Sei sulla pagina 1di 7

SAN GIROLAMO MERISI MICHELANGELO DETTO CARAVAGGIO

(Milano 1571 - Porto Ercole 1610)

olio su tela; 116 x 153 cm. Roma, Galleria Borghese


Quando Michelangelo Merisi, conosciuto come Caravaggio, dipinge il San Girolamo ha 34
anni. A quel tempo è già famoso per il suo talento e per la sua pittura rivoluzionaria, ma
anche per il suo carattere intemperante che lo metterà nei guai un anno dopo, il 28 maggio
1606, quando uccide in una rissa il malvivente Ranuccio Tomassoni e fugge a Napoli e poi a
Malta, sempre protetto dalla famiglia dei Colonna.
Nato a Milano nel 1571 e morto nella cittadina toscana di Porto Ercole nel 1610, Caravaggio
opera a Roma, Napoli, Malta e Sicilia. Stando a quanto tramandato dallo storico Giovanni
Pietro Bellori nel libro La vita di artisti, scultori e architetti contemporanei del 1672, il
capolavoro esposto ora nella Basilica Palladiana e proveniente dalla Galleria Borghese di
Roma, venne commissionato dall’artista dal cardinale Scipione Borghese, raffinato
collezionista e grande estimatore del pittore lombardo.
Il tema del San Girolamo è ricorrente in Caravaggio tanto che un altro suo dipinto con questo
soggetto venne esposto a Malta, a La Valetta, nella cattedrale di San Giovanni. San Girolamo
è stato creato per il cardinale Scipione Borghese nel XVII secolo e divenne parte della galleria
della famosa famiglia principesca a metà del XVII secolo. Il quadro raffigura un uomo
anziano, chiuso in una stanza spoglia, avvolto in una tunica rossa come in un sudario.
È minuto, se paragonato ai libri enormi che si affastellano sul piccolo tavolo e che
simboleggiano l’immensità della conoscenza. È scarno, ma non fragile. San Girolamo è infatti
un’asceta il cui braccio porta la penna al calamaio con un gesto potente.
Il Santo sta traducendo la Bibbia dal greco al latino. È talmente concentrato nel leggere e
nello scrivere da non avere tempo di alzare lo sguardo verso di noi. Deve portare a termine
il suo compito e prega di avere il tempo per farlo. La disposizione degli oggetti sul tavolo dà
origine a una certa simmetria che nasconde un significato profondo: la superiorità della
santità sulla fragilità umana.
In una delle prime descrizioni del quadro, Giovan Pietro Bellori scrive che Caravaggio
«dipinse San Girolamo che scrivendo attentamente distende la mano e la penna al calamaio»
(1672). In quella parola, distende, c’è tutta la forza di questo dipinto: il braccio attraversa il
quadro e collega lo spazio dell’uomo a quello dell’altra presenza che emerge nella stanza
spoglia in penombra, il teschio. Quest’ultimo, spesso associato ai libri, è tipico della Vanitas,
la natura morta che simboleggia una riflessione sull’ineluttabilità del Tempo che tutto
divora. Al braccio di San Girolamo Caravaggio ha affidato l’unico moto di tutta la scena, un
braccio disteso nella scrittura e nello studio, che sfida il tempo e lo tiene aggrappato alla
vita.

Nel 1693 il San Girolamo venne attribuito al Caravaggio destando un’accesa discussione:
qualcuno sosteneva infatti che l’opera fosse stata realizzata per mano del pittore spagnolo
José de Ribera, ma in seguito questa tesi venne riconosciuta come infondata.
Datazione 1606 circa
il quadro esplora la fragilità umana di
fronte alla sapienza divina, riflettendo
sul concetto del tempo e della
spiritualità

