 1626, contrattacco al tenace espansionismo
olandese, che in pochi anni aveva prima bilanciato e poi superato la presenza dello schieramento cattolico,
grazie anche all’avvenuto insediamento a Taiwan. Le navi olandesi poi pattugliavano continuamente i mari,
intercettando e saccheggiando i mercantili iberici, danneggiando gravemente i commerci e inficiando non
solo la supremazia (ormai sfumata) ma anche l’attestazione stessa di Portogallo e Spagna in Estremo Oriente.
Nel 1626, dopo l’espulsione dal Giappone nel 1624, gli spagnoli si stabiliscono nel nord-est di Taiwan
chiamando l’insediamento Santiago. Poco dopo si spostano verso una baia più accogliente, chiamandola
Santissima Trinidad, e costruendo Forte San Salvador sull’isoletta di fronte la baia. Nel 1629 si spingono nelle
zone interne, costruendo Forte Santo Domingo, dove aprono uffici governativi e si preparano
all’insediamento definitivo. Nel 1630 la VOC attacca ma non riesce a penetrare nelle difese spagnole,
ritentando nel 1640, quando però la base spagnola si era già spostata più all’interno. Nel corso
dell’insediamento gli spagnoli danno subito inizio all’evangelizzazione degli aborigeni, sperando di ottenere
successi simili a quelli (iniziali) in Giappone. A volte dipendevano proprio dai villaggi dei nativi per la
sopravvivenza quotidiana (quando le navi provenienti da Manila non arrivavano in tempo) – infatti gli
spagnoli, anche quando a Taiwan, non sono comunque riusciti a inserirsi adeguatamente nei traffici
marittimi. La durata della loro attestazione sull’isola non si protrae a lungo: nel 1642 la VOC riesce ad
espellere gli spagnoli da Formosa. Nel 1642 quindi l’isola ha due soli contendenti: i cinesi e gli olandesi, ovvero
la potente organizzazione della famiglia Zheng e l’agguerrita Compagnia Riunita delle Indie Orientali. L’anno
precedente si era creata una situazione simile a Nagasaki: nel 1639 infatti il Portogallo era stato espulso e
l’Olanda sarebbe rimasta l’unica presenza europea in Giappone; nel 1641 gli uffici della VOC sarebbero stati
trasferiti a Deshima, isoletta artificiale di fronte la baia di Nagasaki, e quest’ultima sarebbe divenuta l’unica
città aperta ai commerci d’oltremare, in cui la base olandese (Oranda Yashiki) e la comunità cinese (Tojin
Yashiki), ovvero le uniche ammesse in territorio giapponese, sarebbero entrate in competizione
mercantilistica.
CAPITOLO IX

I ZHENG: PRIMI CONFLITTI

UN TEMIBILE RIVALE PER LA VOC: ZHENG ZHILONG

Assunto al servizio della Compagnia Riunita, Zheng Zhilong ha occasione di migliorare le proprie capacità
marittimo-commerciali, comprendere le strategie economiche della VOC, ampliare le conoscenze sulle
tecniche di navigazione occidentali, sulle strumentazioni utilizzate, sui cannoni ecc. Nell’agosto 1626 Li Dan
muore, e a distanza di un mese decede anche Yan Siqi, da alcuni ritenuto il vice, e quindi il ‘legittimo’
successore di Li Dan. Per Zheng Zhilong è l’occasione perfetta per sostituirsi a Li Dan – nell’inevitabile
frazionamento a seguito della scomparsa di questo, Zheng Zhilong prende possesso della base di Zhule
(odierna Jiayi, sud di Taian) riuscendo a riunire ai suoi ordini un gruppo notevole. In quegli anni c’è ripresa
della pirateria ed erano molte le bande che imperversavano nei mari cinesi, come quelle capeggiate da Yang
Liu e Yang Qi, Li Kuiqi, Liu Xiang, e lo stesso Zheng Zhilong. Nel 1626 questi ribadiva il rapporto di
collaborazione con la Compagnia Olandese, fornendole alcuni navigli della flotta appartenuta a ‘Captain
China’, navigli che gli olandesi, dalla base di Taiwan, intendevano usare per attaccare i mercantili cinesi che
facevano rotta tra Manila e Xiamen, per destabilizzare i commerci iberici. Taiwan, anche nel caso delle
presenze cinesi, era una postazione fondamentale per i commerci marittimi internazionali, e Zheng Zhilong
non poteva rischiare di esserne estromesso. Nel 1627, quando una grave carestia colpisce Fujian, egli
organizza e dirige un grosso flusso di immigrazione dal continente cinese, conducendo chi lo desiderava, con
le sue navi, nella base di Zhule, dove rifornisce i profughi di terre, attrezzi e utensili indispensabili alla
sopravvivenza. È un investimento in capitale umano, ripagato con gli interessi in forza lavoro per lo sviluppo
dell’agricoltura nell’isola, in produttività per un’incentivazione del commercio e in rafforzamento delle flotte
(quindi in potenziale bellico). L’investimento dà i suoi frutti nell’immediato: quanto più numerosa la comunità
cinese di Taiwan, tanto più facile equilibrare la presenza della VOC sull’isola. Accattivandosi le simpatie delle
genti delle coste continentali, Zhilong raccoglie le istanze di protesta e di ribellione divenendo il simbolo di
quelle zone, che, sempre più saldamente sotto il suo controllo, rappresentano un inesauribile serbatoio per
rinnovare ed ingrossare le file degli avventurieri-pirati ai suoi ordini. Anche il prestigio di Zhilong si accresce,
ed egli diviene il pirata che ‘derubava ai ricchi per donare ai poveri’. Parallelamente conduce una tattica di
riavvicinamento alla legalità: sempre nel 1627 chiede il condono, con i pirati Yang Liu e Yang Qi, presso le
autorità di Amoy (Xiamen, Fujian), consegnando a Xu Xinsi una certa quantità di denaro perché intervenisse
in maniera ufficiosa presso i funzionari. Xu però decide di utilizzare per sé la somma ricevuta, e Zheng Zhilong
cattura almeno una ventina di mercantili cinesi, infuriando nei villaggi sulla costa di Zhangzhou, attento però
a non arrecare danni alla propria gente a Quanzhou. Infine, attacca e sgomina XU Xinsi nella baia di Xiamen.
Dopo una serie di negoziazioni sono raggiunti i termini della ‘resa’ con il governo Ming e nell’estate 1628 il
sovrintendente generale del Fujian (Xiong Wencan) nomina Zheng Zhilong Ammiraglio di Pattugliamento
(youji jiangjun), affidandogli il compito di sconfiggere la pirateria. La Cina dei Ming, oppressa a nord dalle
incursioni mancesi, si accorgeva (in ritardo) del peso decisivo che una salda attestazione nelle regioni centro-
meridionali poteva esercitare nella lotta per la sopravvivenza: il controllo dei mari, seppur mediato da un non
troppo affidabile ‘ex-pirata’ le consentiva di tenere a bada gli europei e concentrarsi sui mancesi.

LO SCONTRO

I Ming avevano perso qualsiasi capacità di intervento sulle attività marittime delle zone costiere, e il Fujian in
particolare era regno di Zheng Zhilong, che aveva stretto controllo anche sulla comunità cinese di Taiwan. Lo
stretto di Formosa, pertanto, era sotto l’egemonia delle flotte dei Zheng: incursioni, arrembaggi e saccheggi
avevano costretto il governo Ming a conferire a Zheng Zhilong una carica ufficiale, ma avevano
parallelamente danneggiato economicamente la Compagnia Riunita, costretta a dipendere quasi
esclusivamente da Zheng Zhilong per espletare i commerci mediati dai cinesi – gli stessi vascelli olandesi
erano spesso preda delle flotte pirata. La VOC non aveva alcuna intenzione di sottostare a questa situazione.
Nel 1628 costringeva Zheng Zhilong a sottoscrivere un accordo commerciale triennale: approfittando di un
incontro a bordo di un vascello olandese, Pieter Nuyts lo tiene prigioniero fino all’apposizione della firma. In
seguito, si garantisce il rispetto dei termini trattenendo il fratello più giovane di Zheng Zhilong, Zheng Zhihu,
come ostaggio presso la sede della Compagnia. Iniziano a manifestarsi i primi segni dell’acceso antagonismo
che avrebbe sempre più opposto la VOC agli Zheng. Nonostante il contrattempo olandese, Zheng Zhilong
comincia ad operare nella legalità dell’incarico conferitogli, non tralasciando di continuare a rafforzare le sue
posizioni e nella zona d’origine (Anhai, dove la famiglia Zheng aveva molteplici connessioni di varia natura e
quindi una già notevole influenza) e nella base di Taiwan, dove di recente trasferimento di cinesi dal Fujian
gli garantiva una certa stabilità. Zheng Zhilong sgomina le bande di pirati (come gli era stato richiesto),
potendo così gestire da solo i traffici marittimi cinesi, e con l’avallo ufficiale dei Ming. Le autorità non erano
all’oscuro del suo vero intento: quando, con la sconfitta a Li Kuiqi nel febbraio del 1630, sembrò che Zheng
Zhilong avesse ormai liberato le coste cinesi dal flagello della pirateria, lo trasferirono nella zona montuosa
di Wuping (Jiangxi) con il pretesto di sedare dei disordini lì occorsi e neutralizzarne il potere. Attraverso i suoi
familiari Zheng Zhilong continuava a controllare gran parte del Fujian nonché a gestire i traffici con
l’oltremare, sia da Xiamen che da Taiwan, riscuotendo tasse e provvigioni sui beni commerciati e sui
mercantili in transito. A favore di Zheng Zhilong anche il fatto che la VOC desiderava liberarsi dalla dipendenza
nei commerci con la Cina che si era creata, e non aveva abbandonato l’idea di allacciare rapporti ufficiali coi
Ming, continuando a premere per l’apertura dei porti. In più occasioni Zhilong aveva chiesto ai delegati della
VOC maggior discrezione, ma i minacciosi vascelli olandesi continuavano ad ostentare la loro (sgradita)
presenza alle coste di Xiamen. Gli olandesi vedono nell’assenza di Zhilong un’ottima occasione per instaurare
legami d’affari con altri mediatori. La pirateria esplode di nuovo, capeggiata da Liu Xiang (nelle fonti olandesi
chiamato Jan Glaew) e da Li Guozhu (ovvero Augustin Iquan, figlio di Li Dan, rientrato dal Giappone per il
mutato clima politico nei confronti del cristianesimo, nonché quindi dei cinesi cattolici). Le autorità Ming
richiamano Zheng Zhilong immediatamente. Zhilong appena rientrato comincia subito a rafforzare il suo
potenziale navale, costruendo nuove imbarcazioni e armandole dei cannoni mutuati dalla VOC. Nel luglio del
1633 una parte di essa viene però distrutta dagli stessi olandesi in un attacco a sorpresa – la rivalità esplode
in un conflitto militare: il 22 ottobre dello stesso anno Zheng Zhilong sbaraglia le flotte della VOC nella baia
di Liaole, a sud di Jinmen (arcipelago di Quemoy, di fronte al Fujian). A seguito della trionfale vittoria contro
gli olandesi il governo Ming gli conferisce la carica di Vice Comandante Militare del Fujian – le autorità cinesi
realizzano che senza Zhilong non avevano alcuna possibilità di controllare le regioni costiere. Con il
riconoscimento ufficiale al pirata quindi, la scelta politica Ming si era prefissa due fii immediati: restituire le
vastissime attività mercantilistiche cinesi alla sovranità dell’impero e disporre di una flotta in grado di
contenere e respingere l’ingerenza europea. In questi termini la scelta strategica dei Ming funziona: le
nomine ad Ammiraglio di Pattugliamento delle flotte imperiali e poi di Vice Comandante Militare del Fujian
equivalgono a disporre, almeno nominalmente, di un vasto potenziale bellico sui mari estremo-orientali.
Zhilong, sottomettendo con facilità i gruppi di avventurieri che non rientravano nelle sue schiere, conclude
la riunificazione nel 1636, sgominando l’ultimo pirata in grado di opporsi, Liu Xiang.

LA SFIDA SUI MARI

All’indomani della sconfitta inferta a Liu Xiang, nel 1636, Zheng Zhilong ha ormai acquisito il controllo quasi
totale dei commerci marittimi cinesi, soprattutto nei mari che bagnavano le coste del Fujian e di Taiwan,
dove esercita una vera egemonia: lo stretto di Formosa era un passaggio chiave dei traffici internazionali. Per
quanto ciò infastidisse la VOC, sia per questa che per i Zheng era importante mantenere vivi traffici e
commerci ed evitare uno scontro frontale definitivo, che avrebbe reso irrealizzabili i lucrosi affari di entrambe
le parti. Dopo il violento confronto del 1633 seguono quindi alcuni anni di relativa calma tra le due parti, se
si esclude l’episodio del 1639 in cui Zheng Zhilong è costretto ad intervenire militarmente lungo i litorali di
Canton a causa di un altro tentativo olandese di forzare l’apertura dei porti cinesi – dopo questo Zhilong
ottiene un’ulteriore nomina a Comandante Militare del Fujian nel 1640. Il conflitto d’interessi era quindi
volutamente sopito in un compromesso vantaggioso, esprimendosi però in altre forme, ad esempio tramite
una guerra fredda di mercato che interessava le basi di comune attività, da Batavia a Taiwan, a Nagasaki. La
nuova nomina di Zhilong significa per lui una più salda attestazione nel continente, ma comporta una scelta
di priorità: nel 1640 egli sposta il grosso delle sue forze dalla base di Taiwan (Zhule) a quella di Anping, nel
Fujian, consentendo però così alla VOC di aver maggiore libertà d’azione nell’isola, pur rimanendo però forte
e strategico il legame con le comunità cinese dell’isola – egli gestisce infatti l’unico ingresso dei commerci nel
contenente cinese, influenzando non poco le connessioni con questo. La strategia dei Zheng non consiste
solo nella gestione diretta o mediata dei commerci marittimi condotti dai cinesi in ambito internazionale, ma
anche della collaborazione delle comunità cinesi d’oltremare, utilizzando a fini propri il sentimento di
coesione di queste ed il saldo legame di appartenenza che mantenevano con il continente, e in particolare
con il Fujian (regione più soggetta ad emigrazione) – è il caso, probabilmente, della rivolta del villaggio cinese
di Parian, esplosa nel 1636 a Manila contro l’oppressivo dominio spagnolo, che sembra sia stata fomentata
ed organizzata dagli uomini di Zheng. Questa tattica di istigazione è un elemento costante della politica
mercantilistica dell’organizzazione dei Zheng, cui avrebbe fatto ricorso lo stesso Zheng Chenggong una volta
sostituitosi al padre nel comando.

La VOC, intanto, nel 1641 sottrae la base di Malacca ai portoghesi, e nel 1642 attacca la postazione di
Santissima Trinità espellendo definitivamente gli spagnoli da Taiwan. Il vero confronto economico e militare
per l’egemonia dei commerci marittimi è solo tra VOC e i Zheng, uniche potenze in uno scenario che vedeva
una Cina dilaniata dalla guerra, una presenza iberica in declino, un Giappone chiuso in una strategia di difesa.

CAPITOLO X

L’INTERVENTO DE L BAKUFU TOKUGAWA

IL GIAPPONE IN RITIRO DAI MARI

L’ascesa al potere dei Tokugawa comporta un processo di riunificazione dell’arcipelago che necessita, nel
periodo di assestamento, di una forte spinta verso la coesione e di un deciso intervento per rendere stabile
il governo di Edo. Per questo Ieyasu propone una politica estera improntata alla distinzione. La
contemporanea presenza di quattro paesi europei divisi su due fronti, ma non per questo scevri da rivalità
tra loro, era senza dubbio un elemento destabilizzante, anche se al contempo di grande stimolo ai traffici
marittimi. Le marinerie giapponesi, come quelle cinesi, giovano del vivace intrecciarsi di commerci prodotto
dall’arrivo degli europei. La seconda metà del ‘500 aveva visto il sorgere di numerose comunità giapponesi
in Siam, Cambogia, Vietnam e Filippine, e anche l’instabilità politica di quegli anni di guerra interna aveva
favorito lo sviluppo di attività mercantilistiche giapponesi. I pirati-avventurieri-mercanti dell’arcipelago
avevano condiviso rotte e commerci con gli omologhi cinesi, e non erano mancate alleanze di duplice
nazionalità. Il ‘600 si apre però su una situazione complessa: le marinerie giapponesi devono rendere conto
al potere centrale delle loro attività, a differenza delle marinerie cinesi, che godono ancora della forzata
indifferenza della autorità Ming. Tokugawa Ieyasu aveva proseguito con cautela nel processo di
centralizzazione: il fine non era interrompere l’espansionismo delle marinerie dell’arcipelago, ma di farlo
esprimere sotto l’egida del governo. Il sistema degli shuinsen rappresenta un altro aspetto della stessa
politica – non a caso le licenze shogunali sono rilasciate sia ai giapponesi (perlopiù mercanti e daimyō) che ai
cinesi ed europei per il periodo 1605-1633. Il messaggio tacito del bakufu è chiaro: ben vengano i commerci
con l’oltremare, purché rientrino nell’ambito della sovranità giapponese e portino reale vantaggio per il
paese. Per le marinerie giapponesi, comunque, ciò segnava una battuta d’arresto. A differenza del
mercantilismo cinese, fondato sul commercio e su una forte coesione di gruppo (elementi caratterizzanti
anche le comunità cinesi stesse) i giapponesi d’oltremare erano spesso assoldati come mercenari sia dagli
europei (cattolici e protestanti) che dai potentati locali del paese che li ospitava. La loro riconosciuta abilità
nell’uso delle armi (da taglio, da lancio e da fuoco), la capacità di riprodurre e addirittura migliorare gli
archibugi europei e la tradizione marziale dei samurai, facevano dei giapponesi dei combattenti tra i più
coraggiosi e dotati. Ciò rendeva la loro presenza oltremare non meno partecipe ai traffici mercantili rispetto
a quella cinese, a prescindere dalla superiorità numerica di quest’ultima. Non pochi incidenti inoltre avevano
coinvolto i mercanti giapponesi, dei quali era giunta voce alle autorità del bakufu. Tutti questi elementi
deponevano a sfavore di una libera attività dei giapponesi d’oltremare.

LE SCELTE POLITICHE DELL’ARCIPELAGO

Il graduale irrigidirsi del bakufu Tokugawa ha precise motivazioni, oltre che di ordine ideologico (e legate
all’attività del missionariato iberico), soprattutto di carattere economico. Le necessità di porre sotto controllo
i commerci esteri del Giappone scaturiscono dall’eccessivo drenaggio di argento (prevalentemente), ma
anche di oro e rame, che lede l’economia del paese. Anche le attività degli europei vanno disciplinate: nel
1612 viene emesso il veto formale contro la religione cristiana; nel 1622 avviene l’episodio dei martiri di
Nagasaki. Dopo il ritiro dell’Inghilterra nel 1623 la Spagna è espulsa nel 1624, dato il proselitismo religioso
eccessivamente aggressivo dei suoi missionari. Nel 1636 il bakufu ordina il trasferimento dei portoghesi a
Deshima (mai avvenuto), isolotto artificiale nella baia di Nagasaki appositamente costruito. Nel 1637-8 però
esplode la violenta rivolta di Shimabara, su celata istigazione portoghese, e per questo nel 1639 il Portogallo
viene allontanato dall’arcipelago e con esso i gesuiti, che avevano rappresentato il miglior sostegno alla
politica commerciale lusitana, dalla quale ricavavano le risorse necessarie per il mantenimento delle missioni
in Estremo Oriente. L’Olanda diviene quindi l’unica presenza europea cui è consentito di rimanere in territorio
giapponese.

