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ADDOME ACUTO

Sindrome clinica nella quale un rapido cambiamento delle condizioni di un organo addominale, generalmente
correlato ad infiammazione o infezione, determina dolore addominale acuto e gravi manifestazioni cliniche
con decorso ingravescente ⇛ richiede immediata e accurata diagnosi e, se necessario, un trattamento
chirurgico in regime d’urgenza.

Epidemiologia
Numerosi studi osservazionali hanno confermato che almeno un terzo degli adulti riferiscono un episodio di dolore addominale all’anno.
Le percentuali di ricovero per dolore addominale varia dal 18% al 42% nei diversi studi.

Eziologia
a) Cause addominali ⇒ addome acuto vero:
• Dolore addominale non specifico (35% dei casi)
• Appendicite acuta (30%)
• Colecistite acuta (10%) e colica biliare
• Occlusione intestinale acuta (5%)
• Patologia ginecologica acuta (⇒ PID, cisti ovarica emorragica,
GEU, torsione annessiale)
• Pancreatite acuta e cronica
• Ulcera peptica perforata
• Diverticolite acuta
• Diverticolite di Meckel
• Ischemia-infarto intestinale
• Rottura di aneurismi dell’aorta addominale

b) Cause extra-addominali ⇒ // falso:


• IMA inferiore, pericardite
• Pneumotorace, infarto polmonare, polmonite lobi inferiori
• Crisi emolitica in anemia falciforme, porfiria acuta, leucemia acuta
• Herpes zoster, tabe dorsale
• Chetoacidosi diabetica, insufficienza surrenalica acuta, ipertiroidismo
• Compressione dei nervi

Clinica

❖ Dolore
È il sintomo principale dell’addome acuto che spinge i pz a rivolgersi al medico o ad
andare in PS.
In base alle sue caratteristiche, il dolore può orientare verso una determinata diagnosi:
• Sede

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• Tipologia
− Dolore viscerale profondo ⇒ a partenza dai visceri addominali:
o In genere scarsamente localizzabile, avvertito nelle regioni mediane
o Qualità: sordo e cupo, viene variamente interpretato a seconda della causa come
crampiforme, urente, lacerante, a colpa di pugnale
o EO: pz irrequieto, addome trattabile (può essere presente contrattura, però volontaria),
Blumberg − , peristalsi conservata

− Dolore parietale ⇒ a partenza dal peritoneo parietale:


o Ben localizzato, asimmetrico, con iperestesia cutanea
o Qualità: terebrante, continuo; viene acuito dai movimenti del pz, dalla tosse e dalla
respirazione
o EO: pz immobile, in decubito laterale con cosce flesse sul tronco, prevalenza della
respirazione toracica su quella addominale, addome non trattabile (per contrattura involontaria
dei muscoli della parete addominale), Blumberg +, arresto della peristalsi (⇒ ileo paralitico)

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− Dolore riferito (viscero-parietale):
o È avvertito in regioni distanti dall’organo leso, può essere riferito sia alla cute sia ai
tessuti profondi
o Le strutture interessate hanno la stessa derivazione embriologica del dermatomero del
viscere sofferente.

Il dolore può essere inoltre classificato in:


− Dolore colico: dura generalmente alcuni minuti ed è seguito da periodi di remissione parziale o completa.
È in genere caratteristico dell’ostruzione di un viscere cavo ed è determinato dall’infrangersi dell’onda iperperistaltica a livello
dell’ostruzione.
Un’importante eccezione è rappresentata dalla colica biliare in cui il dolore tende a essere costante.
Il dolore colico da ostruzione intestinale, se non si accompagna a strangolamento, ha la tendenza a essere più sopportabile ed è in
genere avvertito come profondo e poco localizzato.
Il dolore causato dall’ostruzione di un piccolo condotto (uretere, dotto biliare) è assai intenso, spesso insopportabile, talora descritto
dalle donne come simile ai dolori del parto.

− Dolore continuo: perdura per ore, senza periodi di remissione, è più tipico di un’irritazione peritoneale.

• Modalità di insorgenza:
− Improvvisa: tipico della perforazione di ulcera peptica

− Graduale: tipica dell’appendicite o della colecistite.


Ci sono però anche casi di appendicite in cui il dolore ha un’insorgenza che appare improvvisa: questo accade quando i sintomi
iniziali vengono trascurati o non vengono avvertiti come tali dal pz stesso, soprattutto se pediatrico.

• Migrazione:
− appendicite: inizia come dolore somatico in epigastrio e diventa poi dolore viscerale in fossa
iliaca dx

− perforazione duodenale: inizialmente in epigastrio, poi con la caduta del contenuto duodenale in doccia parietocolica il dolore cambia
sito.

❖ Sintomi di accompagnamento:

• Vomito
Si possono differenziare, da un punto di vista patogenetico, tre tipi di vomito:
− Vomito riflesso: fenomeno neurovegetativo che si realizza per le connessioni esistenti fra vie ascendenti dolorifiche e nuclei vagali.
Può essere alimentare, chiaro (succhi gastrici) o verdastro (gastro-biliare) e non comporta in genere un’attenuazione dei disturbi

− Vomito da intossicazione: stesse caratteristiche, va riconosciuto attraverso un’attenta indagine anamnestica. In questo caso il dolore
addominale è meno intenso e non persistente

− Vomito ostruttivo: dovuto a un ostacolo al transito digestivo che determina l’accumulo nello stomaco di alimenti, succhi gastrici,
biliari o intestinali (a seconda del livello dell’ostruzione); la distensione delle pareti gastriche innesca il meccanismo del vomito.

La qualità del vomito può indicare la sede della stenosi:


o caratteristiche gastriche (trasparente o biancastro): prossimale alla seconda porzione duodenale
o caratteristiche enteriche (verdastro, giallastro fino a fecaloide): porzioni intestinali distali.

N.B: nelle patologie chirurgiche il dolore precede il vomito (ad es. appendicite), mentre nelle mediche il vomito precede il dolore

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• Febbre: frequentemente associata a infezioni intraddominali

• Chiusura dell’alvo a feci e gas ⇒ occlusione intestinale

• Segni di coinvolgimento sistemico: tachicardia e ipotensione, tachipnea, sudore, pallore

• Disturbi urinari e ginecologici

• Segni e sintomi legati alla patologia di base (ad es. ittero nelle pancreatiti).

❖ EO addominale

a) Ispezione generale: il pz si presenta visibilmente sofferente.


L’irrequietezza per un severo dolore colico contrasta con l’immobilità ed il disagio ai movimenti per un
dolore peritonitico.
L’addome deve essere esposto completamente, fino alle regioni inguinali e crurali.
Si osserva:
− conformazione dell’addome (⇒ ad es. globoso o disteso in caso occlusione intestinale)
− asimmetrie (⇒ distensioni di segmenti intestinali per ostruzione)
− presenza di cicatrici (⇒ aderenze), ernie (⇒ incarceramento o strozzamento), tumefazioni (⇒ ascessi, tumori, colecisti distesa, aneurismi)
− ombelico estroflesso (⇒ aumento della P endoaddominale)
− ascite
− segno di Cullen e Grey-Turner (⇒ sanguinamento retroperitoneale o intraddominale).

È importante valutare anche l’app. cv: tachicardia e ipotensione indicano una patologia complicata con peritonite.
Vanno ricercati anche i polsi, soprattutto in caso di sospetta rottura di aneurisma (ad es. potrebbero non essere più percepibili i polsi degli arti
inferiori).

b) Palpazione: deve iniziare lontano dalle aree di dolorabilità elettiva (per evitare di suscitare una contrazione parietale che
mascheri il rilievo di ulteriori segni) ed essere condotta con delicatezza, prima superficialmente e poi profondamente
per rilevare iniziali difese o contratture addominali, espressione di irritazione peritoneale, fino
all’addome ligneo/“a tavola” della peritonite diffusa.
Nel dubbio che la tensione sia invece dovuta a un problema di parete (ad es. ematoma del retto addominale), è utile il segno di Carnett in cui
provocando la contrazione della muscolatura addominale (facendo sollevare la testa o le gambe nel letto), la tensione parietale, se è dovuta a un motivo
di parete, aumenta notevolmente.

Possono poi essere ricercati alcuni segni obiettivi che si basano sul dolore provocato:
• Segno di Blumberg (o dolore di rimbalzo) ⇒ indice di peritonite

• Segno di Murphy ⇒ colecistite

• Segno di Mc Burney ⇒ appendicite


• Segno di Rovsing
• Segno dell’ileopsoas ⇒ flogosi peritoneale in fossa iliaca, come in caso di appendicite retro-ciecale,
ascesso dello psoas, fistola a fondo cieco del Crohn che interessa lo psoas
• Segno dell’otturatorio ⇒ peritonite endopelvica

• Manovra di Giordano ⇒ calcolosi renale.

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c) Percussione: si valuta l’ottusità plessica di un eventuale versamento che si contrappone alla risonanza
timpanica dell’addome meteorico.
Nel sospetto di perforazione, la scomparsa dell’area di ottusità epatica determinata dallo
pneumoperitoneo può confermare la diagnosi.

d) Auscultazione: in questo caso andrebbe eseguita subito dopo l’ispezione e prima di ogni manipolazione per evitare rumori transitori falsamente
interpretati come peristalsi:
• Presenza e qualità dell’attività peristaltica:
− ileo meccanico: i rumori peristaltici/borborigmi saranno ad alta frequenza (⇒
iperperistaltismo) fino ad assumere un timbro metallico (rumori di filtrazione dovuti al passaggio di
liquido ad alta pressione nelle anse distese); in fase avanzata si passa al silenzio addominale
− ileo paralitico: assenza dei rumori peristaltici
− Gastroenterite: peristalsi rapida

• Eventuale presenza di soffi vascolari (suggestivi di un aneurisma)

e) Esplorazione rettale: permette di valutare:


- Occlusioni: come neoplasie o fecalomi occupanti l’ampolla rettale (⇒ negli anziani i fecalomi sono la più
frequente causa di occlusione)
- Prostatite
- Peritonite endopelvica.

f) Esplorazione vaginale con palpazione bimanuale.

Diagnosi

• Anamnesi ed EO

• Esami di laboratorio:
− Emocromo con formula
− PCR e VES
− Funzionalità renale ed esame urine
− Elettrolitemia ed EAB
− Altri esami ematochimici:
o Amilasemia e lipasemia ⇒ pancreatite
o Bilirubina coniugata/diretta, fosfatasi alcalina e γ-GT ⇒ colestasi
o Enzimi di necrosi cellulare (LDH, CPK, AST-ALT)

− Gruppo sanguigno e prove di coagulazione: in previsione dell’intervento chirurgico

− Test di gravidanza (β-hCG) nella F: per escludere gravidanza ectopica.

• Imaging:
− RX torace e addome diretto: da richiedere possibilmente sia in posizione supina che ortostatica.
Può evidenziare:
o Multipli livelli idroaerei nelle anse del tenue e distensione ⇒ occlusione
o Falce d’aria sottodiaframmatica ⇒ perforazione di viscere cavo

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− Ecografia: metodica di scelta per la diagnosi di:
o appendicite
o colelitiasi/colecistite
o raccolte ascessuali addominali
o patologie epatiche
o patologie ginecologiche (con sonda transvaginale)
o eco-color-doppler per valutazione di flussi, aneurismi e trombosi

− EcoFast: viene effettuata in PS, quando si presenta un pz in condizioni critiche.


Si studiano i quattro quadranti sostanzialmente per ricercare raccolte liquide.
In particolare, le aree indagate sono: tasca di Morrison, regione sovrapubica, sottocostale e perisplenica.

− TC (senza e con mdc): nei casi dubbi di addome acuto e quadro clinico severo.
Al presente è considerata l’indagine più utile nella maggioranza delle situazioni per la sua accuratezza diagnostica e perché fornisce
dettagli di sede, anatomici e patologici, non possibili con le altre metodiche.
Ha un ruolo particolarmente importante nei pz in cui non si può raccogliere adeguatamente la storia (pz incoscienti o dementi) e nei
quadri di incerta attribuzione o qualora la decisione di procedere o meno alla esplorazione chirurgica necessiti di un ulteriore supporto.
Da alcuni studi è emerso che l’associazione della TC all’esame clinico fornisce un’accuratezza diagnostica del 95%.

La causa di addome acuto in cui la TC con mdc è assolutamente superiore all’ecografia è la


pancreatite acuta.

− Endoscopia: indispensabile momento diagnostico e terapeutico nelle emorragie del tratto GI.
L’EGDS non trova praticamente indicazione ed anche la colonscopia ha un impiego molto limitato: può essere utile, quando
l’intervento è controindicato, in caso di occlusione da volvolo del colon, poiché la derotazione endoscopica del volvolo è una possibile
alternativa alla chirurgia.

− Videolaparoscopia: ha due indicazioni principali:


o Diagnosi/fondato sospetto di patologia trattabile in laparoscopia ⇒ appendicite,
colecistite, perforazione gastroduodenale

o Mancato raggiungimento di una diagnosi con tecniche non invasive, in un pz le cui


condizioni cliniche non permettono il prolungamento dell’osservazione.

− Attenzione: eseguire anche ECG per escludere IMA.


Prestare anche particolare attenzione e prudenza ai pz anziani e agli immuncompromessi, in cui le manifestazioni e l’obiettività sono
più spesso sfumate, pur potendo preludere a gravi quadri clinici.

Management
All’arrivo in PS il pz critico deve immediatamente essere sottoposto a:
• Monitoraggio parametri vitali (PA, FC, FR, TC, PVC, diuresi)
• Posizionamento di accessi venosi periferici di grosso calibro
• Posizionamento di SNG e catetere vescicale

• A questo punto si instaura subito una terapia infusionale in quanto il pz con addome acuto smette di bere
e di mangiare, si somministrano antidolorifici e antibiotici ad ambio spettro ed infine, con una diagnosi
certa, si inizia la terapia eziologica.

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APPENDICITE ACUTA
È la più frequente urgenza/emergenza chirurgica nei paesi occidentali e rappresenta la prima causa di
addome acuto in età pediatrica.

Il picco di incidenza è soprattutto nella II-III decade di vita, sebbene possa verificarsi a ogni età.
Il rischio di sviluppare l’appendicite nel corso della vita è 1/13 o 1/14, quindi l’8,7% di probabilità nel M e il 6,7% nella F.
È molto rara sotto i 4 anni (1-2/100.000/anno).

Nella semeiotica classica si identifica la posizione


dell’appendice nel punto di McBurney (nella linea
immaginaria che congiunge l’ombelico alla spina iliaca
anterosuperiore, ad 2/3 della distanza dall’ombelico),
sebbene
spesso l’effettiva posizione è assai variabile.

Fisiopatologia
Il processo infiammatorio dell’appendice
vermiforme riconosce come causa scatenante
un’ostruzione del lume appendicolare: nelle
nostre zone, la causa più frequente è l’iperplasia
linfoide.
Altre cause:
- Coproliti
- Corpi estranei, come semi
- Parassiti
- Neoplasie, in particolare carcinoide appendicolare
- Quando non si identifica nessuna causa, si ipotizza ostruzione dinamica.

Si distinguono due quadri principali:


• Appendicite non complicata: forma iperemica e flemmonosa
• // complicata: forma gangrenosa e perforata, con decorso e complicanze più gravi.

Clinica
Il dolore dell’appendicite riconosce diversi stadi d’evoluzione:
1) I stadio: dolore viscerale in regione epigastrica-periombelicale, associato spesso ad anoressia e
febbricola (< 38.5°)

2) II stadio: si verifica quando l’interessamento della parete appendicolare è più importante.


Il dolore aumenta di intensità, con nausea e vomito riflessi (nel 70% dei pz) e associato talora a diarrea
(10%, di tipo irritativo, si caratterizza per continue evacuazioni di piccole quantità di feci).

3) III stadio: si verifica quando l’infiammazione raggiunge la parete e vengono stimolate le fibre somatiche.
Compare il dolore in fossa iliaca dx e i segni/sintomi dell’infiammazione parietale, quali la contrattura
di difesa e segno di Blumberg (dolorabilità di rimbalzo).

Sia i bambini sia gli anziani hanno un alto rischio di perforazione: il dolore diventa più intenso e diffuso, la contrattura di difesa aumenta così
come aumenta la temperatura corporea (> 39-40 ° C), compare l’ileo paralitico riflesso dovuto alla peritonite.

La più frequente evoluzione è la peritonite che può essere quadro d’esordio o instaurarsi tardivamente per ritardo diagnostico:
• diffusa: con segni e sintomi classici che sono più accentuati e interessano tutti i quadranti; la diagnosi è spesso intraoperatoria
• circoscritta: febbre (anche settica) + piastrone appendicolare + leucocitosi.

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All’EO:
• All’ispezione:
- pz generalmente sofferente con movimenti ridotti: tipicamente il bambino cammina curvo e
piegato (per non stirare il peritoneo), spesso con zoppia lato dx
- Segno del saltello: facendo saltare il bambino sul posto, sente più dolore quando atterra

• Alla palpazione:
- Dolorabilità in corrispondenza punto di McBurney associata a contrattura di difesa, evocata
con la manovra di Blumberg

- Se massa in fossa iliaca dx, possibile ascesso periappendicolare

- Segno di Rovsing: alla palpazione dei quadranti di dx, dolore in fossa iliaca dx.

- Segno del m. psoas: dolore all’estensione dell’arto inferiore dx con pz in decubito laterale sx, se
l’appendice è retrociecale

- Segno del m. otturatorio: dolore alla rotazione interna della coscia dx flessa a pz supino, se
l’appendice è pelvica.

• All’auscultazione: peristalsi torbida, con possibilità di arresto nelle fasi avanzate

Diagnosi
Reperti tipici agli esami laboratorio:
• Leucocitosi moderata (11.000-16.000/mm3), in particolare neutrofila: se molto
elevata, sospetto perforazione

• Elevazione PCR: dopo le prime 24 h; sempre elevata in quadri avanzati con perforazione

I dati anamnestici, obiettivi e di laboratorio permettono di stabilire la probabilità di appendicite mediante una serie
di scale:

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L’imaging non è sempre necessario, ma può essere d’ausilio nei casi dubbi o per confermare il sospetto clinico:

• Ecografia addome: gold standard.


Ha una sensibilità dell’85% e ad una specificità del 95%, grazie alle nuove sonde ad alta frequenza.
In presenza di appendicite acuta l’ecografia mostra un’appendice ripiena di liquido, non comprimibile, di diametro >6mm, con presenza di
liquido periciecale o periappendicolare e aumentata ecogenicità dei tessuti circostanti.
Un segno di Blumberg ecografico positivo ha una valenza diagnostica maggiore del segno clinico, in quanto si preme nella posizione esatta
dell’organo appendicolare.

• TC addome: per i casi più complessi (ad es. con ascessi multipli) o con presentazione atipica.

• RX addome diretto: generalmente non raccomandata, può avere un ruolo qualora si sospettino complicanze quali occlusione o aria libera in
addome.

Trattamento
Attualmente nel bambino il gold standard è rappresentato dall’appendicectomia (preferibilmente per via
laparoscopica), mentre nell’adulto con appendicite non perforata si può optare per un trattamento farmacologico
antibiotico per ev di prima linea.

La terapia di supporto dipende dai sintomi: i pz con appendicite acuta dovrebbero restare a digiuno e ricevere liquidi per ev (Ringer lattato o soluzione
fisiologica); il trattamento con sintomatici deve prevedere l’uso di antiemetici o di analgesici (gli oppiacei sono considerati i più efficaci in questi casi).

La terapia antibiotica va somministrata tempestivamente al momento della diagnosi, ciò riduce l’incidenza di infezione di ferita nel postoperatorio e la
formazione di ascessi intraddominali.
Antibiotici più usati: cefalosporine di III gen, metronidazolo (per la sua efficacia contro gli anaerobi) e/o aminoglicosidi (gentamicina).

L’intervento classico di appendicectomia consiste nella tecnica open, oggi utilizzato raramente se non in casi complicati.
Attualmente le modalità d’approccio tipiche prevedono l’utilizzo di tecniche mini-invasive di appendicectomia, distinte in due grandi categorie:
• Appendicectomia laparoscopica classica: si posiziona un trocar nell’ombelico, una videocamera e due pinze con cui si lega il mesenteriolo, si
recide l’appendice e la si estrae

• Appendicectomia videoassistita transombelicale (TULAA Trans-Umbilical Laparoscopic-Assisted Appendectomy): utilizzata a Brescia come
prima scelta per le appendiciti non complicate.
La TULAA non può essere eseguita, e viene quindi sostituita dall’intervento laparoscopico classico, in caso di: appendici perforate, ascessi, pz
obesi, posizione retrociecale e cieco fisso.

Se l'intervento è impossibile, gli antibiotici, sebbene non risolutivi, migliorano notevolmente la percentuale della sopravvivenza.
Sebbene diversi studi sulla gestione non chirurgica dell'appendicite (ossia, utilizzando solo gli antibiotici) abbiano mostrato alti tassi di risoluzione durante la
fase iniziale del ricovero, un numero significativo di pazienti ha una recidiva e richiede l'appendicectomia durante l'anno successivo ⇛ l'appendicectomia è
ancora raccomandata.

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Algoritmo UpToDate per trattamento negli adulti:

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PERITONITE
Processo infiammatorio a carico del peritoneo, che rimane tutt'oggi un’importante causa di morte nei pz
ospedalizzati.

Classificazione

➢ Classificazione eziologica:
• Peritonite primaria (rara): peritonite batterica diffusa in assenza della distruzione di un viscere
cavo intraddominale.
Sono, pertanto, la conseguenza della sovrainfezione del fluido ascitico che si accumula nei pz con grave compromissione della
funzionalità epatica o renale.
Sono generalmente sostenute da un solo ceppo batterico (⇒ monomicrobiche): frequentemente E. coli o uno dei batteri piogeni Gram +
(Streptococcus, Staphylococcus, Pneumococcus) e Gram– (Klebsiella, Proteus, Pseudomonas).
Tipi:
− Peritonite spontanea nel bambino
− // nell’adulto
− Peritonite in pz con CAPD (dialisi peritoneale)
− Tubercolosi e altre peritoniti granulomatose

• // secondaria: peritonite localizzata (⇒ ascesso) o diffusa che si verifica quando c'è la distruzione
di un viscere cavo addominale.
Sono generalmente sostenute da una flora polimicrobica.
Tipi:
− Peritoniti acute da flogosi acute e perforazione del viscere: appendicite, diverticolite del
colon, colecistite acuta, ulcera peptica, malattia di Crohn, ernia strozzata, ischemia intestinale ed infarto
mesenterico, neoplasia del colon, occlusione intestinale meccanica prolungata, colite ischemica, ascesso salpingo-ovarico,
torsione del viscere…

− // post-operatorie: deiscenze anastomotiche, perforazione/devascolarizzazione accidentale, filtrazione da


anastomosi intestinale per errore tecnico, persistenza di raccolte settiche addominali non drenate, emoperitoneo post-
operatorio…

− // iatrogene: complicanze perforative in corso di esami endoscopici, esami agobioptici addominali,


manovre radiologiche invasive (ad es. drenaggio percutaneo)

− // post-traumatiche: traumi chiusi o aperti

• // terziaria: sindrome peritonitis-like che si osserva a causa di disturbi della difesa immunitaria:
− Peritoniti senza evidenza di patogeni
− Peritoniti fungine
− // con batteri scarsamente patogeni.

In base all’eziologia, si possono distinguere anche:


• peritoniti settiche: caratterizzate da infezione locale o generalizzata del cavo addominale
• // chimiche: causate dal contatto del peritoneo con le secrezioni del tubo digerente e del
sangue.
Nelle peritoniti chimiche il materiale che si spande nel peritoneo è inizialmente sterile o
scarsamente contaminato e si realizza quindi solo una flogosi chimica peritoneale;
rapidamente, tuttavia, se sono presenti batteri nel liquido fuoriuscito, la peritonite da chimica si
trasforma in settica.

➢ Classificazione per estensione:


• Diffusa/generalizzata: più grave, espressione di una contaminazione massiva (ad es.
lacerazione traumatica del colon) o deficit dei meccanismi di difesa peritoneali
• Localizzata/circoscritta
• Pelviperitonite: generalmente conseguente a patologie ginecologiche.

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➢ // per circostanza di insorgenza:
• Comunitaria: la flora batterica responsabile è quella normalmente presente nell’intestino
• Nosocomiale Germi differenti da quelli della normale flora batterica per la pressione di
• Post-operatoria selezione esercitata dalla terapia antiobiotica (anche a dose singola!)

Fisiopatologia
Gli stimoli irritativi a carico del peritoneo determinano la comparsa di tre tipi di risposta:
• Risposta locale infiammatoria ⇛ dolore addominale acuto
• Ileo paralitico
• Modificazioni emodinamiche e cv, come conseguenza di:
− Ipovolemia: riconosce molteplici fattori causali: sequestro di liquidi nell’intestino, raccolta di liquidi nel cavo addominale,
vasodilatazione da iperemia attiva del distretto splancnico

− Presenza in circolo di endotossine: causano diminuzione delle R periferiche e depressione dell’attività cardiaca.
Inizialmente l’endotossina determina un aumento della gittata cardiaca; tuttavia, quest’ultima diminuisce successivamente,
influenzata dalla vasodilatazione e dall’ipovolemia.

Complessivamente questi due fattori possono determinare l’evoluzione in poche ore verso uno stato
di shock settico/ipovolemico, una condizione di inadeguata perfusione dei tessuti periferici che si
caratterizza clinicamente per:
− Ipotensione arteriosa (PAS < 90 mmHg o comunque una riduzione > 30 mmHg rispetto al normale)
− Segni/sintomi di ipoperfusione:
o confusione e sensorio obnubilato, astenia
o cute pallida e fredda soprattutto alle estremità, marezzata a chiazza
o dispnea e cianosi
o oliguria/anuria
o acidosi metabolica

− Segni di iperattività simpatica ⇒ tachicardia e vasocostrizione periferica con sudorazione


algida.

Clinica e iter diagnostico


Seguono sostanzialmente quello dell’addome acuto.

Difficoltà nella diagnosi:


• Solitamente in un pz non ospedalizzato la diagnosi è agevole,
ma ci sono due categorie in cui la diagnosi è più difficoltosa: i
bambini e gli anziani, in cui i sintomi e i segni possono essere
più sfumati e ritardare la diagnosi

• Un elemento che deve sempre allertare in un pz portatore di


patologie croniche è uno scompenso delle condizioni generali:
uno stato di shock, uno stato di insufficienza respiratoria
possono essere letti come indicatori di una urgenza
addominale, anche se apparentemente l'addome non è
interessato dai sintomi

• Il legame tra due cose apparentemente così distanti si può vedere anche nei pazienti operati: una peritonite post-operatoria può essere
messa in evidenza anche, ad esempio, da una complicanza cardiaca.

Ruolo della diagnostica per immagini


Quando la diagnosi è chiara dal punto di vista clinico e la peritonite si presenta in modo estremamente importante il malato non dovrebbe fare alcun
accertamento diagnostico, soprattutto se l'accertamento determinerebbe un allungamento dei tempi di attesa.
Tuttavia, la TC potrebbe essere utile in caso di infiammazione localizzata (ad es. appendicite) per confermare una diagnosi che potrebbe giovare di un
trattamento non chirurgico (antibiotico).

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Terapia
Prevede di regola la chirurgia: deve essere effettuata
con urgenza, non appena completato l’iter
diagnostico minimo indispensabile per giungere alla
diagnosi di peritonite in atto, e dopo aver eseguito la
preparazione preoperatoria (⇒ riequilibrio idro-
elettrolitico e metabolico, terapia antibiotica, altri
eventuali farmaci di supporto come inotropi
vasoattivi in caso di shock).
Solo in pochi casi non è indicata la terapia chirurgica: rare forme di
peritonite primitiva (tubercolare, da piogeni) e nelle pelviperitoniti a
focolaio primitivo utero-annessiale, che rispondono all’antibioticoterapia
e alla terapia medica.

Preparazione preoperatoria: consiste nel, nella somministrazione di


antibiotici e di altri farmaci di supporto eventualmente necessari.
La condizione di disidratazione derivante dal sequestro di liquidi nel
cavo addominale rende necessario infondere liquidi per ev in quantità
abbondante: per correggere l’ipovolemia e l’ipotensione arteriosa e per
ottenere una buona diuresi (almeno 50 mL/h) possono essere necessari 2-
3 L di sol. elettrolitica e di Ringer, talora associati all’infusione di
soluzioni di plasma expander, somministrati in 1-2h.
Si devono correggere le alterazioni elettrolitiche e dell’EAB, nonché un’eventuale anemizzazione grave, mediante infusione preoperatoria di
soluzioni elettrolitiche idonee e di sangue.
È sempre opportuno posizionare un catetere vescicale per il monitoraggio della diuresi oraria e, nei casi più gravi, va introdotto un catetere venoso
centrale per l’infusione di liquidi e per il monitoraggio della PVC.
Nei pazienti in condizioni di shock e di insufficienza respiratoria è necessaria una breve terapia rianimatoria preoperatoria con somministrazione di
farmaci inotropi vasoattivi, associando eventualmente la ventilazione meccanica.
Per contrastare la crescita batterica si somministrano antibiotici a dosaggio pieno, scegliendo empiricamente tra quelli attivi contro i ceppi batterici
potenzialmente responsabili dell’infezione.
I prelievi colturali per l’isolamento dei microrganismi patogeni vanno eseguiti, se possibile, prima di iniziare la terapia antibiotica.
Nei casi di peritonite particolarmente grave, è stata dimostrata l’efficacia della somministrazione per ev di alte dosi (0,4 g/ kg) di γ-globuline con Fc
integro, che migliorano l’opsono-fagocitosi batterica.

PERITONITE POST-OPERATORIA
Riguarda il 2% di pz operati, generalmente tra la 5° e la 7° giornata post-operatoria e comporta una
mortalità del 30-70%.

Clinicamente può presentarsi con dolore addominale e fuoriuscita di liquido purulento dal drenaggio, ma
spesso anche con manifestazioni atipiche: turbe dello stato di coscienza, insufficienza renale, distress
respiratorio, colestasi, problematiche cv (soprattutto FA e SC).
Questi sono sintomi il cui significato è da riconsiderare se il primo intervento era stato effettuato in: regime
d’urgenza, contesto settico, pz immunodepresso, difficoltà tecnica.

La vera sfida della diagnosi clinica è quella di identificare i pz che richiedono una re-laparotomia senza
perdere tempo, per il rischio di insufficienza multiorgano:

• Criteri di allarme: non portano direttamente all'intervento, ma ad un’attenta sorveglianza:


− Leucocitosi crescente
− Febbre isolata non altrimenti spiegabile
− Alterazioni del transito intestinale
− Segni biologici di défaillance viscerale.

Per il reintervento però non bisogna basarsi solamente su leucocitosi e marker di infezione (PCR e procalcitonina), né su creatinina o
PaO2, che rappresentano segni iniziali di insufficienza d'organo e non sono sufficienti per fare diagnosi di peritonite.

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• Criteri formali per reintervento:
− Presenza di pus o liquido denso nel drenaggio
− Segni locali clinici o radiologici
− Défaillance viscerale in progressione
− Forte dubbio diagnostico in pz a rischio.

N.B: se i drenaggi non dicono nulla di particolare non si è autorizzati a dire che non c'è il problema, in quanto potrebbero non essere posti
direttamente nella zona di raccolta purulenta.

Quando l'indicazione per l'intervento rimane dubbia, l'imaging (ecografia e TC) fornisce un contributo solo
nel 50% dei casi.
Da un lato non bisogna tardare la diagnosi, dall'altro una laparotomia “bianca” non è senza rischi (“bisogna
operare solo quando è necessario operare”):
• Quando una complicanza post-operatoria è sospettata durante la prima fase post-operatoria (⇒
primi 3 giorni), la decisione di re-intervento deve essere presa senza ulteriori indagini radiologiche

• Quando sono passati 3 giorni, la decisione di effettuare una re-laparotomia deve essere validata da
una TC: è l’esame di riferimento per identificare raccolte e/o ascessi post-operatori, che sono
lesioni trattabili non chirurgicamente.
Tuttavia, occorre tener presente che:
− Non tutte le raccolte addomino-pelviche sono ascessi: eventualmente fare un agoaspirato per
vedere di che tipo di raccolta si tratta

− La presenza di un ascesso vicino all'anastomosi è quasi sempre segno di una deiscenza


circoscritta: questi sono i casi che si prestano poco ad un successo terapeutico del drenaggio
percutaneo.
In particolare, l’ascesso nel post-operatorio deve portare a tre ipotesi: contaminazione intra-
operatoria, ematoma suppurato e deiscenza anastomotica.

Considerazioni conclusive
Le peritoniti sono delle urgenze il cui trattamento comprende una terapia chirurgica, medica e anche
metodiche radiologico interventistiche volte a impedire il reintervento (ad es. drenaggio di un ascesso o di
una raccolta).
Non tutte le deiscenze anastomotiche vanno operate, ma va sempre operata la peritonite da deiscenza
anastomotica.

Nelle infezioni comunitarie la diagnosi è essenzialmente clinica, mentre nelle infezioni post-operatorie, di
per sé a prognosi estramamente grave, la diagnosi deve integrare clinica con imaging.

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ADDOME ACUTO EPATO-BILIO-PANCREATICO POST-OPERATORIO
È per definizione espressione di complicanza chirurgica da: deiscenza anastomotica, raccolta di
linfa/bile/succo gastrico, ascesso o emorragia.
Differisce, pertanto, dall’addome acuto gastro-entero-colico che può essere una complicanza chirurgica
oppure un'evoluzione di un processo settico primitivo.

Per quanto riguarda la diagnosi, nell'addome acuto epato-bilio-pancreatico l'imaging è fondamentale,


mentre nell'addome acuto gastro-entero-colico la diagnosi è clinica nei primi giorni e supportata
dall'imaging nei giorni successivi.

➢ Addome acuto post-chirurgia PANCREATICA


La chirurgia pancreatica è difficile per via di diverse caratteristiche:
− lunga durata
− complessa per molteplicità di anastomosi
− perdita ematica abbondante
− ad elevata mortalità (<5%) e morbilità post-operatoria (30-65%).

Il problema della chirurgia del pancreas, soprattutto della duodenocefalopancreasectomia (DCP), consiste
nella necessità di anastomizzare un organo parenchimatoso (⇒ porzione di pancreas restante) ad un
organo cavo (⇒ stomaco o digiuno) per consentire alla ghiandola esocrina di secernere i propri enzimi a
livello intestinale.
La deiscenza/fistola della anastomosi pancreatica è il tallone d'Achille di questa chirurgia perché può
portare alla formazione di una raccolta peripancreatica che nel 90% dei casi si infetta (evolvendo poi in un
quadro settico) e rischia di scatenare un'ulteriore complicanza, cioè l'emorragia arteriosa tardiva
(“complicanza di complicanza”), spesso per rottura di pseudoaneurisma, con rischio di evoluzione verso un
quadro di addome acuto emorragico e infine MOF.

➢ Addome acuto post-chirurgia EPATICA


La chirurgia epatica presenta il problema della fase preoperatoria di selezione del pz, tenuto conto che in
alcuni casi ci sono trattamenti alternativi alla chirurgia.
È fondamentale dunque valutare la funzionalità epatica, perché se si resecasse più del 50%, bisognerebbe
avere la certezza che la porzione restante sia in grado di funzionare.
In caso di addome acuto post-chirurgia epatica, una delle possibili cause è l'insufficienza epatica primitiva,
ma in realtà associata ad una mortalità assai ridotta dato che nei pz a rischio si può fare un adeguato studio
della funzione epatica “residua” ed esistono anche tecniche per stimolare l'ipertrofia del fegato residuo.
La mortalità prevalente si correla piuttosto alle complicanze che possono portare ad insufficienza epatica
secondaria.

Principali complicanze correlate alla chirurgia epatica:


• Ascite: è una complicanza relativamente frequente, ma di per sé non entra quasi mai nelle
definizioni di insufficienza epatica post-operatoria, che generalmente comprende solo l'aspetto di
mal funzionamento del parenchima epatico (quadro itterico, scarsa coagulazione, coma...).
Spesso compare in assenza di altri segni di scompenso funzionale e risulta, almeno in parte,
conseguenza di trauma meccanico: si interrompono le vie linfatiche, si mobilizza il fegato e si
sviluppa linforrea.
Se si considera il tasso di mortalità del malato con ascite, si nota come la mortalità sia 4 volte
superiore ad un quadro privo di ascite

• Emorragia arteriosa: non particolarmente frequente, richiede trattamento percutaneo


endovascolare

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• Perdita biliare: se non riconosciuta porta alla formazione del biloma, ossia una raccolta di bile
circoscritta.
Teoricamente se la raccolta viene delimitata da una parete, all'interno si genera una pressione in
grado di chiudere il foro; al contrario il posizionamento di un drenaggio nella raccolta impedisce la
chiusura del foro ⇛ non vale sempre il concetto secondo cui laddove c'è una raccolta, è necessario
drenare; invece bisogna sempre drenare in caso di ascesso.

In caso di biloma, probabilmente sterile, resta il dubbio sul come procedere: a rigor di logica, si
dovrebbe drenare e se la bile continuasse ad uscire si dovrebbe eseguire una CPRE per mettere uno
stent nella via biliare, facilitando il passaggio di bile per la via fisiologica e dunque la chiusura del
foro.

La lesione della via biliare può essere una complicanza davvero seria, che si presenta con diversi
quadri:
− stenosi della via biliare associata ad ittero ostruttivo (ad es. perché si è legata
accidentalmente la via biliare)
− interruzione della via biliare con o senza fistola.

Questi quadri possono associarsi anche ad un danno vascolare e necessitano di approcci terapeutici
diversi:
− in caso di stenosi: si può attendere ed osservare l'andamento
− // occlusione: si può ripermeare con tecniche endoscopiche o radiologiche
− // fistola: è necessario tener conto del rischio settico, considerando anche che difficilmente
la lesione si chiude autonomamente.

In seguito ad un intervento laparoscopico, proprio per la mininvasività, ci si aspetta che il malato il giorno
successivo stia bene.
Tuttavia, se il malato dovesse presentare febbre, dolore addominale, ileo paralitico o altri sintomi
(considerabili fisiologici post-intervento laparotomico), si tratterebbe di una anomalia e richiederebbe
esami d'approfondimento.

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OCCLUSIONE INTESTINALE
Arresto della normale progressione del contenuto intestinale in senso oro-anale.

Classificazione
a) In rapporto alla causa:
• Ileo paralitico (o adinamico): determinato da deficit della motilità, rappresenta una forma aspecifica di
risposta a condizioni di stress.
Patogenesi: la stimolazione sensoriale del peritoneo produce un arresto dell’attività motoria intestinale che persiste mediamente per 4 ore nello
stomaco, per 6 ore nel tenue, per 35 ore nel colon dx e per 55 ore nel colon sx.
Notevole importanza viene attribuita al ruolo dell’innervazione simpatica dell’intestino: l’inibizione della motilità sarebbe mediata dal sistema
adrenergico come conseguenza di un meccanismo riflesso in risposta alle stimolazioni dolorose dei recettori peritoneali, stimolati a loro volta da
stati dolorosi di varia natura, ma anche dall’irritazione o dalla flogosi peritoneale.

Cause:
− Intra-addominali
o intra-peritoneali: laparotomia (ileo-post-operatorio), peritonite, irritazione peritoneale
(da corpi estranei o agenti chimici), insufficienza vascolare mesenterica
o extra-peritoneali: emorragia o flogosi retroperitoneale (ad es. da aneurismi aortici),
pancreatite acuta, sindromi dolorose gravi (ad es. colica renale)

− extra-addominali sistemiche:
o squilibri elettrici (quali ipopotassiemia, iponatriemia, ipomagnesemia)
o squilibri acido base, farmaci (anticolinergici, narcotici, ganglioplegici)
o traumi
o patologie del SN.

• Ileo meccanico (o dinamico): da ostacolo fisico.


Cause:
− Blocco endoluminale: calcolo biliare, impattamento fecale, bezoar, corpi estranei, enteroliti, parassiti, in età
neonatale ileo da meconio

− // intramurale:
o Neoplasie (soprattutto a livello del colon, dx > sx)
o Malattie infiammatore: IBD, diverticolite
o post-operatoria (stenosi anastomotica) e post-RT
o pneumatosi intestinale
o endometriosi
o Cause congenite (in età neonatale): atresie, stenosi

− // extramurale:
o Post-operatorie: aderenze, briglie, ematomi, ascessi, laparocele
o Aderenze post-infiammatorie
o Ernie esterne (prevalentemente inguinali nel M, crurali nella F) o
interne (in neocavità esiti di interventi chirurgici)
o Volvolo (torsione assiale di un segmento del tenue o del colon su se
stesso o sul proprio mesentere che produce un’ostruzione sia prossimale che
distale)
o Invaginazione
o Carcinosi peritoneale
o Gravidanza.

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b) In rapporto alla sede:
• Alta: occlusione prossimalmente al Treitz

• Intermedia: se riguarda il tenue (70% dei casi)

• Bassa: se riguarda l’intestino crasso (30% dei casi).


Può essere a sua volta suddivisa in:
o Ostruzione a valvola/ad ansa chiusa: la valvola ileo-ciecale rimane continente, quindi si ha un accumulo imponente di gas e feci che
distende il colon fino a rompersi ⇛ maggior rischio di perforazione

o // a valvola/ad ansa aperta: la valvola ileo-ciecale risulta incontinente, quindi l’accumulo di feci e gas sarà in parte deteso verso l’ileo
⇛ i segni/sintomi si attenuano ma virano versi quelli dell’occlusione alta, con eventuale vomito fecaloide (maleodorante)

c) A seconda delle caratteristiche:


• Completa: ai solidi e ai gas
• Incompleta o sub-occlusione: solo ai solidi

• Semplice: senza ulteriori complicanze


• Complicata: con compromissione della vascolarizzazione del viscere (strangolamento).
Lo strangolamento è la più grave complicanza dell’occlusione intestinale: la mortalità per questo evento è ancora molto elevata, intorno al 30%.
Le situazioni che più frequentemente producono strangolamento sono: briglie aderenziali, ernia strozzata, volvolo e invaginazione.
Lo strangolamento si produce quando in un’ansa, occlusa in entrambe le direzioni per l’esistenza di un’ostruzione a monte e a valle, si crea un
ostacolo al deflusso venoso e conseguentemente una congestione venosa del segmento interessato.
Quest’ultimo fenomeno è seguito poi da spasmo arterioso e, quindi, da ipoafflusso: l’ischemia che ne consegue conduce a infarto, necrosi e,
quindi, a perforazione della parete con peritonite e shock.

Fisiopatologia dell’occlusione intestinale


• Ileo adinamico: fallimento della progressione delle onde peristaltiche per deficit di motilità senza ostacolo meccanico visibile

• Ileo meccanico: è caratterizzato da una dilatazione della porzione intestinale prossimale (a monte) per accumulo di gas prodotti dalla flora
intestinale soprattutto nella porzione duodeno-diginunale, e per accumulo di liquidi ed elettroliti a causa del mancato assorbimento.
Vi sarà anche un aumento del numero di batteri.
Si riscontra invece una normale funzionalità della porzione distale (a valle), che può però portare al collasso la struttura stessa.

In entrambi i casi si verifica dilatazione del lume intestinale, riduzione dell’efficacia delle onde peristaltiche, paralisi flaccida, aumento della pressione
idrostatica interna con edema di parete e apertura di shunt artero-venosi con riduzione della perfusione del viscere.

La dilatazione e l’aumento della pressione idrostatica interna andranno a determinare un’ipovolemia: tutti i liquidi vanno a ristagnare soprattutto a livello
dell’ileo e a livello del tratto ascendente del colon.
I volumi di ritenzione di liquidi e gas possono essere di ingenti dimensioni, si parla infatti di litri.

Clinica
• Alvo chiuso a feci e gas: segno più precoce nelle occlusioni intestinali basse, più tardivo nelle alte. L’eliminazione di gas e feci come
risultato dello svuotamento della parte di intestino distale all’ostruzione può talvolta verificarsi e non deve ovviamente ingannare.
Quando l’occlusione non è completa, o non è ancora completa, l’alvo può essere diarroico, perché solo feci semiliquide riescono a oltrepassare il
segmento ostruito. In queste circostanze è tipico osservare, con ricorrenza ciclica, giorni di stipsi seguiti da un episodio di feci non formate,

• Vomito:
− Quanto più l’occlusione è alta (piloro, duodeno, digiuno), tanto più il vomito è precoce, costante, continuato e abbondante; in questi
casi il materiale vomitato è prevalentemente biliare e può rappresentare un’efficace, anche se transitoria, decompressione
− Quanto più l’occlusione è bassa, tanto più il vomito diventa meno frequente e più tardivo, di colorito più scuro, maleodorante,
fecaloide.

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• Dolore:
− nelle occlusioni pilorica e duodenale il dolore è intermittente, localizzato nella regione epigastrica, e viene più frequentemente riferito
come sensazione dolorosa più che crampiforme

− Nell’occlusione del tenue, il dolore è tipicamente crampiforme con un caratteristico crescendo fino all’acme, per poi recedere fino
all’intervallo libero (circa 5 minuti) prima della colica successiva

− Nelle occlusioni del colon, il dolore è solitamente meno intenso, più sordo e profondo, talora diffuso o, a seconda della sede
dell’ostruzione, localizzato all’ipogastrio o alla fossa iliaca sx

− Nell’ileo paralitico il dolore è meno intenso e meno localizzato

• Distensione addominale: è assente o poco significativa nelle occlusioni alte.


Diventa via via più importante nelle occlusioni dell’ileo distale e del colon, raggiungendo i massimi livelli in alcune forme ostruttive del colon
distale (neoplasie del sigma e del retto, volvolo del sigma).
Può essere:
− Centrale: presente nelle ostruzioni dell’intestino tenue
− Asimmetrica: a livello dei fianchi, presente in caso di ostruzione distale del colon
− A livello del fianco sx, in presenza di volvolo del sigma

• Modificazione dell’equilibro idroelettrico ed acido base

• Ipovolemia ⇛ tachicardia e ipotensione


Nell’intestino in condizioni normali si riversano 8-10 L giornalieri di secrezioni.
Nell’occlusione intestinale da 5 a 9 L di liquidi possono essere persi nel lume intestinale, nella parete intestinale e nella cavità peritoneale.
Queste perdite, cui si aggiungono quelle attraverso il vomito o l’aspirazione mediante SNG, producono uno stato di ipovolemia e di
emoconcentrazione e, qualora non adeguatamente trattate, conducono a insufficienza renale e a morte.

• Febbre

• Altri sintomi: ascite, peristalsi visibile, ernie o tumefazioni palpabili, dolorabilità alla palpazione, rumori peristaltici in crescendo, torpidità o
assenza di peristalsi, feci in ampolla all’esplorazione rettale, sangue visibile o occulto nelle feci.

Differenze tra i segni e i sintomi tra l’ostruzione alta e bassa:

Durata Intervallo Vomito Distensione Occlusione Disidratazione


colica libero dal addominale
dolore
OSTRUZIONE Breve Breve Frequente Minima Costante Severa, in quanto
ALTA nell’intestino
tenue si ha il
riassorbimento di
liquidi.
OSTRUZIONE Più lunga Più lungo Meno Maggiore Moderata
BASSA frequente, o
più
tardivamente

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Diagnosi
Segue sostanzialmente quella dell’addome acuto.

Trattamento
Può essere:
a) Conservativo
Viene eseguito quando:
− non segni di strangolamento e peritonite
− chirurgia ≥ 6 settimane prima
− occlusione parziale
− segni di risoluzione all’ammissione.

Prevede:
− reidratazione per ev
− decompressione con SNG, naso-digiunale o
endoscopia
− osservazione clinica
− Si deve poi effettuare un controllo radiologico con mdc idrosolubile
(Gastrografin) valutando la progressione dello stesso all’interno
dell’intestino.
Se il mdc nelle 24h è arrivato a livello del colon si può presumere che
vi sarà una risoluzione spontanea del quadro ostruttivo e quindi si
persiste col trattamento conservativo.
Diversamente se dopo 24/36h il mdc non è arrivato a livello del colon
bisogna pensare ad un approccio chirurgico, sia esso in laparoscopia o
in laparotomia.

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b) Chirurgico
Indicazioni:
− Evidenza di strangolamento,
perforazione o peritonite
− chirurgia effettuata nelle 6 settimane
precedenti
− carcinomatosi
− ernia risulta irriducibile
− mancata risoluzione a seguito di 72h di
trattamento conservativo.

− Altre indicazioni che indirizzano verso una scelta chirurgica: segni di evoluzione peritoneale, ileo persistente per più di 72h,
secrezione di quantità di fluidi superiori a 500 cc/die dal sondino nasogastrico, persistenza della sintomatologia dolorosa, aumento
degli indici di flogosi, assenza di mdc a livello del colon a seguito di TC con mdc.

SINDROMI PSEUDO-OSTRUTTIVE
Vanno a mimare un ileo paralitico.
Si distinguono in:

a) Acuta ⇒ sindrome di Ogilvie


Particolare tipo di ostruzione con abnorme dilatazione acuta del colon in assenza di causa organica riconoscibile.
Ezio-patogenesi: nel 50% dei casi è associato a patologia sistemica, mentre nel restante 50% a trauma, assunzione di alcool, antidepressivi,
pregressi interventi.
Si ha compromissione temporanea dell’innervazione parasimpatica del plesso sacrale con prevalenza simpatica e conseguente ipomobilità e
atonia (occlusione paralitica).
Clinica: è caratterizzata da insorgenza acuta, addome disteso ma trattabile con sintomatologia dolorosa di tipo peristaltico, nausea, vomito,
occlusione completa, ma talvolta occlusione incompleta.
Iter diagnostico-terapeutico: l’indagine di prima scelta risulta essere l’RX addome, a cui seguono clisma del colon con mdc e TC con mdc.
L’elemento più importante è la valutazione del diametro dell’ansa: il trattamento conservativo viene effettuato fino a quando il diametro è ≤ 10
cm.
Viene effettuato un controllo RX ogni 12-24 ore, e si assiste ad una remissione in 3-6 gg.
In caso di diametro ≥ 12 cm si procede con un trattamento di tipo chirurgico o, in base alle condizioni del paziente, ad una detenzione
endoscopica.

b) Cronica
Sindrome da alterata motilità intestinale caratterizzata da episodi subacuti o intermittenti che simulano il quadro clinico della subocclusione
intestinale.
Eziologia: generalmente idiopatica, ma a volte secondaria a patologie quali collagenopatie, miopatie, malattie endocrine, abuso di psicofarmaci.
Clinica: si presenta con nausea, vomito, dolore, distensione addominale, episodi (spesso alternati) di stipsi e diarrea (quadro tipicamente
occlusivo).
Localizzandosi a diversi livelli del tratto gastroenterico può mimare condizioni cliniche differenti quali acalasia, atonia gastrica, subocclusione
intestinale, morbo di Hirshprung.
Istologicamente si ha degenerazione della componente muscolare o neuronica e dei plessi mioenterici del tratto GI.
Trattamento: prevede palliazione dei sintomi pseudostruttivi, mentre risulta essere utile trattare la patologia eventualmente associata.

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EMORRAGIE DIGESTIVE
Perdita di sangue all’interno del lume dell’app. digerente.
Si va da sanguinamenti lievi con sanguinamento occulto a sindromi con elevata mortalità (10-25%) per
shock emorragico.

Si classificano dal punto di vista anatomico (prendendo come punto di discrimine il legamento di Treitz) in:

A) EMORRAGIE DIGESTIVE SUPERIORI


Sono provocate da lesioni situate prossimalmente al legamento di Treitz, quindi in esofago, stomaco e
duodeno.
Sono molto più frequenti (90% delle lesioni digestive), prevalgono nei pz giovani (età media 30-60 anni),
presentano anche maggior rischio di sanguinamenti gravi (⇛anemizzazione e shock emorragico) e di
interventi chirurgici.

Cause:
➢ Ulcera peptica (50% dei casi):
- Gastrica (21%): in endoscopia si presenta circolare, con margini netti e rilevati, fondo ricoperto da fibrina, circondata da
pliche convergenti.
I segni di rischio di sanguinamento sono coagulo fresco e “visible vessel”; i fori ulcerativi si presentano neri poiché l’emorragia si è
fermata grazie alla formazione di un coagulo.
Se durante l’endoscopia si osservasse un coagulo adeso alla parete bisognerebbe lavarlo via per poter osservare il vaso lacerato
sottostante ed eseguire poi emostasi endoscopica.
Particolari ulcere:
o ulcera di Dieulafoy: localizzata a livello della piccola curva in prossimità del cardias con “visible vessel”, spesso
determinata da un’arteria anomala della sottomucosa
o ulcera acuta: compare senza precedenti patologie, può essere da stress

- Duodenale (24%): risulta essere più grave poiché spesso da shock all’esordio per la frequente erosione di rami dell’a.
gastroduodenale. Frequente è anche l’aspetto duplice (“kissing ulcers”)

➢ Gastrite erosiva-emorragica (25%)


È caratterizzata da multiple erosioni o microerosioni mucose diffuse, che coinvolgono esclusivamente la mucosa gastrica senza
approfondirsi.
Cause: FANS e salicilati, steroidi, alcol, ma anche stato di shock secondario a politraumatismo e interventi chirurgici complessi (per via
dell’ipoperfusione e dell’aumentata permeabilità mucosale).
Un particolare tipo è la gastrite congestizia, tipica dell’ipertensione portale, caratterizzata da intenso edema e iperemia plicale

➢ Varici esofagee (10 %)


Si formano per ipertensione portale con incremento del gradiente di pressione portale (PPG, definito come differenza di P tra v. porta
– v. CI) >12cmH20.
In endoscopia si presentano grigie e blu, colonnari o serpiginose.
Segni di rischio sanguinamento: strie rosse, punti rossi, ematocisti, iperemie diffuse e tappi di fibrina.
La prognosi è grave con alta mortalità se sanguinanti.
Si può intervenire in prevenzione con β-bloccanti non selettivi (propranololo) e legatura elastica delle varici medio-grandi.

➢ Sindrome di Mallory-Weiss
Consiste in una lacerazione di mucosa e sottomucosa del giunto esofago-gastrico dopo vomito ripetuto (spesso da abuso alcolico) o
trattenuto.
In endoscopia si presenta una lacerazione longitudinale coperta da fibrina o attivamente sanguinante in prossimità della linea Z.
La prognosi è generalmente buona, ma se la lesione interessa tutto lo spessore per un maggior impegno pressorio si ha la sindrome di
Boerhaave: l’esofago si lacera e il suo contenuto passa nel mediastino provocando mediastinite.

➢ Esofagite ed ulcere esofagee

➢ Neoplasie (in ordine di frequenza gastriche, esofagee e duodenali) e processi infiltrativi di tumori vicini come il
tumore della testa del pancreas (che infiltra e ulcera la parete dell’esofago)

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➢ Altre cause più rare:
− angiodisplasie emorragiche (chiamate anche GAVE, sono neoformazioni vascolari)
− polipi
− diverticoli esofagei e duodenali (anche se raramente)
− ernia jatale
− fistola aorto-duodenale (in caso di aneurisma aortico)
− ingestione di caustici.

B) EMORRAGIE DIGESTIVE INFERIORI


Sono provocate da lesioni situate distalmente al legamento di Treitz, quindi in digiuno, ileo, colon, retto e
ano.
Sono meno frequenti (10-15% delle lesioni digestive), prevalgono nei pz anziani (età media di 60-80 anni) e
causano principalmente sanguinamenti lievi e cronici.

Cause:
• Malattia diverticolare (45% dei casi)
• Ectasie vascolari (20%), angiodisplasie e malformazioni vascolari
• Neoplasie del colon (10%)
• Patologie ano-rettali (come ragadi ed emorroidi)
• Malattie infiammatorie intestinali (infettive, attiniche, idiopatiche)
• Colite ischemica
• Altre cause più rare: infarto mesenterico, tumori del tenue, diverticolo di Meckel, ulcere peptiche del tenue, strozzamento intestinale
(conseguente a volvolo o invaginamento) e ulcera solitaria del retto.

Clinica delle emorragie digestive


Secondo una classificazione clinica, le emorragie si possono distinguere in:
• Emorragie acute: massive (⇛ instabilità emodinamica e shock ipovolemico) o autolimitantesi
• // croniche: provocano principalmente SOF e anemia sideropenica.

Principali manifestazioni:
• Ematemesi: vomito di materiale ematico, indica lesione superiore.
Può essere:
- Rosso vivo: indica generalmente emorragia importante in atto
- Caffeano: sangue parzialmente digerito dai succhi gastrici, raccolto in stomaco da lesioni esofagee o gastriche oppure refluito in
stomaco dal duodeno per movimenti antiperistaltici.

• Melena: scarica diarroica di feci scure, di odore caratteristico, composta da sangue digerito dai succhi digestivi e dai batteri intestinali.
Avviene per perdite ematiche acute di entità > 200ml.

• Proctorragia: emissione di sangue rosso vivo legato a lesione inferiore (spesso a livello del sigma)
Il rapporto reciproco del sangue con la defecazione è indicativo di diverse situazioni:
− Sangue emesso da solo, al di fuori della defecazione oppure che può precedere o seguire le feci ⇒ lesione anale (proctorragia) o
rettale (rettorragia)

− Ematochezia:
o Feci verniciate di sangue all’esterno ⇒ lesione parte terminale del colon o retto; le feci si sono già solidificate quando
si rivestono di sangue e perciò la lesione è bassa perché le feci si solidificano nell’ultimo tratto del tubo digerente.

o Sangue misto alle feci: la lesione si trova a un livello in cui le feci sono ancora morbide, perciò indicano una lesione più
alta.
Se poi il sangue non è rosso vivo, ma più sfumato e lucido mi oriento verso una lesione ancora più alta (in una zona ricca
di muco e acqua): le feci, perciò, possono presentarsi come una “marmellata di frutti rossi” se il sanguinamento è a livello
ileale/cecale (emorragia digestiva)

• Sangue occulto fecale: emissione cronica di sangue in piccole quantità (50-100ml)

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• Anemizzazione acuta (⇒ sintomatica, con astenia, dispnea da sforzo, pallore, tachicardia) o cronica
• Manifestazioni di instabilità emodinamica.