Secondo quanto tramandato da Giovanni


Pietro Bellori, il dipinto fu eseguito
dall’artista per il cardinale Scipione
Borghese, raffinato e avido collezionista,
noto tra i suoi contemporanei per essere
uno dei più grandi estimatori del
promettente pittore lombardo.
Il dipinto rappresenta San Girolamo,
dottore della Chiesa, intento a studiare le
Sacre Scritture che secondo la tradizione furono da lui tradotte dal greco al latino. Il santo è infatti
presentato per le sue qualità di uomo di studi, ritratto come un anziano umanista piegato dalla
complessa esegesi del testo sacro.
La partizione compositiva in due grandi campi di colore, caratterizzata da toni caldi - come
l’incarnato del santo e il manto purpureo - e quelli freddi - il libro aperto su cui campeggia il teschio
e il drappo bianco - sembra voglia enfatizzare un dialogo simbolico tra contenuti di natura opposta:
vita e morte, passato e presente.
Per l’esecuzione rapida di alcuni dettagli e per l’immediatezza della stesura del colore, parte della
critica ha ipotizzato che la tela non sia mai stata terminata.

Caravaggio sceglie di raffigurare il santo posto di tre quarti su un formato orizzontale, quasi a
voler rappresentare una natura morta della quale san Girolamo non è figura esterna, ma parte
integrante, a rivestire un ruolo pari a quello della carta, del teschio e della tavola su cui sta
studiando. In relazione alle raffigurazioni fiamminghe della natura morta, ogni elemento ha nel
dipinto un significato simbolico determinato anche dalla sua collocazione. Per esempio il capo
reclinato del santo istituisce un rimando spaziale al teschio poggiato sulla scrivania. Alla
scarsità di elementi nella composizione fa eco anche una sobria varietà di colori, un discreto
repertorio di marroni, bruniti, a cui fa da padrone la vivacità cromatica del rosso del manto di
san Gerolamo, e del panneggio bianco che ricade dalla pila dei libri.

Nel dipinto San Girolamo è raffigurato come uomo di studi dedito alla conoscenza.
I toni freddi e caldi della tela evocano il rincorrersi degli opposti, la vita e la morte,
il passato e il futuro e, in generale, lo scorrere inesorabile del tempo.

Di quest'opera Caravaggio fece un'altra versione conservata nella concattedrale di San Giovanni a La
Valletta (Malta).
Il San Girolamo scrivente è un dipinto di Caravaggio realizzato in olio su tela (117x157 cm) nel 1608
Il committente dell'opera fu Ippolito Malaspina, uno degli
alti funzionari dello Stato monastico dei Cavalieri di Malta,
che avrebbe così voluto essere associato con l'ascetismo
del Santo. Dal XVII secolo, e con l'eccezione di alcune
mostre temporanee, il dipinto non ha lasciato l'isola di
Malta, ma ha conosciuto diversi luoghi di installazione,
rubato nel 1984, fu ritrovato quattro anni dopo e godette
di un importante restauro alla fine dell'XX secolo. Il suo
stato di conservazione, tuttavia, non è ottimale.
Il dipinto mostra un uomo situato in ciò che sembra, per
la piccolezza, una cella monastica, con una luce che gli
riflette addosso. Il personaggio appare quasi nella sua
interezza. È un uomo barbuto e anziano, con un volto solcato da rughe. È senza camicia, una toga
rossa copre il fondo della sua pancia e le gambe. Si siede sulla sporgenza di un letto e si poggia su un
tavolo per scrivere in un libro di spessore e dimensioni medie. Il suo corpo è ruotato al limite
dell'impossibilità fisiologica: la sua gamba destra è girata a sinistra dello spettatore e il suo busto ruota
verso destra. Infine la sua testa è coronata da un'aureola appena visibile.
In quest'opera, Caravaggio propone un trattamento di grande intensità psicologica, limitando gli effetti
pittorici al fine di focalizzare l'attenzione sulla spiritualità del personaggio e la scena, giocando
soprattutto sul gioco delle ombre: la tavolozza dei colori è limitata, la composizione è dura e
l'arredamento più sobrio possibile. Questo approccio è tipico della tarda via del pittore lombardo, che
nel corso degli anni ha lasciato alcuni approcci enfatici al suo lavoro giovanile per favorire una messa
in scena di spiritualità e di introspezione, traendo ispirazione dalla statuaria antica. Caravaggio dovette
fuggire da Roma poco prima, dove era stato processato per omicidio; questo dipinto, insieme a quelli
che verranno dopo, è un'opera d'esilio in cui l'intensità spirituale corrisponde ai suoi tormenti interiori e
alla sua disponibilità di redimersi.