Altri provvedimenti riguardano la regolamentazione dei traffici mercantili: nel 1616 si limita il commercio con
l’estero ai porti di Hirado e Nagasaki (il primo dei due considerato scalo privilegiato); con la prima ordinanza
del Sakoku nel 1633 però anche Hirado deve sottostare ai regolamenti nazionali e attendere lo stabilirsi dei
prezzi delle merci a Nagasaki prima di procedere alle compravendite. Nel 1635 si vieta l’espatrio ai giapponesi
e l’approdo delle navi cinesi è circoscritto alla sola Nagasaki: il bakufu Tokugawa decreta il ritiro delle
marinerie giapponesi dalle rotte commerciali interasiatiche e pone sotto il proprio diretto controllo le attività
mercantilistiche cinesi in Giappone. Il provvedimento colpisce profondamente gli interessi dell’isola di
Hirado, e quindi della locale sede della VOC, che dall’attività dei cinesi traevano gran parte del
sostentamento. Se si guarda agli ordinamenti emanati dal bakufu Tokugawa tra 1633 e il 1639 (precisamente
1633-4-5-6-9), chiamati Sakokurei (ordinanze del Sakoku), si noterà che essi sono generalmente divisi in tre
gruppi. Composti da 17 articoli di base (poco modificati nel tempo), tali ordinamenti riguardano:

1) L’espatrio dei giapponesi (art. 1-3) che viene vietato, e si intima il rientro a chi risiedeva temporaneamente
o permanentemente all’estero;

2) La religione cristiana (art. 4-8), viene ribadito il bando al credo cristiano, vietate le unioni miste tra stranieri
e giapponesi, espulsi i figli nati da tali unioni e i loro genitori; nel 1939 è decretato poi il definitivo
allontanamento dei portoghesi;

3) Il commercio estero (art. 9-17) – si stabiliscono dettagliatamente norme e regolamenti riguardo i traffici
mercantili dei porti di Hirado e Nagasaki (e dal 1635 solo Nagasaki), si delega esclusivamente ai mercanti
autorizzati dal bakufu la gestione di tali commerci, dal momento dell’arrivo dei mercantili all’immissione dei
prodotti sul mercato interno (incluse registrazione e valutazione merci).

La VOC viene ovviamente colpita da queste scelte politiche.

INCOMPRENSIONI E SOSPETTO

Nei primi decenni del Seicento, lungo l’intero arco temporale della presenza della VOC a Hirado, la Compagnia
si ritrova ad affrontare notevoli cambiamenti nei rapporti con il bakufu Tokugawa. L’inizio dei rapporti si era
concretizzato sotto i migliori auspici, grazie anche all’amicizia tra William Adams e il primo shogun Tokugawa
– Ieyasu vuole e protegge l’insediamento della VOC a Hirado nel 1609, continuando a guardare con favore
alla presenza olandese fino alla morte. Nel 1616 una politica estera intelligente muove il Giappone alla
conquista dei mari sotto l’egida shogunale delle shuinsen, ma nello stesso anno, con la morte di Ieyasu e la
definitiva presa di potere di Hidetada (shogun dal 1605 al 1622), il clima politico in Giappone subisce una
mutazione, in seguito a maggior cautela nel consentire i commerci internazionali nel territorio dell’arcipelago
– già con il provvedimento che limita tali traffici ai porti di Hirado e Nagasaki la VOC percepisce l’irrigidimento
delle autorità giapponesi. Forse anche risentendo del mutamento, la VOC compie un serio errore
diplomatico: forti del permesso di Ieyasu, che li autorizzava a mantenere una sede a Hirado, i delegati della
VOC inoltrano una petizione formale a Hidetada, chiedendo un rinnovo dell’autorizzazione. Il gesto risulta ai
giapponesi fuori luogo, perché contravviene al protocollo, è una mancanza di rispetto nei confronti del nuovo
shogun, ed è inoltre offensivo nei contenuti, perché dubita del sentimento di pietà filiale di Hidetada nei
confronti del genitore Ieyasu (implicitamente considera la possibilità che lo shogun potesse alterare ciò che
aveva deciso il padre). Per il bakufu è un comportamento inammissibile, e la VOC comincia a sperimentare le
prime sanzioni ed un comportamento non benevolo. Negli anni ’20 la situazione non è migliore: Hirado ospita
sia gli uffici della VOC che quelli della EIC, e le due leadership fanno stazionare la Fleet of defense nella locale
baia – la presenza minacciosa delle navi da guerra europee non piace alle autorità giapponesi, soprattutto
quando le unità dell’alleanza anglo-olandese iniziano a pattugliare i mari, attaccare mercantili nemici e
rientrare poi nelle acque dell’arcipelago. Scatta così il veto del bakufu: la flotta anglo-olandese deve trovare
una collocazione diversa. Il governo di Edo condanna anche gli attacchi che le navi olandesi lanciavano contro
le giunche cinesi in uscita da Nagasaki (per depredarle del carico d’argento). Il periodo tra anni ’20 e ’30 è
ancora più difficile: l’incidente di Nuyts avvelena gli animi, era difficile riguadagnare la fiducia reciproca.
Sebbene nel 1632 la sede di Hirado riprende i commerci internazionali regolarmente, i delegati della
Compagnia sono posti sotto stretta sorveglianza delle autorità locali, e nel 1633 c’è l’emanazione del primo
decreto del Sakoku: si impone alla VOC di vendere la seta grezza allo stesso prezzo stabilito per i portoghesi
a Nagasaki, e gli altri prodotti (anch’essi a prezzo definito) potevano essere messi in commercio solo una
volta fissato il prezzo della seta grezza. Nicolaes Koeckebaker, governatore di Hirado tra 1633-1639 tenta di
eludere le imposizioni del bakufu, ma viene severamente redarguito dal daimyō Matsuura. Vengono imposte
sempre più restrizioni ai delegati della Compagnia, sia commerciali che personali. L’atmosfera di diffidenza
aumenta di giorno in giorno; gli spagnoli sono espulsi nel 1624, i portoghesi messi sotto sorveglianza e dal
1636 le loro navi non possono più sostare nel porto di Nagasaki, ma rimanervi solo il tempo di scaricare le
merci; dal 1635 tutti i mercantili cinesi hanno solo Nagasaki come porto d’ingresso, Hirado è tagliata fuori. I
lusitani sono espulsi nel 1639, momento di svolta nei rapporti con l’Europa. Anche la permanenza della VOC
nell’arcipelago giapponese è messa in discussione.

SHIMABARA NO RAN

Sebbene in Giappone, diversamente che in Cina, l’arrivo di mercanti e missionari fosse stato accolto con un
certo favore, i nipponici si rendono presto conto del pericolo economico, militare, politico ed ideologico
rappresentato dai paesi iberici. Sin dai primi contatti (fine ‘500) l’elemento religioso e ideologico, intrecciato
alla strategia di espansionismo commerciale e di conquista territoriale, infastidisce le autorità: già con
Hideyoshi vengono presi i primi severi provvedimenti concernenti il cristianesimo, che esprimono il dissenso
dei vertici in merito. L’atteggiamento ha il fine di limitare e contenere l’aspetto più puramente religioso, ma
che ancora manifesta invariato il desiderio di accettare l’incontro e il confronto con l’Europa in contesto
culturale ed economico. Il clima diviene però sempre più teso e intollerante man manco che il governo
giapponese acquisisce consapevolezza riguardo la grave minaccia ideologica che il diffondersi del
cristianesimo portava con sé. Con l’assegnazione della sede di Hirado e del relativo permesso di commerciare
sul territorio giapponese conferito a VOC ed EIC, le relazioni dei paesi iberici con le autorità giapponesi
iniziano ad incrinarsi, e nel 1612 il veto contro la religione cristiana viene ribadito, ma i missionari spagnoli e
portoghesi continuano a propagandare la propria religione, ignorando gli ordini del bakufu. Nel 1614 un
primo episodio di crocifissioni è seguito, nel 1616 dall’espulsione di alcuni missionari cristiani costretti a
rifugiarsi a Macao (come avveniva anche durante le persecuzioni in Cina). Ciò non ferma però ‘attività
missionaria: nel 1622 il martirio di Nagasaki è il preludio all’espulsione della Spagna nel 1624. L’abiura e il
fumie (ovvero ‘calpestare le immagini sacre’) sono imposti a tutti i credenti, a riprova dell’avvenuto
disconoscimento della religione cristiana. I portoghesi hanno sempre meno libertà e premono perché gli
alleati spagnoli la smettano di far arrivare clandestinamente missionari dalle Filippine, ma invano: la Spagna
non aveva nulla da perdere e continua a contravvenire al veto del bakufu cercando di rientrare
ufficiosamente nell’arcipelago. Non è da escludere che pensasse addirittura ad un intervento militare (come
già avvenuto negli anni ’70-’80 del Cinquecento, prima della sconfitta dell’Invincibile Armata). Ciò è di danno
ai portoghesi: nel 1636 la costruzione dell’isolotto di Deshima vuol dire trasferimento coatto dei loro
mercanti nella baia di Nagasaki, in totale isolamento dal resto del paese, e l’anno successivo un nuovo editto
proibisce a tutti gli stranieri di viaggiare in Giappone, per evitare che i portoghesi si muovessero all’interno
dell’arcipelago utilizzando passaporti olandesi. Nello stesso anno esplode la violenta rivolta di Shimabara:
intesa come ribellione cristiana (effettivamente gran parte dei ribelli era di religione cattolica), i partecipanti
vengono da situazione di estrema povertà, in cui subiscono l’insofferenza dei feudatari meridionali e il
sempre più serrato controllo della corte shogunale. Non si può escludere da questa il nascosto intervento
portoghese, allo scopo di indebolire il potere centrale e tornare a rivestire un ruolo privilegiato nei rapporti
del Giappone con il resto del mondo. I ribelli si asserragliano nel castello di Hara (provincia Nagasaki). Le
milizie del bakufu lanciano ripetuti assalti contro le mura, ma invano – l’assedio dura per oltre un mese, e a
quel punto le autorità Tokugawa chiedono l’intervento dell’artiglieria olandese, sia per accelerare la
soluzione del problema, sia per verificare la lealtà della VOC verso lo shogun. Nicolaes Koeckebaker, allora
governatore di Hirado, è ancora incerto sul da farsi, ma su pressione del bugyō di Nagasaki invia a Shimabara
una nave munita di 20 cannoni. La nave olandese rimane al servizio dello shogun per circa 20 giorni, durante
i quali spara incessantemente le sue cannonate contro la rocca tenuta dai ribelli, ed è poi mandata ad Hirado:
si era sparsa la notizia che le provviste degli assediati erano terminate, il sostegno della VOC non era più
necessario. Le truppe giapponesi prendono la fortezza e si scagliano sui sopravvissuti (circa 37.000 civili, tra
cui anziani, donne, bambini). Lo stesso condottiero che era stato a capo della rivolta, sostenendo l’assedio
per tre mesi, aveva solo 15-16 anni: si tratta di Amakusa Shiro, battezzato come Geronimo Francesco.
Ribellione e successivo massacro (i sopravvissuti sarebbero stati decapitati) sarebbero divenuti noti come
‘massacro di Shimabara’. In Europa, alla VOC sarebbe stata a lungo imputata la propria partecipazione,
perché i soldati della Compagnia si erano scagliati contro dei cristiani. Nicolaes Koeckebaker, per il contesto
di clima ostile in cui si trovava, aveva fatto l’unica scelta possibile (disubbidire agli ordini dello shogun
significava morte certa per sé e per i suoi uomini, oltre che perdita della base commerciale). Nel1639,
all’indomani di questi eventi, il Portogallo è definitivamente espulso dal territorio giapponese.

LA VOC A DESHIMA

L’aver partecipato all’oppressione della rivolta di Shimabara non garantiva un trattamento di favore alla
Compagnia, e la sua permanenza in Giappone non era scontata (c’è effettivamente un acceso dibattito presso
le autorità giapponesi). In ogni caso gli anni 1638-1640 sono i più proficui per la Compagnia (per l’espulsione
dei rivali, VOC unica presenza europea tollerata nell’arcipelago). Nel 1640, in un colloquio segreto, il daimyo
Matsuura e il governatore olandese di Hirado, Francois Caron, iniziano a temere l’imminente trasferimento
della VOC a Deshima, cercando una soluzione per evitarlo. Sono proprio i delegati olandesi però a fornire il
pretesto al bakufu Tokugawa per attuare questo spostamento: una volta terminata la costruzione di un
edificio per gli alloggi degli ufficiali ad Hirado, gli olandesi appongono sulla facciata la data di ultimazione in
latino (secondo le usanze) - Anno Domini MDCXLI – errore che si rivela fatale, perché le autorità giapponesi
intimano la distruzione immediata di tutti gli edifici della VOC a Hirado, l’abile governatore Caron non esita e
procede alla demolizione dei locali della Compagnia (in quel clima ostile l’esitazione o una singola obiezione
potevano comportare l’immediata espulsione della VOC dall’arcipelago). Nel 1641 quindi la sede della
Compagnai Riunita è sostituita da Nagasaki nel suo ruolo ufficiale di postazione internazionale. Con il terzo
shogun, Tokugawa Iemitsu, il Giappone entra nel cosiddetto Sakoku. L’aver relegato la VOC nell’isoletta
artificiale di Deshima risponde alla strategia di difesa e di controllo dei traffici commerciali in transito per
l’arcipelago, ai quali è direttamente connesso lo sviluppo dell’economia interna. Riguardo la situazione di
isolamento coatto si sa poco: le poche informazioni alle quali la VOC ha accesso provengono dagli interpreti
di olandese, fra i pochi a cui è consentito (di tanto in tanto) recarsi nell’Oranda Yashiki (residenza olandese).
Circondati da un’impenetrabile cortina di ferro, ai delegati olandesi non è permesso lasciare Deshima, e se
avessero avuto il bisogno di farlo avrebbero dovuto munirsi di apposito lasciapassare. Su tutti coloro che
entrano-escono dall’isola è esercitato un controllo strettissimo. A Deshima hanno accesso il bugyō di
Nagasaki, l’alto magistrato della zona e chi lavora presso i suoi uffici, alcuni mercanti autorizzati, fornitori di
generi quotidiani di necessità e prostitute attentamente selezionate dalle autorità locali. Negli anni a venire
la VOC non si arrende: usufruendo di informatori e agenti fidati cerca di ottenere informazioni utili ad
indirizzare a proprio vantaggio l’andamento del mercato interno. Nel 1682 le autorità giapponesi proibiscono
formalmente, pena la morte, di trasmettere qualsiasi informazione sui traffici di Nagasaki. Mantenere la
Compagnia all’oscuro era di grande importanza strategica, ma allo stesso tempo è dimostrazione della
parziale inutilità delle precauzioni adottate: il commercio internazionale è fonte per entrambi gli attori,
giapponesi e olandesi, di cospicui guadagni. Per tutto il periodo di permanenza sul territorio giapponese,
l’isola di Deshima rappresenta un ponte tra Giappone ed Europa: conoscenze europee vengono introdotte
nell’arcipelago e viceversa. In particolare, le conoscenze mediche sono oggetto di attenti studi e proficui
scambi, data la curiosità che esercitavano le rispettive scuole di pensiero. Gli ‘studi olandesi’, ovvero il
rangaku, si diffondono a Edo e Kyoto tra gli intellettuali giapponesi, e la scuola medica dell’arcipelago
arricchisce delle novità della chirurgia europea, come anche le prime conoscenze sulla medicina cinese
(mediate dagli studiosi giapponesi), penetrano nel Vecchio Continente. Il ruolo della Compagnia a Deshima,
più che economico, si rivela prezioso per la condivisione di informazioni, idee e conoscenze. Con la chiusura
di Hirado Nagasaki diviene (almeno formalmente) l’unico porto d’ingresso del commercio internazionale, la
Sakoku no mado (‘finestra del paese in catene’), in cui coesistono sede olandese e comunità cinese, costrette
ad una ravvicinata e contraddittoria convivenza. Si ripropone anche sul territorio giapponese il binomio
Zheng-VOC. Anche la predominante capacità mercantilistica cinese non è al riparo dalle difficoltà: gli eventi
del continente, legati alla formale affermazione in Cina della dinastia Qing, rischiano di sconvolgere l’attività
dei cinesi all’estero. Gli eventi militari del conflitto dinastico si ripercuotono sui traffici marittimi, perché
questi sono in stretta connessione con il potere politico e militare, oltre che economico e mercantile, dei
Zheng – questi con la metà del XVII secolo divengono perno centrale e catalizzatore dei precari equilibri di
forza esistenti.

CAPITOLO XI

VENTI DI GUERRA: LA CONQUISTA MANCESE

L’AVVENTO DEI QING

L’invasione e subordinazione della Corea nel 1637, subito dopo la proclamazione della dinastia Qing nell’anno
precedente, rendono concreto il pericolo di un’invasione mancese dei territori cinesi. Una salda attestazione
nel meridione, anche se mediata da Zheng Zhilong, è fondamentale perché si possano concentrare le energie
difensive ai confini settentrionali della Cina. Con la nomina di Zheng Zhilong a Comandante Militare del Fujian
nel 1640 i Ming si rendono dipendenti dalle forze dei Zheng per il controllo delle attività delle coste
meridionali: di fatto tutte le forze armate del Fujian passano al comando di questi. Ciò significa un ulteriore
rafforzamento di potere, prestigio, forza economica e militare dei Zheng, che si tramuta nella definitiva e
suprema attestazione di Zheng Zhilong quale ‘signore del Fujian’. Il 25 aprile 1644 l’imperatore Chongzhen
(1628-1644) si toglie la vita: Li Zicheng prende Beijing. Il Generale Wu Sangui chiede l’intervento delle truppe
mancesi per espellere i ribelli della capitale – è l’occasione ideale, i Qing prendono il settentrione. Nel caos
che deriva da questi avvenimenti, i superstiti della famiglia imperiale e le strutture governative e militari della
Cina centrale e meridionale, non ancora raggiunte dalle truppe mancesi, si trovano a dover costruire una
nuova Corte e un nuovo governo, ma soprattutto designare l’erede al trono. In un clima di panico si formano
contemporaneamente più Corti in lizza tra loro, spesso per lungo tempo all’oscuro della reciproca esistenza.
La risposta militare dei Ming all’invasione mancese, frammentaria e discorde, è infatti dovuta anche alle
difficili e lente comunicazioni, oltre che ad endemiche rivalità. Bisogna poi aggiunte il vantaggio e gli interessi
personali ricercati da molti funzionari civili e militari, che prima appoggiano i principi Ming, ma abbandonano
poi la causa lealista non appena questa si scosta dal conseguimento dei loro fini – Zheng Zhilong non fa
eccezione. La conquista mancese di Beijing nel 1644 da inizio all’estenuante transizione dinastica dai Ming ai
Qing: la resistenza dei Ming meridionali impegna non poco gli eserciti invasori in un logorante conflitto.
Questo si protrae infatti fino al 1662 (se accettiamo come cesura storica la cattura e morte di Yongli, ultimo
imperatore dei Ming meridionali). L’intero processo ha vita fino al 1683, se si considera l’anno in cui Taiwan
viene per la prima volta inclusa nell’ambito della sovranità cinese, all’indomani della Rivolta dei Tre Feudatari,
ultimo momento di seria destabilizzazione del dominio mancese, prima della definitiva sconfitta resistenza
condotta dai Zheng nel nome dei Ming.

