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Dante barbero riassunti

Istituzioni di storia medievale (Università di Pisa)

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DANTE- Alessandro Barbero

Capitolo 1.
I fiorentini (guelfi) attaccano la città di Arezzo. Si parla di come è formato l’esercito
(milites, contingenti contadini e i pavesi). C’erano anche i feditori, coloro che si
ponevano nella prima fila dell’esercito e che svolgevano il ruolo di “scudo”.
Anche Dante si dice abbia partecipato a questa guerra, quindi non è detto che,
nonostante sia un poeta di fama, non avesse una vita al di fuori della letteratura.
Dante era nella schiera dei feditori perché lo aveva messo lì un conte.
Dante era coinvolto nella cavalleria, anche nelle sue opere compaiono scene di
quell’ambito. Però dopo l’esilio egli non fu più un milites, diventò povero.
Dante ha combattuto per davvero a Campaldino (1289). Ciò lo sappiamo con certezza
grazie ad alcune epistole giunte a Bruni, uno scrittore e studioso di Dante. Durante
questa battaglia egli era un milites esperto, non più ragazzino e nel testo viene citato
il fatto ch egli ebbe paura (cosa considerata normale dall’esercito).
Anche nell’inferno c’è un riferimento alle sue battaglie.
La fazione guelfa (fiorentini) avevano un grande esercito mentre la fazione ghibellina
(Arezzo) ne aveva la metà. I ghibellini attaccarono i guelfi.
A causa del fatto che l’esercito era minore, gli aretini (di Arezzo) persero la battaglia e
furono massacrati.
Per raccontare chi è dante bisogna parlar della sua condizione sociale.
Differenza tra cavalieri ricchi e quelli non --> domini e domicelli . Questi ultimi erano
tutti cavalieri ma potevano essere grandi signori e piccoli signori. I veri ricchi
possedevano cavalli più costosi.
La posizione di Dante nell’esercito non ci dice che egli fosse un nobile. A Firenze non
esisteva la nobiltà, non c’erano registri per dimostrare che una famiglia fosse nobile.
Dalle epistole e dai racconti di Dante, capiamo che egli era ben armato, aveva un
buon cavallo, che era abbastanza ricco. Continuiamo a non sapere se la sua famiglia
era effettivamente nobile o se si era arricchita da poco.

Capitolo 2.
Bartolo da Sassoferrato : giurista del 300.
I nobili che avevano una grande generazione alle proprie spalle erano molto critici nei
confronti di chi non l’avesse. Anche Dante condivideva forse questi pregiudizi ma
forse guardando più alla propria famiglia che alle altre.
Dante aveva una visione contraddittoria su questa tematica, da un lato eguagliava la
virtù alla nobiltà, dell’altro vedeva la nobiltà come valore discendente dall’antichità.
Il comportamento di chi era nobile di sangue si diceva “gentilezza”.
Dante gioca sulla differenza tra: nobiltà come gentilezza, come la intende il mondo e
nobiltà come la intende il moralista. Conclude dicendo che in nessun caso la nobiltà
ha a che fare con il ricordo degli antenati.
Le cause possono essere molteplici:
- perché i suoi migliori amici facevano parte della nobiltà e quindi deve mantenere un
rapporto pacifico con loro, oppure;

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- c’è un’influenza del clima politico di quegli anni e Dante, facendo parte del governo
popolare, era influenzato dalle loro idee.
Dante collega la virtù nobiliare non solo agli antenati, ma anche ai matrimoni
prestigiosi.
Non ha mai parlato della sua famiglia. L’incontro con Farinata è la prima occasione
nella quale Dante parla della famiglia, chiaramente non è una risposta completa ma
risponde a varie domande.
Dante non essendo cavaliere, non può parlare della sua famiglia come famiglia di
cavalieri. (Nel governo popolare non potevano entrare i milites o chi discendeva da
milites da generazioni di vent’anni precedenti, per ciò non era considerato un
cavaliere nonostante andasse in battaglia come già citato).
Dante parla del trisnonno Cacciaguida ed è grazie a lui che Dante può considerarsi
nobile.

Capitolo 3.
In questo capitolo si parla dell’albero genealogico della famiglia Alighieri.
Dapprima si parla del trisnonno di Dante, Cacciaguida, e di come noi abbiamo la
certezza che egli fosse un suo avo. Dante non aveva la certezza che Cacciaguida fosse
davvero un cavaliere, anche perché non sapeva cosa significasse essere un cavaliere
all’epoca del trisnonno. All’epoca di Dante diventare milites prevedeva una cerimonia
sontuosa e significava entrare in un’elite, ai tempi del trisnonno, invece, bastava
avere armi e cavalli.
Successivamente si parla del bisnonno Alaghieri. Un documento trovato nei pressi di
Badia (dove soggiornava la famiglia Alighieri) attesta che Alaghieri sarebbe stato figlio
di Cacciaguida.
Alaghieri ha sposato una donna impotante, imparentandosi con Bellincione di Berta,
da cui prende il nome il figlio di Alaghieri, Bellincione, nonno di Dante.
Bellincione sarà colui che ebbe più documenti conservati. Infatti dei documenti lo
mostrano attivo nella vita del comune, egli probabilmente faceva parte delle
corporazioni dei mercanti e degli artigiani.
Attraverso diversi calcoli, deducibili da documenti, è chiaro che Alighiero avrebbe
avuto Dante molto tardi, quando già aveva superato i 40 anni. L’attività principale di
Bellincione era quella di prestare denaro (testimoniato da documenti).
In termini tecnici si può dire che il padre, il nonno e gli zii di Dante fossero usurai
(termine errato se si analizza la condizione sociale). Il maneggio di denaro era
un’attività richiestissima e redditizia. Quindi Bellincione etc. si potevano definire
come uomini d’affari. I parenti di Dante erano rispettabili membri del populus.
Per collocare Dante nella società fiorentina è importante chiarire se egli avesse un
cognome, che significava appartenere ad una famiglia conosciuta e influente,
certificava una condizione sociale elevata. Questo non significa che avere cognome
significasse essere nobile. Dante vantava di avere un cognome da 4 generazioni,
ovvero da Cacciaguida Alachieri.