Classificazione dell’attività emorragica secondo Forrest

Diagnosi

• Anamnesi
− Patologica prossima: caratteristiche del sanguinamento, modalità d’insorgenza, fenomeni scatenanti e sintomi associati,
qualità delle feci in termini colorimetrici
− Patologica remota: precedenti patologie GI e cv
− Farmacologica: FANS, cortisonici, anticoagulanti, ma anche fitoterapici
− Familiare: poliposi e coagulopatie ereditarie

• EO: EO generale e addominale, ispezione orofaringe, ispezione ano-perineale e rettale, ispezione delle feci e materiale emesso col
vomito

• Esami ematochimici: emocromo, coagulazione, funzionalità epatica, elettroliti, emogruppo (per


eventuali trasfusioni), ricerca del SOF

• Diagnostica strumentale:
− Endoscopia:
o EGDscopia
o retto-sigmoidoscopia e panscolopia

I limiti delle endoscopie corrispondono ai livelli fisici ai quali le procedure arrivano:


o L’esofago-gastro-duodenoscopia si ferma poco sotto lo sbocco della papilla del Vater, si riesce perciò ad analizzare
fino alla seconda/terza porzione duodenale
o La colonscopia arriva al massimo ad esplorare l’ultima ansa ileale passando poco oltre la valvola ileocecale.

Rimane però un tratto di intestino tenue difficilmente valutabile, si utilizzano perciò altre tecniche:
o Ileoscopia retrograda: si utilizzano endoscopi molto più lunghi con o senza palloncino in modo da segmentare i
tratti analizzati.
o Videocapsula: se non sono presenti occlusione intestinale o angolazioni particolari che potrebbero ostacolare il suo
decorso viene espulsa e letta; il suo grosso limite è che vede ma non localizza la lesione

24
− Rx con clisma opaco e Rx con clisma del tenue
− TC con mdc (angio-TC)

− Arteriografia selettiva (con anche possibilità terapeutica)

− Scintigrafia con colloidi o globuli rossi marcati con tecnezio.

Protocollo diagnostico-terapeutico in urgenza-emergenza


1) 1° Step:
− Verificare assenza di ostruzioni delle vie aeree (da sangue, coaguli, vomito) ed eventualmente
valutare intubazione
− Monitorare parametri vitali (in particolare prestare attenzione ad aumento della FC e ipotensione)
− Catetere vescicale e urinometro (per monitorare diuresi in caso di shock)
− Accesso venoso bilaterale con ago di grosse dimensioni
− Trattare eventuale stato di shock con liquidi per ev (sol. fisiologica o Ringer lattato) ed
eventualmente trasfusione di sangue
− Può essere necessario il posizionamento di un SNG (attenzione in caso di varici esofagee!)

2) 2° step:
− escludere sanguinamenti extra-digestivi (ad es. emottisi ed epistassi)
− escludere falsa melena (per assunzione di farmaci come Fe o alimenti che pigmentano le
feci).
In caso di sangue nelle feci, bisogna distinguere una melena (lesione alta) da una proctorragia (lesione bassa).
L’esplorazione rettale è l’unica manovra che permette di comprendere la situazione.
Una volta eseguita questa manovra si distribuisce il materiale raccolto dal dito esploratore su una garza, osservando il colore
dell’alone che si forma: potrà essere rosso, nero o verde (associato al consumo di verdure o integratori di ferro).
Occorre poi analizzare la consistenza delle feci e la disposizione del sangue rispetto alle feci per risalire alla sede del
sanguinamento

3) In caso di sospetto di emorragia superiore (ematemesi o melena) ⇒ EGDS.


Se risulta non diagnostica, angio-TC ed eventualmente angiografia

4) In caso di sospetto di emorragia inferiore (proctorragia) ⇒ rettosigmoidoscopia.


Se negativa:
- In caso di emorragia massiva e persistente ⇒ EGDscopia.
Se il sanguinamento è rapido e massivo dal tratto superiore, il sangue non viene digerito a melena ma viene emesso rosso vivo.

- In caso di emorragia subacuta ⇒ colonscopia o Rx con clisma opaco.


Se anche questi risultano negativi, si tenta con EGDscopia, Rx con clisma del tenue e
angiografia.
Se anche questi esami dovessero risultare non diagnostici, si procede con laparotomia.

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Terapia

• Terapia farmacologica:
− nel sospetto di ulcera peptica: somministrazione precoce di IPP per ev (ad es. omeprazolo o
pantoprazolo 40-80 mg) da ripetere ogni 6h

− // emorragia da varici esofagee: utile la somministrazione di terlipressina per ev (2 mg ev in bolo


ogni 4-6 ore) e antibiotici (ceftriaxone 1g per ev)

• Terapia endoscopica con tecniche di emostasi:


− Nel caso dell'ulcera gastroduodenale, il sanguinamento persistente o il
risanguinamento vengono trattati endoscopicamente.
Se l'endoscopia non arresta il sanguinamento, può essere tentata
l'embolizzazione angiografica del vaso sanguinante oppure è necessario
intervenire chirurgicamente per suturare o legare il vaso sanguinante.

− Un'emorragia attiva da varici può essere trattata con legatura endoscopica,


scleroterapia iniettiva, shunt intraepatico porto-sistemico, sonda di
Sengstaken-Blakemore

− Un grave sanguinamento GI inferiore in corso, dovuto a diverticoli o


angiomi, può talora essere controllato endoscopicamente.
I polipi possono essere asportati mediante ansa a freddo o diatermica.
Se queste metodiche sono inefficaci o non realizzabili, possono avere
successo un'angiografia con embolizzazione o l'infusione di vasopressina.

• Radiologia interventistica: nei pz a elevato rischio chirurgico può essere indicato


il trattamento angiografico con embolizzazione dei vasi sanguinanti; la presenza dei circoli collaterali nel tratto GI superiore protegge
dalle complicanze ischemiche, che sono rare.
Viene eseguita una valutazione angiografica con cateterizzazione superselettiva dei vasi afferenti la zona emorragica e successivamente si
procede all’embolizzazione utilizzando microspirali, particelle di PVA, gelfoam o collante cianoacrilico

• Dopo almeno due tentativi correttamente eseguiti di emostasi endoscopica, l’emorragia recidiva deve essere valutata e posta anche
l’indicazione chirurgica per evitare di operare un pz in condizioni irrimediabilmente compromesse.

26
WIRSUNGRAGGIA
Emorragia digestiva attraverso il dotto pancreatico, causata spesso da rottura di pseudoaneurisma delle a. peripancreatiche, generalmente
insorto nell’ambito di una pancreatite acuta o cronica (80% dei casi).

Fisiopatologia: a differenza dell’aneurisma, lo pseudoaneurisma è una condizione ad accrescimento rapido e imprevedibile, con rischio di rottura
non correlato al diametro e aggravato da fattori locali.
Per definizione non presenta parete vascolare: lo pseudoaneurisma è un “buco” nell’arteria, che determina la formazione di un ematoma pulsante.

Gli pseudoaneurismi delle arterie peripancreatiche si possono formare in corso di pancreatite acuta.
Nella fase iniziale, la pancreatite comporta la formazione di raccolte fluide peripancreatiche con una componente anche enzimatica.
Gli enzimi pancreatici, soprattutto se complicati da proliferazione batterica, sono in grado di erodere la parete dei vasi.
Le arterie colpite possono essere la splenica, la gastrica, la gastroduodenale, che possono in seguito rompersi nel peritoneo, nel retroperitoneo,
nell’intestino, nel Wirsung o all’interno di pseudocisti.

Spesso è complicanza di altre condizioni come deiescenza anastomotica o lesione ascessuale (“complicanza della complicanza”).
È importante notare l’associazione tra gli pseudoaneurismi e le fistole post-operatorie nella chirurgia pancreatica, che possono ulteriormente
complicarsi in tal modo, dando origine a un’emorragia anche a giorni di distanza, che si rende evidente nel drenaggio.

La storia naturale dello pseudoaneurisma non è prevedibile e il rischio di rottura è molto alto: per questo motivo in genere, in seguito a diagnosi, il
trattamento deve essere effettuato tempestivamente, indipendentemente dalla complicanza emorragica.

Quando gli pseudoaneurismi vanno incontro a rottura con emorragia libera, spesso si osserva una prima emorragia banale con Hb nella norma,
assenza di ipotensione o altri segni: in tal caso si parla di emorragia sentinella, data ad esempio da una rottura inizialmente tamponata.

Clinica: il pz si presenta in genere con melena e dolore (sintomo tipico, spesso assente in altre cause di sanguinamento GI), con endoscopia
negativa.
L’emorragia è usualmente intermittente, ripetitiva e spesso non grave, nonostante l’origine arteriosa; segue il dolore e tipicamente lo calma.

Diagnosi: parte da un sospetto clinico, confermato alla in TC, in cui vediamo una pseudocisti con difetto di riempimento e coagulo sentinella nel
Wirsung.

Terapia: è generalmente endovascolare e viene preferita alla chirurgia.


Trattare uno pseudoaneurisma in pz con pancreatite acuta è spesso problematico, perché il pz è già compromesso e tecnicamente è difficile agire su
un pancreas edematoso.
La finalità della terapia endovascolare è emostatica, mentre la chirurgia permetterebbe una terapia radicale che tratti sia lo pseudoaneurisma e
l’emorragia, sia ciò che ne ha determinato l’insorgenza.

Nel caso di pz stabile, si identifica il sanguinamento in angiografia e si embolizza; si riserva la chirurgia solo in caso di embolizzazione non efficace.

Nel caso di pz instabile, non necessariamente si ricorre all’intervento chirurgico; se è presente fisicamente l’angiografista, si può ottenere
l’embolizzazione in 20 minuti.

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EMORRAGIE SPONTANEE
Sono apparentemente senza causa, con insorgenza spesso improvvisa.
Si dividono in:
- Primitive: idiopatiche
- Secondarie: complicanze di una patologia sottostante.

➢ Emorragie in corso di terapia anticoagulante


Possono determinare emorragie maggiori, che comprendono:
• emorragie intracraniche ed altri sanguinamenti in organi o sedi critiche (midollo spinale, retroperitoneo, tratto GI, torace, articolazioni,
occhio)
• tutte le emorragie che determinino un calo dell’Hb di almeno 2 g/dL o che richiedano la trasfusione di almeno due sacche di GR
• emorragie che richiedano l’intervento chirurgico o manovre invasive per arrestarle
• emorragie fatali (tipiche della sede intracranica o del tratto digestivo).

I principali farmaci impiegati per la terapia anticoagulante sono:


▪ Eparina: è monitorata tramite l’aPTT (tempo di tromboplastina parziale attivata).
Il rischio di emorragia viene valutato per giorno di terapia (farmaco short-term):
− rischio complessivo 2% (10-15% dopo 7 giorni di terapia)
− rischio di emorragia maggiore < 1%
− rischio di emorragia fatale <0,05%.

Il picco della complicanza è al terzo giorno, perché di solito si comincia con dosi prudenziali per poi aumentarle gradualmente.

La profilassi antitrombotica in un pz che deve essere operato è fondamentale per evitare l’insorgenza di embolia polmonare perioperatoria,
soprattutto in un malato anziano, obeso e che sarà allettato.
Se in USA si tende a svolgere l’intervento chirurgico in assenza di anticoagulante in circolo per ridurre al minimo il rischio emorragico e
iniziare la profilassi dalla sera dell’intervento stesso, in Italia si somministra LMWH la sera prima dell’intervento cosicché la mattina successiva
il farmaco è presente ma non presenta un picco di concentrazione.
Oggi il rischio operatorio è comunque blando: infatti si operano tranquillamente pz in terapia con aspirina e pz in terapia con anticoagulante con
INR fino a 1,7.
Non si operano però malati in terapia con doppia antiaggregazione (aspirina + clopidogrel) perché tendono troppo al sanguinamento.

▪ Warfarin: è monitorato tramite l’INR.


Il rischio di emorragia viene valutato per anno di terapia (farmaco che si prende per un periodo più lungo, spesso per tutta la vita):
− rischio complessivo 9,6%
− rischio di emorragia maggiore < 1%
− rischio di emorragia fatale 0,6%.

Il rischio è più elevato nelle prime settimane/mesi, nella fase di adattamento alla terapia.

La condizione più frequente che mette a maggior rischio il pz è assumere due volte la terapia per sbaglio; i medici di famiglia raccomandano,
quando non si è certi dell’assunzione della compressa, di sospendere il giorno piuttosto che correre il rischio di prenderla due volte.

In realtà il rischio di emorragia è probabilmente più correlato alla patologia concomitante che al farmaco: la cardiopatia, l’insufficienza
renale, l’epatopatia cronica sono fattori determinanti il rischio emorragico, specialmente nei pz anziani che spesso assumono anche l’aspirina.

Nel momento in cui un malato in terapia con anticoagulante sanguina, sicuramente da linee guida bisogna sospendere la terapia, ma bisogna
anche cercare un’eventuale lesione occulta sanguinante, presente in buona parte dei casi (30% se sanguinamento GI).
Qualche volta è proprio la complicanza emorragica che porta a fare diagnosi di una lesione, spesso maligna.

Le sedi di emorragia (tessuti molli con ematomi spontanei della parete retroperitoneali, tratto GI, intracraniche) sono sovrapponibili tra i due farmaci,
tranne che per il sanguinamento del nasofaringe che è più tipica del warfarin.
La parete addominale e il retroperitoneo rappresentano la sede più frequente di emorragia spontanea.
In base alla sede il quadro clinico spesso è ingannevole:
− in corso di ematoma spontaneo del m. retto, il pz si presenta con un quadro di addome acuto:spesso si apre il pz pensando ad una
peritonite ma il quadro è in realtà determinato da una reazione di parete da sanguinamento del muscolo che si è infarcito di sangue in
corso di emorragia spontanea a seguito di un colpo di tosse o per altri minimi sforzi fisici.

− In corso di ematoma spontaneo della parete retroperitoneale, il pz si presenta con dolore acuto al fianco/ regione lombare mimando una
colica renale (può presentare anche ematuria a volte).
Quello che mi permette di ipotizzare un’emorragia spontanea è l’anemizzazione del pz fino allo shock.

28
➢ Emorragia spontanea da rottura di tumore

• Tumori del rene


Spesso si rendono improvvisamente evidenti per un’emorragia in sede retroperitoneale, come l’angiomiolipoma, un tumore benigno molto
vascolarizzato, la cui rottura spontanea viene descritta come sintomo d’esordio nel 10% dei casi.

• Lesioni epatiche emorragiche


− Emangioma: il sanguinamento rappresenta un’evenienza rara
− Adenoma: è soggetto più frequentemente a sanguinamento e tende a rompersi soprattutto nelle donne giovani che hanno fatto terapia
estroprogestinica anticoncezionale

− Metastasi
− K epatocellulare: a differenza dei tumori renali, in questo caso la sequenza patogenetica sembra abbastanza chiara: le v. epatiche sono
colpite dall’invasione tumorale ⇛ incapacità di drenare il flusso portale per ipertensione portale del cirrotico o per invasione della v. porta
⇛ aumenta la P intratumorale ed è sufficiente un trauma minimo o addirittura un colpo di tosse per determinare un rapido aumento della
pressione con conseguente rottura e sanguinamento; se il tumore sporge al di fuori del fegato può sanguinare nel peritoneo e non essere
tamponato.

➢ Emorragia da fistolizzazione aorto-duodenale


È causata dalla rottura dell’aorta nel duodeno (organo retroperitoneale tranne che per la primissima porzione del bulbo, ovvero i primi 2,5 cm, che
è intraperitoneale).
La rottura dell’aorta può essere conseguente a trauma, tipico da incidente stradale con cintura di sicurezza e sezione dell’istmo aortico: in questo caso
l’emorragia tende ad arrestarsi perché tamponata nello spazio retroperitoneale.
Molto spesso avviene invece da complicanza settica in pz portatore di protesi aortica: la protesi non resiste all’infezione e si rompe a livello delle
anastomosi, l’ematoma che si forma si rompe nel duodeno.

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MALATTIA da REFLUSSO GASTROESOFAGEO
Complesso di segni/sintomi causati dall’eccesso di reflusso acido dallo stomaco attraverso lo sfintere
esofageo inferiore (LES), che determina un impatto negativo sulla qualità di vita dei pz.
L’esposizione della mucosa esofagea al contenuto acido dello stomaco provoca sintomi che risultano compromettere la qualità della vita dei pz; ciò
avviene indipendentemente dalla formazione di lesioni della mucosa esofagea.

Epidemiologia
Prevalenza compresa tra il 10-20%, con incidenza di 5 casi per 1000 persone/ anno nel mondo occidentale, mentre risulta meno frequente (5% circa)
in Asia.
Compare più frequentemente con l’avanzare dell’età.

Fdr:
• Obesità
• Fumo di sigaretta
• Consumo di alcolici e pasti grassi
• Predisposizione genetica
• Ernia iatale
• Alterazioni della motilità esofagea (come in corso di patologie reumatologiche o neurologiche).

Fisiopatologia
La MRGE non riconosce un’unica causa, ma la sua genesi è polifattoriale.
Il meccanismo fisiopatologico determinante è quello del reflusso di materiale acido dallo stomaco verso l’esofago; episodi di reflusso si verificano
occasionalmente in qualsiasi soggetto, ma la situazione può essere definita patologica quando l’entità e la frequenza degli stessi diventa rilevante per
la qualità della vita dei pazienti.
In condizioni fisiologiche il reflusso è determinato dal rilassamento transitorio del LES; in tale situazione il flusso attraverso la giunzione esofago-
gastrica è determinato dal gradiente pressorio gastroesofageo e dalla resistenza offerta dallo sfintere esofageo inferiore.
È verosimile, ancorché non completamente dimostrato, che il reflusso patologico sia legato a inappropriati rilasciamenti transitori del LES, incrementi
momentanei del gradiente pressorio gastroesofageo, passaggio di acido attraverso zone a bassa pressione del LES.
Condizioni che aumentino stabilmente la pressione endoaddominale, come la gravidanza o l’obesità, sono associate in modo significativo a una
maggiore incidenza di MRGE.
La genesi del reflusso patologico è il risultato dello squilibrio tra fattori aggressivi nei confronti della mucosa esofagea e fattori protettivi.

Clinica
Sintomatologia tipica:
• sensazione di bruciore retrosternale (pirosi)
Origina a livello dell’esofago distale e che può essere irradiato verso l’alto lungo il decorso dell’esofago o anche posteriormente a livello
dorsale o interscapolare.
Compare in genere in fase postprandiale, in particolare dopo pasti abbondanti

• rigurgito acido.

Altri sintomi:
− dolore retrosternale: quando presente, può essere intenso, tanto da porsi in DD con l’angor da cardiopatia ischemica

− Scialorrea: è spesso provocata da ipersecrezione salivare evocata dal reflusso acido

− Disfagia: può dipendere da una stenosi esofagea cicatriziale

− più raramente, odinofagia: può essere una manifestazione di gravi forme di esofagite.

È importante sottolineare ancora come non esista una correlazione tra la gravità dei sintomi e l’entità delle lesioni obiettivabili attraverso gli
esami strumentali: non è infrequente incontrare pz con esofagite severa relativamente asintomatici e, viceversa, pz senza lesioni endoscopiche con
sintomi che peggiorano significativamente la qualità della vita.

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Accanto a questi disturbi definiti tipici, la MRGE può provocare manifestazioni extraesofagee (segnalate
almeno nel 10-15% dei pz con MRGE):

Complicanze:
• Esofagite da reflusso
Tale complicanza è presente in circa un terzo dei pz e configura la presenza di MRGE di tipo erosivo (ERD, Erosive Reflux Disease).
La maggior parte dei pz, quindi, non presenta alterazioni macroscopiche mucosali e tale situazione viene definita malattia da reflusso
gastroesofageo di tipo non erosivo (NERD, Non Erosive Reflux Disease).
Come già accennato, la severità delle manifestazioni cliniche non correla con la severità delle lesioni esofagee e non esistono parametri
clinici in grado di predire la presenza delle lesioni esofagee.
Non vi è alcuna differenza di prevalenza dei sintomi tra pz con malattia erosiva e non erosiva, pertanto per la diagnosi è necessaria
l’EGDS.

• Stenosi peptica
Si manifesta nel 10% circa dei casi di esofagite severa; la sua incidenza è però in declino grazie alla migliorata efficacia della terapia
medica.
Si manifesta come reazione cicatriziale alla flogosi cronica indotta dal reflusso.
La localizzazione tipica è quella distale, generalmente di breve lunghezza.
La progressione della stenosi è di solito lenta e, almeno nelle prime fasi, asintomatica.
La sintomatologia tipicamente associata è la disfagia ingravescente che riguarda inizialmente i cibi solidi, successivamente anche
semiliquidi e liquidi.
Trattamento: dilatazione endoscopica.

• Emorragia
Rappresenta una complicanza rara della MRGE ed è generalmente legata alla presenza di esofagite severa con ulcere mucose il cui
sanguinamento può essere favorito da episodi di vomito (sindrome di Mallory-Weiss).
Più frequente rispetto all’emorragia clinicamente manifesta è la perdita ematica cronica, che si manifesta con anemia sideropenica o
positività della ricerca del sangue occulto fecale.

• Perforazione

• Esofago di Barrett
È determinato dalla sostituzione del normale epitelio squamoso pluristratificato della mucosa
esofagea con epitelio metaplasico colonnare simile a quello gastrico e/o intestinale (con cellule
caliciformi mucipare).
Si verifica nel 5-10% dei pz affetti da MRGE e si ritiene che sia una condizione acquisita come
risultato della cronicizzazione del reflusso.
Le evidenze in tal senso sono controverse: i passaggi intermedi che conducono dal reflusso gastroesofageo alla metaplasia di Barrett non
sono chiari e non vi è una definita relazione temporale tra l’insorgenza dell’uno e lo sviluppo dell’altra.

Si tratta di una condizione tipicamente asintomatica: viene infatti riscontrata nello 0,5-4% dei pz
che si sottopongono a endoscopia digestiva per motivi diversi dalla MRGE.
Si evidenzia unicamente all’esame endoscopico come una o più aree di mucosa di aspetto simile a
quella gastrica (di colorito più scuro) inserite nel contesto della normale mucosa esofagea (di
colorito più roseo), generalmente subito al di sopra della giunzione esofago-gastrica.

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Sulla base dell’estensione, si distinguono:
− Long Barrett: > 3 cm
− Short Barrett: < 3 cm
− Ultrashort: < 1 cm.

La diagnosi viene formulata all’esame istologico.


L’importanza della metaplasia di Barrett è legata alla sua potenziale evoluzione in adenoK
esofageo, neoplasia la cui incidenza è quadruplicata negli ultimi 20 anni nel mondo occidentale: il
rischio è compreso tra lo 0,3 - 1% annuo.
Per tale motivo è indicata la sorveglianza endoscopica con esecuzione di biopsie dei 4 quadranti
dell’esofago per ogni centimetro di mucosa interessata, per l’identificazione della displasia, che ne
costituisce la lesione precancerosa.
Attualmente solo il 5% delle diagnosi di adenoK esofageo avviene nei programmi di screening del Barrett.
L’argomento dello screening e della sorveglianza dell’esofago di Barrett rappresenta oggetto di discussione nella comunità scientifica, non
essendo tuttora documentato da evidenze cliniche conclusive il miglioramento della sopravvivenza dei pz.

Indicazioni di sorveglianza secondo il grado di displasia riscontrato all’esame istologico:

Terapia:
▪ Terapia per MRGE, con IPP in mantenimento continuo (nonostante non ci siano evidenze da studi
prospettici, randomizzati e controllati che l’inibizione del reflusso mediante terapia sia in grado di prevenire l’evoluzione
neoplastica)

▪ Trattamenti endoscopici (in caso di displasia) ⇒ terapia ablativa con radiofrequenza, terapia
fotodinamica e resezione endoscopica sottomucosa (ESD).
Risultano applicabili ed efficaci, ma al momento trovano giustificazione nel trattamento dell’esofago di Barrett solo quando si
dimostri la comparsa di displasia a basso grado e per il trattamento della displasia ad alto grado prima di considerare
l’approccio chirurgico resettivo.

Diagnosi
• La diagnosi clinica di MRGE può essere confermata attraverso un test di risposta alla terapia
farmacologica con IPP somministrati a dosaggio pieno in monosomministrazione giornaliera (⇒
omeprazolo 20 mg, lansoprazolo 30 mg, esomeprazolo 40 mg, pantoprazolo 40 mg) per un periodo in genere non inferiore
a 2-4 settimane.
La risposta al cosiddetto “test ai PPI” (Proton Pump Inhibitors) ha una specificità diagnostica del 75% e una sensibilità dell’80%.

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• EGDS: è in grado di osservare la presenza
di erosioni o ulcere della mucosa
esofagea che, quando presenti, consentono
la conferma della diagnosi della forma
erosiva.
La gravità delle lesioni esofagitiche è
valutata attraverso la classificazione di
Los Angeles.

È però importante ribadire che circa il 60-70% dei pz con


MRGE non presenta lesioni mucose erosive visibili
all’EGDS, costituendo il gruppo della cosiddetta NERD
(Non Erosive Reflux Disease).
La normalità dell’esame endoscopico non esclude quindi la
diagnosi di MRGE.

Durante l’EGDS è possibile eseguire


biopsie per l’esame istologico, che però
non ha alcun ruolo nella diagnosi di
MRGE; riveste invece fondamentale
importanza nella DD delle complicanze.
L’esecuzione di biopsie consente di discriminare la natura
flogistica o neoplastica di una lesione potenzialmente
sospetta, come un’ulcera o una stenosi, e di diagnosticare la metaplasia di Barrett e le sue complicanze displasiche o neoplastiche.
L’evoluzione tecnologica consente attualmente, in modo sempre più diffuso, di associare alla pratica endoscopica tradizionale l’utilizzo di
tecniche di magnificazione della visione e di colorazione vitale, utili a distinguere con sempre maggiore precisione in vivo tessuti di
diversa natura, consentendo una maggiore precisione nella scelta delle regioni da sottoporre al prelievo bioptico o a terapie endoscopiche.

L’orientamento generale, anche se non codificato da nessuna versione di linee guida, è rappresentato dalla prescrizione di un’EGDS
almeno “una volta nella vita”, evitando di sottoporre all’esame soggetti al primo episodio sintomatico, ma riservandolo a pz che non
mostrano una risposta soddisfacente alla terapia.
A tutt’oggi non esistono dati che dimostrano che uno screening endoscopico per metaplasia di Barrett in pz MRGE possa comportare
un’effettiva riduzione sia dell’incidenza sia della mortalità per adenoK.

• pH-metria esofagea delle 24h: costituisce l’esame di riferimento per


la diagnosi della MRGE, indicato in particolare per pz con reperti
endoscopici non rilevanti, ma con sintomi tipici nonostante il
trattamento con anti-secretori.
Si esegue inserendo in esofago un sondino dotato di elettrodi in grado di rilevare il pH esofageo.
Essi vengono collocati sopra il LES e trasmettono per 24 ore il monitoraggio delle variazioni di
acidità a un registratore che il paziente porta con sé e che consente anche di segnalare eventi
clinicamente rilevanti come la comparsa di sintomi tipici.
I dati raccolti vengono quindi elaborati e, secondo un criterio basato su punteggi attribuiti a
diverse variabili, come il numero e la durata degli episodi di reflusso, la relazione degli stessi con
la presenza di sintomi e il tempo totale trascorso a pH < 4, l’esame rende possibile la diagnosi di
reflusso patologico.

La metodica risulta inoltre utile per verificare la risposta alla terapia medica o chirurgica.
La principale limitazione della procedura è rappresentata dalla sua invasività e dallo scarso
gradimento.

L’impedenziometria rappresenta il più recente sviluppo nello studio della MRGE e consente di studiare le variazioni di impedenza
elettrica registrate tra due elettrodi incorporati lungo una piccola sonda quando questi sono attraversati dal materiale che refluisce risalendo
il lume dell’esofago.
Tale registrazione, che può avvenire simultaneamente a quella del pH, rende possibile identificare la presenza di episodi di reflusso di
qualsiasi natura (acida o neutra, solida o liquida), permettendo uno studio più accurato dei pz che non presentano sintomi tipici e/ o lesioni
endoscopiche.

• Manometria esofagea: nonostante il rilevante ruolo patogenetico dell’incompetenza dello sfintere esofageo inferiore e dell’adeguata
attività peristaltica, non ha un ruolo nella diagnosi di MRGE.
Rappresenta comunque un esame utile nella valutazione dei pz candidati alla terapia chirurgica e nella DD.

33
Terapia
a) Terapia medica
Obiettivi: i presidi terapeutici utilizzati sono volti a neutralizzare i meccanismi patogenetici della MRGE attraverso la riduzione del
reflusso, neutralizzazione del materiale refluito, miglioramento della capacità di detersione della mucosa esofagea, protezione della
mucosa esofagea.
La riduzione di fenomeni di reflusso può essere ottenuta teoricamente cercando di diminuire il volume del contenuto gastrico, di
incrementare la pressione basale del LES e di diminuire il numero di episodi di rilasciamento transitori.

Prevede:
▪ Interventi sullo stile di vita:
− Riduzione del peso in pz sovrappeso

− Non assumere pasti abbondanti e ridurre il contenuto lipidico (in quanto i lipidi ritardano lo
svuotamento gastrico)
− Eliminare sostanze quali: cioccolato, alcol, menta, cibo speziato, caffè, alcol e fumo di
sigaretta (in quanto possono ridurre la pressione del LES)

− Elevazione della testata del letto di 15 cm


− Evitare di mangiare 3h prima di coricarsi

▪ Terapia farmacologica:
− Riscontro endoscopico di esofagite ⇒ terapia con PPI a dosaggio pieno somministrati al
mattino (30 minuti prima di colazione, per via della maggior quantità di H-K-ATPasi dopo un digiuno prolungato) per 8
settimane, che guarisce il 90% delle esofagiti di I grado.
Nelle forme più severe è indicato l’impiego di posologie più elevate per periodi più prolungati.

− NERD ⇒ terapia antisecretiva, partendo dapprima con H2RA seguiti da PPI in caso di
inefficacia; in alternativa se i sintomi si presentano <1 volta a settimana, antiacidi (come
idrossido di alluminio o calcio carbonato) in associazione o meno sodio alginato.

− Terapia di mantenimento
Una volta conseguito l’obiettivo della regressione della sintomatologia è necessario ricordare che il 50-80% dei pz ripresenta i
sintomi e/ o le lesioni esofagitiche a 6-12 mesi dalla sospensione della terapia iniziale ⇛ si pone quindi il problema di
impostare, in un numero considerevole di pz un’adeguata terapia di mantenimento della remissione clinica.
Possibili strategie:
o Terapia continuativa con antisecretore (generalmente PPI, ma anche H2RA se c’è adeguata
risposta) a dosaggio minimo efficace a controllare sintomi e/o lesioni mucose.
Questa strategia è da preferire in caso di
- esofagite iniziale severa (> 1 grado)
- recidive frequenti
- pz sintomatici nonostante la guarigione endoscopica
- pz che non rispondono alla terapia “on demand”

o Terapia “on demand” eseguita per periodi più o meno prolungati (2-8 settimane)
quando si presentano i sintomi.
Questa strategia è da preferire nei pz con recidive rare e lievi.

b) Terapia chirurgica
Indicazioni:
− giovane età (< 40 anni)
− Insuccesso della terapia medica o intolleranza alla terapia medica prolungata
− recidiva sintomatica e clinica precoce alla sospensione della terapia medica
− complicanze da reflusso.

34
Le procedure chirurgiche antireflusso adottate hanno due obiettivi in comune: la ricostruzione di un buon segmento dell’esofago
intraddominale e la creazione di un meccanismo valvolare all’estremità inferiore dell’esofago con funzione antireflusso.
La riparazione dello iato diaframmatico non è essenziale per un buon risultato ed è considerata necessaria solo se l’apertura dello iato è
particolarmente ampia.

Le due tecniche chirurgiche più


comunemente utilizzate sono la
fundoplicatio secondo Nissen (per via
laparoscopica) e la riparazione di Belsey Mark
IV.

Recentemente sono state proposte alcune


modalità di terapia antireflusso
endoscopica che si sono dimostrate efficaci:
▪ applicazione di energia mediante
radiofrequenza a livello della giunzione
gastroesofagea (tale da indurre una reazione
fibrotica con aumento della continenza del LES)
▪ plastica antireflusso
▪ iniezione sottomucosa a livello del LES
di sostanze inerti in grado di aumentarne la pressione basale.

35
DIVERTICOLI ESOFAGEI
Estroflessioni della parete esofagea.

Classificazione:
• In base al sito di formazione:
− faringo – esofagei (65%)
− medio – toracici
− epifrenici – sopradiaframmatici

• In base allo spessore di parete:


− diverticolo vero: costituito da tutti gli strati della parete
− diverticolo falso: interessati solo mucosa e sottomucosa

• In base al meccanismo di formazione:


− diverticoli da pulsione: sono dovuti a una graduale estroflessione della mucosa e
sottomucosa, attraverso un’area di debolezza della parete muscolare, a causa di
un’elevazione patologica della P intraluminale

− // da trazione: sono dovuti all’attrazione esercitata da un processo di retrazione


cicatriziale esterno secondario a processi infiammatori contigui alla parete del
viscere (come linfoadenopatie infiammatorie in regione tracheo-bronchiale).

➢ DIVERTICOLO FARINGO-ESOFAGEO di ZENKER


È il diverticolo esofageo più frequente, origina sulla parete posteriore della giunzione faringo –
esofagea, tra le fibre del muscolo costrittore inferiore della faringe e le fibre trasversali del muscolo
cricofaringeo (triangolo di Killian).
È un diverticolo da pulsione, generalmente secondario a un’incordinazione faringo-esofagea o più raramente della motilità esofagea.
Ha una prevalenza di 1:2.000 ed è più frequente nel sesso M in età > 60 anni.

Clinica:
- asintomatico in fase precoce
- disfagia: se il diverticolo cresce e comprime l’esofago la disfagia è ingravescente
- scialorrea
- attacchi di tosse in seguito all’assunzione di cibo
- rigurgito posturale ⇛ rischio di broncopolmoniti ab ingestis
- alitosi
- l’accumulo di bolo alimentare può, ristagnando, determinare processi infiammatori.

Complicanze:
• perforazione: raramente spontanea, più comunemente iatrogena (esame endoscopico)
• sanguinamento: raro
• possibile insorgenza di K (raro)

Diagnosi: Rx esofago con pasto baritato.

Trattamento chirurgico:
- miotomia cricofaringea: in caso di diverticoli di piccole dimensioni
- diverticolectomia: in caso di ampi diverticoli
- diverticolotomia: approccio endoscopico, indicato in pz anziani ad alto rischio chirurgico.

➢ DIVERTICOLI PARABRONCHIALI
Rappresentano il 15% dei diverticoli esofagei, sono diverticoli da trazione (formati da tutti gli strati parietali), secondari ad aderenze fibrose tra parete
esofagea e linfonodi (sclerotici a causa di processi infiammatori secondari).

➢ DIVERTICOLI EPIFRENICI
Rappresentano il 20% dei diverticoli esofagei, sono diverticoli da pulsione secondari ad un aumento di pressione intra-esofagea dovuto ad un
disordine di motilità: acalasia o spasmo esofageo diffuso.

36
DISORDINI della MOTILITÀ ESOFAGEA

Gruppo di patologie dell’esofago causate da una disfunzione neuromuscolare responsabile di un quadro clinico caratterizzato da sintomi quali
disfagia, dolore toracico e pirosi.
Tali disordini vengono diagnosticati mediante la manometria esofagea, una metodica diagnostica che misura le modificazioni della pressione
intraesofagea.

ACALASIA
Rappresenta il principale disordine della motilità esofagea.
È caratterizzata da un’alterazione del rilasciamento del LES (Lower EsophageaL Sphincter), associata
all’assenza della peristalsi a livello del corpo dell’esofago.

Epidemiologia
Prevalenza pari a circa 10 casi su 100.000, mentre l’incidenza è pari a 0,5 casi su 100.000 all’anno.
L’incidenza aumenta con l’età con un picco nella settima decade.

Eziopatogenesi
Vede alla base una perdita di fibre nervose mienteriche del LES e del corpo dell’esofago.
La causa sottostante, tuttavia, non è nota: il principale ostacolo all’elucidazione dell’eziologia dell’acalasia è verosimilmente rappresentato dalla
natura insidiosa e gradualmente progressiva della malattia ed è possibile che l’insulto iniziale occorra anni prima che il paziente giunga all’attenzione
del clinico.
I dati disponibili a tutt’oggi suggeriscono fattori infettivi (⇒ morbillo, HSV1, VZV), immunologici ed ereditari.
Un’ipotesi omnicomprensiva potrebbe essere la seguente: un agente biologico (ad es. il virus dell’herpes simplex di tipo I) persiste a livello dei
neuroni del LES e dell’esofago distale, innescando un’attivazione persistente del SI solo in soggetti geneticamente predisposti.

Classificazione eziologica
• Primitiva: idiopatica
• Secondaria:
− infezione protozoaria da Trypanosoma cruzii: diffuso nell’America Latina, condizione nota come malattia
di Chagas

− Pseudo-acalasia: quadro di acalasia causato da una patologia infiltrativa dell’esofago e del


LES, come nel caso di neoplasie dell’esofago

− Sindromi paraneoplastiche
− Disordini infiltrativi esofagei non maligni: amiloidosi, leiomiomatosi, esofagite eosinofila, sarcoidosi
− Miscellanea: DM, insufficienza ghiandolare familiare con alacrimia, postvagotomia

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Clinica
È una malattia progressiva che si manifesta con:
• disfagia per i cibi sia liquidi sia solidi
Al momento della presentazione, la disfagia per i liquidi può rappresentare un problema rilevante fino al 90% dei casi.
La disfagia presenta un esordio graduale, descritta dai pz dapprima come una saltuaria sensazione di “ripienezza nel torace” o un senso
di soffocamento, ma, in genere, al momento della visita dal medico presenta una frequenza giornaliera o, addirittura, a ogni pasto.
Alcuni pz localizzano correttamente la sensazione legata alla disfagia a livello dell’area xifoidea, ma possono riferire il sintomo anche a
livello della regione dell’esofago cervicale.
In molti pz, la disfagia aumenta progressivamente di severità, raggiungendo un plateau, mentre in altri pz un progressivo aumento della
severità impedisce l’alimentazione con conseguente perdita di peso.
Il pz con acalasia tende a mangiare con lentezza e i familiari spesso riferiscono che è l’ultimo a finire un pasto normale, aiutando la
progressione del bolo con movimenti del busto in avanti o di lateralità o camminando dopo avere mangiato

• rigurgito di cibo ingerito e non digerito, con abbondante saliva


È presente in circa il 75% dei pz.
Può comparire durante il pasto, appena dopo il pasto o anche a distanza di ore, magari in clinostatismo.
È rappresentato da cibo introdotto anche diverse ore prima, spesso non contenente acido né bile.
Il rigurgito può rappresentare un importante problema notturno, con aspirazione di cibo in trachea, tosse, senso di soffocamento e
complicanze respiratorie, fino alla polmonite ab ingestis e ascessi polmonari, in particolare negli anziani.

• dolore toracico anche a distanza dall’assunzione del cibo


È presente nel 40% dei pz e raramente rappresenta il sintomo principale.
Viene descritto come crampiforme, irradiato posteriormente e al giugulo, mimando un’angina pectoris; può essere precipitato
dall’assunzione di cibo, può svegliare il pz di notte e può essere talmente severo da indurre il pz a una riduzione dell’introduzione di cibo
con conseguente calo ponderale.

• Altri sintomi:
− Pirosi: poco sensibile ai farmaci bloccanti la secrezione acida gastrica.
Il meccanismo responsabile non è chiaro: se da un lato una coesistente MRGE con LES ipotonico può spiegarne la
fisiopatologia, dall’altro è più plausibile la produzione in situ di acido lattico dalla fermentazione del cibo che ristagna a
livello dell’esofago dilatato.

− Singhiozzo: generalmente insorge durante il pasto.


Scompare dopo l’ingestione di liquidi o l’induzione di rigurgito; verosimilmente, è la conseguenza della distensione esofagea
con stimolazione di fibre afferenti vagali

Complicanze:
• Aspirazione nelle vie aeree di contenuto esofageo ⇛ polmonite ab ingestis
• Ulcerazione e perforazione dell’esofago
• Dislocazione delle strutture mediastiniche ⇛ rischio di ostruzione acuta delle vie aeree.

Diagnosi
• Anamnesi ed EO

• Rx transito esofageo (con pasto baritato)


Permette di valutare:
− il transito del bario (ostacoli e incoordinazioni a
livello faringeo ed esofageo)
− le dimensioni del viscere (eventuale presenza di
dilatazione)
− i profili del viscere (presenza di diverticoli e
alterazioni motorie)

L’esame si effettua visualizzando mediante fluoroscopia il


percorso del mdc (bario) somministrato per os.

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• Manometria esofagea ad alta risoluzione: rappresenta
oggi il gold standard.
Permette di rilevare le seguenti alterazioni:
− A livello del LES: elevata pressione di rilasciamento e
rilasciamento anormale
− // corpo esofageo: aperistalsi, pan-pressurizzazione intraesofagea,
peristalsi frammentata/spastica

L’esame mostra sempre una normale conduzione della sequenza peristaltica a


livello del tratto prossimale, mentre evidenzia diverse alterazioni a livello
della porzione distale del corpo esofageo e del LES, in occasione di tutte le
deglutizioni di un bolo di acqua.

La classificazione di Chicago comprende tre diversi tipi di acalasia esofagea:


− tipo I ⇒ acalasia classica: è caratterizzata da completa assenza di
peristalsi
− tipo II ⇒ // con compressione esofagea: contrazioni sincrone e
talvolta ripetitive del viscere (panpressurizzazione esofagea)
− tipo III ⇒ // spastica: contrazioni premature a elevata ampiezza.

• La presenza di disfagia severa deve imporre l’esclusione di una patologia organica dell’esofago
⇛ EGDS.
In questi casi, all’endoscopia il corpo esofageo appare dilatato, atonico, spesso tortuoso, generalmente con mucosa normale.
La presenza di stasi cronica induce eritema, friabilità mucosa, ispessimento ed erosioni; è possibile la coesistenza di esofagite da Candida,
che si manifesta con placche e membrane biancastre adese alla mucosa.
Malgrado l’alterazione motoria del LES, che non si rilascia con l’insufflazione di aria durante l’endoscopia, una lieve pressione con lo
strumento permette il transito attraverso lo sfintere stesso. Se è necessaria una pressione eccessiva, va sospettata una pseudoacalasia

Terapia
È finalizzata a facilitare il transito del bolo alimentare lungo l’esofago distale e attraverso il LES:
a) Terapia farmacologica: permette di ottenere risultati modesti:
▪ Calcio antagonisti (nifedipina) e nitrati ad azione lenta: inducono rilasciamento del m. liscio

▪ Tossina botulinica
È iniettata a livello del LES in corso di esame endoscopico blocca il rilascio di neurotrasmettitore a livello delle terminazioni
colinergiche presinaptiche, determinando una riduzione della pressione del LES.
Tale approccio è ripetibile e gravato di minore rischio di perforazione rispetto alle procedure di dilatazione.
L’efficacia media di tale procedura varia da 6 a 12 mesi.

▪ Accorgimenti dietetici con pasti piccoli, lenti e frazionati

b) Terapia chirurgica: rappresenta il cardine del trattamento:


▪ Dilatazione pneumatica in endoscopia

▪ Miotomia anteriore secondo Heller


Consiste in una miotomia extramucosa, ovvero
nella resezione dei fasci di tessuto muscolare liscio
circostanti l’esofago distale, in prossimità del
cardias, lasciando intatta la sottostante mucosa
esofagea.
L’intervento ha lo scopo di ridurre il tono
muscolare a livello del LES e, se l’estensione della
miotomia nello stomaco non è eccessiva, non
provoca incontinenza sfinteriale. L’associazione
con fundoplicatio per prevenire l’insorgenza di
reflusso gastroesofageo patologico rappresenta
l’opzione attualmente più utilizzata.

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▪ Miotomia endoscopica perorale (POEM)
Si tratta di una tecnica di recente introduzione in centri di riferimento, attraverso la quale è possibile creare, tramite
l’endoscopio, un tunnel sottomucoso che raggiunge il LES per eseguire una sezione della sola muscolatura circolare

La classificazione di Chicago dell’acalasia ha un’importanza anche prognostica: è stato dimostrato, infatti, che la risposta generale al
trattamento (sia chirurgico sia endoscopico) è migliore in pz affetti da acalasia di tipo II (96%) rispetto a pazienti con tipo I (56%) o tipo
III (29%).
Inoltre, i pz con acalasia di tipo I rispondono meglio alla miotomia secondo Heller rispetto alla dilatazione pneumatica o all’iniezione di
botulino.

40
GASTRITE
Processo infiammatorio della mucosa gastrica, che deve essere documentato macroscopicamente attraverso EGDS e istologicamente.
L’aspetto endoscopico è rossastro con presenza di iperemia della mucosa associata a emorragia superficiale.

Patogenesi
Il lume gastrico ha un pH vicino a 1: questo ambiente così acido contribuisce alla digestione, ma rischia anche potenzialmente di danneggiare la
mucosa gastrica.
La mucosa gastrica dispone di numerosi meccanismi di protezione:
- Secrezione mucosa superficiale di muco e bicarbonato
- Strato continuo di cellule epiteliali che forma una barriera fisica
- Ricca rete vasale, che oltre a fornire ossigeno e sostanze nutritive, sciacqua via contemporaneamente l’acido che si è retrodiffuso nella
lamina propria.

A seguito dello sbilanciamento fra meccanismi protettivi e di danno possono verificarsi le gastriti acute o croniche:
- I FANS inibiscono la sintesi dipendente dalla COX delle PGE2 e PGI2, che stimolano quasi tutti i suddetti meccanismi di difesa

- Danno cellulare diretto da: infezione da H. pylori, eccessivo consumo di alcol e fumo, iperacidità gastrica e reflusso duodenogastrico,
ingestione di stostanze chimiche forti, RT e CT

- Malattie della mucosa stress-correlate insorgono nei pz con trauma gravi, ustioni estese e patologie intracraniche; la patogenesi in tal caso è
correlata all’ischemia locale della mucosa, secondaria a ipotensione sistemica o alla riduzione del flusso ematico dovuta allo stress.

Classificazione eziologica delle gastriti

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Classificazioni istologiche delle gastriti
Permettono di evidenziare in un referto di gastrite gli aspetti più importanti, quali:
− presenza/assenza di H. pylori
− presenza/assenza di infiltrazione di neutrofili (⇒ gastrite acuta) e grado di infiltrazione di cellule mononucleate (⇒ gastrite cronica)
− aplasia/atrofia ghiandolare e metaplasia intestinale: è intrinseco il potenziale di trasformazione maligna.

➢ Classificazione di Sidney

➢ Classificazione OLGA
Tiene conto del grado di atrofia della mucosa (⇒ con uno score che va
da 0 a 3) e della posizione nello stomaco (⇒ corpo o antro).
I dati che se ne ricavano sono importantissimi perché il grado di atrofia
si correla direttamente alla possibilità di sviluppare un cancro.
Il sistema prevede che vengano eseguite almeno cinque biopsie nello
stomaco: due nell’antro, una all’angulus e due nel fondo.
In ogni campione il patologo deve descrivere l’eventuale presenza di
atrofia e se presente descriverla come lieve, moderata o severa.
In questo modo si ottengono quattro stadi di gastrite dove l’atrofia è
progressivamente maggiore.
È quindi possibile proporre controlli endoscopici più ravvicinati ai pz
classificati come stadio III e IV.

GASTRITE CRONICA DA H. PYLORI


È causata da questo bacillo Gram− anaerobio: la capacità di produrre ureasi, oltre a rappresentare un marker indiretto della sua presenza, è
essenziale per le sue sopravvivenza e replicazione nella mucosa gastrica.
L’ureasi, infatti, catalizza la scissione dell’urea in CO2 e ammonio, che, neutralizzando l’HCl, favorisce la creazione di un microambiente alcalino
che protegge il microrganismo dal basso pH gastrico e gli consente la produzione degli altri fattori di virulenza.

È un batterio ubiquitario, presente nell’acqua e nei fluidi biologici di alcuni animali.


La trasmissione avviene da persona a persona attraverso varie modalità: feco-orale, oro-orale o mediante oggetti contaminati.

Hp è caratterizzato da un particolare tropismo per l’epitelio gastrico e per aree di metaplasia gastrica al di fuori dello stomaco: la sua presenza
determina l’insorgenza di un’importante risposta infiammatoria e immunitaria che si interrompe solo dopo l’eradicazione del batterio.

Anche se l’infezione può rimanere asintomatica per tutta la vita,


in tutti gli individui infetti è presente una gastrite istologicamente
documentabile, che inizialmente coinvolge l’antro; in seguito si
estende prossimalmente in direzione del corpo.

Circa 1/5 dei pz sviluppa prima dei 50 anni un’ulcera duodenale;


più tardivamente, l’infezione può associarsi a ulcera gastrica.

In rari casi (1-3%), soprattutto quando la gastrite ha una


localizzazione multifocale (corpo e antro), può evolvere in
adenoK gastrico o in linfoma gastrico-MALT (Mucosa
Associated Lymphoid Tissue).

42
Clinica
Pz con gastrite cronica Hp-positiva non complicata presentano uno spettro clinico estremamente ampio, che va da casi del tutto asintomatici a casi
con manifestazioni cliniche evidenti: sostanzialmente si ha un quadro dispeptico, caratterizzato dalla varia associazione di sintomi quali
dolore/discomfort epigastrico, sazietà precoce, ripienezza postprandiale, gonfiore e distensione addominale, eruttazione, nausea e vomito.

L’insorgenza di complicanze della gastrite cronica Hp-positiva, quali ulcera duodenale o gastrica, può determinare una maggiore severità delle
manifestazioni sopra descritte, mentre la sovrapposizione di metaplasia o displasia non determina modificazioni del quadro clinico.

Diagnosi
• Il test diagnostico per definire la presenza di una gastrite cronica attribuibile
a un’infezione da Hp è rappresentato da valutazione istologica della biopsia
gastrica con prelievo durante EGDS, che consente l’evidenziazione del
batterio a livello della superficie epiteliale.
L’EGDS andrebbe però riservata a pz sintomatici con elevato rischio di
patologia organica.

In alternativa, campioni di tessuto prelevati endoscopicamente possono


essere utilizzati per effettuare il test rapido all’ureasi: rappresenta un
metodo immediato, basato sull’attività ureasica del batterio, la quale determina, in una soluzione campione, l’idrolisi dell’urea in ammonio
e CO2 con incremento del pH e variazione del colore.
Quest’indagine può risultare falsamente negativa, se effettuata a breve distanza dall’assunzione di farmaci che inibiscono l’attività
metabolica del batterio, quali antibiotici, bismuto o PPI.

• In individui di età < 45-55 anni e in assenza di sintomi


conferenti elevato rischio di patologia organica, si
preferisce rilevare la presenza del batterio attraverso test
non invasivi:
− Sierologia: la presenza di anticorpi circolanti
di classe IgG può essere ricercata, tuttavia, in
virtù della memoria immunologica, elevati
livelli di IgG specifiche sono rilevabili anche a
distanza dall’eradicazione.
Il test, di conseguenza, è utile per la ricerca
dell’Hp in individui naïve, mentre non
consente la verifica dell’eradicazione o la
valutazione di eventuali recidive

− Urea Breath Test: è l’esame attualmente più


utilizzato, provvisto di un’elevata accuratezza
diagnostica.
Prevede l’assunzione orale di urea marcata con
13
C la quale, in presenza di attività batterica
ureasica, rilascia 13CO2 a livello gastrico.
Il gas diffonde nel circolo ematico, viene
eliminato nell’aria espirata e in essa
quantizzato mediante spettrometria di massa.
Anche il breath test all’urea può risultare
falsamente negativo se effettuato a breve
distanza da terapie con farmaci che
inibiscono l’attività metabolica del batterio

− Ricerca di Ag specifici dell’Hp nelle feci:


presenta accuratezza paragonabile al breath test
all’urea; a differenza dei precedenti esami, non
subisce interferenze da eventuali terapie in
atto e può, quindi, essere utilizzato per la
valutazione dell’avvenuta eradicazione o di
possibili recidive dell’infezione.

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Terapia
Si avvale di diversi schemi antibiotici:

• Prima linea:
− Triplice terapia standard: durata 14 giorni
o IPP a dose piena (in genere esomeprazolo 40 mg) x 2volte/die
o Amoxicillina 1 g x 2volte/die
o Claritromicina 500 mg x 2 volte/die

− Sequenziale: durata 10 giorni


o IPP + amoxicillina per 5 giorni
seguita da
o IPP + claritromicina + tinidazolo (500 mg x 2volte/die) per 5 giorni

• Seconda linea ⇒ quadruplice terapia: durata 10 giorni:


o IPP (omeprazolo 20 mg) x 2 volte/die
o 3 Pylera x 4 volte/die: contiene bismuto, metronidazolo e tetraciclina.

GASTRITE CRONICA ATROFICA AUTOIMMUNE


Malattia su base autoimmune, a trasmissione con carattere AD a penetranza incompleta.
È caratterizzata dalla presenza di auto-Ab anti-cellule parietali gastriche e anti-fattore intrinseco.
Si tratta di una condizione a lenta evoluzione, che coinvolge corpo e fondo; si manifesta quando il numero di cellule parietali si riduce al punto tale
da rendere lo stomaco incapace di produrre quantità sufficienti di acido, pepsinogeno e fattore intrinseco ⇛ malassorbimento di vitamina B12 e
sviluppo di anemia perniciosa.

L’ipoacloridria determina l’iperplasia delle cellule G antrali per la perdita del normale feedback negativo e ipergastrinemia, che rappresenta un
potente fattore trofico per le cellule ECL (EnteroChromaffin-Like cells).
In alcuni casi l’iperplasia di tali cellule può evolvere in displasia, formazione di microcarcinoidi ed eventuale sviluppo di carcinoidi gastrici invasivi.

Clinica
Si caratterizza fondamentalmente per una sindrome dispeptica associata ad anemia macrocitica megaloblastica.
Per ciò che riguarda l’anemia, è necessario considerare che nella gastrite autoimmune il malassorbimento di vitamina B12 (per ridotta produzione di
fattore intrinseco) coesiste con il malassorbimento di ferro (per ridotta sintesi di acido) ⇛ ciò rende possibile il riscontro di forme macrocitiche,
microcitiche e miste con anemia normocitica caratterizzata da spiccata anisocitosi.

Altri sintomi:
• glossite atrofica, con superficie liscia, arrossata e dolente
• anoressia e moderato calo ponderale
• Disturbi neurologici da deficit di vitamina B12

La storia naturale di questa condizione può essere complicata dal possibile sviluppo di polipi iperplastici, carcinomi e tumori neuro-endocrini.

Diagnosi
Parte da un sospetto in caso di anemia macrocitica megaloblastica, eventualmente accompagnata da ipergastrinemia e sintomi dispeptici.
Il riscontro della positività agli auto-Ab impone l’effettuazione di EGDS corredata da un adeguato campionamento bioptico per valutare la
presenza di atrofia e metaplasia.
Il fatto che la presenza di gastrite cronica atrofica autoimmune con anemia perniciosa rappresenti una chiara situazione preneoplastica comporta la
necessità di un periodico controllo endoscopico-bioptico ogni 3 anni.

Terapia
• Correzione delle carenze nutrizionali ⇒ supplementazione di Vit. B12 per via parenterale (Dobetin) ed eventualmente ferro

• Il quadro dispeptico può giovarsi di procinetici (⇒ metoclopramide, domperidone, clebopride, levosulpiride), mentre l’uso di IPP è
controindicato per evitare un ulteriore stimolo all’ipergastrinismo.

44
ULCERA PEPTICA

Lesione della mucosa gastrica o duodenale, caratterizzata da perdita di sostanza che, a differenza delle
erosioni (che si limitano all’epitelio), si approfondisce oltre la muscolaris mucosae (raggiungendo e talora
superando la t. muscolare), causata dell’azione di pepsina e acido cloridrico.

Epidemiologia
Si stima che in circa il 10% della popolazione generale verrà posta, nel corso della vita, la diagnosi di ulcera peptica.
Sul piano epidemiologico, tra UG e UD sono evidenti alcune differenze; se la prevalenza dell’UG è valutata intorno al 2,5% della popolazione adulta
(con un valore doppio nel M rispetto alla F), quella dell’UD si attesta intorno all’1,8% senza differenze tra i due sessi.

Fdr:
• L’infezione da Hp rappresenta il
fdr più significativo per l’UD,
mentre il consumo di FANS lo è
per l’UG.
Tale dato si riflette sull’età media
di insorgenza della malattia: più
precoce nell’UD (nel quinto-sesto
decennio di vita), rispetto all’UG
(nel sesto-settimo decennio di vita)

• fumo di sigaretta
• abuso di alcolici
• caffeina
• altri farmaci quali: CS, bifosfonati,
CT e KCl
• fattori di tipo psicosociale (situazioni di ansia o elevata conflittualità)
• alcuni fattori genetici, quali il gruppo sanguigno 0 e alcuni aplotipi HLA
• Sindrome di Zollinger-Ellison.

Clinica
➢ Ulcera gastrica: presenta una sintomatologia generalmente aspecifica.
Quando clinicamente evidente, il sintomo di esordio è rappresentato da dolore epigastrico, sordo o
urente, ma anche come sensazione di fame, talora irradiato alla spalla dx o posteriormente in regione
dorso lombare, che insorge tipicamente entro i primi 30 minuti dopo il pasto (⇒ dolore
postprandiale precoce).

Lo spasmo reattivo del piloro può determinare distensione gastrica, con occasionali nausea e vomito (che in caso di stenosi cicatriziale si
manifestano anche più volte al giorno).
Alla periodicità dei sintomi dolorosi nell’arco della giornata, si può aggiungere una periodicità stagionale, con tipiche recrudescenze nel
periodo primaverile e autunnale.

Il 40% degli affetti da ulcera peptica a sede gastrica riferisce un calo ponderale di entità variabile, legato all’anoressia e all’avversione per
il cibo indotta dai disturbi.
Un aggravamento della sintomatologia può essere conseguente a modificazioni delle abitudini alimentari o lavorative o seguire intensi
periodi di stress psicofisico o emotivo.

In regime d’urgenza, la comparsa di dolore epigastrico improvviso, configurando il quadro di addome acuto, deve far sospettare una
possibile perforazione dell’ulcera, mentre l’emissione di sangue con il vomito (ematemesi) o con le feci (melena) impone il rapido
inquadramento di una patologia ulcerosa verosimilmente complicatasi con un’emorragia acuta.

All’EO spesso si rileva dolorabilità alla palpazione in epigastrio e ipocondrio sx, talvolta
accompagnata da iperestesia cutanea.
La DD va posta con numerose patologie di frequente riscontro: ernia iatale, gastrite, duodenite, ulcera duodenale, colica biliare o
colecistite acuta, disturbi funzionali del tratto digerente superiore; particolarmente importante (e difficile) è la diagnosi differenziale con il
cancro dello stomaco.

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➢ Ulcera duodenale: simile a quello dell’UG, ma con alcune differenze:
− Il dolore compare tipicamente 2-3h dopo il pasto (⇒ dolore postprandiale tardivo)
− in oltre la metà dei pz è causa di risveglio notturno
− L’assunzione di cibo (come il latte) comporta la risoluzione del dolore.