IL REGIME DI LONGWU

In quanto Comandante Militare del Fujian, Zheng Zhilong aveva potuto inserire negli altri ranghi dell’esercito
numerosi membri del clan familiare, assicurandosi un controllo profondo e capillare della regione anche dal
punto di vista militare. Dopo la conquista di Beijing le unità militari del Fujian sono dislocate nei punti
nevralgici per la difesa dei territori meridionali, ed in particolare della regione, affiancandosi alle unità degli
eserciti Ming. Quando, dopo la resa di Nanjing l’8 giugno 1645, nel luglio 1645 il principe Tang assume la
reggenza, è il fratello di Zhilong (Zheng Hongkui) a scortarlo nel Fujian. Il 18 agosto c’è la proclamazione ed il
principe Tang sale al trono con il titolo di regno di Longwu (1645-1646), stabilendo a Fuzhou (Fujian) la
capitale provvisoria e sede del governo. In un primo tempo i rapporti tra Zheng Zhilong e Longwu sono buoni:
l’imperatore si sente fiducioso e rassicurato di ricevere l’appoggio dell’altro. Dopo avergli conferito quindi
titoli ed onorificenze, in segno di gratitudine anche per aver reso possibile l’installazione della Corte nel
Fujian, stabilisce con Zheng Zhilong un rapporto meno formale, assegnandogli (in via ufficiosa) il controllo del
nuovo governo. Longwu vuole però avere notizie sull’avanzata mancese e lanciare una controffensiva,
perorando più volte l’organizzazione di una spedizione militare d’avanscoperta (per avere esatta cognizione
degli spostamenti delle truppe Qing e poter attaccare. Zheng Zhilong procrastina però sempre la data, perché
non ha alcuna intenzione di impegnare uomini, armi e capitali in un’impresa che non gli avrebbe procurato
alcun vantaggio. Forse era già segretamente in contatto con il nemico. Nel marzo 1646 Longwu si muove
trasferendo la Corte a Yanping, per venire a conoscenza, due giorni dopo, che i mancesi vi erano giunti,
provocando vittime, dispersi e fuggitivi. Longwu è catturato a Tingzhou ed è messo a morte il 6 di ottobre. Le
truppe Qing entrano a Fuzhou sul finire dello stesso mese. Il 21 novembre 1646 Zheng Zhilong accetta la resa
ai mancesi, contro il generale disaccordo dell’intera organizzazione e soprattutto del primogenito Zheng
Chenggong. Il crollo del regime di Longwu aveva creato ulteriore scompiglio tra i membri della casa imperiale,
che continuano ad opporsi alle truppe mancesi in reazione disorganica, con l’unico risultato di ridurre sempre
più le capacità difensive. I principi Ming vagano quindi per le regioni meridionali, completamente dipendenti
dal tornaconto del ‘protettore’ di turno. Questo è ciò che succede al reggente Lu, ritrovatosi nelle piccole
isole di Zhoushan fino a quando le truppe di Zheng Cai, fratello di Zhilong, non vanno a rilevarlo per scortarlo
in una base più sicura. Il reggente Lu arriva a Xiamen nel 1646, ma Zheng Chenggong, pur accettando con
cortesia la presenza del principe imperiale, rifiuta di riconoscerne la legittimità (a causa delle precedenti
dispute occorse tra Corte di Lu e Corte di Longwu). Questo è uno dei primi sintomi di antagonismo tra Zheng
Chenggong e Zheng Cai per il comando.
ZHENG CENGGONG, LEADER DELLA RESISTENZA

Zheng Chenggong inizia ad addestrare autonomamente le proprie truppe già ad inizio del 1646, aumentando
in breve tempo il numero dei soldati (reclutandoli nelle piccole isole lungo le coste del Fujian) e iniziando a
fare esperienza di tattica militare, esercitandosi negli scontri navali. Nella tarda primavera ed estate 1647
Zheng Chenggong unisce le sue forze a quelle dei membri più anziani della famiglia e, sotto le direttive di
Zheng Cai, partecipa ad un assalto congiunto su Zhangzhou e Quanzhou, allargatosi parallelamente ai territori
a nord di Xiamen, sino a Fuzhou. Mentre le milizie Zheng sono occupate su più fronti quelle Qing rispondono
lanciando un attacco a sorpresa alla residenza-base di Anping. Nel 1648 le milizie Qing riprendono
gradualmente le postazioni perdute (anche per i dissidi interni alle forze di Lu). Lu si unisce alle milizie del
generale Zhang Mingzhen lasciando le basi dei Zheng e rientrandovi solo nel 1652 con la scorta (stremata)
dei sopravvissuti agli scontri con gli eserciti Qing. Nel 1653 Lu rinuncia definitivamente al titolo di reggente a
favore di Yongli, ultimo sovrano dei Ming meridionali, e finalmente (a dieci anni dal crollo di Beijing) le forze
Ming avrebbero combattuto sotto un’unica bandiera. Zheng Chenggong continua intanto ad accrescere il
proprio potere, e negli anni 1648-49, mentre i Qing avanzano in Fujian, egli si sposta nel Guandong (dove
regnava il caos e non si parteggiava per nessuna delle due fazioni in lotta) – è un’ottima occasione per
reclutare nuove milizie. Chenggong moltiplica le proprie truppe, e quando nel 1650 fa ritorno a Xiamen
nessuno dei membri del clan è in grado di contestargli il comando. Nel 1651 la sua posizione si rafforza
ulteriormente: guidando personalmente una campagna militare in aiuto della Corte di Yongli accresce
notevolmente il suo prestigio ed influenza, divenendo gradualmente l’elemento catalizzatore delle istanze di
protesta e ribellione anti-mancese, raccogliendo sempre maggiori consensi (anche tra coloro che si erano
rassegnati al dominio mancese, che vedono in Chenggong un ultimo motivo di speranza). Mentre Chenggong
è in aiuto di Yongli però Xiamen è attaccata dalle milizie Qing, principalmente per colpa di Zheng Cai e Zheng
Hongkui, cui era stata affidata la difesa della città: il primo viene quindi decapitato e il secondo costretto al
ritiro, esonerato da incarichi militari. Zheng Chenggong si ritrova quindi, nel 1652, unico a capo della potente
organizzazione dei Zheng. In anni difficili aveva migliorato le sue abilità, e nel generale contesto di indecisione
che aveva accompagnato la resistenza Ming la sua forte personalità lo rende l’unico in grado di accentrare
attorno a sé le restanti forze anti-mancesi, che vivono nelle regioni meridionali e centrali della Cina
(soprattutto attorno a Nanjing). Non dovendo dipendere da altri per il mantenimento dei suoi uomini
(garantito dai traffici mercantili internazionali), Zheng Chenggong recluta sempre più soldati, raccogliendo le
adesioni di ogni sorta di elementi della società, ottenendo consensi e appoggi da tutte le classi sociali.
Riscuote poi dai suoi sostenitori prove concrete della loro partecipazione: nelle zone di sua giurisdizione
tasse, donazioni e offerte volontarie vengono esatte con regolarità e precisione. Per contro, non consente
episodi di scorrerie o saccheggi ad opera dei suoi uomini, punendo ogni atto di violenza nei confronti della
popolazione. A metà degli anni ’50 Zheng Chenggong si era già attestato saldamente nel Fujian ed aveva
esteso l’influenza anche oltre i confini della regione; attorno a lui si raccoglie un vero e proprio movimento
politico per la restaurazione dei Ming, cui viene data una precisa connotazione: il nome della città di Xiamen
è mutato in Simingzhou (‘Prefettura in onore dei Ming’) e la città è eletta capitale dei territori riconquistati
in nome della dinastia, vi si costituisce il governo e si stabiliscono i sei ministeri – a duplicato della struttura
amministrativa Ming. In città, villaggi e presidi conquistati, tutti gli ufficiali mancesi sono sostituiti da
sostenitori della causa Ming.

L’ORGANIZZAZIONE MERCANTILISTICA DEI ZHENG


L’organizzazione mercantilistica dei Zheng: l’incessante offensiva ai mancesi condotta da Zheng Chenggong,
sin dalla presa di comando, comportava notevolissimi oneri economici in parte coperti dall’esazione di tasse
e contributi nelle zone conquistate, ma in parte necessitanti di costante e considerevole flusso di entrate –
Zheng Chenggong quindi, pur avendo come primo obiettivo la lotta ai mancesi, non trascura mai l’aspetto
mercantile della sua organizzazione, consapevole che era stato proprio quell’elemento a consentigli di creare
una forza militare e politica tale da permettergli di opporsi ai mancesi. Nonostante la connotazione militare
della struttura, che la rendeva omogenea ed efficiente, gli uomini delle sue flotte non obbedivano
meramente alle direttive ricevute senza profitto: pur essendo appartenenti alle milizie disponevano di
capitali propri da investire ed erano partecipi in prima persona dei traffici realizzati – erano quindi militari e
mercanti allo stesso tempo. Accanto ai profitti ricavati dai commerci marittimi bisogna ricordare che i Zheng
gestiscono indirettamente pressoché l’intero flusso dei commerci cinesi – anche i mercanti indipendenti, non
parte effettiva delle flotte, si riconoscevano nell’organizzazione, adeguandosi alle scelte economiche di
Zheng Chenggong, elemento essenziale per poter condurre con successo le strategie di mercato a livello
internazionale. Inoltre, Zheng Chenggong controlla l’accesso al continente dei traffici internazionali: ogni
mercantile in transito è debitamente tassato. Sin dai tempi di Zheng Zhilong, infatti, per ogni nave in ingresso
a Xiamen veniva esatto un dazio di 3000 liang (barre d’argento) – tutto ciò infastidisce non poco la VOC,
costretta a subire questa sottomissione. Altro elemento dal peso non indifferente nelle strategie economiche
di Zheng Chenggong: l’adesione e la cooperazione delle comunità cinesi d’oltremare. Queste erano state
abbandonate a sé stesse da una politica di totale indifferenza da parte delle autorità Ming. La situazione nel
‘600 è peggiore rispetto al secolo precedente – il dominio europeo è ancora più crudo ed il tipo di rapporto,
anche se ancora basato su transazioni commerciali, ha preso pieghe colonialistiche. Sfruttati come mano
d’opera e costretti a subire leggi e regolamenti estranei, vessati da tasse ed esazioni, massacrati se ribelli, i
cinesi d’oltremare hanno ormai solo l’organizzazione degli Zheng come punto di riferimento. In più di
un’occasione, quindi, iniziano ad appellarsi e a richiedere interventi militari a Zheng Chenggong.

IL VETO SUI MARI

Gli anni 1652-1655 sono contraddistinti da s variati tentativi dei mancesi di stabilire un accordo con
Zheng Chenggong, che approfitta dell’occasione protraendo il più possibile le trattative con i Qing
in un lungo (e volutamente vano) patteggiamento, per guadagnare tempo e rafforzare le difese. I
mancesi nel 1652 propongono a Zheng Chenggong di assegnargli il controllo della prefettura di
Haicheng in cambio della resa dell’organizzazione dei Zheng. Egli risponde che il controllo che ha è
sicuro, e non ha ragione di sottomettersi ad altri, e fornisce altre spiegazioni per le quali non gli
converrebbe l’accordo. I Qing cominciano a rendersi conto del peso che l’elemento mercantilistico
esercitava in favore di Zheng Chenggong: già nel 1652 i Qing emettono un primo ordine di sgombero,
facendo evacuare i centri di Ningbo, Wenzhou e Taizhou. Con il fallimento delle trattative però
anche queste misure divengono più radicali: il 6 agosto del 1656 viene emesso il primo editto di
proibizione alla navigazione (non a caso dopo la disfatta che i Qing subiscono nello scontro del
maggio dello stesso anno). Il provvedimento però non sortisce l’effetto sperato: la popolazione
costiera (e delle zone interne più prossime) vive essenzialmente dei proventi di traffici e commerci;
il decreto, che cercava di colpire le vie di approvvigionamento degli Zheng, rischiava di abbattersi
pesantemente sull’economia locale, sottraendo alla popolazione un indispensabile mezzo di
sussistenza – l’effetto sortito è stato quindi controproducente, e molti passano definitivamente alla
parte avversa, andando ad ingrossare le file degli eserciti di Zheng. Proprio nel 1656 Chenggong dà
inizio alle sue campagne militari d’attacco, indebolendo ulteriormente il controllo dei Qing sulle
coste e rendendo impossibile l’attuazione del provvedimento.

CAPITOLO XII

NUOVI ASSETTI INTERNAZIONALI

LA RISPOSTA DEL GIAPPONE AGLI EVENTI CINESI

L’invasione mancese della Cina, il crollo di Beijing e il progressivo avanzare delle truppe Qing verso il sud
preoccupano le autorità giapponesi, memori di tentativi di invasione che precedentemente la dinastia
barbarica Yuan aveva effettuato nel 1274 e nel 1281, mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Il governo
Tokugawa segue quindi gli eventi cinesi cercando di mantenere, almeno in superficie, un atteggiamento
neutrale. Gli olandesi invece, pur conservando inizialmente una certa estraneità, si muovono gradualmente
su posizioni favorevoli ai Qing, mentre i Zheng appoggiano attivamente i Ming. Presto le autorità di Edo si
trovano a dover prendere posizioni più precise: sul finire del 1645 in Giappone giunge la prima richiesta di
intervento in favore dei Ming – il latore è un mercante cinese, Lin Gao, che si presenta alle autorità di Nagasaki
recando con sé due missive provenienti dal continente, sottoscritte da Cui Zhi (ufficiale lealista nelle milizie
di Zheng Zhilong). La richiesta al governo giapponese è inoltrata su mandato di Zhilong, e chiede l’invio di
truppe ed armi in appoggio ai Ming. Il bugyō di Nagasaki, Yamazaki Gonpachiro trasmette immediatamente
le comunicazioni a Edo, dove Hayashi Razan traduce le lettere e le sottopone al terzo shogun, Tokugawa
Iemitsu. Dopo una serie di consultazioni si decide di rispondere in modo ambiguo, per guadagnare tempo, e
poi di respingere l’appello con motivazioni formali: il testo, come viene redatto, non è inoltrabile alle autorità
supreme a Edo; inoltre, le leggi giapponesi proibiscono l’esportazione di armi. Il primo punto è un espediente
per lasciare aperta la possibilità di sottoporre altre richieste; il secondo non è effettivamente un limite (lo
stesso shogun l’aveva violato inviando un contingente militare in Corea nel 1628 dopo la prima invasione
mancese della penisola nel 1627). Iemitsu vuole prendere tempo ed informazioni, per capire se veramente
l’appello fatto era in favore dei Ming (Zheng Zhilong non era degno di fede), e se sì di quali Ming (perché dalle
confuse e contraddittorie informazioni che prevenivano in Giappone circa gli eventi cinesi emergevano più
pretendenti al trono Ming). Iemitsu cerca di trovare risposta a questi interrogativi mettendo in moto i propri
informatori: i So di Tsushima (Arcipelago giapponese appena a sud est della Corea), attraverso la Corea, e gli
Shimazu di Satsuma (Kyushu) attraverso le Liuqiu. Tuttavia, nel 1646 viene redatta una lettera inviata (in via
privata) da Itakura Sonokami ad Itakura Mondonosuke, che riporta un piano segreto di Iemitsu di invasione
della Cina. Nella lettera si predispone l’invio di un contingente di 20.000 uomini, e si incita a bruciare le navi
di trasporto all’arrivo, e poi bruciare anche la lettera. Secondo studi e ricerche giapponesi promotore
dell’iniziativa è effettivamente Tokugawa Iemitsu – si evince dal testo l’intento di mandare delle milizie nel
continente cinese al fine di ‘prendere i Grandi Ming’: ne consegue che la spedizione non fosse di supporto,
ma di offensiva agli stessi Zheng. Non appare nella missiva menzione dei Qing, eppure lo shogun era a
conoscenza di ciò che avveniva in Cina. Iemitsu non realizza comunque mai questo proposito. Nell’autunno
dello stesso anno giunge una nuova richiesta di aiuti allo shogun Tokugawa attraverso un secondo emissario,
Huang Zhengming, che ha con sé missive sottoscritte da Zheng Zhilong e Longwu (preparate molto prima che
Zhilong si accordasse con i mancesi). Anche questa volta l’appello è trasmesso alle autorità di Edo, e ne segue
un acceso dibattito, dal quale emergono posizioni diverse: Iemitsu e alcuni rami collaterali dei Tokugawa
sono favorevoli ad un intervento militare del Giappone; altri obiettano che non ci sarebbe stato nessun
tornaconto per l’arcipelago, se non quello di crearsi nuovi nemici. A dibattito ancora in corso giunge la notizia
della fine del regime di Longwu e della resa di Zheng Zhilong: il Giappone non sarebbe quindi intervenuto.

GUERRA FREDDA A NAGASAKI

Limitando dal 1641 i traffici internazionali al solo porto di Nagasaki e consentendo l’accesso a cinesi e
olandesi, il Giappone si ritrova ad ospitare ufficialmente nel suo territorio due poteri in conflitto e a subirne
la competizione (tanto che questi portavano nell’arcipelago le stesse mercanzie, essenzialmente sete). Se i
primi decenni vedono una decisa supremazia cinese, in parte favorita dal bakufu (che guarda ai cinesi con
meno diffidenza, ospitandoli anche a Nagasaki, mentre relega la sede della VOC a Deshima, concedendo agli
interpreti cinesi – responsabili dei rapporti tra comunità cinese e autorità giapponesi – un raggio d’azione
molto più ampio di quello dato agli interpreti di olandese). Proprio grazie alla posizione di privilegio del
mercantilismo cinese Zheng Chenggong riesce ad applicare sferzanti strategie di mercato anche in Giappone:
per ogni merce importata le autorità giapponesi assegnano un prezzo fisso, imponendone il rispetto per i
successivi sei mesi – la scadenza coincide generalmente con primavera o autunno, periodico approdo dei
mercantili cinesi. Se quindi i marcanti cinesi si astenevano, ad esempio, dall’immettere seta grezza nel paese
o ne introducevano quantità irrisorie rispetto alla domanda, il prezzo della seta saliva notevolmente. I
mercantili cinesi allora invadevano il mercato con grosse quantità di seta grezza, costringendo gli acquirenti
giapponesi a comprarla ad un prezzo decisamente più alto. Controllando circa l’80% dei vascelli cinesi, Zheng
Chenggong esercita a suo vantaggio una forte influenza sull’economia giapponese, affermando il suo
predominio anche sulla VOC, che dal suo canto tenta di trarre vantaggio dalla concessione esclusiva ottenuta
in territorio giapponese in qualità di unica presenza europea. Nei primi anni il flusso dei traffici è nettamente
inferiore a quello dei cinesi, e assieme a ciò bisogna tener conto del fatto che gran parte delle basi di
rifornimento della VOC rientrano nella sfera di controllo dei Zheng, rendendo la Compagnia ancora più
subordinata all’organizzazione di questi. Per questo motivo, oltre che per la consueta tattica di disturbo, gli
olandesi spesso attaccano vascelli cinesi anche a largo delle coste giapponesi. Le autorità Tokugawa sono così
costrette ad intervenire emettendo un divieto formale, che vale agli olandesi l’appellativo di kaizoku (pirati):
almeno nelle acque giapponesi la VOC deve cambiare atteggiamento.