Capitolo 4.
Ci si chiede se gli Alighieri avessero uno stemma, sembrerebbe essere stato visto da
un biografo che avrebbe visionato un libro d’armi del 1302, nel quale avrebbe visto lo
stemma degli Alighieri, di quel libro non si ha più traccia, ma sarebbe probabile la sua

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esistenza. In effetti chiunque fosse abbastanza ricco da essere soggetto a cavalcate


poteva certamente avere anche uno stemma.
Lo zio di Dante Burnetto ha una documentazione abbastanza ampia, era un
combattente a piedi, armato di lancia, e non faceva parte dell’elite più agiata che
combatteva a cavallo. Burnetto avrebbe fatto anche parte di due consigli, quello
generale e quello dei 90.
Per quanto riguarda Alighiero, inizialmente neanche sappiamo se era ancora vivo
quando la moglie partorì Dante nel 1265, ma in realtà lo era, poiché Dante ebbe un
fratello minore.
E’ molto più difficile cercare attestazioni che riguardano donne in questo periodo, ma
sappiamo che la madre di Dante si chiamava monna Bella. Ella era la prima moglie di
Alighiero. Non abbiamo molte informazioni sulla famiglia dell’ultima, soltanto delle
ipotesi, spesso insostenibili. Abbiamo, però, attestazioni sulla seconda moglie di
Alighiero, monna Lappa, figlia di un certo Chiarissimo Cialuffi, un mercante di
condizione sociale modesta. Non sappiamo quando morì Alighiero, abbiamo dei
documenti che lo attestano già morto nel 1283. Dante non menziona il padre in
nessuna delle sue opere. Il quadro della famiglia di Dante non è completo senza
introdurre anche i cugini, le cui vite offrono uno spaccato di quel mondo, diviso fra la
realtà concreta degli affari e le tentazioni aristocratiche, a cui apparteneva la famiglia
di Dante. Molte attestazioni e vicende ci dicono che non tutti gli Alighieri se ne
andarono o vennero cacciati da Firenze durante i sei anni del governo ghibellino. I
parenti di Dante come abbiamo precedentemente detto erano usurai, e per lo più
conducevano una vita rispettabile e normalissima, ciò però non escludeva il rischio di
essere ammazzati. Ciò accadde al cugino di Dante Geri del Bello. Egli fu ucciso da una
famiglia di magnati ghibellini. La famiglia del Bello si vendicò e uccise uno della
famiglia dei Sacchetti ( avevano assassinati Geri).

Capitolo 5.
Sulla data i nascita di Dante abbiamo delle informazioni, date da un intimo servitore
di Dante, in particolare ci dice che egli sarebbe morto nel settembre del 1321, all’età
di 56 anni, e che sarebbe nato, quindi nel 1256, in particolare a maggio, anche se il
giorno preciso non si sa. Egli è nato a Firenze, come ci dice nell’Inferno. Il nome
Dante era un nome abbastanza comune nella Firenze del periodo. Il suo nome
presumibilmente derivava da parte della madre, monna Bella, nella quale famiglia
era molto comune il nome Dante.
Il luogo in cui Dante nacque e in cui giaceva malato è quello che ora corrisponde al
museo chiamato Casa di Dante, anche se i luoghi adesso sono quasi pressoché
irriconoscibili. La loro casa si trovava vicino a una parrocchia, quella di San Martino
del Vescovo. Vivere vicino ad una parrocchia non era comodo, poiché era luogo in cui
le tensioni erano frequentissime. Egli ereditò case in eredità sia dal nonno che dal
cugino Geri.

Capitolo 6.
Vicino al popolo di San Martino del Vescovo abitava un’altra famiglia che ebbe
importanza decisiva nella vita di Dante: i Portinari. Questa famiglia era una famiglia di
popolo, attiva nella mercatura e nel credito, probabilmente meno antica degli

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Alighieri. Folco di Ricovero Portinari era colui che di più appariva nei documenti
notarili del momento, è un personaggio di grande spicco, padre di Beatrice.
Egli racconta l’incontro di Beatrice nella Vita nuova, essi si sarebbero incontrati
quando Dante aveva 9 anni e Beatrice 8, ma non sappiamo se questo incontro fosse
vero, dato che il 9 è un numero simbolico per Dante e nella Vita nuova lui ne è un
personaggio, inoltre non ci da un gran numero di particolari relativi all’incontro.
Dopo questo incontro e anni passati nei quali Dante amava Beatrice, senza neanche
averci riparlato, egli cercò sempre di rivedere la ragazzina ma non arrivò mai
nemmeno a farsi salutare o riconoscere. Passati 9 anni si rincontreranno, Dante era
ancora un adolescente pieno di desideri insoddisfatti, mentre Beatrice era una donna
sposata. In quell’incontro ella lo salutò. Dante sognò la donna e analizzò la passione
amorosa.
L’amicizia per Dante era molto importante, infatti queste amicizie lo introdussero in
un ambiente sociale più alto di quello in cui era nato, anzi il più alto di Firenze.
Il matrimonio di Beatrice con messer Simone de’ Bardi era un matrimonio
prettamente politico, di riconciliazione tra due famiglie appartenenti a famiglie
diverse, e niente a che fare con i sentimenti, il fatto spiega perché nella storia
d’amore con Beatrice manchi qualunque accenno alla gelosia.