San Girolamo compare molto frequentemente nei dipinti del


periodo della Controriforma cattolica. Lo stesso Caravaggio
eseguì almeno altre due tele con lo stesso soggetto, ovvero
il San Girolamo penitente (conservato al Museo di Montserrat)
e un altro “scrivente” che si trova invece a Malta.
Il San Girolamo scrivente conservato nella Galleria Borghese
di Roma è dei tre il più esemplificativo dello stile caravaggesco,
a partire dalla splendida rappresentazione della natura morta
sul tavolo e dal forte impatto cromatico dato dal mantello rosso
che avvolge la figura del santo. Caravaggio descrive Girolamo
come un anziano curvo sui libri delle Sacre Scritture, più attento
alla sua figura di studioso che a quella di eremita penitente
quale fu. L’uomo è concentrato nel suo lavoro di spiegazione
critica del testo biblico, al fine di comprenderne a fondo il
significato e di divulgarlo ai fedeli. La testa intenta alla lettura e
all’interpretazione si oppone simbolicamente alla vanità dei
beni terreni, rappresentata dal teschio.
Si confrontano così vita e morte, passato e presente, in un
dipinto che infatti si divide in due grandi campi di colore. L’uno caratterizzato dai toni caldi della pelle
del santo e del suo mantello, l’altro dai toni freddi del panneggio bianco che ricade sulla pila di libro e
delle pagine di carta su cui campeggia il teschio. L’esecuzione è molto rapida, data da immediatezza
nella stesura del colore, applicato con pennellate ben evidenti.
Magistrale e naturalmente tipico di Caravaggio è l’utilizzo della luce che qui irrompe in un ambiente
appena accennato, facendo emergere dal fondo i colori, dal rosso passando per una varietà di marroni
bruniti fino ad arrivare al bianco. L’artista non si concede a idealizzazioni estetiche nel raffigurare il
santo, bensì si sofferma su dettagli come le rughe della fronte o la lunga barba grigia e incolta. Un vero
capolavoro di grande realismo.
Le quattro età dell’uomo 1621-25
Antoon van Dyck (Anversa 1599 - Londra 1641)
olio su tela; 115,5 x 167,7 cm. Vicenza, Museo Civico di Palazzo Chiericati
il dipinto mette a confronto le fasi della vita umana con le stagioni della natura
La tela è uno dei lavori eseguiti dal grande pittore
fiammingo, formatosi con Rubens, durante il suo
lungo periodo di permanenza in Italia (1621-27).
A Vicenza Van Dyck si fermò nel viaggio che da
Venezia lo portò a Mantova dai Gonzaga.
Le età del titolo sono personificate dai personaggi
raffigurati: il bambino dormiente è l’infanzia; la
fanciulla a destra è la giovinezza; l’uomo armato
sedotto dalla donna rappresenta la maturità (ma
la donna può anche semplicemente essere
considerata in relazione a lui e per questo il titolo
a volte lo si trova come “le tre età”, altre come “le
quattro età dell’uomo”); l’anziano sullo sfondo,
infine, è la vecchiaia.
Secondo un’altra lettura, in chiave mitologica, gli
stessi personaggi possono essere interpretati
come Cupido, gli amanti Venere e Marte, e
Vulcano, marito tradito della dea della bellezza.
L’opera sembra proprio dare espressione al tempo che scorre: dal candore del corpo del bambino,
abbandonato nel sonno, prosegue lungo il braccio della donna fino al suo volto. Uno sguardo intenso
e trepidante unisce i due giovani, mentre l’uomo, con gesto sicuro, tocca il braccio dell’amata. Il
vecchio in lontananza, puntando il dito verso il basso in direzione del bambino, sembra chiudere
idealmente il percorso. L’andamento circolare simboleggia l’abbandono dell’uomo all’inesorabile
passaggio del tempo.
Antoon van Dyck, pittore fiammingo formatosi nella bottega di Pieter Paul Rubens, dipinse questa tela
durante un suo lungo soggiorno in Italia, quando da Venezia si spostò a Mantova ospitato presso la
corte dei Gonzaga. È ancora presente in questo capolavoro, opera di un artista ormai maturo e