LA VOC E I ZHENG: IL CONFRONTO

La VOC e i Zheng si ritrovano quindi puntualmente in uno scontro economico che si ripete in tutti gli scali
delle rotte estremo-orientali, dall’Indonesia al Giappone. Nella base di Batavia (Indonesia), ad esempio, la
VOC istituisce il monopolio sul commercio marittimo (1652), imponendo ai cinesi della comunità locale di
svolgere tale attività. Nel 1654 e 1655 però a Batavia giunge una flotta di otto vascelli appartenenti a Zheng
Chenggong dal Fujian, del tutto indifferente a queste imposizioni, delle quali non riconosce l’autorità. Negli
stessi anni la VOC, per ragioni strategiche, decide di dirottare l’arrivo delle navi cinesi dalla base di Malacca
a quella di Batavia – Chenggong risponde al governatore di Malacca (Jan Thijssen Payart) che non comprende
perché gli sia stato negato l’accesso a Malacca, visto che questa, come Batavia e Taiwan apparteneva ad un
unico paese. Parallelamente quindi invia i suoi mercantili nel Siam e nelle città di Ligor, Sangora, Patani e
Johore (rispettivamente Thailandia, Indonesia, Thailandia, Malesia) e si rifornisce delle mercanzie desiderate,
scavalcando la mediazione della VOC. La guerra si inasprisce sempre di più e i delegati della VOC non sono
contenti di doversi piegare al volere di questo ‘Groot Mandorijn Cocxsinja’ (Illustre Mandarino Coxinga,
Zheng Chenggong), ma sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco – cercano comunque di attaccare ed
affondare i navigli dei Zheng o depredarli ad ogni occasione, ma puntualmente Zheng Chenggong chiede alla
Compagnia il rimborso dei danni. Questioni del genere vanno avanti per anni. Il Governatore Generale della
Compagnia dal 1653 al 1678, Joan Maetsuycker, che risiede a Batavia, scrive a Zheng Chenggong una lettera
di risposta datata 8 giugno 1658 in cui si riferisce a Zheng come ‘Vostra Altezza’, e dice di aver risarcito danni
fino a quel momento non perché la VOC fosse colpevole, ma per non offendere – secondo lui però ora le
richieste di Chenggong sono divenute troppe, e quindi dichiara che la VOC non è più disposta a fare ulteriori
concessioni. Procede poi ad elencare due casi in cui la VOC ha pagato anche più del dovuto e si è vista poi
‘offesa’ per la chiusura dei porti e la proibizione imposta dai Zheng ai cinesi di commerciare a Taiwan. Dopo
questa occasione quindi il Governatore Generale dice di aver ordinato ai suoi comandanti, qualora avessero
incontrato giunche o vascelli sotto la giurisdizione dei Zheng di impadronirsene e condurli disarmati a Taiwan
o Batavia. Procede poi nel dire che si rammarica di aver messo in atto la cattura poiché nel frattempo i porti
sono stati riaperti. Il tono del Governatore Maetsuyker rivela in parte l’esasperazione della VOC dinanzi a
questo avversario, impossibile da sottomettere ma che non si può ignorare. Inoltre, da più di un decennio la
VOC temeva un attacco di Zheng Chenggong alla postazione di Taiwan, che dal punto di vista strategico
poteva costituire un ottimo rifugio per le truppe di Zheng Chenggong qualora costretto ad una ritirata.

L’EMBARGO A FORMOSA

Nelle basi dell’Asia Orientale la VOC deve provvedere al mantenimento delle sue postazioni con i proventi
dei commerci marittimi, e sempre da essi ricavare profitti da mandare in Europa; spesso però i traffici con i
cinesi sono essenziali anche per il rifornimento di generi di prima necessità. L’interruzione dei commerci
pertanto avrebbe privato la Compagnia Riunita di guadagni e causato problemi di approvvigionamento.
Zheng Chenggong, abile stratega, ne è a conoscenza – l’embargo ai commerci è un’ottima arma nelle sue
mani. L’embargo posto sulla base olandese di Taiwan è senza dubbio una scelta politica ragionata. Yang Ying,
storico di Zheng Chenggong, riporta (nel sesto mese dell’undicesimo anno dell’era Yongli, ovvero nel 1657)
che quando questi risiedeva a Xiamen il capo dei ‘Barbari dai capelli rossi’ (olandesi) di Formosa, ‘Kuiyi’
(Frederick Coyett) aveva inviato l’interprete He Tingbin (Pingqua) per chiedere a Zheng Chenggong
l’autorizzazione per gli olandesi, tramite un tributo annuo, di commerciare nei porti della Cina. Zheng
Chenggong fa questa concessione, ma spesso gli olandesi creano difficoltà – per questo, riporta Yang Ting,
Chenggong emana un decreto per il quale si interrompano i contatti e commerci con l’isola di Taiwan.
L’embargo dura due anni (1654-55), ed ha motivazioni legate anche ad un episodio precedente: sin
dall’insediamento a Taiwan la VOC dà vita ad un sistema di tassazione che interessa le comunità dell’isola.
Nel corso degli anni le esazioni aumentano, e nel 1651 si stabilisce una tassa pro-capite, che si aggiunge alle
già pesanti riscossioni che vessano la comunità cinese, aumentando il malcontento e rendendo più tesi i
rapporti con gli olandesi. La sera del 7 settembre 1652 nella comunità cinese è preparato un sontuoso
banchetto con ospiti i membri principali della Compagnia: è un’occasione preparata per la rivolta. I ribelli
sono però traditi da alcuni ricchi cinesi preoccupati di perdere i propri beni, che avvertono il governatore di
Formosa dell’epoca (Nicolaes Verburch, tale dal 1650 al 1653). La sommossa è sventata dopo due settimane
di violenti combattimenti che portano alla morte o cattura di 4000 uomini e 5000 donne cinesi. Le perdite
olandesi sono solo due. La ribellione, capeggiata da Guo Huayi è stata più volte messa in relazione a Zheng
Chenggong, e non è improbabile sia stato così. Temendo quindi un attacco dei Zheng la VOC rafforza le difese
sull’isola, dando inizio alla costruzione di un altro forte a Sakam, dirimpetto a Forte Zelandia: Forte Provincia
(1653). Zheng Chenggong risponde al massacro dei cinesi con l’embargo su Formosa.

LA POLITICA DI EQUILIBRIO DEL BAKUFU TOKUGAWA

L’arcipelago giapponese si trova stretto in una morsa economica tra le due potenze che lascia ben poche
possibilità di movimento sia in ambito marittimo-commerciale che nelle posizioni da assumere in politica
estera. Il Giappone deve mantenere una posizione bilanciata. Nonostante l’esito negati o delle precedenti
richieste di aiuti inviate da Zheng Zhilong, i Zheng non cessano di lanciare appelli al Giappone per un suo
intervento a favore dei Ming: nel 1648 Zheng Cai indirizza una missiva alle autorità di Nagasaki in cui propone
di commerciare erbe medicinali e sete cinesi in cambio di armamenti giapponesi. Ad essa si accompagna una
lettera di Zheng Chenggong nella quale questi, mettendo in risalto il proprio legame con l’arcipelago (dove
era nato nel 1624 da una consorte giapponese di Zheng Zhilong), fa richiesta di decine di migliaia di soldati
da opporre ai barbari mancesi. L’anno seguente anche Zheng Cai fa pressioni sui membri dell’ambasceria
provenienti dalle Liuqiu, affinché le autorità delle isole agissero come intermediarie presso il Giappone
incoraggiando l’invio di soldati ed armi. Gli appelli non venivano solo dai Zheng, ma anche da molti sostenitori
dei Ming (una ventina, dal 1645 al 1686). Sul finire del dicembre 1651 o a inizio dell’anno successivo Zheng
Chenggong si rivolge nuovamente al Giappone – nello stesso periodo egli ascende al comando
dell’organizzazione dei Zheng e la resistenza dei Ming meridionale si riaccende di nuovo vigore (Chenggong
aveva vinto la campagna in aiuto dell’imperatore Yongli). Nonostante al momento della defezione di Zheng
Zhilong la vittoria sembrava in mano ai mancesi, per i Ming c’era ancora speranza. Come abbiamo visto infatti
le autorità Edo avevano già preso in considerazione l’idea di acconsentire alle richieste di Zhilong prima di
venire a conoscenza della sua resa. Ora una nuova fase di silenzio come risposta ai continui appelli poteva
essere rischiosa, perché considerando l’influenza di Chenggong non era il caso di farselo nemico, e inoltre
bisognava tenere in considerazione il ruolo svolto dal mercantilismo cinese nell’ambito dei traffici
internazionali dell’arcipelago attraverso la comunità di Nagasaki. Alla richiesta di Chenggong quindi il
Giappone risponde inviando metalli ed armamenti con cui potenziare gli eserciti, ma nessun soldato
giapponese. Anche ai successivi appelli lanciati da Zheng Chenggong (1658, 1660) le autorità di Edo danno
risposte analoghe, favorendo solo in minima parte e per proprio tornaconto Zheng Chenggong (non erano
poi così interessati alla causa Ming in sé). Altro modo di favorire Chenggong adottato dai giapponesi è di
rimandare indietro le rare imbarcazioni dei cinesi piegatisi al gioco mancese (distinti dal simbolico ed
‘umiliante’ codino) giunte a Nagasaki – accettando così, di fatto, solo le navi dei Zheng. La cautela utilizzata
dai giapponesi non serviva solo ad evitare rischi con uno dei due eventuali vincitori (Ming o Qing): un
coinvolgimento diretto in favore dei Ming e Zheng avrebbe inevitabilmente alterato i rapporti con la VOC e
quindi comportato la totale dipendenza dei traffici internazionali dell’arcipelago dalle marinerie cinesi,
ovverosia da Zheng Chenggong. Analogamente una rottura dei rapporti con i Zheng avrebbe lasciato il
Giappone in balia dei commerci condotti dalla Compagnia Riunita, dandole la possibilità di esercitare una
pericolosissima influenza sull’economia dell’arcipelago. Ospitare entrambe le potenze a Nagasaki era da un
lato fonte di disagio, ma allo stesso tempo uno strumento utile: l’arcipelago poteva farsi scudo dell’una per
moderare e contenere l’altra.

LA COMPAGNIA RIUNITA A FAVORE DEI QING

Se inizialmente l’atteggiamento della VOC è di cauta osservazione degli eventi (anche se con sguardo
favorevole ai Qing) negli anni ’50 la Compagnia si schiera apertamente con i mancesi. Questa scelta è l’unica
possibile: respinti dalle autorità Ming e costretti a subire la superiorità marittimo-commerciale e militare del
rivale Zheng Chenggong, stenuo lealista Ming, i delegati della VOC vedono nella nuova dinastia la speranza
di ottenere l’agognata apertura della Cina ai commerci e magari anche la sconfitta dell’antagonista nei traffici
mercantili. Già dal marzo 1653 la Compagnia Riunita inoltra presso le autorità Qing una prima richiesta di
autorizzazione ai commerci ma i mancesi, che avevano adottato le tradizioni politiche, istituzionali e culturali
cinesi, avevano assimilato anche il sistema dei tributi: declinano quindi l’offerta di stabilire mutui scambi
commerciali e ribadiscono che l’unico rapporto possibile è quello delle ambascerie tributarie. I delegati della
VOC si conformano a ciò e a fine 1655 inviano a Canton una missione con tributo, accompagnata da una
missiva del Governatore Generale Maetsuycker. L’ambasceria è autorizzata a procedere e nell’agosto del
1656 viene ricevuta ufficialmente a Beijing: alla Compagnia Riunita delle Indie Orientali è consentito l’invio
di missioni tributarie ogni 8 anni. Quello ottenuto non è un gran successo, e quindi l’anno seguente (1657),
dopo il vano tentativo di stipulare un accordo commerciale ufficiale con la Cina (che avrebbe consentito di
scavalcare la mediazione Zheng), la VOC è costretta nuovamente a rivolgersi a Zheng Chenggong. Come
abbiamo visto la Compagnia invia come portavoce l’interprete He Tingbin affinché fosse sospeso l’embargo
su Taiwan, piegandosi a versare un contributo annuo alle casse dei Zheng pur di ottenere il ripristino dei
rapporti commerciali. Il sentimento di aspra rivalità tra le due potenze si accresce ulteriormente.
CAPITOLO XIII

TAIWAN, 1° FEBBRAIO 1662: LO SMACCO

LA BATTAGLIA DI NANCHINO

I mancesi procedono verso il meridione, con obiettivo militare primario Simingzhou, capitale della resistenza
Ming guidata da Zheng Chenggong. Questi, consapevole di ciò, fa evacuare Xiamen e la zona circostante tra
l’estate e l’autunno del 1655, al fine di delimitare l’area di scontro e proteggere popolazione e beni. Nel
maggio del 1656 i mancesi sferrano l’offensiva all’isola di Jinmen Quemoy), dove Zheng Chenggong si era
ritirato in assetto di difesa: lo scontro navale, interrotto da una violenta tempesta, si conclude con al disfatta
delle flotte Qing. Sin dall’inizio le autorità mancesi avevano cercato di organizzare una marina militare da
opporre ai Zheng, avvalendosi dell’ausilio di funzionari civili e militari cinesi passati dalla loro parte – questi
erano però di scarso aiuto (ricordiamo la politica di indifferenza alla situazione marittima perseguita dai
Ming), e come erano stati incapaci di sottomettere le marinerie di Zheng Zhilong prima, così ora sono
impreparati ad affrontare Chenggong, le cui flotte sono ancor meglio addestrate al combattimento. Dopo
questa vittoria quindi Zheng Chenggong si decide a lanciare la controffensiva, penetrando più a nord (già dal
1653 si era pensato di prendere Nanjing). Gli scontri continuano tra 1656 e 1658, anno in cui (a marzo) Zheng
Chenggong prepara la spedizione con il preciso intento di spingersi nell’interno. Con provvigioni che
coprivano il fabbisogno di svariati mesi, nel giugno dello stesso anno invade Wenzhou, prosegue per
Zhoushan e si muove infine per Chongming. Lungo il tragitto per quest’ultima però la flotta è colpita da un
tifone che provoca notevoli perdite, e la spedizione è interrotta. Tutte queste campagne avevano avuto come
obiettivo la preparazione del terreno d’assalto a Nanjing. La spedizione decisiva parte il 29 giugno del 1659,
e via Tinghai raggiunge Ningbo, dove vengono reclutate nuove forze e racconti approvvigionamenti per
affrontare la lunga campagna militare. La presa di Ningbo è importante perché prepara la via ad una
eventuale ritirata. Le flotte muovono quindi in direzione di Chongming, giungendo alla foce dello Yangzijiang
(Fiume Azzurro) il 7 luglio e rimanendovi fino a fine mese (per rifornimenti, senza lanciare attacchi ai centri
abitati, ma piuttosto cercando di ottenere informazioni sulle postazioni mancesi e conoscere la topografia
del luogo). Stazionando per tutto quel tempo però Zheng Chenggong perde tempo prezioso, e resta ancora
fermo tre giorni a Jiaoshan, dove con le truppe celebra onoranze (a Cielo, Terra Hongwu – fondatore dei
Ming) e per l’occasione compone una poesia. L’intento era forse di dimostrare forza e superiorità per
impressionare il nemico e parallelamente accendere movimenti di ribellione contro i mancesi, ottenendo
ulteriori adesioni. Quando finalmente, il 24 di agosto (dopo due settimane di navigazione), le flotte di Zheng
arrivano a Nanjing, in città erano già giunte in soccorso le prime milizie supplementari dei Qing. Zheng
Chenggong temporeggia ancora, assediando la città in attesa della resa, senza sferrare l’attacco – ciò
consente ai Qing di far arrivare altre truppe. Chenggong riponeva forse troppa fiducia nella superiorità
numerica delle proprie milizie (fanteria in assedio circa 85.000 unità, senza contare gli uomini delle flotte e
quelli lasciati a guardia delle città conquistate), e non temeva quindi l’arrivo di altre milizie mancesi –
probabilmente desiderava uno scontro frontale definitivo che scuotesse il dominio mancese e facesse
insorgere la resistenza, oppure attendeva la resa di Nanjing, come era successo per altri centri (fino ad allora
infatti gli uomini di Zheng Chenggong non avevano mai subito sconfitte e anzi molti centri avevano scelto
spontaneamente di unirsi alla resistenza). Non attaccare è però un errore, perché le truppe si innervosiscono
e si indebolisce la compagine d’urto, inoltre ciò lascia ai mancesi la possibilità di attaccare per primi. L’8
settembre i Qing lanciano un assalto a sorpresa che costringe Zheng Chenggong a muovere le truppe durante
la notte. All’alba i mancesi ingaggiano piena battaglia, cogliendo impreparati gli avversari. Inoltre, attaccano
e incendiano molti dei vascelli che avevano condotto le milizie lealiste per impedirne la ritirata. Ciò diffonde
il panico tra i soldati (che erano pur sempre uomini di mare, abili negli scontri navali, meno in quelli su terra
ferma). Le milizie di Zheng Chenggong sono sconfitte in un solo giorno, nello scontro periscono o sono
catturati in molti, anche tra comandanti ed ufficiali. Chenggong batte quindi in ritirata con i superstiti,
cosciente del fatto che l’offensiva Qing avrebbe raggiunto il Fujian per colpire la base di Xiamen. Rientrato
nella base in tutta fretta Zheng Chenggong comincia ad organizzare le difese – infatti la Corte di Beijing aveva
già dato il via ad un’importante spedizione militare da inviare nel Fujian per stroncare il focolaio di resistenza
anti-mancese. Le milizie Qing arrivano a Fuzhou nel febbraio 1660 e si preparano all’assalto raccogliendo le
flotte della marina imperiale dei Qing da tre province (Guangdong, Fujian, Zhejiang). Nonostante le perdite
subite a Nanjing Zheng Chenggong dispone ancora a Xiamen di circa 2000 vascelli, e richiama alla base tutte
le imbarcazioni che erano fuori per i traffici mercantili. Nella prima metà di giugno 1660 i Qing serrano
l’attacco su due fronti, a nord e a ovest di Xiamen, ma vengono annientati – Zheng Chenggong fa annegare
gran parte dei soldati nemici catturati, e la sconfitta mancese è così umiliante da portare il generale dei Qing
al suicidio. La vittoria regala ai Zheng una breve tregua durante la quale riorganizzare le basi di Xiamen e
Jinmen (le uniche rimaste), ma Zheng Chenggong è consapevole del fatto che i Qing avevano sottomesso
quasi l’intera Cina, e le altre componenti lealiste erano state distrutte o erano in fuga dagli eserciti mancesi.
Ciò significava che non si poteva aspettare aiuti e che i Qing, una volta consolidata la propria attestazione su
tutto il territorio cinese, avrebbero concentrato i loro sforzi esclusivamente sul Fujian. Le basi sulle piccole
isole di Xiamen e Jinmen non avrebbero potuto resistere a lungo dagli attacchi mancesi. Intanto i Qing
iniziano ad accerchiare le postazioni di Zheng Chenggong anche economicamente: nello stesso anno, il 1660,
fanno evacuare 88 piccole isole prospicienti il Fujian e rafforzano il controllo delle coste, situando avamposti
militari in tredici porti. L’obiettivo è quello di isolare le basi dei Zheng, recidendo i legami tra queste e il
continente ed annullarne quindi le capacità di resistenza. Ai primi di febbraio 1661 Zheng Chenggong riunisce
i suoi generali spiegando la necessità di una ritirata strategica a Taiwan.