Capitolo 7.
Della formazione culturale di Dante si sa ben poco, sicuramente da bambino andava
a scuola. A scuola si imparava il latino, poiché dotato di grammatica, e Dante era
convinto che il latino fosse una lingua inventata, che permetteva di comunicare al di
la dei confini nazionali. Egli chiaramente studiò il latino, ma a livello scolastico, fu
dopo la morte di Beatrice che studiò filosofia, teologia, astrologia etc.
Nel suo percorso di formazione si colloca la figura di Brunetto Latini, di cui parla
nell’inferno, il quale era omosessuale, motivo per il quale era all’inferno.
L’omosessualità era gravemente condannata, e così fece Dante. Però Dante vuole
bene a quest’uomo. Brunetto avrebbe insegnato a Dante la filosofia, la quale era un
concetto nuovo, una disciplina che meditava sulla condizione umana e sullo scopo
dell’esistenza. Latini avrebbe insegnato a Dante il concetto di immortalità della
letteratura.
Nel corso degli anni 80 Dante ha studiato a Bologna, dove avrebbe approfondito gli
studi già iniziati.
Il percorso di studio di Dante:
 Doctor puerorum, assunto a contratto dalla famiglia, che gli insegnò prima a
leggere poi a scrivere, e lo introdusse ai primi rudimenti della lingua latina.
 Doctor gramatice, che gli impartì un insegnamento più avanzato del latino.
 Brunetto Latini, che gli insegnò l’arte dell’epistolografia.
 Bologna, all’età di 20 anni, frequentò la facoltà delle arti, approfondendo la
retorica.
Egli odiò l’esperienza bolognese, sia perché vi furono molte dispute, sia perché
disprezzava una cultura comperata e rivenduta e trovava le lezioni mediocri.

Capitolo 8.
Negli anni di Bologna, Dante era orfano e padrone della propria vita, non è ben
chiaro che egli fosse sposato, di fatto il suo matrimonio con Gemma di Manetto

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Donati è molto misterioso, di fatto egli ne sapeva pochissimo. Dante era stato
condannato come un ribelle, ma la moglie no, quindi i beni di Dante, anche se
confiscati, ipoteticamente sarebbe rimasto alla moglie a Firenze. Sull’età di Dante di
quando si sarebbe sposato ci sono molti dubbi, infatti un notaio avrebbe trascritto la
data del matrimonio nel 1277, Dante aveva 11 anni, ciò era molto raro e quasi
impossibile. La dote molto bassa di Gemma avrebbe testimoniato che erano più gli
Alighieri a voler il matrimonio e non i Donati, che probabilmente erano dei nobili.

Capitolo 9.
Dante era il figlio maggiore di un uomo d’affari, morto quando lui era ancora ragazzo
e forse addirittura un bambino, e raggiungendo l’età del padre probabilmente si
occupò degli affari legali del padre. Sarebbe, però, un grande errore ipotizzare che l’
attività economica di Dante si sia limitata agli affari di cui abbiamo traccia, di fatto,
non sappiamo se abbia comprato e venduto terre, non sappiamo se si occupasse
dell’amministrazione dei poderi lasciati dal padre, anche se ne vendette uno.
Possessore di un discreto patrimonio, fu il primo della famiglia che poté vivere di
rendita. Alcuni documenti testimoniano che Dante e il fratello Francesco avrebbero
avuto due grossi debiti. Per molto tempo gli studiosi pensavano che questi debiti
testimoniassero una difficoltà economica, ma forse questi debiti erano solo una
finzione giuridica per creare falsi creditori, per mettere in salvo una parte del capitale
nel caso in cui i veri creditori avessero proceduto per vie legali.
Molti atti notarili che riguardano transazioni di denaro testimoniano che nella Firenze
di Dante il denaro liquido era una merce non solo indispensabile, ma rara.
Dante e Francesco vivevano comodamente di rendita. La loro entrata più sicura
riguardava gli affitti consegnati ogni anni a San Martino, da parte dei loro mezzadri.

Capitolo 10.
Se Dante si occupava poco di affari, la ragione era che, verso i 30 anni, inizio a
dedicarsi attivamente alla vita politica della sua città. Il comune di Firenze al
momento era governato da un regime popolare, ciò significa che la partecipazione
agli organi popolari riguardava una fascia molto ampia della popolazione produttiva.
Il governo era costituito dai sei priori delle arti, espressione del mondo
imprenditoriale e artigiano, e dal gonfaloniere di giustizia, che faceva si che che gli
ordinamenti di giustizia per i popolani venissero rispettati e che questi ultimi non
avrebbero subito violenza da parte dei magnati. Sotto di loro c’erano 5 consigli: il
Consiglio dei cento, i consigli speciale e generale del capitano del popolo, i consigli
speciale e generale del comune, in tutto vi sedevano 676 cittadini, rinnovati ogni 6
mesi. Facevano politica anche le Capitudini delle arti, cioè i collegi di consoli che
dirigevano ognuna delle 21 corporazioni. Le documentazioni relative alla vita politica
di Dante ci mostrano Dante attivo nella vita politica in un momento catastrofico per
la vita del regime popolare. Di fatto Firenze stava per vivere una guerra civile, poiché i
magnati erano scesi in piazza armati, accompagnati da squadre di contadini e di
guardie private. Il popolo era immediatamente sceso a sua volta. Però i magnati
retrocedettero, sotto la promessa che gli ordinamenti sarebbero stati modificati nel
senso da loro richiesto. Il priorato era aperto ai cittadini iscritti al libro, ovvero a
un’arte. Si stabilì, inoltre, che all’infuori delle 70 famiglie elencate come magnatizie
negli ordinamenti, in futuro nessun’altra parentela avrebbe potuto essere

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penalizzata, a meno che non avesse contato fra i suoi membri più di 2 cavalieri negli
ultimi 20 anni.
Abbiamo la certezza che Dante nel 1295 fosse uno dei 300 membri del Consiglio
generale del comune, ma non che la sua vita politica fosse iniziata quell’anno.
Ma cosa s’intendeva per magnates? La società fiorentina era stratificata, complessa e
caratterizzata da una forte mobilità. I Grandi erano quelli che appartenevano a
famiglie importanti, conosciute, ricche, composte da un gran numero di parenti. In
una società violenta erano coloro che facevano più paura. Il popolo, invece, era
composto da gente che lavorava. Al suo interno esso era molto stratificato: c’era un
abisso di ricchezza e prestigio tra l’imprenditore e la folla di operai. Dante era
l’emblematico di quelle situazioni intermedie. Pretendeva di essere nobile, perché
aveva degli antenati, ma si capisce che gli Alighieri non avessero quel gran rispetto
dai concittadini. Personalmente, aveva molti contatti con i magnati.
Politicamente Dante era un popolano, sia pure di ordinamento moderato, incline al
compromesso con i Grandi e inorridito dalla dittatura della gente dappoco. Del
popolo doveva condividere quella che all’epoca era divenuta l’ideologia ufficiale, che
non insisteva tanto sull’allargamento verso il basso della partecipazione al potere,
quanto piuttosto sulla supremazia della legge e delle procedure pacifiche, finalizzate
alla difesa della concordia e del bene comune, rispetto al ricorso alla violenza da cui
erano continuamente tentati i magnati.
La scelta di Dante di aderire al comune popolare era vista negativamente dall’amico
Guido Cavalcanti, che era tutti gli effetti un magnate.