pienamente affermato, la lezione del maestro Rubens, evidente soprattutto nella resa delle figure e nei
loro incarnati. La pennellata sobria e l’attenzione alla modulazione degli effetti di luce, tuttavia,
spiccano quali tratti distintivi del linguaggio di Van Dyck, influenzato dalla pittura veneziana e in
particolare da Tiziano
L’opera è costruita secondo un moto ellittico che dal candore del corpo del bambino, abbandonato nel
sonno, prosegue lungo il braccio della donna fino al suo volto. Uno sguardo intenso e trepidante unisce
i due giovani, mentre l’uomo, con gesto sicuro, tocca il braccio dell’amata. Il vecchio in lontananza,
puntando il dito verso il basso in direzione del bambino, sembra chiudere idealmente il percorso.
Questo andamento circolare, vuole esprimere l’abbandono dell’uomo all’inesorabile scorrere del
tempo
Verso il 1620 il pittore fiammingo Antoon van Dyck (nato ad Anversa nel 1599 e deceduto a
Londra nel 1641) realizza Le quattro età dell’uomo, uno dei capolavori più importanti dei
Musei civici di Vicenza, custodito a Palazzo Chiericati. Nel 1665, nell’inventario della
collezione del suo proprietario, il duca di Mantova Carlo II Gonzaga, il quadro è identificato
come «le quattro età del van Dic».
Dello stesso soggetto si ha traccia in un dipinto perduto di Giorgione definito «il simbolo
dell’humana vita» dove erano rappresentati un bambino, un uomo armato, un giovinetto e un
vecchio senza abiti. La stessa iconografia la ritroviamo in questo dipinto che ha chiaramente
come protagonista il tempo, colto in diverse sfaccettature.
In van Dyck è il tempo umano che incrocia quello incalzante delle stagioni: il bambino è
l’infanzia associato alla primavera, la donna è la giovinezza rappresentata con l’estate,
l’uomo in corazza è la maturità raffigurata nella stagione dell’autunno e, infine, l’uomo
anziano è la vecchiaia, metafora dell’inverno, il periodo in cui tutto muore per poi rinascere.
Nato ad Anversa nel 1599, van Dyck diventa ben presto noto per i suoi ritratti e per i soggetti
mitologici e religiosi dei suoi dipinti. La sua famiglia, molto benestante, incoraggia il talento
del giovane, allievo di Pieter Paul Rubens, che viaggia in Italia come prevedeva all’epoca il
classico Grand Tour, il viaggio di formazione dei promessi artisti e intellettuali.
Qui in Italia ha modo di conoscere Tiziano, il suo modello, e di immergersi nel pieno
Rinascimento italiano. È infatti in questo periodo che van Dyck dipinge l’opera in mostra,
quando da Venezia si sposta a Mantova, ospite della corte del Gonzaga. È ormai un pittore
maturo e famoso e si distingue per una pennellata sobria e attenta alla modulazione degli
effetti di luce.
L’opera sembra proprio dare espressione al tempo che scorre: dal candore del corpo del
bambino, abbandonato nel sonno, prosegue lungo il braccio della donna fino al suo volto.
Uno sguardo intenso e trepidante unisce i due giovani, mentre l’uomo, con gesto sicuro,
tocca il braccio dell’amata. Il vecchio in lontananza, puntando il dito verso il basso in
direzione del bambino, sembra chiudere idealmente il percorso. L’andamento circolare
simboleggia l’abbandono dell’uomo all’inesorabile passaggio del tempo.
Il quadro è anche in dialogo con Venere, Marte, Amore e il Tempo del Guercino tanto che si
pensa che sia stato questo il modello per il pittore fiammingo. In entrambi troviamo un
ritmo circolare che allude ancora una volta allo scorrere del tempo, concetto che mette in
relazione ogni dipinto della mostra. In questo caso si può leggere il dipinto in chiave
mitologica, ma il senso non cambia: che i due giovani amanti siano Marte e Venere, il
bambino un Cupido dormiente e il vecchio Crono che ricorda che anche l’amore è effimero,
il messaggio ci riporta sempre alla stessa riflessione sull’inesorabile fluire del tempo.