Complicanze:
• Acute:
− Perforazione
Avviene per erosione lenta della parete gastrica o duodenale in seguito alla progressiva penetrazione dell’ulcera.
In caso di perforazione in uno spazio di diffusione limitato dalle altre strutture anatomiche (come talora avviene proprio nella
retrocavità degli epiploon) o dalla presenza di aderenze con l’omento o con altri tessuti contigui (a volte in esiti flogistici di
ulcere cronicizzate) si parla di perforazione coperta, poiché la fuoriuscita del succo intraluminale e la sua diffusione vengono
appunto limitate spazialmente.

Clinica: quadro di peritonite acuta, inizialmente di natura chimica-irritativa, ma entro 12-24h diventa di natura batterica (a
causa della proliferazione dei microrganismi fuoriusciti nel cavo peritoneale).
Nel caso dell’ulcera perforata coperta, invece, il quadro clinico spesso è più subdolo, più tardivo nella presentazione e
rappresentato per lo più da una peritonite saccata, che evolve verso la formazione di un ascesso localizzato.

La sintomatologia è caratterizzata da comparsa improvvisa di dolore intensissimo, trafittivo, localizzato in epigastrio o


ipocondrio dx, di tipo continuo.
Esso tende a irradiarsi a tutti i quadranti addominali, al dorso, nonché alle regioni sovraclaveari.
Possono associarsi ripetuti conati di vomito, spesso improduttivi.
Nel caso di una perforazione coperta, il dolore può attenuarsi per qualche tempo, senza però recedere mai del tutto.
In entrambi i casi, febbre e leucocitosi compaiono entro poche ore.

Diagnosi: viene effettuata con certezza con l’evidenza di aria libera all’Rx diretto dell’addome (tipicamente subfrenica se
l’esame viene eseguito in ortostatismo) o alla TC.
In ogni caso di dolore addominale intenso, è necessario un esame ECG per escludere che tale sintomatologia rappresenti
l’irradiazione addominale del dolore da infarto miocardico.
Per DD vanno escluse anche pancreatite acuta, colecistite acuta, appendicite acuta e infarto intestinale.

Terapia: se giunto all’osservazione in stato di shock, innanzitutto il pz va stabilizzato.


Contestualmente, il pz va subito preparato per l’intervento chirurgico in urgenza: in questo caso, quando possibile,
l’intervento di scelta è costituito dalla toilette peritoneale con raffia dell’ulcera, eseguibile anche in laparoscopia qualora la
contaminazione peritoneale non sia così diffusa da controindicare la procedura mininvasiva.
Raramente è necessaria una gastroresezione.

− Emorragia digestiva

• Croniche:
− Stenosi (generalmente iuxtapilorica)

− Fistola: tende a interessare più comunemente pancreas, fegato o colon

− Cancerizzazione
In realtà non è l’ulcera peptica la diretta responsabile della trasformazione neoplastica, ma il fenomeno infiammatorio associato
alla lesione ulcerativa nella sua complessità a determinare le condizioni predisponenti l’evoluzione verso la neoplasia, in
particolare se associato ad infezione da H. pylori.
Si ritiene comunque che la quasi totalità delle ulcere neoplastiche gastriche insorgano come tali fin dall’inizio, nonostante
l’aspetto macroscopico all’endoscopia possa essere in alcuni casi quello di un’ulcera peptica benigna.
Allo stato attuale non esistono prove circa la potenzialità di trasformazione maligna delle ulcere duodenali.

Diagnosi
È fondata sull’EGDS corredata da biopsie, per evidenziare la possibile concomitante infezione da Hp e
l’eventuale degenerazione neoplastica.
Eventuale dosaggio della gastrina nel siero se sospetto sindrome di Zollinger-Ellison.

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Terapia
• Terapia medica:
− Evitare fdr (ad es. interrompere assunzione di FANS)
− Eradicazione infezione H. Pylori quando presente
− Alimentazione regolare con spuntini leggeri tra i pasti
− Riduzione dell’acidità gastrica mediante terapia con IPP (inizialmente per 4-8 settimane)

• Terapia chirurgica
Indicazioni:
− Perforazione
− Ostruzione
− sanguinamento incontrollabile o ricorrente
− sintomi che non rispondono alla terapia farmacologica (rari).

Con l'attuale terapia farmacologica, il numero di pz che necessita di un trattamento chirurgico si è


ridotto in maniera drastica.

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L'intervento chirurgico consiste in una procedura per ridurre la secrezione acida: per l'ulcera duodenale è raccomandata la vagotomia
superselettiva o delle cellule parietali (che è limitata ai nervi del corpo gastrico e risparmia l'innervazione antrale, ovviando così alla
necessità di una procedura di drenaggio).

Altre procedure chirurgiche che riducono la secrezione acida comprendono: antrectomia, emigastrectomia, gastrectomia parziale e
gastrectomia subtotale (ossia la resezione del 30-90% della porzione distale dello stomaco); queste sono tipicamente associate a vagotomia
tronculare.
I pz che vengono sottoposti a procedure resettive o che hanno un'ostruzione richiedono un drenaggio gastrico tramite gastroduodenostomia
(Billroth I) o gastrodigiunostomia (Billroth II).

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Terapia in caso di emorragia acuta da ulcera peptica

• Le linee guida per il trattamento delle emorragie massive del tratto digestivo superiore prevedono
come primo step la cosiddetta “resuscitation”, che comprende immediata valutazione
emodinamica, replacement del volume vascolare con cristalloidi e restrittiva politica di strategia
trasfusionale con target di Hb tra 7-9 g/dL (fino a 10 se coronaropatico).
Utile nella valutazione del rischio del pz il Glasgow-
Blatchford Score (GBS).

• È necessario valutare anche se il pz è in terapia con


dicumarolici, in tal caso:
− sospendere il farmaco
− somministrare plasma fresco congelato e
concentrato di complesso protrombinico a 4
fattori
− la vitamina K impiega troppo tempo per agire (6-
8h).

• A questo punto si può procedere con l’emostasi in


endoscopia che prevede due tecniche in associazione,
come utilizzo di clip e patch granulonico che determina
sclerosi.

L’endoscopia si può definire:


− precoce, entro le 12h
− intermedia, entro le 24h
− ritardata, dopo le 24h.

Tanto più l’emorragia è grave (ematemesi massiva, instabilità emodinamica nonostante gli interventi messi in atto), tanto più precoce
deve essere l’intervento.

• Fondamentale è iniziare fin da subito la terapia con IPP per ev: prima in bolo e poi in infusione
continua.
Si può discutere riguardo l’utilizzo di antifibrinolitici e della somatostatina, ma le LG non li
prevedono.
La somministrazione di eritromicina per ev (o altri macrolidi) è efficace dal momento che facilita un
rapido svuotamento dello stomaco aumentando l’efficacia della terapia.

• Le LG raccomandano l’intubazione a discapito del SNG per proteggere le vie aree da potenziale
fenomeno ab ingestis.

Quando nell’ulcera c’è un grosso coagulo che tampona il


sanguinamento, bisogna in realtà sempre cercare di
toglierlo per capire se l’emorragia persiste o meno.
Si utilizza la classificazione di Forrest: nel caso di
un’ulcera con sanguinamento a getto (1a) o
sanguinamento a nappo (1b) bisogna procedere con
emostasi endoscopica.
Laddove non si vede chiaramente una fonte emorragica
bisogna prendere atto che il sanguinamento si è
spontaneamente arrestato e l’emostasi endoscopica non
andrebbe fatta.

Le LG non raccomandano un second look se il malato dimostra di aver raggiunto una buona emostasi dopo
endoscopia dal punto di vista clinico.
Al contrario si possono individuare dei fdr per la recidiva emorragica e selezionare pz (con ad es. ulcera
particolarmente voluminosa ed emostasi molto difficile da raggiungere) in cui fare terapia aggressiva e

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second look endoscopico dopo 24-48h, in quanto dopo l’emostasi endoscopica il risanguinamento si
verifica fino al 20% dei casi.

L’endoscopia è la prima scelta di trattamento anche in caso di recidiva.


Dopo il fallimento della seconda endoscopia (3% dei casi), le LG non specificano se procedere con
embolizzazione angiografica o intervento chirurgico:
• L’embolizzazione ha sicuramente un minor rischio, ma se non risolve il quadro e devo poi operare
questo malato la situazione risulta molto peggiorata

• D’altro canto, l’operazione chirurgica non dovrebbe essere presa in considerazione almeno in un
primo momento: questo perché il malato che risanguina è un pz molto fragile, che fin dall’inizio
aveva un’ulcera difficile da trattare e un secondo sanguinamento è uno stress molto importante.
La chirurgia, ormai praticata molto raramente, oggi è molto più conservativa: si apre la parete
dello stomaco e del duodeno, si sutura l’ulcera dall’interno e si lega l’a. gastroduodenale.

50
MALATTIE della COLECISTI e delle VIE BILIARI

COLELITIASI
Presenza di calcoli nella colecisti.

Epidemiologia
Rappresenta una delle maggiori cause di morbilità e ospedalizzazione nei Paesi occidentali.
La sua incidenza totale è di 670 casi/100.000 ab all’anno.
In Italia la prevalenza è risultata pari al 9,5% nei M e al 19% nelle F; esiste inoltre una correlazione lineare con la progressione dell’età.

Ezio-patogenesi
I calcoli biliari sono strutture cristalline formate da costituenti normali o non della bile.
Si suddividono fondamentalmente in:
• Calcoli contenenti colesterolo (80% dei calcoli biliari): sono suddivisibili a loro volta in calcoli puri di colesterolo
(10%) e calcoli misti (70%).
Contengono in prevalenza colesterolo monoidrato e, per una piccola quota, sali biliari, proteine, acidi grassi, fosfolipidi; i calcoli
colesterinici puri sono, di solito, singoli, chiari, grandi, mentre quelli misti sono, in genere, piccoli e multipli.

La bile diventa litogenica per:


− aumentata secrezione biliare di colesterolo: come in caso di dieta ricca di grassi saturi,
obesità, dislipidemia, DM, ma anche gravidanza

− diminuita secrezione epatica di sali biliari e fosfolipidi:


o difetti del circolo enteroepatico da malassorbimento per resezione o malattia ileale
o terapia estroprogestinica (proprio per il fatto che gli estrogeni diminuiscono la secrezione dei sali
biliari, le donne sono maggiormente colpite dalla colelitiasi, nella misura di 4:1 rispetto agli uomini )

− fattori predisponenti individuali:


o Età avanzata
o Familiarità
o Sesso F
o Fattori geografici: nell’Europa del Nord e in America la frequenza di calcolosi biliare colesterinica è maggiore che
nei Paesi orientali

− Stasi biliare: come in caso di ipomobilità colecistica da digiuno protratto e nutrizione


parenterale totale.
Tra i fattori che favoriscono la nucleazione e la precipitazione del colesterolo troviamo le mucine, che vengono cronicamente
prodotte dalla mucosa della colecisti; se ipersecrete (ad es. in presenza di una bile litogenica o infetta) la viscosità aumenta e
favorisce la formazione di precipitati, il cui range ecografico va dalla sabbia, che tende a livellarsi, al fango biliare, che tende
a formare pseudomasse e spesso è il precursore dei calcoli biliari.

Anche dopo un semplice digiuno di 48-72h, che impone un’ipomobilità della colecisti, i cristalli di colesterolo inglobati in un
gel di mucina sono già individuabili sia a un’analisi chimica della bile sia all’esame ecografico.
Lo svuotamento della colecisti, sia fasico (postprandiale), sia continuo, cioè del 10% del volume più volte nell’arco delle 24
ore, garantisce invece un ricambio efficace della bile e la rimozione dei cristalli e delle mucine.

• Calcoli pigmentati (20% //): sono composti soprattutto da bilirubinato di calcio.


Sono distinti a loro volta in:
− Calcoli black: si sviluppano in presenza di bile sovrasatura di bilirubina non coniugata,
come nelle anemie emolitiche o nelle epatopatie croniche con difetti della coniugazione da
parte dell’epatocita
− Calcoli brown: secondari a infezioni batteriche e infestazioni parassitarie della colecisti e
delle vie biliari.

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Clinica
La litiasi biliare può restare asintomatica ed essere diagnosticata come reperto casuale in corso di indagini
diagnostiche eseguite ad altro scopo.
Solo il 20% dei pz sviluppa sintomi, il cui rischio aumenta nei giovani, pz con litiasi multipla e di piccola
taglia: il sintomo caratteristico è la colica biliare (generata dall’aumentata pressione nelle vie biliari ostruite, con dilatazione della
colecisti e tentativo, da parte della muscolatura liscia dei dotti biliare o cistico, di vincere l’ostacolo contraendosi ), caratterizzata da un
dolore intenso continuo all’ipocondrio dx, con frequente irradiazione alla scapola dx (per stimolazione del
ramo cutaneo posteriore del nervo frenico) o alla spalla dx.
Il dolore inizia improvvisamente e può persistere da 1 a 4h, recede spontaneamente, potendo però lasciare
una lieve dolenzia in ipocondrio dx (che può permanere per 24-48h).
La colica biliare può essere precipitata dall’assunzione di un pasto ricco in lipidi e/o abbondante
(soprattutto se gli alimenti vengono introdotti dopo un prolungato periodo di digiuno).

Frequentemente si associano sintomi dispeptici quali distensione gastrica, eruttazioni, nausea fino al vomito
alimentare.

All’EO si può rilevare positività del segno di Murphy.

Complicanze:
− colecistite “cronica” e “acuta”
− sindrome di Mirizzi per compressione
infiammatoria della regione infundibolocistica sulla
via biliare
− colica biliare da impegno dei calcoli
nell’epatocoledoco
− pancreatite biliare
− Più raro e controverso è il rapporto fra litiasi e K
della colecisti.
Occorre sottolineare che a fronte di questa potenziale imprevedibilità,
che impedisce a chiunque di rassicurare del tutto i propri pz ancora
asintomatici, è anche vero che la maggior parte delle complicanze è
preceduta da sintomi, anche modesti, ed è raro un esordio
immediatamente complicato della litiasi.
Vari studi randomizzati hanno tentato di comparare i risultati immediati
e a distanza su gruppi di pz portatori di litiasi asintomatica, trattati o
meno con la colecistectomia profilattica.
Nessuno degli studi ha visto prevalere in modo significativo la
chirurgia perciò, a oggi, è consigliato mantenere un atteggiamento
conservativo nella litiasi silente, salvo indicazioni particolari.

Diagnosi
• Anamnesi ed EO

• Valutazione laboratoristica della funzionalità epatica: in corso di colica biliare vi possono essere aumento di aminotransferasi, γ-GT e
fosfatasi alcalina.
La bilirubina, prevalentemente coniugata, è aumentata nel 25% dei casi, spiegabile in presenza di calcolosi del coledoco per effetto
dell’ostruzione biliare e causa dell’ittero.

• Eco addome: permette, con altissima sensibilità e specificità, di visualizzare calcoli della colecisti
(⇒ immagini iperecogene che proiettano un cono d’ombra posteriore) ed eventuale dilatazione delle vie biliari.

• In presenza di sintomi ed ecografia negativa o di una via biliare di calibro aumentato all’ecografia, occorre richiedere ulteriori indagini
strumentali quali la colangio-RM.

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Terapia
Va riservata solo ai pz sintomatici o con complicanze:

a) La terapia medica con acidi biliari (⇒ acido chenodesossicolico o


ursodesossicolico) ha indicazioni molto limitate: pz che rifiutano che
l’intervento chirurgico o con elevato rischio chirugico.
I migliori candidati sono i soggetti con calcoli radiotrasparenti (cioè privi di componente
calcifica) di dimensioni < 1 cm; in questo caso, si ha una dissoluzione completa o parziale dei
calcoli nel 60-70% dei casi.
Lo svantaggio è l’alta percentuale di ricorrenza (25% dei casi entro 5 anni).

b) La terapia chirurgica con intervento di colecistectomia


laparoscopica in elezione è la procedura di prima scelta.

La chirurgia open viene riservata alle conversioni laparoscopiche in caso di complicanze o


anatomia biliare difficilmente identificabile.

Fasi intervento:
1. La preparazione all’intervento richiede una profilassi antibiotica short term nei diabetici,
anziani, portatori di protesi, 1-2 ore prima dell’induzione dello pneumoperitoneo; è necessaria
anche la profilassi della TVP con LMWH nei soggetti a rischio.
Di solito si posiziona un SNG per decomprimere stomaco e duodeno, che possono creare
ostacolo, se distesi, alla visualizzazione del triangolo epatocistico.

2. La prima fase dell’intervento è l’induzione dello pneumoperitoneo, per creare la camera


gassosa di sicurezza nella quale inserire il primo trocar, quello ottico.
Molto utilizzata è la tecnica chiusa, con l’ago di Veress inserito al margine inferiore
dell’ombelico, sollevato al suo margine superiore con la mano non dominante:
Una volta introdotto in addome, si inizia a insufflare la CO2 per indurre lo pneumoperitoneo
fino a raggiungere una P endoaddominale di 15 mmHg, dopodiché si estrae l’ago, si incide la
cute per 10 mm e si introduce il primo trocar attraverso l’ombelico.

3. Una volta introdotto il primo trocar, lo si collega alla pompa della CO2 e si introduce la
telecamera: si esplora tutta la cavità addominale, si verifica l’assenza di danni sui visceri, di
sanguinamenti parietali, viscerali e retroperitoneali e la presenza di aderenze.
Queste ultime, rarissime nei soggetti non operati, aumentano al 15% nei pz con pregresso
intervento laparoscopico, fino al 60% negli operati con incisione mediana.
Gli ulteriori strumenti (tecnica a 3 e a 4 trocar) vengono introdotti sotto diretta visione della
telecamera.

4. La corretta esposizione del triangolo di Calot si ottiene mediante retrazione in alto del
fondo della colecisti con pinza a scatto e blocco del suo morso.
Si inizia la dissezione all’ilo epatico per identificare l’arteria cistica, il dotto cistico e la via
biliare principale.
L’intervento è di solito condotto con tecnica retrograda, ovvero si mobilizza la colecisti dal suo
letto epatico a partire dall’infundibolo solo dopo la sezione e il clippaggio dell’arteria cistica e
del dotto cistico.
Completata la mobilizzazione, la colecisti viene introdotta in un sacchetto di plastica
(endobag) ed estratta.
Il sacchetto riduce i rischi della contaminazione settica degli accessi addominali e della cavità
peritoneale, che aumentano se si verificano lacerazioni accidentali della parete colecistica
con fuoriuscita di bile e calcoli. Questi ultimi sono tutti da recuperare perché infetti per
definizione e nucleo di contaminazione della regione operata.

5. Al termine dell’intervento si verifica l’assenza di sanguinamento alla rimozione di


tutti i trocar e si suturano le fasce nei punti di ingresso da 10 mm per evitare eventuali
laparoceli.

La colecistectomia non causa problemi nutrizionali né sono necessarie restrizioni alimentari.


Alcuni pz sviluppano diarrea, spesso perché si manifesta un malassorbimento dei sali biliari
nell'ileo.

La colecistectomia profilattica è giustificata nei pz asintomatici solo in caso di calcoli biliari


> 3 cm o di una colecisti calcificata (colecisti a porcellana), poiché queste condizioni
aumentano il rischio di K della colecisti.

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COLECISTITE
È una delle complicanze più frequenti della colelitiasi (⇒ colecistite litiasica), per l’impegno protratto di
un calcolo nell’infundibolo-cistico che provoca ostruzione del dotto cistico.
A questo fanno seguito stasi biliare, ipertensione endoluminale, flogosi parietale e possibile progressione verso la necrosi ischemica per eccessiva
distensione della parete, quindi la sovrapposizione batterica (⇒ idrope e successivo empiema) fino alla perforazione con peritonite localizzata
(ascesso sottoepatico) o diffusa.
In alcuni casi la necrosi ischemica favorisce lo sviluppo di una flora batterica gas-producente che dà origine a una colecistite enfisematosa: il gas si
livella all’altezza del lume della colecisti o ne disegna le pareti per uno sviluppo intramurale.
Se il dotto cistico si ricanalizza può comparire l’aerobilia che disegna le vie biliari intra- ed extraepatiche, rilevata da tutte le metodiche di imaging, a
partire dalla semplice radiografia diretta dell’addome

Nel 10% dei casi si ha la forma alitiasica, a genesi multifattoriale, che colpisce spesso pz anziani fragili
ricoverati in Terapia Intensiva.
In questi casi il digiuno e il ricorso alla terapia parenterale impongono un lungo periodo di adinamia della colecisti, con conseguente inspissatio della
bile che provoca ostruzione del dotto cistico con sabbia e fango biliare; si associa a un maggior rischio di evoluzione grave.

Clinica
I sintomi sono quelli già descritti della colica biliare (con maggiore intensità e durata, > 6h), a cui si associano i segni
della flogosi: febbre, tachicardia e irritazione peritoneale (per l’infiammazione della sierosa colecistica).

All’EO tipico il segno di Murphy.


Consiste nell’arresto dell’inspirazione del pz, invitato a inspirare profondamente (in decubito supino), se con la mano a piatto viene esercitata una
pressione sul punto cistico; in questo modo, abbassandosi il diaframma, il fondo della colecisti, interessata da processo flogistico, viene a contatto
con la mano dell’operatore, suscitando così la comparsa del dolore e l’arresto dell’inspirazione.

Questo segno può mancare, sostituito dalla percezione di una massa in regione colecistica, dolorabile alla palpazione profonda, fino a quadri di
peritonite e difesa generalizzata nelle forme perforate.

Se è presente anche colestasi con ittero ostruttivo, oltre alla


litiasi delle vie biliari, deve essere sospettata la sindrome di
Mirizzi: si tratta della compressione ab extrinseco della via
biliare da parte di una reazione infiammatoria acuta o cronica
iperplastica della tasca di Hartmann o della regione infundibulo-
cistica, occupata da un calcolo (⇒ Mirizzi tipo I).
La compressione può determinare anche un’erosione/ necrosi
della parete e una fistolizzazione con la via biliare (⇒ Mirizzi tipo
II).

La complicanza più temibile è la perforazione, che può essere


circoscritta, libera nella cavità peritoneale o in un segmento
dell’apparato digerente:
− La perforazione circoscritta è la più comune e si instaura perché i visceri
circostanti aderiscono alla colecisti infiammata impedendo la libera
perforazione.
La sua comparsa è suggerita da elevate puntate febbrili, dolore acuto in corrispondenza del quadrante addominale superiore dx e dalla
frequente presenza di una massa ipocondriaca palpabile (“piastrone”)

− La perforazione nella cavità peritoneale, con conseguente coleperitoneo (cioè fuoriuscita di bile in peritoneo), compare solo nell’1-2%
dei pz, ma è associata a una mortalità del 30% circa.

− La perforazione nei visceri vicini causa la formazione di fistole tra colecisti e organi adiacenti, più comunemente il duodeno.

Diagnosi
• Anamnesi ed EO

• Esami di laboratorio: normali nella colica biliare, rilevano qui leucocitosi neutrofila e aumento di
VES e PCR.
Più raro il movimento delle transaminasi per il coinvolgimento del tratto di fegato adiacente al letto della colecisti.
L’elevazione degli enzimi della colestasi deve far pensare al passaggio di calcoli nella via biliare e conseguente colangite, oppure alla
sindrome di Mirizzi.

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• Eco addominale: esame di riferimento.
Permette di identificare sia la litiasi “bloccata” in regione infundibolare-cistica, sia la distensione della colecisti e i segni di progressiva
sofferenza della parete, quali:
− ispessimento parietale > 5 mm
− presenza di fluido pericolecistico
− segno di Murphy ecografico: dolore evocato dalla pressione della sonda sul fondo della colecisti
− perforazione con interruzione dell’integrità del viscere.

Estremamente più vaghi i segni della colecistite acuta alitiasica, talvolta rappresentati in fase iniziale dalla sola distensione della colecisti.

• TC: segue l’esame ecografico e offre un quadro spaziale migliore della regione sottoepatica e delle possibili ripercussioni locali della
flogosi colecistica, ma deve essere utilizzata solo nelle forme complesse in quanto l’ecografia è sufficiente a porre diagnosi e indicazione
all’intervento.

• Colangio-RM: è indicata in tutte le forme associate a colestasi per differenziare sindrome di Mirizzi, litiasi della via biliare e neoplasie
delle vie biliari per le forme croniche

• Colescintigrafia: è utile quando i risultati non sono chiari; il mancato riempimento della colecisti con materiale radioattivo suggerisce
l'ostruzione del dotto cistico.

Terapia
Prevede innanzitutto terapia antibiotica ad ampio spettro e terapia di supporto (⇒ idratazione e analgesici
evitando morfina), dopodiché si procede con colecistectomia per via laparoscopica: è preferibile operare
precocemente, entro le 72h dall’esordio clinico della malattia.
In questo lasso di tempo l’approccio laparoscopico è più semplice perché:
− non si sono ancora sviluppate aderenze che ostacolano il riconoscimento delle strutture biliari e vascolari all’ilo
− vi è un minor ricorso alla conversione open, comunque elevato rispetto alla colecistectomia semplice (20% e oltre)
− si evitano le possibili evoluzioni complesse della malattia con perforazione e sviluppo di ascessi sottoepatici.

La colecistostomia percutanea può essere la prima scelta per temporizzare


l’intervento in pz anziani, defedati, ad alto rischio chirurgico.
In tal caso la manovra, eseguita con guida ecografica, consente nel 95% dei casi il posizionamento in colecisti
di un catetere pigtail da 10-12 F con passaggio percutaneo transepatico intercostale o sottocostale destro.
La manovra è palliativa, ritarda l’intervento chirurgico e permette di riequilibrare il pz per operarlo in
condizioni cliniche più favorevoli.

ILEO BILIARE
Rappresenta una rara causa di ostruzione meccanica dell’intestino (2% dei casi).
Ezio-patogenesi: vede alla base il passaggio di un calcolo, attraverso un tramite fistoloso, dalla colecisti al
lume intestinale.
Il tratto più frequentemente interessato è il duodeno: da qui il calcolo, spinto dalla peristalsi, in base alle
dimensioni viene espulso con le feci o può bloccarsi nel segmento gastroduodenale, fino al Treitz (⇒
sindrome di Bouveret).
La fistola enterica è favorita da calcoli di grosse dimensioni che provocano un danno cronico, da frizione, della parete colecistica con flogosi cronica,
ischemia parietale ed erosione/ necrosi.
Dopo il passaggio del calcolo, la fistola può rimanere pervia o chiudersi spontaneamente; in tal caso resterà a sua testimonianza una tenace aderenza
fra colecisti e viscere.
L’intervento di colecistectomia sarà in tal caso più complesso, con rischio di lacerazioni viscerali durante la mobilizzazione dalle strutture circostanti.

Clinica: l’ostacolo alto provoca vomito rapido e incoercibile.


Passato il Treitz, il successivo stop è a livello della valvola ileocecale o comunque di qualunque tratto del
tenue e del colon che abbia un lume ristretto (ad es. briglie aderenziali).

Diagnosi: parte da un sospetto in caso di ileo meccanico + anamnesi di pregresse coliche biliari o colecistiti
trattate conservativamente.
La TC è spesso risolutiva, dimostrando contemporaneamente i tre segni che compongono la triade di
Rigler: aerobilia, distensione del tenue con livelli e visione diretta del calcolo (facilitata da un’elevata percentuale di
Ca).

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LITIASI della VIA BILIARE PRINCIPALE
Migrazione per via anterograda di calcoli cistici nel coledoco, si manifesta nel 15% dei pz con colelitiasi
(soprattutto negli anziani).

Clinica: è sintomatica nel 50% dei casi:


• subittero/ittero ostruttivo ⇛ urine ipercromiche (“color marsala”) e feci ipo/acoliche, prurito
generalizzato
• colangite
• pancreatite acuta

Diagnosi
• Test di funzionalità epatica: aumento di fosfatasi alcalina e γ-GT, bilirubina coniugata/diretta, ALT
• Ecografia: ridotta accuratezza nel documentare litiasi nella VBP
• Colangio – RM: esame di riferimento
• CPRE: a scopo operativo

Trattamento La CPRE (ColangioPancreatografia Retrograda


Sfinterotomia endoscopica in corso di CPRE, indicata in caso di: Endoscpica) consiste nell’introduzione di un
− coledocolitiasi con colecisti in sede endoscopio a visione laterale fino al duodeno; segue
− litiasi residua o recidiva l’introduzione di un catetere nella papilla di Vater
attraverso il quale viene iniettato il mdc che
− pancreatite acuta biliare.
consente la visualizzazione diretta delle vie biliari.

La frammentazione endoscopica dei calcoli (litotrissia meccanica o laser intracorporea) per facilitare
È possibile diagnosticare la sede dell’ostruzione
la dissoluzione e la clearance dei calcoli può essere considerata per i calcoli non facilmente
biliare e, spesso, di conoscerne l’eziologia.
rimovibili utilizzando metodi standard (ad es. un cestello per il recupero endoscopico o un
palloncino). Inoltre, permette di prelevare bile per l’esame
colturale e citologico e di effettuare brushing e
biopsia di un tratto stenotico.
Ha il vantaggio di essere pure una tecnica
terapeutica, in quanto è possibile effettuare la
COLANGITE ACUTA sfinterotomia della papilla, l’estrazione di calcoli o
Processo infettivo-infiammatorio della via biliare, secondario a: litiasi l’impianto di protesi o drenaggi.
della VBP (85% dei casi), stenosi coledocica o colangioK, CPRE.
La percentuale di complicanze è del 2-3%; le principali
Patogenesi: l’ostruzione del dotto biliare permette ai batteri di risalire dal duodeno. sono la pancreatite acuta e la colangite, meno
I microrganismi comunemente infettanti sono i batteri Gram − (come E. frequentemente emorragie.
coli, Klebsiella sp, Enterobacter spp); meno comuni sono i batteri Gram-positivi
(come Enterococcus sp) e gli anaerobi misti (come Bacteroides spp e Clostridia sp).

Clinica: è dominata dalla triade di Charcot:


• dolore (coliche biliari)
• ittero ostruttivo
• febbre (39 – 40° C accompagnata da brividi)

• se sono presenti anche alterazione dello stato mentale e ipotensione si completa la pentade di
Reynolds, che predice un elevato tasso di mortalità.

Diagnosi: clinica + reperti di coledocolitiasi + leucocitosi.

Terapia: terapia antibiotica ad ampio spettro e di supporto + rimozione dell’ostruzione.

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LESIONI IATROGENE delle VIE BILIARI in corso di colecistectomia laparoscopica
Una lesione iatrogena è un danno non intenzionale che
consegue a una pratica medica diagnostica o terapeutica.
Differisce dalla complicanza chirurgica in quanto imprevista,
mentre la complicanza è un’eventualità prevista e non
rappresenta un errore medico.

La lesione a carico della via biliare principale in corso di


intervento laparoscopico ha incidenza stimata ≅ 0,5%, che
rapportata all’elevato numero di interventi eseguiti non è
affatto trascurabile.
È importante evidenziare che il danno della via biliare in corso
di colecistectomia laparoscopica è almeno 3-4 volte superiore
rispetto alla colecistectomia open.

Fattori predittivi e di rischio:


• Colecistite acuta: è il principale fattore predittivo, ma
comunque ad oggi non rappresenta più una
controindicazione assoluta alla colecistectomia
laparoscopica, ma soltanto relativa ai casi in cui l’anatomia dell’area risulti severamente
compromessa ⇛ preferibile chirurgia open.

• Anatomia “aberrante”: sia per quel


che riguarda l’albero biliare che l’asse
vascolare (a. epatica e v. porta) ⇛
fondamentale la valutazione
anatomica preoperatoria mediante TC
o ancor meglio colangio-RM.
Un esempio può essere il dotto epatico
dx con inserzione anomala: invece di
confluire ramo dx anteriore e ramo dx
posteriore nel dotto epatico di dx, il
quale a sua volta confluisce a livello
della sella biliare col dotto epatico di
sx, uno o più di questi dotti maggiori si
inserisce in una posizione anomala,
come a livello del dotto cistico.
Se a questo punto, durante l’operazione, si dovesse sezionare il dotto cistico a valle dell’inserzione
del dotto anomalo non ci sarebbero problemi, ma se venisse sezionato il dotto cistico a monte
dell’inserzione anomala si verrebbe a creare un danno di deflusso biliare di un’ampia porzione del
fegato.

In particolare, sono più comunemente associate a lesione della via biliare in corso di
colecistectomia laparoscopica:
− inserzione del dotto cistico nel tratto intraepatico del dotto epatico
− collegamento del dotto epatico dx nella via biliare in prossimità del dotto cistico
− anomalo decorso dell'a. epatica dx in vicinanza del dotto cistico piuttosto che
posteriormente al coledoco

- Deficit dello “strumentario”: ad es. mancato isolamento delle pinze diatermiche, con conseguente
danno da coagulazione, estremamente subdolo

- Errori tecnici: ad es. incompleta occlusione del dotto cistico con le clip, errato piano di dissezione
del letto epatico, lesione epatica durante lo scollamento della colecisti dal letto epatico.

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Classificazione delle lesioni iatrogene delle vie biliari di Strasberg

Il danno iatrogeno delle vie biliari può avere varie localizzazioni.


È molto importante distinguere situazioni di perdita biliare da fistola e situazione di steno-occlusione
della via biliare, in cui il sintomo principale sarà l’ittero.

In caso di mancata chiusura del dotto cistico, la perdita biliare può essere significativa (anche superiore a
mezzo litro di bile), ma è una delle situazioni più facili da trattare: tramite uno stent si copre la via biliare e
quindi anche l’orifizio di sbocco della via biliare nel dotto cistico, e la situazione è risolta.

Altra condizione frequente è la perdita di bile da un dotto biliare nel contesto della fossa della colecisti.
Esistono infatti varianti anatomiche in cui piccoli dotti biliari accessori (dotti di Luschka) connettono
direttamente colecisti e albero biliare intraepatico senza passare dal dotto cistico, a livello del letto della
colecisti.
Anche questa è una situazione favorevole, e spesso va incontro guarigione spontanea se il letto chirurgico è
ben drenato.

Diagnosi
Circa il 75 % delle lesioni iatrogene della via biliare non è riconosciuto in sede intraoperatoria, bensì
successivamente (il ritardo diagnostico medio è di 1-2 settimane), determinando un ulteriore aggravamento
del quadro.

Principali elementi che favoriscono il riscontro di una eventuale lesione durante l'intervento:
− presenza di bile o sanguinamento inaspettati nel campo operatorio
− osservazione diretta della legatura di due dotti invece che uno solo
− rilievo della lesione tramite colangiografia intraoperatoria
− anatomia non ben definita e conversione dell’operazione da laparoscopica a laparotomica.

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Qualora il danno non venga riconosciuto nell'immediato, risulta fondamentale la diagnosi nel post-operatorio:
a tal fine è molto importante il monitoraggio delle condizioni cliniche del malato.
L'intervento laparoscopico permette in genere di evitare al malato un decorso e una degenza post-intervento prolungati, tanto che il giorno stesso
dell'intervento il pz nella maggioranza dei casi non ha febbre, non ha un rialzo di indici infiammatori, si alimenta ed è correttamente canalizzato e
pertanto può essere dimesso.
Alla luce di quanto detto il chirurgo deve sempre sospettare una complicanza nel malato le cui condizioni si discostino da questo quadro, ovvero nel
malato che riferisce malessere, presenta febbre, difficoltà nella alimentazione ed ileo paralitico.

La manifestazione postoperatoria che permette la diagnosi è naturalmente influenzata dal tipo di lesione:
• In caso di stenosi o legatura completa della VBP (Via Biliare Principale), il quadro sarà dominato da
ittero, che persiste nel tempo e diventa ingravescente.
Se non è coinvolta la VBP ma il dotto epatico di sx, si potrà avere anche solo un modesto rialzo
della bilirubina nelle fasi iniziali.

• La sezione parziale o completa del coledoco comporta la formazione di una fistola biliare e
perdita di bile variabile in relazione al tipo di dotto danneggiato: i dotti di Luschka perdono circa
400cc al giorno, il dotto cistico circa 500cc e la via biliare principale anche oltre 1000cc al giorno.

L'elemento che tuttavia condiziona maggiormente l'evoluzione è l'insorgenza di un quadro settico: questa
condizione diviene di primaria importanza rispetto alla lesione stessa e richiede un trattamento antibiotico
specifico.
La riparazione della lesione deve essere necessariamente posticipata dopo la risoluzione del quadro
infettivo.

In presenza di un sospetto clinico di un danno biliare, occorre un approfondimento diagnostico tramite


metodiche strumentali al fine di indirizzare il programma terapeutico:
• Eco: può rilevare biloma e raccolte non drenate

• TC: è notevolmente più informativa ed evidenzia sia la lesione/anomalia biliare, sia le


lesioni/anomalie vascolari eventualmente associate (come pseudoaneurisma), pertanto deve sempre
precedere un intervento chirurgico.
La più comune anomalia vascolare riscontrabile, presente nel 10-15% dei casi, è l’origine dell’a. epatica dx dall’a. mesenterica
superiore invece che dall’a. epatica comune, con un decorso che segna il margine dx del peduncolo epatico profondamente e
posteriormente.

• RM con fase colangiografica (colangio-RM): permette di descrivere molto accuratamente


l’anatomia biliare, oltre che la sede e le caratteristiche della lesione.
La CPRE ha perso il valore diagnostico ma mantiene una certa validità quando c’è l’indicazione di
ricanalizzare la via biliare per via endoscopica tramite stent in caso di stenosi, mentre la PTC
(Colangiografia Transepatica Percutanea) ha mantenuto un ruolo importante nei casi in cui vi sia
necessità di definire con molta accuratezza l’albero biliare.

Terapia
È condizionata dalla tempistica del riconoscimento del danno e dalla tipologia della lesione.
La riparazione deve essere sempre eseguita tramite approccio laparotomico; se il danno viene riconosciuto
in fase intraoperatoria, è necessaria un’immediata conversione
laparotomica.

Le lesioni parziali o le lesioni totali non caratterizzate da perdita di sostanza


possono usufruire del posizionamento di stent (per via endoscopica o
percutanea) o dell'esecuzione di una anastomosi termino-terminale.

Le lesioni totali caratterizzate invece da perdita di sostanza richiedono una


derivazione bilio-digestiva su ansa alla Roux, ovvero un'ansa intestinale ad Y
che non è transitata dagli alimenti, per ridurre in tal modo il rischio di
colangite ascendente.

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Per favorire la corretta anastomosi delle strutture biliari con l’ansa intestinale, è opportuno recentare la via biliare ed ampliare la bocca
anastomotica incidendo longitudinalmente il dotto epatico sx.
L'anastomosi così costruita viene incannulata con un tubo di drenaggio.
Il posizionamento del tubo ha una duplice finalità: consentire la corretta cicatrizzazione del collegamento ed assicurare la pervietà della struttura
biliare impedendo un’evoluzione stenotica.

Se il danno viene invece rilevato nel postoperatorio entro 7-14 giorni, la situazione si complica e occorre
procedere con:
▪ Resuscitation: si intende la gestione generale del pz con idratazione, equilibrio elettrolitico,
monitoraggio condizioni generali, terapia antibiotica in caso di quadro settico.
In particolare, in caso di eventuali problemi settici legati alla perdita di bile si ricorre alla radiologia
interventistica ed all’endoscopia per effettuare un drenaggio biliare in attesa della risoluzione del
quadro settico

▪ Appropriate investigation: capire esattamente quale sia e dove sia localizzata la lesione, ricorrendo
ad esami strumentali

▪ Definitive early repair.

Prevenzione del danno


Riconosce come fondamento la 'Critical view of safety', ovvero il corretto riconoscimento delle strutture:
• Il triangolo di Calot deve essere correttamente preparato
• Il terzo inferiore della colecisti è identificato e separato dal letto
epatico
• Identificare dotto cistico e arteria cistica prima che qualsiasi
struttura sia legata.

Inoltre, sono importanti alcuni accorgimenti tecnici nell'esecuzione della chirurgia:

• non sezionare il legamento epato-duodenale alla base del IV segmento

• evitare la dissezione “eccessiva” alla confluenza cistico-dotto epatico comune

• evitare trazioni eccessive della colecisti

• evitare elettrocoagulazioni “intense” e prolungate, soprattutto in prossimità delle strutture vascolari


e biliari

• abbassare la soglia di conversione in una chirurgia open nelle situazioni in cui la corretta identificazione delle strutture, da un punto di
vista anatomico, è difficoltosa.

60
PANCREATITE
PANCREATITE ACUTA
Processo infiammatorio a carico del parenchima pancreatico.
Presenta età di insorgenza preferenziale fra 40 e 60 anni, con incidenza di 5-45/100.000 casi all’anno e
mortalità complessivamente del 5%.

Eziologia
- Calcolosi biliare: causa più frequente (60% dei casi), soprattutto nelle F

- Alcol (30% dei casi): importante fattore causale sia per la pancreatite acuta che cronica, soprattutto in pz
con predisposizione genetica e nei M

- Interventi chirurgici recenti:


o Post-CPRE
Sono stati identificati dei fdr che sembrano essere predisponenti per l’insorgenza di pancreatite post-procedurale: disfunzione
dello sfintere dell’Oddi, sesso F, precedenti episodi di pancreatite, età giovane, fattori legati alla procedura stessa (come
molteplici tentativi di incannulare il dotto pancreatico, iniezioni a livello pancreatico, sfinterotomia, tentativo di dilatazione dei
dotti)

o Gastroresezione distale
o Splenectomia

- Ipertrigliceridemia
- Ipercalcemia
- Farmaci: ACE-i, tiazidici, CS, azatioprina, contraccettivi orali …
- Altre cause: infezioni virali (ad es. da Coxsackievirus B, CMV, parotite), fibrosi cistica…

Patogenesi
È scatenata dall’attivazione e dalla diffusione intraparenchimale degli enzimi pancreatici prodotti dalle cellule degli acini e normalmente
contenuti nel sistema duttale.
La tripsina, derivata dalla conversione in forma attiva del tripsinogeno, gioca il suo ruolo fondamentale attivando i proenzimi inattivi in lipasi,
proteasi, fosfolipasi ed elastasi.
La fosfolipasi A, in presenza di piccole quote di sali biliari e di lisolecitina (derivata dall’azione della fosfolipasi stessa sulla lecitina biliare), produce
le lesioni necrotizzanti tipiche della pancreatite.
L’elastasi è in grado di digerire la parete dei vasi sanguigni; si presume perciò che essa giochi un ruolo primario nella patogenesi delle lesioni
emorragiche.

Inoltre, gli enzimi possono attivare il sistema del complemento e la cascata infiammatoria, producendo citochine e causando infiammazione e edema.
Gli enzimi attivati e le citochine che entrano nella cavità peritoneale causano un'ustione chimica e un terzo spazio per i liquidi; quelli che entrano
nella circolazione sistemica provocano una risposta infiammatoria sistemica che causa la sindrome da distress respiratorio e il danno renale acuto.
Gli effetti sistemici sono soprattutto il risultato di un'aumentata permeabilità capillare e di una riduzione del tono vascolare, conseguenti al rilascio di
citochine e chemochine.
Si ritiene che la fosfolipasi A2 causi la lesione delle membrane alveolari dei polmoni.

Clinica
• Dolore trafittivo a sede epigastrica-periombelicale: molto intenso e con insorgenza improvvisa,
con irradiazione lateralmente agli ipocondri (“a barra”) e posteriormente in regione
paravertebrale (“a cintura”).
Per ridurre la tensione esercitata sulla capsula pancreatica, il pz tende ad assumere una posizione obbligata con flessione delle cosce
sull’addome in decubito laterale o, più tipicamente, seduto sul letto con busto piegato in avanti

• Importante nausea/vomito

• Distensione addominale, peristalsi torbida o assente


Nonostante la gravità della sintomatologia dolorosa, all’esame dell’addome solo il 60-70% dei pz presenta una reazione di difesa e la
contrattura muscolare tipica di altre affezioni addominali acute.
Questo dato è compatibile con la localizzazione retroperitoneale del pancreas, per cui, all’esordio della malattia, raramente è presente la
reazione infiammatoria peritoneale responsabile della contrattura di difesa.

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• Talora febbre
• Eventuale ittero post-epatico (per la compressione esercitata sul tratto terminale del coledoco dalla testa del pancreas,
aumentata di volume per l’edema)

• Raramente ematomi: in sede periombelicale (segno di Cullen) e ai lati dell’addome (segno di Gray-
Turner) ⇒ indicano emoperitoneo

• A seconda della gravità del quadro patologico, manifestazioni sistemiche, come tachicardia e
ipotensione, fino a un quadro di shock conclamato.

Classificazione di Atlanta per grado di severità:


• Lieve (80% dei casi) ⇒ pancreatite edematosa:
− Assenza di danno d’organo e di complicanze locali o sistemiche
− Decorso clinico favorevole in 48-72h per autolimitazione, con guarigione rapida e restitutio
ad integrum (mortalità < 1% dei casi)

• Severa (25% dei casi) ⇒ pancreatite necrotico-emorragica:


− Presenza di danno d’organo e/o complicanze locali (necrosi, sovrainfezione) o sistemiche
(MOF)
− Decorso clinico sfavorevole, con mortalità ≅ 30%

Complicanze:
• Locali:
- Necrosi pancreatica
- Sovrainfezione delle raccolte fluide peripancreatiche
- Pseudo-cisti pancreatica: raccolta contente frustoli necrotici, sangue e succo pancreatico circoscritta da una pseudoparete di tipo
infiammatorio; in genere si formano dopo più di 4 settimane dall’evento acuto.
Nel 25-40% dei pz le pseudocisti vanno incontro a risoluzione; se non regredisce spontaneamente, una pseudocisti può dare a usa volte
complicanze, quali ascesso, rottura ed emorragia, che rappresentano le principali cause di mortalità per pseudocisti

− Pseudo-aneurisma

• Sistemiche:
- ARDS
- Insufficienza d’organo (come IRA)
- Shock ipovolemico
- Ipocalcemia.

Diagnosi
• Anamnesi ed EO

• Esami di laboratorio:
- Amilasemia aumentata di almeno 3 volte il valore superiore normale (⇒ > 800-1000 U/L)
- Lipasemia aumentata di almeno 3 volte (con sensibilità e specificità superiori rispetto alle amilasi)

La lipasi è più specifica per la pancreatite, ma entrambi gli enzimi possono essere aumentati nell'insufficienza renale e in
varie condizioni addominali (ad es. ulcera perforata, ischemia mesenterica, occlusione intestinale).
Altre cause di aumento dell'amilasi sierica sono le disfunzioni delle g. salivari, la macroamilasemia e i tumori che secernono
amilasi.
Il frazionamento dell'amilasi sierica totale nelle isoamilasi di tipo pancreatico (tipo p) e di tipo salivare (tipo s) aumenta
l'accuratezza dell'amilasi sierica.
Sia le amilasi che le lipasi possono rimanere nella norma se la distruzione del tessuto acinoso nel corso dei precedenti episodi
di pancreatite preclude il rilascio di sufficienti quantità di enzimi.

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• Esami strumentali:
- Ecografia addominale
Può evidenziare l’aumento delle dimensioni del pancreas e la disomogeneità della sua struttura, la presenza di raccolte fluide e
l’eziologia biliare della pancreatite (litiasi della colecisti o del coledoco, dilatazione delle vie biliari)

- Rx addome: per escludere altre cause di addome acuto, come occlusione e perforazione.
In corso di pancreatite, può comunque evidenziare i segni dell’ileo paralitico: dilatazione segmentaria di anse intestinali nel
quadrante superiore di sx (“ansa sentinella”), dilatazione del colon trasverso, perdita dei margini del muscolo psoas.

- TC con mdc: fondamentale per la diagnosi e definire quadro AP della pancreatite.


Permette di rilevare localizzazione ed estensione delle aree di necrosi e delle raccolte fluide; risulta quindi indispensabile per la
definizione della severità e per il controllo dell’evoluzione della malattia.

Permette inoltre una valutazione della gravità secondo la classificazione di Balthazar:


o grado A: pancreas normale
o // B: aumento di volume del pancreas
o // C: infiammazione estesa al grasso peripancreatico
o // D: singola raccolta liquida peripancreatica (flemmone)
o // E: due o più raccolte liquide e/o aria retroperitoneale.

- Colangio-RM

Terapia
a) Terapia medica:
▪ Idratazione con sol. fisiologica o Ringer lattato
▪ Monitoraggio parametri vitali
▪ Terapia del dolore (⇒ idromorfone o fentanyl per ev).
Attenzione: evitare morfina (rischio di peggioramento del quadro per ipertono dello sfintere di Oddi).

▪ È necessario mettere a “riposo funzionale” il pancreas, inibendo la secrezione esocrina mediante


digiuno assoluto, SNG e inibizione della secrezione acida gastrica con IPP.
L’alimentazione orale può essere ricominciata dopo un periodo di tempo variabile a seconda della
gravità della pancreatite: dopo 24h nelle forme lievi o dopo 5 giorni nelle forme moderate/severe se
tollerata, altrimenti si può ricorrere alla nutrizione enterale (preferita alla parenterale).
La dieta deve essere a basso contenuto di grassi e residui.

▪ Valutare terapia antibiotica: in caso di alto rischio di sovrainfezione o infezione extrapancreatica;


in genere si utilizzano chinolonici o imipenem per ev

▪ LMW-H: utile in quanto il pz sarà immobilizzato in una condizione infiammatoria sistemica.

b) Terapia chirurgica:
▪ In presenza di calcolosi biliare ⇒ CPRE.
Non appena le condizioni cliniche lo rendano possibile, in quanto il rischio di recidiva è elevato, deve essere effettuata la colecistectomia
laparoscopica in elezione.

▪ Nella pancreatite acuta severa, valutare necrosectomia (con approccio minimamente invasivo) in caso di aree
necrotiche infette resistenti agli antibiotici e/o drenaggi

▪ In presenza di pseudocisti pancreatica, drenaggio chirurgico o anche percutaneo.

Attenzione: attacchi ricorrenti pancreatite acuta possono portare a pancreatite cronica.

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PANCREATITE CRONICA
È caratterizzata da progressivo deposito di tessuto fibroso e graduale perdita della funzionalità
pancreatica (esocrina ed endocrina).

Epidemiologia
Colpisce prevalentemente il sesso M (M:F = 3:1) tra la terza e la quarta decade.
L’incidenza è di circa 3-9 casi/100.000 abitanti all’anno, due terzi dei quali correlati all’abuso di bevande alcoliche.

Forme:
a) Calcifica
Cause:
- Alcol: soprattutto in pz con predisposizione genetica
- Fumo di sigaretta

- Fattori genetici:
o Pancreatite cronica ereditaria da mutazione del gene PRSS1: sembrerebbe predisporre anche a K del pancreas
o Deficit di inibitori della tripsina da mutazione del gene SPINK 1
o Fibrosi cistica.

- Ipercalcemia.

b) Ostruttiva: come da calcoli, neoplasia ostruente, trauma, disfunzione sfintere di Oddi, anomalie congenite come pancreas
divisum

c) Tropicale: forma idiopatica, identificata soprattutto nelle popolazioni che vivono a latitudini tropicali

d) Responsiva a terapia steroidea ⇒ autoimmune

Clinica
Il sintomo principale è il dolore pancreatico: generalmente intenso, ad andamento continuo oppure acuto e
intermittente, spesso a insorgenza/peggioramento postprandiale, scatenato soprattutto dall’ingestione di
un pasto ricco di grassi oppure di alcol.
La patogenesi del dolore riconosce diversi fattori: aumentata pressione del succo pancreatico all’interno dei dotti, presenza di processi infiammatori o
la compressione delle terminazioni nervose da parte di cisti da ritenzione.

Il pz solitamente si presenta all’osservazione clinica quando ha una riacutizzazione su una preesistente


pancreatite cronica: all’aumentare delle riacutizzazioni, il dolore tende via via a ridursi o comunque
rimanere costante, mentre peggiorano sempre più le altre componenti della malattia.

Altre possibili manifestazioni:


- Disturbi dispeptici

- Malassorbimento ⇛
o Perdita di peso e malnutrizione
o Deficit vitamine liposolubili
o Alterazioni dell’alvo

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o Steatorrea (sostanze grasse non digerite nelle feci)
Non molto frequente, in genere presente nel 10% dei pz.
È rappresentata da un aspetto untuoso/oleoso delle feci, le quali assumono un colore marrone chiaro/arancione.
È determinata da una grave compromissione della produzione di lipasi, che compare quando si ha un deficit della componente
esocrina pancreatica > 90%.
Per essere sicuri che sia reale steatorrea si può fare un test: si fa assumere al pz per 3 giorni un pasto che contenga 100g di
lipidi al giorno: se dopo queste 72 ore nelle feci è aumentato il grasso fecale, allora si conferma che sia steatorrea.

- Eventuale ittero post-epatico


È piuttosto comune in rapporto alla compressione del coledoco da parte della testa del pancreas.
Tale ostruzione cronica delle vie biliari può, nel tempo, condurre a colangite sclerosante e a cirrosi biliare secondaria.

Complicanze:
- DM 3c (pancreatogenico): caratterizzato da deficit nella secrezione sia di insulina che glucagone
(⇛ rischio di ipoglicemia)

- K del pancreas (⇛ valutazione di CA19-9 e CEA)


L’incidenza è dell’1% a 5 anni dalla diagnosi di pancreatite cronica per poi aumentare man mano.
Rischio maggiore nella pancreatite cronica su base ereditaria e “tropicale”,

- Pseudo-cisti pancreatiche

- Trombosi della vena splenica ⇛ estensione alla v. porta ⇛ ipertensione portale ⇛ rottura emorragica
delle varici esofagee

Diagnosi
• Esami di laboratorio:
− Amilasi e lipasi sieriche spesso normali: possibili aumenti in caso di riacutizzazione, ma nei casi più avanzati
possono rimanere costanti, per via della progressiva distruzione delle cellule acinose

− Tripsinogeno sierico: livelli molto bassi sono altamente specifici

− Test di funzionalità esocrina:


o Diretti (per misurare la produzione di bicarbonato ed enzimi digestivi):
- test alla secretina o alla colecistochinina: sebbene ormai poco utilizzati perché invasivi
(richiedono sondaggio duodenale per raccogliere le secrezioni pancreatiche)
- dosaggio della chimotripsina fecale (v.n. > 6 U/g feci)
- dosaggio dell’elastasi fecale (v.n. 200-500μg/g feci): ha come difetto che è un test non
particolarmente sensibile e specifico, ma ha come vantaggio che se sospetto di pancreatite cronica
vogliamo iniziare subito la terapia sostitutiva con enzimi pancreatici, l’elastasi fecale non viene alterata
dopo l’inizio della terapia ⇛ si riducono i falsi negativi.

o Indiretti ⇒ dosaggio dei grassi fecali (v.n < 7g/24h, se possibile con la dieta di 100g di lipidi al dì per
3 giorni)

− Test di funzionalità endocrina ⇒ test per DM, insulinemia, glucagonemia, test al


glucagone (dovrebbe determinare un rapido rialzo dell’insulinemia).

• Diagnostica strumentale:
− Eco (⇒ può mostrare calcificazioni, alterazioni del parenchima o pseudocisti).
In questo caso il pz non ha necessità di fare un’indagine d’urgenza, quindi può fare anche un’ecografia addominale.

− Rx diretta addome (⇒ calcificazioni radiopache)

− TC: raccomandata, soprattutto per escludere neoplasia

− Colangio-RM con stimolo alla secretina: più accurata della TC, consente l’esplorazione dei
dotti bilio-pancreatici.

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Terapia
▪ Cessare alcol e fumo

▪ Nelle forme ostruttive ⇒ CPRE con sfinterotomia, litotripsia o posizionamento di stent

▪ Nelle forme autoimmuni ⇒ CS

▪ Terapia del dolore: FANS e oppiacei, talora utili antidepressivi triciclici (anche per via della sospensione
brusca di alcool e fumo), gabapentin, pregabalin e SSRI

▪ Terapia dell’insufficienza pancreatica esocrina:


- Enzimi pancreatici sostitutivi: sono delle capsule che devono essere assunte dopo il pasto

- IPP (⇒ in quanto la riduzione dell’acidità gastrica riduce l’inattivazione degli enzimi pancreatici)

- Supplementazione delle vitamine liposolubili

- Dieta a basso contenuto di lipidi (<25 g/die) e ricca invece di carboidrati e proteine.

▪ Gli interventi chirurgici di tipo diretto sulla ghiandola o sul suo sistema duttale sono indicati
esclusivamente per la risoluzione di gravi sindromi dolorose.

66
ERNIE ADDOMINALI
Fuoriuscita di un viscere o di una parte di esso dalla cavità
addominale che normalmente lo contiene, attraverso un
canale naturale, un orifizio o un punto di debolezza della
parete addominale pre-esistente.

Elementi costitutivi di un’ernia:


• Porta erniaria: orifizio attraverso cui il viscere è fuoriuscito, i cui
margini sono generalmente muscolo-connettivali.
Dal punto di vista prognostico, è più problematica un’ernia con una
piccola porta perché più facilmente va incontro a complicanze

• Sacco: peritoneo parietale che si estroflette seguendo l’ernia

• Contenuto: l’intestino tenue è il viscere più frequentemente coinvolto


nelle ernie addominali.

Epidemiologia
Le ernie addominali sono frequenti; si calcola che ne sia affetto circa il 5% della
popolazione, con un rapporto M:F = 8:1.
Le ernie si manifestano a ogni età, con massima incidenza nel neonato e nell’anziano.

Eziopatogenesi
Riconosce:
• Ernie congenite: spesso evidenti fin dalla nascita, derivano dall’arresto di sviluppo di una porzione della parete addominale (ad es. a
livello inguinale pervietà del dotto peritoneo-vaginale), ma possono diventare clinicamente manifeste a ogni età

• // acquisite: molto più frequenti, sono dovute alla combinazione di:


− Fattori determinanti: ripetuti sforzi fisici o comunque condizioni (come manovra di
Valsalva, tosse, gravidanza, ascite) che comportano un aumento della P endoaddominale
che agisce su un locus minoris resistentiae della parete addominale

− Fattori predisponenti: invecchiamento, fattori ereditari di debolezza della parete, brusco


calo ponderale, BPCO e deficit metabolici del collagene
In sintesi, il meccanismo di formazione delle ernie addominali si fonda su una rottura del normale equilibrio tra resistenza parietale e P
endocavitaria: la persistenza della P endoaddominale e i suoi aumenti transitori producono un continuo aumento della spinta verso
l’esterno e un aumento del diametro
dell’orifizio erniario, che permettono al
viscere erniato di uscire in misura maggiore
fino a rendersi evidentemente presente sotto
la superficie cutanea.

In ordine di frequenza, si
riconoscono:
− ernia inguinale (75%)
− // femorale o crurale
(15%)
− // ombelicale (5%)
− // epigastrica
− // rare (di Spigelio,
lombari, otturatorie,
ischiatiche, perineale).