Capitolo 11.
Fino al 1300 non abbiamo (dal 1296) più notizie sull’attività politica di Dante, ciò non
significa che egli non avesse più partecipato alla vita politica. Questo periodo è un
periodo drammatico: i Grandi guelfi si erano divisi in due fazioni, i neri e i bianchi. E’
con questa spaccatura che si concluderà la vita politica di Dante con la catastrofe
dell’esilio. Queste due fazioni erano capeggiate da due famiglie molto differenti, i
Cerchi e i Donati. I Cerchi non erano nobili, non avevano la stoffa di essere nemici di
qualcuno, ma neanche di avere amici all’interno della politica, tutto ciò, però non
impediva loro di essere grandi. Il capo dei Donati, invece, era nobile e violento. Dante
probabilmente era più vicino ai Cerchi, i quali ridussero il loro impegno
nell’organismo magnatizio che era la parte guelfa e cercarono l’appoggio dei popolani
a governo. Insieme ai Cerchi stavano gli Abati, con cui Dante aveva stretti rapporti,
forse la famiglia di sua madre e i Cavalcanti.
I magnati, nonostante fossero esclusi dagli ordinamenti di giustizia, esercitavano
comunque un’enorme influenza nella politica fiorentina.
Dopo una lotta nel maggio del 1300 tra le due fazioni, il governo popolare si trovò a
dover gestire una situazione difficilissima. La lotta tra queste 2 fazioni fece affiorare le
problematiche irrisolte della politica cittadina, ovvero: il rancore dei ghibellini, esclusi
da qualsiasi forma di governo e chi non appoggiava la svolta moderata del regime di
popolo. A rendere ancora più difficile la situazione era il fatto che la spaccatura della
parte guelfa non sarebbe stata gestita come una questione prettamente interna. Il
partito, infatti, aveva un punto di riferimento internazionale, il papato. Bonifacio VIII,
papa del momento, non voleva che il partito si spaccasse, ma nel caso in cui si fosse
spaccato avrebbe parteggiato per i Donati. In questa situazione il governo decise di

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convocare una riunione della Taglia di Tuscia (alleanza regionale che univa tutti i
guelfi) per eleggere il capitano, cioè il nuovo comandante della forza guelfa in
Toscana. A partire dal quel momento gli eventi procedettero a ritmo incalzante. Il
papa mandò a Firenze un cardinale per mettere pace. Furono nominati i nuovi priori
che, per come furono scelti, sembrava che si fosse cercato un riequilibrio tra le
fazioni. Dante fu nominato priore.
Quando i consoli delle Arti andarono in processione per offrire doni allo stato
vennero aggrediti e bastonati da alcuni Grandi. Dopo un consiglio decine di magnati
vennero condannati. Ma il governo non aveva la forza di eseguire la condanna.
I Cerchi partirono, i Donati no. I priori dovettero decidere se eseguire comunque la
condanna, rischiando la guerra civile oppure ingoiare il rospo.
Si seppe che i Donati avevano chiesto aiuto al governo guelfo di Lucca e che da lì un
esercito si stava preparando per andare a Firenze. I priori scrissero a Lucca di non
entrare a Firenze e ordinarono alle comunità rurali di presidiare i passi, i Donati non
tentarono quindi l’insurrezione e uscirono dalla città.
Il vescovo, intanto, sosteneva di voler porre la pace, ma non passò molto tempo per
capire che il suo mandato era quello di appoggiare i Donati e rovinare i Cerchi. Non
sappiamo che posizione abbia avuto Dante in tutte le circostanze che abbiamo
ricordato. Nuovi signori ottennero l’incarico, ma la situazione non migliorò, nella
Signoria ripresero potere i bianchi. Le fazioni continuavano a affilare le spade.
Dante venne nominato soprastante ai lavori, con l’incarico di provvedere agli espropri
e di far aprire e lastricare la strada, e con i pieni poteri di poter imporre una tassa agli
abitanti della zona che ne avrebbero tratto vantaggio.
Nel giugno del 1301 Dante si trovò ad affrontare una situazione compromettente. Il
consiglio dei 100 di cui faceva parte si riuniva per affrontare due richieste: la prima di
papa Bonifacio VIII, che avrebbe voluto mandare 100 cavalieri da impiegare in uno
scontro in Maremma; e la seconda del comune di Colle Valdelsa, che non sappiamo
in che cosa consistesse. Il consiglio era spaccato in due su questa questione, Dante
prendeva posizione contro l’invio dei cavalieri, esponendosi parecchio contro il papa.
Quello stesso 19 giugno i consigli si riunirono nuovamente e il Capitano del Popolo
chiese di accettare la richiesta del papa riguardante i 100 cavalieri. E avanzò la
richiesta di stanziamento di 3000 lire per il pagamento degli stipendi ai fanti reclutati
nel contado.
Il successivo intervento di Dante fu nel settembre del 1301, con riunione del consiglio
dei 100 e tutti gli altri consigli per una questione delicata: decidere cosa fare sulla
conservazione o meno degli ordinamenti di giustizia e degli statuti del popolo. Dante
appare nei documenti, ma il notaio che stava trascrivendo lasciò uno spazio bianco,
brutto segno poiché significava che avesse detto un qualcosa di diverso rispetto agli
altri, che volevano che il potere andasse nelle mani del capitano del popolo, ai propri
e al gonfaloniere e ai consiglieri scelti.
Un altro consiglio di rilievo fu quello del 28 settembre, che sostanzialmente, chiedeva
l’autorizzazione a nominare tutti i funzionari che gli venivano in mente, e fissare in
piena libertà i loro salari. Le proposte passarono tutte.
Questa era l’ultima volta in cui Dante si sarebbe alzato per parlare in uno dei consigli
del comune di Firenze.