Le Tre età dell'uomo (conosciuto anche come la Lezione di canto) è un dipinto a olio su
tavola (62x77 cm) di Giorgione, databile al 1500-1501 circa e custodito nella Galleria
Palatina a Firenze.
Nella scena sono presenti tre personaggi, di età differenti,
su fondo scuro: il giovane al centro legge un foglio su cui
sono vergate due righe di un pentagramma; l'adulto alla
sua sinistra indica lo stesso spartito e parla al giovane, lo
capiamo perchè ha le labbra socchiuse.
Poi c’è un vecchio che guarda l'osservatore. I tre
personaggi sono ritratti a mezzo busto. Presumibilmente si
tratta dello stesso uomo, rappresentato in tre momenti
della sua vita.
Lo sfondo scuro e le figure che ne emergono lentamente
richiamano Leonardo e, in generale, il modo di dipingere fiorentino. Infatti, le vesti e gli
incarnati emergono dallo sfondo gradualmente, con il procedimento dello "sfumato"
tipicamente Leonardesco.
Anche la stesura pittorica con sottili velature deriva da Leonardo, con attenzione
meticolosa nei dettagli, come le capigliature dipinte spesso con sottilissime pennellate.
L'elemento allegorico trainante, spesso presente nei quadri di Giorgione, è in questo caso
la musica, espressione dell'animo stesso dell'uomo e dell'armonia che lega l'esistenza.
“Non si tratta, in realtà, di una lezione di canto o di un trio vocale: la differenza di età fra
i tre personaggi spiega assai chiaramente che la musica in questione non è un momento
di esecuzione tecnica e artistica, bensì una metafora dell’armonia dell’esistenza umana, a
sua volta dipendente dall’armonia dell’Universo. Il tema delle età introduce quello della
“vanitas”, di un’armonia mondana condizionata inevitabilmente dall’incerta e variabile
durata. Per questo è così importante passare il testimone per tempo a colui che ha ancora
davanti a sé tutto il tempo.
No Memory Without Loss

2023 di Arcangelo Sassolino:


è un’opera contemporanea, creata appositamente per l’evento. Presentando un gigantesco disco
in equilibrio precario, esplora la fragilità del tempo e la sua influenza sulla vita umana.