67
ERNIA INGUINALE
È la più frequente, soprattutto nel sesso M, interviene nella regione inguinale al di sopra del legamento
inguinale, dove la parete addominale è attraversata in pieno spessore dal canale inguinale.

Anatomia
La parete addominale presenta a livello inguinale una zona (di
particolare debolezza) alla quale è stato dato il nome di orifizio
muscolo-pettineo.
Esso è delimitato da:
− M. retto dell’addome (medialmente)
− Cresta pettinea del pube (inferiormente)
− M. ileopsoas (lateralmente)
− M. obliquo interno e trasverso (superiormente).

Il legamento inguinale, ispessimento dell’aponeurosi del


muscolo obliquo esterno, suddivide l’orifizio muscolo-pettineo
in due parti:
− canale inguinale in alto
− lacuna dei vasi in basso.

Il canale inguinale è da considerarsi come un tunnel con decorso obliquo, sulla linea
di Malgaigne (che va dalla spina iliaca anteriore superiore al tubercolo pubico), avente
una entrata che corrisponde all’orifizio inguinale interno ed una uscita che corrisponde a
quello esterno.
È costituito da quattro pareti:
• Parete inferiore: legamento inguinale
• // superiore: m. obliquo interno e trasverso con sua aponeurosi
• // anteriore: aponeurosi del m. obliquo esterno (anteriormente)
• // posteriore: fascia trasversalis e peritoneo.

Il canale inguinale è particolarmente rilevante nel M, dove mette in comunicazione la


cavità addominale e lo scroto, offrendo un passaggio per le strutture che servono al
testicolo.
Infatti, dall’embriogenesi sappiamo che i testicoli si formano dagli abbozzi gonadici
nella cavità addominale, per poi discendere nella borsa scrotale, dove si possono
stabilire temperature relativamente basse e compatibili con la spermatogenesi.

La regione inguinale è attraversata da:


• Nervi: ileoipogastrico, ramo genitale del genitofermorale
• Vasi: epigastrici inferiori
• Cordone spermatico: fascia spermatica esterna, muscolo cremastere, fascia spermatica interna, dotto deferente.

Dall’ anatomia deriva la classificazione


anatomica delle ernie inguinali: la faccia
posteriore della parete addominale presente
3 punti di forza cui corrispondo 3 punti di
debolezza attraverso i quali si può avere
erniazione:
• Punti di forza:
− Residuo dell’uraco
− Residuo dell’a.
ombelicale
− Vasi epigastrici
inferiori

• Punti di debolezza:
− Fossetta laterale: laterale ai vasi epigastrici ⇒ ernia obliqua esterna (la più frequente)
− // media: tra arteria ombelicale e vasi epigastrici ⇒ ernia diretta (da debolezza)
− // mediale: tra uraco e arteria ombelicale ⇒ ernia obliqua interna (rara).

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Classificazione
➢ Ernia obliqua esterna (⇒ indiretta): più
frequente, può essere sia congenita che
acquisita.
Il sacco entra nel canale inguinale attraverso
l’anello inguinale interno (lateralmente alla plica dei
vasi epigastrici inferiori).
Il viscere erniato può protrudere nel canale inguinale occupandolo
in parte o lungo tutta la sua lunghezza e talora può giungere fino
allo scroto (⇒ ernia inguino-scrotale).
Si definisce punta d’ernia, quando il sacco occupa appena
l’orifizio inguinale interno.

➢ Ernia diretta: forma acquisita, legata alla


debolezza della parete posteriore del canale
inguinale in corrispondenza del triangolo di
Hesselbach, là dove l’unico supporto è offerto
dalla fascia trasversalis.
L’ernia diretta aumenta lentamente di volume e non raggiunge
solitamente grandi dimensioni perché è contenuta in parte dalla
fascia trasversalis e dall’aponeurosi del muscolo obliquo esterno, quest’ultima poco estensibile.
L’ernia inguinale diretta si può associare a un’ernia obliqua esterna omolaterale, costituendo così un’ernia duplice “a pantalone”.

➢ Ernia obliqua interna: forma rara, che fuoriuscendo impegna la fossetta inguinale mediale,
dirigendosi verso l’orifizio inguinale esterno.
La porta d’ingresso è ampia, pertanto l’ernia si strozza raramente.
Il contenuto è spesso rappresentato dal tessuto adiposo prevescicale e dalla vescica o da un diverticolo vescicale.

Clinica
• Ernie non complicate: tumefazione in sede inguinale a pz in ortostatismo, generalmente non dolente
né spontaneamente né alla palpazione.
Solitamente il pz riferisce senso di peso, stiramento, “bruciore” o fastidio in corrispondenza della
tumefazione, soprattutto dopo prolungata stazione eretta o in occasione di sforzi fisici.
Talora l’ernia è completamente asintomatica e rimane ridotta in cavo addominale, fuoriuscendo solo
in seguito a sforzi che aumentano la pressione endoaddominale.

• Ernie complicate:
− Incarceramento: tipico delle ernie presenti da diversi anni, in cui il difetto di parete risulta rigido a causa di fibrosi
cicatriziale e spesso si formano anche delle aderenze tra contenuto, sacco e porta erniaria, rendendo quindi l’ernia irriducibile.
Clinicamente l’ernia anche se irriducibile si presenta ancora di consistenza morbida o teso-elastica.
È il preambolo all’urgenza chirurgica dello strozzamento.

− Infiammazione: può essere acuta o cronica, determinata da trauma o da infezione batterica.


L’infiammazione acuta è rara; molto più frequente è la flogosi cronica, determinata dai piccoli traumi, soprattutto nei pz
portatori di cinto erniario, oppure in caso di ernie incarcerate di vecchia data sovrastate da cute discromica e distrofica

− Intasamento: è l’accumulo di contenuto intestinale nelle anse dell’intestino erniato che, per la particolare
disposizione dell’ansa intestinale nel sacco, non può progredire nel lume.
Clinicamente l’ernia si presenta difficilmente riducibile, successivamente si determina uno stato di occlusione intestinale
meccanica che rappresenta un’indicazione all’intervento chirurgico d’urgenza, qualora con caute manovre di taxis non si riesca
a ridurre l’ernia intasata.
Questa complicanza è più frequente nelle ernie in cui il viscere erniato è rappresentato dal colon, per la maggiore consistenza
della massa fecale, e nella 3a e 4a età.

− Strozzamento: costrizione serrata e permanente del contenuto erniario (in particolare a livello del
colletto) che comporta:
o Irriducibilità dell’ernia, che risulta dolente e dolorabile alla palpazione, di
consistenza lignea

69
o Edema ed ischemia venosa ed arteriosa del viscere per ostacolo alla circolazione ⇛
necrosi del contenuto erniario.

Manifestazioni: sono inizialmente quelle dell’ileo meccanico, successivamente quelle della


peritonite.
Ulteriori e temibili complicanze dello strozzamento sono la gangrena e la perforazione del viscere strozzato; ciò comporta
una grave peritonite, soprattutto se il contenuto è costituito da un’ansa dell’intestino che può riversare contenuto fecale nel cavo
peritoneale, dando origine a una peritonite stercoracea, gravata da un’elevata mortalità per shock settico.

NB: i colletti piccoli sono i più pericolosi (l’ernia entra nel sacco erniario e non riesce più a uscire) quindi la dimensione dell’ernia NON
è un criterio importante, contrariamente alla presenza dei sintomi.

Diagnosi
Si basa essenzialmente sulla sintomatologia e sull’EO, eseguito dapprima in ortostatismo e poi in
clinostatismo:
• Ispezione: a riposo e facendo tossire il pz
• Palpazione: valutare:
− Consistenza: molle ed elastica
− Riducibilità spontanea o alla pressione manuale progressiva (⇒
manovra di riduzione per Taxis)
La manovra va effettuata partendo dalla periferia dell'ernia fino ad arrivare al centro, onde
evitare fenomeni di strozzamento o rottura del sacco e del viscere erniato.
Se non riesco a ridurla, significa che è incarcerata.

− Esplorazione digitale del canale inguinale, chiedendo anche al pz di


tossire
− Dolorabilità.
L’EO può evidenziare:
• Punta d’ernia: sacco che si affaccia e attraversa appena l’anello inguinale esterno e diventa apprezzabile come un impulso elastico, si
evidenzia con la manovra di Valsalva al dito introdotto dall’esterno, invaginando nel canale inguinale la cute della radice dell’emiscroto.
In tal modo si fa DD con le tumefazioni (neoplastiche e non) che non sono riducibili, né modificabili, con l’aumento della pressione
endoaddominale (la tumefazione erniaria è, invece, riducibile)

• Ernia inguino-pubica: sacco erniario supera l’anello inguinale esterno, occupa la radice dell’emiscroto o la radice del grande labbro.
Si rileva per la deformazione della regione e si può ridurre in addome

• Ernia inguino-scrotale: marcata deformazione del canale inguinale e dei suoi orifizi da parte di un sacco che può raggiungere dimensioni
significative (ernie permagne o a pantalone) con contenuto che finisce per aver perduto il “diritto di domicilio” in cavità addominale.

In caso di EO dubbio, si può eseguire


un’ecografia.

Prognosi: l’ernia lasciata a sé aumenta progressivamente di volume e


può presentare una delle complicanze precedentemente illustrate.
In caso di strozzamento, la prognosi è legata alla presenza effettiva di
necrosi del contenuto erniario e quindi alla necessità di resezione
intestinale.
Nei casi semplici, non complicati, la prognosi dopo terapia chirurgica è
estremamente favorevole.

Trattamento
È sostanzialmente chirurgico:

a) Laparotomia (più frequente)


Il tempo chirurgico iniziale consiste nell’anestesia locale, accesso inguinale diretto con apertura del
canale inguinale, preparazione del funicolo e del sacco, riduzione del contenuto erniario e trattamento
del sacco.

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Successivamente, si può procedere:
• Senza applicazione della protesi: con sutura diretta delle pareti, può però creare tensione lungo la
linea di sutura

• Con applicazione della protesi (⇒ ernioplastica tension free): anziché suturare le pareti, si giustappone alla
parete indebolita una rete in polipropilene; inoltre, per obliterare l’anello inguinale interno, aggiungendo un ulteriore rinforzo alla parete,
prima di posizionare la rete protesica si può introdurre nell’anello inguinale interno un frammento di rete arrotolata, che funge da “tappo”.
La rete può essere applicata con due tecniche:
− Tecnica di Trabucco: senza fissazione della rete
− // di Lichtenstein: la rete viene posta al di sopra del m. obliquo interno e della fascia trasversalis e viene suturata al tessuto
aponeurotico che ricopre l’osso pubico.

Post-operatorio: rimozione dei punti in 7° giornata, ripresa dell’attività lavorativa dopo circa 15gg e ripresa dell’attività sportiva dopo circa
30gg.

a) Laparoscopia:
• TAPP: riparazione transaddominale preperitonale, con trocars intraperitoneali
• TEPA: approccio totalmente extraperitoneale
Vantaggi della laparoscopia: eccellente visualizzazione, dolore minimo, rapido ritorno al lavoro e alle normali attività, risultato estetico
migliore.
Non è tuttavia prima scelta per vari motivi: necessita di anestesia generale, costi, violazione cavità peritoneale nella TAPP.
Si preferisce la laparoscopia quando l’ernia è bilaterale.

ERNIE CRURALI
Si sviluppa dall’anello crurale (lacuna vasorum o anello femorale) nel triangolo di Scarpa, è molto più
frequente nel sesso F (per la conformazione allargata del bacino) in età adulta.

Clinica: dolore che insorgono durante la stazione eretta o dopo sforzi che aumentano la P endoaddominale;
il dolore si attenua in decubito supino o flettendo la coscia.

All’EO si apprezza una tumefazione rotondeggiante di 2-4 cm di diametro, palpabile al di sotto della linea
di Malgaigne, che diventa più evidente con le manovre che aumentano la pressione endoaddominale; la
superficie della tumefazione è solitamente liscia o granulosa, in relazione al contenuto viscerale o epiploico.

Attenzione: lo strozzamento avviene più frequentemente perché la porta erniaria in quelle crurali è più
rigida ed anelastica.

ERNIA OMBELICALE
Si distinguono quattro varietà di ernie ombelicali in base all’epoca di insorgenza:
− Embrionale (o onfalocele): malformazione molto grave, con aplasia della parete addominale
− Fetale: da chiusura incompleta della parete addominale, dopo che la cavità peritoneale si è costituita, terapia chirurgica in due tempi
− Neonatale

− Dell’adulto: si estrinseca solitamente nella porzione superiore dell’anello ombelicale.


Può essere di dimensioni piccole e asintomatica, ma in genere tende progressivamente ad aumentare di volume e possono causare disturbi
digestivi.
Nelle ernie ombelicali voluminose dell’adulto la cute sovrastante è sottile, lucente, talora violacea per la sofferenza causata dalla
sovradistensione e può ulcerarsi e infettarsi.
Frequente è la irriducibilità per aderenze viscerosacculari.

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ERNIE EPIGASTRICHE
Prediligono l’età adulta e il sesso M, si manifestano lungo la linea alba tra l’apofisi ensiforme e l’ombelico, iniziando come una protusione di
tessuto adiposo nell’orifizio di passaggio di un vaso sfiancato per l’età e l’aumento della pressione endoaddominale.
Sono spesso asintomatiche e misconosciute, possibile incarceramento e strozzamento

ERNIA di SPIGELIO
Ernia poco frequente, sempre acquisita, si fa strada nel punto in cui si incontrano i vasi epigastrici, e la linea semilunare di Spigelio.
L’ernia protrude nell’area in cui i muscoli larghi si congiungono a livello del margine laterale del retto all’altezza dell’angolo esterno dell’arcata del
Douglas
Il sacco rimane di solito sotto l’aponeurosi del muscolo obliquo esterno, il contenuto è analogo a quello delle ernie inguinali.
L’ernia è di piccole proporzioni e confinata nello spessore della parete addominale, ma può facilmente strozzarsi

LAPAROCELI
Fuoriuscita di visceri addominali attraverso una breccia muscolo-aponeurotica della parete, in corrispondenza di una precedente incisione
chirurgica. Se il diametro della breccia erniaria è superiore ai 10 cm, il laparocele si definisce voluminoso.
Rappresenta una complicanza postoperatoria che si manifesta in circa il 5% di tutte le laparotomie e degli accessi laparoscopici.
La sua incidenza è particolarmente frequente in caso di infezione della ferita chirurgica; in circa il 50% delle laparotomie complicate da infezione
suppurativa della ferita si sviluppa in seguito un laparocele.

Complicanze dei laparoceli:


− Insufficienza respiratoria cronica
− Insufficienza vascolare venosa
− Distensione dei visceri cavi e alterazione della peristalsi
− Ipotrofia della muscolatura addominale
− Aderenze connettivali viscero-viscerali e viscero-peritoneali nel sacco e nel colletto che possono portare ad incarceramento con
irrudicibilità o strozzamento.

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ERNIE DIAFRAMMATICHE
Fuoriuscita di un viscere dalla cavità addominale verso la cavità toracica, attraverso il diaframma.

a) ERNIE CONGENITE
Dovute all’alterato sviluppo dei quattro abbozzi embrionari che costituiscono la parte muscolare del diaframma, si dividono in base all’età
gestazionale in cui compaiono in:
➢ Ernie embrionarie: prive di sacco erniario in quanto avvenute in epoca antecedente alla formazione dei foglietti sierosi
➢ Ernie fetali: provviste di sacco erniario.

b) ERNIE dell’ADULTO

➢ ERNIA IATALE: dislocazione intratoracica di un viscere addominale o di una sua parte attraverso lo
iato esofageo diaframmatico.

Classificazione
• Ernia da scivolamento (90%): passaggio di una porzione
dello stomaco attraverso lo iato esofageo con la
giunzione gastroesofagea che viene spinta verso l'alto.
La sua presenza è spesso intermittente, in parte o del
tutto riducibile, evocabile con i cambiamenti di postura
o dall’aumento della P endoaddominale.
La frequenza globale di tale affezione nel mondo occidentale è intorno al 5-
10% della popolazione.
L’età maggiormente colpita è quella medio-alta, con massima incidenza a
partire dalla quinta decade di vita.

• Ernia paraesofagea o da rotazione (10%): condizione più


rara, ma anche più pericolosa della precedente, la giunzione tra stomaco ed esofago rimane nella sua
sede naturale, mentre il fondo dello stomaco passa in torace.
La differenza di pressione tra cavità addominale e toracica fa sì che nel tempo questo tipo di ernia si ingrandisca sempre più, e ciò a sua
volta determina un allargamento progressivo dello iato e una lassità della membrana frenoesofagea: il risultato finale può essere la risalita
sopradiaframmatica della giunzione esofago-gastrica con formazione di un’ernia mista.

Patogenesi
• Fattori favorenti:
− Abnorme lassità muscolare ed eccessiva ampiezza dello iato
− Traumi addominali
− Aumento della P addominale

• Associazione con altre patologie ⇒ triade di Saint: ernia iatale, litiasi biliare, diverticolosi del
colon

Clinica
In molti casi è silente/paucisintomatica o aspecifica:
• // da scivolamento: manifestazioni legate al reflusso gastro-esofageo, sensazione di ingombro
epigastrico postprandiale o di “intrappolamento d’aria” dopo la deglutizione o di temporaneo
impattamento del bolo a livello dell’esofago distale.
Possibili anche sindromi dolorose toraciche anginoidi e di disturbi del ritmo cardiaco (riconducibili
a stimoli vagali con spasmi coronarici riflessi, a stiramento diaframmatico o a compressione diretta da parte di grosse ernie che subiscono
un’improvvisa distensione).
Prognosi: se non accompagnata da reflusso è eccellente; non è scontato che l’ernia aumenti di dimensioni e divenga sintomatica, anzi è
possibile una sua scomparsa spontanea.
Nei casi in cui il reflusso gastroesofageo sia presente, la prognosi dipende strettamente da questo e dall’esofagite peptica che ne può
conseguire.

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• // paraesofagea: di regola assenti i sintomi di MRGE, possono esserci:
− Dispepsia e singhiozzo
− dolore improvviso e lancinante in sede epigastrica o retrosternale, in genere dopo un pasto
abbondante; la causa sembra risiedere in una transitoria torsione gastrica
− Sintomi cardiorespiratori

Prognosi: L’ernia paraesofagea va invece incontro a un progressivo ingrandimento, fino all’erniazione intratoracica di gran parte o di tutto
lo stomaco.
Il rischio di complicanze gravi e talora letali è in quest’ultima situazione elevato, e solo un intervento chirurgico riparativo può modificare
una prognosi altrimenti grave.

Complicanze:
− difficoltoso svuotamento o occlusione gastrica
− emorragie GI
− strozzamento erniario
− volvolo gastrico: per rotazione dello stomaco lungo l’asse longitudinale, con drammatica sintomatologia dolorosa da
sovradistensione, in caso di mancata risoluzione tramite vomito o SNG, può evolvere verso l’infarto del viscere ⇛
perforazione ⇛ mediastinite e peritonite.

Diagnosi
• Rx con mdc (pasto baritato)
• EGDS per indagare complicanze

Trattamento
▪ L’ernia da scivolamento, in assenza di MRGE o di altre complicanze, non richiede alcun
trattamento e il soggetto che ne è portatore non va etichettato come malato.
Al contrario, se sintomatica o complicata, è trattata tramite riduzione e procedura antireflusso.

▪ L’ernia paraesofagea, per via del rischio di complicanze, richiede invece sempre un intervento
chirurgico: una volta ridotta l’ernia, viene riparato lo iato con una sutura con filo non
riassorbibile; la giunzione gastroesofagea viene fissata al di sotto del diaframma dopo aver
ricostruito l’angolo di His (intervento di Allison).
È possibile eseguire in aggiunta anche una fundoplicatio secondo Nissen.

➢ ERNIA POST-TRAUMATICA: dislocazione di un viscere addominale attraverso una lacerazione comparsa in seguito a un
evento traumatico.

La migrazione di uno o più organi dalla cavità addominale verso il torace è dovuta alla P negativa esistente nel cavo toracico; qualunque
organo addominale può dislocarsi attraverso un’ernia diaframmatica traumatica (fegato, milza, pancreas, stomaco, colon).

La soluzione di continuo diaframmatica può verificarsi a qualunque livello, ma la sede più frequente è l’emidiaframma sx, forse per una certa
azione protettiva esercitata dal fegato.
La lacerazione diaframmatica ha solitamente una forma lineare.

L’ernia diaframmatica è talora un reperto intraoperatorio incidentale nei casi in cui il traumatizzato sia sottoposto a intervento chirurgico
per lesione di altri organi; in alternativa, tale patologia può rimanere misconosciuta fino a quando non insorgano dei sintomi, rappresentati
più frequentemente dal dolore postprandiale o dall’occlusione intestinale.
Nei pz totalmente asintomatici il dubbio sulla presenza di un’ernia diaframmatica può essere avanzato dal reperto casuale a un’indagine
radiologica del torace di una lesione occupante spazio, talora con livello idroaereo all’interno: in questo caso l’esecuzione di una Rx con
pasto baritato dimostrerà chiaramente la dislocazione toracica di anse intestinali o dello stomaco.

Le complicanze dell’ernia sono rappresentate dall’ostruzione o dalla distorsione dell’organo erniato; se si tratta di un organo cavo, temibile è
l’infarto conseguente a volvolo.

La storia naturale di questo tipo di ernia è quella di un progressivo ingrandimento della soluzione di continuo con dislocazione sempre
maggiore di organi addominali o parte di essi in cavità toracica ⇛ si impone la correzione chirurgica del difetto.

74
MALATTIE INFIAMMATORIE CRONICHE INTESTINALI

Malattia di Crohn Rettocolite ulcerosa


Caratteristiche MICI di tipo transmurale, a carattere MICI che coinvolge solo la mucosa,
principali recidivante, che può colpire qualsiasi sede anch’essa a carattere recidivante, che
del tratto GI, dalla bocca all’ano. colpisce sempre il retto, estendendosi
prossimalmente in modo continuo a
Sue caratteristiche distintive sono la più coinvolgere una parte o tutto il colon (⇒
frequente localizzazione a livello dell’ileo pan-colite).
terminale, la distribuzione segmentaria (“a
salto”) delle lesioni e lo sviluppo di
complicanze
Età Picco giovanile intorno ai 15-30 anni. =
d’insorgenza
Ezio- Vede alla base un’inappropriata attivazione
patogenesi immunitaria, dovuta a: =
• Fattori individuali ⇒ familiarità e
predisposizione genetica (come N.B: fumo di sigaretta e
CARD15/NOD2), variazioni della appendicectomia, al contrario, risultano
composizione del microbiota protettivi
intestinale
• Fattori ambientali ⇒ eccessiva
igienizzazione, inquinamento, tipo di
parto e allattamento, deficit di Vit. D,
dieta (con eccessivo consumo di zuccheri
raffinati, basso consumo di fibre e omega 3-6),
agenti infettivi (come Mycobacterium
avium), FANS, stress

• Fumo di sigaretta e
appendicectomia, peggiorano anche il
decorso.

Caratteristiche • Ulcera aftosa come lesione precoce • Limite netto tra tessuto affetto e
macroscopiche normale
• Aspetto ad acciottolato per via del
tessuto ulcerato depresso al di sotto • Mucosa eritematosa,
della mucosa normale disseminata di ulcere
superficiali ed estese
• Fissurazioni che possono estendersi
in profondità fino a diventare tratti • Pseudopolipi da rigenerazione
fistolosi, ascessi o perforazioni epiteliale

• Nella malattia di lunga durata,


• Fibrosi transmurale, che porta a perdita delle normali austrature
stenosi e dilatazioni prestenotiche del colon

• Generalmente l’ileo non viene


mai coinvolto, ad eccezione
della backwash ileitis, tipica
del quadro di pancolite.

// Granulomi Processo infiammatorio limitato alla


microscopiche mucosa e raramente sottomucosa

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Clinica ▪ Dolore addominale ▪ Ricorrenti crisi di diarrea con
colico/crampiforme, più frequente sangue rosso vivo e muco,
nel quadrante inferiore dx; può essere anche notturna, accompagnate
palpabile una massa o una zona di da tenesmo rettale e dolori
maggior consistenza (⇒ anse crampiformi nei quadranti
intestinali conglomerate) inferiori; in alcuni casi il primo
attacco è preceduto da enterite
▪ Alvo alterno, con diarrea (talvolta infettiva o forte stress
steatorrea) alternata a stipsi (⇒ DD con
sindrome dell’intestino irritabile, celiachia, ▪ Febbricola
enteropatie allergiche).
Feci talvolta ematiche SOF + ▪ Perdita di peso

▪ Febbricola ▪ N.B: nella proctite in genere


▪ Anoressia e malassorbimento (per manca la sintomatologia
coinvolgimento ileale) ⇛ calo ponderale diarroica e predominano
proctorragia e tenesmo rettale.
▪ Altre manifestazioni:
- Aftosi orale
- Più raramente sintomi
dispeptici
- Malattia perianale (⇒
ragadi, fistole e ascessi).

In pochi casi l’esordio può simulare


appendicite acuta o occlusione intestinale.

Periodi di malattia attiva possono essere


interrotti da fasi di remissione; la
riattivazione può essere associata a stress e
fumo.

Manifestazioni Sono presenti in ¼ dei pz: Sono all’incirca le medesime descritte


extra- - Uveite ed episclerite/congiuntivite nella malattia di Crohn, sebbene con
intestinali - Artrite enteropatica periferica differente prevalenza.
- Eritema nodoso e pioderma
gangrenoso Un cenno a parte merita la
- Spondilite anchilosante, sacroileite partecipazione epatica, con epatopatia
autoimmune e colangite sclerosante
- Calcolosi della colecisti
primitiva (⇛ rischio di colangioK e
cirrosi biliare)
Decorso e Decorso lento con possibili complicanze Si riconoscono diverse varietà:
complicanze potenzialmente pericolose: 1. varietà acuta: esordisce d’emblée con scariche
massive

• Stenosi cicatriziali ⇛ rischio di


2. varietà subacuta: a poussée successive
occlusione intestinale intervallate da periodi di remissione completa o
incompleta (con diarrea moderata); è la forma più
• Fistole tra anse intestinali, talora comune
anche con cute addominale e
perianale, vescica urinaria (⇛ 3. varietà inizialmente subacuta che evolve in
pneumaturia), vagina… forma cronica

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• Ascessi addominali 4. varietà cronica con sintomatologia continua,
con possibili esacerbazioni.

• Perforazioni, con peritoniti


circoscritte La prognosi all’esordio è spesso grave e sempre
riservata (perché non si può escludere l’evoluzione a
• Cancerizzazione quadri severi).
Il K del colon-retto è raro, più frequente nella Se ben controllata, la malattia non riduce l’aspettativa
malattia colonica e nella RCU di vita.

Principali complicanze:
Esistono diversi gradi di severità:
• Megacolon tossico
1. Lieve ⇒ < 4 scariche al giorno senza o con poco sangue Si sviluppa nelle forme più severe, di solito
entro i primi mesi dall’esordio.
2. Moderato ⇒ quadro intermedio La patogenesi risiede nel coinvolgimento
infiammatorio dei plessi nervosi mioenterici
3. Severo ⇒ > 6 scariche al giorno, sangue, febbre, anemia, che provoca occlusione paralitica (con
VES > 30 mm/h. conseguente sovradistensione del colon,
soprattutto il trasverso) e tossicità sistemica.
Fdr: cessazione improvvisa della terapia (in
particolare quella steroidea), ipokaliemia
(dovuta a scariche diarroiche), farmaci che
rallentano la motilità (come loperamide e
oppioidi, somministrati come antidolorifici,
questi pz possono prendere solo
paracetamolo, gli altri FANS attivano le
IBD).

• K del colon-retto
Rischio correlato a durata, estensione e
attività della malattia

• Le complicanze chirurgiche
della MC sono più rare

Esistono diversi gradi di severità:


1. Lieve ⇒ < 4 scariche al giorno senza o con poco
sangue, all’endoscopia eritema

2. Moderata ⇒ 4-6 scariche, anemia lieve;


all’endoscopia eritema marcato con
sanguinamento da contatto

3. Severa ⇒ > 6 scariche con parecchio sangue,


anemia severa, segni di tossicità sistemica con
febbre, FC > 90, PCR elevata e VES > 30 mm/h,
rapida perdita di peso; all’endoscopia ulcere che
sanguinano in modo spontaneo.

77
Diagnosi
Parte da un sospetto clinico sulla base di anamnesi ed EO, dopodichè occorre procedere con:

1. Approfondimenti di I livello

• Esami di laboratorio
- Emocromo
o MC ⇒ anemia megaloblastica da malassorbimento di vit. B12 e folati oppure anemia sideropenica per
malassorbimento di ferro o perdita GI

o RCU ⇒ anemia sideropenica

o Possibile leucocitosi neutrofila in corso di complicanze

- PCR e VES aumentata


L’aumento degli indici di flogosi si associa più spesso alla MC (in più del 95% dei casi alla diagnosi), mentre può essere
completamente assente nelle CU sx

- Elettroforesi sieroproteica ⇒ ipoalbuminemia (per perdita di proteine a livello intestinale/protidodispersione e


anche malassorbimento nella MC), ipergammaglobulinemia e aumento delle α1- e α2-globuline (per
l’attivazione flogistica)

- Test di funzionalità epatica (per valutare eventuale partecipazione epatica)

- Sierologia:
o ASCA + ⇒ nel 60% dei pz con MC, con elevata specificità e predittivi di decorso severo
o pANCA + ⇒ // RCU

- Esclusione di enterite infettiva (⇒ coprocoltura, ricerca di tossine e Ag microbici,


leucociti fecali, esame microscopico per uova e parassiti, sierologia).

- Calprotectina fecale.
Marker di flogosi mucosale intestinale, utile per escludere problematiche funzionali.

• Esami strumentali:
- Ecografia delle anse intestinali
Risulta utile soprattutto nella valutazione dell’ileo terminale e del colon prossimale, sedi più frequentemente coinvolte da
malattia; può essere identificata anche la presenza di complicanze.
Se lo studio ecografico viene associato al color doppler si ottengono informazioni circa la vascolarizzazione: quando
aumentata, indica la presenza di infiammazione transmurale.

2. Approfondimenti di II livello
• Endoscopia digestiva: fondamentale la biopsia delle regioni esplorate.
Attenzione: assolutamente controindicata in caso di colite fulminante per rischio di perforazione.

• RM enterografia (con mdc solubile per os): permette valutazione del piccolo intestino, utile soprattutto
quando si ha:
- Quadro clinico suggestivo con endoscopia negativa (⇒ possibile MC localizzato nel tenue)
- Dubbio circa la DD tra le due MICI
- Complicazioni.

• In alternativa, si può ricorrere a:

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o Rx con mdc baritato, TC enterografia (con mdc solubile per os), videocapsula per studio intestino
tenue
o clisma opaco a doppio contrasto e colon-TC/colonscopia virtuale per studio colon.
Terapia della MC

1) Terapia di induzione
Ha lo scopo di indurre remissione clinica e delle lesioni endoscopiche.
Varia a seconda della sede e attività di malattia:

a) Sede ileo-colonica:
• Malattia di grado lieve ⇒ Mesalazina (con o senza antibiotici) o Budesonide per os.

N.B: nelle IBD i CS non sono da utilizzare per la terapia di mantenimento, ma solo per l’induzione.

• // moderato (clinicamente):
- Budesonide o CS sistemici
- Se pz intollerante o refrattario a CS ⇒ Ab anti-TNFα (Adalimumab e Infliximab).

- Se pz refrattario a anti-TNFα ⇒ Ab anti-integrina (Vedolizumab)

• // severo: CS sistemici, ma considerare precocemente Ab anti-TNF-α.

b) Sede diffusa al tenue ⇒ CS sistemici (come prednisone), ma considerare precocemente Ab anti-TNF-α


se la malattia è grave e ricorrente.

La nutrizione polimerica risulta di prima scelta soprattutto se coinvolto l’intestino tenue ed è


appannaggio solo dell’ambito pediatrico.

2) Terapia di mantenimento
Nei pz con malattia di grado lieve, si continua mesalazina (per via della sua bassa tossicità).

Nei pz con malattia di grado moderato/severo:


• Immunomodulatori
- Metotrexate.
EC: nausea, carenza di folati, epatotossicità, aumento del rischio di infezioni.

- Azatioprina.
.

• Anti-TNFα.

Fistole
Sono inizialmente trattate con metronidazolo e ciprofloxacina.
I pz che non rispondono in 3-4 settimane possono ricevere un immunomodulatore, con o senza un regime di induzione con anti-TNF per una risposta
più rapida.

Trattamento chirurgico
Indicazioni:
• Occlusione intestinale
• Fistola/ascesso
• Displasia o K
• Inadeguata risposta alla terapia medica

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Il pz con RCU ha un rischio nel corso della propria vita di andare incontro all’intervento chirurgico del 20%, mentre i pz con malattia di Crohn hanno
un rischio di subire almeno un intervento chirurgico del 75%

Principali tipi di intervento:


▪ Resezione del tratto interessato da malattia, con anastomosi latero-laterale ampia.
Attenzione: occorre misurare ad ogni intervento la lunghezza di intestino residuo.

▪ Stricturoplastica: allargamento del diametro


dell’intestino in corrispondenza di una stenosi;
permette di salvaguardare la lunghezza di intestino
residuo.

Indicazioni specifiche:
− Resezioni intestinali multiple precedenti con riduzione
dell’intestino tenue residuo

− Frequenza degli interventi inizia ad aumentare in maniera


significativa.

Controindicazioni specifiche:
 Presenza di ascessi o fistole
 Sospetto di K.

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Terapia della RCU

1) Terapia di induzione
Prima linea: Mesalazina/acido 5-aminosalicilico (5-ASA) per via rettale (mediante supposte o clisteri).

Alternative:
• Se pz rifiuta la via rettale ⇒ 5-ASA per os (> 3mg/die, anche se meno efficace dell’applicazione locale)
• Se non ha risposto al trattamento topico ⇒ combinazione di 5-ASA per os e topico
• Se non ha risposto a 5-ASA ⇒ 5-ASA + CS (uno studio con beclometasone)
• Se ancora refrattario ⇒ immunomodulatori e/o anti-TNFα
• Se ha artrite come manifestazione extra intestinale ⇒ Sulfasalazina (per minori EC rispetto ai CS).

2) Terapia di mantenimento
Proseguire con Mesalazina per via rettale (1g con supposta) ogni notte.
Nei pz riluttanti a proseguire la somministrazione topica si può ridurre la frequenza a 2-3 volte a settimana.
Se il pz assumeva 5-ASA per os, si prosegue (con lo stesso dosaggio o ridotto a 2-3g/die).

Solo se il pz ha una proctite e ≤ 1 attacco all’anno si può pensare di interrompere il trattamento e riprenderlo alle nuove manifestazioni.
I probiotici nelle forme lievi sembrano mantenere la remissione al pari della mesalazina.

Per i pz con RCU di grado severo, ai salicilati si possono associare azatioprina e/o anti-TNF-α.

Quasi un terzo dei pz con RCU ulcerosa estesa, sintomi persistenti nonostante terapia medica, alla fine
necessita di proctocolectomia.

In caso di colite fulminante, si dispone il ricovero, dove innanzitutto si idrata il pz, si evitano modificazioni dell’equilibrio idro-elettrolitico, LMW-
H a scopo profilattico, si controlla l’anemizzazione con trasfusioni e si somministrano CS per ev (idrocortisone o metilprednisone) e antibiotici ad
ampio spettro se segni di peritonite o febbre.
Se dopo 3 giorni il pz non tende a migliorare ⇒ ciclosporina, tacrolimus oppure anti-TNF-α (Infliximab).
Se dopo altri 3 giorni non risponde ⇒ colectomia (altrimenti rischio di megacolon tossico).

Trattamento chirurgico
Indicazioni:
• RU in fase attiva severa che non risponde alla terapia medica (associata a emorragia o perforazione)
• RU cronica che non risponde alla terapia medica (indicazione più comune)
• Displasia o K
• Bambini con ritardo della crescita.

Si possono fare diversi interventi:


▪ Colectomia sub-totale/totale con ileostomia terminale (con un solo abboccamento)
▪ Procto-colectomia totale con ileostomia

▪ Colectomia addominale totale con ileo-retto anastomosi

▪ Procto-colectomia con IPAA (Ileal Pouch Anal Anastomosis, con confezionamento di J pouch
ileale ed anastomosi all’ano): rappresenta il gold-standard per il trattamento in elezione.
È suddiviso in tre fasi distinte (solitamente svolte in almeno due sedute):
1. Asportazione di tutto il colon-retto fino all’ano, con ileostomia di protezione
2. Ricostruzione della sacca rettale tramite un’ansa presa dall’ileo terminale, ovvero creazione della pouch
3. Anastomosi della pouch con l’ano.

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Vantaggi:
− Tramite l’intervento si ha la rimozione completa della malattia intestinale, visto che viene tolto tutto il colon ⇛ sospensione
della terapia medica
− Attraverso la ricostruzione di una sacca rettale, consentiamo al pz di non avere una stomia permanente e di avere una funzione
evacuativa accettabile (5-6 scariche al giorno).

Svantaggi:
− L’intervento è lungo, pesante e deve essere fatto in 2 o 3 sessioni
− Le evacuazioni sono più frequenti rispetto al fatto di possedere il proprio colon-retto
− Possono esserci delle complicanze, come pouchite ed incontinenza (poco frequente)
− Ridotta fertilità nella donna.

Controindicazioni:
 Deficit funzionale dello sfintere anale con incontinenza moderata o severa
 K del terzo inferiore del retto ⇛ procto-colectomia totale con ileostomia permanente

Attenzione: in caso di colite fulminante o megacolon tossico, il primo atto da fare in emergenza è la colectomia totale o sub-totale con
ileostomia, ben più tollerabile in un pz in condizioni critiche; successivamente a distanza di tempo (almeno due mesi) si può procedere con
le altre due fasi.

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MALATTIA DIVERTICOLARE del COLON
Per diverticolo si intende una estroflessione sacciforme (“a dito di guanto”) della parete del colon, che può
coinvolgere tutti gli strati della parete (⇒ t. mucosa, sottomucosa, muscolare propria e sierosa) o solo alcuni.
Si distinguono:
• diverticoli veri: di natura congenita, sono coinvolti tutti gli strati; sono rari alle nostre latitudini,
ma più comuni in popoli dell’Estremo Oriente

• // falsi o pseudo-diverticoli: di natura acquisita, sono soprattutto localizzati nel colon sx, sono
erniazioni di mucosa e sottomucosa attraverso la t. muscolare; sono tipici delle popolazioni
occidentali/industrializzate.

Si configurano così due principali quadri clinici:


• Diverticolosi: semplice presenza di diverticoli nel
colon, non associata ad alcuna sintomatologia ⇛
spesso scoperta occasionalmente durante una
visita endoscopica di controllo

• Malattia Diverticolare: è sintomatica e può


presentarsi in varie forme.

Per quanto questa correlazione avvenga spesso, la presenza di diverticolosi non è


necessariamente indice di certa evoluzione in diverticolite, perciò la semplice
diverticolosi non va trattata, anche se è vero che il pz potrebbe essere in futuro
soggetto a comparsa di sintomatologia.

Epidemiologia
La diverticolosi è strettamente legata all’avanzare dell’età
(in Occidente si stima che ad 80 anni più del 60% degli
individui presenti diverticolosi del colon), ma attualmente
si registra un rapidissimo aumento di incidenza in tutte
le fasce d’età: sia in anziani, per l’aumento dell’aspettativa di vita, ma anche in soggetti giovani (< 30 anni).
Anche in Italia si percepisce questo trend, con una prevalenza del 35-50% e un’ospedalizzazione maggiore registrata al Nord.
Negli U.S.A., tra i soggetti con diverticoli si stima che il 20% sviluppi dei sintomi spesso aspecifici (⇒ si passa da diverticolosi a diverticolite) e che
il 20% di questi sviluppi poi anche complicanze.

L’associazione agli stili di vita è dimostrata dalla scarsa presenza di malattia in Sud America e Medio-Oriente e la sua quasi totale assenza in Centro-
Africa.
Il fatto che non sia una questione di etnia è dimostrato invece dal fatto che in popolazioni immigrate in paesi occidentali (soprattutto se da più
generazioni), la malattia è invece presente.

Ezio-patogenesi della malattia diverticolare


Riconosce come fattori predisponenti:
• Dieta con ridotta assunzione di fibre
Le fibre, infatti, favoriscono lo sviluppo del microbiota, poiché i batteri trovano in esse e nella cellulosa in esse contenuta un’importante
fonte di nutrimento.
Un microbiota ben sviluppato è collegato infatti ad un aumento di massa fecale, minor assorbimento di acqua, minor motilità intestinale
(per minor necessità di rimescolamento) e addirittura ad una maggior distensione del colon.
Al contrario, una dieta povera di fibre comporta una massa fecale più asciutta e dura, oltre che ridotta in dimensioni ⇛ l’intestino col
tempo è indotto ad aumentare la segmentazione, così da produrre un aumento di pressione endoluminale e maggior tensione di parete (cfr.
Legge di Laplace: P = T/r), soprattutto a livello di quei tratti già fisiologicamente ridotti in diametro (es. sigma) o in neoformate camere
chiuse di segmentazione all’altezza delle haustra, dove si raggiungono pressioni anche > 90 mmHg.
Questa situazione alla lunga diventa insostenibile per la parete, soprattutto in soggetti anziani, dove è più facile che ci sia un indebolimento
della stessa e che si formino dei diverticoli all’altezza di loci minoris resistentiae (ad es. punti di passaggio delle arterie attraverso la parete
intestinale)

• Fenomeni infiammatori cronici


Possono essere sia causa (inducono alterazioni di parete) che effetto (possono facilitare l’insorgere di forme di coliti microscopiche
linfocitica o collagenosica) della diverticolosi

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• Flora intestinale alterata

• Ipersensibilità viscerale
È un fattore soggettivo, legato alla variabilità individuale di produzione di stimoli endogeni/neurotrasmettitoriali.
Facilita la comparsa di sintomi ed è classificata anche come malattia da stress.
È un fattore complesso da studiare, ma si pensa sia legato a SUDD e IBS.

• Alterazioni della motilità colica


Può essere causa, ma forse anche effetto della diverticolosi, dando alterazione degli stimoli endogeni/neurotrasmettitoriali locali e quindi
portare a SUDD e IBS

• Invecchiamento ed alterazioni connettivali.

Principali localizzazioni della malattia diverticolare:


• Sigma: coinvolto per il 95% dei casi (65% isolatamente e 30% in associazione con altri distretti)
• colon discendente (40%)
• tutto il colon (10%)
• il colon dx è coinvolto nel 2-10%: la malattia diverticolare del colon dx è però una patologia diversa
da quella che si sviluppa nelle nostre zone, tipica delle zone orientali
• il retto non è mai interessato dai diverticoli.
Il numero dei diverticoli è variabile, ma non ha alcun tipo di associazione con la frequenza delle complicanze e con la gravità della malattia.
Ad es. può esserci infatti un solo diverticolo e quell’unico perforarsi così come una persona può avere centinaia di diverticoli estesi in tutto il colon
ma senza complicazioni.

Le dimensioni sono variabili, solitamente di diametro < 1 cm, ma anche questo non è correlato alla gravità né alle complicanze.
Un’ulteriore classificazione può essere fatta in base al livello di infiltrazione nella parete, come se fosse un tumore, ma anche ciò non è correlato a
gravità e/o complicanze.
Tutti questi parametri possono essere indagati ma non sono importanti per la clinica.

Un parametro di particolare rilevanza invece è la localizzazione rispetto alla


circonferenza del colon: se si effettua una sezione trasversale del colon si
scopre che i diverticoli si ritrovano in posizioni tipiche lungo la circonferenza e
sono esattamente al fianco delle tenie.
Nel sigma c’è una tenia mesenterica (contenuta tra i due foglietti del
mesentere del mesosigma) e due tenie antimesenteriche; questo tipo di
anatomia varia negli altri segmenti.
Questo dato ha importanza dal punto di vista di:
• Eziopatogenesi: è il punto in cui i vasa recta entrano nella parete.
I diverticoli non sono altro che piccole ernie che si sviluppano in
punti di minore resistenza della parete colica; i punti di ingresso dei
vasi necessitano di un’interruzione della parete muscolare, anche
piccolissima; ciò determina però un punto di debolezza e quindi
l’inizio dell’approfondimento dei diverticoli

• Complicazioni: se un diverticolo si perfora in corrispondenza di


una zona posta tra due tenie mesenteriche, la perforazione è
automaticamente tamponata perché avviene all’interno di una
regione compresa all’interno di 2 foglietti peritoneali con grasso
abbastanza compatto ⇛ c’è poca tendenza all’evoluzione verso una
peritonite diffusa; tende a formare un piccolo ascesso o può non
avere complicanze.
Al contrario, se si perfora un diverticolo del versante
antimesenterico, allora il rischio di avere una peritonite diffusa è
molto più elevato.

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Forme di malattia diverticolare
➢ Diverticolite (acuta): patologia benigna, su base infiammatoria, con buona prognosi.
Contrariamente a quanto si possa pensare, NON ha alcun collegamento con un aumento di rischio di insorgenza di K del colon-retto.
L’unico vero rischio è la perforazione (soprattutto in anziani, defedati, immunodepressi), che può far salire la mortalità intraospedaliera anche
quasi al 10%: la parete del diverticolo è già di per sé sottilissima (il professore addirittura parla di “carta velina”, dato che si tratta di frazioni
di millimetro) e per di più non è inspessita da uno strato muscolare come lo sarebbe una parte sana, perciò i vasi al suo interno risultano più a
rischio di collabire se soggetti a forti aumenti di pressione, così da provocare ischemia della parete del diverticolo e perforazione.
Nei casi più fortunati si tratta di micro-perforazioni, subito tamponate dal grasso mesocolico o epiploico (in questo caso si parla di diverticolite
semplice), ma in caso contrario potranno invece insorgere anche complicanze più gravi.

La dieta è un fattore preventivo importante, ma, una volta che si presenta diverticolosi, non si torna più indietro, né è possibile andare a ridurre il
rischio di complicanze su diverticoli ormai già formati: è quindi inutile trattare il pz, fintanto che asintomatico.

Un altro mito da sfatare riguarda la possibilità che alcuni elementi (arachidi, mais, pop-corn, ecc..) possano più facilmente andare ad ostruire un
diverticolo e/o comportino un maggior rischio di andare incontro a complicanze.
Possono invece rappresentare un fdr i FANS in somministrazione cronica (ad es. cardioaspirina), mentre sono un fattore confondente oppioidi
e steroidi (riducono la sensibilità del pz, quindi l’entità percepita della sintomatologia e possono indurre il medico a sottovalutarla).

➢ SUDD (Symptomatic Uncomplicated Diverticular Disease): forma lieve di diverticolite, sintomatica,


ma non complicata.
Il fatto che non ci sia una vera e propria complicanza, oltre al fatto che viene attenzionata spesso anche in relazione a quella che è la sensibilità
viscerale individuale, la rende facilmente confondibile con la Sindrome del Colon Irritabile (IBS).
È un discorso molto contorto e comunque ancora in fase di studio, ma queste due sindromi risultano decisamente sovrapponibili e difficili da
distinguere tra loro in fase diagnostica; risultano inoltre potenzialmente presenti relazioni bilaterali tra le due patologie (quindi sia legami
causa-effetto, che legami effetto-causa), oltre che tra esse e potenziali alterazioni della sensibilità viscerale e della motilità colica.

➢ SCAD (Segmental Colitis Associated with Diverticulosis): infiammazione cronica della mucosa
interdiverticolare del segmento colico coinvolto (non coinvolge quindi la parete del diverticolo, ma il segmento d’organo tra
un diverticolo e l’altro).
Risulta spesso difficilmente differenziabile dalle MICI (soprattutto Morbo di Crohn e RCU), per mancanza di un’effettiva infiammazione del
diverticolo propriamente detto e per assenza di complicanze.
La SCAD si distingue però dalla RCU perché, al contrario di quest’ultima, non coinvolge MAI il retto

Clinica della malattia diverticolare


➢ SUDD:
• Dolenzia al quadrante inferiore sx (70% dei pz)
• Aumento del meteorismo, ovvero sensazione di pancia gonfia subito dopo il pasto (40%)
• Alterazioni dell’alvo: diarrea o stipsi (15-25%)

Questi sintomi sono presenti anche nella sindrome da colon irritabile e nel cancro del sigma in fase iniziale.

➢ Diverticolite acuta:
• Dolore continuo al quadrante inferiore sx (70%)
Nella maggior parte dei casi dura alcuni giorni per poi scomparire completamente fino all’eventuale riesacerbazione della malattia.

• Febbre (50%)
• Alterazioni dell’alvo: diarrea o stipsi (30-50%).
Più spesso stipsi in quanto l’edema della parete fa sì che il colon si gonfi e quindi il passaggio si complica fino all’atto subocclusivo a cui
si arriva in fase avanzata

• Nausea e vomito (20%)

• Disturbi della funzione urinaria: disuria, pollachiuria (15%).


Se il tratto di colon coinvolto è il sigma si ha alta probabilità che l’infiammazione a livello della parete del sigma stia traslocando batteri
alla parete vescicale.

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All’EO:
• Addome moderatamente disteso
• Dolorabilità in fossa iliaca sx
• Massa addominale dolente al fianco sx con palpazione profonda (scarsamente tollerata).
Se il pz tollera una palpazione profonda, è improbabile che abbia diverticolite acuta: si può comunque percepire una massa di struttura
tubulare, scarsamente elastica, localizzata in corrispondenza del sigma ⇒ corda colica.
Diverso è se la massa infiammatoria è dovuta alla diverticolite: la palpazione in questo caso determina un dolore tale che il pz reagisce e
non si riesce ad affondare la mano

• Segno di Blumberg ⇒ indice di peritonismo (localizzato o diffuso):


o Se il segno è positivo e localizzato, probabilmente si tratta di uno stadio 1 o 2: un pz di questo tipo non ha indicazione di
trattamento chirurgico d’emergenza

o Se è positivo e diffuso in tutti i quadranti, si osserva peritonismo diffuso; il pz necessita di un trattamento chirurgico
d’urgenza.

DD con:
− K del colon sx
− RCU e MC
− Stenosi post-attiniche, facilmente distinguibile perché il pz riferisce di aver fatto radioterapia in passato

− Endometriosi intestinale

− Colite ischemica: malattia tipica dell’anziano, spesso la diagnosi differenziale è difficoltosa in quanto sono compresenti entrambe le
patologie (diverticolite e colite ischemica) ed è difficile capire quale delle due sia la diretta responsabile dei sintomi;
− Pelvi-peritonite associate ad annessiti, vaginiti, cerviciti

− Appendicite acuta; anche se nella diverticolite interessa il sigma, il dolore è spostato poiché spesso la voluta del sigma finisce in fossa
iliaca di dx

− Pielonefrite e altre IVU.

Complicanze della malattia diverticolare:


• Complicanze settiche (75%):
− Perforazione: con rischio più elevato al primo episodio.
La perforazione di un diverticolo nella cavità peritoneale libera è evento infrequente, ma estremamente grave.
Insorge, in genere, spontaneamente anche se può essere, talora, la conseguenza di un’indagine strumentale (colonscopia,
clisma opaco).
Esordisce con un dolore acuto, usualmente riferito ai quadranti inferiori, ma con la tendenza a diffondersi rapidamente a
tutto l’addome; compare quindi marcata distensione della cavità (da pneumoperitoneo), contrattura parietale da peritonite e ileo
paralitico.

− Infiammazione: con edema e tumefazione, flemmone dei tessuti vicini al sigma

− Ascesso (vicino o lontano al sigma)


È la complicanza più frequente e consegue alla perforazione, anche microscopica, di un diverticolo, in condizioni che
favoriscono la localizzazione del processo: perforazione nel mesentere, presenza di pregresse aderenze nella cavità peritoneale,
tamponamento da parte dell’omento.
Il dolore è circoscritto, quasi sempre ai quadranti inferiori, e alla palpazione, non di rado, è possibile apprezzare una massa,
generalmente in fossa iliaca sx; a volte questo reperto è però mascherato dalla reazione di difesa da irritazione peritoneale.
Sono sempre presenti iperpiressia di tipo settico e leucocitosi; occasionalmente compaiono nausea e vomito.
Ai fini diagnostici possono rivelarsi utili l’ecografia e/ o la TC.

• Altre complicanze (restante 25%):


− Stenosi sintomatica e occlusione
La stenosi insorge a seguito del processo infiammatorio che coinvolge il tessuto colico conseguente all’attacco di diverticolite:
bisogna somministrare velocemente antiinfiammatori se si vuole risolvere il problema senza portare il pz all’intervento.
Un'altra possibilità è che ci sia una stenosi cicatriziale in fase cronica generalmente secondaria al flemmone in fase acuta:
in questo caso il pz sviluppa stipsi, poi subocclusione che evolve in occlusione o attacco sub-occlusivo.
È importante fare DD con neoplasia del sigma e MC.

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− Fistole diverticolari
Solitamente con 2 organi:
o fistole colo-vescicali
o // vaginali
DD con: neoplasia, MC, fistole post-attinica.
Si tratta di fistole infiammatorie che, una volta rimossa la causa dell’infiammazione (in questo caso il sigma con
microperforazione o con ascesso), guariscono spontaneamente e il più delle volte non è necessario l’intervento chirurgico.
Bisogna ricordare che le fistole colo-vaginali raramente hanno luogo in una donna che ha ancora il proprio utero, poiché è un
“muro” per le fistole.
Al contrario nelle donne isterectomizzate il sospetto è maggiore, soprattutto se ha storia di malattia diverticolare e riferisce
perdite brunastre con il secreto vaginale o addirittura aria uscire dalla vagina; è una malattia disabilitante che va risolta con
intervento chirurgico.

− Sanguinamento: la malattia diverticolare rappresenta la causa più frequente di emorragia


digestiva inferiore.
Deriva dall’erosione attraverso microtraumatismi di un vaso della parete del diverticolo.
In genere è una complicanza ad autorisoluzione, dunque poco preoccupante.
Solo < 1% dei casi ha un’emorragia massiva che richiede una terapia specifica.

Classificazione secondo Hinchey


Si base sulle possibili complicanze a seguito di un attacco di diverticolite:

I. Stadio 1:
− 1a: flemmone (con ispessimento dei tessuti vicini al diverticolo)
− 1b: ascesso peridiverticolare/pericolico.
Si formano in conseguenza della perforazione di un diverticolo che si trovava tra i due foglietti del mesentere; di solito è di
piccole dimensioni e attaccato al colon

II. // 2 ⇒ ascessi localizzati a distanza dalla zona di perforazione del diverticolo.


Possono essere intra-addominali, nella pelvi, retroperitoneali (meno probabile)

III. // 3 ⇒ peritonite purulenta ⇛ il pz va operato

IV. // 4 ⇒ peritonite stercoracea (con feci in peritoneo, peggio rispetto alla presenza di pus; è correlata a perforazione di diametro
più ampio).

La classificazione ha importanza dal punto di vista pratico in quanto ad ogni stadio è associato uno specifico
trattamento.

Uno dei più grandi errori che sono stati fatti nel campo della chirurgia colon-rettale per anni è stato pensare che il numero di attacchi di
diverticolite nel corso della vita fosse direttamente correlato al rischio di perforazione.
Dal momento che il rischio di perforazione è correlato anche al rischio di andare incontro ad un intervento che porta poi ad una colonstomia, questo
si rifletteva sulla pratica clinica dei chirurghi che usavano dire ai pz che, avendo avuto già due attacchi di diverticolite, erano a rischio di
perforazione e dunque dovevano essere operati d’urgenza.
Questo in realtà è risultato essere falso: i dati epidemiologici hanno rilevato che il maggior rischio di andare incontro ad una peritonite diffusa è al
primo attacco di diverticolite.
Il motivo ancora non è stato capito a pieno; l’ipotesi è che ad ogni attacco di diverticolite il tessuto infiammatorio è man mano sostituito da tessuto
cicatriziale che è più robusto rispetto a quello originario.
Studi successivi hanno confermato che il rischio è massimo al primo episodio e man mano che si sale con gli episodi il rischio di perforazione
scende fino a scomparire dopo 5 episodi.

87
Diagnosi della malattia diverticolare

➢ Diverticolosi
Può essere rilevata (spesso incidentalmente) durante:
• Colonscopia
Dal punto di vista del SSN ha precise indicazioni da segnalare in impegnativa. Richiedere una colonscopia per diagnosi di diverticolosi è
poco sostenibile

• Clisma opaco a doppio contrasto: oggi è un esame obsoleto ma, se non c’è possibilità di
fare la colon-TC, può essere l’alternativa.
Si chiama clisma “a doppio contrasto” perché viene insufflato mdc più aria per distendere l’organo
ed analizzare la superficie

• TC colonscopia virtuale
La scelta tra colon-TC e colonscopia dipende da molte cose: età del pz, stato clinico, fdr (età,
familiarità, pregressi polipi), scelta personale del pz, criteri del SSN

➢ Diverticolite acuta:
• Ecografia: richiede un operatore molto esperto

• TC addome-pelvi con mdc: nel caso in cui l’ecografia non sia dirimente.
Mostra lo stato di infiammazione locale e coinvolgimento peritoneale

• Attenzione: non richiedere una colonscopia nell’immediato in quanto controindicata, così


come il clisma opaco.
Questo perché durante l’esame, per poter vedere l’interno del tubo digestivo, l’endoscopista deve insufflare aria quindi gonfiare
l’organo e il rischio che quella microperforazione si trasformi in perforazione franca è molto elevato; la controindicazione vale per
l’episodio acuto e per le successive settimane.

Tuttavia, la colonscopia rimane un esame necessario, specialmente se il pz ha tutti i sintomi di


diverticolite acuta senza una diagnosi precedente di diverticolosi: bisogna quindi verificare la
diagnosi a distanza di 6 settimane.

Follow up
Tutti i pz hanno bisogno di un esame che confermi che l’episodio acuto è stato effettivamente legato ad una malattia diverticolare, mentre per i pz che
hanno avuto più episodi di diverticolite la colonscopia o la colon-TC serve per stabilire il grado di stenosi che si sta venendo a creare.
Lo scopo di questi esami non è solo fare diagnosi di malattia diverticolare ma soprattutto di escludere una neoplasia maligna.

Trattamento della malattia diverticolare

a) Terapia medica

▪ Diverticolosi: se asintomatica, non dovrebbe essere trattata farmacologicamente.


Una dieta ricche di fibre può essere incoraggiata, ma non c’è nessuna dimostrazione scientifica che questa prevenga un attacco di
diverticolite.