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Capitolo 12.
Nel novembre del 1301 Carlo di Valois entrò a Firenze con 1200 cavalieri. Fino
all’ultimo i Neri avevano supplicato di non fidarsi dei ghibellini che governavano la
città. Presentare la signoria dei Cerchi come ghibellina era un po’ forte. I Bianchi si
cullavano speravano che il re di Francia avrebbe portato la pace e concordia, ma i
Neri sapevano che il papa li aveva mandati a distruggere i loro nemici. Di fatto Carlo
fece arrestare i capi dei Bianchi, mentre Corso Donati e gli altri confinati rientravano
in città. Per 5 o 6 giorni i Neri torturarono, saccheggiarono e incendiarono a loro
piacere. Anche le proprietà di Dante vennero rovinate. I nuovi padroni della città
costrinsero il podestà e i priori a dimettersi e fu fatta una nuova signoria.
Nei primi mesi del 1302 gli esiliati furono più di 600 persone, tra cui Dante.
Dante fu accusato di aver commesso baratterie ed estorsioni, e in particolar modo, di
aver estratto bustarelle per l’elezione dei priori successivi e di altri ufficiali del
comune, o per fare approvare provvedimenti e stanziamenti che facevano comodo
agli amici. Fu accusato di aver speso fondi pubblici in misura maggiore del consentito,
e di averli impiegati in danno al papa e Carlo di Valois.
Fu chiaramente un processo iniquo, senza dubbio il nuovo regime si vendicava dei
suoi nemici. Ma si svolse sotto regolari istruttorie. Dante non si presentò al processo,
e fu considerato rei confessi e condannati a una multa e la restituzione delle somme
estorte, se qualcuno si fosse presentato a reclamarle. Dante non pagò la multa e
quindi il podestà dichiarò che se fossero caduti in potere del comune di Firenze
sarebbero morti sul rogo.

Capitolo 13.
Quando Dante fu accusato non tornò a Roma, questa sua scelta facilitò la sua
decisione nell’affrontare il futuro da solo, senza farsi raggiungere dalla moglie. Si dice
che Dante fosse così poco con Gemma che approfittò dell’esilio per non rivederla mai
più. Nati prima del 1302 i figli di Dante erano ancora sicuramente bambini quando il
padre lasciò Firenze. Dante ebbe probabilmente 3 figli: Giovanni, Piero e Iacopo e
una figlia femmina: Beatrice. Il fratello di Dante non si sa se fu anch’egli esiliato, forse
aveva ottenuto il perduto.

Capitolo 14.
Nel 1305 due messi comunali notificarono ai sindaci e abitanti di quella località
l’ordine di consegnare una certa quantità di grano. Un certo Vezzo Vezzosi li avrebbe
mandati a sue spese poiché il comune di Firenze gli avrebbe assegnato quel
pagamento in grano da prelevare sul reddito delle proprietà confiscate a Dante.
Ingenuamente si potrebbe pensare che i doni confiscati a Dante non sarebbero più
stati suoi, ma le cose non andavano così. I beni sequestrati erano amministrati dal
comune e il bandito non ne aveva più la disponibilità, ma risultavano comunque
sempre intestati a lui. La famiglia di un condannato aveva molti modi per rimettere le
mani sui beni conquistati. La moglie poteva far valere i diritti dotali, ed è ciò che fece
la moglie Gemma. Ciò accadeva perché ipoteticamente un bandito poteva ottenere il
perdono, ottenendo il diritto alla restituzione dei beni, infatti dopo la morte di Dante
i suoi beni tornarono ai suoi eredi. Anche se i possedimenti di Dante non erano
realmente tutti nelle mani degli eredi. Anche la casa in San Martino del Vescovo era

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stata venduta, che era simile a un pegno di un mutuo. Queste azioni avvenivano
nonostante queste proprietà fossero sotto sequestro.

Capitolo 15.
Essere scacciato con violenza dalla propria città era un avvenimento inatteso per un
italiano che faceva politica. La ferocia dello scontro all’interno dei comuni implicava
ormai da tempo la delegittimazione degli avversari, visti non come una controparte,
ma come dei veri e propri nemici pubblici, delinquenti, da annientare. Anche per
questo i grandi partiti, i guelfi e i ghibellini, avevano assunto la funzione di una sorta
di comunità che poteva offrire asilo e assistenza agli sbanditi, sicché era possibile che
sia individui che clan famigliari potessero prosperare anche in esilio.
Non stupisce che i bianchi cacciati da Firenze abbiano cercato l’appoggio dei
ghibellini, esuli da tempo e che trovandosi numerosi abbiano sperato di tornare in
città con la forza. Nella primavera-estate del 1302 i Bianchi e ghibellini coalizzati
fecero ribellare contro il comune di Firenze parecchi castelli.
Dante era ancora una volta in guerra, una guerra contro Firenze. Le sentenze che in
quei mesi coinvolsero i tribunali fiorentini contengono aggressioni, scorrerie e
saccheggi, di castelli presi a tradimento, case e chiese devastate e date alle fiamme,
sequestri di persona seguite da torture ed estorsioni, bestiame rubato, gente ferita e
ammazzata. Dante, secondo un documento, sarebbe stato uno degli esponenti della
coalizione ribelle.
Gli sbanditi di parte bianca, al potere fino a pochi mesi prima in una città guelfa,
erano prontissimi a far parte del comune con i ghibellini, e a fare guerra con il grido
“muoiano i guelf”. Questa cosa pare molto strana, perché ci sarebbe un
cambiamento ideologico enorme, ma bisogna rendersi conto che la cosa era
normale. I partiti erano diventati aggregazioni trasversali, al cui interno si potevano
ritrovare tutte le posizioni. Dante nel periodo successivo si trova a Forlì, per
negoziare con dei signori ghibellini. I risultati della nuova alleanza furono deludenti.
Risale a questo periodo la prima lettera di Dante giunta a noi. Indirizzata al cardinale
da Prato, lo informava che i fuoriusciti erano pronti a obbedire ai suoi ordini e
accettare le sue condizioni di pace.
Entrato in città il cardinale da Prato venne accolto con entusiasmo dal popolo, che
era stufo degli scontri tra i magnati. Ristabilì quindi il governo popolare, si propose di
far rientrare i città tutti i fuoriusciti e di pacificarli con i loro nemici. I ribelli
accettarono e mandarono in città dei sindachi nel toscano di allora.
Anche questa volta, però, si scoprì che non era possibile riconciliare davvero le parti,
e tutto finì male. I magnati guelfi persuasero il popolo che la sua vera intenzione era
di rimettere al potere i ghibellini; il clima in città si fece teso e alla fine i 12 sindachi
fuoriusciti fuggirono da Firenze. Il fallimento del cardinale da Prato non scoraggiò
però i fuoriusciti, che alimentavano il clima della guerra civile, contando sul sostegno
di gran parte del popolo, spaventato dalle violenze della parte nera. La situazione si
fece così drammatica che i neri per impedire ai bianchi di riconquistare la città
appiccarono il fuoco nelle loro case, causando un incendio che distrusse tutto il
centro di Firenze.
La corte papale era sdegnata da questo fatto, e il nuovo papa Benedetto XI preferiva
appoggiarsi alla banca dei Cerchi che a quella dei neri. Nacque così tra gli esuli una
speranza di poter riprendere la città con la forza, approfittando della divisione e