Arcangelo Sassolino
olio, acciaio, sistema elettrico; 330 x
330 x 40 cm

Un olio industriale ad alta viscosità


aderisce alla superficie del disco in
precario equilibrio. Se la rotazione si
arresta, la composizione collassa. Il
moto circolare può solo rallentare la
caduta, un tentativo di posticipare
l’inevitabile, destinato comunque al
fallimento. Le gocce che colano a
terra sono la perdita che l’opera deve
accettare per poter esistere.
Il disco è un organismo che deve essere ricaricato, riportandovi l’olio colato al suolo. Da un
lato è soggetto all’implacabilità del divenire, che conduce alla consumazione della sostanza.
Dall’altro resiste alla caduta, a ciò che deve necessariamente accadere.
È una sinfonia ipnotica tra stati opposti retta dalla tensione tra forza di gravità e movimento.
Rinuncia al conforto di una immagine fissa in favore della fluidità del mutare continuo, una
dinamica che è quella della vita stessa.
Arcangelo Sassolino (1967) è nato e vive a Vicenza. Il lavoro di Sassolino prende vita dalla
compenetrazione tra arte e fisica. Il suo interesse per la meccanica e per la tecnologia apre
a nuove possibilità di configurazione della scultura. Velocità, pressione, gravità,
accelerazione, calore costituiscono le basi della sua ricerca sempre protesa a sondare il
limite ultimo di resistenza. I lavori consistono solitamente in congegni che generano
performances inorganiche. I materiali (spesso di natura industriale) si animano, si
consumano, vivono di contrasti, di forze e di conflitti intrinseci, contemplano il rischio del
collasso quale parte fondamentale dell’esperienza. Attraverso differenti stati della materia,
le opere di Sassolino manifestano uno stato di tensione, sospensione, imprevedibilità,
pericolo e sempre possibile fallimento: aspetti altrettanto ineludibili della condizione
umana.
«Concepisco la scultura come un lavoro sull’instabilità, sulla dissipazione, sui momenti di
rottura e transizione. Mi interessa, soprattutto, catturare l’istante in cui qualcosa sta
diventando altro da quello che è. Penso alla scultura non come ad un presente statico, ma
piuttosto come ad un flusso di tempo, del suo essere incessante, ineluttabile e
imprevedibile mutamento proprio come la vita stessa».
RECENSIONI
La mostra, a cura di Guido Beltramini e Francesca Cappelletti, ideata e promossa dal Comune
di Vicenza con la co organizzazione di Intesa Sanpaolo, è pensata per riflettere sul tempo che
passa, ma anche che torna.

«le tre opere triangolano in un dialogo sul tempo – come ha osservato Beltramini – tra antico
e contemporaneo». Di forte impatto visivo l’opera di Sassolino, posizionata nei pressi
dell’entrata della grande sala dei 500: un disco d’acciaio sul quale è spalmato uno spesso strato
di olio industriale ad alta viscosità, di colore rosso, quasi a richiamare il mantello di San
Girolamo.
In una Basilica oscurata ad arte, il disco ruota perpetuamente e impercettibilmente in
entrambe le direzioni, lasciando cadere quelle che Beltramini ha definito «Gocce che
rappresentano l’essenza della nostra vita». Queste però, contrariamente alla nostra
esistenza, vengono raccolte e giorno dopo giorno (fino alla chiusura dell’esposizione, il 4
febbraio), riposizionate sul disco, dando nuova vita all’opera. Una sorta di ipnosi, quella in
cui viene intrappolato lo sguardo, dalla quale ci si allontana solo per ammirare quello che è
stato definito uno dei quadri più importanti al mondo: il San Girolamo di Caravaggio,
realizzato nel 1606, e per la prima volta a Vicenza. Il dipinto, che raffigura il santo intento a
tradurre la Bibbia dal greco al latino, esprime, come ha sottolineato ancora Beltramini, «La
fragilità umana, il timore del protagonista di essere sconfitto dal tempo e di non riuscire a
finire il proprio compito». Il dipinto dialoga, a pochi centimetri di distanza, con un altro
capolavoro, quello di Van Dyck (di proprietà dei musei civici di Vicenza), che raffigura le
«stagioni» dell’esistenza: l’infanzia, la maturità, la vecchiaia e lascia trasparire la morte.
Il Tempo, protagonista dell’evento espositivo, è stato lo stesso contro il quale hanno
combattuto gli organizzatori: il Comune di Vicenza con la co-organizzazione di Intesa Sanpaolo
(il progetto è curato da Musei Civici Vicenza, Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza
e Cisa, con il supporto di Marsilio Arte).

Potrebbero piacerti anche