▪ SUDD: non esiste trattamento veramente efficace, si possono considerare:


− mesalazina (FANS con azione limitata al tratto GI)
− rifaximina (antibiotico non assorbibile, che resta nell’intestino e uccide i batteri esclusivamente intestinali) associato
a una dieta con alto contenuto di fibre vegetali, supplementate eventualmente con crusca,
metilcellulosa e psyllium

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▪ Diverticolite:
− lieve-moderata (Hinchey 1): trattamento antibiotico domiciliare.
Da UptoDate: i pz con diverticolite acuta vengono generalmente trattati con un ciclo di antibiotici orali per 7-10 giorni.
Gli antibiotici usati per trattare la diverticolite devono coprire la normale flora GI dei bastoncelli Gram-negativi e degli
anaerobi, in particolare E. coli e Bacteroides fragilis.
Usiamo uno dei seguenti regimi antibiotici ambulatoriali per via orale in pz adulti con normale funzionalità renale ed epatica:

● Ciprofloxacina (500 mg ogni 12h) + metronidazolo (500 mg ogni 8h)

● Levofloxacina (750 mg die) + metronidazolo (500 mg ogni 8h)

● Trimetoprim-sulfametossazolo (1 compressa a doppia concentrazione [sulfametossazolo 800 mg; trimetoprim 160 mg] ogni
12 ore) + metronidazolo (500 mg ogni 8h)

● Amoxicillina-clavulanato (1 compressa [875 mg di amoxicillina; 125 mg di acido clavulanico] ogni 8h) o Augmentin XR (2
compresse [ogni compressa contenente 1 g di amoxicillina; 62,5 mg di acido clavulanico] ogni 12h )

● Moxifloxacina (400 mg die), da usare in pz intolleranti sia al metronidazolo che agli agenti beta-lattamici.

Consultare l'antibiogramma locale per evitare di prescrivere un regime in cui la resistenza batterica supera il 10 percento.
Ad es. nelle aree in cui la prevalenza della resistenza di E. coli ai fluorochinoloni supera il 10 percento, amoxicillina-
clavulanato o trimetoprim-sulfametossazolo più metronidazolo sono gli agenti preferiti.

Quello che si può dare ad un pz dopo un attacco è una terapia profilattica nei confronti di
un prossimo attacco: l’unico farmaco che si è dimostrato in maniera molto lieve efficace è
la rifaximina (antibiotico battericida non assorbibile del gruppo delle rifamicine) associato
ad un certo carico di fibre

Al fine di prevenire le recidive, i pz con una storia di diverticolite del colon dovrebbero consumare una dieta ricca di fibre.
Tuttavia, non è necessario evitare semi, mais e noci.
Sono necessari ulteriori studi prima che la mesalamina o altri agenti (ad es. Rifaximina e probiotici) possano essere
raccomandati per l'uso di routine in pz con diverticolite

o severa: se ci sono segni di infezioni generalizzata (⇒ T > 38°C, leucocitosi spiccata, proctorragia massiva,
dolore che richiede l’assunzione di analgesici maggiori, segni di peritonismo, decadimento generale) l’indicazione è di
ricoverare il pz, messo a digiuno e devono essere iniziati antibiotici ad ampio spettro per
ev.
Se non vi sono complicanze, in 3-4 giorni il quadro va incontro a miglioramento.

b) Trattamento chirurgico

▪ In elezione: relativamente poco frequente.


Indicazioni:
− presenza di fistola o stenosi
− immunocompromissione e/o terapia che tende a nascondere i sintomi di una sepsi avanzata
(⇒ immunosoppressori o CS).

− Forma “smoldering” di diverticolite.


È una diverticolite “cronica” dove il pz inizia ad avere sintomi e non riesce ad uscire dalla fase acuta: è sempre in uno stadio
sub-acuto di infiammazione.
In generale i pz con malattia diverticolare vanno incontro a recidiva, ma questa arriva dopo mesi, in genere a distanza di 2 anni
dopo il primo attacco (se supera questo limite poi tende a stabilizzarsi).
Invece un pz con la smoldering non hanno una vera e propria recidiva, non escono dal primo attacco: dopo essere stati dimessi
a seguito di terapia, si ripresentano i sintomi dopo pochi giorni come se si trattasse di un nuovo episodio quando in realtà è la
continuazione del primo.

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▪ In urgenza
In presenza di ascessi (⇒ stadio 1b e 2 della classificazione di Hinchey), bisogna valutare il
diametro:
− se sintomi localizzati e diametro < 4 cm: terapia antibiotica in regime di ospedalizzazione
e riposo intestinale (digiuno) per qualche giorno

− se diametro > 4 cm: drenaggio percutaneo eco- o TC-guidato.


Il radiologo infila un tubicino di qualche mm nell’ascesso e lo drena/aspira o in alternativa lascia il drenaggio per qualche
giorno in attesa l’antibiotico entri in azione e guarisca la cavità.
In caso di fallimento di trattamento percutaneo (1/3 casi) e c’è indicazione a passare direttamente alla chirurgia
Fdr del fallimento del trattamento percutaneo: immunosoppressione, insufficienza renale oppure la presenza di un rischio
anestesiologico (pz in condizioni molto defedate).

In caso di peritonite purulenta, le linee guida


indicano resezione e anastomosi,
eventualmente con stomia di protezione
temporanea.
Tuttavia, se il pz si trova in buone condizioni
generali e con emodinamica stabile si può
tentare il lavaggio peritoneale in
laparoscopia.
La procedura consiste in: accedere alla cavità peritoneale
laparoscopicamente, verificare se si tratta di una peritonite
purulenta, lavare la cavità peritoneale con almeno 6 litri di sol.
fisiologica con antibiotico e infine posizionare 3/4 drenaggi
così che, anche se anche dovesse riformarsi del pus, questo
verrebbe drenato fintanto che gli antibiotici non agiscono.

In caso di peritonite stercoracea, è necessaria


resezione del sigma con intervento di
Hartmann: il sigma viene resecato con
asportazione del pezzo perforato, si chiude il
moncone rettale e si crea una stomia del
moncone a monte.
A distanza di 3 mesi si può procedere a un
intervento di conversione, che prevede
l’anastomosi del moncone colico con quello
rettale, eliminando la stomia e ristabilendo la
continuità intestinale.

La diversa procedura dipende dal fatto che nella peritonite


stercoracea la carica batterica è molto più elevata rispetto ad
una peritonite purulenta; inoltre, i pz che ne sono colpiti sono spesso soggetti deboli, con malattie immunitarie o con un’età avanzata, in
generale più fragili.

90
PATOLOGIE PROCTOLOGICHE
MALATTIA EMORROIDARIA
Sindrome che consegue al deterioramento della normale anatomia
e struttura delle emorroidi.
N.B: le emorroidi non sono una patologia, bensì dilatazioni vascolari artero-venose,
ricoperte da mucosa e sotto-mucosa, presenti sin dalla nascita, che si collegano al plesso
vascolare emorroidale che circonda internamente la parete rettale.

È una patologia diffusa: in USA il 4,4% della popolazione è


coinvolto.
Il picco di incidenza è tra i 45 e i 65 anni, successivamente la
frequenza tende a diminuire.

Anatomia
Fisiologicamente le emorroidi si distinguono in:
• emorroidi interne: al di sopra della linea dentata o pettinata
• // esterne: inferiormente alla linea dentata o pettinata

Vanno comunque intese come parte di un unico plesso: sono presenti, infatti, ampie
interconnessioni tra emorroidi interne, emorroidi esterne, plesso sottomucoso e plesso
extrasfinteriale.

I gavoccioli emorroidari primari sono tre e formano angoli di circa 120 gradi tra loro nelle
posizioni:
− Laterale sx
− Antero-laterale a dx
− Postero-laterale a dx

Tra questi gavoccioli primari si trovano poi delle emorroidi secondarie.

Funzione
• Continenza anale
Lo sfintere è una sorta di elastico e, come ogni elastico, non si chiuderà mai del
tutto, ma lascerà sempre un foro, seppur millimetrico, nel centro: la continenza
completa è garantita proprio dalle emorroidi, che fungono da “cuscinetti”
comprimibili

• Accompagnamento delle feci


Sono organi elastici che, scorrendo lungo la parete vascolare, gonfiandosi e
sgonfiandosi, accompagnano le feci all’esterno durante l’evacuazione.
Questo impedisce un eventuale microtraumatismo causato da un contenuto fecale particolarmente aumentato in consistenza.

• Sfogo della circolazione pelvica (nelle donne).

Ezio-patogenesi
a) Teoria delle varicosità (la più
accreditata): si ritiene che la malattia
emorroidaria abbia la stessa origine
delle varici venose dell’arto inferiore:
aumento pressorio ⇛ deficit di
continenza ⇛ sfiancamento
progressivo.
Più precisamente, si ha un’incapacità dei cuscinetti di
svuotarsi completamente durante la defecazione, sia
per l’impaccamento fecale che comprime le vene, sia
per il ponzamento che aumenta la pressione intra-
addominale, impedendo lo svuotamento dei
cuscinetti.
Questo porta al prolasso dei cuscinetti, ad un assottigliamento della parte vascolare e a conseguente aumentato sanguinamento.

91
b) Teoria dello slittamento anale o prolasso dei cuscinetti vascolari: la lassità del tessuto di sostegno favorisce lo scivolamento verso il
basso e il prolasso all’esterno dei cuscinetti

c) Teoria dell’iperplasia vascolare (teoria meno seguita): evoluzione delle emorroidi per una trasformazione iperplastica metaplastica per
un eccesso di irrorazione del corpo cavernoso rispetto alle esigenze.

Fattori favorenti:
• Lassità ereditaria connettivale dei tessuti di sostegno: c’è un’associazione tra patologia erniaria ed emorroidaria
• Abitudini di vita: dieta povera di fibre, stipsi ed eccessivo sforzo evacuativo
• Attività lavorative faticose: posizione, sforzi, temperature a cui si è esposti

• Fattori endocrini (ciclo mestruale): per le donne rappresentano un meccanismo di sfogo della
circolazione pelvica
• Gravidanza (“le emorroidi gravidiche non vanno toccate!”)

• Ipertono anale: fase temporanea, dura qualche giorno o settimana


• Ipotono anale: se coincide con incontinenza anale (ano beante), la mancanza di chiusura favorisce il prolasso esterno delle emorroidi

• Ipertensione portale (emorroidi secondarie): le emorroidi fanno parte dei circoli collaterali portali.
Nei pz cirrotici con ipertensione portale, la presenza di emorroidi aumentate di volume è una costante. Queste possono sanguinare a
causa dell’alterato stato emocoagulativo del pz: in questo caso non bisogna intervenire con un trattamento chirurgico, poiché si rischia
solo di andare a peggiorare l’ipertensione portale, ma si deve correggere la coagulazione per ridurre il sanguinamento.

Lesioni associate e patologie concomitanti:


• Potenzialmente legate alla malattia emorroidaria:
− Dermatite perianale (da contatto): l’aumento del volume dei gavoccioli ed il loro prolasso accentuano le zone di
non contatto tra un’emorroide e l’altra, dando irritazione e prurito

− Marische: molto frequenti, pliche cutanee cicatriziali, spesso esito di tromboflebite


emorroidaria. L’indicazione all’operazione chirurgica riguarda solo motivi estetici.

• Patologie concomitanti (associazione casuale):


− Ragade: responsabili di dolore nei pz con patologia emorroidaria,
ma le emorroidi non danno dolore, se non in pochissimi casi

− Fistole e/o ascessi


− Neoplasia del retto: specialmente se infiltrante la tonaca sottomucosa
− Neoplasia dell’ano: la quale deve essere esclusa mediante EO in tutti i pz con
patologia proctologica.

Classificazione
− Emorroidi esterne: essendo già all’esterno non prolassano; possono dare tromboflebite o raramente
aumentare di volume

− // interne: aumentano molto di volume e tendono a


prolassare all’ esterno.
Vengono classificate in gradi diversi, considerando
l’atto della defecazione:
− 1° grado: fisiologiche, protrudono solo
all’interno del canale anale durante
l’evacuazione

− 2° //: protrudono all’esterno al momento


dell’evacuazione, ma si riducono
spontaneamente subito dopo

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− 3° //: protrudono all’esterno e possono essere ridotte manualmente

− 4° grado: protrudono permanentemente e sono irriducibili, il prolasso è stabile.

Clinica
• Sanguinamento (proctorragia): generalmente post-defecatorio, con sangue rosso vivo,
autolimitante in breve tempo.
È più presente in periodi di stitichezza o dissenteria, può essere costante ad ogni evacuazione o presentarsi indipendentemente
dall’evacuazione.
Importante è valutare l’entità del sanguinamento ed una possibile anemizzazione (più rara, tipica solo di soggetti con sanguinamento
costante), per intervenire eventualmente con la chirurgia

• Prolasso con sensazione di fastidio o di peso anale


• Perdita di muco e/o sierosità ⇒ “ano umido”

• Dolore: associato alle emorroidi, in assenza di ragadi, solo in caso di tromboflebite (su base
infiammatoria o infettiva, a carico di uno o più gavoccioli, a livello dei quali il pz accuserà pesantezza, prurito e bruciore)

• Irritazione cutanea e prurito: da dermatite da contatto

• Sintomi di ostruita defecazione (⇒ sensazione di incompleta evacuazione, stimolo a evacuazioni ripetute ma con scarsa
quantità di feci)

Complicanze
• Locali:
− Trombosi (interna, del prolasso emorroidario, del gavocciolo, emorroidaria esterna con ematoma perianale-edema perianale):
provoca dolore che scompare in circa 7 gg

− Tromboflebite emorroidaria: il dolore non passa e compaiono sintomi generali quali febbre e
malessere; se la condizione non viene trattata con antibiotici o chirurgia, può evolvere, dando
ascessi o estendendosi al perineo

• Generali ⇒ anemia cronica (acuta),

Diagnosi
• Anamnesi ed EO: si effettua con il pz in posizione genupettorale,
appoggiato sul lato sx:
− ispezione per identificare lesioni perineali e prolassi esterni
− palpazione delle emorroidi esterne per verificare la presenza di eventuali processi
trombotici o tromboflebite
− ricercare anche un’eventuale sede dolorabile
− esplorazione rettale per percepire i gavoccioli all’interno del canale anale, valutarne il
volume, eventuali ulcere, sanguinamenti, saggiare il tono dello sfintere.

• Anoscopia: è ritenuta un esame non fondamentale in quanto l’esplorazione rettale causa meno
dolore rispetto ad un esame endosopico, fornendo però gli stessi dati diagnostici

• Per prendere in considerazione un trattamento chirurgico però, non è


sufficiente una diagnosi clinica: serve stabilire se il pz risulta
anemizzato, effettuando un emocromo e valutando la sideremia.

• Nel pz con > 50 anni è necessaria una colonscopia per escludere la


patologia tumorale.

93
Terapia

a) Trattamento conservativo:
• aumentare fibre e contenuto idrico nella dieta
• emollienti delle feci, come docusato e psyllium
• diminuire il tempo di sosta sulla toilette e l’intensità di spinta nella manovra di evacuazione
• promuovere attività fisica
• Diminuire dosaggio farmaci che inducono stitichezza

b) Farmaci:
• Analgesici topici se vi è tromboflebite, steroidi solo se vi è dermatite
• Agenti vasoattivi: flavonoidi, bioflavonoidi
• Agenti antispastici in caso di ipertono sfinteriale all’EO
• Semicupi caldi: è dimostrato scientificamente un effetto su ragadi ed emorroidi di fase acuta, in quanto riduce l'ipertono
sfinteriale.

Se la terapia conservativa è efficace il pz non ha bisogno di intervento ambulatoriale o chirurgico.

c) Procedure ambulatoriali (con pz sveglio): attuabili per


grado 2/3, in pz che non rispondono ai trattamenti
precedenti:
• Rubber band ligation: elastici posizionati alla base
del gavocciolo emorroidario, determinano nel giro di alcuni
giorni la necrosi e la caduta del gavocciolo.
Non è un’operazione dolorosa, se effettuata al di sopra della
linea dentata

• Scleroterapia: sono iniettate all’interno o attorno al


gavocciolo delle sostanze sclerosanti per determinare sclerosi del plesso.
Utilizzata soprattutto in pz sotto terapie anticoagulanti o immunocompromessi, per la minore invasività

• Escissione del trombo: in caso di trombosi emorroidaria: indicazione specifica quando una trombosi dura meno di
48/72h.
Si procede con l’escissione del trombo in ambulatorio, incidendo l’emorroide.
Non si causa sanguinamento, poiché essendo il gavocciolo trombizzato, anche la parete risulterà ipovascolarizzata.

d) Trattamento chirurgico: nei pz con grado 4:


• Emorroidectomia convenzionale: più alto tasso di complicazioni, ma più basso tasso di recidive:
- Open or Milligan-Morgan procedure: procedura open.
Prevede asportazione del gavocciolo dopo legatura del peduncolo prossimale, con la zona operata che non viene
suturata (si pensa che ciò sfavorisca l’insorgenza di infezioni)

- Closed or Ferguson procedure: scuola americana basata su una procedura chiusa. Dopo l’asportazione del
gavocciolo si ri-sutura/ri-chiude la parete.
Studi randomizzati dimostrano che il dolore post-operatorio è minore con tecnica chiusa.

• Hemorrhoidal artery ligation (HAL): bassa percentuale di complicazioni, ma alto tasso di recidiva.
Si procede con la legatura del peduncolo superiore, senza asportazione del gavocciolo: riduce o annulla il sanguinamento, ma
non risolve il problema del prolasso.

• Emorroidectomia mediante
stapler o tecnica di Longo: modesta
percentuale di complicazioni e recidive.
Con una suturatrice meccanica si esegue una
resezione mucoso-sottomucosa del retto distale e
della parte più prossimale del canale anale, tirando
all’ interno i gavoccioli.

94
RAGADE ANALE
Erosione o ulcerazione lineare o ellittica dell’epitelio squamoso del canale anale, con un’estensione che può
andare dalla linea dentata al margine anale.
È localizzata nel 95% dei casi nella commissura
posteriore; più rare le ragadi laterali, ma
indicative di altre patologie come la malattia di
Crohn.

Colpisce qualunque età, più frequente nella 3°-5°


decade, rappresenta la prima causa di visita
proctologica in un pz che accusa dolore.

Classificazione
• Primitive: idiopatiche.
Fattori predisponenti:
− Feci di consistenza dura, stipsi
− Diarrea protratta nel tempo
− Flogosi locale anale
− Anomalie strutturali sfinteriali.

La ferita determina ipertono sfinteriale dello sfintere involontario interno ⇛ riduzione del flusso sanguigno, ischemia, ulteriore aumento
dolore e conseguente aumento ulteriore dell’ipertono: si instaura un circolo vizioso.

• Secondarie: IBD (in particolare MC), sifilide, AIDS, TBC anale, carcinoma anale

• Acuta: dà sintomi da < 6 settimane.


Dal punto di vista macroscopico, è una lesione che comprende strati superficiali, è quindi un’erosione e non un’ulcera, non sono
osservabili le fibre dello sfintere interno e la base è formata da tessuto connettivo, con margini della ferita netti e morbidi

• Cronica: // > 6 settimane.


Dal punto di vista macroscopico, è un’ulcera, sul cui fondo sono visibili le fibre dello sfintere interno; i margini sono duri e sottominati.
Vi possono essere modificazioni secondarie come papilla anale ipertrofica palpabile o pseudopolipo a monte, pseudopolipo o marisca a
valle, fenomeni di sistola o ascesso.

Clinica
• Dolore: caratteristico per la sua cronologia in tre tempi:
1) dolore acuto durante l’evacuazione (come una sensazione di taglio al passaggio delle feci)
2) si riduce a termine per qualche minuto
3) riprende intenso e dura anche per ore

• Sanguinamento: raro, soprattutto dopo evacuazione, quando l’ipertono si riduce e lo sfintere si rilascia per il passaggio delle feci

• Stipsi/diarrea: in parte causa e in parte conseguenza della ragade.


Il pz prima di avere la ragade era stitico o aveva dissenteria, poi, quando inizia a presentarsi lo spasmo dello sfintere, le feci del paziente
cambiano conformazione:
− dapprima diventano frammentate e tondeggianti
− poi arrivano ad essere unicamente liquide (o al massimo filiformi), poiché è solo la componente liquida quella che riesce a
passare dallo sfintere ipertonico. Questo è un segno molto tipico, indice dell’ipertono sfinteriale.

Diagnosi
È clinica.
Si procede con l’ispezione per identificare la ragade e la sua localizzazione: sapendo che la lesione è maggiormente posizionata nella commissura
posteriore, anche se la ragade è interna, basta stirare la cute dell’ano posteriore per evocare dolore.
Si effettua poi l’esplorazione rettale, comprimendo la parte anteriore dell’ano, per lasciare spazio tra il dito e la ragade.
La procedura è utile per identificare marische, pseudopolipi sentinella, margini della lesione, ecc...
Non viene effettuata l’anoscopia.

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DD con:
• Lesioni traumatiche
• Da grattamento: MST, condilomi, sifilide
• Dermatiti perianali
• Cancro dell’ano: tumore squamoso, importante da escludere (prognosi comunque buona nel 95% dei casi, se diagnosticato e poi trattato
con RT).

Trattamento
▪ Semicupi caldi: lavaggi con acqua calda (39°C), 10/12 volte al giorno, per un paio di settimane, sciacquando la zona lesionata (e
non immergendola) per far rilassare l’ano

▪ aumentare fibre e contenuto idrico nella dieta


▪ emollienti delle feci, come docusato e psyllium

▪ Analgesici topici (a base di lidocaina o benzocaina)

▪ Vasodilatatori topici come nifedipina e nitroglicerina: agiscono su canali del calcio per disaccoppiare contrazione
muscolare

▪ Iniezioni intersfinteriche di tossina botulinica

▪ Intervento chirurgico: in caso di insuccesso delle terapie precedenti:

− Sfinterotomia laterale
interna: più comune, effettuata
qualora vi sia realmente un ipertono.
Viene tagliato lo sfintere interno per una
lunghezza pari alla lunghezza della
ragade, in una zona diversa da quella
della lesione.
L’ incisione viene fatta lateralmente.
Lo scopo è quello di ridurre l’ipertono,
ripristinare l’afflusso ematico a valle,
risolvere l’ischemia e guarire la ferita.

− Advancement flap (“lembo”):


impiegato nel caso in cui non si sia certi della
presenza di un reale ipertono.
Viene creato un lembo di avanzamento che copre
la ragade.
In pz più a rischio di incontinenza o con un
incerto ipertono sfinteriale, si ricorre
all’advancement flap.

N.B: se le ragadi sono invece secondarie ad un Chron, non si procede


con l’intervento, ma si prescrive una visita gastroenterologica.

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ASCESSI PERIANALI
Processo infiammatorio acuto suppurativo saccato della regione perianale o perirettale.
Spesso è la manifestazione iniziale di una sottostante fistola anale.

Ezio-patogenesi
• Teoria cripto-ghiandolare: infezione ed ostruzione delle ghiandole anali, con l’infezione che si propaga a partire da una delle cripte anali.

• Teoria dell’infezione perianale: l’ascesso proviene da microtraumi della mucosa anale o della regione perianale.

Localizzazione:
− Marginale e perianale (45% dei casi)
− Ischio-rettale (23%)
− Intersfinterico (20%)
− Pelvirettale
− Sottomucoso (raro)
− Circonferenziale

Classificazione eziologica
• Primitivi (80%)
• Secondari (20%): esiste una concausa legata ad un fattore esterno come: corpi
estranei (raro), trauma, neoplasia, RT (frequenti), immunodeficienza, idrosadenite
suppurativa, malattia di Crohn, actinomicosi e TBC.

Clinica
• Febbre
• Dolore locale

• Tumefazione: non sempre presente, soprattutto se l’ascesso è pelvi-rettale non è presente alcuna tumefazione
• Tumefazione endoanale
• Tenesmo
• Perdita di pus
• Massa pelvica

Complicanze:
• Recidiva: alla base dell’ascesso vi è sempre una fistola (canale anomalo che fuoriesce
dal retto o dal canale anale, più frequentemente dalla linea pettinata).
Se questa non viene trattata, continuerà a mettere in comunicazione il retto con la cavità
ascessuale.
Quindi, trattando solamente l’ascesso con la terapia antibiotica, si potrà ottenere la
regressione sintomatologica però sicuramente si avrà una recidiva.
Può essere:
− Acuta: dopo tre giorni dalla regressione o dal drenaggio dell’ascesso
− Cronica: dopo settimane/mesi.

• Gangrena di Fournier: è legata ad una progressiva e rapida espansione del processo


ascessuale in un pz che il più delle volte è immunocompromesso.
Si ha una rapida degradazione dei tessuti circostanti l’ascesso a seguito del quale si forma un’infezione non circoscritta (a differenza
dell’ascesso che possiede una parete “murata” - di tessuto connettivo deposto dai fibroblasti per limitare il processo infettivo) in quanto
possiede una parete di tessuto necrotico che cede permettendo all’ascesso di allargarsi.
Si instaura un’infezione necrotizzante che degrada progressivamente gli organi con cui viene in contatto.
L’incapacità dell’organismo di opporsi a questa complicanza è sottolineata anche da sintomi/segni sistemici che in tempi brevi possono
portare a shock settico e alla morte del paziente.
Rientra quindi tra le infezioni necrotizzanti dei tessuti molli le quali vengono suddivise dagli infettivologi in base alla tipologia di
microorganismi che vi sono all’interno del liquido ascessuale:
− 1° tipo ⇒ polimicrobico: di cui fa parte questa complicanza.
Possiamo ritrovare: E. coli, Klebsiella, enterococchi (sono attesi in quanto sono presenti nel retto) ma anche batteri meno
frequenti e più spiccatamente patogeni Bacteroides, Fusobacterium, Clostridium, anaerobi o streptococchi microaerofili.

− 2° tipo ⇒ Streptococchi del gruppo A

In questo tipo di complicanza si deve intervenire il più presto (quindi non si deve lasciar passare del tempo in quanto “semplice ascesso”)
possibile per non far avanzare la gangrena: si attua terapia antibiotica associato a drenaggio chirurgico e il pz viene tenuto in terapia
intensiva.

97
Diagnosi
È clinica.
È importante stabilire il suo decorso e capire se è un:
• ascesso perianale.
• // ischio - rettale quindi si porta al di sotto del pavimento pelvico.
• // pelvi-rettale quindi si porta sopra al pavimento pelvico.
Significa che, probabilmente, la fistola che l’ha causato viene da una perforazione del retto o da organi a monte. In questo caso ci si avvale
di un approccio “dall’alto”.

Nel caso in cui sia presente una tumefazione, in un primo momento è buona norma drenarla e poi successivamente si indaga l’eventuale decorso.
Se non fosse presente, sarebbe lecito pensare che l’ascesso si trovi superiormente e quindi è necessario eseguire una diagnostica strumentale: il pz non
tollera l’anoscopia e l’ecografia endorettale, perciò in questi casi è utile fare una TC (senza ricorrere alla RM anche se alcuni chirurghi la
consigliano).

Trattamento
È strettamente chirurgico.
Negli ultimi anni, si è notato che gli ascessi, se drenati correttamente, non necessitano di terapia antibiotica associata.

È bene però effettuare terapia antibiotica soprattutto in pz che hanno già un processo esteso di infiammazione perifocale attorno all’ascesso oppure
che hanno segni di infezione sistemica (anche se quasi tutti i pazienti presentano febbre), diabetici, cardiopatici ed immunodepressi.

Discorso a parte per la malattia di Crohn: questa patologia causa ascessi molto piccoli che è possibile trattare con antibiotici perché, con il
progredire della malattia, il pz potrà presentare molteplici recidive nella zona perianale e un continuo reiterarsi di procedure a questo livello, a lungo
termine, potrebbe interferire con la funzione sfinteriale e con le funzioni del pavimento pelvico.
Di conseguenza, si interviene anche con farmaci che inducono un restringimento progressivo delle fistole (come gli anti-TNFα).

Chirurgia
Il pz viene posizionato prono o supino (in base alla posizione dell’ascesso).
Si incide a croce e si asportano i lembi in modo tale che la cavità risulti adeguatamente
aperta. Dopodiché la cavità si richiude “da sola” lasciando una cicatrice poco visibile
(2x2 cm o 3x3cm all’incirca).
Alcuni chirurghi inseriscono all’interno lo zaffo iodoformico (tampone di garza da
introdurre e stipare in una cavità naturale (naso, utero), in una breccia operatoria o
in una ferita, a scopo emostatico o per controllare la cicatrizzazione nel processo di
guarigione per seconda intenzione).

La fistola va ricercata dopo il drenaggio chirurgico in un secondo momento.


Subito dopo l’operazione, il tessuto si presenta fortemente infiammato, edematoso ed
emorragico e, se si agisse nell’immediato, si rischierebbe di creare una seconda fistola.
La ricerca di questa condizione viene effettuata dopo 4-6 settimane dall’intervento
in modo tale che il tessuto abbia perso le caratteristiche descritte in precedenza.

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FISTOLA ANO-RETTALE
Canale infiammatorio anomalo che connette la superficie interna del canale ano-rettale con la cute o una cavità interna (ad es. ascesso).
È importante sottolineare che l’ascesso è la patologia acuta, mentre la fistola il più delle volte è cronica.

Epidemiologia
Prevalenza di 9 casi su 100.000 ab, con rapporto M:F = 2:1.
Non vi è un’età prevalente, ma la media degli affetti è circa 40 anni (parlando di fistole sporadiche e non causate da altre patologie).

Classificazione eziologica
• Primitive: si presentano in più del 50 % dei casi; è l’evoluzione naturale dell’ascesso (non necessariamente trattato)

• Secondarie:
− M. di Crohn ed RCU
− K retto ano
− TBC
− Ragade
− Emorroide
− Esiti di chirurgia anale
− Traumi, ferite.

Come si può notare, sono le stesse cause dell’ascesso (sottolineando la correlazione tra le due condizioni).

Ezio-patogenesi
Sono state formulate varie teorie sulla formazione delle
fistole.
La più accreditata è la teoria criptoghiandolare: secondo
questa teoria, le fistole si formano per infezione delle cripte
della linea dentata.
In queste introflessioni può ristagnare del materiale fecale
il quale induce una pressione che spinge verso il fondo della
cripta creando una sorta di passaggio che, quando oltrepassa
la mucosa, si infetta.
Si formano degli ascessi microscopici nel piano
intersfinterico (in quanto le cripte comunicano con
quest’ultimo attraverso le ghiandole anali).
Questo può portare a:
a) Risoluzione
b) Piccola cavità ascessuale cronica che porterà alla
formazione di una fistola cronica o all’ascesso
acuto.

Ci sono altre teorie basate su microtraumatismi o malattie della mucosa, ma queste riguardano principalmente le fistole secondarie.

Classificazione di Parks (classificazione “inglese”)


a) Inter-sfinteriche (tipo 1): procedono dalla
cripta nello spazio intersfinterico e poi
rimangono in tale sede o procedono verso
l’esterno portandosi sulla cute.
Sono le più frequenti e le più semplici da
trattare

b) Trans-finteriche (tipo 2): attraversano


entrambi gli sfinteri e si portano nello
spazio extrasfinterico verso la fossa ischio-
rettale.
A questo punto rimangono in sede (dando
origine ad un ascesso ischiorettale) oppure
si portano verso l’esterno (sulla cute o
creano un altro tipo di ascesso).

c) Sovra-sfinteriche (tipo3): si portano nello


spazio intersfinterico e, invece di proseguire verso l’esterno, si portano superiormente e raggiungono lo spazio pelvi-rettale.
Dopodiché riattraversano il pavimento pelvico e possono causare ascessi pelvi-rettali, ischio-rettali o perianali (possibilità di formazione
di ascessi seguendo quindi il decorso della fistola)
Sono più rare e il trattamento è più difficile in quanto spesso non vengono ricercate nel modo adeguato.

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d) Extra-sfinterica: è l’unica che non origina dalla linea dentata ed origina dalla parete del retto.
Si porta verso l’esterno causando ascessi.
È rara e di difficile trattamento, il più delle volte necessita di un trattamento dall’alto.
Si rende necessario defunzionalizzare il retto: si pone un sacchetto a monte e si evacuano all’esterno le feci e poi si tratta il paziente con
terapia medica per fermare la fistola.
Un altro intervento possibile viene effettuato all’interno del retto mediante delle clip o un lembo di avanzamento che vanno a chiudere il
forame interno.

Classificazione americana
• Semplici: fanno parte di questa categoria le intersfinteriche (tipo 1 di Parks) e le transfinteriche basse (tipo 2 che coinvolgono meno di
1/3 dello sfintere esterno).
Questo perché entrambe vengono trattate allo stesso modo attraverso un taglio di tutti i tessuti per divaricare la fistola.
Il tessuto si riformerà dal pavimento della fistola mediante un processo di guarigione di 2° tipo con granulazione dal fondo in modo da
creare un “muro” più resistente.
Si deve tagliare lo sfintere interno (già visto con le ragadi che non si perde la continenza) e lo sfintere esterno perché la fistola
transfinterica passa entrambi. Tagliare lo sfintere esterno nella sua completezza causerebbe incontinenza; per questo motivo, questo
intervento viene effettuato solo se la fistola trasfinterica coinvolge meno di 1/3 dello sfintere esterno.
In questo caso il rischio di incontinenza è sotto l’1%

• Complesse: comprendono le fistole transfinteriche alte, sovrasfinteriche, extrasfinteriche, fistole retto-vaginali, anteriori (nella donna
perché ci può essere una immunocompromissione), fistole del Morbo di Crohn e tutte le altre tipologie (devono essere trattate in centri
specializzati).

Clinica
• Secrezione anale: il pz racconta di essere perfettamente continente ma spesso trova gli indumenti sporchi di materiale giallastro simile a
siero o a materiale corpuscolato

• Dolore con prurito:


− il dolore fa sospettare un’occlusione della fistola (a tratti o recidivante) che poi si risolve aprendosi verso l’esterno
− Il prurito, invece, è dovuto alla dermatite da contatto per il liquido fuoriuscito

• Tumefazione perianale: se vi è solo la fistola, questo segno non sarà presente, ma sarà presente solo il forame esterno; il pz potrebbe
riferire una storia di pregresso ascesso.

La fistola può avere due tipologie di decorso:


• Guarigione: alcune fistole superficiali guariscono da sole o aiutate con i farmaci (ciclo di terapia antibiotica); nella malattia di Crohn le
fistole spesso guariscono con anti-TNFα

• Recidiva: quasi tutte le forme non superficiali, se non trattate chirurgicamente, recidivano.

Diagnosi
• EO:
− Ispezione e palpazione: valutare regione perianale, perineale e coccigea, scrotale, vaginale alla ricerca di uno o più orifizi
perianali, dermatite perianale, pregressa cicatriche chirurgica
− Esplorazione rettale: tumefazione, fibrosi/indurimento, cordone
− Specillazione
− Anoscopia: orifizio interno, gemizio di pus; altre lesioni associate, ragadi, emorroidi, neoplasia

• Anoscopia
• Specillazione da svegli: dolorosa ma tollerabile, il chirurgo entra nella fistola con questa sonda metallica sottile (specillo) per
visualizzarne il decorso

• Ecografia endoanale: se il pz la tollera; nel caso servisse un mdc si utilizza l’acqua ossigenata che, formando bolle all’interno del canale
della fistola, consente di vedere il decorso della stessa

• Fistulografia: decisa ed eseguita dal radiologo


• TC: specialmente se si sospetta un decorso sovrasfinterico
• RM

100
Trattamento
Scopi della chirurgia:
− Asportare la fistola: non sempre possibile soprattutto se attraversa lo sfintere nella porzione superiore.
− Preservare la funzione dello sfintere anale
− Prevenire la recidiva

La scelta della tipologia di intervento chirurgico viene presa seguendo un algoritmo:

101
ISCHEMIA MESENTERICA
➢ ACUTA
È un’emergenza chirurgica che va assolutamente distinta dall’infarto intestinale massivo (⇒ condizione
irreversibile che spesso porta a morte il pz), in quanto l’ischemia è un processo reversibile se trattata tempestivamente.
Ha però una sintomatologia molto spesso aspecifica ⇛ diagnosi tardiva/difficoltosa favorendo quasi
sempre un’evoluzione ad infarto intestinale.

Non è una patologia frequente: rappresenta circa l'1-2% di tutte le emergenze chirurgiche, più frequente in pz
> 50 anni con fdr cv.

Eziologia
L'ischemia può essere su base:
a) Ostruttiva:
- Arteriosa:
o embolia (40% dei casi, soprattutto in pz con anamnesi positiva per FA, valvulopatia, coronaropatia,
insufficienza cardiaca)
o trombosi acuta su placca da aterosclerosi generalizzata (30%)
o trauma/dissecazione
o arteriti (soprattutto PAN)

- Venosa: // trombosi (15%)

A seconda della localizzazione dell’ostruzione si avrà una diversa estensione delle aree di ischemia: situazioni drammatiche si sviluppano
con l’occlusione di più vasi in corrispondenza di quei “punti critici” che non possono sfruttare il flusso proveniente da circoli collaterali
in caso di una loro chiusura (ad es. emboli che ostruiscono sia il tronco principale dell’a. mesenterica superiore che le diramazioni in
anastomosi con i circoli collaterali di compenso).

• Funzionale non ostruttiva (20%): si manifesta in seguito a riduzione della PC, come durante shock
(cardiogeno, settico o emorragico) ⇛ ipoperfusione degli organi splancnici.
In queste situazioni, infatti, il distretto splancnico è il primo ad essere “sacrificato” per inoltrare la volemia carente verso gli organi più
nobili (⇒ encefalo e cuore).

Fisiopatologia
In una prima fase avremo un’ischemia della parte più distale del villo intestinale (ovvero quella più lontana dall’asse vascolare), successivamente
degli strati più interni della parete intestinale ⇛ si ha perdita dei processi di secrezione-assorbimento e immediata caduta della barriera mucosa con
passaggio trans-parietale del contenuto intestinale ⇛ aggressione chimica sugli strati sottostanti da parte del contenuto intestinale endoluminale (che
contiene enzimi digestivi) ⇛ ulteriore lesione intestinale che può portare alla formazione di ulcerazioni, che possono evolvere in necrosi cellulare
fino a causare perforazioni e conseguente peritonite diffusa.

Clinica
Prevede uno sviluppo in tre fasi:
1. I fase (durata circa 2-3 h) ⇒ reazione irritativa intestinale (inizialmente ischemica, poi chimica) con dolore
acuto trafittivo in epi-mesogastrio, frequentemente si associano nausea/vomito e scariche
diarroiche talora ematiche.
In questa fase è fondamentale per la diagnosi clinica la dissociazione tra sintomatologia riferita
dal pz ed obiettività: il pz riferisce un dolore intenso, mentre l’addome è trattabile con
dolorabilità minima o nulla (poiché il dolore è ascrivibile alla all’ischemia e non alla peritonite), la peristalsi è
addirittura accentuata all’auscultazione

2. II // (// fino a 5-6 h) ⇒ il dolore tende a diminuire di intensità, si ha progressiva riduzione della
peristalsi intestinale fino ad un quadro di ileo paralitico

3. III // ⇒ necrosi massiva con possibile perforazione intestinale ⇛ peritonite e shock.

DD con:
- IMA inferiore
- Sindrome aortica acuta
- Ulcera peptica, colecistite, pancreatite acuta, altre cause di addome acuto.

102
Diagnosi
• Nella I fase (⇒ stadio peristaltico), si può rilevare leucocitosi neutrofila e aumento del D-Dimero
in caso di evento trombotico.

• Nella II fase (⇒ ileo paralitico), ulteriore alterazione degli esami di laboratorio, con acidosi
metabolica ⇛ netta negativizzazione del base excess (BE) ed un aumento dei lattati circolanti
(tipici di un quadro di ischemia mesenterica acuta).

La diagnostica strumentale prevede:

• Angio-TC trifasica (con fase arteriosa, parietale e tardiva venosa): rappresenta il gold standard, permettendo di
valutare la pervietà/occlusione dei vasi e lo stato delle pareti intestinali (ad es. anse ispessite che tendono a
diventare edematose).

• Angiografia mesenterica: attualmente più che a scopo diagnostico, viene utilizzata a scopo
terapeutico/interventistico in quei casi in cui, sulla base dei dati TC, il pz possa essere trattato con
migliore beneficio con tecnica endovascolare

• Se la diagnostica strumentale non è dirimente e permane il sospetto clinico, bisogna intervenire con
esplorazione chirurgica diretta per valutare in open le condizioni delle anse intestinali.

Terapia
Deve essere tempestiva per impedire l'instaurarsi di un infarto massivo; qualora questo sia già in corso,
bisogna cercare di limitarne l’espansione.

La terapia di supporto comprende la somministrazione di antibiotici a largo spettro, attivi in particolare contro Gram– e anaerobi, la
stabilizzazione dei parametri emodinamici e la correzione delle alterazioni idroelettrolitiche e dell’EAB spesso associate all’infarto intestinale.
Vi è indicazione all’inizio precoce della terapia eparinica al fine di evitare la progressione dei trombi, eventualmente seguita da terapia anticoagulante
orale a lungo termine.

Nella maggior parte dei casi si opta per la chirurgia open: mira a ripristinare il flusso rimuovendo
l'ostruzione (⇒ mediante embolectomia, tromboendoarteriectomia o bypass) con successiva ricostruzione del
vaso interessato e permette di valutare quanto intestino necrotico eliminare nella resezione.
Il chirurgo poi può scegliere se eseguire subito se eseguire una resezione dei tratti necrotici con
anastomosi tra i due tratti a monte e a valle della resezione oppure se rinviare la decisione ad un second
look a 24-48 h di distanza, finalizzato a valutare la vitalità delle anse intestinali o possibili deiscenze
anastomotiche.

In caso di resezione il chirurgo deve valutare la giusta quantità di


L’intestino tenue ha nell’adulto una lunghezza che
intestino da rimuovere per impedire l'insorgenza della sindrome varia da 3 a 8 m, anche in rapporto alla tecnica
dell'intestino corto e la conseguente malnutrizione del pz (⇛ (radiologica, chirurgica o autoptica) utilizzata per la
necessità di nutrizione parenterale). sua valutazione.
La sindrome dell’intestino corto è definita dalla
presenza di un intestino residuo < 2 m.
Le metodiche endovascolari in angiografia (⇒ con infusione locale Al termine di intestino corto si preferisce attualmente
quello di insufficienza intestinale, definita come
di vasodilatori e trombolitici, embolectomia o trombo- l’incapacità dell’organo a mantenere un adeguato stato
endoarteriectomia, posizionamento di stent) generalmente sono di nutrizione e di bilancio idroelettrolitico in assenza
eseguite solo in caso non ci sia peritonismo, ma spesso sono di uno specifico supporto nutrizionale.
insufficienti alla risoluzione del quadro.

103
➢ CRONICA
È caratterizzata da dolore addominale postprandiale e perdita di peso, con rischio di evoluzione acuta
verso l’infarto intestinale.
È determinata dal cronico ipoafflusso in uno o più settori dell’apparato digerente a causa di lesioni
obliterative nel territorio delle tre arterie splancniche (⇒ tripode celiaco, mesenterica superiore e mesenterica inferiore).

Epidemiologia
Colpisce maggiormente le donne con rapporto F:M = 3:1; l’ipotesi attuale è che le donne presentano vasi di
diametro inferiore.
È una patologia di riscontro non frequente non per assenza di lesioni aterosclerotiche in questo distretto (che
sono invece assai frequenti, almeno il 20% dei soggetti > 65 anni presenta placche aterosclerotiche nelle a.
splancniche), ma per la presenza di importanti circoli collaterali di compenso.
Il 25% dei casi presenta anamnesi positiva per CAD (Coronary Artery Disease) e AOCP (Arteriopatia
Obliterante Cronica Periferica).

Eziologia
L'aterosclerosi è la prima causa (90%).
Per il restante 10% le cause sono attribuibili a displasia fibromuscolare, malperfusione secondaria a coartazione aortica o dissezione aortica, vasculiti,
neurofibromatosi di tipo I, sindrome da compressione del legamento arcuato.

Generalmente sono coinvolti almeno due dei tre grossi vasi dell’intestino (in quanto solo in quest’ultima condizione vengono meno i meccanismi di
compenso operati dai circoli collaterali).

Infine, sempre di tipo ischemico è l’eziologia a partenza dal versante venoso del circolo splancnico (particolarmente a carico della v. mesenterica
superiore e del tronco mesenterico-portale): si tratta di forme rare, in genere secondarie a patologie primitive predominanti che vedono l’IMC solo
come loro epifenomeno, con trombosi venosa conseguente a sindromi paraneoplastiche, complicanza di pancreatite acuta, cirrosi e ipertensione
portale.

Clinica
Si presenta con dolore crampiforme colico, in zona epigastrica e talora con irradiazione dorsale.
Insorge tipicamente dopo 15-30 minuti dal pasto, per poi recedere dopo alcune ore (⇒ angina abdominis).
Si ha diversa modalità di insorgenza del dolore in relazione ai diversi alimenti, perché alcuni alimenti richiedono maggior impegno dal punto di vista
catabolico e dell'assorbimento.
Nel tempo il pz può manifestare un angoscioso rifiuto del pasto e tossicodipendenza da analgesici, oltre ad
alterazioni dell'alvo con diarrea da malassorbimento ⇛ rapida perdita di peso in pochi mesi.

Diagnosi
In prima istanza bisogna escludere le patologie addominali più frequenti, successivamente si devono
svolgere accertamenti per una conferma diagnostica ⇒ Ecocolordoppler e Angio-TC (gold standard).

Terapia
Ha come target un’adeguata rivascolarizzazione, mediante chirurgia endovascolare o chirurgia open, con
endoarterectomia, costruzione di bypass protesici (dall’alto dall’aorta sovraceliaca verso i vasi viscerali o dal basso dai circoli
collaterali) e reimpianti diretti di vasi sezionati a valle dell'ostruzione sull'aorta o su vasi accessori.

Nel caso della sindrome da compressione del legamento arcuato si può procedere mediante sezione del legamento arcuato in open o in laparoscopia.

Outcomes:
• la pervietà dei vasi dopo chirurgia endovascolare è presente nel 30% dei casi a tre anni
• // open // nell'80% dei casi a tre anni.

104
ANEURISMA
Dilatazione patologica, permanente e localizzata, dei vasi arteriosi (o più raramente venosi), con diametro ≥
150% rispetto alle dimensioni fisiologiche, con interruzione dei costituenti elastici e/o muscolari della
parete.

Morfologia aneurismi:
- Cirsoideo ⇒ allungamento del vaso e andamento serpiginoso dello stesso
- Sacciforme ⇒ sfondamento unilaterale a bolla
- Fusiforme ⇒ dilatazione uniforme del vaso
- Navicolare
- Blister: piccole estroflessioni in corrispondenza della parete aneurismatica.

L’aneurisma prende rapporti con la parete vascolare sana a monte e a valle ⇒ questi due limiti prendono il nome di “colletti”,
entro i quali si ha un cedimento di tutte le tonache vasali (anche se principalmente dell’intima e media), dovuta a:
• Perdita della forza tensile (o resistenza alla trazione)
• Aumento pressorio intravasale

È importante distinguere l’aneurisma da:


• Ectasia: dilatazione compresa entro il 150% del diametro fisiologico del vaso, è provocata da semplice distensione dello strato elastico
(⇒ condizione pre-aneurismatica?)

• Pseudo-aneurisma: definito anche “falso aneurisma”, consiste in un ematoma pulsante perivasale formatosi attorno la perforazione a
tutto spessore di un vaso, senza una parete vascolare propria, ma con la sola presenza di una capsula reattiva di tessuto connettivale.
Le cause della perforazione possono essere traumatiche, infettive, ma anche iatrogene da procedure endovascolari (⇒ ad es. nel sito di
ingresso del catetere quando la rimozione dello stesso non è attenta oppure se non si esercita una compressione diretta al termine
dell’angiografia).

Storia naturale
Prevede un aumento costante del diametro dell’aneurisma fino alla sua fissurazione (⇒ passaggio di
sangue tra le tonache), per arrivare infine alla rottura del vaso nel caso in cui si perfori l’avventizia.
La legge che spiega tale comportamento è quella di La-Place → T = P · r , dove
T = tensione superficiale, P = pressione interna e r = raggio vasale.

Dal momento in cui si forma l’aneurisma (⇒ aumento di r), aumenta anche la tensione esercitata sulle pareti; inevitabilmente ciò porta a un continuo
espandersi dell’aneurisma fino alla rottura.

La patologia aneurismatica interessa principalmente il distretto arterioso e più raramente quello venoso: questo perché il flusso sanguigno è molto
più turbolento nelle arterie che nelle vene e le P sono più alte.

Le localizzazioni più frequenti sono in aorta, in particolare:


• Aorta addominale (dopo il diaframma): più frequente (75% dei casi)
• // toracica (10-15%)
• // toraco-addominale (6%)

Tra i vasi arteriosi al di fuori dell’aorta troviamo:


• Arterie periferiche (10%), in particolare l’a. poplitea
• Arterie viscerali (2%), in particolare a. splenica e a. renale.

105
ANEURISMA dell’AORTA ADDOMINALE (AAA)
È definito sulla base del diametro del vaso:
• diametro aortico ≥ 3 cm
oppure
• diametro di aorta sottorenale ≥ 1,5 volte il normale diametro in quella stessa sede (tale definizione
permette di compensare le variazioni di diametro individuali).

Epidemiologia
È una patologia frequente, con prevalenza ≅ 10% nei M tra i 60-
70 anni ed è correlata all’invecchiamento della popolazione, perciò
negli ultimi anni la sua incidenza sta aumentando.

Secondo linee guida, lo screening mediante ecocolordoppler


addome è raccomandato nei soggetti di sesso M > 65 anni, mentre
nei soggetti di sesso F può essere indicato in pz fumatrici > 65 anni.
Può essere inoltre proposto indipendentemente dall’età in particolari
sottogruppi di pz ad alto rischio (⇒ fumatori, familiarità positiva
per AAA).

Ha mortalità ≅ 85% in caso di rottura, in particolare 50% circa dei pz muore prima dell’arrivo dei
soccorsi.

Considerando il diametro normale nei M= 14-21mm e nelle F = 12-19mm, gli AAA sono classificati in base
al loro diametro in:
• Piccoli ⇒ 4-5 cm
• Medi ⇒ 5-6 cm
• Grandi ⇒ > 6 cm

Il rischio relativo di rottura (⇒ AAA rotti/AAA totali) in un anno è molto più alto per aneurismi grandi: si
osserva un andamento esponenziale proprio a partire dai 5,5 cm di diametro:

Altri fdr per rottura:


• Morfologia sacciforme
• Trombo aneurismatico intraluminale
• Rapida espansione
• Parete sottile

• Fdr cv, fra cui soprattutto fumo di sigaretta, IA e DM


• Sesso F
• BPCO.

106
Eziologia
• Processo degenerativo associato all’aterosclerosi: è la causa più frequente (circa nel 95% dei casi),
soprattutto a livello dell’aorta toracica discendente e addominale.
Fdr associati:
− Fdr cv
− Sesso M ed età avanzata (> 60 anni)
− Storia familiare e predisposizione poligenetica

• // “Infiammatori”: si sviluppano con maggiore frequenza a un’età media inferiore rispetto alle forme degenerative aterosclerotiche: è
sempre presente l’aterosclerosi però si associa a una spiccata componente flogistica

• Arteriti ⇒ malattia di Takayasu, PAN, malattia di Beçhet

• // “Micotici”: intesi come eventi di arterite (aortite) insorti per colonizzazione parietale generalmente batterica (⇒ soprattutto cocchi, ma
anche genere Salmonella), più raramente fungina, che si manifesta con batteriemie o sepsi: i germi attecchiscono su pareti già inizialmente
lesionate, provocandone ulteriormente la degenerazione di parete

• // “Fibro-Displastici”: su base congenita, correlati a malattie ereditarie del connettivo (come la


sindrome di Marfan, sindrome di Ehlers-Danlos e sindrome di Loeys-Dietz), che per lo più
insorgono sull’aorta ascendente e anche discendente toracica, con prognosi molto sfavorevole.

Clinica
➢ Aneurisma Quiescente: nel 95% dei casi è totalmente asintomatico.
Nel 5% dei casi si hanno segni/sintomi aspecifici:
− Dolore: localizzato all’addome, al fianco o posteriormente a livello lombare, per via della
compressione/erosione sulle strutture adiacenti
− Embolie periferiche ⇛ PAD acuta degli arti inferiori, ischemia mesenterica o renale
− Idronefrosi (dilatazione del bacinetto originata da un ostacolo al deflusso dell'urina)

➢ // Fissurato: ha come sintomo più frequente un dolore sordo improvviso a livello addominale
profondo o lombare ⇒ DD con la colica renale.

➢ // Rotto: oltre al dolore molto più accentuato, determinerà manifestazioni associate allo shock
ipovolemico emorragico (⇒ pallore da anemizzazione, sudorazione profusa, tachicardia e
tachipnea, astenia/capogiri fino alla sincope da ipotensione) e all’emorragia stessa (⇛ ematoma,
con massa pulsante in addome).
In particolare, se si rompe:
− In retro-peritoneo (situazione più frequente): i sintomi insorgono più lentamente a causa del tamponamento parziale del grasso
retroperitoneale.
Si ha dolore tipicamente lombare o al fianco (talora irradiata anteriormente alla regione inguinale), che si associa alla
formazione progressiva ematoma retroperitoneale (visibile all’esterno)

− Nella cavità peritoneale: evoluzione molto rapida, con dolore improvviso a pugnalata profondo, peritonismo e shock
emorragico; quasi la totalità di questi pz muoiono

− In strutture adiacenti (raramente): l’AAA, continuando a crescere può entrare in contatto con strutture anatomiche circostanti,
instaurando una flogosi cronica di parete che predispone alla perforazione-fistolizzazione con la struttura interessata.
Possono rompersi riversando il flusso sanguigno:
o nell’intestino (⇒ principalmente III/IV porzione duodenale in quanto retroperitoneale ma anche nel tenue o colon)
⇛ emorragie digestive massive, ematemesi, melena da fistole aorto-duodenali/enteriche

o nella v. cava inferiore (fistola aorto-cavale) ⇛ ipertensione venosa acuta nel distretto pelvico e degli arti inferiori
che si manifesta con edema, cianosi, turgore delle vene sottocutanee…
L’aumento del precarico indotto dalla fistola arterovenosa può portare allo SC acuto

107
Diagnosi
Avviene in due situazioni:
• In seguito a fissurazione/rottura ⇛ è necessario intervenire in urgenza/emergenza
• Aneurisma quiescente: è asintomatico, perciò la diagnosi è spesso incidentale; occorre poi decidere
se intervenire chirurgicamente in elezione oppure in maniera conservativa (⇒ monitoraggio + terapia
medica).

La diagnosi di AAA si basa su:


• Anamnesi ed EO
L’EO consiste nella palpazione profonda bimanuale (con le mani posizionate tangenzialmente ai
margini laterali dei m. retti dell’addome), ricercando una massa pulsante ed espansiva in
mesogastrio.
L’aneurisma è comunque da ricercare basculando con le mani in addome: una volta fissato, si sente
una massa pulsante che allontana le mani l’una dall’altra; questa manovra è difficile se l’AAA è
troppo piccolo o il pz è obeso.

• Ecocolordoppler-addome: esame di scelta sia per diagnosi che per


follow-up.
Nel caso di pz con presunta rottura, emodinamicamente instabili, l'ecografia fornisce risultati più
rapidi al letto del pz, ma la presenza di gas e la distensione intestinale possono limitarne
l'accuratezza.

• Angio-TC (con mdc): si esegue solo dopo l’eco e in caso di dubbio se sottoporre il pz a intervento
chirurgico in elezione.
In ogni caso, nel pz candidato ad intervento chirurgico rappresenta la tecnica di scelta in quanto in
grado di fornire le informazioni necessarie al planning operatorio.

La diagnosi strumentale quindi, oltre che una conferma del sospetto clinico, fornisce informazioni su diametro-morfologia
dell’aneurisma, su eventuali alterazioni vascolari associate (⇒ viscerali o degli arti inferiori) e sui colletti (⇒ limiti) prossimale e
distale.
In base alla localizzazione di questi, gli AAA possono poi essere suddivisi in:
- AAA sovra/para-renali: interessano completamente almeno un’a.
renale; se interessano anche un’arteria del circolo mesenterico
- // Iuxta-renali: arrivano fino all’ostio dell’a. renale
- // Sotto-renali: caratterizzati dalla presenza di un colletto prossimale di
almeno 1 cm tra l’aneurisma propriamente detto e l’arteria renale più
bassa, sono la maggior parte (80%), in quanto l’istologia (più ricca di
collagene e meno di elastina) di questo tratto di aorta ne favorisce la
formazione.

Fortunatamente un aneurisma sottorenale è prognosticamente migliore di uno


sovrarenale, in quanto i vasi collaterali sottorenali sono meno nobili: infatti da
questi ultimi originano a. mesenterica inferiore e a. lombari posteriori, senza
coinvolgimento di organi nobili come il midollo (che a questa altezza non è più
presente).
Al contrario un aneurisma più alto può interessare vasi più importanti, come
tripode celiaco, a. mesenterica superiore, a. intercostali posteriori e a. renali ⇛ anche più difficile da trattare chirurgicamente.

Non infrequentemente, la patologia aneurismatica addominale si presenta multilivello → in quasi il 40% dei casi, l’aneurisma addominale
coinvolge la biforcazione (“carrefour”) aorto-bisiliaca oppure si estende a coinvolgere uno o entrambi gli assi iliaci (iliaca comune e
ipogastrica più frequentemente); nel 12% dei casi si associano ad aneurismi dell’aorta toracica.

108
Terapia
Innanzitutto, le linee guida comunque raccomandano nel pz con AAA (⇒ che è da considerarsi arteriopatico
polidistrettuale) una terapia medica di associazione fra:
- Abolizione dei fdr cv (soprattutto del fumo)
- Antiaggregante piastrinico (salvo specifiche controindicazioni), per ridurre le complicanze
associate alla trombosi parietale
- Terapia per IA e dislipidemia.

Tale terapia svolge sicuramente un ruolo nella stabilizzazione/rallentamento della crescita ed è indicata sia in prevenzione sia nel pre/post-operatorio.

In caso di approccio conservativo, la frequenza dei controlli di sorveglianza mediante ecocolordoppler è


ogni circa 6-12 mesi.