I GIUSTIFICATI TIMORI DI COYETT


I giustificati timori di Coyett: Sin dal 1646 a causa della situazione nel continente i delegati della VOC iniziano
a temere un possibile assalto alla loro postazione sull’isola di Taiwan (in caso di vittoria dei Qing). Questo
timore si accresce sia con la rivolta di Guo Huayi nel 1652, sia in considerazione dell’accesa competizione
commerciale esistente. Dopo la sconfitta dei Zheng a Nanjing il governatore della VOC della sede di Forte
Zelandia, Frederick Coyett (in carica 1656-1662), inizia a temere ancor di più – non a torto – l’imminente
arrivo delle flotte dei Zheng. Frederick Coyett aveva già servito per diversi anni presso la Compagnia: giunto
a Batavia nel 1645, dopo due anni è trasferito a Deshima, poi a Taiwan, divenendone governatore nel 1656.
Sin dall’inizio del nuovo incarico Coyett fa presente più volte alle autorità di Batavia e al Governatore
Generale Joan Maetsuycker le condizioni di estrema vulnerabilità della postazione olandese a Taiwan
nell’eventualità di un attacco. Sebbene nel 1653 dopo una sommossa cinese era stato ereto anche Forte
Provincia, le capacità difensive della Compagnia sono ridotte, innanzi tutto dal punto di vista numerico: le
presenze olandesi sono appena sufficienti a difendere i due forti, ma non in grado di proteggere l’isola o
anche solo l’insediamento olandese esterno ai forti, tanto meno di pattugliare i litorali per impedire un
attacco nemico. Con l’interruzione dell’embargo però, ottenuta proprio grazie all’iniziativa diplomatica di
Coyett del 1657, i difficili rapporti tra i Zheng e la VOC sembravano aver raggiunto un periodo di tregua, e il
bilancio delle attività mercantili della base olandese di Taiwan non aveva mai avuto un attivo così alto. Anche
per questa ragione l’Alto Consiglio di Batavia sottovalutava il pericolo di un’invasione delle flotte di Zheng
Chenggong. Ora però il governatore di Taiwan ha ottime ragioni per credere ad un attacco; i drastici
provvedimenti presi dai Qing per tagliare gli approvvigionamenti alle basi di Xiamen e Jinmen rendono la
posizione di Zheng Chenggong e della sua organizzazione estremamente difficile: Taiwan rappresentava non
solo un rifugio sicuro, ma anche la possibilità di disporre di viveri e rifornimenti più che sufficienti. L’ideale
posizione dell’isola inoltre avrebbe consentito a Zheng Chenggong di continuare a condurre i traffici marittimi
e lanciare attacchi a sorpresa nel continente, mantenendo le spalle coperte. Il 6 marzo 1660 alcuni cinesi
influenti della comunità locale si recano negli uffici di Coyett per avvertirlo dell’imminente arrivo dei Zheng.
Il governatore da immediatamente il via ad una serie di misure precauzionali e difensive: cerca di rafforzare
le postazioni militari di Zelandia e di provincia con fortificazioni di sostegno, fa scorta di provviste e limita
l’esportazione di cereali, pone sotto stretto controllo la comunità cinese e fa trasferire i cinesi troppo distanti
in un perimetro più prossimo alle roccaforti, impedisce l’ingresso ai cinesi nell’insediamento olandese (salvo
alcune eccezioni) e ne blocca le imbarcazioni. Cerca infine, anche con interrogatori poco leciti, di ottenere
dai cinesi informazioni precise. Le risposte conducevano ad una sola direzione: Zheng Chenggong stava
organizzando una vasta spedizione per conquistare Formosa. Parallelamente, quindi, Coyett invia pressanti
richieste di aiuti alle autorità di Batavia, ma la risposta è di molto inferiore ai bisogni effettivi.

SCETTICISMO A BATAVIA

Abbiamo già parlato dell’importanza strategica della postazione di Taiwan per il disturbo dei traffici iberici
(Macao-Manila) e come testa di ponte tra le basi di Batavia e Deshima. Tra i progetti di Coyett c’è ancora la
presa di Macao, che avrebbe significato la definitiva e suprema attestazione dell’Olanda quale unico paese
europeo in Estremo Oriente. A Macao poi esistevano eccellenti fonderie per la costruzione di cannoni ed armi
da fuoco, che rifornivano le postazioni iberiche – motivo in più per cercare di impossessarsene. Nei resoconti
di Coyett vediamo che, secondo lui, la disattenzione delle autorità di Batavia rispetto alla situazione di Taiwan
era dovuta ad un maggior interessamento verso Macao. Bisogna poi considerare che tra tutte le basi olandesi,
quella di Taiwan aveva sì posizione interessante, ma si era rivelata al di sotto delle aspettative: non era stata
costruita alcuna sede di raccordo sul continente ed i traffici olandesi dell’isola erano pressoché dipendenti
dai Zheng. A seguito delle pressanti richieste del governatore di Formosa, comunque, il 16 luglio 1660 Jan
van der Laan è posto al comando di una flotta di 12 vascelli e 600 uomini, con l’ordine di raggiungere Taiwan
e rafforzarne temporaneamente le difese – una volta accertatosi che non vi fosse pericolo di invasione, di
procedere all’attacco di Macao. Frederick Coyett è amareggiato da ciò, teme che la situazione di Taiwan non
sia presa sul serio.

L’ARRIVO DI VAN DER LAAN

La flotta di Van der Laan arriva a Taiwan verso fine settembre 1660, e sin dall’inizio si stabilisce una forte carica di
tensione, diffidenza ed antipatia: van der Laan vuole proseguire per Macao, valuta superficialmente le argomentazioni
portate da Coyett, giungendo affrettatamente alla conclusione che Taiwan non avrebbe subito alcun attacco. Poiché
però egli era agli ordini del governatore di Formosa, doveva attendere il lasciapassare di Coyett per procedere verso
Macao. Quest’ultimo cerca di trattenere le flotte il più possibile, e riesce a far rimandare la decisione ultima al febbraio
1661. Nel frattempo, viene stabilito di inviare un messo a Xiamen con il pretesto di sottoscrivere nuovi accordi
commerciali, ma con il vero proposito di appurare le intenzioni di Zheng Chenggong su Formosa. La missione parte il 31
ottobre 1660. In proposito, Gentili scrive che quando compaiono alla baia di Emoy 5 navi olandesi provenienti da Taiwan
il Kue-sing ha già tra i suoi progetti la conquista di quell’isola, progetto già noto in Emoy, persino dai missionari –
temendo che questi ultimi rivelassero il piano ai nuovi arrivati, il Kue-sing prende severe misure perché nessuno si
avvicinasse alla residenza dell’ambasciatore o alle navi olandesi. Dopodiché Zheng Chenggong accoglie i delegati con
estrema cortesia, esprimendo il desiderio di rinnovare i rapporti commerciali con Taiwan, giustificandone l’interruzione
per il conflitto con i mancesi, assicurando che una volta finiti questi avrebbe nuovamente inviato sue navi a Formosa.
Inoltre, consegna ai delegati una lettera per il governatore di Taiwan, in cui cerca di rassicurarlo delle sue buone
intenzioni nei confronti dell’Olanda. Coyett non si lascia ingannare e si oppone ancora alla partenza delle flotte
supplementari, ma altri ufficiali si schierano sulle posizioni di van der Laan, compilando un esposto contro Coyett da
inviare all’Alto Consiglio di Batavia – questo non viene spedito, ma il governatore di Formosa è costretto ad acconsentire
alla partenza di Jan van der Laan e dei suoi ufficiali per Batavia. Riesce però a trattenere le milizie di rinforzo: la
spedizione a Macao viene soppressa. La postazione olandese di Taiwan conta ora su circa 1200 uomini e 5 navi: la
Hector, la ‘s Gravelande, la Vink, la Maria.

ZHENG CHENGGONG A TAIWAN

Nonostante il trasferimento nell’isola risultasse l’unica soluzione possibile, Zheng Chenggong incontra forti
opposizioni tra i suoi ufficiali – l’isola appare loro selvaggia ed inospitale, abitata da tribù indigene. Zheng
continua la preparazione del suo piano avvalendosi dell’interprete He Tingbin per cercare di confutare le
opinioni contrarie (egli presenta una mappa di Taiwan contando campi coltivati e giardini per decine di
migliaia di Qing e terre fertili per migliaia di li). He Tingbin aveva fatto parte della missione olandese del 1657
e già in quell’occasione aveva allacciato un legame di stretta e segreta collaborazione con Zheng Chenggong,
stabilendo di riscuotere per questi un dazio sui mercantili cinesi in partenza da Taiwan per il continente, poi
ancora tassati all’arrivo a Xiamen, all’insaputa dei delegati della VOC. Scoperto dagli ufficiali della Compagnia
nel 1659 e costretto a lasciare Taiwan, si stabilisce a Xiamen, dove offre i suoi servigi di ‘informatore’ ai Zheng.
Nel marzo 1661, non a caso dopo la partenza di Jan van der Laan e di gran parte delle imbarcazioni di rinforzo,
Zheng Chenggong assegna le consegne militari per la spedizione: il periodo è ideale, perché con il calmarsi
dei monsoni invernali nessuna imbarcazione poteva essere inviata da Taiwan a Batavia per chiedere soccorso.
La flotta di Zheng, composta da centinaia di navi e circa 25.000 uomini, prende il largo nell’aprile 1661. Zheng
Chenggong commette però un errore, forse dovuto alle troppo ottimistiche informazioni dell’interprete He
Tingbing, o alla carenza di cereali già sofferta a Xiamen: rifornisce le flotte di una provvista alimentare appena
sufficiente a coprire il tragitto fino a Taiwan). Spinto perciò a fermarsi nelle Pescadores, dove anche le
provviste locali erano insufficienti, deve riprendere il mare ancora in tempesta per raggiungere Taiwan il
prima possibile. Tra le contromisure adottate da Coyett in previsione dell’attacco di Zheng Chenggong c’era
stata anche quella di sequestrare le derrate alimentari cinesi per ammassarle nei fortilizi, oltre la distruzione
di un grande quantitativo di cereali per evitare che il nemico ne usufruisse. La situazione degli uomini dei
Zheng è critica. Il 30 aprile 1661 comunque giungono alle coste di Taiwan, e per gli abitanti dell’isola il solo
vedere una flotta così vasta è spaventoso. Viene ingaggiata battaglia, ma delle quattro navi a disposizione
degli olandesi solo due sono vascelli da combattimento, la Hector e la ‘s Gravelande. La Hector salta in aria
nello scontro, la ‘s Gravelande e la Vink rientrano e i relativi uomini prendono le difese di Forte Provincia, la
Maria riesce a fuggire e (nonostante la stagione contraria alla navigazione verso l’Indonesia) riesce ad
arrivare, dopo 50 giorni, alla base di Batavia. Intanto però Zheng Chenggong sbarca nell’isola, e dal 1° maggio
inizia l’assedio dei due Forti – il 4 maggio Forte Provincia si arrende, Forte Zelandia resta l’unico baluardo a
difesa della postazione olandese.

LA RESA DELLA COMPAGNIA RIUNITA

Una volta preso Forte Provincia Chenggong accede alle scorte di cereali ivi conservate, tranquillizzandosi
rispetto all’immediato fabbisogno delle truppe. Sicuro che nessuna notizia dell’assedio potesse giungere a
Batavia, Zheng Chenggong non si preoccupa di scacciare gli olandesi dal loro rifugio, perché pressanti attacchi
alla fortezza avrebbero solo causato perdite inutili tra i suoi – prima o poi i delegati della VOC avrebbero
ceduto. Inoltre, dopo anni di intensi combattimenti contro i mancesi e dopo la sconfitta di Nanjing gli uomini
erano già demoralizzati e infelici di dover lasciare le proprie terre per recarsi in un posto estraneo ed ostile.
Zheng Chenggong si occupa quindi di organizzare e rafforzare il proprio insediamento nell’isola, non
trascurando però di premere sugli uomini della Compagnia per la resa – scrive a Coyett che la loro resistenza
non ha senso, e afferma di essere disposto a far vivere gli olandesi a patto che lascino la fortezza, concedendo
anche di soddisfare qualche richiesta. Coyett risponde il giorno successivo, dicendo che gli olandesi sono
obbligati, per l’onore del loro Dio e nel nome del proprio paese, a continuare la difesa del castello anche a
rischio della propria vita. L’unica speranza concreta degli assediati era che la Maria raggiungesse Batavia –
qui, ancora all’oscuro degli eventi, era già stata preparata una spedizione da inviare a Taiwan, ma con
motivazioni e fini diversi: influenzate dal vendicativo resoconto di Jan van der Laan, l’Alto Consiglio di Batavia
aveva sospeso Frederick Coyett e gli alti ufficiali della sede di Taiwan dalla loro carica, conferendo una nuova
nomina a Hermanus Clenk. Il 21 giugno 1661 il nuovo governatore di Formosa lascia Batavia per raggiungere
l’isola e prendere servizio nel nuovo incarico. Solo due giorni dopo giunge a Batavia la Maria, e la Direzione
della VOC scopre l’accaduto. Le autorità di Batavia allestiscono una flotta capitanata da Jacob Caeuw da
inviare in soccorso agli assediati, che salpa il 5 luglio alla volta di Taiwan. Caeuw ha con sé una missiva che
annulla gli ordini precedentemente emanati e riconferma in servizio il governatore Coyett e gli altri ufficiali
destituiti. La flotta di soccorso giunge a Taiwan il 12 agosto con sorpresa di Zheng Chenggong che non
immagina come sia avvenuta la comunicazione: egli prende immediatamente misure difensive mettendo a
morte molti dei prigionieri catturati. Nei mesi successivi avvengono vari scontri, e le navi di Caeuw rimangono
a sostegno della postazione olandese, ma l’assedio continua. Il 6 novembre giunge a Coyett l’offerta dei Qing
di lanciare un attacco congiunto alle forze di Zheng Chenggong alle basi di Xiamen e Jinmen e di procedere
poi per Formosa. Il 26 dello stesso mese l’entusiasta risposta affermativa del Consiglio di Formosa è affidata
a Jacob Caeuw, che con alcune navi ben armate doveva andare ad unirsi ai mancesi. Caeuw pensa bene di
dirottare la propria nave in Siam, disertando. Al rientro degli altri vascelli Coyett e gli assediati sanno che ogni
speranza di ottenere aiuti dai Qing è andata in fumo. L’assedio durava ormai da 7 mesi, e a metà dicembre
alcuni soldati olandesi tradiscono, svelando a Zheng Chenggong i punti deboli della fortezza. Il 25 gennaio
questi lancia un violento assalto alla postazione olandese, in seguito al quale gli olandesi decidono di trattare
la resa. Il 1° febbraio 1662 Forte Zelandia capitola. Nel consegnare il Forte al nemico, il governatore di
Formosa Frederick Coyett, ufficiali e soldati ricevevano l’onore delle armi al loro passaggio: Zheng Chenggong
e le sue milizie si inchinano con rispetto al nemico vinto.

CAPITOLO XIV

LA FINE DI UN’ILLUSIONE

FREDERICK COYETT

La notizia della disfatta di Taiwan s diffonde con rapidità tra le varie sedi della VOC in Asia. Le autorità
supreme di Batavia sono sgomente: proprio negli stessi anni in cui la Compagnia si è affermata come leader
indiscusso dei commerci europei in Asia questa sconfitta risulta una beffa inaudita. I numerosi appelli di
Frederick Coyett erano stati considerati petulanti, e senza tener conto dell’impossibilità di continuare a
difendere la postazione di Formosa l’Alto Consiglio di Batavia ed il suo presidente, il Governatore Generale
Joan Maetsuycker cercano a tutti i costi il colpevole dell’onta di cui l’intera VOC si era macchiata. La colpa
viene facilmente data a Coyett – questi, rientrato a Batavia dopo la resa, trova ad attenderlo l’arresto
immediato e un processo che voleva sembrare ‘esemplare’. Frederick Coyett è condannato alla pena capitale,
sentenza dopo poco commutata in esilio a vita. La condanna è ingiusta e sproporzionata, ma Coyett è
comunque costretto ad attraversare il luogo delle esecuzioni capitali ed inchinarsi in segno di piena
accettazione di una condanna giusta, e scampata immeritatamente per grazia. Grazie anche alle amicizie
influenti di cui gode in patria, dopo aver scontato oltre un decennio nelle isole Sonda (Indonesia), nel 1675
Coyett è graziato e completamente riabilitato dalla Compagnia Riunita, venendo riammesso in servizio presso
la stessa VOC, non tornando però mai più in Asia Orientale. Negli anni di esilio Coyett raccoglie nel testo ‘t
Verwaerloosde Formosa, ovvero ‘Formosa negletta’, le sue esperienze nell’isola di Taiwan, raccontando nei
minimi particolari gli avvenimenti che causarono la sconfitta olandese, incolpando di ciò perlopiù il
disinteresse delle autorità della Compagnia Riunita.

LE CONSEGUENZE DELLA SCONFITTA

Per la Compagnia Riunita il danno maggiore non consiste tanto nella rinuncia materiale alla postazione di
Taiwan (anche se quella aveva il suo peso), quanto piuttosto nella perdita della ama di invincibilità acquisita
dalla VOC: gran parte delle sedi in Asia erano state stabilite con la forza e continuavano ad esistere grazie a
questa. Una sconfitta militare del genere, avvenuta tra l’altro per mano di un condottiero cinese considerato
un ribelle traditore dall’ormai insediatasi dinastia dei Qing, mette in discussione la supremazia militare della
Compagnia Riunita. Ciò poteva rivelarsi fatale per l’attestazione stessa della VOC nei mari dell’Asia Orientale,
anche perché il piano dei Zheng considera Formosa solo in quanto rifugio ideale per proseguire la lotta ai
mancesi, come parte di un disegno ben più ampio di espansione sull’intero contesto dei mari orientali:
attraverso le numerose comunità cinesi d’oltremare i Zheng rivaleggiano di fatto con la VOC nel controllo dei
traffici marittimi internazionali orientali. L’organizzazione dei Zheng è pari alla VOC per estensione di raggio
d’azione nel contesto dell’Oceano Indiano, per basi di raccordo, capacità commerciali, difese militari,
strategie economiche e di conquista. In più ha libero e pieno accesso all’agognato mercato dell’impero cinese
– l’organizzazione dei Zheng è effettivamente risultato diretto ed estrinsecazione del mercantilismo cinese,
è in sé il commercio con la Cina.

Infatti, non appena completato il trasferimento a Taiwan Zheng Chenggong si volge alle Filippine con analogo
interesse, ritenendo di poter esigere dalle autorità spagnole di Manila un tributo, in rapporto simile a quello
imposto alla Compagnia. Le motivazioni di ciò sono varie: ideologiche (come per tutte le postazioni europee,
l’attestazione spagnola è considerata un insediamento abusivo e tollerabile solo fino a quando non avesse
comportato alterazioni della realtà circostante, o meglio fino a quando il territorio occupato non fosse stato
reclamato da chi, più degli europei, ne aveva diritto); secondo poi il dominio spagnolo è duro e feroce, e già
in precedenza Chenggong aveva pensato di inviare una spedizione contro Manila per difendere la comunità
locale cinese; ancora la richiesta permetteva ai Zheng di estendere il controlla anche sulle Filippine per
rafforzare le proprie posizioni sia nell’ambito dei commerci internazionali sia per creare nuove basi per
continuare la lotta ai mancesi.