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smarrimento dei cittadini, che sfociò in un tentativo di ribellione, finito male, poiché i
rivoltosi vennero respinti dai difensori e si diedero alla fuga.
Dante ruppe con i bianchi, perché probabilmente avrebbe consigliato di rimandare
l’arruolamento di certi alleati, che al momento buono non vennero affatto, sicché
sarebbe accusato anche di tradimento. Consumata la rottura con i Bianchi Dante
andò a Verona, ospitato dai della Scala.

Capitolo 16.
Dante visse gli ultimi 20 anni della sua vita in esilio. Sono anni di cui sappiamo molto
poco, poiché le documentazioni scarseggiano. La prima tappa veronese della sua
nuova vita è data dalla rottura con i bianchi. Dante era giunto a Verona prima del
luglio del 1304, presumibilmente verso maggio. Però egli parla di Bartolomeo della
scala, che lo avrebbe ospitato, ma che sarebbe morto nel marzo di quell’anno, di
fatto probabilmente Dante era andato a cercare aiuto subito dopo il suo primo
scontro con gli altri ribelli, quando Bartolomeo era ancora vivo. C’è un’altra versione
dell’avvenimento, ovvero che forse Dante fosse stato davvero a Verona al tempo di
Bartolomeo della Scala, ma non come esule in fuga, bensì come ambasciatore della
coalizione. L’ultima alternativa è che Dante abbia descritto fedelmente gli
avvenimenti: quindi che abbia rotto una sola volta con la compagnia dei bianchi e dei
ghibellini, dopo esser stato con loro ad Arezzo nella primavera del 1304, e aver scritto
a nome di tutti al cardinale da Prato, dicendo di andarsene da solo a Verona.
Dante si vergognava della sua situazione.
Finché un esiliato era integrato in un partito, il problema era semplice da risolvere,
grazie all’appoggio degli amici presenti un po’ dappertutto. Dante però dovette
arrangiarsi da solo. Il fatto che egli fosse un politico moderatamente noto e un
dictator di chiara fama, contribuì a far sì che trovasse ospitalità. Non c’è dubbio che
almeno in qualche occasione fu impegnato nelle cancellerie dei signori presso cui
risiedeva. A Verona, Dante trovò un mondo meno diverso dal suo di quanto possiamo
credere. Verona era una grande città, non così diversa da Firenze quanto a fervore
economico. Però era una città ghibellina e il popolo, anzi che governare direttamente
aveva ceduto il potere a un uomo forte, un signore capace di garantire la pace
interna. I signori quando Dante entrò a Verona avevano preso l’abitudine a
festeggiare i matrimoni di famiglia e l’addobbamento cavalleresco dei propri figli e
nipoti celebrando grandi feste pubbliche, le corti o le curie, in cui si coniugavano
sfarzo nobiliare, raffinatezza cortese e ostentazione cavalleresca. Le celebrazioni
cavalleresca e cortesi stavano diventando il cuore della politica. Dante era adepto
della cultura cortese, vista come forma si raffinatezza anche intellettuale.
A Verona Dante era un postulante, per salvare la sua dignità trovava utile ricordare
che nella tradizione delle corti principesche la cortesia è un obbligo per il signore, e
dunque non c’è niente di male nel ricevere i suoi doni e celebrare la sua generosità.

Capitolo 17.
Il periodo veronese è circondato da molte incertezze, gli anni che seguono sono
ancor di più immersi nell’oscurità. Quindi ci si chiede quale fu il suo itinerario:
Boccaccio afferma che tornato da Verona Dante sarebbe stato ospite di diversi nobili
dell’appennino: i conti Guidi, i marchesi Malaspina, i signori della Faggiola, poi andò a
Parigi, per rientrare in Italia solo quando la discesa di Enrico VII riaccese le sue