Approccio chirurgico
Indicazioni intervento chirurgico di riparazione in elezione:
• In caso di AAA fusiforme di calibro ≥ 5,5 cm e/o aneurisma iliaco ≥ 3 cm
• // di calibro 5 – 5,4 cm se pz di sesso F, in assenza di alto rischio procedurale
• // di calibro 4 – 4,9 cm in caso di rapido incremento di calibro (⇒ crescita annua > 0,5 cm)
• La tipologia sacciforme può comportare l’indicazione anche con calibri inferiori, da valutare caso
per caso

Metodiche d’intervento:
a) Chirurgia Open ⇒ Sostituzione protesica del tratto aortico aneurismatico in laparotomia

109
Questo è un intervento di alta chirurgia, in cui l’organismo viene sottoposto a un traumatismo chirurgico maggiore dal momento che:
- l’incisura è estesa → da qualche dito sotto l’apofisi sternale fino a sotto l’ombelico o con incisioni trasversali piuttosto ampie
- si devono manipolare visceri addominali per accedere al retroperitoneo
- durante tutto il processo si interrompe il flusso dell’aorta verso gli arti inferiori e si sovraccarica di flusso invece il rene
- inoltre nel momento in cui si clampa l’arteria, si ha un notevole aumento del post-carico, così come si ha una notevole diminuzione del post-
carico dopo declampaggio ⇛ si ha un notevole stress cardiaco (⇒ “ginnastica coronarica”)

Per tutti questi motivi, ad esclusione dell’intervento svolto in emergenza per rottura dell’aneurisma, negli altri casi è necessario valutare con
accuratezza rischi e benefici:

Complicanze:
• IMA: rappresenta la prima causa di mortalità in corso di chirurgia open, per i continui squilibri emodinamici

• Colite ischemica: per via dell’origine sottorenale dell’a. mesenterica inferiore, quando il circolo collaterale non è adeguatamente
sviluppato ⇛ è necessario valutare, quindi, se si può rimuovere l’a. mesenterica inferiore.
In realtà in gran parte dei pz (75%) l’a. mesenterica inferiore è già occlusa cronicamente al momento dell’intervento ⇛ l’eliminazione
dell’a. mesenterica inferiore nella sua totalità non determinerà alcuna alterazione.
Il problema si pone quindi quando l’a. mesenterica inferiore è ancora pervia ⇛ è necessario valutare la situazione in fase intra-operatoria
da parte del chirurgo: si chiude momentaneamente l’a. mesenterica inferiore e si valuta se si ha un buon flusso per via reflua, che indica la
presenza di collaterali funzionanti; se questo non si verifica è necessario reimpiantare l’a. mesenterica inferiore.

• Impotentia Erigendi: conseguenza dell’asportazione delle a. ipogastriche, oltre alla sostituzione dell’aorta delle iliache comuni (in caso di
lesione molto estesa).
È comunque una complicanza molto rara in quanto è buona norma preservare almeno una delle due a. ipogastriche.

• Infezione aorto-protesica: complicanza molto rara (< 0,5-2%), che però comporta morbidità e mortalità elevatissime.

Complessivamente, nei centri di chirurgia addominale l’intervento open comporta una mortalità < 3% (⇒ nella chirurgia moderna si parla di rischio
chirurgico significativo con tassi di mortalità operatoria del 3-5%).

110
b) Chirurgia Endovascolare ⇒ Esclusione endoprotesica
del tratto di aorta aneurismatica attraverso tecnica
EVAR (Endo Vascular Aortic
Repair/Reconstruction)

Complicanze:
• L’endoprotesi esclude l’aneurisma dal circolo, ma lo lascia in sede ⇛ è
necessario effettuare uno stretto follow up, poiché se l’endoprotesi
dovesse smettere di funzionare/rompersi, il sangue tornerebbe a
riperfondere l’aneurisma ⇛ rischio di rottura.
Il follow-up in caso di esclusione endovascolare prevede 1-2 valutazioni
ecografiche all’anno: se l’aneurisma riduce man mano le proprie
dimensioni significa che l’esclusione funziona; se invece questo rimane
uguale/aumenta di dimensioni è necessario intervenire nuovamente

• Se è presente sanguinamento refluo dalle a. lombari (che non sono


chiuse dall’endoprotesi), il sanguinamento permarrebbe nel vaso ⇛
endoleak tipo II

• Nelle zone di fissaggio (⇒ a livello dei colletti), la malattia


aterosclerotica può proseguire e determinare cedimento della parete con
formazione di pertugi tra la parete che e la protesi stessa, determinando
riperfusione dell’aneurisma nonostante la protesi ⇒ endoleak tipo I

È evidente come i due interventi hanno rischi e benefici differenti che sarà opportuno valutare caso per
caso:
• Da un lato, con la chirurgia open, si ha un maxi-intervento con grande traumatismo; una volta
effettuato l’intervento però il pz può essere considerato pressochè “guarito” (⇒ chirurgia definitiva)

• Dall’altro, con l’esclusione endovascolare si ha un traumatismo e tempi di recupero nettamente


inferiori, ma il pz deve essere tenuto in follow-up, con maggior rischio di reintervento.
Se il reintervento in seguito a chirurgia open è quantificabile con lo 0.5% circa, in seguito a endoprotesi il reintervento è presente nel 15%
dei casi.

Nell’immediato (a 30 giorni dall’intervento) i rischi dell’EVAR sono nettamente inferiori rispetto alla chirurgia open; guardando però la
sopravvivenza a lungo termine non si nota nessun vantaggio dell’EVAR già a tre anni dopo l’intervento.

In conclusione, la scelta dell’intervento dipende dall’aspettativa di vita del soggetto:


- Se il rischio chirurgico è basso e il pz ha una lunga aspettativa di vita, sarebbe preferibile la chirurgia
open
- Al contrario, se il rischio chirurgico è alto e il pz è molto anziano, ma con un aneurisma che si presta
bene all’esclusione endovascolare, // EVAR.

111
PATOLOGIA ARTERIOSA PERIFERICA
Raggruppa una serie di patologie cv non-coronariche, causate dall’alterata struttura e funzione delle arterie
che riforniscono di sangue:
• Arti inferiori
• Distretto sovra-aortico
• Arterie viscerali.

PAD ACUTA
Rappresenta un’emergenza chirurgica per il rischio di evoluzione da una situazione reversibile (⇒
ischemia acuta, ovvero un’improvvisa riduzione del flusso arterioso tale da non soddisfare le normali
richieste metaboliche dei tessuti) verso una irreversibile (⇒ infarto, ovvero necrosi tissutale).

Epidemiologia
L’incidenza dell’ischemia acuta varia, a seconda dei criteri di inclusione, tra i 3,7 e i 16 pz ogni 100.000 ab. La fascia di età più colpita è quella degli
ultranovantenni (180 casi ogni 100.000 persone) ma, essendo molteplici le cause, possono essere colpiti pz di tutte le età.

Nonostante il progresso delle procedure chirurgiche e delle terapie peri- e postoperatorie, la percentuale di amputazione è del 10-15%, mentre la
mortalità si attesta al 10-20%.
Tali valori non sono da mettere solo in relazione al quadro ischemico, specie nei casi più severi gravati dall’insorgenza di deficit sensitivo-motorio
(ischemia acuta totale), ma anche alle condizioni generali spesso molto compromesse dei pz.

Ezio-patogenesi
Vede alla base tre meccanismi fisiopatologici in grado di portare ad un’occlusione con interruzione acuta
dell’afflusso di sangue:

• Traumatismo diretto (ad es. incidenti che causano rotture-schiacciamenti di vasi arteriosi)

• Embolia
Consiste nell’improvvisa occlusione di un vaso determinata dal trasporto a livello del circolo
ematico di materiale che deriva da placche aterosclerotiche o trombi (talora anche materiale di
natura lipidica come in seguito a frattura ossea, gassosa, settica e neoplastica), che trascinato dalla
corrente può ostruire il lume di un vaso, con diametro inferiore rispetto a quello dell’embolo
stesso.
Queste occlusioni comportano una stasi ematica a monte e a valle, con propagazione della
trombosi ascendente o discendente.

La localizzazione preferenziale degli emboli periferici è rappresentata


dagli arti inferiori (70% dei casi), mentre relativamente bassa si
riscontra a livello degli arti superiori (16%).
La sede più frequente in assoluto è la biforcazione femorale (34%)
seguita dall’arteria poplitea (14%).

In genere è assente una storia di precedente arteriopatia cronica: i polsi periferici sono presenti
nell’arto controlaterale.

Possibili focolai emboligeni sono:


− Ad origine intra-cardiaca (90%): FA, cardiopatia ischemica,
valvulopatia, pregressi interventi cardiochirurgici, mixoma
atriale, endocarditi batteriche

− // Extra-cardiaca (10%): da frammenti provenienti da placche


aterosclerotiche ulcerate o da trombi parietali di un’aneurisma

La costituzione e le dimensioni dell’embolo possono essere variabili → in caso di microemboli (0,02-1 mm), si possono verificare
occlusioni arteriose estremamente periferiche che danno luogo a un quadro clinico denominato trash foot syndrome o blu toe syndrome,
caratterizzato dalla comparsa di aree cianotiche o gangrene distali in presenza di polsi periferici validi.

112
• Trombosi:
− Su arterie sane (rare): da policitemia, difetti della coagulazione, sindromi da bassa gittata, compressioni estrinseche
(soprattutto a livello dell’a. poplitea)

− su placca aterosclerotica: si fissura spontaneamente o in seguito a procedure esterne (ad es. cateterismo).
Anche in questo caso il distretto più colpito è quello femoro-popliteo.
In genere è nota un’arteriopatia pregressa, spesso con assenza dei polsi periferici nell’arto controlaterale.
Un episodio acuto è comunque meno grave in un pz con PAD cronica perché sono già funzionanti dei circoli collaterali di
compenso.

Clinica
Si caratterizza per la presenza di un corteo di sei segni/sintomi riassunti nelle 6 P di Pratt:
1. Pain ⇒ pz asintomatico che improvvisamente lamenta un dolore simile al crampo, ingravescente e
che non recede

2. Pulselessness ⇒ non si apprezzano i polsi periferici

3. Polar ⇒ l’arto è nettamente più freddo rispetto al controlaterale

4. Pallor

5. Paresthesia ⇒ si verificano inizialmente alterazioni della sensibilità con parestesie e poi


insensibilità propriocettiva-tattile

6. Paralysis ⇒ successivamente alle parestesie si manifesta difficoltà a muovere le dita o tutto l’arto,
fino alla paralisi.

Le PAD acute devono essere individuate e trattate immediatamente perché potrebbero comportare
un’ischemia tissutale estesa ⇛ accumulo e immissione in circolo di metaboliti tossici ⇛ compromissione
multiorgano.
Richiedono ospedalizzazione in urgenza.

Diagnosi
• Anamnesi ed EO

• ECG ed eventuale ecocardiogramma

• Esami ematochimici:
− Per valutare la gravità dell’ischemia in termini di sofferenza delle masse muscolari si possono dosare CK, kaliemia e LDH
− Nel postoperatorio, in pz con sospetti stati di ipercoagulabilità andranno indagati Ab anticardiolipine, Ab anti-complesso PF4
(fattore piastrinico 4)/eparina e i valori dell’omocisteina.

• Eco-color-Doppler: è utile nella valutazione di un limitato distretto arterioso, ma è una metodica inadatta per documentare l’intero
distretto arterioso periferico.
Mediante tale esame è possibile valutare la sede dell’ostruzione e la presenza di circoli collaterali. Può fornire indicazioni in caso di
sospetto aneurisma aortico o popliteo trombizzato.

113
• Angio-TC: è diventato l’esame di riferimento nella diagnosi dell’ischemia acuta.

• Angiografia: un tempo considerata il gold standard nella valutazione dell’ischemia acuta, ha attualmente assunto un ruolo
prettamente terapeutico mediante l’introduzione del trattamento trombolitico.

Terapia
▪ Eseguita la diagnosi è necessario instaurare precocemente una terapia anticoagulante mediante
eparina non frazionata per ev o LMWH per sc al fine di prevenire propagazioni trombotiche ed
eventuali ulteriori embolizzazioni

▪ Rivascolarizzazione mediante tecniche open o endoscopiche.


Possibili opzioni:
− Trombo-embolectomia mediante catetere di
Fogarty: utile nei casi di occlusione embolica.
Si effettua un’incisione del vaso (arteriotomia) ed attraverso questa
introduce il catetere (con un palloncino gonfiabile in punta) che viene
spinto oltre l'embolo; successivamente si esegue il gonfiaggio del
palloncino e il catetere viene ritirato, trascinando con se l’embolo

− Bypass: in genere indicato in pz con estese lesioni aterosclerotiche o in


caso di fallimento della trombo-embolectomia

− Trombo-endoarterectomia (TEA): soprattutto in caso di occlusione in situ della biforcazione femorale

− Trombolisi locoregionale mediante fibrinolitici.

▪ Amputazione nei pz con ischemia di grado III.

114
PAD CRONICA
È quasi sempre a lenta evoluzione, rappresentando un campanello d’allarme per elevato rischio cv.
Si caratterizza per la presenza di una o più stenosi/occlusioni complete dell’albero arterioso, quasi sempre a
carico degli arti inferiori, che sviluppandosi lentamente permettono lo sviluppo di circoli collaterali di
compenso all’ostruzione.
Il risultato può essere una perfusione:
- Sufficiente: con sintomatologia eventualmente solo sotto sforzo
- Insufficiente: // evidente sia sotto sforzo che a riposo.

Epidemiologia
Ha prevalenza molto alta: aumenta progressivamente con l’età a partire dai 50 anni (più frequente nei M), fino ad arrivare al 20% in entrambi i sessi
con età > 75 anni.

Eziologia
• Aterosclerosi: è la principale responsabile nel mondo occidentale; insieme al DM e all’IRC copre il
95% delle cause.
Bisogna tener presente che l’aterosclerosi è una malattia sistemica, anche se in dato momento la malattia può essere evidente
clinicamente in un solo distretto specifico, soprattutto a livello delle a. carotidi, coronarie e a. degli arti inferiori.

L’accrescimento delle placche aterosclerotiche produce stenosi diffuse in tutto l’albero arterioso: di solito, nel tempo, queste diffuse
placche ateromasiche possono rendersi clinicamente manifeste se raggiungono un grado di stenosi superiore al 70% (stenosi emodinamica)
o se sono la causa di un’occlusione che sopraggiunge per trombosi.
L’arteria femorale superficiale e l’aorta sono le sedi più frequenti nella malattia ateromasica e le arterie tibiali in quella diabetica.

• In pz senza fdr cv, si andranno a ricercare altre cause più rare:


− Vasculiti, come la malattia di Buerger (diffusa soprattutto nei forti fumatori in Asia e Medio Oriente)
− Alterazioni congenite: displasie fibromuscolari, coartazione aortica, sindrome da intrappolamento popliteo
− Trombofilie
− Cause funzionali ⇒ fenomeno di Raynaud
− Lesioni post-attiniche.

Clinica
Si caratterizza fondamentalmente per la claudicatio intermittens, un dolore crampiforme a carico degli
arti inferiori che si sviluppa durante la marcia ai muscoli distali e che evolve in senso caudo-craniale; tende
a regredire all’interruzione della marcia nel giro di qualche minuto (⇒ tempo di recupero).
La localizzazione del dolore della claudicatio permette di determinare il livello della lesione steno-ostruttiva:
- terzo inferiore della gamba e piede ⇒ ostruzione dei tronchi arteriosi della gamba
- m. del polpaccio ⇒ a. femorale superficiale
- m. della coscia e muscoli glutei ⇒ ostruzioni aorto-iliache.

L’ostruzione cronica della biforcazione aortica configura la sindrome di Leriche, caratterizzata, oltre che dalla claudicatio di coscia e glutea, da
disfunzione erettile dovuta all’ipoperfusione del circolo ipogastrico.

La classificazione di Leriche-Fontaine aiuta a catalogare il pz con ischemia degli arti inferiori e a definire
un successivo approccio terapeutico:

Stadio Clinica Segni/sintomi


1 Asintomatica Riscontro occasionale di calcificazioni
aorto/iliache
2a Claudicazione lieve Actual Claudication Distance > 200m
(non invalidante)
Tempo di recupero < 2 min
Stadi invalidanti
2b Claudicazione ACD < 200 m
moderata TR > 2 min
Claudicazione severa ACD < 100m
TR> 2min

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3 Dolore ischemico a 3a: dolore saltuario, soprattutto notturno in
riposo clinostatismo

3b: dolore continuo

N.B: il dolore può essere ridotto assente in caso di neuropatia


diabetica
4 Lesioni trofiche: ulcere
Le caratteristiche delle lesioni tissutali possono essere molto
ischemiche o gangrena
variabili: da piccole lesioni necrotiche fino a estese ulcere
gangrenose con o senza infezione; esse si localizzano
tipicamente nelle porzioni più distali dell’avampiede, mentre
in altri casi possono interessare il tallone o il terzo medio
inferiore della gamba. Spesso l’insorgenza di tali lesioni è
favorita da scarpe o traumatismi accidentali → in questi casi,
l’arteriopatia si manifesta immediatamente con una lesione
trofica che non tende alla guarigione spontanea e con dolore.
Il diabetico poi è più soggetto a sviluppare lesioni avanzate sia
per la neuropatia diabetica sia per la maggior possibilità di
incorrere in infezioni diabetiche per la maggior quantità di
glucosio in circolo.

Diagnosi
• Anamnesi (in particolare per fdr cv) ed EO:
- Ispezione:
o lesioni trofiche evidenti (come ulcere secche e dita necrotiche)
o ipotrofia muscolare
o cute pallida e secca
o rarefazione dei peli e distrofie ungueali
o perdita di sensibilità (test effettuato con uno spillo)

- Palpazione:
o Ricerca dei polsi periferici
o Termotatto: eventuale cute fredda

- Auscultazione: alla ricerca di eventuali soffi a livello


cervicale (carotidi), addominale e femorale.

• Indice caviglia-braccio (Indice di Windsor): è un


rapporto tra PAS del polso tibiale / polso
brachiale, che permette di classificare la gravità
della PAD:

116
• Eco-color-doppler: metodica di I livello.
Permette una visualizzazione delle arterie con una valutazione morfologica della parete in modo tale da accertare lo sviluppo della
patologia nelle tre tuniche (intima, media e avventizia) e anche di valutare la meccanica del flusso ematico e le sedi di aliasing, ovvero di
turbolenza, apprezzabili a livello di una stenosi.
I limiti di questa tecnologia stanno nell’insonorizzazione delle arterie molto calcifiche, degli arti edematosi e nella dipendenza da
operatore.

• Angiografia a sottrazione digitale: va considerata una metodica procedurale di II livello, con finalità
propedeutica ad un eventuale trattamento endovascolare.
Essendo una metodica cruenta non è scevra di rischi; le complicanze sono legate alle manovre di accesso percutaneo, quali l’ematoma
nella sede di puntura, la fistola artero-venosa se si pungono contemporaneamente i vasi, o lo pseudoaneurisma rifornito dal foro arterioso.
Inoltre il cateterismo può essere causa di dissecazione e di tromboembolismi.
Altri aspetti critici sono la nefrotossicità e l’allergenicità legate al mdc iodato.

• Angio-TC ed Angio-RM: metodiche non invasive di II livello che possono sostituire l’angiografia.
In particolare, l’angio-RM, per i costi e la disponibilità sul territorio, va considerata esclusivamente nei pz con intolleranza al mezzo di
contrasto iodato utilizzato in ASD e angio-TC.

Terapia
a) Lo stadio II a è lo stadio in cui più frequentemente i pz si recano dal medico per la prima volta.
In questo stadio è raccomandata una terapia medica per correzione dei fdr cv:
▪ Intervento sullo stile di vita, in particolare con esercizio fisico.
Rappresenta lo stimolo fisiologico più importante al potenziamento dei circoli collaterali.
Deve essere fatto 2 volte al giorno, in maniera costante per almeno 30 min.

▪ Terapia antiaggregante (⇒ ASA, Clopidogrel, Ticagrelor…)


▪ Terapia per dislipidemia (⇒ statine), IA (⇒ ACE-i + Ca-antagonisti DHP) e alterazioni glicemiche

▪ Eventuale trattamento sintomatico con pentossifilllina o cilostazolo.

b) In caso di stadio IIb-III-IV è necessaria una terapia più aggressiva, perché la Critical Limb Ischemia
si associa ad un elevato rischio di perdita totale dell’arto e conseguente amputazione ⇛
rivascolarizzazione mediante:

▪ Metodiche endovascolari: sono preferibili in caso di lesioni brevi e sintomi iniziali.


Prevede angioplastica transluminale percutanea (⇒ dilatazione mediante catetere a palloncino),
con o senza posizionamento di stent

▪ Chirurgia “open”: è preferibile in caso di lesione estesa e sintomi invalidanti se il


pz è in grado di tollerare l’intervento.
Tecniche: trombo-endoarterectomia (TEA) e bypass mediante protesi autologhe
(come v. safena invertita) o eterologhe (in PTFE espanso).

117
TRAUMA
POLITRAUMA: coinvolge più distretti del corpo, con compromissione attuale o potenziale delle funzioni vitali del soggetto

TRAUMA MAGGIORE: pone a rischio di vita il pz, identificato sulla valutazione di determinati parametri, basati su:
• Funzioni vitali: un criterio fra:
− GCS <13
− PAS < 90mmHg
− Frequenza respiratoria <10 o >19

• Lesioni gravi evidenti:


− Ferite penetranti
− Trauma da schiacciamento
− Lembo costale mobile, con respiro paradosso
− Frattura di ≥ 2 ossa lunghe prossimali
− Trauma associato ad ustioni di 2-3 grado, che interessino ≥ 15% della superficie corporea o che interessino le vie aeree
− Ustioni di 2-3 grado che coinvolgono ≥ 30% della superficie corporea
− Trauma da rachide con deficit neurologico
− Amputazione prossimale: dalla mano in su.

• Dinamica dell’evento: comporta un’altissima energia cinetica che si scatena sul soggetto.
Queste dinamiche possono essere:
− Caduta da più di 5m
− Pedone sbalzato a 3m
− Deformazione lamiere veicolo > 50cm
− Intrusione lamiere nell’abitacolo > 30cm
− Precipitazione veicolo da 3m
− Cappottamento
− Occupante veicolo proiettato all’esterno
− Pz deceduto o che necessita di una lunga estrazione nello stesso veicolo

• Informazioni anamnestiche: bambini, donne in gravidanza, pz in TAO, portatori di handicap, possibile malore, stati epilettici, malattie
cardiorespiratorie.

Mortalità per trauma


Segue una curva trimodale:
• Mortalità nei primi minuti:
− Rottura di aorta
− Rottura del midollo
− Trauma cranico
− Lesione diretta del cuore

• Mortalità precoce: dipende dall’efficienza del sistema di


emergenza:
− Ematoma subdurale
− Pneumotorace
− Fratture pelviche
− Fratture ossa lunghe
− Rottura del fegato e della milza

• Morti tardive: a distanza di settimane dal trauma, legate a complicanze, come sepsi e MOF.

La golden hour è il principio per cui nel giro di 1 ora dobbiamo portare il pz nell’ospedale migliore, con il presidio giusto per fare una diagnosi delle
lesioni pericolose per la vita.
In questo caso, se cominciamo a trattarle, abbiamo elevate probabilità di sopravvivenza.
Le cause evitabili di morte sono:
• Ostruzione vie aeree (40%)
• Emorragia (25%)
• Mobilizzazione non corretta: provoca il 50% dei deficit neurologici.
Questo è molto importante in quanto dopo il trauma si ha l’attivazione massiva del sistema adrenergico, con liberazione di grandi
quantità di adrenalina, che è il più potente analgesico.
Un rachide fratturato può non fare male, il pz non sente nessun dolore per ore, a volte il soggetto può rialzarsi dopo essere stato sbalzato
per 10 metri e camminare per un breve tragitto morendo poi improvvisamente (magari per rottura dell’aorta).
Per questo è molto importante non mobilizzare il pz dopo un trauma.

118
MANAGEMENT del trauma maggiore
Si suddivide in due punti fondamentali:

A) VALUTAZIONE PRIMARIA DELLE CONDIZIONI GENERALI


Si basa sulle prime 5 lettere dell’alfabeto A, B, C, D, E, da seguire in ordine:

1) A: AIRWAY e RACHIDE CERVICALE


La prima cosa da fare sempre è garantire la pervietà delle vie aeree immobilizzando il rachide, il quale deve rimanere in asse.
I collari utilizzati dai mezzi di soccorso di base non hanno una valenza terapeutica né di efficacia completa nella stabilizzazione di una lesione
ma servono innanzitutto per mantenere stabile il rachide cervicale momentaneamente nel trasporto e in secondo luogo per ricordare in PS che
la porzione deve essere analizzata dal punto di vista ispettivo e radiologico.
Il professore consiglia cautela nella valutazione del rachide cervicale perché il pz a seguito della scarica adrenergica post traumatica potrebbe
non riferire dolore nemmeno in condizione di frattura dello stesso.

Nell’ambito dell’airway occorre analizzare:


• eventuali fratture di massiccio, mandibola e trachea
• presenza di corpi estranei in cavo orale, orofaringe e laringe (intesi come sangue e come solidi quali denti o lembi)

Importante in questa fase è non iperestendere il collo, perché potrebbe rendere completa una sublussazione del rachide e quindi dare una
tetraparesi potenziale.

Nell’eventualità che un pz sia ostruito, si utilizzano manovre salvavita come:


• sublussazione della mandibola: con scopo di allontanare la lingua dal palato posteriore orofaringeo e creare una via di pervietà: viene
eseguita spingendo in avanti con due dita i lati del ramo mandibolare e portando gli incisivi inferiori anteriormente rispetto agli incisivi
superiori

• inserimento di cannula orofaringea di Guedel: inserita a curvatura inizialmente verso il palato duro e a seguito girata a livello
orofaringeo.

• Ossigenoterapia se saturazione al pulsiossimetro < 95%.

2) BREATHING
Si utilizzano i normali procedimenti semeiotici rappresentati da ispezione, palpazione, percussione e auscultazione, accompagnati da
saturimetro, frequenza respiratoria e colore cutaneo.

Le cose importanti da analizzare sono:


• frattura costale con lembo mobile: quest’ultimo è un pezzo di torace che per la presenza di una frattura tende ad essere non sincronizzato
e quindi non ventilato rispetto all’espansione della restante parte del torace (visibile già alla palpazione notabile con collasso e retrazione
della zona interessata)
• emotorace (valutato clinicamente con percussione e auscultazione)
• pneumotorace (valutato come emotorace con in aggiunta segno clinico evidente dell’enfisema sottocutaneo)
• contusione polmonare
• lacerazione polmonare: sospettata in caso di emoftoe ed evidenze radiologiche

3) C: CIRCULATION
L’emorragia è una delle cause più importanti di morte post traumatica ed è suddivisa in:
• Esterna: con fuoriuscita evidente di sangue
• Interna: localizzata a livello dei visceri.
In Italia in PS la maggior parte dei casi è data da emorragie interne e quindi da trauma chiuso; ciò può essere dato da rottura epatica,
splenica, di un grosso vaso che decorre in un arto o frattura di bacino.

Occorre valutare:
• FC: ricordandosi che il bambino diventa tachicardico prima di diventare ipoteso così come il giovane adulto, pertanto trattiamo la
tachicardia come segno di perdita ematica (a meno che non sia associata a dolore)
• PA
• Stato confusionale
• colorito cutaneo
• tempo di riempimento capillare
• polso radiale: non apprezzabile < 80mmHg
• emorragie esterne visibili: prevedono come ultimo mezzo di arresto l’utilizzo di laccio emostatico dopo fallimento di compressione
manuale e fasciatura compressiva, ricordandosi di metterlo sul segmento prossimale dell’arto (mai dove sono presenti due ossa perché
tengono distante la parte nel mezzo) e di cronometrare il tempo di ischemia dell’arto distale annotando data e ora (importante dato per la
riperfusione successiva).

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Importante è ricordarsi la perdita emorragica legata a fratture e alle cavità:
• pleura e peritoneo: più significative, possono accumulare grandi quantità di liquidi con conseguente emotorace ed emoperitoneo
• pericardio: in questo caso si muore per tamponamento non per perdita emorragica
• cranio: ricordando che per quest’ultima vanno in ipovolemia solo i bambini, un bambino può morire per ematoma subdurale perché il
volume encefalico rispetto al volume circolante è maggiore (nell’uomo adulto questo non si verifica)

La quantità di sangue che circola all’interno di un individuo adulto equivale al 7% del peso corporeo: ad es. un pz che pesa 90 kg ha 6,3 litri
di sangue circolante.
La condizione di shock si verifica a perdita di almeno un terzo del volume totale; fino a tal valore la perdita ematica viene tollerata con
reazioni di compenso come la tachicardia che permette di mantenere la perfusione degli organi vitali.
La perdita di tale quantità ematica non è un fatto assolutamente raro: con la frattura di femore e bacino si perdono rispettivamente 1,5 litri e 2
litri.

4) D: DISABILITY
Prevede una valutazione di:
• Glasgow Coma Scale
• Simmetria dei riflessi pupillari
• Mobilità degli arti e sensibilità degli stessi: valutazione possibile solo nel pz collaborante, deve essere fatta prima della sedazione e
dell’intubazione; è un punto estremamente importante, può salvare le condizioni degli arti se prese in tempo.

5) E: EXPOSURE
Si devono prevenire condizioni come l’ipotermia, fa parte di uno degli elementi che possono condurre il pz a MOF, altera di fatto la
coagulazione e i suoi fattori.

Valuto il pz dalla testa ai piedi non scordando due punti anatomici fondamentali che sono rappresentati dal dorso (potrebbe essere non
analizzato per timore di muovere il rachide cervicale) e dai genitali.

Effettuata la valutazione primaria, si deve definire se un pz è considerato:


• Stabile: pz non sedato né intubato, con Glasgow >14, sveglio e collaborante, con FC <110 (senza riempimento volemico), PAS >90, FR
tra 10-24, saturazione di 94%, T° > 33 gradi

• Instabile: pz che non presenta questi criteri.

B) VALUTAZIONE SECONDARIA
Una volta terminata la valutazione primaria, il pz può in determinati casi finire in sala operatoria e quindi non necessitare più della secondary survey,
oppure si deve procedere con la valutazione secondaria.
Importante come prima fase è analizzare il meccanismo di lesione: si deve correlare infatti quello che è successo a quelle che sono le lesioni
presentate.

❖ Posizionamento tubi:
• SNG: serve per andare a vuotare il contenuto dello stomaco, con delle accortezze: non va messo in caso di lesioni del massiccio facciale o
lesione della base cranica.
In determinati casi può essere posto anche tramite cavo orale per evitare la problematica, è ovviamente meno tollerato dal pz soprattutto se
cosciente

• Catetere: anche esso con delle limitazioni nell’utilizzo in caso di trauma uretrale o frattura del bacino.
In questi casi è meglio aspettare l’urologo e valutare tramite TC il percorso migliore, può essere preso in considerazione il drenaggio
sovrapubico.

❖ Indagini diagnostiche
Oggigiorno l’iter si è leggermente modificato con l’introduzione della FAST come metodo di screening primario, che permette di valutare
complicanze come:
• Versamenti peritoneali: in questo caso il pz va portato immediatamente in sala operatoria, non ha il tempo di effettuare altre analisi
come TC.
• Versamento pericardico con annessa valutazione della motilità cardiaca
• Analisi del riempimento volemico più o meno adeguato nelle camere, tramite valutazione delle vene cave (sospetto emorragia in caso di
una cava completamente vuota)
• Pneumotorace
• Emotorace

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Il gold standard del pz politraumatizzato rimane comunque la TC Total Body (cranio senza mdc, torace e addome): nel giro di pochi minuti
infatti chiarisce l’entità delle lesioni principali e permette di avere un piano chirurgico d’azione, ponendo priorità su dove andare a intervenire.
Non sempre il pz ha il tempo e le condizioni di poter effettuare una TC pre-operatoria, in molti casi viene effettuata nel post chirurgico poiché la
Primary Survey e l’Ecofast hanno evidenziato l’instabilità del pz e la necessità di intervenire tempestivamente.

❖ A.M.P.L.E.
Questa sigla anglosassone permette di raccogliere la storia del pz, che può essere utile nel percorso di trattamento:
• Allergie a farmaci o sostanze

• Medicine assunte: importante attenzione soprattutto sulle terapie anticoagulanti.


Importante è anche sapere se il pz prende farmaci anti-ipertensivi: ad es. i dati pressori potrebbero essere falsati dall’utilizzo di β-
bloccanti (un emorragico beta-bloccato non tachicardizza)

• Patologie pregresse, anche gravidanze

• Last Lunch (ultimo pasto): lo stomaco si vuota normalmente in 2 o 3h, ma interrompe completamente la sua attività di fronte ad uno
stress adrenergico ⇛ a seguito di un trauma maggiore viene a perdersi completamente l’attività peristaltica e sapere se lo stomaco contiene
materiale o meno influenza la scelta operatoria: avere uno stomaco pieno, durante le fasi di intubazione e di sedazione, potrebbe far sì che
ci sia aspirazione di materiale nelle vie aeree o vomito durante operazione

• Eventi dinamici del trauma (dinamiche analizzate precedentemente): è importante in questi casi analizzare la presenza di corpi estranei
che non devono essere rimossi durante il tragitto in PS e le eventuali traiettorie intracorporee.
Nella valutazione secondaria è importante inoltre l’analisi dei tossicologici, effettuata in maniera sistematica.

❖ Misurazione della gravità del trauma


Può essere fatta solo alla fine del procedimento valutativo: una volta stabilite tutte le lesioni, esiste un sistema internazionale AIS (Abbreviated
Injury Scale) che si basa su uno score classificativo preliminare.
Il nostro corpo viene suddiviso in 9 porzioni: testa, faccia, collo, torace, addome, rachide, arti superiori e inferiori, area genitale e altre regioni.

Ad ognuna di queste 9 regioni viene assegnata una gravità del trauma che va da 1 a 6 (1=lieve, 6=non compatibile con la vita, non salvabile).
Esempi per l’arto inferiore:
− 1 = contusione
− 2 = frattura di tibia, rotula calcagno, lacerazione di tendini, frattura di femore
− 3 = frattura di pelvi
− 4 = frattura con apertura della pelvi
− 5 = deformazione importante.

Nel caso degli arti per definizione non è attribuibile un punteggio di 6, quindi di non compatibilità con la vita.
In altri casi è un punteggio ascrivibile a situazioni estremamente gravi come l’avulsione epatica per l’addome, lo schiacciamento completo del
torace e la rottura di cuore.

L’ISS (Injury Severity Score) viene invece valutato prendendo i tre settori con AIS più grave, si elevano al quadrato i rispettivi punteggi e si
sommano: ad es. ipotizziamo che il pz abbia una frattura di femore (AIS 2), rottura di milza (AIS 3) e contusione cerebrale (AIS 1).
Il punteggio definitivo sarà quindi 4 + 9 + 1= 15.
Per essere definito trauma maggiore deve avere un punteggio di almeno 15 e l’unico fattore che cambia il punteggio è un eventuale presenza di
6, in questo unico caso il punteggio ISS è direttamente 75 per definizione ed è morte certa del pz.

Per avere un’idea indicativamente riguardo al significato di questo punteggio, si valuta un diagramma morti-vivi dove al di sotto di 31 di
punteggio i pz sopravvivono, mentre tutti quelli al di sopra sono morti: la correlazione punteggio prognosi è quindi strettissima.

❖ Terapia farmacologica
Si basa essenzialmente su tre aspetti fondamentali:
• Riempimento volemico con trasfusione massiva: è fondamentale somministrare globuli rossi e plasma ricco di fattori coagulativi

• Utilizzo sistematico del Tranex: è stato dimostrato un effetto anti-emorragico con utilizzo continuativo dell’acido tranexamico

• Antibiotico: qualsiasi lesione può essere una potenziale entrata di germi, l’antibiotico precoce previene le complicanze infettive (ad es.
Unasyn/ampicillina-sulbactam 3g somministrati in acuto).

121
TRAUMA EPATICO
Rappresenta la seconda lesione traumatica più frequente (dopo il trauma splenico) in caso di trauma addominale, che è distinto in:
a) trauma aperto: per definizione porta il pz direttamente in sala operatoria
b) trauma chiuso (più frequente): richiede dapprima una valutazione della stabilità emodinamica.

Oggi tutti i pz che arrivano in PS per trauma vengono sottoposti a eco-FAST, che ha un eccellente valore predittivo negativo (98%): quando infatti
è negativa permette di escludere con certezza un versamento intraperitoneale e/o una lesione traumatica degli organi addominali.
In base all’esito, si orienta il successivo iter:
• Se eco FAST negativa ⇒ considerare TC per stabilire successiva decisione terapeutica

• Se positiva, occorre valutare l’assetto


emodinamico:
− se il pz è emodinamicamente stabile ⇒
TC, sarà questa a darci un quadro
migliore della situazione delle lesioni e
quindi impostare il percorso
terapeutico

− se il pz è instabile ⇒ terapia
rianimatoria e chirurgia.

Oggi qualunque tipo di opzione terapeutica dev’essere


considerata per l’arresto dell’emostasi:
▪ sutura
▪ legatura selettiva di alcuni elementi dell’ilo
epatico, arteriosi e/o venosi
▪ resezioni epatiche (atipiche oppure regolate)

▪ Manovra di Pringle: clampaggio degli elementi


dell’ilo, arteria e vena, per cercare di ottenere un
arresto dell’emostasi e capirne la provenienza; è
tollerata per 45-60 minuti da un fegato sano,
mentre il triplice clampaggio aumenta i rischi per
situazioni di ipotensione e mancanza di circoli
collaterali

▪ triplice clampaggio: il fegato viene escluso non


solo dalla regione ilare, ma anche per quanto
riguarda le vene sovra-epatiche per non avere
emorragia reflua

▪ Packing: compressione del fegato con garze, quindi emostasi meccanica con garze e colle di trombina

▪ shunt cavo-atriale: per by-passare grosse lesioni della cava

▪ espianto d’organo e conseguente trapianto d’urgenza.

Quando parliamo di traumatologia di qualsiasi organo abbiamo la possibilità di stratificare mediante score specifici per ogni organo (chiamati organ
injury scale) che ci dicono la gravità del trauma e la percentuale di sopravvivenza.

122
Classificazione del trauma epatico
Si basa sulla scala di Knudson:

Perché sulla classificazione della lacerazione gioca un ruolo importante la profondità?


Chiaramente perché sulla superficie del fegato ci sono strutture vascolari di importanza minore, quelle più significative sono più profonde.
Nei primi 3 centimetri di fegato non ci sono grossi vasi arteriosi e/o venosi, più in profondità sì.
Fino al III grado c’è la possibilità di gestire il paziente, oltre la situazione diventa molto molto complicata!

Trattamento chirurgico nel pz pz instabile


Differisce in base alla gravità della lesione:

▪ per lesioni epatiche minori (fino al III grado), accompagnate da un basso tasso di mortalità, si applicano principalmente sutura, emostasi
e resezioni.
La mortalità peri-operatoria si attesta al 5% per arresto cardio-circolatorio in sala operatoria, prevede inoltre mortalità tardiva (11%) per
insufficienza multiorgano e gravi deficit neurologici.

▪ per lesioni epatiche maggiori (del IV e V grado), le tecniche chirurgiche utilizzate si complicano: resezione atipica, debridement,
packing.
La mortalità peri-operatoria riconosce come cause la CID e l’arresto cardiocircolatorio.

Occorre inoltre tener conto nella gestione del pz instabile che esiste una relazione tra injury severity score, PA, T° centrale e pH, che ci permette di
valutare il rischio di sviluppare coagulopatia, che a sua volta può portare a peggioramento del fenomeno emorragico, insufficienza multiorgano e
decesso:
• 10% in traumi gravi (ISS > 25)
• 40% in traumi gravi associati a ipotensione
• 50% in traumi gravi associati a ipotermia severa (< 34 °C)
• 58% in traumi gravi associati a acidosi (pH < 7.1), di solito metabolica, a volte respiratoria
• Quasi certa in pz con tutti e tre i fattori.

Sulla base di queste variabili è possibile disegnare un percorso terapeutico a step:


1. il pz viene portato in sala operatoria “quanto basta per garantirgli la sopravvivenza” (⇒ damage control laparotomy) attraverso due
target principali: emostasi e controllo dei focolai di infezione batterica
2. dopodiché uscirà per la correzione singola o di tutti e tre i fattori (⇒ rianimazione)

123
3. stabilizzate le sue condizioni metaboliche, potrà infine essere sottoposto ad intervento chirurgico definitivo.

Il chirurgo deve pensare a questa strategia “già quando si lava le mani”: questo perché ci sono dei criteri di indicazione per il damage control
laparotomy (⇒ emorragia superiore a 4L, pH < 7.25, ipotermia progressiva o temperatura < 34°) ma spesso sono tardivi, pertanto bisogna essere in
grado di anticiparli.
Lo svantaggio di questa procedura è che il pz viene sottoposto a due interventi: una delle strategie per prevedere l’emorragia è posizionare delle
garze ed ottenere l’emostasi; queste garze però andranno rimosse durante un secondo intervento.

Un punto critico della damage control laparotomy è però sicuramente il rischio di sindrome compartimentale addominale, sostenuta da uno
stillicidio ematico, dalla formazione di un ematoma retroperitoneale, dall’edema (anche determinato da una sindrome da riperfusione) e dalle garze
stesse inserite nell’ottica del packing.

Trattamento nel pz stabile


Oggi prevede un approccio conservativo (non chirurgico): ciò vale non solo per il fegato, ma in generale per gli organi parenchimatosi.

Principali criteri generali che permettono di considerare l’approccio non chirurgico:


• stabilità emodinamica
• assenza di concomitanti lesioni di altri organi che richiedono intervento chirurgico (ad es. lacerazione del colon o trauma ileale, ma
anche vescica, aorta…).

Inoltre, occorre prestare attenzione anche ad alcuni elementi, quali:


• concomitante presenza di trauma cranico severo, che peggiorerebbe le eventuali ripercussioni di uno shock sistemico e rende inoltre
invalutabile il pz dal punto di vista clinico
• elevato bisogno transfusionale
• indisponibilità di monitoraggio intensivo o di sala operatoria funzionante 24 ore su 24 e 7 giorni su 7; in questo caso va trasferito in un
centro con quelle disponibilità.

I pz con trauma di grado I-III (80%) possono essere ricoverati in reparto, mentre quelli con trauma di grado IV-V devono essere monitorati in
terapia intensiva per le prime 48h.
Il riscontro di blushing alla TC, in presenza di emodinamica stabile, è un’indicazione all’embolizzazione per via angiografica.
La comparsa di instabilità emodinamica o di segni di irritazione peritoneale si presenta nella maggior parte dei casi entro poche ore, così come un
maggior fabbisogno di apporto infusionale e trasfusionale si correla a un più alto indice di insuccesso della terapia conservativa.
Nella maggior parte dei casi le complicanze legate alla terapia conservativa vengono trattate per via percutanea e l’eventuale necessità di procedure
chirurgiche, preferibilmente per via laparoscopica, è differibile fino ad avvenuto ripristino dell’omeostasi.

Nel momento in cui si opta per un approccio conservativo, diventa fondamentale il monitoraggio che deve essere clinico e strumentale: in Italia
tipicamente si esegue una TC di controllo nel giro delle successive 24-36 ore e poi si procede ad ecografie di controllo, qualora non dovessero
emergere condizioni di sospetto, fino al riassorbimento della lesione: il pz viene seguito nel tempo finché non si osserva la cicatrizzazione.
Naturalmente, le tempistiche di guarigione cambiano molto in base alla severità della lesione: dal grafico si può vedere come i tempi di guarigione
dell’ematoma passano dai 6 giorni per un ematoma di I grado a 108 giorni per uno di III grado.

Nel 95% dei casi, l’approccio conservativo ottiene un buon esito.


Altre possibili evoluzioni:
• guarigione della lesione epatica; avviene nella maggioranza dei casi
• complicanze di qualsiasi tipo, ad es. al sistema biliare
• riassorbimento emoperitoneo (favorire sempre la diuresi del pz)
• emorragia tardiva, rara (2,8%).

124
TRAUMA SPLENICO
È la lesione traumatica più frequente in caso di trauma addominale (riscontrabile in circa il 60% dei pz politraumatizzati).
Rispetto al fegato, presenta alcune peculiarità anatomiche:
- La milza è molto più piccola del fegato e completamente protetta dallo scheletro ⇛ è decisamente più protetta dal trauma diretto, ma
può essere soggetta a trauma indiretto subendo la lacerazione da parte di un moncone costale

- È possibile la splenectomia, senza un conseguente impatto eccessivo sulla vita del soggetto

- La milza è un organo molto più fragile del fegato ⇛ sanguina molto più facilmente e si può rompere anche a seguito di un trauma
modesto, che il pz spesso tende a sottovalutare (ad es. urto contro lo spigolo del tavolo, caduta dalla bicicletta...).
Attenzione: i pz splenomegalici sono più a rischio

- È un organo interamente intraperitoneale ⇛ maggior rischio di emoperitoneo massivo.


Nel fegato, invece, emorragie a carico della porzione extraperitoneale dell’organo possono essere soggette ad emostasi compressiva
spontanea.

La mortalità è sempre determinata dall’evento emorragico acuto secondario alla lesione, aggirandosi attorno al 10% in caso di lesione splenica
isolata; fortunatamente può essere ridotta all’1% se si mettono in atto tutte le manovre terapeutiche.

Classificazione del trauma splenico

Percorso clinico-diagnostico
Innanzitutto, occorre indagare segni di sospetto per trauma splenico:
• Trauma in proiezione della loggia splenica
• Abrasioni ed ecchimosi in sede splenica (ad es. lesioni da cintura di sicurezza)
• Fratture costali basse a sx (8^/10^ costa sx)
• Resistenza addominale e dolore
• Forte trauma a dx che per contraccolpo interessa anche il lato sx.

In presenza di tali reperti, la milza deve considerarsi rotta fino a prova contraria: per questo quando i pz arrivano in PS descrivendo un trauma, di
default si fa l’emocromo, seguito da almeno un secondo emocromo (a distanza di almeno 1h).

La milza può essere soggetta anche a lesioni iatrogene (ad es. a seguito di procedure chirurgiche o indagini di diagnostica invasiva) che possono
essere asintomatiche o dare dolenzia in ipocondrio sx con segno di Kehr (⇒ dolore determinato dall’irritazione diaframmatica causata dal

125
versamento ematico, trasmesso dalle fibre dolorifiche del n. frenico come dolore localizzato sopra la clavicola ), ma possono anche dare dolenzia
addominale generalizzata fino allo shock emorragico.

Bisogna ricordare che nel 2-15% dei casi si può verificare la rottura in due tempi della milza, che nel 75% dei casi si verifica entro 2 settimane dal
trauma e spesso il pz non ricorda neppure l’evento traumatico.
La dinamica consiste nella formazione, a seguito del trauma, di un ematoma intraparenchimale che è rifornito, solitamente, da una lesione
arteriosa di un ramo dell’albero arterioso intraparenchimale ⇛ l’ematoma aumenta man mano di dimensioni, portando a lacerazione e sofferenza
ischemica della capsula ⇛ l’ematoma si libera in addome con comparsa di emoperitoneo che però è a sua volta continuamente rifornito dalla perdita
ematica da parte dei vasi ⇛ emoperitoneo massivo ⇛ shock ipovolemico.

Percorso terapeutico
A fronte di una lesione accertata o fortemente sospetta, prevede diverse
opzioni:
▪ stretto monitoraggio, con controlli seriati dell’ematocrito ed
imaging: per verificare che un’eventuale lesione non si ingrandisca,
in modo da evitare il rischio di rottura in due tempi.
Se l’ematoma si ingrandisce, si interviene il prima possibile

▪ intervento conservativo (⇒ embolizzazione endovascolare in caso


di emorragia attiva)

▪ intervento chirurgico con intento demolitivo (⇒ splenectomia


completa) o conservativo (⇒ resezione parziale della milza).

Trattamento non operatorio (TNO)


Si fa con sicurezza, soprattutto nei gradi più modesti (generalmente per gradi I-II).
Possibili complicanze:
- rottura in due tempi della milza
- ripresa del sanguinamento
- evoluzione settica dell’ematoma ⇛ ascessi splenici
- comparsa di cisti spleniche: l’ematoma si riassorbe dando luogo ad una lesione pseudocistica che, a sua volta, può andare incontro a
rottura, infezione e/o sanguinamento, che richiede intervento chirurgico, con splenectomia d’urgenza oppure ad un approccio conservativo
di asportazione della cisti se il pz si rivolge al medico per la comparsa di sintomi (tipicamente ingombro addominale)

- Splenosi: dispersione in addome di frammenti di milza a seguito di frammentazione e spandimento della stessa.

Splenectomia
È un intervento solitamente non difficile e rapido, che risulta efficace dal punto di vista dell’emostasi.
Non espone a complicanze, ma d’altro canto si ha la perdita delle funzioni immunologica ed emocateretica della milza:
- La funzione immunologica si esplica nei confronti dei comuni germi capsulati, in particolare meningococco, streptococco e H. influenzae.
Si è osservato che nel giovane splenectomizzato fino ai 24-25 anni, si ha un aumento della mortalità da OPSI (overwhelming post-
splenectomy infection).
Per questo si pianifica un calendario vaccinale apposito entro le 72h per garantire la copertura contro i principali patogeni capsulati
con le vaccinazioni anti-meningococcica, anti-pneumococcica e contro H. influenzae da richiamare ogni 5 anni

- La perdita della funzione emocateretica obbliga a una profilassi anti-aggregante a vita per il rischio derivante da una consistente
piastrinosi (fino a 1 milione di piastrine per mm3)

- Il pz splenectomizzato è considerato un pz fragile e deve sottoporsi a profilassi antibiotica analogamente ai pz portatori di valvola
cardiaca meccanica ogni qualvolta debba sottoporsi a procedure invasive (, interventi chirurgici, estrazione dentaria, angiografia...).

Trattamento chirurgico conservativo


Ha come obiettivo quello di ottenere l’emostasi e prevenire la rottura preservando quanto più parenchima possibile, almeno il 25 %
dell’organo, altrimenti è preferibile ricorre alla splenectomia
L’intervento conservativo si associa comunque ad un rischio di circa il 4% di dover ricorrere poi ad un intervento chirurgico di splenectomia.
Il pz necessita di un monitoraggio frequente postoperatorio e il pz non deve fare attività fisica per il mese successivo.

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ADDOME APERTO
Soluzione di continuo a livello della fascia addominale ottenuta intenzionalmente, evitando la sutura
dell’incisione laparotomica al completamento di una procedura chirurgica o in seguito a problematiche di
tipo traumatologico.

In linea generale, un intervento laparotomico dell’addome ha inizio con un’incisione con il bisturi di cute, sottocute e del piano muscolo-fasciale,
così da accedere alla cavità peritoneale.
Al termine dell’intervento, strato per strato, si chiude ciò che si è aperto: per primo il peritoneo (con materiale riassorbibile), segue il piano fasciale,
quindi si può chiudere o meno il sottocute (ci sono diverse scuole di pensiero) ed infine la cute.

Nel caso dell’addome aperto, l’intervento ha inizio allo stesso modo, ma al termine dell’operazione non si provvede alla chiusura completa, bensì si
“lasciano aperti” cute e sottocute.

Origine dell’addome aperto (o laparostomia)


È da rinvenire nella Damage Control Surgery, una tecnica di controllo delle problematiche traumatologiche
principali che ha l'obiettivo di trattare rapidamente le lesioni essenziali al fine di stabilizzare il pz; solo in
un secondo momento sarà possibile trattare definitivamente la patologia in condizioni più appropriate.

La DCS si compone di diverse fasi:


1) Laparotomia esplorativa immediata
− Si espone l’addome e si ricercano i danni: l'obiettivo è fare il minimo indispensabile nel
minor tempo possibile
− Se ci sono fonti di sanguinamento importanti non controllabili chirurgicamente, si attua il
packing addominale (⇒ si stipano le logge addominali con garze al fine di tamponare il sanguinamento)
− Infine, si attua una chiusura temporanea dell’addome (TAC).

2) Rianimazione in unità di terapia intensiva


Generalmente sono necessarie 24-48h.
Gran parte dei pz traumatizzati al giorno d’oggi si avvantaggia anche della possibilità di mettere in atto procedure di embolizzazione
angiografica, procedure che in questi casi di addome aperto trovano un’indicazione abbastanza precisa.

3) Riesplorazione della cavità addominale


Una volta stabilizzato, il pz può affrontare un secondo intervento chirurgico: si procede con la
rimozione del packing, la rivalutazione completa dell’addome e la riparazione completa delle
lesioni presenti.
A questo punto si valuta se si può procedere alla chiusura dell’addome oppure valutare la necessità
di mantenere l’addome aperto e rimandare la chiusura definitiva a giorni successivi.

Indicazioni per laparostomia:


• Decompressione addominale profilattica:
− Damage control surgery per pz politraumatizzati.
Viene riportata come esempio. la procedura effettuata nel caso di rottura di fegato: infatti in acuto si effettua un packing
(tamponamento con garze) di tutta la cavità addominale per arrestare il sanguinamento e stabilizzare il pz e in un secondo
tempo si effettua la sutura del fegato.
Il vantaggio di utilizzare l’open abdomen in questo caso è quello di non dover effettuare due volte la laparotomia.

− Pancreatite acuta: permette di effettuare una profilassi della SCA (causata spesso dall’edema secondario alla flogosi
provocata dal versamento intraddominale dei succhi pancreatici), di drenare eventuali raccolte purulente e di esplorare
periodicamente la cavità addominale

− Peritonite secondaria
− Rottura aneurisma aorta
− Trattamento SCA conclamata

• Necessità di tipetute esplorazioni cavità addominale: come in caso di necrosectomia pancreatica,


resezioni intestinali e packing.

127
SINDROME COMPARTIMENTALE ADDOMINALE (ACS)
È definita come un aumento significativo della P intraddominale (⇒ ipertensione intra-addominale con
IAP > 20 mmHg) associata a disfunzione di uno o più organi

È una condizione severa che può portare in poco tempo alla morte del pz.
Si interviene con la tecnica dell’addome aperto per detendere l’addome e ridurre la P intraddominale, così
da consentire un recupero dell’insufficienza d’organo.

Fisiologia: pressione intraddominale (PIA) si intende la P presente all’interno dell’addome, misurata


solitamente mediante catetere vescicale, sondino rettale o anche SNG, rilevata in posizione supina, con pz
rilassato, al termine dell’espirazione (v.n: 0-6 mmHg e 0-9 cm H2O, dove 1 mmHg = 1,36 cmH2O).
Un’ulteriore alternativa è la vena cava inferiore: è una procedura messa in atto raramente in quanto necessita di un catetere che dalla vena femorale
risale in v. cava (utile per valutare una eventuale compressione del sistema venoso).

Inoltre, si definisce P di perfusione addominale (PPA) la differenza tra P arteriosa media − IAP: deve
essere > 60 mmHg per garantire una perfusione adeguata dei visceri.

Si definisce ipertensione intraddominale un aumento della IAP > 12 mmHg rilevata in almeno due
misurazioni, classificata in:

GRADO 1 12-15 mmHg 16- 20 cmH20


// 2 16-20 mmHg 21- 27 cmH20
// 3 21-25 mmHg 28- 34 cmH20
// 4 > 25 mmHg > 34 cmH20

Si parla di ipertensione cronica in caso di obesità, gravidanza, pz ascitico, dialisi peritoneale, ovvero condizioni in cui l’aumento del contenuto
all’interno dell’addome è graduale.

Cause di SCA:
• ACS primaria: è associata ad una condizione patologica che si sviluppa nella regione addomino-
pelvica:
− Pancreatite emorragica
− Peritonite: in particolare nel caso di sepsi intraddominale, la situazione è molto più gestibile tramite addome aperto, perché
consente di pulire, rivedere l’addome più volte ed asportare eventuali cenci necrotici
− Fissurazione/rottura di AAA
− Tumore o masse addominali di altra origine
− Trauma chiuso/penetrante
− Occlusione intestinale
− Infarto intestinale
− Fratture pelviche con sanguinamento cospicuo del retroperitoneo
− Cause iatrogene: packing intraddominale, chiusura dell’addome sotto tensione eccessiva.

• ACS secondarie: è associata a condizioni patologiche extra-addominali, come sepsi o ustioni, che
richiedono trattamento con infusione massiva di liquidi ⇛ edema dei mesi ⇛ aumento della IAP

• ACS terziaria: si sviluppa in seguito ad un intervento finalizzato alla prevenzione di ACS, quindi è
una recidiva.

Fisiopatologia della ACS

❖ // intestinali: l’aumento della IAP comporta la riduzione del flusso venoso e linfatico ⇛ edema
della parete ⇛ riduzione del flusso arterioso, con conseguente ischemia dei visceri, in particolare
fegato, mesentere e intestino.
Si assiste anche un’alterazione della barriera intestinale (dilatazione delle anse), con la possibilità di traslocazione batterica.

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❖ // cv: l’aumento della IAP comporta una compressione della v. porta e della VCI ⇛ riduzione del
flusso epatico portale (⇛ insufficienza epatica) e riduzione del ritorno venoso, con grave
compromissione emodinamica.
Attenzione: in questo caso l’infusione di liquidi per sostenere la volemia aggrava l’imbibizione dei mesi e peggiora l’ipertensione

❖ // renali: la compressione sulla v. cava si ripercuote anche a livello della v. renale ⇛ riduzione del
deflusso del sangue venoso ⇛ riduzione della perfusione renale vasi renali ⇛ oligo/anuria.

❖ // respiratorie: può verificarsi anche un’elevazione del diaframma ⇛ scadimento della meccanica
respiratoria con insufficienza respiratoria ⇛ necessità di supporto ventilatorio

CHIUSURA TEMPORANEA DI ADDOME (TAC)


Consente di preservare l’integrità dei visceri sottostanti, i quali, se esposti all’aria, andrebbero incontro a
disidratazione, sofferenza ischemica e complicanze come la formazione di fistole entero-atmosferiche o
infezioni: in parole povere bisogna “metterci una pezza”.
Caratteristiche della TAC ideale:
• Coprire il contenuto addominale per evitare l’eviscerazione
• Rimuovere attivamente ogni fluido presente in cavità, soprattutto in caso di sepsi e sofferenze ischemiche
• Preservare l’integrità fasciale e il volume addominale
• Prevenire la formazione di fistole entero-atmosferiche
• Rendere facile e sicura la riapertura dell’addome per successive esplorazioni
• Favorire la chiusura definitiva, che si svolge come per ogni intervento in laparotomia con la sintesi per strati: peritoneo, fascia (o a strato unico,
fascia e peritoneo), sottocute e cute.

Tecniche di TAC:
➢ A chiusura semplice:
− Skin Approximation: con pinze backhaus che agganciano i due bordi della cute,
chiudendo temporaneamente solo lo strato cutaneo

− Bogotà Bag: tecnica più evoluta, di facile applicazione, che prevede l’utilizzo di
un telo di materiale plastico, fissato ai bordi della laparostomia ed eventualmente
rimosso in caso di rivalutazione.
Al termine del secondo intervento, se le lesioni sono state trattate definitivamente, il
telo viene asportato e, dove possibile, si procedere alla sintesi diretta dell’addome.
I limiti di questa procedura sono dati dal fatto che non permette la rimozione del
liquido peritoneale e la retrazione fasciale.