La disfatta della VOC contro i Zheng è cocente perché avvenuta per mano dell’acerrimo nemico, al quale la
Compagnia si era già piegata a pagare un tributo annuo per riprendere i commerci; per non parlare del fatto
che in Giappone ormai la base di Deshima raccoglie briciole al confronto dei traffici gestiti dai cinesi. Il
sentimento di conflittualità si trasforma in odio: dopo la perdita di Taiwan le navi della Compagnia hanno
l’ordine di assalire qualunque imbarcazione dei Zheng, in qualsiasi porto si trovi. Prede ambite le navi cinesi
sulla rotta del Giappone, ovvero in entrata o uscita da Nagasaki, perché cariche d’argento (una sorta di
rimborso per le perdite subite a Formosa). Questa volta le autorità Tokugawa sono più rigide: un solo
mercantile cinese attaccato e la VOC di Deshima avrebbe chiuso i battenti - negli altri porti però la guerra
continua. Le conseguenze dello smacco a Formosa si allargano a macchia d’olio: il Siam rafforza le proprie
difese costiere e navali e potenzia la flotta, poi negli anni 1663-4 si esplicita chiaramente il conflitto con al
VOC, che perde il monopolio sul commercio delle pelli di daino; la Cambogia assalta la sede della Compagnia
nel 1667 su istigazione dei Zheng; in numerose altre postazioni orientali autorità e potentati locali cominciano
ad investigare riguardo le reali capacità militari della Compagnia. La VOC deve al più presto ristabilire la
propria immagine, e soprattutto riprendersi formosa – sono questi gli obiettivi del Governatore Generale.

IL GOVERNATORE GENERALE JOAN MAETSUYCKER

Nato ad Amsterdam il 14 ottobre 1606 e laureatosi in giurisprudenza, Maetsuycker esercita l’avvocatura di


stato a L’Aia, entrando poi in servizio presso la VOC e inviato nel 1636 a Batavia, dove prosegue la propria
carriera anche accanto al Governatore Generale Anton van Diemen, presso il quale si distingue. Serve la VOC
in altre sedi dell’Asia Orientale, divenendo governatore di Ceylon (Sri Lanka). Con il rientro a Batavia è
nominato Governatore Generale delle Indie nel 1653, quando ormai Joan Maetsuycker ha ampia esperienza
in Asia, e quindi una preparazione solida sia teorica che pratica. Al momento della sconfitta a Taiwan quindi
egli è già in servizio da circa un decennio. Come Coyett aveva dovuto rispondere alle autorità di Batavia e al
Governatore Generale, così l’Alto Consiglio deve rendere conto dell’accaduto ai XVII Signori. Maetsuycker
evita di proposito di mandare una nave con un urgente dispaccio informativo ed attende di poter
accompagnare la notizia con una già avvenuta reazione concreta della Compagnia Riu ita. Viene quindi
allestita la prima di varie spedizioni punitive contro i Zheng, composta da una flotta di otto vascelli i cui uomini
sono mossi da rancore e vendetta. Insieme alla spedizione quindi Maetsuycker fa partire anche la nave
messaggera per i Paesi Bassi. La spedizione punitiva contro i Zheng prende il mare il 24 giugno 1662, ignara
di quanto avvenuto il giorno precedente: il 23 giugno 1662 Zheng Chenggong decede improvvisamente e
prematuramente – ancora doveva compiere 38 anni. Nonostante il breve periodo passato a Taiwan,
Chenggong era stato in grado di impostare e realizzare trasformazioni che avrebbero reso possibile al
successore Zheng Jing operare per un duraturo insediamento dei Zheng a Taiwan, a tutto il ventennio
successivo. Zheng Chenggong da all’isola una precisa struttura governativa, economica ed amministrativa –
in pratica fonda il ‘regno’ di Zheng. Per la prima volta, dopo il lungo periodo di colonizzazione della VOC,
Taiwan conosce una propria identità ed autonomia. L’improvvisa scomparsa di Zheng Chenggong muta gli
equilibri di forza a favore della VOC, ma, nonostante ciò, le priorità strategiche della Compagnia non vengono
modificate, anzi sono rafforzate. Il Governatore Generale inizia ad elaborare la sua strategia: sfruttare la
disfatta di Formosa, per cercare di avvicinare le autorità Qing, stabilendo così un nuovo dialogo con il governo
di Beijing, anche sulla base dell’obiettivo comune di annientare i Zheng a Taiwan. Maetsuycker spera che una
tale alleanza consentisse alla VOC, per il suo ruolo di sostegno alle milizie mancesi, di realizzare il tanto
agognato commercio privilegiato con il continente cinese; inoltre, in caso di vittoria, sperava di ottenere la
restituzione di Taiwan – comincia a prender forma una strategia di rivalsa.

ANCORA IL VETO SUI MARI

In questa situazione le autorità mancesi non sono rimaste inattive, ma anzi sono al corrente dei numerosi
problemi e difficoltà che i Zheng devono affrontare, tra cui l’approvvigionamento alimentare. Già Zheng
Chenggong aveva provveduto all’arrivo via mare di derrate alimentari dalle basi continentali di Xiamen e
Jinmen, ma la questione dei rifornimenti doveva essere risolata in modo definitivo, data la difficile situazione
in Cina – la postazione di Taiwan deve rendersi autosufficienza. È questa la debolezza che i Qing intendono
colpire. Nell’agosto 1661 i Qing emanano infatti un altro decreto di sgombero delle coste (qianjieling) che
ordina di far retrocedere la popolazione di miglia e miglia nell’interno, inviando anche una speciale
commissione dalla capitale per controllare che lo sgombero in massa fossero eseguito – interi villaggi
vengono dati alle fiamme. Il 6 febbraio 1662 – non a caso a pochi giorni dalla capitolazione di Forte Zelandia
– la Corte mancese emana il secondo editto di proibizione della navigazione. Questi provvedimenti, che
distruggono totalmente l’economia locale e causano un numero incalcolabile di vittime, hanno come unico
obiettivo l’isolamento delle basi di Zheng Chenggong, sia quelle di Xiamen e Jinmen che quella di Taiwan, e
di impedire qualsiasi contatto della sua organizzazione con le regioni più interne, recidendo qualsiasi via di
approvvigionamento. Il primo risultato del provvedimento è un fenomeno di migrazione a Taian, favorito e
diretto dai Zheng, ma poi il decreto di sgombero delle coste crea effettivamente terra bruciata attorno alle
basi di Xiamen e Jinmen – private di ogni via di scambi e traffici con l’interno, le due postazioni non hanno
alcuna possibilità di sopravvivere. Dopo quasi un ventennio di combattimenti nel sud della Cina, per debellare
ogni focolaio di resistenza anti-mancese, i Qing non possono tollerare oltre l’esistenza di un centro di potere
che potesse minare l’attestazione della nuova dinastia. I Zheng continuano a rappresentare una minaccia
costante per la nuova dinastia, un potere da qualcuno considerabile più legittimo (per l’origine dei mancesi).
I Qing sembrano, in questa prima fase, disposti a pagare un prezzo alto pur di liberarsi una volta per tutte dei
Zheng: preferiscono una Taiwan olandese ad una lealista pro-Ming.

LA VOC E I QING: UNA CONTROVERSA ALLEANZA

Gli eventi che si accompagnano al problematico e faticoso dialogo tra Compagnia Riunita e autorità Qing
sono numerosi, di varia natura e contraddittori. La sorta di alleanza che si instaura subisce negli anni
interruzioni e modifiche, ed il difficile rapporto va avanti per circa un ventennio dopo la resa di Forte Zelandia,
per chiudersi con l’annessione di Taiwan all’impero Qing nel 1683, epilogo ultimo della Ribellione dei Tre
Feudatari, sedata nel 1681. La VOC esce da questo ventennio di trattative piuttosto frustrata, ma nel mezzo
ci sono periodi in cui essa effettivamente riesce a raggiungere alcuni obiettivi, come piccoli privilegi
commerciali specifici o la possibilità di insediamento in territorio cinese. Tali conseguimenti sono comunque
ritenuti poca cosa rispetto alle libertà che la Compagnia aveva ottenuto in altre sedi – riconosciamo in ciò un
errore della VOC, nell’impostazione dei rapporti con l’impero cinese: quello di presumere di poter mettere
in pratica una strategia analoga a quella impiegata altrove in Asia, basata sulla coercizione nei confronti delle
autorità locali. La leadership della VOC è convinta che, anche per la Cina, valesse l’idea che prima o poi le
autorità sarebbero state costrette a commerciare secondo tornaconto della Compagnia – niente di più
lontano dalle posizioni della diplomazia cinese, i cui portavoce a malapena tollerano i rudi e sgraziati ‘barbari
dal pelo rosso’. Persino Constantijn Nobel, raffinato e navigato diplomatico, non riesce ad allinearsi appieno
al protocollo cinese, commettendo controproducenti sviste ed omissioni – a questo si aggiungono
incomprensioni propriamente linguistiche, a volte insormontabili. In sintesi, i rapporti della VOC sono
raggruppabili in più fasi:

1) Prima alleanza, l’unica dai risultati concreti, viene realizzata negli anni 1662-1664 – in questo periodo le
flotte della Compagnia affiancano la marina imperiale Qing in un assalto comune alle basi continentali dei
Zheng;

2) Anni 1664-1669, le relazioni con i Qing si raffreddano per svariati motivi, contestualmente la VOC si insedia
nuovamente a Taiwan nella vecchia base spagnola;

3) Negli anni ’70 le comunicazioni hanno alti e bassi, con reciproca insoddisfazione – sono gli anni della Rivolta
dei Tre Feudatari;

4) Con gli anni ’80 c’è la fine di ogni possibile contrattazione per la VOC – dal 1685, con la ‘politica dei porti
aperti’, la dinastia Qing risponde alle richieste europee, ma la Compagnia Riunita ne beneficia assieme agli
altri europei, senza alcun privilegio.

L’ATTACCO CONGIUNTO AI ZHENG

All’indomani della morte di Zheng Chenggong l’organizzazione dei Zheng subisce una pericolosa
destabilizzazione: le basi di Xiamen e Jinmen, al cui comando è posto Zheng Jing, versano in circostanze di
disagio estremo, mentre Taiwan è ancora in assestamento. La repentina scomparsa del leader in frangenti
così delicato suscita panico e sbandamento tra i membri dell’organizzazione, che si tramuta in un’ondata di
defezioni verso il fronte mancese. La crisi è aggravata dalla netta scissione che si ha in seno all’organizzazione
per la designazione del successore. I Qing, consapevoli delle difficoltà nemiche, sfruttano l’occasione:
nell’estate del 1663 concludono un accordo con la Compagnia Riunita delle Indie Orientali e nell’autunno
successivo, con l’appoggio delle forze navali olandesi, prendono le basi continentali della resistenza. Il 20
novembre Zhou Quanbin, al comando delle milizie Zheng (insufficienti in numero ed armi) si trova a
fronteggiare la ben più forte coalizione nemica, accettando la resa e consegnando le due basi. Per la prima
volta dalla sua nascita, l’organizzazione dei Zheng si trova estromessa dal continente. Per quanto
problematica e contraddittoria, l’alleanza tra mancesi e VOC risulta in questo momento, per entrambe le
potenze, una strategia vincente. I vantaggi della Compagnia erano sia nell’immediato (possibile
riappropriazione di Taiwan), che in generale (possibilità, in quanto alleati, di porsi nei confronti delle autorità
mancesi su piano paritario, ed avere poi in un secondo momento giustificate pretese di rapporti commerciali
privilegiati con la Cina). In riconoscimento al sostegno ricevuto le autorità cinesi autorizzano la VOC a
condurre l’esercizio di commercio ogni due anni nell’area di Fuzhou, nel Fujian, ma sempre nella forma di
una missione tributaria ufficiale. L’attacco a Taiwan è però procrastinato.

LE CONTRADDIZIONI

Dopo la presa di Xiamen e Jinmen del 1663 le contraddizioni tra le due potenze, temporaneamente
accantonate, divengono presto evidenti – le rigide posizioni dei mancesi riguardo ai commerci con i paesi
stranieri (concepiti solo nell’ambito del sistema tributario) si conciliano male con le ambiziose aspettative
olandesi. Anche il diverso modus operandi delle due diplomazie contribuisce a malintesi e diffidenze. Ad
incidere è anche il fatto che i mancesi constatano ora le pericolose capacità belliche degli olandesi, che,
seppure usate ora in loro favore, suscitano preoccupazioni in merito ad un più stretto coinvolgimento della
Compagnia Riunita in questioni interne alla Cina, nonché il timore che queste stesse capacità potessero
essere rivolte contro l’impero cinese. Accanto a queste serie divergenze poi si fa strada una diversità di intenti
nel conseguimento del fine immediato: la Compagnia preme per un attacco a Taiwan in tempi brevi, per
tornare in possesso della perduta postazione dell’isola, mentre i Qing preferiscono una graduale e conciliante
politica di assorbimento dei sostenitori dei Zheng così da poter negoziare la pacifica sottomissione di Zheng
Jing, che avrebbe posto termine al lungo conflitto. I Qing in questo momento credono, erroneamente, di
poter guardare con minore urgenza alla questione dei Zheng, perché estromessi dal territorio propriamente
cinese. Erano passati già molti anni dalla presa di Beijing (1644) e bisognava ora concentrare l’attenzione sul
consolidamento del dominio sul territorio cinese. Proprio negli stessi anni, dal 1664 al 1668, la VOC riprende
il controllo della punta nord di Taiwan, la vecchia postazione spagnola, e preme perché le autorità Qing
continuino la campagna militare contro Zheng Jing. I Qing però rafforzano ulteriormente il veto sui mari e,
liberati i litorali, non intendono procedere nel conflitto. La VOC per di più aveva fallito nel mandare la sua
ambasceria tributaria nel 1666, con grande sdegno delle autorità cinesi, che vi avevano visto una gravissima
infrazione al protocollo diplomatico, oltre che un danno economico per i commerci andati in fumo:
l’ambasceria di Pieter van Hoorn (1666-1668), trattenuta da incomprensioni e lungaggini nel sud (a Fuzhou)
non era giunta in tempo a Beijing. Così la VOC perde il privilegio di commerciare ogni due anni. Questo
sarebbe stato però riconcesso negli anni 1676-1681, per poi essere revocato nuovamente al rifiuto opposto
dalla Compagnia Olandese di partecipare militarmente al fianco dei Qing nell’attacco a Formosa. La VOC
intanto cerca di barattare la postazione nel nord di Taiwan con una località sul continente- proposta
considerata fuori luogo ed inaccettabile per i mancesi. inaspettatamente però, forse per mera concessione
magnanima o noia, l’offerta è presa in considerazione dalle autorità cinesi che propongono un piccolo isolotto
sulla costa del Fujian – ancora più inaspettato è il rifiuto della VOC. Sempre in quegli anni la Compagnia apre
trattative con il regime dei Zheng a Taiwan per stabilire una sede della Compagnia Riunita nell’isola, questa
volta sotto il diretto controllo dei Zheng – le trattative falliscono, e nel 1668 la VOC si ritira definitivamente
da Formosa. Contemporaneamente anche l’ambasceria ufficiale inviata a Kangxi si conclude in fallimento.
ZHENG JING: IL RITORNO DELLA COMPAGNIA INGLESE

Pur avendo perso le basi continentali di Xiamen e Jinmen, Zheng Jing non si arrende e prende in mano le
redini del comando, cercando di rafforzare e rendere più stabile l’attestazione dei Zheng nell’isola di Taiwan.
Prosegue le iniziative a cui il predecessore aveva dato vita, soprattutto lo sviluppo dell’agricoltura (con
bonifica delle terre e ampliamento dei confini dell’insediamento cinese). Le motivazioni che avevano indotto
Zheng Chenggong a trasferire l’organizzazione nell’isola nonostante i forti pareri contrari, si erano rivelate
valide: i Zheng possono ora contare su una produzione agricola sufficiente al mantenimento della propria
comunità, e in questo senso la perdita di Xiamen e Jinmen non comporta gravi conseguenze. Anche il
commercio marittimo, preziosa fonte di entrate per le finanze dell’organizzazione, non deve essere
trascurato ed i vascelli dei Zheng riprendono a veleggiare lungo le note rotte mercantili. L’ideale posizione
geografica di Taiwan è un vantaggio di cui sin dai tempi di Zhilong si ha consapevolezza, ed anche durante il
periodo di insediamento della VOC l’isola non cessa di essere base fondamentale del mercantilismo cinese e
crocevia per lo smistamento delle mercanzie sulle rotte internazionale. Inoltre, sebbene (formalmente)
estromessi dal Fujian, i Zheng continuano a mantenere legami commerciali con le coste continentali. Dopo i
lunghi combattimenti contro i mancesi, in questo periodo di tregua Zheng Jing si può dedicare con rinnovato
vigore alle attività marittimo-commerciali, rendendo evidente che il dominio dei Zheng sui mari estremo-
orientali non era vicino alla fine - una nuova ambasceria viene inviata alle autorità spagnole di Manila: pur
non accantonando del tutto l’idea di attaccare la postazione spagnola delle Filippine, Zheng Jing sceglie la via
diplomatica della pacificazione (considerando un’impresa militare poco opportuna nella delicata situazione
– non è il momento di disperdere energie). L’isola di Manila è ricca di legname, e nuove imbarcazioni,
costruite sulla base delle assimilate cognizioni tecniche europee, rimpiazzano i vascelli danneggiati o distrutti
negli scontri con i Qing. Grazie alla cura posta nello sviluppo di agricoltura ed economia interna, nel giro di
qualche anno i Zheng possono destinare parte della produzione locale al mercato internazionale, in
particolare pellami e canna da zucchero (sui quali sembrava detenessero l’esclusiva per le importazioni in
Giappone). Gradualmente avviene un flusso di migrazione dal continente verso Taiwan (opposto a quello
avvenuto qualche anno prima), a testimonianza dell’avvenuto ristabilimento dell’organizzazione dei Zheng.
Sul finire degli anni ’60 Zheng Jing riafferma saldamente il predominio della sua organizzazione nell’ambito
dei traffici mercantili internazionali dell’Asia Orientale. Il contesto internazionale è però notevolmente
mutato rispetto alla prima metà del Seicento: la perdita di Taiwan è forse sintomo di un rallentamento della
forza d’urto che aveva animato la VOC dei decenni precedenti; inoltre, un altro elemento appare nel quadro
delle presenze europee in Estremo Oriente – l’Inghilterra – non più all’ombra della temibile alleata Olanda
(come nella fugace apparizione passata) ma come sua diretta e pericolosa antagonista. Nell’estate 1670
giunge da Banten (Indonesia) alle coste di Taiwan Ellis Crisp, inviato della Compagnia Inglese, con il compito
di intavolare una trattativa commerciale con Zheng Jing, al fine di aprire gli uffici della EIC nell’isola: il 10
settembre 1670 l’accordo è sottoscritto.