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speranze. Bruni invece crede che Dante sia stato sempre a Verona, fino all’arrivo di
Enrico VII e che solo dopo la morte dell’imperatore abbia vissuto in vari luoghi della
Lombardia, Toscana e Romagna.
Il periodo tra il 1304 e 1306 è assente di documenti, 2 ipotesi sono state presentate e
sembrerebbero le più plausibili.
La prima è che Dante abbia trascorso a Bologna il soggiorno più lungo dei primi anni
dell’esilio. Bologna era la città in cui Dante aveva studiato, una grande città piena di
studenti forestieri, di botteghe in cui si copiavano libri a pagamento, di mercanti. Era
anche la città più simile a Firenze per quanto riguarda il regime politico, con il popolo
al governo, le famiglie nobili in parte all’opposizione o all’esilio. Al momento della
spaccatura tra guelfi neri e bianchi Bologna era stata amica dei bianchi, e cavalieri
bolognesi avevano partecipato alle azioni militare contro i neri. Nel 1305 infatti è
documentata un’alta presenza di bianchi a Bologna. Potrebbe quindi esserci stato
anche Dante. Probabilmente a Bologna Dante impartì lezioni private, per lui la
filosofia fu la passione intellettuale più profonda, lavorare allo studio, e insegnare per
denaro può essere stata una forzatura costretto dalle circostanze, contraria alla sua
concezione aristocratica della cultura e così penosa da confermarlo nell’opposizione a
ogni forma di compravendita della sapienza.
L’altra ipotesi è quella di una permanenza a Treviso. Questa ipotesi pone però un
problema. Capitano generale di Treviso Gherardo era guelfo,e ottimo amico dei neri
di Firenze, in particolare con Corso Donati. Nonostante ciò, che l’esule abbia vissuto
in una corte amica dei neri non è così implausibile, poiché in questa fase Dante cercò
di prendere contatti con il comune di Firenze, chiese scusa per le proprie colpe e
implorò il perdono.
Dopo queste incertezze sulle datazioni e località rimane comunque accertato che
Dante dopo i primi anni dell’esilio attraversò un periodo in cui non si fece scrupoli a
rivolgersi ai neri, padroni di Firenze e implorare il perdono. Ma non ricevette risposta.

Capitolo 18.
Nel febbraio del 1306 Dante dovette ricominciare la vita da esule, alla ricerca di
ospitalità e protezione. Durante questo periodo giunge a noi un documento che
certificherebbe che Dante sia stato a Sarzana, presso i marchesi Malaspina, e si
trovava al loro servizio per un incarico diplomatico. Dante era presso i Malaspina,
rappresentava i marchesi nella stipulazione del trattato di pace con un loro antico
nemico. L’atto non dimostra che Dante abbia negoziato la pace, ma anche che la
abbia firmata.
La decisione di decisione di dedicare quasi tutta la propria energia mentale alla
creazione di un formidabile poema sacro è il fatto più importante della vita di Dante.
Gli studiosi pensano che Dante cominciò a scrivere il poema nel 1306/7.
Entrare nella realtà dei castelli non significava entrare in un mondo radicalmente
diverso da quello conosciuto in città, ma significava operare una partizione, ovvero
allontanarsi da tutto ciò che era stata la politica cittadina, la vita di partito e di
corrente, la competizione per gli uffici, il conteggio dei voti nei consigli, la
deprecazione ufficiale della pompa cavalleresca di nemici del popolo, per mantenere
soltanto quelli che in città erano stati i valori e la prassi ristretta e discussa elite.
Dante avrebbe lasciato i Malaspina e successivamente sarebbe stato ospite dei conti
Guidi, quindi in Valdarno, fra le montagne. Boccaccio parla anche di un soggiorno

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presso i signori della Faggiola, altro esponente di quell’aristocrazia militare della


montagna che sapeva approfittare delle tensioni fra le città e le fazioni per ritagliarsi
un importante ruolo politico. Il capofamiglia dei della Faggiola era considerato un
ghibellino accanito, era un politico spregiudicato, che mirava a costruirsi con
qualunque mezzo una signoria personale, che non esitava di intrattenere rapporti e
alleanze con la chiesa e i guelfi. Non è certo però che Dante soggiornò lì. Non c’è
dubbio che in questi anni Dante frequentò le grandi famiglie nobili che dominavano
le aree montuose dell’Italia centrale e poté anche illudersi che lì sopravvivesse il
seme di una virtù capace di risollevare le doti dell’Italia.
In una fase successiva, dopo i soggiorni nei castelli della grande nobiltà appenninica,
gli autori trecenteschi collocano un viaggio di Dante a Parigi, dove avrebbe
partecipato a dispute tra filosofi.
Boccaccio parla anche di un soggiorno a Padova, di cui non abbiamo nessuna
conferma. In quegli anni Padova era uno dei centri culturali più vivaci dell’Italia, ed
era ila massimo centro di studi aristotelici d’Italia. Successivamente andò ad Imola,
dove incontrò Giotto.

Capitolo 19.
Enrico di Lussemburgo fu incoronato re di Germania il 6.01.1309. Il Lussemburgo era
un principato i cui conti discendevano addirittura da Carlo Magno. Enrico era un
principe tedesco, imbevuto della cultura internazionale delle corti la cui lingua era il
francese. Il conte di Lussemburgo era ora re di Germania e di fatto imperatore,
poiché aveva ottenuto il consenso del papa, e tutti i suoi sogni di grandezza si
indirizzarono al tentativo di riportare pace e obbedienza in Italia.
La preoccupazione di Dante per l’assenteismo imperiale si era molto accentuata da
quando non era più l’esponente di un arrogante e vistoso regime guelfo, ma un esule
che iniziò a dubitare del fatto i guelfi fossero i giusti. Si capisce dunque che la notizia
all’elezione di Enrico VII abbiano emozionato Dante. Il re dei romani non lo deluse,
anche se a Firenze si era già deciso che il re sarebbe stato un nemico, di fatto fu
l’unica città a non mandare a Losanna saluto e onorari all’imperatore. Ma c’erano, in
compenso, gli esuli, i quali non persero l’occasione per convincere il sovrano che i
fiorentini non si fidavano di lui. Non si sa se Dante partecipò.
Dante nell’aprile del 1311 scrisse una lettera a Enrico VII, che stava assediando
Cremona, dicendo che sbagliava a restare nella pianura padana e che andasse a
sconfiggere Firenze. Nell’epistola Dante ricorda a Enrico di averlo già incontrato e
baciato i piedi, come richiedeva il cerimoniale. Inoltre Dante dichiara di non aver
scritto solo a nome proprio, ma anche per gli “altri”, forse si sarebbe riappacificato
con i suoi vecchi compagni, i bianchi.
Dopo le oscillazioni iniziali, Firenze decise di resistere a tutti i costi alle richieste
dell’imperatore. Per consolidare il regime e togliere sostegni al nemico si creò
nell’agosto-settembre del 1311 un’amnistia, concedendo a tutti i confinati e banditi,
purché “veramente guelfi”, di rientrare in città. L’amnistia aveva però molte
restrizioni sul rientro dei magnati, che restavano il vero spauracchio del governo di
popolo. Ma c’era anche un elenco in calce, di condannati esclusi dai benefici del
provvedimento, comprendeva centinaia di nomi.
Dante era stato un buon profeta: presa Cremona nell’aprile del 1311, l’imperatore
dovette fronteggiare la ribellione di Brescia. A marzo del 1312 giunse a Pisa, città