− Fascial Closure Technique (come Wittmann Patch e zipper):


hanno l'obiettivo di avvicinare i bordi fasciali.

➢ Con meccanismo di aspirazione: applicando una pressione aspirativa è possibile rimuovere liquidi e
tossine, ridurre l’edema ed evitare un’eccessiva dilatazione della laparostomia.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, è dovuto al fatto che una volta aperto l’addome i muscoli (trasverso, obliquo interno ed esterno) cercano di
stirare i bordi della laparostomia verso l’esterno, ampliando la bocca laparostomica, rendendo più difficoltosa la chiusura.

Vantaggi della negative pressure wound therapy (NPWT):


− Limitata perdita di consistenza della parete addominale: i due bordi della laparotomia tendono a mantenere un certo grado di
avvicinamento tra di loro
− Limitata retrazione fasciale ad opera dei muscoli trasverso e obliqui dell’addome
− Drenaggio del liquido peritoneale: molto spesso vengono prodotte tossine e liquidi che devono essere asportati
− Favorisce la neoangiogenesi
− Minori complicanze e minore permanenza in ospedale.

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Tecniche di Negative Pressure Wound Therapy (NPWT):
− Barker’s vacuum pack technique

− Vacuum-Assisted Closure:
tecnica più evoluta che si avvale di un
sistema aspirativo particolare, che vede
l’impiego di un materiale sintetico
antiaderente posto a contatto con le anse.
Viene poi coperto da una spugna, a sua volta
collegata ad un tubo di aspirazione che fa
capo ad un sistema computerizzato che
permette da una parte di modulare la
pressione, dall’altra di dare l’allarme qualora
ci siano dei problemi

− Abthera: al materiale sintetico viene


sovrapposto un sottile strato di cellophane,
polietilene, all’interno del quale vi è una spugna
che viene posizionata nei vari recessi della cavità
addominale.
Il tutto viene coperto da un’altra spugna, sigillata
con un adesivo e collegata al meccanismo di
aspirazione.

Una volta effettuata la TAC, il pz deve essere rivisto in sala operatoria entro 48/72h.
Il limite a 48/72h è stabilito dal fatto che una volta applicato il sistema a pressione negativa aspirativa si ha un compattamento di visceri e degli
organi all’interno dell’addome che diventano una sorta di “matassa unica”.
Questa condizione rischia di compartimentare l’addome in logge, dove si possono accumulare liquidi contaminati e formare delle raccolte.
La gestione del pz è molto complessa, perché anche se nella maggior parte dei casi sono sufficienti 1-2 revisioni prima di raggiungere le condizioni
sufficienti per arrivare alla chiusura definitiva, non è sempre così.

Altro concetto fondamentale da capire è che l’addome aperto è un presidio di supporto alla gestione rianimatoria del malato: la procedura ha senso
solo se inserita nell’ambito della gestione rianimatoria dei pz, che sono per definizione gravi, settici, traumatizzati.

CHIUSURA DEFINITIVA dell’ADDOME


Idealmente dovrebbe essere attuata entro 8/9 giorni: in questo modo si riduce il rischio complicanze e si favorisce la chiusura diretta, senza
l’interposizione di materiali protesici.
Viene effettuata quando:
• È stata ristabilita la viabilità intestinale
• Non ci sono indicazioni a nuove esplorazioni
• Non è presente SCA.

Tecniche di chiusura definitiva dell’addome:


➢ senza materiale protesico:
− Chiusura fasciale diretta
− Component separation: attuata regolarmente, ma piuttosto complessa
− Chiusura solo della cute: in casi estremi, dove l’addome è ancora infetto ma viene comunque chiuso.
Mantiene i bordi muscolari distanziati, quindi il pz andrà a guarigione con un laparocele; in un secondo momento verrà effettuata una
plastica del laparocele

➢ con materiale protesico: qualora il distanziamento dei bordi fasciali sia tale da non consentire l’avvicinamento diretto degli stessi.
Vengono generalmente utilizzate protesi biosintetiche composte da materiale riassorbibile, che lasciano un neotessuto peritoneale che col
tempo va incontro a consolidamento

130
CARCINOMA dell’ESOFAGO

È una neoplasia relativamente rara e si colloca all’ottavo posto nel mondo, con incidenza globale di 3-4
casi/100.000 ab.

Principali istotipi del K esofageo:


➢ K squamocellulare: si localizza preferenzialmente a livello dell’esofago medio (60%) e origina
dall’epitelio di rivestimento

➢ AdenoK: si localizza a livello dell’esofago distale e origina dall’epitelio ghiandolare.

Sebbene il K squamocellulare rappresenti più del 90% dei casi a livello globale, i tassi di mortalità associati all’AC sono in crescita e stanno
superando quelli dell’SCC in numerosi paesi europei.
In Italia prevale l’istotipo squamoso a differenza del nord Europa e del Nord America, dove l’adenoK ha superato lo SCC.

Il sesso M è più colpito (M:F = 2-5:1), con incidenza che aumenta progressivamente dopo i 45-50 anni di
età, con età media di insorgenza a 66 anni.
Purtroppo, circa la metà dei casi alla diagnosi presenta una malattia localmente avanzata o metastatica,
con sopravvivenza a 5 anni complessivamente bassa, anche nei casi in cui sia possibile una chirurgia
radicale.

Fdr:
• Per SCC: alcol e tabacco, con azione sinergica (rischio aumentato fino a 100 volte)

• Per adenoK: esofagite peptica da reflusso ed esofago di Barrett.


Il maggior rischio di progressione maligna è nei maschi > 50 anni, in presenza di ulcerazioni, stenosi e/o displasia.
Nei pz con esofago di Barrett il rischio di adenoK è pari a 0,45%.

• Etnia afroamericana
• Sindrome di Plummer Vinson
• Deficit di vitamine e micronutrienti
• Esposizione a micotossine
• Acalasia esofagea
• Lesioni da caustici

• Fattori genetici ⇒ tilosi.


Sindrome rara a trasmissione AD, caratterizzata da ipercheratosi palmo plantare e papillomatosi esofagea; il 95% dei soggetti affetti
sviluppa un K squamoso dell'esofago prima dei 65 anni di età.

Possibilità di screening
In Europa l'incidenza del K esofageo è troppo bassa per giustificare un programma di screening dal punto di vista dei costi ed i benefici.
Tuttavia, nei soggetti con condizioni predisponenti si possono valutare dei programmi di sorveglianza elettivi con endoscopia.

Clinica
• Disfagia: tendenzialmente progressiva, inizialmente presente
soltanto per i cibi solidi, successivamente per i liquidi.
È la manifestazione clinica più frequente al momento della diagnosi: compare
solitamente 4 - 6 mesi prima della diagnosi e induce una modifica delle normali
abitudini alimentari che porta all' assunzione prevalente di cibi liquidi o semiliquidi.
Insorge quando la neoplasia occupa un terzo del lume esofageo; la diagnosi di K
esofageo è quindi il più delle volte tardiva.

• Calo ponderale: conseguente sia per il ridotto apporto alimentare per la


difficoltà di deglutizione sia l'anoressia

• Odinofagia

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• Nei casi di malattia localmente avanzata, la sintomatologia può comprendere dolore retrosternale con irradiazione dorsale e senso di
peso, tosse ed emottisi in presenza di interessamento dell’albero bronchiale (l'accentuazione della tosse al momento della deglutizione è
spesso indicativa della presenza di una fistola tracheo esofagea, cui si associa il rischio di polmonite ab ingestis).

I pz inoltre possono presentare singhiozzo per infiltrazione del diaframma e del n. frenico e disfonia per interessamento del n. laringeo
ricorrente.

• I segni/sintomi di malattia metastatica variano a seconda delle sedi interessate dalla malattia e possono includere: dolore osseo,
epatomegalia, versamento pleurico ed ascitico, linfoadenopatie laterocervicali e sovraclaveari, sindrome mediastinica.

Sedi di insorgenza del K esofageo:


• Esofago medio: 50% dei casi
• Terzo distale: 35%, associato prevalentemente ad adenoK
• Terzo superiore: 15%.

Dal punto di vista anatomo-topografico ed endoscopico, l’esofago viene suddiviso nelle seguenti porzioni:
• esofago cervicale: dal bordo inferiore della cartilagine cricoide allo stretto toracico superiore (≅ 18cm dagli incisivi superiori)
• // toracico superiore: dallo stretto toracico alla biforcazione tracheale (≅ 24cm dagli incisivi superiori)
• // toracico medio: tra biforcazione tracheale ed esofago distale appena sopra la giunzione gastroesofagea (≅ 32cm dagli incisivi superiori)
• // toracico inferiore: porzione intra-addominale dell’esofago e giunzione gastro-esofagea (≅ 40cm dagli incisivi superiori).

Diagnosi
• Anamnesi ed EO

• Rx con mdc (pasto baritato) delle prime vie digestive: ha un'elevata sensibilità nelle forme invasive,
ma bassa specificità nelle forme non invasive, valuta l'estensione in lunghezza del tumore e pertanto
risulta utile al chirurgo per definire l'operabilità o in operabilità delle lesioni: inoperabili nei 2/3 dei
casi le neoformazioni con estensione > 5 cm e con deformazione dell'asse esofageo,
potenzialmente indicative di invasione del mediastino.

• EGDS con biopsie multiple: è l'esame diagnostico per eccellenza, con elevata sensibilità e
specificità

• Ecoendoscopia esofago-gastrica (EUS): rappresenta l’esame principale per la stadiazione locale


della neoplasia, risultando molto accurata nella valutazione dell'infiltrazione parietale della
neoplasia (permettendo di distinguere efficacemente fra T1 e T2) e dell'interessamento dei linfonodi
regionali (N), con la possibilità di effettuare agoaspirati ecoguidati.
Nella valutazione delle adenopatie locoregionali presenta sensibilità e specificità superiori a TC e PET/TC.

• TC: permette la valutazione del coinvolgimento degli organi vicini e delle M

• PET/TC: è indicata nella ricerca di M in pz candidati a trattamenti curativi comprendenti la chirurgia

• Valutazione ORL: per escludere concomitante T delle VADS

• Ecografia del collo: utile per valutare N in caso di lesione dell’esofago cervicale e toracico
superiore o in caso di interessamento linfonodale mediastinico esteso; permette inoltre mediante
esecuzione di citologia ecoguidata la conferma o meno di adenopatie sospette.

132
Stadiazione
È essenziale per definire la prognosi del pz e stabilire il programma terapeutico più idoneo.

La stadiazione di riferimento è quella proposta e aggiornata di recente dall’American Joint Committee on Cancer (AJCC) secondo Classificazione
TNM 8th Ed e differenzia i tumori dell’esofago per istotipo (squamoso/adenoK), localizzazione (superiore/medio/inferiore per il K squamoso) e per
grado di differenziazione.
Le Classificazioni prognostiche vengono suddivise in stadio clinico dopo staging diagnostico, stadio patologico all’intervento di resezione esofagea e
stadio chirurgico post trattamento neoadiuvante.

Secondo la classificazione TNM aggiornata, tutti i tumori della giunzione gastroesofagea, così come tutti i
tumori con epicentro entro i 5 cm dalla giunzione gastroesofagea e che si estendono all’esofago, sono
classificati e stadiati come tumori esofagei.

La classificazione di Siewert distingue nello specifico i K della giunzione gastro-


esofagea in tre tipi:
• Tipo I: il centro della neoplasia è localizzato tra 1 - 5cm sopra il cardias ⇒
adenoK dell’esofago distale

• II: // tra 1cm sopra e 2cm sotto il cardias ⇒ K vero del cardias.
Per questi tumori allo stato attuale non vi è uno standard chirurgico.
La scelta dell’opzione chirurgica più adeguata tra gastrectomia totale trans-iatale con linfoadenectomia
D2 estesa ai linfonodi mediastinici inferiori ed esofagectomia secondo Ivor Lewis dovrebbe essere fatta
in base alle caratteristiche del tumore in considerazione dell’ottenimento della radicalità chirurgica.

• III: // 2-5cm sotto il cardias ⇒ K gastrico sottocardiale ⇛ si tratta allo


stesso modo dei tumori dello stomaco, con gastrectomia totale con esofago-
digiuno-anastomosi su ansa alla Roux.
Per realizzare una resezione R0, l’intervento dovrebbe interessare un tratto di esofago di almeno 5 cm al
di sopra dell’estensione macroscopica del T.

Classificazione TNM

Tumore primitivo (T)


• TX: la presenza di T non può essere accertata
• T0: non evidenza di T

• Tis: K in situ/displasia di alto grado

• T1:
− T1a: invade la mucosa, lamina propria o muscolaris mucosae
− T1b: invade la sottomucosa

• T2: invade la t. muscolare (muscolaris propria)


• T3: invade la t. avventizia
• T4: invade le strutture adiacenti:
− T4a: invade pleura, pericardio, vena azygos, diaframma o peritoneo
− T4b: invade aorta, corpi vertebrali o vie aeree.

Linfonodi regionali (N)


Indipendentemente dalla sede del T, sono quelli inclusi nell’area di drenaggio linfatico dell’esofageo comprendente i linfonodi dell’asse celiaco e i
linfonodi paraesofagei del collo, ma non i linfonodi sovra clavicolari

• NX: la presenza di metastasi ai linfonodi regionali non può essere accertata


• N0: non evidenza di metastasi ai linfonodi regionali
• N1: metastasi in 1-2 linfonodi regionali
• N2: in 3-6 linfonodi regionali
• N3: in ≥7 linfonodi regionali.

133
Metastasi a distanza (M)
• Mx: la presenza di metastasi a distanza non può essere accertata
• M0: non evidenza di metastasi a distanza
• M1: M+

Grado istologico
• Gx: il grado tumorale non può essere accertato

• G1: tumore ben differenziato


• G2: moderatamente differenziato
• G3: scarsamente differenziato/indifferenziato

134
Terapia
Nella scelta del trattamento, la stadiazione e l'istotipo insieme alla volontà del pz e all’ECOG PS sono i
principali fattori discriminanti.
I principi generali che devono essere seguiti nel proporre un programma di resezione curativa sono così riassunti:
− l’estensione della malattia deve essere limitata in un volume anatomicamente resecabile (stadi I, II e III)
− le condizioni respiratorie devono poter tollerare il trauma chirurgico
− lo stato nutrizionale deve permettere la normale fisiologia dei processi di cicatrizzazione
− i visceri che possono sostituire l’esofago non devono presentare alterazioni patologiche che ne limitano l’uso”.

Nei casi con interessamento superficiale della sottomucosa (⇒ Tis o T1a, pT1sm1 <500 μm, “early
esophageal cancer), può essere presa in considerazione la mucosectomia endoscopica/dissezione
sottomucosale endoscopica.

L’esofagectomia per via transtoracica o trans-mediastinica con


intento radicale (R0) rappresenta l'opzione terapeutica di prima
scelta per la cura del tumore dell'esofago nei pz con malattia in
stadio iniziale, ad eccezione della localizzazione cervicale di
SCC, dove il gold standard è rappresentato dalla CT-RT
esclusiva.
In questo sottogruppo l’approccio chirurgico (⇒ chirurgia di salvataggio) può essere
considerato in caso di ricaduta locale o persistenza di malattia a conclusione della CT-RT.

L’esofagectomia è ancora oggi uno degli interventi chirurgici


più impegnativi in termini di morbilità e mortalità operatoria.
Sebbene si sia raggiunto un tasso di mortalità <5% nei centri ad
alto volume, la mortalità operatoria cresce con l'aumentare
dell'età, raggiungendo il 20% nei pz con > 80 anni.
L’utilizzazione dello stomaco come neoesofago, con o senza tubulizzazione del fondo
gastrico, prevede naturalmente che lo stomaco non sia affetto da alcuna patologia e sia di
lunghezza adeguata.
Quando lo stomaco non è utilizzato viene usato il colon di sx e il trasverso in senso
isoperistaltico vascolarizzato dai vasi colici di sx.

L'esofagectomia di prima intenzione è indicata nelle lesioni precoci (cT1-T2) ed in assenza di N+.

La linfoadenectomia estesa al compartimento cervicale potrebbe trovare


indicazione in pz selezionati con neoplasia sovracarenale, mentre la
linfoadenectomia a due compartimenti (a livello intratoracico e addominale)
sembrerebbe preferirsi nelle neoplasie sottocarenali

Per le neoplasie di estensione maggiore (⇒ cT3-T4a) e/o con N+:


• nel caso di SCC:
− CT-RT neoadiuvante preoperatoria seguito da esofagectomia
L’integrazione di CT e RT prima dell’intervento chirurgico si basa sui presupposti di un
trattamento precoce delle micrometastasi, del sinergismo tra le due modalità, della
maggiore possibilità di downstaging con conseguente aumento di resecabilità

oppure
− trattamento CT-RT radicale

• // adenoK: CT perioperatoria o CT-RT neoadiuvante preoperatoria seguita da esofagectomia.

In caso di cT4b: CRT definitiva o CT (se infiltrazione di grossi vasi, cuore o trachea).

135
Algoritmi terapeutici AIOM 2019:

136
137
CARCINOMA dello STOMACO

Rappresenta il 4% di tutte le neoplasie, è al 5° posto come incidenza nel sesso M, mentre al 7° posto nel
sesso F.
Oltre il 70% dei casi, si verifica nei paesi in via di sviluppo, metà del totale in Asia orientale.
L'incidenza è più bassa in Europa, dove tuttavia esiste una notevole varietà geografica: l’Italia rientra nei
Paesi con incidenza intermedia (maggiore al Centro-Nord), in costante declino.
Un dato di interesse è l’osservazione di un relativo incremento delle forme primitive a sede prossimale, in
particolare per quelle della giunzione gastro-esofagea.
Il sesso M è più colpito (M:F = 2:1), con incidenza che aumenta progressivamente con l’età e raggiunge il
picco intorno ai 60-70 anni.
In Europa la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è complessivamente pari al 25%.

Fdr:
• Infezione cronica da H. pylori: determina lo sviluppo di gastrite cronica atrofica ⇛ aumento del
rischio di adenoK di tipo intestinale della regione antrale.
Inoltre, sembra aumentare anche il rischio di linfomi gastrici.

• Consumo di cibi salati e affumicati (contenti nitrosamine; Vit C è in grado di impedire la formazione di N-nitroso composti
carcinogenetici)
• Consumo di carne rossa
• Alcol e fumo

• Condizioni precancerose:
− Ulcera gastrica: il rischio di degenerazione maligna è <1%, dal momento che correla con fattori eziologici concomitanti
quali atrofia e infezione da H. pylori

− Gastrite cronica atrofica:


o Tipo A: autoimmune, si localizza prevalentemente nel fondo
o Tipo B: generalmente dovuta all’infezione da H. pylori, si localizza
prevalentemente nell’antro

• Malattia di Menetrier (⇒ gastropatia ipertrofica cronica)

• Gastroresezione secondo Billroth II: predispone anatomicamente al reflusso duodenale di sali biliari e succhi pancreatici
responsabili della formazione di composti mutageni

• Fattori genetici: si riscontra una componente familiare nel 10% dei casi e le forme ereditarie
riguardano solo l’1-3% dei casi.
Fra le sindromi ereditarie, rientra il cancro gastrico diffuso ereditario.
In circa il 40% delle famiglie è stata riscontrata una mutazione di E-caderina/CDH1; il rischio di sviluppare K gastrico all’età di 80 anni è
del 70%; inoltre nelle donne vi è anche un rischio aumentato di sviluppare un K della mammella.
Pertanto, nei soggetti con mutazione di CDH1 ed età >20 anni viene raccomandata la gastrectomia profilattica, mentre nei soggetti con
<20 anni o che rifiutano l’intervento chirurgico viene raccomandata una stretta sorveglianza endoscopica.

Possibilità di screening
Il ruolo dello screening nel K gastrico costituisce argomento controverso, sia per la difficoltà di individuare metodiche efficaci e al contempo non
invasive, sia per la difficile definizione delle popolazioni a rischio.
È stato suggerito l'utilizzo di test sierologici per H. pylori quale possibile test di screening.
Anche il dosaggio di prodotti secretive gastrici quali indicatori di atrofia, e quindi di aumentato rischio di K gastrico, sta mostrando risultati
incoraggianti: il dosaggio del pepsinogeno sierico è risultato essere potenziale test di screening su popolazioni differenti, con una sensibilità e
specificità del 75%.
infine, sono numerosi gli studi riguardanti l'utilizzo dell’EGDS: essa, infatti, si è mostrata 3-5 volte superiore rispetto all’Rx con mdc baritato nel
riconoscere lesioni in stadio precoce.

138
Istotipi
Circa il 95% delle neoplasie gastriche è costituito da adenoK.

La classificazione istologica più utilizzata nella pratica clinica è quella di Lauren, che individua:
a) Tipo intestinale
Tende a formare masse più voluminose, esofitiche od ulcerate.
È distinto in base al pattern in: papillare e tubulare.
A livello microscopico presenta cellule differenziate e organizzate in ghiandole (⇒ metaplasia intestinale).
Predomina nelle regioni ad alto rischio e si sviluppa da lesioni precancerose, compresi displasia
piatta e adenomi gastrici.
Correla con esordio tardivo, M epatiche e prognosi migliore.

b) Tipo diffuso
Tende a infiltrare ampiamente e spesso evoca una reazione desmoplastica che irrigidisce la parete
gastrica.
Quando presenti grosse aree di infiltrazione, queste possono provocare appiattimento delle pliche e
ispessimento della parete con un aspetto a otre, detto linite plastica.
Comprende l’istotipo mucinoso e a cellule scarsamente coese (che comprende a sua volta il
sottotipo “a cellule ad anello con castone”).
A livello microscopico presenta cellule scarsamente differenziate.
Correla con esordio di malattia precoce, M peritoneali e prognosi infausta.

Da un punto di vista macroscopico, secondo la classificazione di


Borrmann si distinguono 4 tipi di adenoK gastrico, a cui
corrispondo forme istologiche progressivamente meno differenziate
e più avanzate, con rilevante valenza prognostica:
− Polipoide
− Ulcerato
− Escavato (ulcerato e infiltrante)
− Diffusamente Infiltrante (linite plastica).

Sedi di insorgenza del K gastrico:


• Antro: 60%
• Giunzione gastro-esofagea e cardias: 25%
• Fondo-corpo: 15%

Attenzione: nella VIII edizione TNM non sono inclusi i tumori la cui porzione centrale è nel terzo inferiore dell’esofago, sulla giunzione esofago-
gastrica o entro i 5 cm prossimali dello stomaco (cardias), che invece vengono classificati come K esofagei.

Un discorso a parte merita l’Early Gastric Cancer (EGC), definito dalla Japan Society of
Gastroenterological Endoscopy come un adenoK con infiltrazione limitata a mucosa o sottomucosa,
indipendentemente dalla presenza o meno di metastasi linfonodali.
In base all’aspetto macroscopico, l’EGC presenta tre possibili varianti:
• Tipo I: polipoide
• Tipo II: superficiale
• Tipo III: escavato.

Si tratta di un’entità a prognosi eccellente, meritevole di solo trattamento chirurgico.

139
Clinica
• Agli stadi iniziali, il K si presenta spesso con sintomi aspecifici e vaghi, quali disturbi dispeptici,
senso di pesantezza gastrica, dolore epigastrico per lo più nelle neoplasie ulcerate.
Se questi sintomi sono resistenti ai trattamenti medici previsti per una malattia infiammatoria o ulcerosa dello stomaco, indagare
rapidamente tramite opportuni approfondimenti diagnostici.

In caso di localizzazione cardiale, possibile la comparsa precoce di disfagia.


Il sanguinamento, se presente, è usualmente occulto ⇛ anemizzazione (secondaria a stillicidio ematico).
Più rari gli episodi di emorragia massiva con ematemesi e melena, in caso di malattia localmente avanzata.

Il senso di pienezza gastrica precoce può suggerire un irrigidimento delle pareti gastriche dovuta
ad una diffusa infiltrazione tumorale (“quadro di linite gastrica”).

• In caso di malattia avanzata, sono frequenti nausea/vomito e dolore addominale; in alcuni casi è
possibile individuare una massa palpabile in corrispondenza della sede primitiva.
Altri sintomi:
− anoressia, calo ponderale e sarcofobia
− ascite, ittero, epatomegalia⇒ diffusione epatica
− linfonodi superficiali palpabili, in particolare in sede sovraclaveare sx (⇒ segno di
Troiser)
− occlusione intestinale ⇒ diffusione peritoneale.

Diagnosi
• Anamnesi ed EO

• EGDS: costituisce l'esame di scelta per la diagnosi di adenoK gastrico: permette una visione
diretta della mucosa gastrica e l'esecuzione di biopsie a fine diagnostico.
L'aggiunta di una sonda ecografica (⇒ ecoendoscopia) permette di raccogliere informazioni circa
l’infiltrazione parietale e interessamento dei linfonodi regionali coinvolti (l’accuratezza diagnostica è
aumentata dalla possibilità di effettuare valutazioni citologiche tramite agoaspirato).
La diagnosi istologica è l'unica di certezza: consente la definizione degli studi tipo e del grading,
nonché tramite immunoistochimica/FISH lo status di HER2.

• Marker neoplastici: il 35% dei pz presenta un incremento del CEA e del Ca19.9 alla diagnosi.
Ciò nonostante, i marker neoplastici non costituiscono un criterio diagnostico, ma si rivelano
clinicamente utili nel monitoraggio della risposta alla terapia e nel follow-up.

• TC torace-addome-pelvi con mdc: è di utilizzo di routine nella stadiazione preoperatoria, per la


definizione di T, valutazione dei linfonodi perigastrici, malattia peritoneale e M intraddominali.
Limite di tale esame è la DD tra linfonodi patologici e reattivi: sono interpretati come patologici quando la dimensione >10mm, anche se
non sempre linfonodi di queste dimensioni contengono cellule tumorali

• PET/TC: può essere utile a completamento della TC, quando il T primitivo è avido del glucosio marcato con radionuclide (questa
evenienza è molto più probabile con l’istotipo intestinale che con il diffuso), riesce a caratterizzare come neoplastiche (classificate come “a
elevata attività metabolica”) lesioni linfonodali o metastatiche che la TC non riesce a definire come sicuramente patologiche.

• Laparoscopia esplorativa: permette di individuare eventuali M peritoneali occulte.


L’esame citologico del liquido peritoneale può aumentare l’accuratezza della stadiazione.

140
Stadiazione

Tumore primitivo (T)


• Tx: T non può essere valutato
• T0: nessuna evidenza di T

• Tis: K in situ: tumore intraepiteliale senza invasione della lamina propria

• T1:
− T1a: T invade la mucosa, lamina propria o muscolaris mucosae
− T1b: T invade la sottomucosa

• T2: invade la t. muscolare (muscolaris propria)


• T3: invade la t. sottosierosa
• T4:
− T4a: invade la sierosa (peritoneo viscerale)
− T4b: invade le strutture adiacenti.

Linfonodi regionali (N)


• Nx: linfonodi regionali non valutabili
• N0: non evidenza di metastasi linfonodali

• N1: metastasi in 1-2 linfonodi regionali


• N2: in 3-6 linfonodi regionali
• N3: in ≥7 linfonodi regionali
− N3a: // in 7-15 linfonodi regionali
− N3b: // in ≥16 linfonodi regionali.

Metastasi a distanza (M)


• Mx: la presenza di metastasi a distanza non può essere accertata
• M0: non evidenza di metastasi a distanza
• M1: M+.

Poiché il drenaggio venoso dello stomaco è operato dal sistema portale, il fegato rappresenta la sede
più frequente di metastasi ematogene; è sicuramente più comunemente coinvolto rispetto al polmone
e, ancor di più, a milza, ossa e SNC.
La diffusione transcelomatica invece si verifica in caso di neoplasia che infiltra la sierosa, per
verosimile caduta e reimpianto delle cellule neoplastiche sulle altre superfici peritoneali, e determina
la contaminazione della cavità addominale con cellule neoplastiche (già interpretate come M a distanza
se documentate anche solo in un liquido di lavaggio peritoneale) e, ancor peggio, la diffusione
carcinomatosa intraddominale, nota come carcinosi peritoneale.

141
Terapia
a) Trattamento della malattia locale
Al momento della diagnosi solo 1/3 dei pz presentano malattia potenzialmente resecabile.
Un adeguato intervento resettivo, definito come la completa asportazione del T primitivo e dei linfonodi
locoregionali con intento radicale (R0), è ad oggi l'unica metodica potenzialmente curativa.

La resezione endoscopica mediante


tecnica limitata alla mucosa (EMR,
Endoscopic Mucosal Resection) o
comprendente la sottomucosa
(ESD, preferibile) può considerarsi
una valida alternativa alla chirurgia
in casi selezionati: T < 2 cm, ad
istotipo intestinale e ben
differenziati, in stadio precoce (pTis
e pT1a, Early Gastric Cancer), in
assenza di invasione vascolare o linfatica.

Nei restanti casi, viene impiegata la gastrectomia:


• Totale: nei quadri di linite plastica, nei tumori localizzati al terzo superiore e medio dello stomaco
o in tutti i casi di sospetto intraoperatorio di margine prossimale a rischio al fine di garantire adeguati
margini di resezione

• Parziale/sub-totale: riservata a tumori del terzo inferiore (⇒ antro) dello stomaco, seppur con un
ampio margine di resezione macroscopicamente libero da malattia (almeno 5 cm), che lascia in sede
il terzo prossimale del viscere.
Risulta fattibile, in alcuni casi, anche per le lesioni del terzo medio a condizione che il margine di resezione prossimale
macroscopicamente libero da malattia sia di almeno 3 cm per i tumori di tipo intestinale e di 5 cm in tutti gli altri casi.

A seguito della gastrectomia si procede alla ricostruzione della continuità digestiva: viene garantita
mediante ricostruzione esofago-digiunale su ansa ad Y secondo Roux (Roux-en-Y), che prevede:
1. Si confeziona un’anastomosi tra esofago o stomaco rimanente ed un’ansa digiunale
2. Si crea, poi, una seconda anastomosi tra quest’ansa e la prima ansa digiunale collegata al duodeno,
che veicola i succhi bilio-pancreatici, indispensabili per la digestione.
Tale tipo di ricostruzione è la più utilizzata e viene preferita anche in caso di
gastrectomia subtotale per il minor rischio di reflusso biliare rispetto o alla
gastro-digiunoanastomosi secondo Billroth 2.

Sinteticamente, dopo gastrectomia subtotale, lo stomaco può essere anastomizzato


anche direttamente al duodeno (secondo la tecnica definita Billroth I) oppure al
digiuno qualche decina di centimetri a valle dalla sutura duodenale (Billroth II).
Queste tecniche possono essere ritenute tecnicamente più agevoli (soprattutto la
seconda), poiché prevedono una sola anastomosi, ma presentano lo svantaggio
dell’afflusso biliare nel moncone gastrico, con i rischi della gastrite alcalina sopra
citati e specificatamente del reflusso biliare, capace di condizionare negativamente
la qualità di vita del paziente.
Al fine di superare questo svantaggio, si è diffuso il ricorso alla ricostruzione con
ansa esclusa a Y secondo Roux anche dopo gastrectomia subtotale.
Tale intervento, codificato per la gastrectomia totale, consente di allontanare
l’anastomosi esofago-digiunale (o gastro-digiunale appunto) dal punto in cui si
immette la bile nell’intestino: infatti, la prima o seconda ansa digiunale in
continuità con il duodeno suturato viene anastomizzata all’ansa alimentare dopo
almeno 40 cm dalla prima anastomosi cosicché la bile, per entrare a contatto con
l’esofago (o lo stomaco), dovrebbe, in maniera inverosimile, percorrere in senso
antiperistaltico e antigravitario tale distanza. Questa tecnica, benché preveda due
anastomosi e una ridotta superficie assorbente dell’intestino tenue (essa viene
calcolata solo a partire dal contatto con il secreto bilio-pancreatico), sembra
assicurare una migliore qualità di vita postoperatoria.

142
Per quanto concerne la tecnica chirurgica, l’approccio laparotomico rimane quello di scelta, anche se la laparoscopia ha mostrato, quando praticata
nei Centri di maggior esperienza ed elevato volume di attività, una egual efficacia in termini di sopravvivenza rispetto alla chirurgia open, a fronte di
un minor tasso di emorragie intraoperatorie, complicanze postoperatorie e durata della degenza.
Questo è vero soprattutto per la gastro resezione subtotale e nei casi di EGC residuo dopo resezione endoscopica, rimane invece da confermare se tali
vantaggi si possono applicare anche ai casi che richiedono una gastrectomia totale, ai tumori più avanzati e quando la linfoadenectomia D2 è
necessaria.

La procedura chirurgica contempla inoltre l'asportazione delle stazioni


linfonodali locoregionali, con finalità sia stadiativo-prognostica (con
almeno 16 linfonodi asportati) che terapeutica.
L'entità ottimale dell'estensione della linfoadenectomia è ancora oggetto di dibattito.
La classificazione maggiormente in uso distingue diverse tipologie di dissezioni linfonodali:
• D1: linfonodi perigastrici, della piccola e grande curvatura
• D2: D1 + linfonodi del tronco celiaco e delle sue branche
• D3: D2 + linfonodi del legamento epato-duodenale posteriore, pancreatici e periaortici.

La linfoadenectomia D2 con l'asportazione di almeno 16 linfonodi e


considerata l'attuale standard.
Questo perché è superiore alla D, mentre linfoadenectomie più estese non hanno prodotto vantaggi di
sopravvivenza, essendo però gravate da maggiori complicanze post operatorie.

A fronte dell'elevato tasso di recidiva


del K gastrico in stadio II e III operato
radicalmente (50%), negli ultimi anni
sono state implementate strategie
terapeutiche multimodali per
migliorare l’outcome chirurgico,
sebbene non esista un consenso globale
circa miglior approccio.
In questi casi è utile, prima di
procedere all’intervento chirurgico,
eseguire trattamenti poliCT
neoadiuvanti/perioperatori che
consentano il downstaging della
neoplasia, aumentando così la
possibilità di realizzare una chirurgia
radicale R0 e migliorare la sopravvivenza globale e libera da malattia.

Nei T4, per raggiungere una radicalità chirurgica, bisogna ricorrere ad una chirurgia allargata con l’intento di resecare, se tecnicamente possibile, le
strutture e gli organi adiacenti alla neoplasia.
Il 15-20% dei K gastrici avanzati, al momento della diagnosi, si presenta come una neoplasia che supera la sierosa ed infiltra gli organi contigui
(T4b).
Nel 75% dei casi l’infiltrazione è limitata ad un solo organo, nel 15-20% sono interessati due organi e nel 5-10% sono infiltrati tre o più organi
contigui.
Le resezioni più diffuse sono:
− splenectomia
− splenopancreasectomia distale
− resezione del colon trasverso
− resezioni epatiche (soprattutto del fegato sx)
− resezioni diaframmariche.

Infine, benché nei pz con malattia metastatica la gastrectomia non abbia prodotto benefici in sopravvivenza, un intervento chirurgico palliativo in pz
in stadio IV può essere considerato in presenza di sintomi intrattabili dipendenti da ostruzione, sanguinamento o perforazione.

143
b) Trattamento della malattia metastatica

La CT sistemica nel trattamento della neoplasia gastrica metastatica ha un esclusivo intento palliativo con una sopravvivenza mediana che,
nonostante gli avanzamenti terapeutici, supera con difficoltà i 12 mesi.

Terapia palliativa
− Posizionamento endoscopico di una protesi (stent): può essere utile nei casi di ostruzione correlata
alla neoplasia o a recidiva anastomotica per ripristinare la canalizzazione

− Gastrectomia palliativa: in caso di sanguinamento od ostruzione intrattabile per via endoscopica,


ma anche perforazione

− RT: può svolgere un ruolo nel controllo del sanguinamento e del dolore.

Complicanze e sequele degli interventi chirurgici sullo stomaco


Si dividono in:
• precoci (entro i primi 30 giorni dall’intervento):
− infezioni del sito chirurgico e ascessi intraddominali
− deiscenze anastomotiche
− emorragie intra ed extra-luminali
− occlusione intestinale
− fistole pancreatiche.

• tardive:
− Sindrome post-vagotomica
È determinata dalla denervazione splancnica secondaria alla vagotomia tronculare, che può
indurre discinesie biliari e disturbi motori e secretori del tenue e del colon.
In questi pz, la diarrea è sicuramente il disturbo più costante; essa può essere episodica
oppure presentarsi con scariche multiple di feci acquose, comunque generalmente
controllabile con antidiarroici

144
− Sequele metaboliche e nutrizionali
In genere un intervento di gastrectomia subtotale o totale nei primi mesi induce un calo ponderale (di circa il 10%) che si protrae
fino ai 3-6 mesi dopo la chirurgia.
Non può essere ritenuto fisiologico se si associa a disturbi metabolici, come l’anemia (soprattutto se severa) da malassorbimento di
ferro e vitamina B12 o la perdita di densità ossea da malassorbimento del calcio.

− Sindrome di tipo dumping


Sono caratterizzate da un rapido svuotamento gastrico secondario alla disregolazione
della contrazione pilorica e della distensione gastrica.
Esse possono riscontrarsi fino nei due terzi dei pz gastrectomizzati, ma solo nell’1-2%
dei soggetti esse costituiscono un serio problema clinico.
I sintomi precoci della sindrome sono dolore addominale e diarrea entro 30 minuti
dall’assunzione del pasto associati a debolezza, vertigini e tachicardia.
La comparsa di questa sintomatologia è mediata dalla risposta peristaltica
all’improvviso arrivo del bolo (soprattutto zuccherino) nell’intestino tenue,
all’incremento volemico e alla secrezione di ormoni (come insulina e noradrenalina).

La forma tardiva della sindrome si caratterizza invece 2 ore dopo il pasto con gli stessi
sintomi dell’ipoglicemia, per via del carico di glucosio rapidamente assorbito
dall’intestino tenue con inappropriata risposta insulinica.
Alla diagnosi di dumping syndrome si arriva mediante test provocativo con 50 grammi
di glucosio per bocca.
Le sindromi di tipo dumping, sia precoce sia tardiva, si instaurano dopo ogni procedura
che traumatizza (piloromiotomia) o rimuove il piloro, ma sembrano scomparire
spontaneamente con il tempo.

− Sindrome da ritardato svuotamento dell’ansa alla Roux


Sembra derivare dalla perdita di connessione elettrica dell’ansa anastomizzata
all’esofago o allo stomaco con il pacemaker duodeno-digiunale.

− Sindrome dell’overgrowth batterico o dell’ansa cieca


Sembra derivare dall’esclusione funzionale o dal rallentato transito nell’ansa esclusa dal tratto alimentare nella ricostruzione
di Roux o nell’ansa afferente della Billroth con eccessiva proliferazione batterica al suo interno.
La sindrome si presenta con dolore addominale, diarrea o steatorrea, anemia, perdita di peso e deficit vitaminici multipli.
Il trattamento è prettamente medico con somministrazione ciclica di antibiotici; diviene chirurgico solo se deriva da una stenosi
meccanica (come sotto specificato).

− Sindrome dell’ansa afferente (o del vomito biliare)


In qualche maniera simile alla precedente, è causata da un’ostruzione meccanica vera e
propria dell’ansa afferente (determinata da un errore tecnico, da una briglia aderenziale,
da un volvolo nel caso di ansa afferente eccessivamente lunga) e, quindi, è più tipica
dopo una ricostruzione di tipo Billroth II che dopo una Roux.
Essa è secondaria a una sovradistensione passiva dell’ansa afferente, che prima determina
epigastralgia, più spesso post-prandiale, poi vomito esplosivo e copioso di succo
biliare (senza alimenti) e con risoluzione della sintomatologia dolorosa.
Talora la sindrome si risolve spontaneamente, ma se persiste a distanza dall’intervento la
sua terapia in genere è chirurgica.

− Sindrome dell’ansa efferente


È del tutto simile a quella appena descritta, ma il vomito (per l’ostruzione meccanica che
“chiude” l’ansa digiunale subito dopo l’anastomosi) può essere anche alimentare.

− Gastrite alcalina
È un EC della riscostruzione secondo Billroth I e II.
Infatti, essa è dovuta al reflusso di succo bilio-pancreatico che, entrando a contatto con la mucosa del moncone gastrico, ne provoca
una flogosi cronica.
La mucosa dello stomaco, infatti, è molto sensibile all’azione irritante degli acidi biliari deconiugati e degli enzimi pancreatici che
alterano la barriera muco-epiteliale, con retrodiffusione di idrogenioni.
Quando sintomatica, essa si manifesta con dolore epigastrico a insorgenza irregolare e talora accentuato dai pasti e vomito biliare.
La diagnosi è essenzialmente endoscopica e bioptica.
Il trattamento medico, non sempre efficace, si avvale di farmaci chelanti i sali biliari, properistaltici, antiacidi e gastroprotettori.
La ricostruzione con ansa a Y secondo Roux ne rappresenta la migliore modalità di prevenzione o la soluzione chirurgica
definitiva: la diffusione di questo tipo di ricostruzione soprattutto nei Paesi occidentali ha reso meno frequente la gastrite alcalina.

145
LESIONI FOCALI EPATICHE
Sono lesioni circoscritte, definite e ben identificabili che si sviluppano nel contesto del parenchima
epatico.

Classificazione
a) Benigne:
− emangioma
− iperplasia nodulare focale
− adenoma epatocellulare
− cisti biliari semplici e cisti da echinococco
− macronodulo rigenerativo: rappresenta una lesione caratteristica della cirrosi
− nodulo displasico
− cistoadenoma

b) Maligne:
− Metastasi: sono molto più frequenti rispetto ad una neoplasia epatica primitiva.
Il fegato è un organo altamente vascolarizzato e quindi particolarmente predisposto allo sviluppo di lesioni metastatiche, in
particolare derivanti dagli organi tributari del sistema portale, per cui appunto il fegato rappresenta il primo organo filtro

− EpatoK: rappresenta il 90% delle lesioni focali epatiche maligne primitive

− ColangioK: restante 10%

− Tumori misti primitivi


− Emangiosarcoma
− CistoadenoK.

In particolare, va sottolineato che la coesistenza di un danno epatico cronico condiziona relativa frequenza
delle lesioni, modalità di presentazione e chances terapeutiche:
➢ Nel contesto di un fegato cirrotico:
• le lesioni metastatiche sono eccezionali: un fegato fibrotico ostacola l’impianto di cellule provenienti dal circolo, sia per
lo sbilanciamento tra flusso arterioso e portale (si parla di flusso portale epatofugo) che per il microambiente flogistico
• l’adenoma epatocellulare e l’iperplasia nodulare focale sono molto rare
• il macronodulo rigenerativo è parte essenziale del processo cirrotico
• l’emangioma, raro nel soggetto adulto epatopatico, presenta caratteristiche particolari: piccolo e con
vascolarizzazione atipica

• più del 50% delle lesioni focali che si sviluppano in un fegato cirrotico sono benigne, ma di fatto
tutte le lesioni riscontrate in un fegato cirrotico devono essere considerate maligne fino a prova
contraria, in relazione al fatto che la cirrosi rappresenta un fdr importante per lo sviluppo di HCC

• la cirrosi è sicuramente il fdr principale per epatoK

• in un contesto di cirrosi, TC ed RM permettono di stabilire con certezza la natura maligna di un


nodulo

➢ // sano:
• si ha frequente riscontro di lesioni focali epatiche in età adulta
• nella maggior parte dei casi (70%) sono di natura benigna (anche in pz con anamnesi oncologica positiva)
• spesso il riscontro è incidentale (in pz asintomatico) in seguito ad ecografia addominale per altri motivi

• prestare attenzione ad una falsa diagnosi di benignità.


Questa può erroneamente rassicurare il pz, rendere superfluo il follow-up e determinare il fatto che non venga richiesto un esame di
conferma.

146
Per evitare questo problema, è necessario:
− ritenere affidabili soltanto le diagnosi eseguite da centri di alta esperienza
− mantenere un elevato indice di sospetto di malignità se la lesione è atipica o in un
contesto epidemiologico ad elevato rischio di malignità (ad es. Giappone in cui HCC ha
incidenza di 50-60 casi su 100.000 abitanti all’anno; incidenza analoga si riscontra a
Brescia e a Napoli)
− in presenza di lesione atipica con fdr per malignità è d’obbligo eseguire esami di conferma:
o TC se il pz aveva eseguito ecografia
o RM se il pz aveva eseguito TC
o follow-up nell’arco di un breve intervallo di tempo.

Il fattore tempo è un elemento importante ma non di valore assoluto per definire la natura di una
lesione, questo perché non tutte le lesioni maligne presentano una stessa modalità di crescita nel tempo.
Occorre pertanto tener conto di una serie di fdr per neoplasia epatica maligna:
• sesso M
• età avanzata
• presenza di sintomi
• anomalie agli esami ematochimici
• consumo di alcol: 40g di alcol al giorno per 10 anni nell’uomo e per 5 anni nella donna
• epatopatia cronica.

Nell’approccio terapeutico alle lesioni focali epatiche benigne è necessario:


▪ evitare una chirurgia non necessaria in pz asintomatici ⇒ evitare over-treatment
▪ evitare di ritardare il trattamento di lesioni maligne misconosciute ⇒ evitare under-treatment
▪ tener conto della sintomatologia del pz per migliorare la qualità di vita
▪ prendere in considerazione un trattamento preventivo, se la lesione presenta un alto rischio di
evoluzione sfavorevole (⇒ emorragia, infezione, degenerazione maligna)

LESIONI BENIGNE
a) CISTICHE (con contenuto liquido)

➢ Cisti biliari semplici


Sono formazioni normalmente congenite, spesso multiple.
Prevalenza del 5%, più frequentemente interessano il sesso F intorno alla quinta decade.
Dal punto di vista patogenetico, derivano da un abnorme sviluppo di dotti biliari intraepatici.
Non contengono bile e non comunicano con il distretto biliare, ma in esse si riscontra una sostanza di colore chiaro simile al siero.

Clinica: lesioni asintomatiche riscontrate incidentalmente, con aspetto tipico all’imaging (⇒ lesioni
anecogene con rinforzo di parete posteriore all’ecografia e ipodense alla TC).
Complicanze: rare
• emorragia intracistica
• fistolizzazione endobiliare
• infezione
• sintomatologia compressiva per cisti di dimensioni importanti.

Trattamento: le cisti asintomatiche non vanno trattate indipendentemente dalle dimensioni.


Al contrario, in caso di cisti sintomatiche si procede dapprima con aspirazione del contenuto cistico,
il quale permette di verificare che:
− la cisti non contenga bile: visto che tra le possibili complicanze vi è la fistolizzazione biliare è fondamentale verificare
che tale complicanza non si sia verificata prima di eseguire la scleroterapia, al fine di non iniettare alcol nel distretto biliare

− la sintomatologia del pz fosse imputabile alle dimensioni della cisti stessa.

147
Successivamente si può procedere con trattamento definitivo, che può essere contemporaneo o differito
rispetto allo svuotamento:
▪ scleroterapia con alcol: l’alcol disidrata l’epitelio della cisti, che quindi sarà meno propensa alla produzione di liquido.
È poco invasivo ma si può fare solo in casi selezionati, non funziona per cisti di grandi dimensioni ed è meno usato rispetto al passato.

▪ fenestrazione laparoscopica: per cisti voluminose o affioranti.


Si asporta il tetto della lesione cistica, si svuota il suo contenuto e con il bisturi elettrico si coagula l’epitelio della parete.

➢ Cisti da Echinococco
È conseguente all’infezione da parte del parassita Echinococco granuloso, responsabile della malattia
idatidea, più comune in soggetti impiegati nell’ambito della pastorizia.
Dal punto di vista epidemiologico in Italia tale infezione era tipica intorno agli anni ’60 nelle zone rurali della Sardegna, mentre ad oggi più
frequentemente interessa zone quali Egitto, Marocco, Tunisia, ovvero Paesi in via di sviluppo con scarse norme igieniche.

AP: presentano una parete propria di natura epiteliale, la quale viene circondata da una parete
fibrosa di natura reattiva (⇒ pericistio).
Di fatto tali cisti possono presentare diversi gradi maturazione:
• cisti semplici: molto simili alle cisti biliari
• cisti con membrane che aggettano all’interno della cavità cistica
• cisti contenenti cisti figlie
• cisti non più vitali presentano aspetto raggrinzito o calcifico.

Nel caso in cui la cisti da Echinococco si rompa, può andare a colonizzare l’albero biliare con possibile
insorgenza di reazioni allergiche anche gravi.

Trattamento: prevede un approccio chirurgico radicale ⇒ cisto-peri-cistectomia a cisti semichiusa,


ovvero la cisti viene asportata in toto seguendo il margine del pericistio, premurandosi di rimuovere
anche tutte le eventuali cisti figlie.
Va però sottolineato che ad oggi raramente le cisti da Echinococco vengono trattate chirurgicamente, in
quanto si ha a disposizione una valida terapia medica a base di albendazolo.

b) SOLIDE

➢ Emangioma
Rappresenta la più comune lesione focale epatica solida benigna del fegato (complessivamente è la
seconda più frequente dopo le metastasi), con prevalenza del 5% della popolazione e rapporto F:M = 6:1
e riscontro nel 70% dei casi tra i 30-50 anni.

Ezio-patogenesi: si ipotizza un ruolo degli ormoni femminili, supportato da:


− dati clinici: maggiore prevalenza e dimensioni nel sesso F, incremento del diametro in gravidanza e in corso di terapia ormonale
− dati sperimentali: riscontro a livello dell’angioma di recettori per gli estrogeni.

Clinica: generalmente asintomatica.


La presenza di sintomi può verificarsi in caso di: diametri importanti, sviluppo in determinate sedi,
crescita con pattern esofitico (verso la cavità addominale).
Il sintomo prevalente è rappresentato dal dolore, che può essere conseguente a:
− compressione delle strutture adiacenti
− distensione della capsula glissoniana.

Tuttavia, se in un pz con angioma si riscontra dolore, occorre escludere prima altre cause (ad es.
gastrite, colelitiasi…) al fine di evitare over-treatment.

L’emangioma non ha alcun potenziale di trasformazione maligna.

148
Nel corso della sua storia naturale un angioma può:
• rimanere stazionario (50% dei casi)
• andare incontro ad involuzione (25%)
• aumentare di volume (7%)
• andare incontro a complicanze (5% delle indicazioni chirurgiche): in particolare viene citata la
sindrome di Kasabach-Merritt, caratterizzata da: trombocitopenia, CID, emorragia sistemica

• andare incontro a rottura (3%): ad elevata mortalità.


Fattori predittivi: esecuzione di agobiopsia, lesione in accrescimento, crescita esofitica, lobo sx.

Diagnosi: non deve essere effettuata mediante FNAC.


È facile se l’angioma all’imaging radiologico presenta aspetto tipico (in tal caso non sono necessari ulteriori
accertamenti diagnostici): lesione iperecogena omogenea < 4cm, con globular enhancement.

Non è però raro il riscontro di angiomi con aspetto atipico, di fronte ai quali è obbligatorio eseguire
indagini di approfondimento.

Trattamento: nella maggior parte di casi non si interviene chirurgicamente.


Viene sottolineato che la scelta di non intervenire sul pz asintomatico deriva dal fatto che la possibilità di andare incontro ad eventi avversi in
seguito a trattamento conservativo è sovrapponibile ai possibili EC di una chirurgia.

Indicazioni alla chirurgia:


− pz sintomatico
− complicanze
− diagnosi incerta
− volontà del pz.

In ogni caso, nei pz non operati è sempre necessario un programma di sorveglianza, con esame di
conferma quale la RM dopo 3 mesi (perché spesso si ha a che fare con donne in età fertile in cui è bene evitare l’esposizione a
radiazioni) e poi un controllo annuale anche ecografico.

➢ Iperplasia nodulare focale (FNH)


Rappresenta la seconda lesione solida benigna più frequente dopo l’emangioma.
Prevalenza dello 0,3-3%, con rapporto F:M = 10:1.
Deriva da una malformazione vascolare che dà luogo ad un’iperperfusione epatica, a cui consegue
una risposta rigenerativa secondaria nel fegato.
FNH non ha alcun potenziale di trasformazione maligna.
L’associazione con l’assunzione di ormono-terapia è biologicamente possibile, ma non stabilita.

Clinica: generalmente asintomatica, tuttavia circa un quarto dei pz presenta sintomi da compressione e
distensione.
Nella sua storia naturale FNH può rimanere stabile, andare incontro ad involuzione o ad un
accrescimento lento. Le complicanze quali rottura ed emorragia sono rare.

Diagnosi: la TC rappresenta il gold-standard per la diagnosi ⇒ lesione solida isodensa rispetto al


parenchima circostante, spesso con scar centrale di forma stellata ed inappropiata larga arteria.

Trattamento: resezione chirurgica solo in caso di importante sintomatologia o dubbio diagnostico


rispetto alla DD con adenoma epatocellulare.
Follow-up nei pz non operati analogo a quello per emangioma.

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➢ Adenoma epatocellulare
Lesione rara, con incidenza di 1 caso su un milione di soggetti adulti all’anno, con rapporto F:M = 9:1.
Generalmente riguarda donne in età fertile con assunzione prolungata di terapia estroprogestinica,
Altri fdr: malattie metaboliche (DM, glicogenosi, emocromatosi), malattie vascolari, obesità, PCOS, ormono-terapia, uso di steroidi
anabolizzanti e barbiturici.

Si presenta come una lesione epiteliale priva di capsula, con frequenti aree emorragiche e dotti biliari quasi sempre assenti.

Classificazione AP:
• adenoma epatico con HNF-1 inattivato (adenoma steatosico): in genere ad andamento
indolente
• // con  catenina attivata
• // infiammatorio: correlato ad alterazioni dell’amiloide sierica e della PCR
• // non classificato.

Le forme con  catenina attivata e infiammatoria presentano un maggior rischio di evoluzione maligna e
sanguinamento.

Clinica: riscontro spesso incidentale, sebbene nel 30% dei casi sintomi correlati a: compressione, rottura
o emorragia.
Fdr per complicanze: diametro > 4cm, crescita esofitica, lobo sx, obesità.

È fondamentale sottolineare che sussiste un rischio di trasformazione maligna nel 5% dei casi.
Fattori predisponenti: sesso M, lesione > 5cm, sottotipo con  catenina attivata ⇛ chirurgia
profilattica.

Diagnosi: non è sempre facile la DD tra adenoma epatico, iperplasia nodulare focale ed HCC ⇛ si
ricorre a RM.
Reperti tipici:
− contenuto adiposo
− enhancement periferico in T2
− netto enhancement in fase arteriosa con wash-out tardivo.

Trattamento:
▪ Sospensione terapia estro-progestinica
▪ Resezione chirurgica per adenomi sintomatici o complicati
▪ La possibilità che un adenoma possa sanguinare fa sì che in alcuni casi il pz si presenti in urgenza:
così come in caso di complicanze emorragiche di altre lesioni neoplastiche epatiche, si esegue
embolizzazione seguita dopo 4-6 settimane da resezione chirurgica.

150
CARCINOMA delle VIE BILIARI
Rappresenta l’1% di tutte le neoplasie, con massima incidenza oltre i 65 anni.
La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è pari complessivamente al 20%.

Fdr: causano infiammazione e colestasi:


• Parassiti epato-biliari (la maggior incidenza si riscontra in Thailandia dove vi è una presenza massiccia di parassiti fluviali
introdotti con il pesce crudo o poco cotto)
• Colangite sclerosante primitiva
• Malformazioni cistiche del tratto biliare
• Epatolitiasi
• Tossine

• Altri fdr: cirrosi, epatite cronica da HBV e HCV, obesità, DM e alcol.

Istotipo
Per oltre il 90% sono adenoK ben o moderatamente differenziati.

Classificazione AP
➢ ColangioK Intraepatici (ICC, 10%): comprendono T
localizzati dalle più piccole ramificazioni intraepatiche fino ai
dotti biliari di dx e sx, senza coinvolgere la biforcazione biliare.
Più precisamente, son T localizzati prossimalmente ai dotti biliari di secondo ordine.

➢ // extraepatici Peri-ilari (PCC, 60%): comprendono sia il


tumore di Klatskin (forma più frequente, che insorge a livello
della biforcazione biliare) sia i T che per il loro trattamento
richiedono l’asportazione chirurgica della sella biliare (anche se
questa non risulta direttamente coinvolta).
Più precisamente, son T localizzati in sede extra-epatica nella zona compresa tra i dotti
biliari di secondo ordine e l’impianto del dotto cistico.

➢ Extraepatici distali (30%): comprendono T localizzati nella


via biliare extraepatica che non coinvolgono direttamente la
sella biliare e che non richiedono la sua asportazione chirurgica.
Più precisamente, son T limitati alla zona extraepatica tra l’origine del dotto cistico e la papilla di Vater.

Per i colangioK intra-epatici esiste inoltre un’ulteriore classificazione


morfologica proposta da uno studio giapponese:
• Mass-forming (80-85%): determinano la formazione di un nodulo (o noduli
multipli) di dimensioni variabili e di consistenza dura

• Periduttale-infiltrativo: il tumore si presenta come un ispessimento


circonferenziale intorno ai dotti

• Intraduttale: talvolta può essere difficilmente diagnosticata per le sue piccole


dimensioni e tende a dare segno di sé per l’ostruzione biliare e la conseguente
dilatazione dell’albero biliare a monte

• Forma mista (mass forming e periduttale-infiltrativa).

I tumori biliari intraepatici possono inoltre percorrere le vie biliari fino ad interessare le vie extraepatiche.

151
Per i tumori extra-epatici esiste una classificazione francese che li
suddivide in tre gruppi a seconda della localizzazione a livello di: terzo
prossimale, medio e distale della via biliare extraepatica.

Clinica
È sintomatica solo negli stadi avanzati, con:
• Ittero ostruttivo ⇛ urine ipercromiche e feci ipo/acoliche
• Prurito generalizzato da colestasi
• Dolore subcontinuo all’ipocondrio dx
• Nausea e vomito
• Anoressia e calo ponderale

Diagnosi
• Anamnesi ed EO

• Esami ematochimici:
− Test di funzionalità epatica: aumento indici di colestasi, bilirubina e danno epatico

− Marker tumorale CA 19-9: più utile per il follow-up

• Eco addome: è l’esame di prima scelta in caso di ittero ostruttivo.


In questi casi, di solito rivela dotti biliari intraepatici dilatati; il dotto extraepatico può essere collassato se il tumore è alto (come nel
tumore di Klatskin).
Una massa tumorale può essere osservata nella metà dei casi come una lesione iperecogena.
L’assenza di dilatazione dei dotti biliari intraepatici suggerisce una diagnosi alternativa, come ittero farmaco-correlato

• TC: utile per diagnosticare il livello di ostruzione e permette una diagnosi specifica nella maggior parte dei casi

• Colangio-RM: offre i migliori risultati nelle forme peri-ilari e distali, nella definizione anatomica dell’albero biliare e dei suoi rami
potati, dell’infiltrazione delle strutture vascolari all’ilo, spesso sottostimato dalla TC.