LA “RIBELLIONE DEI TRE FEUDATARI”

Con il sopraggiungere degli anni ’70 Zheng Jing passa da una tattica difensiva ad una strategia d’attacco: nel
1670 e poi nel 1673 assalta le missioni tributarie provenienti dalle Liuqiu; nel 1671 imperversa in più occasioni
lungo i litorali del Fujian. Tutte queste azioni indicano che Jing non considera conclusa la lotta agli usurpatori
mancesi, ed è pronto a riprendere le armi. Parallelamente contatta Wu Sangui, il più potente dei ‘feudatari’
che a breve avrebbero scosso l’ancora instabile impero dei Qing. Zheng Jing offre uomini e navi da affiancare
alle milizie di Wu per una vasta campagna militare contro i mancesi. Quando, dopo il segnale di rivolta
lanciato da Wu Sangui a fine dicembre 1673, la ribellione divampa, Zheng Jing è già pronto ad intervenire. Sul
finire dell’aprile 1674, Geng Jingzhong, dal Fujian, aderisce alla sollevazione e prende immediato contatto
con Zheng Jing. Nel maggio seguente le milizie dei Zheng salpano alla volta di Xiamen. Il biennio 1675-1676
vede maggiori adesioni al fronte dei ribelli e numerose vittorie: la sollevazione coinvolge più regioni della
Cina e minaccia l’attestazione mancese. Zheng Jing prende Quanzhou, Zhangzhou e Chaozhou, estendendo
sempre più il proprio controllo nelle aree costiere del meridione. Ancora una volta quindi i Qing sono costretti
ad ospitare l’organizzazione dei Zheng lungo le coste del Fujian. non appena riconquistata, Xiamen viene
riaperta ai commerci internazionali e sin dall’inizio la Compagnia Inglese vi stabilisce i propri uffici (1675).
Zheng Jing offre inoltre un triennio di esenzione dalle tasse sui traffici a tutti coloro che vi si recassero per
commercio: Xiamen rifiorisce, riproponendosi ancora come postazione chiave per l’accesso in continente del
mercantilismo internazionale. Come era già successo negli anni ’40-’50, i proventi ottenuti vengono utilizzati
da Zheng Jing per finanziare le milizie. Il ventennio trascorso aveva però reso i Qing più forti e saldi nel loro
dominio, e consapevoli delle difficoltà che avrebbe comportato attuare la completa pacificazione delle aree
costiere. Dopo l’espulsione dei Zheng nel 1663 i Qing avevano fatto seguire nel 1665 un provvedimento che
rafforzava l’interdizione ai commerci marittimi, isolando formalmente i Zheng dal continente, ma non
avevano effettivamente intentato altre azioni offensive. Negli anni immediatamente successivi, la calma
ristabilita aveva indotto i Qing ad allentare in parte la pressione esercitata sulle regioni costiere (anche per
un ‘ritorno alla normalità’ dopo la guerra). Tra 1668 e 1669 le autorità mancesi consentono il rientro delle
popolazioni nelle zone evacuate con il provvedimento del 1661 ed autorizzano una locale navigazione
costiera, seppure rigidamente controllata. Questa scelta ha riscontro nel graduale dissolversi della
cooperazione bellica con la Compagnia Riunita. Il diretto coinvolgimento di Zheng Jing nella ribellione e gli
eventi da essa scaturiti però riportano in primissimo piano la questione dei Zheng e di Taiwan - la Corte
Mancese, con alla guida l’Imperatore Kangxi (1662-1722), questa volta va fino in fondo. Nel 1678 il Fujian e
il Guandong sono nuovamente evacuati (rispettivamente a maggio e novembre), e viene ristabilito il veto alla
navigazione, ma i provvedimenti hanno scarsi risultati nell’immediato. Nell’ottobre dello stesso anno
scompare però Wu Sangui, e di conseguenza molti suoi sostenitori si arrendono, segnando una svolta decisiva
in favore dei Qing, che possono considerare sventato il serio pericolo di una sollevazione generale della Cina,
anche se la rivolta sarebbe stata completamente sedata qualche anno dopo, nel 1681. Kangxi può quindi
volgere le proprie energie alle coste: vengono ripresi i contatti con la Compagnia Riunita delle Indie Orientali
tra gli anni 1678-9, quando i Qing sperano in un aiuto militare olandese. Alla proposta di rinnovare la
coalizione contro i Zheng, la missione cinese riceve però un rifiuto – la VOC, memore delle passate delusioni,
non intende accettare un coinvolgimento diretto nelle questioni cinesi, che fino ad allora aveva recato ben
pochi frutti, perdendo però una buona occasione. La VOC inoltre in questo momento ha alla guida non più
l’energetico Maetsuycker, ma Rijckloff van Goens, non altrettanto brillante.

L’ULTIMO ATTO: L’ANNESSIONE DI TAIWAN ALLA CINA

Sebbene ancora incerti sulle proprie capacità marittimo-militari rispetto a quelle dei Zheng, i Qing non
possono ritardare oltre la soluzione del problema costiero – dopo lunghi preparativi Wan Zhengse, posto al
comando delle flotte imperiali Qing, nel marzo 168 guadagna l’area della baia di Quanzhou, per poi procedere
all’offensiva. Il compito si rivela piuttosto semplice: errori maldestri e sfortunati malintesi nel coordinamento
dei movimenti dei Zheng, sintomatici di un crescente nervosismo dinanzi l’avanzare delle milizie mancesi,
rendono superfluo il confronto militare. Il 10 aprile 1680 Zheng Jing abbandona il continente e si ritira a
Taiwan. Pur avendo come obiettivo principale l’espulsione dei Zheng dalle coste, i Qing non si arrestano,
perché una Taiwan in mano ai Zheng rappresentava una minaccia costante nelle regioni costiere, elemento
destabilizzante da neutralizzare. Nel 1681 Kangxi pone al comando della spedizione Shi Lang, distintosi nello
scontro con i Zheng del 1663. Shi Lang era stato un sostenitore di Zheng Zhilong e poi Zheng Chenggong, ma
passa al fronte mancese nel 1646, e da allora combatte incessantemente i Zheng – ha dunque notevole
esperienza nelle tattiche di combattimento in mare, e conosce in oltre le strategie e capacità nemiche. Ben
consapevole della strategica posizione di Taiwan, da lungo tempo aveva fatto presente alle autorità Qing la
necessità di prenderne possesso. Quando la coalizione con la VOC si dissolve ed ogni piano di conquista
dell’isola sembra essere abbandonato, Shi Lang, nel 1668, inoltra un memoriale al trono esprimendo le sue
obiezioni alla scelta di non intervento e proponendo un attacco alla postazione dei Zheng a Taiwan, non
ricevendo però ascolto. Anche successivamente sono molti ad essere contrari, ma Kangxi è convinto della
propria decisione: l’appoggio diretto dell’imperatore si rivela di notevole importanza nel condurre con
successo l’attacco all’isola di Taiwan e, successivamente, nella decisione di annettere l’isola al territorio
cinese. Le opposizioni alla spedizione sono presenti anche tra chi deve effettuarla, il che risulta in interruzioni
e ritardi, ma Kangxi è deciso a concludere la situazione, ed investe quindi Shi Lang di pieni poteri. Questi nel
luglio 1683 prende le Pescadores (Penghu), postazione cruciale per la difesa strategica di Taiwan. Nel marzo
1681 la morte prematura di Zheng Jing infligge un nuovo colpo all’organizzazione dei Zheng. Dopo sei anni di
scontri con i mancesi, la sconfitta in continente e le perdite così subite (uomini, commerci, potenziale bellico,
defezioni) avevano già danneggiato profondamente i Zheng. L’improvvisa scomparsa del leader aggrava
ulteriormente la situazione nell’isola. La violenta lotta fratricida che si scatena per la successione provoca poi
fratture e scissioni interne, e conseguentemente numerose defezioni. Con l’occupazione delle Pescadores
l’atteggiamento di risposta è ora di sconfitta, e nonostante tentativi di apertura verso il fronte mancese
nell’agosto 1683 i Zheng si piegano ai Qing senza condizioni. Quando le flotte di Shi Lang appaiono alle coste
di Taiwan, i Zheng erano già vinti. Completata la riorganizzazione di Taiwan, Kangxi da l’ordine che vi si lascino
a guardia le milizie imperiali. Divenuta Cina di fatto, con i Zheng, l’isola di Taiwan ne riceve anche il
riconoscimento formale con l’affermazione della sovranità Qing. Rifiutandosi di collaborare con i mancesi, la
VOC aveva fatto sfumare l’ultima occasione di stabilire un dialogo privilegiato con la Cina imperiale, ed anche
Taiwan era ora perduta.
CAPITOLO XV

LA COMPAGNIA RIUNITA A CANTON (1728-1794)

LA POLITICA MARITTIMA DEI QING

Con la definitiva pacificazione del meridione l’impero Qing considera concluso il processo di attestazione in
Cina, senza però distogliere l’attenzione dalle aree costiere (in questo, almeno in una prima fase, i Qing
prendono le distanze dalla politica dei predecessori Ming, operando per rispondere alle esigenze delle aree).
Questo anche perché i mancesi, volendo assicurarsi l’effettivo controllo delle province tendenzialmente
ribelli, devono fare in modo che queste godano di entrate sufficienti ad assicurarne la sopravvivenza, e i
traffici marittimi erano l’unica entrata oggettiva di quei territori costieri. Nel 1684 quindi le autorità Qing
annullano il veto contro la navigazione ed aprono 4 porti al commercio internazionale, consentendovi anche
l’approdo delle navi europee: Canton (Guangzhou), Amoy (Xiamen), Ningbo e Yundaishan. Con la fine del
divieto ai traffici marittimi il mercantilismo cinese ritrova vigore. Il commercio internazionale è però posto
sotto controllo diretto delle autorità tramite uffici e funzionari con incarichi specifici destinati a tale compito.
L’esazione delle tasse sui traffici marittimi diviene un’entrata importante per le casse dell’erario, così come
il massiccio arrivo d’argento per l’acquisto dei prodotti artigianali cinesi; inoltre, sebbene i mancesi fossero
favorevoli alla gestione privata dei commerci internazionali, l’autonomia di queste attività viene delimitata e
deve rispondere ai requisiti imposti dalle autorità. L’incarico ufficiale di supervisore dei traffici mercantili
privati è affidato ad un mercante del luogo con molta esperienza, scelto tra i più ricchi e fidati. Prende così
vita il sistema dei guangshang (mercanti-funzionari), ed in fase embrionale anche quello dei mercanti hong
(hang), gli unici autorizzati a porsi come interlocutori e intermediari dei commerci con gli europei. Per
distinguere le giunche cinesi in base al luogo di provenienza, le autorità impongono una diversificazione dei
colori (es. navi del Fujian con alberi dipinti in verde e marchi di identificazione in rosso; quelle del Guangdong
in blu con i caratteri in rosso…). Anche gli equipaggi variano di numero in base alle dimensioni, seguendo
norme e regolamenti precisi. Ben presto però la situazione sfugge di mano alle autorità: nel 1717 l’imperatore
Kangxi emana così nuovamente un decreto di proibizione alla navigazione. Ancora una volta il mercantilismo
cinese è costretto alla clandestinità o al trasferimento su altri lidi. Rimangono però escluse dal veto le
compagnie europee, che possono ancora approdare nei porti autorizzati.

CANTON
Nei decenni in cui le marinerie cinesi avevano goduto di più libertà (1684-1717) si erano notevolmente
sviluppate, rafforzando legami con le comunità cinesi sparse lungo tutte le coste del sud-est asiatico,
ampliando il volume complessivo dei commerci e migliorando il tenore di vita delle popolazioni delle province
meridionali. Anche il ricchissimo periodo Genroku (1688-1703) in Giappone, sinonimo di ‘origine della felicità’
e contraddistinto da sfrenato consumismo, contribuisce ad alimentare i traffici internazionali del
mercantilismo cinese, nonostante la limitazione della comunità cinese di Nagasaki all’interno del Tojin Yashiki
(‘Residenza delle genti Tang’, ovvero i cinesi), costituito formalmente nel 1689. Ovviamente il grande sviluppo
del mercantilismo cinese va a scapito dei commerci gestiti dagli europei e in particolare dalla VOC: le basi
europee divengono dipendenti dalla mediazione delle giunche cinesi ancor più di prima, perché nonostante
la possibilità di accesso e approvvigionamento diretto nei quattro porti, ciò costituiva solo una frazione dei
giganteschi traffici commerciali gestiti dalle compagnie europee. Il rinnovo del veto sui mari nel 1717 (fino al
1727), in concomitanza con le restrizioni del governo shogunale di Edo (shogun Tokugawa Yoshimone, in
carica 1716-1746), che limitano l’arrivo dei mercantili cinesi a soli 30 l’anno, colpisce al cuore il mercantilismo
cinese, tanto più che dalla proibizione ai traffici marittimi erano stati esplicitamente esclusi gli europei.
All’apertura dei porti cinesi al commercio estero, con l’arrivo dei legni mercantili stranieri, nasce un processo
di profonda rivalità tra le città di Ningbo, Xiamen e Canton – la prima riprende presto il ruolo di connessione
con l’arcipelago giapponese, mentre sono Amoy/Xiamen e Canton a contendersi l’arrivo dei bastimenti
europei. Negli anni 1699-1717 la EIC invia in Cina 43 navi (distribuite fra i due porti). Anche la Compagnia
Francese raggiunge la Cina per la prima volta nel 1699, seguita poi dalle Svedese e Danese, mentre la
Compagnia di Ostenda vi arriva solo nel 1717 ed è sciolta pochi anni dopo. Assente la VOC: questa continua
a mandare le sue rare navi a Canton fino al 1690, ma il fallimento dell’ambasceria di Vincent Paats negli anni
1685-7 inviata a Kangxi scoraggia non poco l’Alto Consiglio di Batavia e la VOC attende qualche decennio
prima di riaffacciarsi ai litorali cinesi. Nel frattempo, invece le altre compagnie europee si avvicinano nei porti
cinesi, e nella competizione tra le diverse città destinatarie dei traffici internazionali Canton emerge vincente,
perché porto privilegiato dagli europei. Le autorità mancesi, nel frattempo, volevano ordinare i commerci
internazionali, e per esercitare meglio il controllo decidono di concentrarli nel solo porto di Canton: nel 1757
la città diviene quindi l’unico porto aperto alle navi mercantili straniere. È in questa occasione che prende
forma definitivamente il sistema dei mercanti hong, poi trasformatosi in cohong (gonghang), a sua volta parte
del ‘sistema di Canton’ del ‘700. Sotto la supervisione dello hoppo, massima autorità vigilante sui commerci
internazionali in transito a Canton, solo i mercati autorizzati (hong) possiedono la delega ufficiale per fungere
da interlocutori commerciali con gli stranieri in territorio cinese.

LA VOC IN ASIA: VERSO IL DECLINO

L’assenza della Compagnia Riunita dai litorali cinesi si protrae per quasi 40 anni, se si calcola l’ultima nave del
169, ma di fatto è ancora maggiore. L’esperienza dagli anni ’60 non è certo proficua: non si riesce a stabilire
una base permanente in territorio cinese e Batavia, come la maggior parte delle sedi della VOC in Asia
Orientale, continua a dipendere quasi esclusivamente dalla locale comunità cinese (e dal relativo commercio
delle giunche) per il rifornimento di prodotti cinesi. Ovviamente la sconfitta a Taiwan e la profonda delusione
dovuta alle trattative fallimentari con i Qing influiscono sulle scelte della VOC fino a spingerla a concentrare
la sua attenzione su altri mercati. Gli eventi occorsi in Cina sono però solo il preludio ad una generale
riorganizzazione della VOC, annunciando una crisi in maturazione. Nel 1702 la Compagnia celebra il proprio
centenari, data accompagnata da grandi festeggiamenti. Nei fatti in questo momento la VOC è l’impresa più
ricca dei Paesi Bassi, dà lavoro a migliaia di dipendenti e rifornisce le casse dello stato, tiene alta la bandiera
dell’Olanda e ha sedi e basi in tutta l’Asia e una flotta in perfetto assetto, commerciale e militare. La struttura
portante della Compagnia mostra però segni di cedimento, perché la qualità e quantità dei servigi offerti
dalla Compagnia si abbassa molto: da fine Seicento le tipologie degli equipaggi sono di infimo livello, sono
pochi gli uomini validi per le navi – ciò produce conseguenze negative sia durante la navigazione che nelle
basi di destinazione, inoltre molti individui venivano da altri paesi europei e le defezioni erano numerose una
volta raggiunta l’Asia; per quanto riguarda la quantità, se nel 1674 la Compagnia disponeva di 124 navi
operanti nei mari asiatici, nel 1704 ne ha solo 81. Appaiono i primi confronti perdenti con la rivale Compagnia
Inglese, che sfrutta meglio le potenzialità del country trade. Nonostante l’alleanza Olanda-Inghilterra
sottoscritta contro la Francia nel 1689 dopo la Gloriosa Rivoluzione che porta sul trono inglese Guglielmo III
d’Orange, statolder delle Province Unite, e la regina Maria II, la competizione fra le due compagnie resta
accesa e talvolta violenta, soprattutto dopo l’espulsione degli inglesi da Banten nel 1682. I XVII signori
speravano che la fondazione di una ‘Nuova’ Compagnia Inglese in competizione con la ‘Vecchia’ potesse
indebolire l’espansione inglese in Asia, ma non è così: negli anni 1702-9 le due si fondono, rafforzando le
proprie potenzialità. L’esito incerto delle due prime guerre anglo-olandesi non contribuisce a rafforzare la
posizione della VOC: la prima guerra (1652-1654) è causata dal rifiuto olandese di entrare a far parte del
Commonwealth di Cromwell, con la conseguente decisione di emanare un Atto di Navigazione che obbligava
a trasportare le merci verso i porti inglesi esclusivamente su navi con bandiera britannica o dei paesi da cui
provenivano le merci, eliminando così l’intermediazione olandese; la seconda (1665-1667) è determinata da
rivalità di stampo coloniale. In questo periodo muta la natura stessa dei commerci tra Europa ed Indie
Orientali, perché al dominio assoluto delle spezie si sostituisce, nel corso del ‘600, una quantità di generi
diversi, in cui l’esportazione del tè dalla Cina si avvia a diventare una delle voci più importanti nei traffici
interasiatici, visto l’aumento della richiesta sul mercato europeo. La VOC, sebbene fosse stata la prima ad
introdurre il tè in Europa nel 1610, continua ad astenersi dal mandare i suoi mercantili a Canton fino al 1728,
e si accontenta di acquistare il prodotto a Batavia dalle giunche cinesi provenienti dal continente (a prezzo
più alto). Nel corso del ‘600 la VOC si impegna saltuariamente a distribuire del tè sui mercati europei, ma
senza investire più di tanto nella ricerca di un prodotto il cui approvvigionamento appariva difficile. È proprio
tra fine XVII e inizio XVIII secolo che il tè ottiene straordinario successo, divenendo la bevanda più amata in
Europa, particolarmente in Inghilterra. Di conseguenza la EIC rende il tè uno dei suoi prodotti di scambio più
importanti, divenendone dalla seconda metà del ‘700 suo principale (se non unico) esportatore. Anche le
esportazioni effettuate da altre compagnie inoltre sono dirette al mercato inglese, o meglio utili al
rifornimento del sistema di commerci (leciti e non) di cui approfittano i ‘vicini’ dell’Inghilterra. Il caffè
coltivato nelle piantagioni che la VOC impianta sull’isola di Giava come alternativa alle spezie tradizionali non
riesce a penetrare sui mercati asiatici, ma trova buona risposta in Europa: questa bevanda però all’epoca non
riesce a rivaleggiare con il tè. Contestualmente all’entusiasmo suscitato da questo in Europa, i servizi da tè e
tutta l’oggettistica in porcellana divengono importanti beni di lusso diretti nel Vecchio Continente. La VOC
infatti già dal ‘600 trova una propria dimensione commerciale nell’esportazione in Europa di porcellane cinesi
e giapponesi, soprattutto grazie alla base esclusiva in Giappone. Per contro però l’argento giapponese inizia
a scarseggiare (per la politica restrittiva Tokugawa), e viene sostituito da altri metalli preziosi che la VOC si
procura anche nei porti della Persia. Il pepe continua a rivestire una certa importanza per la Compagnia, ma
non primeggia più (come una volta) nei traffici marittimi, e lo stesso vale per noce moscata, macis e chiodi di
garofano, prodotti principali delle Isole elle Spezie, che perdono il loro fascino sui consumatori europei in
seguito alla diffusione di ricettari in cui le spezie hanno peso minore rispetto al passato. Nel 1770 il
governatore francese di Mauritius, Pierre Poivre, riesce a rompere il monopolio olandese, trapiantando con
successo alberi di noce moscata e di chiodi di garofano nell’orto botanico dell’isola, diffondendoli poi in altre
colonie francesi. La situazione internazionale nel Settecento è quindi mutata ed è ancora in mutamento – se
dopo la pace di Utrecht (1713) la gerarchia è la seguente [agente più forte nel country trade è la VOC, poi i
privati britannici, la corona portoghese, i privati portoghesi, la EIC, i privati francesi, la compagnia danese, la
compagnia francese, i privati olandesi, belgi e danesi. Nel corso del secolo si espande l’iniziativa privata] nel
corso del secolo l’iniziativa britannica si espande e il commercio della VOC subisce un regresso evidente,
perché i suoi mezzi si rivelano insufficienti per sostenere la concorrenza. Nel 1743 la VOC allenta il divieto di
commercio privato imposto ai suoi collaboratori con la speranza di rianimare le correnti di traffico, ma la
decisione arriva in ritardo – da tempo i funzionari della Compagnia partecipavano ai commerci inglesi, spesso
a danno degli stessi interessi della VOC (es. contrabbando nelle acque di Giava). Le disposizioni disciplinari
hanno un effetto irrilevante, anche perché persino i più alti dignitari, come il direttore generale (e poi
Governatore Generale) Jacob Mossel, negli anni ’40 partecipavano attivamente agli affari privati del
governatore inglese di Bombay (India occidentale), William Wake. La corruzione all’interno della Compagnia
opera a vantaggio degli inglesi, perché gli olandesi minacciati da provvedimenti disciplinari potevano sempre
rifugiarsi sotto la loro ala protettrice. A fine ‘700 nascono delle agency houses, ovvero regolari società di
finanziamento del country trade, attirate dalle potenzialità del mercato cinese. La VOC non riesce a tenere il
passo con le innovazioni, ed inizia il suo declino. Anche a causa delle opposizioni e discordie insorte tra i XVII
Signori e l’Alto Consiglio di Batavia riguardo la politica in Asia, la Compagnia rientra nel mercato di Canton
solo nel 1728, con eccessivo ritardo rispetto alla rivale britannica.