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fedelissima, che gli fecero molti doni. E’ molto probabile che Dante fosse al suo
seguito, che forse abbia collaborato con la cancelleria imperiale, da cui uscirono
documenti che sembrano echeggiare le sue lettere aperte ai fiorentini e
all’imperatore.
L’avventura di Enrico VII durò ancora quasi 2 anni, durante i quali non sappiamo dove
fosse Dante: tutte le ipotesi sono buone. Aprendosi la strada con la forza, Enrico VII
entrò a Roma, ma non poté impadronirsi dell’intera città, che in gran parte era tenuta
dai soldati del re Roberto d’Angiò e dei guelfi toscani. Dopo mesi di scontri Enrico si
rassegnò a non farsi incoronare in San Pietro, ma in Laterano, il 1 agosto 1312.
L’imperatore poi si diresse a Firenze dove non concluse nulla, infatti tolse l’assedio e
devastò il contado e prese castelli, ma le sue risorse scarseggiavano. Fece quindi
un’alleanza con il re di Sicilia Federico III, per conquistare Napoli. I siciliani portarono
denaro per pagare i debiti, i pisano riaprirono i cordoni della borsa e gli uomini d’armi
accorsero dalla Germania e dall’Italia. Ma l’imperatore era malato, o era stato
avvelenato, si mise comunque in marcia ma morì a Siena il 24 agosto 1313.

Capitolo 20
Dopo la morte di Enrico VII, Dante, come i seguaci dell’imperatore, perse ogni
illusione di poter tornare a Firenze, e fuggì in Romagna.
Boccaccio, sapendo che Dante era morto a Ravenna, e non avendo, stranamente,
informazioni su dove fosse stato in precedenza, riempe la lacuna immaginando che
sia andato in Romagna sin dall’inizio.
Che Dante si sia arreso a rientrare a Firenze non è detto perché il comune Nero dei
guelfi era comunque in una situazione precaria. Nell’estate del 1315 i fiorentini
subirono la più catastrofica delle sconfitte.
Ma dove si trovava Dante in quel periodo? Gli anni successivi alla morte di Enrico VII
sono quelli su cui regna l’oscurità più profonda. Boccaccio credeva che fosse già a
Ravenna, ma si sbagliava. Filippo Villani ne sapeva di più, infatti chiarisce che dopo i
soggiorni in Lunigiana Dante si trasferì a Verona, dove restò per 4 anni, lavorando
molto, prima di accettare l’ospitalità di Guido Novello a Ravenna.
L’importanza del soggiorno veronese è testimoniata dallo stretto rapporto che i figli
di Dante mantennero con la città Scagliera dopo la sua morte.
Ci si chiede: perché Dante alla fine andò a Verona? Può darsi che a un certo punto si
sia accorto che la sua posizione alla corte degli Scaligeri stava diventando ambigua.

Capitolo 21.
A seconda di come la si valuta, l’epistola a Cangrande, se fosse autentica, potrebbe
testimoniare l’aspettativa di Dante per l’ospitalità che si aspettava di ricevere a
Verona, la sua gratitudine per i benefici che già stava ricevendo, oppure il tentativo
fallito di salvare un rapporto che si stava guastando.
Ravenna in quell’epoca era una grande capitale ecclesiastica, sede di un arcivescovo
tra i più ricchi d’Italia e di ricchissime abbazie. Il vescovo era Rinaldo da Concorezzo,
collaboratore di Bonifacio VIII. Ravenna era anche un prospero centro commerciale,
capoluogo di un entroterra ricco di pascoli e vigneti, vicino al mare e circondato di
saline e pescherie, che garantivano al comune cospicue entrate daziarie, anche se i
traffici, incentrati sull’esportazione di sale, pesce e vino, erano gestiti soprattutto da
mercanti veneziani, e veneziana era la moneta corrente. E come in tutti gli altri luoghi

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giravano soldi, la città sospesa fra acqua e terra ospitava imprenditori fiorentini, attivi
nel commercio, nella gestione delle proprietà ecclesiastiche, nel prestito del denaro.
Ravenna era un centro urbano vivacissimo e formicolante di forestieri. Di Ravenna
Dante intratteneva corrispondenza anche con gli amici lontani.
Inoltre, a Ravenna riuscì a mettere a posto due dei suoi figli: Piero, a cui vennero
assegnati due redditizi benefici ecclesiastici e Beatrice che divenne monaca nel
monastero di Santo Stefano..
Quanto alla data dell’arrivo a Ravenna, il termine ultimo è il 4 gennaio 1321, quando
Piero compare in un elenco di ecclesiastici ravennati.
Mentre Dante era a Ravenna venne fatto il suo nome ad Avignone, in circostanze
terrificanti. Erano gli anni in cui la paranoia della stregoneria stava cominciando a
impadronirsi della cristianità occidentale, dove avrebbe continuato a far danni per
tutta la fine del Medioevo e gran parte dell’età moderna. In quel clima erano
diventati frequenti i processi per stregoneria montati a fini politici.
Nell’estate del 1321 Cecco Ordelaffi (signore di Forlì) minacciò di fare guerra a
Ravenna e Venezia era disposta a finanziarlo. Non si sa quale fu il mandato di Dante,
ma probabilmente il suo viaggio a Venezia doveva servire a prendere tempo e
avvisare la signoria dell’arrivo di una proposta concreta di accordo, che in effetti fu
presentata il 20 ottobre 1321. Ma Dante era già morto da più di un mese e si
conclude che a ucciderlo sia stata una malaria fulminante. Come per tutto quel poco
che sappiamo della sua vita, anche la data di morte di Dante. Secondo Boccaccio
morì il giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, che corrisponde al 14 settembre.
Dante sarebbe probabilmente morto nelle prime ore della notte tra il 13 e il 14.

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