IL SISTEMA COMMERCIALE DI CANTON

Alla fine degli anni ’20 la EIC ha al suo attivo quasi un trentennio di esperienza nei commerci con la Cina, e
ciò significa molto in un contesto in cui le guanxi, ovvero le ‘relazioni’ giuste e l’amicizia di persone influenti
sono parte integrante di contrattazioni, compravendite, affari. Se inizialmente lo hoppo era stato disponibile
al dialogo con i delegati delle compagnie europee, che potevano interpellarlo con facilità, nel tempo questi
si trasforma in un potentissimo burocrate-mercante, del tutto inaccessibile. Gli unici con cui diviene possibile
rapportarsi sono gli hong, ovvero i mercanti in possesso di debita autorizzazione, a loro volta posti sotto la
direzione dello hoppo. Attraverso gli hong i delegati della VOC possono far pervenire eventuali richieste allo
hoppo e, sempre tramite loro, sono tenuti ad assolvere i doveri imposti dalle autorità cinesi, sia economici
(tasse) sia altri (legati all’insediamento straniero in territorio cinese). Trovare mercanti hong affidabili, che
pur cercando di profittare fossero in grado di seguire anche gli affari in comune adeguatamente agli interessi
della VOC, non è un compito facile, soprattutto considerando il ritardo con cui la Compagnia giunge a Canton:
i migliori mediatori sono già legati alle altre compagnie europee. In ogni caso, ambientandosi gradualmente
e nonostante le prime difficoltà, la VOC rimane a Canton fino al 1794, attraversando tutte le fasi della politica
marittima delle autorità imperiali Qing, che ricordiamo nel 1757 avevano limitato a Canton il commercio
internazionale, provvedimento rafforzato nel 1760, con la costruzione della cohong, un’associazione che
riunisce tutti i mercanti hong con l’esplicito avvallo governativo. In tal modo tutti gli europei sono soggetti
ad acquistare le mercanzie sulla base dei prezzi imposti dalla cohong. Per le autorità cinesi questa istituzione
significa liberarsi ulteriormente dell’onere di dover gestire direttamente i commerci con gli europei. Tuttavia,
un’istituzione alla quale vengono affidati tutti i rapporti con le compagnie europee crea non pochi problemi
dal punto di vista economico, sia ai delegati europei sia agli stessi mercanti cinesi. La cohong raccoglie infatti
i mercanti hong più potenti e affermati, ma taglia fuori tutti gli altri, e allo stesso tempo questo sistema così
rigido rende meno attraente, per le compagnie europee, il commercio a Canton. La EIC, ad esempio, tenta
varie volte di eludere le imposizioni sui pezzi, recandosi con le sue navi nei porti minori del meridione cinese
e contravvenendo così alle leggi Qing – per timore di rappresaglie però sono presto respinte dalle autorità
locali. Nella generale insoddisfazione suscitata dalla cohong, si insinua e sviluppa nuovamente il commercio
privato (sia cinese che europeo), anche oltre la legalità, decretando il fallimento dell’associazione governativa
di mercanti hong. Le giunche cinesi – quelle che avevano continuato a rifornire incessantemente le basi delle
varie compagnie europee in Asia – sono colpite allo stesso modo dal diritto di esclusiva concesso alla cohong,
e si muovono quindi facendo affari con gli europei lontano da Canton ancor più di prima ed eludendo così il
monopolio. Le Compagnie da parte loro sono felici di rifornirsi a prezzi più bassi delle stesse mercanzie,
esercitando un contrabbando vantaggioso sia per loro che per i funzionari cinesi coinvolti. Mantenendo però
le loro sedi nel porto di Canton, continuano a rifornirsi anche attraverso la poco conveniente cohong, perché
il sistema è nel complesso più efficiente e permette di accedere a prodotti esclusivi non disponibili
normalmente, ma anche per non provocare una reazione troppo forte da parte delle autorità mancesi. altri
mercanti europei trovano un espediente analogo: stanchi dei monopoli a lungo detenuti dalle compagnie
privilegiate, ognuna nel suo ambito territoriale di appartenenza, cominciano a dar vita ad associazioni senza
nazionalità (sistema simile a ‘commercio delle giunche’, sia per natura privata del sistema sia per le modalità
di network seguite). Con questi mercanti autonomi, che viaggiano su mercantili senza nazionalità i cui
equipaggi sono di composizione eterogenea, sono determinate le sorti delle compagnie di bandiera e il
definitivo declino del mercantilismo cinese. Si gettano infatti le basi delle future trasformazioni
ottocentesche, che vedono prima il trionfo della libera iniziativa privata nei commerci interasiatici e poi
l’intervento diretto dei governi europei nelle faccende politiche e militari, fino alla trasformazione di India,
Indonesia e Indocina in autentiche colonie, mentre Giappone e Cina mantengono a stento l’indipendenza.

LA VITA DEGLI OLANDESI A CANTON

Nel periodo di insediamento (1728-1794) la Compagnia Riunita mette in atto, come di consueto, la struttura
organizzativa per dar vita alla sede di Canton. A differenza di altre basi, dove la VOC aveva potuto esercitare
indiscussa autonomia, gli ufficiali della Compagnia di stanza a Canton devono rispondere alle autorità cinesi
e sottostare alle leggi del paese. Le autorità olandesi di Canton fanno in modo che tutti i servants della VOC
osservino scrupolosamente le leggi cinesi, mantengano costantemente un contegno adeguato (nel parlare,
vestire, pulizia personale, modi), nonché un comportamento corretto ed estremamente rispettoso sia
all’interno del quartiere olandese sia all’esterno (zona condivisa con altre compagnie), cosa non sempre
facile, ad esempio nel caso di marinai appena giunti e poco avvezzi alle buone maniere. L’area occupata dalla
sede olandese era situata nella sottile striscia di terreno, assegnata alle compagnie europee, che affacciava
sul Fiume delle Perle; uno spazio al di fuori della cinta muraria è destinato ad accogliere gli insediamenti
occidentali, il cui ingresso è vietato alla popolazione cinese di Canton: l’accesso è consentito solo alle autorità
cinesi e agli hong in rapporti d’affari con le compagnie. Ai delegati europei, a loro volta, è precluso l’accesso
alla città cinese (rare eccezioni motivate, con adeguata scorta). Tra i due insediamenti esisteva una sorta di
zona neutrale, in cui i ricchi mercanti cinesi a volte possedevano una seconda abitazione, luogo di incontro
(in caso di occasioni speciali e festività) in cui organizzavano banchetti e rinfreschi con gli ospiti europei – si
trattava di piacevoli opportunità di vita sociale per i solitari delegati olandesi, sebbene connesse all’attività
lavorativa: mantenere rapporti cordiali e di amichevole frequentazione è parte integrante delle trattative
commerciali. Una lunga contrattazione precede infatti la firma degli accordi commerciali con modalità precise
(secondo le consuetudini cinesi) e accompagnata da un reciproco scambio di doni: è una parte necessaria alla
buona riuscita dell’accordo, che mette però in difficoltà i funzionari della VOC, cui è proibito accettare regali
personali (per evitare corruzione), e i doni vengono quindi inviati a Batavia, dopo debita annotazione nei
registri della Compagnia (comunque a volte si contravviene alle regole e lo scambio di doni personali
avviene). La Compagnia non riesce mai ad evitare il contrabbando, cui si dedicano spesso e volentieri i
servants della VOC presso tutte le basi. All’interno del quartiere olandese il Consiglio e il suo presidente sono
le massime autorità della VOC in Cina: spetta a loro ogni decisione riguardante la gestione della sede di
Canton e dei traffici commerciali in transito. Il personale della VOC conta numerosi servants dalle diverse
mansioni, in ordine gerarchico; solo dalla seconda metà del ‘700 alcune mansioni più umili sono assegnate a
personale esterno. Per mantenere massima discrezione tutti i dipendenti della VOC devono prestare
giuramento di fedeltà, impegnandosi a non divulgare informazioni relative alle attività della Compagnia. Due
volte al giorno, alle 8 del mattino e della sera viene eseguita l’ispezione dell’intera sede, per verificarne
l’ordine. Poiché è necessario poter disporre all’occorrenza di denaro contante, esso viene custodito in
un’apposita cassaforte a quattro serrature, le cui chiavi sono assegnate a quattro diversi dipendenti. Altro
compito fondamentale è la redazione dei registri: ogni attività viene debitamente annotata. I resoconti
relativi ai mercantili in transito a Canton costituiscono il grosso della documentazione, dettagliatamente
redatta e riguardante ogni singola merce, con relativa compravendita. Abbiamo visto che il rapporto con le
autorità cinesi è mediato dai mercanti hong per la maggior parte dei casi, ma quando non lo è risulta
comunque necessario un interprete. Fino ai primi del ‘700 è in uso il portoghese, poi si comincia ad utilizzare
un inglese ibrido (pidgin), misto al portoghese ed arricchito da terminologia cinese e malese. Nel complesso
l’esperienza olandese a Canton è contraddistinta da una costante attenzione per la realtà circostante da parte
dei delegati per poter modulare il proprio modo di agire in sintonia con leggi, consuetudini e aspettative del
paese ospitante, sia nel rapporto con le autorità cinesi che nel trattare con i partner commerciali. Il sistema
di Canton funziona fino a fine ‘700 senza causare attriti rilevanti, con un equilibrio soddisfacente da entrambe
le parti: gli europei si approvvigionano dei raffinati prodotti cinesi a condizioni ragionevoli e basso rischio; i
cinesi ottengono crescenti proventi doganali dal commercio internazionale e mantengono contatti non
troppo compromettenti con l’esterno.

LA FINE DELL’AVVENTURA

Sulle ragioni dello scioglimento della Compagnia il dibattito storiografico è molto vivace – gli storici non
concordano ancora. L’ultimo giorno di validità dello statuto ufficiale data 31 dicembre 1799: dal 1° gennaio
1800 la VOC non esiste più. Numerosi sono gli elementi che concorrono al declino e poi crollo della
Compagnia: come abbiamo visto nel ‘700 prende forma un nuovo assetto internazionale in cui la VOC perde
centralità; il confronto incessante (e perdente) con la rivale inglese EIC contribuisce al declino della
Compagnia, costretta a cedere molte sue postazioni alla concorrente anche a causa delle guerre anglo-
olandesi. La VOC è battuta dalla Compagnia Inglese su due fronti che finiscono per sommarsi – nella
competizione commerciale sulle rotte asiatiche e sul fronte militare (i conflitti tra Paesi Bassi e Inghilterra
terminano con la sconfitta olandese e la cessione all’Inghilterra delle basi della VOC in Asia). I danni inferti
alla Compagnia sono enormi, a cominciare dalla totale esclusione olandese dal mercato indiano. Le continue
sconfitte militari inoltre denotano una preoccupante deficienza nella struttura portante della Compagnia –
le flotte – abbiamo già visto i problemi legati a qualità e quantità degli elementi, ma bisogna considerare
anche l’aumentata mortalità a bordo, i continui naufragi, la ridotta capacità bellica. A inizio XVIII secolo i Paesi
Bassi perdono il primato nella cantieristica, ora in possesso di inglesi e francesi, e le loro navi non sono più in
grado di difendere un impero mondiale – le navi olandesi appaiono ora troppo costose e meno robuste di
quelle delle concorrenti, che possono contare su più ampie risorse umane, finanziarie e di materie prime.
Nelle sedi in Asia, intanto, si registra un generale lassismo tra i servants (soprattutto tra gli ufficiali superiori),
perché l’arricchimento personale è spesso anteposto agli interessi della Compagnia, tramite contrabbando,
estorsione ed abuso di potere. La corruzione dilaga tra le alte sfere della VOC, e ciò costituisce una seria
aggravante per la vita economica della società. Secondo i suoi detrattori, sotto il Governatore Generale
Speelman (carica 1681-4) le vendite di tessuti calano del 90%, uomini liberi sono venduti come schiavi e
vengono pagate truppe inesistenti – per far luce su ciò i XVII Signori nominano dei commissari ad acta che
però non riescono a sanare la situazione. Nel 1679 si scopre che il capo dell’agenzia commerciale del Bengala
gestiva, sotto copertura della moglie, un imponente traffico di articoli di grande valore e scarso volume, in
particolare l’oppio, tutti procurati tramite canali e navi della Compagnia. Molti alti funzionari olandesi vivono
una vita oziosa e di lusso; quindi, dispendiosa – la nomina a posti di rilievo si basa da sempre su legami di
sangue ed amicizia piuttosto che sulle reali capacità dei candidati; Batavia diviene quindi famosa per lo stile
di vita squisitamente coloniale che vi conducono i delegati e le loro famiglie, dalle case sontuose con stuoli
di servitori indigeni. È nella trasformazione da sede commerciale a capitale coloniale che si individua un altro
elemento importante della decadenza della VOC. Gli eventi che si susseguono per tutto il ‘700 a Batavia, una
volta ‘Regina d’Oriente’, la trasformano in un luogo di morte: malaria nella seconda metà del secolo, ma già
nel 1721 la VOC deve sedare una rivolta dei giavanesi; nel 1740 il massacro dei cinesi (circa 10.000 civili)
continua a fomentare atti di guerriglia fino al 1743, quando l’aumento delle spese militari per mantenere il
controllo su vaste zone dell’isola rende troppo oneroso il bilancio della filiale orientale della Compagnia.
Intanto in India, dopo aver costretto lo Zamorin di Calicut a sottomettersi al dominio olandese ed espellere
gli altri europei, la VOC non riesce a mantenere il potere (nel 1715 il sovrano è convinto dagli inglesi a ricusare
il trattato). Dopo una sanguinosa disputa nel 1721 la Compagnia rinuncia a pretese di dominio sul commercio
delle spezie lungo le coste del Malabar, lasciandolo in mano alla EIC. Una spaccatura tra Alto Consiglio di
Batavia e i XVII Signori costituisce un ulteriore aggravante: negli anni ’40 l’Alto Consiglio di Batavia autorizza
la creazione di una zecca autonoma che comincia a coniare monete in loco, per disporre di mezzi di
pagamento adeguati ai mercati di riferimento. Gli Stati Generali e i XVII Signori intervengono subito per
fermare l’iniziativa, ma l’episodio è sintomatico del clima di eccessiva autonomia di Batavia. La politica della
VOC volta al contenimento dei prezzi in Indonesia, all’eliminazione della concorrenza e alla limitazione della
produzione porta al crollo dei mercati locali e al dilagare di povertà e pirateria. Il declino di Batavia è solo la
punta dell’iceberg: a metà ‘700 la VOC perde influenza in Malesia, subisce attacchi nello Stretto di Malacca,
è precaria nel Borneo e nelle Molucche. A Cerylon nel 1761 scoppia un conflitto armato che si conclude con
una vittoria olandese a caro prezzo, perché gli oppositori riescono a dominare lo Sri Lanka negli anni 1765-
85. Intanto nello stesso periodo ricordiamo che la VOC perde le agenzie commerciali indiane contro
l’Inghilterra (1780-3). Anche Sumatra cade in mano agli inglesi, e la roccaforte della Compagnia, l’Indonesia,
è violata più volte. Per conservare un’immagine di successo la Compagnia continua a pagare i dividendi agli
azionisti, ma è un espediente, perché per farlo deve chiedere prestiti – nel 1790 ha un debito di 81 milioni di
fiorini. Nel contesto più prettamente estremo-orientale la situazione è altrettanto grave: a Deshima gli
olandesi sono abbattuti per l’assenza di beni - in alcuni periodi l’invio annuale della nave di raccordo
commerciale da Batavia è ritardato, a volte per più anni di seguito, con grave preoccupazione dei delegati
olandesi che non sanno come giustificare ciò con le autorità giapponesi. La base giapponese stenta
economicamente e i suoi rappresentati sono in balia delle autorità locali, rischiando spesso di chiudere.
L’insediamento olandese di Deshima però, nonostante la crisi, vive più della VOC (fino a metà ‘800 circa),
perché una finestra sugli ‘altri mondi’ era utile sia a Giappone che Olanda (poiché di lì a breve il conflitto
avrebbe ridefinito gli equilibri internazionali sia in Cina che Giappone, con l’apertura forzata dei porti alle
navi occidentali). Sappiamo che la base di Canton resiste fino al 1794, e nel 1800 la Compagnia è sciolta.

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