In particolare, la presenza di stent biliari (inseriti per trattare l’ittero) può compromettere la capacità diagnostica di RM e rendere
difficile la DD, che potrà essere fatta solo a livello intraoperatorio.

• CPRE: ha un ruolo prevalentemente operativo; brushing citologico solo nei casi dubbi.

Terapia
Una resezione completa con margini negativi rimane l’unico potenziale trattamento curativo per i pz con
malattia approcciabile per intervento chirurgico.

Fattori prognostici negativi:


• Tumore peri-ilare, mentre prognosi migliore per i tumori distali e intraepatici
• T scarsamente differenziato
• N+
• T avanzato
• Invasione vascolare
• Margini positivi del pezzo resecato.

Il drenaggio endoscopico è indicato nella palliazione dell’ittero dei soggetti inoperabili; sono preferiti gli stent metallici ricoperti (che
impediscono l’ingrowth, ovvero l’infiltrazione neoplastica fra le maglie dello stent e la successiva occlusione).
Rischi del drenaggio palliativo: lesioni iatrogene delle vie biliari con o senza sanguinamento (emobilia), colecistite, pancreatite.

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In caso di insuccesso endoscopico si procede al drenaggio percutaneo transepatico (PTD) con guida ecografica e radiologica.
Il drenaggio può essere solo esterno con l’estremità del catetere che non supera la stenosi e drena tutta la bile prodotta in un sacchetto di raccolta,
interno-esterno o passante quando l’estremità del catetere supera la stenosi e pesca nel duodeno dopo aver superato la papilla.
In questo caso il sacchetto esterno non è necessario, il catetere può essere chiuso favorendo il passaggio della bile in duodeno.
Il drenaggio ottimale è quello interno, ovvero l’endoprotesi, in tutto simile a quella posizionata con l’endoscopia, con i fori a monte e a valle della
stenosi.
In caso di difficoltà a far progredire l’endoprotesi si può ricorrere a una manovra combinata o rendez-vous: il radiologo interventista fa passare una
guida metallica in duodeno che viene pescata dall’endoscopista e utilizzata per l’eventuale sfinterotomia e il posizionamento dello stent.

COLANGIOK INTRA-EPATICO
Si presenta più frequentemente come un nodulo duro (mass forming).

Secondo un’ipotesi il colangioK intra-epatico e l’epatoK potrebbero avere un’istogenesi unitaria, cioè con partenza dalle stesse cellule staminali
pluripotenti.
Questa considerazione nasce dal fatto che in alcuni casi è possibile avere una coesistenza di entrambi i tumori e che in alcuni pz operati di epatoK si
sia sviluppato a distanza di tempo un colangioK.

Dal punto di vista epidemiologico, bisogna ricordare che l’incidenza di questo tumore in un contesto di cirrosi HBV o HCV correlato è bassa,
soprattutto se paragonata a quella dell’epatoK (80% associato a cirrosi).
Dato che la maggior parte del parenchima è sano, i valori di transaminasi e bilirubina sono spesso normali e per tale motivo risulta fondamentale
l’imaging.
Difficilmente è possibile fare una diagnosi precoce per questo tumore perché i pz non sono sottoposti a screening non essendo pz cirrotici.

Dal punto di vista istologico, attualmente, non esiste la possibilità di distinguere in modo certo ed accurato un colangioK da un tumore metastatico
perché non esiste un marker specifico per la proliferazione delle cellule dei dotti biliari.
Si tratta comunque di adenoK perché originano da epitelio ghiandolare, così come lo sono le M dei tumori del colon (nettamente prevalenti).
Qualora il patologo non riuscisse a determinare la primitività della lesione, è necessario escludere la secondarietà grazie alla RM (già eseguita dal pz)
ed eventualmente gastroscopia e colonscopia.

Metastasi
A differenza dell’epatoK (che tende a disseminare soprattutto per via
ematica infiltrando i rami della v. porta), il colangioK può dare M per
via ematica, ma anche per via linfatica e per via endobiliare.
Può portare inoltre alla formazione di noduli satelliti.

La disseminazione per via linfatica è una caratteristica peculiare


(particolarmente rara per l’epatoK), tanto che la linfoadenectomia
(con asportazione dei linfonodi del peduncolo epatico) è generalmente
raccomandata.
Bisogna però prestare particolare attenzione in un pz cirrotico perché
il rischio di ascite postchirurgica è particolarmente elevato (44%).
Il rischio di metastasi linfonodale è relativamente indipendente
dalle dimensioni del tumore e per tale motivo l’indicazione per la linfoadenectomia dovrebbe essere posta prescindendo dalla T.

Intervento chirurgico
Prevede una resezione epatica estesa in associazione a dissezione linfonodale (solitamente non eseguita per il trattamento di epatoK né di M).
Per quanto riguarda il margine di resezione, l’indicazione è quindi di asportare completamente la lesione tenendo un minimo di margine
macroscopico di sicurezza.

La CT neoadiuvante rappresenta un argomento dibattuto: alcuni la propongono soprattutto in presenza di lesioni evolutive o lesioni extraepatiche di
dubbia origine (per valutare la reale necessità di un trattamento chirurgico più che per rafforzarlo).

153
COLANGIOK PERI-ILARE (di Klatskin)
È localizzato a livello della biforcazione biliare (alla confluenza dei dotti epatici dx e sx), in corrispondenza dell’ilo
epatico.
La maggior parte dei pz presenta alla diagnosi metastasi linfonodali (45%) o a distanza (25%): per tale
motivo l’obiettivo primario nella maggior parte dei pz è quello di trattare l’ostruzione biliare.

La classificazione di Bismuth-Corlette suddivide i colangioK peri-ilari in


base all’estensione endo-canalicolare della neoplasia:
I. Tipo 1: neoplasia del dotto epatico comune senza interessamento della
sella biliare

II. // 2: con interessamento della sella biliare

III. // 3: risale uno dei due dotti biliari:


− IIIa: dx
− IIIb. sx

IV. // 4: risale entrambi i dotti biliari.

Si tratta di una classificazione superata: la scelta del trattamento chirurgico, infatti, non può basarsi
unicamente sull’estensione endocanalicolare del tumore, ma deve tener conto anche di altri elementi come il
coinvolgimento dei vasi e la presenza o meno di atrofia del lobo epatico interessato.

Per quanto riguarda la diagnosi, la problematica principale è legata alla DD con altre condizioni come
granulomi e calcoli biliari.

Trattamento standard
Prevede generalmente resezione del tratto biliare coinvolto, resezione
epatica maggiore con asportazione del lobo caudato, linfoadenectomia regionale ed eventualmente
resezione portale.

Intervento chirurgico:

▪ In caso di localizzazione tumorale nell’area indicata


con il numero 1, è teoricamente possibile un
intervento di escissione locale della via biliare fino al
margine superiore duodenale.

Se il tumore interessa la biforcazione, questa dovrà


essere rimossa e si effettueranno quindi due
anastomosi (non più una) con un’ansa intestinale.

▪ In caso di estensione intraepatica del tumore (nell’immagine è


coinvolto il dotto epatico dx), si esegue un’epatectomia dx, con
rimozione della via biliare di dx e di quella extraepatica, e successiva
anastomosi del dotto epatico di sx con un’ansa intestinale.
È inoltre prevista la rimozione del lobo caudato.

Prima di sezionare, è fondamentale accertarsi sull’operabilità della


lesione, valutando che la v. porta non sia infiltrata e che la porzione di
fegato salvabile sia quantitativamente e qualitativamente accettabile.
Si procede con la dissezione degli elementi vascolari a livello ilare e la resezione del parenchima.
Si conclude infine con l’anastomosi della via biliare con un’ansa intestinale.

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In caso di positività del margine di resezione all’estemporanea, sarà necessaria una resezione più
prossimale.
Il fatto di avere un margine positivo non significa che il pz svilupperà necessariamente una recidiva locale (come ci si aspetterebbe).
Le recidive sviluppate da questi pz, inoltre, sono prevalentemente sistemiche mentre un coinvolgimento del margine della resezione è più frequente
per tumori avanzati (con N+).
La presenza di un margine positivo, dunque, non è l’espressione di un intervento chirurgico tecnicamente inadeguato ma della presenza di una
malattia biologicamente avanzata.

Per quanto riguarda le metastasi linfonodali, un parametro importante da considerare è l’N ratio, ossia il rapporto tra i linfonodi metastatici
individuati e il totale dei linfonodi asportati: in caso di tumori con N ratio molto basso (1-2 linfonodi positivi) si può osservare come la prognosi a 3
anni sia quasi sovrapponibile a quella di pz N0.
Per tale motivo può non essere ragionevole negare l’intervento chirurgico ad un pz solo per l’identificazione di un linfonodo metastatico
(macroscopicamente evidente) a livello dell’ilo epatico.

Criteri di non resecabilità:


 Condizioni cliniche del pz:
− incapacità di tollerare l’intervento chirurgico
− cirrosi

 Fattori locali:
− T tipo IV della classificazione di Bismuth-Corlette
− imprigionamento od occlusione della v. porta prossimalmente alla sua biforcazione È importante che la porzione di fegato
− atrofia di un lobo epatico e v. porta controlaterale occlusa risparmiata dalla resezione presenti un
− atrofia di un lobo epatico e interessamento controlaterale delle radici biliari secondarie adeguato flusso arterioso e venoso
− invasione dell’a. epatica controlaterale al lobo da rimuovere portale in entrata e un flusso venoso in
− carcinosi peritoneale uscita.

 Metastasi:
− metastasi linfonodale istologicamente comprovata
− metastasi al polmone, fegato o peritoneo.

Chirurgia conservativa
In assenza di interessamento della sella biliare e della porzione intrapancreatica, si potrebbe pensare ad una resezione della sola via biliare.
Nel caso di un coinvolgimento della sella biliare sarebbe comunque possibile effettuare una resezione centroepatica, anastomizzando le bocche biliari
periferiche ad un’ansa intestinale.
Diversi studi mostrano però come la sola resezione biliare raggiunga in pochi casi la resezione completa (R0) e inoltre si associa ad una
sopravvivenza inferiore.
Dunque, l’approccio chirurgico conservativo si associa ad un rischio operatorio inferiore, a fronte di risultati a distanza peggiori.

Infiltrazione portale
Il coinvolgimento del solo ramo di dx o sx è compatibile con una resezione
chirurgica, a patto che si rimuova anche il lobo epatico di dx o di sx.
In questo caso, però, non parliamo di un coinvolgimento di tipo trombotico, bensì
di un’infiltrazione marginale della porta.
Bisogna fare molta attenzione perché quello che sembra essere un’infiltrazione
neoplastica spesso è una reazione fibrotica (soprattutto se è stata eseguita una CT
preoperatoria) e perciò si corre il rischio di considerare la lesione come se fosse
un’estensione neoplastica (quando invece non lo è) e abortire l’intervento.

Alcuni chirurghi tedeschi hanno proposto che anche solo in caso di sospetta
infiltrazione della biforcazione portale per vicinanza del tumore, è necessario
intervenire con resezione vascolare della sella portale e reanastomosi: questo tipo
di approccio radicale (no touch technique) non è stato particolarmente seguito
dai chirurghi orientali, che adottano invece un approccio più selettivo dove non si
fa la resezione di principio ma solo in casi selezionati e quando risulta
potenzialmente curativa (non ha senso effettuare la resezione solo a scopo
palliativo, quando per esempio vi sono altre condizioni sfavorevoli come metastasi
linfonodali diffuse).

155
Infiltrazione dell’a. epatica
Si presta raramente ad un atteggiamento resettivo: l’arteria epatica è circondata da un plesso linfatico e perineurale che rappresenta una delle
principali vie di diffusione del tumore.
L’intervento viene quindi abortito in caso di infiltrazione dell’a. epatica propria o dell’a. epatica del lobo che dovrebbe essere risparmiato; se invece
l’a. epatica interessata corrisponde al lobo da rimuovere è possibile effettuare la resezione.

Drenaggio biliare pre-operatorio


Si è sempre pensato che operare un pz itterico fosse particolarmente rischioso dal momento che l’ittero è indicativo anche di un’alterata funzionalità
epatica. Perciò si è sempre ritenuta una necessità clinica il fatto di detendere l’ittero come fase preliminare all’intervento chirurgico, soprattutto in
soggetti con tumori pancreatici o delle vie biliari.
Studi prospettici hanno però evidenziato come il drenaggio biliare preoperatorio non ha nessuna valenza clinica.

Il posizionamento di una protesi per il drenaggio biliare si associa a diversi rischi:


 Positività colturale della bile: soprattutto se si sceglie la via endoscopica transpapillare.
La bactibilia rappresenta un importante fdr di complicanze settiche postoperatorie e può causare una deiscenza anastomotica

 Ridotta possibilità di guarigione spontanea della fistola biliare


 Maggiore rischio di emorragia intraoperatoria significativa (>500ml)
 Maggiore morbidità postoperatoria.

Il drenaggio è pertanto riservato a casi selezionati, con ittero particolarmente importante (⇒ bilirubinemia > 15mg/100ml), prurito intrattabile,
colangite.

Nei Paesi occidentali è previsto un approccio percutaneo con puntura dell’albero biliare, in cui il drenaggio deve oltrepassare il tumore per arrivare
in duodeno.

Embolizzazione portale
Consiste nell’occlusione per via percutanea radioguidata del ramo portale che supplisce il lobo epatico che si vuole resecare, al fine di aumentare
l’apporto ematico nel lobo controlaterale e indurne così un’ipertrofizzazione, permettendo di aumentare il volume di fegato residuo in seguito
all’intervento.

Il problema principale è legato al fatto che l’ipertrofia parenchimale risente dello stato settico, come in caso di colangiti ⇛ in questi casi
l’embolizzazione portale deve essere associata a drenaggio biliare efficace e controllo della sepsi.

COLANGIOK MEDIO-DISTALI
Sono trattati come se fossero dei tumori del pancreas o dell’area periampollare, eseguendo una duodeno-
cefalopancreasectomia.

Neoplasie ampollari
Insorgono sull’ampolla (o papilla) di Vater, una struttura di tipo sfinteriale su cui confluiscono il dotto pancreatico principale e la via biliare
principale; regola lo scarico del succo pancreatico e della bile nel duodeno.

L’area compresa entro i 2 cm di distanza dall’ampolla di Vater è definita regione periampollare.


Nonostante le piccole dimensioni, si tratta di un’area dall’architettura microscopica molto complessa in cui convergono l’epitelio del duodeno,
della via biliare e del dotto pancreatico, da cui possono originare diverse tipologie di neoplasie benigne (adenomi) e maligne: adenoK duodenale
(5%), colangioK della via biliare intrapancreatica (20%) e adenoK duttale del pancreas (50%).
In particolare, dal tessuto epiteliale proprio della papilla e dell’ultimo tratto del dotto pancreatico e biliare possono svilupparsi gli adenoK
dell’ampolla di Vater (25%), distinti in due sottotipi: intestinale e pancreatobiliare.
Clinica: simile a quella di un adenoK della testa del pancreas, ma con ittero ostruttivo ingravescente e precoce ⇛ diagnosi possibile quando la
neoplasia è ancora entro i limiti di resecabilità.

Diagnosi: EGDS con biopsia.

Terapia: la maggior parte degli adenoK dell’ampolla di Vater è resecabile mediante DCP con intento radicale, a causa della frequente diagnosi in
stadio precoce e della relativa lontananza dell’ampolla stessa dai vasi mesenterici superiori

156
CARCINOMA della COLECISTI
Rispetto ai tumori delle vie biliari, presenta due peculiarità:
• anatomia microscopica: la colecisti è l’unico organo del tratto GI senza sottomucosa.
In considerazione di ciò, è possibile classificare i tumori della colecisti in:
- Early: neoplasia limitata alla mucosa (T1a) o alla muscolare (T1b)
- Advanced: neoplasia estesa alla sottosierosa (T2) ed oltre (T3-T4)

• diagnosi: nella maggior parte dei casi il K della colecisti è individuato incidentalmente
dall’anatomopatologo sulle colecisti asportate a causa di calcolosi.
Il fatto che la diagnosi avvenga incidentalmente comunque non correla con lo stadio precoce del tumore: si è visto anzi come nel 75% dei
riscontri incidentali questi siano già ad uno stadio più avanzato T2-T3-T4.

Come mai non ci si accorge prima della lesione neoplastica?


La DD pre-operatoria non è semplice: molto spesso le forme neoplastiche early o l’infiammazione presente durante una colecistite cronica
associata a calcolosi possono essere confuse fra loro e per questo si possono creare dei problemi diagnostico/terapeutico importanti.
Risulta dunque chiaro come la diagnosi di K della colecisti, ancor più che in altri tumori, sia frequentemente fatta post-operatoriamente
(più di 1/3 dei casi).

L’associazione tra calcoli e cancro è pressoché assoluta, tanto che oggi la calcolosi della colecisti
rimane l’unico fdr ufficialmente riconosciuto, dal momento che 9/10 dei pz con tumore hanno
anche calcolosi.
Questo indubbiamente complica il problema della diagnosi e quello della terapia.
Innanzitutto, perché togliere la colecisti in un pz asintomatico è un atto molto discutibile: alcuni asseriscono che addirittura una colecisti
litiasica asintomatica non debba essere operata.
Tuttavia, è altrettanto vero che in un pz giovane, considerando l’estrema aggressività di questo tumore, operare nonostante non si rientri
strettamente nelle linee guida può avere senso.

Storia naturale
La lesione ha inizio con una metaplasia, che poi evolve in displasia fino alla trasformazione neoplastica in early cancer, in un periodo molto lungo
(12 anni circa).
Il passaggio tra early ed advanced cancer è invece molto breve (circa 2 anni), fino al decesso in 3-6 mesi.

Si noti che la maggior parte della storia naturale neoplastica è una fase asintomatica.
L’obiettivo è quello di cercare di intervenire nella storia naturale del cancro tra displasia ed early cancer, in modo da permettere alla chirurgia di
essere radicale.

Aspetti riguardo la stadiazione


• Parametro T:
− Difficile identificazione precoce, ma anche difficile identificazione intra-operatoria da un
punto di vista macroscopico (quello che al chirurgo sembra cancro può essere infiammazione e viceversa, quindi è
solo il dato microscopico che aiuta)

− Difficile identificazione all’estemporanea ⇛ necessità di esame AP accurato.


All’interno della stessa colecisti ci può essere una molteplicità di lesioni progressive nello stesso pz: ecco che la diagnosi
istologica in estemporanea fatta su uno o due prelievi) non è dirimente, potendo cogliere la malattia solo in una delle sue
diverse fasi.

• // N:
− similarmente al tumore delle vie biliari, capacità metastatica linfatica con interessamento
progressivo: se il primo linfonodo (il cosiddetto linfonodo cistico, posizionato vicino
all’infundibolo della colecisti) è negativo, è difficile che i linfonodi più lontani siano
metastatici

− diffusione angiolinfatica attraverso i vasi periportali (laddove si crei un blocco neoplastico per
alterazione linfatica, con infiltrazione retrograda del parenchima epatico)

157
Terapia chirurgica
Ha senso solo se in grado di essere radicale, con margini R0.
Nel trattamento del sospetto cancro della colecisti i più ritengono che la laparoscopia venga bandita, questo
perché la colecistectomia laparoscopica ha un tasso di perforazione della colecisti fino al 30%.

Dato che la diagnosi molte volte è fatta post-operatoriamente, è possibile che il pz necessiti di un
reintervento ai fini di ottenere una extended cholecistectomy, con resezione epatica e linfoadenectomia.
È indicata in tutti i pz con sospetto intra-operatorio o neoplasia > T1a in seguito a esame istologico.
Se ci sono M, nessun malato è vivo a 1 anno dall’intervento ⇛ non ha senso operare nel caso di M+.

Esistono anche controindicazioni allo svolgimento dell’extended cholecistectomy:


 In primis, alcuni ritengono questo trattamento esageratamente aggressivo su una malattia iniziale:
risulta pertanto necessario differenziare tra T1a e T1b, in cui il rischio di recidiva è maggiore

 La stessa obiezione a questo intervento può essere fatta per neoplasie a stadi avanzati, in quanto
questi malati hanno una mortalità a 1 anno del 90% dei casi.

Il campo di intervento migliore rimane in ogni caso il tumore nella fase intermedia (T2): in questo caso il
rapporto costo/beneficio è favorevole e la colecistectomia extended viene considerata il gold standard.

Ad oggi, tuttavia, ciò che rimane ancora dibattuta è la modalità di reintervento:


• Laddove il letto epatico non appaia infiltrato macroscopicamente, si può discutere se togliere la parte di fegato a contatto con la colecisti
o se si debba fare un intervento più esteso resecando il segmento IV e V.

• Per quanto riguarda la linfadenectomia, si procede con asportazione di tutti i linfonodi del peduncolo epatico, della parte posteriore
della testa del pancreas e di quelli lungo l’a. epatica comune.

Si ritiene che la linfadenectomia sia adeguata quando vengono asportati almeno 6 linfonodi (numeri ben lontani dai numeri della
gastrectomia e nel tumore del colon, ad es. 50 linfonodi).

• Per quanto riguarda la via biliare, questa va asportata solo in caso di: infiltrazione macroscopica, ittero e linfonodo positivo contiguo
alla via biliare principale

• Il reintervento ha senso se svolto precocemente (non più di 6-7 settimane dal primo intervento)

• Prima di reintervenire, oltre a fare una stadiazione (TC), va considerato lo stato di urgenza in cui è stato fatto il primo intervento: se
questo è stato fatto durante una colecistite acuta, ci si pone il dubbio dell’utilità di un reintervento.
La malattia neoplastica in presenza di uno stato settico, infatti, è difficilmente controllabile ed è probabile che si sia già diffusa durante il
primo intervento.

Prognosi
La sopravvivenza a 5 anni è complessivamente del 10%.

158
CARCINOMA EPATOCELLULARE (HCC)
Rappresenta il 3% di tutte le nuove diagnosi di tumore.
Ha incidenza particolarmente elevata nella provincia di Brescia, pari a quella di Paesi come Taiwan e
Giappone, noti per essere le regioni geografiche con il più alto tasso di incidenza al mondo.
Il sesso M è più colpito (M:F = 2:1), con maggiore incidenza dopo i 50-60 anni.
La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è complessivamente pari al 20%.

Fdr:
• Infezione cronica da HBV e HCV: rappresentano i principali fdr e sono responsabili di circa l’85% dei casi di HCC nel
mondo, con una prevalenza dell’epatite B in Asia ed Africa e dell’epatite C in Giappone e nel mondo occidentale.
La prevenzione primaria dell’HCC si effettua attraverso la vaccinazione contro l’infezione da HBV, che è raccomandata in tutti i neonati e
nelle popolazioni ad alto rischio e la messa in atto di politiche volte a ridurre il rischio di trasmissione interindividuale dei virus dell’epatite.
La terapia antivirale nei pz con epatite cronica da HBV e HCV è associata ad una diminuzione del tasso di progressione verso la cirrosi ed in
qualche caso, alla regressione della fibrosi, e quindi dovrebbe considerarsi una misura di prevenzione efficace per il tumore.
Nei pz con infezione cronica da HBV, tuttavia, l’HCC può anche svilupparsi su un quadro di epatite cronica, ed in questi pz il rischio di sviluppo
di K epatico non è completamente abolito, nonostante il controllo della replicazione virale.

• Cirrosi: cofattori di rischio di sviluppo di HCC sono: la coinfezione dei virus HBV ed HCV, genotipo C dell’HBV, genotipo 1b dell’HCV,
coinfezione da virus epatitici e HIV, valori di transaminasi costantemente e marcatamente elevati (oltre 5 volte i valori normali), DM.
Rispetto alla popolazione generale, l’infezione da singolo virus epatitico eleva il rischio relativo di sviluppo di HCC di circa 20 volte, mentre la
coinfezione HCV+HBV attivi produce un rischio relativo di circa 80 volte.
Nei soggetti con epatopatia cronica o cirrosi compensata, grazie al miglioramento della gestione delle complicanze della cirrosi, l’epatoK
rappresenta oggi la prima causa di morte.
Tali soggetti hanno infatti un’incidenza annuale di epatoK compresa tra l’1-8%, variabile in base all’eziologia e alla durata dell’epatopatia.

• Abuso di alcol

• Obesità, SM, DM: hanno come corrispondente epatico la malattia steatosica (NAFLD), che rappresenta
attualmente la più importante causa emergente di HCC nei paesi industrializzati

• Malattie metaboliche ereditarie: emocromatosi e deficit di α1-antripsina


• Tossine ambientali come l’aflatossina

Screening
Le considerazioni epidemiologiche suggeriscono che questa sia una neoplasia meritevole di screening.
Affinché uno screening abbia reale efficacia e sia favorevole nel rapporto costo-beneficio, devono verificarsi una serie di requisiti, che sono rispettati
dall’HCC:
- Elevata incidenza e mortalità della neoplasia ⇒ l’HCC è la quinta causa di morte per cancro, con incidenza in aumento
- Gruppi di soggetti a rischio identificabili ⇒ pz affetti da epatopatia cronica e/o cirrosi
- Disponibilità di terapia ⇒ l’HCC presenta diverse opzioni terapeutiche
- Disponibilità di test di screening incruenti, economici, facilmente ripetibili, con buon rapporto tra sensibilità (⇒ pochi FN) e specificità (⇒
pochi FP).

Tutti i pz con epatopatia cronica/cirrosi epatica e funzione epatica soddisfacente (classe A e B di Child-
Pugh) dovrebbero essere sottoposti a sorveglianza semestrale con ecografia dell’addome superiore per la
diagnosi precoce di HCC
Si ha un vantaggio diagnostico qualora il pz abbia un fegato “vergine” (senza noduli alla prima valutazione), perché si avrà a disposizione un
elemento di confronto in più per qualsiasi cosa venga poi rilevata ai successivi controlli.
Non tutto quello che cresce è maligno e non tutto ciò che è quiescente è benigno, ma in genere una lesione che non cresce per molto tempo permette
di stare relativamente tranquilli.

Il tempo di raddoppiamento delle cellule nodulari in un fegato cirrotico è sostanzialmente stabile e va dai 4 ai 6 mesi: questo dato è fondamentale
nello stabilire la cadenza dello screening tramite ecografia, permettendo di rilevare, in un’elevata percentuale dei casi, un HCC nella sua fase
precoce.
Questo screening/sorveglianza, tuttavia, non si traduce automaticamente in un miglioramento della sopravvivenza a distanza: molti dei pz al
momento dell’inserimento dello screening si presentano già in fase avanzata di cirrosi.

159
Non vi è invece indicazione al dosaggio dell’α-fetoproteina (marker tumorale elettivo per l’HCC, almeno per i Paesi
Orientali), data la bassa sensibilità e specificità di tale marcatore.
L’AFP è però un importante indicatore del rischio di sviluppare epatoK e va dosata in caso di riscontro di
una lesione focale epatica su cirrosi come complemento diagnostico e soprattutto prognostico, nonché per
monitorare l’andamento della malattia.
È una proteina sintetizzata dai tessuti fetali, che nell’adulto non si riscontra praticamente più (o al massimo a dosaggi infinitesimali).
Si è visto che i tumori epatici in Estremo Oriente si associano a livelli di α-fetoproteina molto più elevati rispetto a tumori analoghi di soggetti
presenti alle nostre latitudini, dove nel 50% dei casi, in realtà, i livelli di α-fetoproteina sono assolutamente normali.
Pertanto, la validità del test è messa molto in discussione soprattutto nei Paesi Occidentali.

Algoritmo di monitoraggio:
− Se non si rilevano lesioni sospette all’eco, controlli ogni 6 mesi

− I noduli ≥ 10 mm riscontrati all’ecografia (durante sorveglianza o alla diagnosi di cirrosi) vanno considerati
altamente sospetti per HCC ⇛ devono essere caratterizzati con TC con mdc o RM per una
diagnosi non invasiva di HCC.
Se non si raggiunge una diagnosi di certezza con le metodiche d’imaging, il nodulo deve essere
sottoposto a biopsia ecoguidata.
Qualora la biopsia non sia tecnicamente eseguibile o non risulti diagnostica per HCC, il nodulo dovrebbe essere monitorato trimestralmente
con l’ecografia e rivalutato periodicamente con RM, TC o CEUS, sottoponendolo nuovamente a biopsia in caso di aumento di dimensioni o
cambiamento dell’aspetto contrastografico, o comparsa di un nuovo nodulo.

N.B: la citologia agoaspirativa non dovrebbe essere impiegata per la caratterizzazione di un nodulo epatico in fegato cirrotico –
specialmente in caso di noduli ≤ 3 cm di diametro – perché non consente la valutazione delle caratteristiche architetturali fondamentali per
la diagnosi di HCC ben differenziato.

− I noduli ≤10 mm dovrebbero essere sottoposti a monitoraggio delle dimensioni ogni 3 mesi, fino
all’eventuale superamento della soglia di 10 mm.
Se dopo due anni il nodulo è rimasto immutato, si può tornare alla sorveglianza semestrale.

− La presenza di un nodulo epatico al di fuori del contesto di cirrosi richiede sempre una caratterizzazione istologica.

L’HCC è l’unico tumore in cui la letteratura accetta la diagnosi senza istologia: se la TC trifasica o la RM sono tipiche per HCC si accetta la
diagnosi anche solo con queste indagini strumentali.
TC e RM non si applicano subito ai noduli molto piccoli per due motivi:
• Nei pz cirrotici è abbastanza normale rilevare noduli di 7-8 mm ⇛ si spenderebbero troppe risorse per indagare tutti

• TC e RM usano come parametro la modalità di impregnazione con mdc, la quale dipende dalla vascolarizzazione.
Nel nodulo piccolo, però, questo non è possibile perché non ha ancora sviluppato una vascolarizzazione quasi esclusivamente arteriosa.

Identificazione pz a rischio HCC ⇒ pz con epatopatia cronica/cirrosi


• Anamnesi: ad es. indagare pregressa trasfusione, tatutaggi, promiscuità sessuale, abuso di alcol,
farmaci, droghe

• EO: ittero, manifestazioni cutanee come eritema palmare e


spider naevi, shunt porto-sistemici (con varici esofagee, gastriche,
plesso emorroidario e della parete addominale anteriore con caput medusae ),
ascite, splenomegalia, encefalopatia epatica (tipico il flapping
tremor)

Per quanto riguarda i segni clinici, essi dovrebbero allertare qualsiasi equipe
chirurgica non solo in quanto segni di sospetto HCC e patologia epatica
scompensata, ma anche perché l’epatopatia rappresenta un enorme fdr per
complicanze e mortalità intraoperatoria.
Un importante paradosso clinico è il fatto che gli interventi terapeutici come l’OLT e
gli shunt porto-sistemici sono ben tollerati dai pz epatopatici, mentre tutte le
operazioni del tratto GI sono associate ad un’allarmante percentuale di complicanze.

160
• Alterazioni esami ematochimici:
− Anemia macrocitica megaloblastica soprattutto se il danno è da alcool
− Leucopenia e piastrinopenia per ipersplenismo
− Aumento transaminasi (in particolare ALT)
− Allungamento INR
− Riduzione albuminemia

• Agobiopsia con ago sottile: è un esame sicuramente più valido, ma presenta comunque un’elevata percentuale di falsi negativi

• Laparoscopia esplorativa: permette di andare a visualizzare direttamente l’aspetto degli organi.

• TC/RM: permettono di osservare alterazioni morfologiche quali aree di ipotrofia o ipertrofia (tipicamente il lobo caudato), alterazione
dei margini che diventano irregolari e speculati, alterazione della trama epatica che diventa grossolana.
Il grande vantaggio della TC sull’ecografia è sicuramente il fatto che è più precisa e dinamica, ci permette inoltre di misurare il diametro
della vena porta, rende più semplice la valutazione di una coesistente splenomegalia, ascite, segni di ipertensione portale, e soprattutto
l’alterazione dell’ordinata distribuzione dei segmenti epatici che si presentano atrofici o ipertrofici

• Esame istologico: è l’unico che permette una diagnosi definitiva.

Iter diagnostico HCC


• Ecografia: è l’esame di primo livello.
Oggi è possibile utilizzare l’ecografia con mdc, simulando ciò che si valuta in TC.
Possibili limiti: obesità, meteorismo, esame operatore-dipendente.

L’ecografia consente solo di dire se sia presente un nodulo, sospetto per malignità o meno in base al contesto clinico.
Una malattia epatica cronica può essere sospettata per una serie di elementi, quali:
− Struttura epatica grossolana
− Margini irregolari
− Ipertrofia di alcuni segmenti epatici, specialmente il lobo caudato
− Vena porta dilatata
− Splenomegalia
− Vene sovraepatiche congeste
− Presenza di una minima quota di ascite.

Se ci sono i segni di una malattia epatica cronica di base, in relazione alle dimensioni del nodulo, al pz verrà fatto eseguire un esame di
secondo livello.

• TC con mdc: è l’esame di riferimento.


Rispetto all’ecografia, eccelle nella caratterizzazione del nodulo dal punto di vista della vascolarizzazione, tramite la somministrazione
di mdc e la visualizzazione in fase tardiva (ricordiamo le tre fasi della TC: arteriosa, portale e tardiva, cioè all’equilibrio).

L’HCC è identificabile radiologicamente grazie ad un comportamento tipico nelle diverse fasi


contrastografiche definito “wash-in, wash-out”: si osserva infatti un incremento del segnale in fase
arteriosa così che la lesione risulta maggiormente evidente rispetto al resto del fegato, seguito da una
riduzione in fase venosa/tardiva, così che la lesione appaia meno contrastata del parenchima
circostante.
La presenza di tale reperto e le dimensioni ≥ 10 mm in un fegato cirrotico permettono di porre
diagnosi di epatoK in assenza di accertamento istologico.
I cambiamenti di vascolarizzazione sono correlati alle dimensioni dei noduli e sono evidenziabili in una minoranza dei noduli ≤ 10 mm, nel
35% dei noduli < 2 cm, nel 7% dei noduli tra i 2-3 cm e nel 90% dei noduli > 3 cm.

L’informazione radiologica è inoltre importante per definire il successivo iter terapeutico e


l’operabilità del malato, sulla base di una serie di fattori:
− Dimensioni della neoplasia e sacrificio parenchimale: conta molto di più la quantità di tessuto che
rimane rispetto a quella che si toglie, importante per determinare la funzionalità del fegato dopo l’operazione, strettamente
correlata al volume di tessuto risparmiato.

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L’entità del sacrificio parenchimale che possiamo fare non dipende solo dalla lesione, ma anche dallo stato del tessuto epatico
stesso.
In un pz sano è possibile rimuovere fino al 60% del tessuto senza incorrere in una insufficienza epatica, se non
momentaneamente nella fase postoperatoria.
In un pz cirrotico asportare la stessa quantità di tessuto comporta un deperimento drastico della funzionalità epatica.

− Numero e sede, soprattutto in caso di lesioni secondarie o multifocali difficilmente operabili

− Rapporti con l’asse vascolare principale


− Individuazione dei peduncoli segmentari
− Eventuale infiltrazione cavale e trombosi portale

− Entità del fegato residuo (volume in cm³).

• RM con mdc epatospecifico: esame problem-solver (ossia deve essere utilizzata solo in casi particolari per colmare i
limiti della TC)

• Biopsia: solo per i noduli indeterminati

Criteri classici di indicazione chirurgica


• Età < 65 anni
• Nodulo unico
• Diametro < 5cm
• Assenza di ipertensione portale
• Bilirubina normale
• Child A.

Questi criteri inquadrano un tipo di pz ideale che difficilmente si incontra nella reale pratica clinica (non più del 30% nelle diverse casistiche
chirurgiche) e non possono rappresentare un’indicazione assoluta.
La maggior parte della casistica si trova in situazioni borderline, spesso con noduli multipli o voluminosi e non può essere esclusa automaticamente
dall’accesso alla terapia chirurgica.
È importante sottolineare che la profondità della lesione, la percentuale di parenchima da sacrificare e il volume di fegato residuo sono nettamente
più importanti nel determinare il rischio chirurgico che non le caratteristiche della neoplasia, quali dimensioni o numero dei noduli.

L’età è uno dei criteri proposti per selezionare il pz, ma la percentuale di pz anziani operati per HCC è elevata, con età media di 70aa.
Più che l’età, si rivela più utile considerare lo stato funzionale del pz in relazione alla sua età: ci sono pz che a 60aa presentano già uno stato
generale seriamente compromesso e pz di 75aa che presentano invece uno stato di salute ottimale.
Oltre a questo dato va sempre tenuto a mente che la criticità nell’anziano non è tanto la capacità di sopportare l’intervento, quanto di reagire ad
eventuali complicanze: più un intervento è soggetto a complicanze intra- e peri-operatorie, più il fattore età acquisirà peso nella decisione
terapeutica.

Si rende necessario rispondere a tre quesiti fondamentali:


- Quale pz trae il maggior beneficio dalla terapia chirurgica?
- Quale tipo di lesione ha una maggiore indicazione alla terapia chirurgica?
- Alla luce del fatto che la terapia chirurgica non è più l’unica opzione, in quali casi va valutata un’altra delle terapie a nostra
disposizione?

Rispondono a queste domande le linee guida: revisioni formali delle conoscenze scientifiche condotte da esperti su un determinato argomento, di
modo da elaborare dei principi generali flessibili.
Questa è una differenza fondamentale tra linee guida e protocolli, che non ammettono invece eccezioni e flessibilità nella loro applicazione.
Nella loro formulazione, le linee guida si basano sull’EBM (Evidence Based Medicine), e necessitano quindi di aggiornamenti periodici che tengano
in considerazione le più recenti e affidabili pubblicazioni (in genere ogni 3-4 anni).
Il principale limite delle linee guida nella loro applicazione pratica è che ne esistono molte (Americane, Europee, Giapponesi, etc.), e differiscono
nelle indicazioni anche in maniera non marginale. Diventa quindi essenziale orientarsi e capire quali sono le più corrette.

162
Stadiazione
Considera diversi parametri, relativi non solo all’estensione della neoplasia, ma anche alla funzionalità epatica
residua e condizioni generali del pz (dal momento che in Italia la maggior parte dei casi di HCC insorge in pz affetti da cirrosi epatica, che
presentano un grado variabile di insufficienza epatica):

❖ Staging AP
Prevede due metodi diversi: uno occidentale (TNM) e uno orientale.

❖ Staging clinico

➢ Classificazione di Child-Turcotte-Pugh
È utilizzata per valutare la gravità e la prognosi delle epatopatie croniche:

N.B: l’ascite è valutata con l’ecografia.

163
Raccomandazioni:
• Un pz con Child A può tollerare la chirurgia
• Un pz Child B con punteggio 7 può essere operato se il traumatismo chirurgico è particolarmente
ridotto
• Un pz con Child B con punteggio 8-9 o Child C è inoperabile.
Questo per due motivi:
− La quantità di tessuto residuo dopo la resezione sarebbe insufficiente
− Il pz non è in grado di sopravvivere ad eventuali complicanze.

➢ Classificazione di Meld
È più recente, nato originariamente per
stabilire la priorità dell’elezione al trapianto
di fegato.
Parametri considerati:
• Creatinina
• Bilirubina
• INR.

Quanto più lo score è alto, tanto più il rischio di mortalità a breve termine è elevato, quindi occorre
priorizzare il trapianto.
Questo sistema è stato adottato dalla chirurgia: non si possono operare pz con MELD ≥ 10.

❖ Staging onco-chirurgico
Mira a definire la strategia terapeutica più appropriata in rapporto al rischio immediato e ai benefici attesi a
distanza.
La classificazione di Barcellona (BCLC, Barcelona Clinic Liver Cancer) opera una stadiazione che tiene
conto sia dell’estensione della neoplasia che del grado di compenso della cirrosi sulla base di diversi
parametri:

164
Trattamento
Si basa su un algoritmo, che in base alla stadiazione permette di stabilire il trattamento più appropriato:

Questo algoritmo è stato ampliamente criticato dai chirurghi perché se da una parte identifica sottogruppi di pz per cui una terapia specifica è
migliore delle altre, dall’altra è estremamente restrittivo nell’indicazione all’intervento di resezione.
Inoltre, non indica la miglior terapia per il singolo pz, ma il miglior pz per la singola terapia.

Un caso particolare è rappresentato dai pz affetti da trombosi della vena porta operati per resezione epatica in HCC.
In questo caso la neoplasia spesso presenta grading G3, ha un elevatissimo tasso di M, alto tasso di mortalità perioperatoria e prognosi
particolarmente infausta.
Malgrado ciò è possibile trovare un razionale dietro alla decisione di praticare una resezione, associata ad altre terapie, pure in questi pz qualora
siano particolarmente giovani, motivati e con una buona funzionalità epatica.

Per riassumere, le caratteristiche del pz ideale per la resezione sono:


- Pz giovane
- Child A
- Necessita di resezione limitata
- Non necessita di trasfusioni intraoperatorie
- tumore piccolo < 3cm.

In questo pz la mortalità operatoria è prossima allo 0 e le probabilità di sopravvivenza a 5 anni sono del 60%.

Il pz borderline tipicamente presenta:


- Child A-6/B-7
- Fegato cirrotico
- Noduli multipli
- Superfici di resezione più ampia ⇛ rischio emorragico maggiore
- Trombosi portale.

Secondo il Prof., per questo tipo di pz non bisogna necessariamente tenere conto dello schema di Barcellona.
In tal caso, i principali fattori determinanti sono:
• Operabilità del pz: Child, MELD, verde di indocianina
• Possibilità di resecare la lesione: la percentuale di volume epatico residuo deve essere sufficiente
• Possibilità di asportazione radicale.

165
Raccomandazioni pre-trattamento
▪ Tutti i pz con HCC insorto su cirrosi devono essere sottoposti ad una EGDS prima del trattamento.
L’EGDS dovrebbe essere stata eseguita non oltre 12 mesi prima del trattamento dell’HCC e dovrebbe essere ripetuta se si è verificata, nel
frattempo, trombosi portale.
Nei casi di varici a rischio elevato di rottura è indicata la profilassi del sanguinamento con betabloccanti e/o legatura elastica.

▪ Nei pz con infezione da HBV viremici (⇒ ricerca dell’HBV-DNA positiva) è indicata una terapia con analoghi nucleot(s)idici

▪ Nei pz con infezione da HCV viremici (⇒ ricerca dell’HCV-RNA positiva), sottoposti a terapia radicale dell’HCC, vi è indicazione alla terapia
antivirale.

Resezione epatica
Deve essere macroscopicamente radicale, con margine libero >
1cm, per via della capacità dell’HCC di stabilire noduli satellite
(avvalendosi del microcircolo epatico nelle immediate vicinanze della lesione principale ).

L’intervento deve bilanciarsi con tre fattori:


- sovvertimento naturale dell’ambiente epatico nel cirrotico
- necessità di conservazione del maggiore volume possibile di parenchima
- rapporti di contiguità vascolare.

L’intervento deve essere eseguito secondo il razionale di maggior riduzione del trauma possibile.
Fattori che incidono sul trauma operatorio:
- durata intervento
- estensione della mobilizzazione
- cruentazione dei tessuti
- perdita di sangue.

Questi elementi ci portano a preferire resezioni il più possibile limitate.


Alcuni accorgimenti sono il clampaggio del peduncolo epatico (per ridurre l’emorragia) e cercare di limitare l’ascite postoperatoria con
l’applicazione di colle.

La ragione di queste accortezze è che nel pz cirrotico le complicanze si pagano con l’insorgenza nella stragrande maggioranza dei casi di
un’insufficienza epatica postoperatoria.

Altre terapie
• Trapianto (OLT)
• Ablazione percutanea mediante alcol (PEI) intento radicale
• // radiofrequenza (RFA) o microonde (MW)

Altre metodiche, come la chemioembolizzazione, la radioembolizzazione e la coagulazione laser, sono oggi


considerate come trattamenti palliativi.
Generalmente, in oncologia, per palliativo si intende un trattamento che mira a curare il sintomo.
Invece, nell’ambito dell’HCC con il termine palliativo si intende un trattamento che non ha una elevata probabilità di portare a guarigione, a causa
dell’incostanza dei risultati che può conseguire.
In altre parole, è anche possibile che embolizzando il tumore questo venga eliminato nella sua totalità, ma questa eventualità è statisticamente poco
frequente.

Trattamenti ablativi percutanei


▪ La radiofrequenza che sfrutta il calore è la metodica percutanea più usata

▪ L’alcolizzazione è invece confinata per lesioni molto piccole, ben capsulate e vicino a strutture (come
vasi, colecisti e visceri intestinali) che potrebbe rendere problematico l’approccio con il calore.

166
L’ablazione percutanea è comunque una metodica estremamente locale, non tratta la eventuale satellitosi, può
favorire impianti parietali e peritoneali e anche la colonizzazione intravascolare per rottura del tumore.
Attualmente si ritiene preferibile la chirurgia per noduli a basso rischio, piccoli e superficiali, mentre la
radiofrequenza per tumori chirurgicamente più complessi.
La letteratura afferma che la radiofrequenza:
• per noduli < 2 - 3cm ⇒ è curativa

• per noduli tra 3 cm - 5 cm ⇒ perde gran parte della sua capacità di essere risolutiva.
In questi casi in cui determina una necrosi parziale (noduli > 3 cm), la necrosi residua può determinare un’alterazione dei rapporti intercellulari
e quindi favorire la crescita e disseminazione neoplastica.
È possibile però procedere con trattamenti multipli: eseguire un primo trattamento, controllare a un mese con la TC ed eventualmente proporre
un secondo trattamento.
In alcuni casi si possono usare strumenti a punte multiple per ampliare la zona di necrosi.

 per noduli > 5 cm ⇒ non dovrebbe essere presa in considerazione.

Altra indicazione che sta prendendo piede è il trattamento ponte in attesa del trapianto di fegato: questo viene attuato soprattutto per evitare il drop out
del pz dalla lista d’attesa perché il tumore è cresciuto troppo.

Controindicazioni assolute:
 nodulo adiacente al colon ⇛ rischio di perforazione per il calore
 nodulo adiacente all’ilo epatico
 nodulo pericolicistico ⇛ rischio di coleoperitoneo.

Controindicazioni relative:
 nodulo adiacente al diaframma ⇛ rischio di fistole bronco-pleuriche
 nodulo adiacente ai vasi, che sembra limitare l’efficacia del trattamento
 nodulo sottocapsulare.

Chemioembolizzazione (TACE, Trans Arterial ChemioEmbolization)


È una procedura angiografica endovascolare:
in angiografia, si cerca con un catetere l’arteria
che vascolarizza il nodulo, la si percorre per
quanto possibile e poi con l’embolizzazione si
induce l’effetto ischemico.

La metodica combina l’effetto embolizzante con


un effetto di infusione di chemioterapico
selettivo, grazie a microsfere che contengono al
loro interno adriamicina, lentamente rilasciata.

La procedura può essere anche ripetuta per rallentarne la crescita.


È ritenuta la metodica di scelta nelle lesioni multinodulari, in cui non è pensabile effettuare trattamenti multipli
con la radiofrequenza.

Ha avuto molte innovazioni, ma rimangono comunque degli EC legati al fatto che il materiale usato può fuggire e
causare aree ischemiche nel fegato sano e danni alle arterie che vengono ripetutamente incanulate.

167
Resezione e combinazioni terapeutiche

▪ La TACE può determinare un effetto


downstaging preoperatorio (ovvero ridurre le
dimensioni del tumore in modo tale da renderlo più facilmente
aggredibile dal punto di vista chirurgico),
consentendo un
maggior risparmio parenchimale per la
successiva resezione

▪ Le terapie ablative permettono:


− Strategie competitive ⇒ PEI/RFA per
noduli “chirurgicamente difficili” in pz
CHILD B

− // complementari ⇒ trattamento di
lesioni associate in HCC multifocale.
Ad es. si può avere la situazione in cui un pz ha due noduli: quello più grosso, difficilmente aggredibile con radiofrequenza o TACE,
viene resecato, mentre l’altro viene trattato con tecnica ablativa.

▪ Una recidiva dopo trattamento chirurgico può essere trattata con ablatzione o TACE.

▪ Nell’ambito dell’OLT, possibili strategie:


− Resezione come ponte al trapianto: per la valutazione della biologia del tumore e sulla base
di questa decidere se trapiantare o meno

− Trapianto come terapia di salvataggio dopo resezione: a causa di insufficienza epatica


postoperatoria oppure per trattare la recidiva.

Recidiva neoplastica
È la prima causa di morte nei pz che vengono operati: metà di essi avrà una recidiva.
L’obiettivo è quello di capire se questa recidiva è ancora compatibile con la possibilità di un trattamento
curativo.

Possibili cause:
• Intervento chirurgico non adeguato:
− resezione con margine positivo
− manipolazione chirurgica che favorisce una disseminazione intraepatica al momento della resezione

• Malattia multifocale: dovuta alla presenza di microfocolai “dormienti” che in quel momento non sono evidenti a livello
macroscopico, ma a distanza di tempo si attivano dando la recidiva

• Carcinogenesi metacrona: costituisce circa il 50% delle cause di recidiva e si tratta di un vero e proprio secondo tumore in un
terreno fertile.
Ciò avviene perché la cirrosi, dopo essere stata la causa del primo tumore, è causa anche del secondo (“la recidiva non è figlia del tumore
primitivo, ma sorella” cit.)

In presenza di un nuovo tumore da carcinogenesi metacrona è


possibile rivalutare tutte le opzioni terapeutiche, mentre in caso di
metastatizzazione epatica la chirurgia ha un significato inferiore.

168
Per distinguere la presentazione metacrona dalla metastasi intraepatica, il fattore più importante è il tempo:
• Recidiva precoce ⇒ metastasi intraepatica
• // tardiva (dopo 24 mesi) ⇒ presentazione metacrona.

Il primo problema che si incontra per il fattore tempo è individuare un cut-off che distingua patologia precoce
da quella tardiva: graficando l’andamento nel tempo della disease free survival e vedendo in che punto la curva
flette, si è notato che a 24 mesi la malattia aveva caratteristiche diverse.

Inoltre, le recidive precoci hanno più spesso noduli multipli, grandi e aspetti
istologici meno favorevoli.

A tal proposito, è importante definire pre-operatoriamente il rischio di


recidiva precoce: ha infatti poco senso operare un pz con elevato rischio di
recidiva precoce difficilmente curabile.
Parametri predittivi per recidiva precoce:
• Livelli di AFP >200 ng/ml
• T > 5 cm
• Noduli satellite
• Invasione microvascolare.

Algoritmo terapeutico per recidiva:

169
Altri aspetti di interesse terapeutico

❖ Infiltrazione microvascolare
Rappresenta un fattore prognostico scarsamente considerato negli algoritmi.
Il valore di questa informazione è molteplice:
• Utile per selezionare la terapia: una resezione può non avere senso se si sa che quel tumore ha una elevata probabilità di avere infiltrazione
vascolare ⇛ in tal caso, potrei optare prima per una terapia neoadiuvante

• Valutazione prognostica più accurata: utile per valutare un monitoraggio più serrato o per proporre una terapia adiuvante (⇒ antivirali,
Sorafenib, TACE).

❖ Margine di resezione
È ampiamente dibattuto riguardo la sua estensione
Occorre premettere che nel cirrotico non è possibile fare resezioni troppo ampie perché bisogna risparmiare parenchima e la letteratura dice che non c’è
alcuna evidenza chiara che l’ampiezza del margine chirurgico condizioni la probabilità di una recidiva; addirittura un margine positivo non è un fattore
prognostico chiaro.

Tutto questo porta un altro problema, ovvero se questi pz debbano essere trattati con una resezione anatomica (ovvero seguendo dei piani anatomici visibili
sulla superficie del fegato come il legamento falciforme o che possono essere individuati all’imaging) o invece “a la demande”.
In generale c’è una sopravvivenza migliore in coloro che seguono una resezione anatomica, ma il suo vantaggio non è così evidente nei pz cirrotici, nei
quali l’anatomia è completamente distorta.

Lo stato dei margini e l’entità della resezione possono influenzarsi a vicenda, quindi una resezione anatomica consentirebbe un margine anche minimo (≥ 0
mm), mentre una resezione non anatomica dovrebbe comportare un margine più esteso (≥ 5 mm).

❖ Rottura dell’epatoK
È poco frequente nei paesi occidentali.
Il dubbio principale è che la rottura possa portare, oltre al rischio di emorragia fatale, all’impianto di cellule tumorali nel peritoneo.
Tuttavia, se i pz sono clinicamente stabili e sono sottoposti ad una resezione epatica, questi pz con rottura non presentano un andamento molto diverso da
quelli senza rottura.

Per quanto riguarda la carcinosi peritoneale si è osservato che non è un evento costante e può essere trattabile con una resezione.

❖ Ri-resezione
La possibilità di rioperare il pz deve essere presa in considerazione già al primo intervento, perché nel 50% dei casi si avrà una recidiva, nella maggior
parte dei casi la recidiva sarà intraepatica e bisogna cercare di mantenere tra le possibilità terapeutiche anche la ri-resezione.
Quindi pensare al reintervento già al momento della prima resezione è importante per:
• Limitare l’entità della resezione e risparmiare parenchima
• Limitare l’entità degli scollamenti, perché l’ascite sembra essere un fattore prognostico negativo
• Conservare i peduncoli vascolari.

Nei casi in cui la diffusione della neoplasia sia tale da richiedere un sacrifico importante di parenchima funzionale non neoplastico (ad es. quando si
prevede un’epatectomia dx allargata), è possibile indurre un’ipertrofia controlaterale del fegato ricorrendo a un’embolizzazione del ramo portale, con lo
scopo di ridurre le complicanze legate all’insufficienza epatica postoperatoria causata dalla ridotta quantità di fegato residuo dopo l’intervento.
Prima dell’embolizzazione si esegue uno studio volumetrico che viene poi ripetuto ogni 2 settimane mediante sistemi di calcolo computerizzati, che sono in
grado di misurare con sufficiente precisione i volumi del fegato e, quindi, di rilevare quanto il fegato sia cresciuto.
Solitamente si esegue in sala angiografica da parte di un radiologo interventista: dopo l’esecuzione dell’angiografia convenzionale del fegato per studiare
la vascolarizzazione arteriosa e quella portale, in anestesia locale si procede a inserire attraverso la parete addominale un catetere nella v. porta e si
studia nuovamente l’anatomia della v. porta e delle sue diramazioni iniettando mdc.
Si identificano i rami da embolizzare: se ci si propone la crescita di volume del lobo sx bisognerà embolizzare i rami di dx.
Si posiziona quindi il catetere nei rami prescelti e si inietta il materiale che deve chiudere il vaso.
Il tempo necessario per indurre l’ipertrofia è di circa 3-4 settimane: trascorso questo periodo si esegue una seconda TC addominale con mdc per
verificare l’avvenuta crescita.

170
METASTASI EPATICHE
Richiedono nella loro trattazione delle considerazioni di ordine generale:
• Il fegato rappresenta la prima localizzazione metastatica per molti tumori, soprattutto del tratto
GI, in quanto organo filtro per eccellenza di prima stazione.
Per questo motivo la metastasi epatica potrebbe quasi considerarsi ancora malattia regionale, quindi potenzialmente curabile

• Possono dare origine ad ulteriore metastasi come un T primario

• Tanto meno è il tempo passato dalla resezione del T primario alla comparsa della M, tanto più la
malattia è aggressiva

• non per tutte le tipologie di M la rimozione comporta un aumento della sopravvivenza tale da
giustificare il trattamento chirurgico ⇛ non sono trattate chirurgicamente le M epatiche di T gastrici
o pancreatici, ma prevalentemente quelle di T del colon-retto e neuroendocrini.

• la chirurgia è in grado di dare una sopravvivenza migliore rispetto alla CT.

Indicazioni ideali alla chirurgia


• ASA ≤ 2 (per la valutazione del rischio anestesiologico)
• Assenza di malattia extraepatica
• Numero M < 4
• Diametro < 5 cm
• Assenza di N nel peduncolo epatico.

Non rispecchiano però i criteri che si seguono nella maggior parte dei casi.

Confronto tra K epatocellulare primitivo e M epatiche


Diverse caratteristiche delle M epatiche potrebbero portarci a pensare che questa chirurgia sia meno
impegnativa rispetto a quella dell’HCC:
− le M non crescono quasi mai nell’ambito di una cirrosi, di solito quindi non c’è insufficienza
epatica
− durante l’operazione le M sono identificabili al tatto, essendo il fegato morbido e le M dure
− le M possono essere identificate al principio in quanto il pz è già in stretto monitoraggio per il K del
colon.

La realtà è differente:
− i criteri ideali con cui venivano selezionati i pz al principio sono stati superati
− ormai non c’è limite di età (40% dei pz supera i 70 aa)
− le M sono multiple nel 50% dei casi
− nel 10% dei casi i pz subiscono interventi multipli e giungono dal chirurgo dopo una CT
neoadiuvante nel 40% dei casi.
La CT ha EC sul fegato: in particolare i farmaci più recenti ed efficaci (come l’irinotecan e l’oxaliplatino) determinano steatoepatite
associata ad un danno microvascolare sinusoidale, soprattutto in pz con elevato BMI.
I tassi di morbilità, mortalità e insufficienza epatica aumentano se la chirurgia è eseguita su un fegato steatosico.
Inoltre, la steatosi è di difficile identificazione preoperatoria perché gli esami di laboratorio sono spesso del tutto normali o con lievi
alterazioni, a differenza della cirrosi che si accompagna a parametri di laboratorio e clinici suggestivi.

Pertanto, il carico di CT è così importante per la corretta riuscita dell’intervento che viene discusso con il chirurgo: l’obiettivo della CT
non deve essere quello di far scomparire completamente le M (anche se ci si riuscisse sarebbe solo un evento transitorio), ma solo di
ridurne il volume.

171
Criteri chirurgici attuali
❖ Alla luce dei nuovi protocolli CT, così efficaci da trasformare una M inoperabile in operabile, è
imprescindibile una chirurgia radicale della T primitivo e del bacino linfatico

❖ Sempre grazie ai nuovi protocolli CT e RT, è possibile una resezione sequenziale della M extra-
epatica a 2-3 mesi dalla M epatica.
Ad es. si può fare una resezione della localizzazione polmonare o una RT stereotassica della
metastasi cerebrale dopo asportazione della localizzazione epatica

❖ Per quanto riguarda le metastasi linfonodali al peduncolo epatico, queste sono sempre state
considerate un fattore prognostico negativo perché segno non tanto della diffusione linfonodale del
tumore, ma della metastatizzazione retrograda delle M epatiche (“metastasi delle metastasi”).
Si è visto che se i linfonodi vengono asportati contemporaneamente alla M epatica e i pz vengono
poi sottoposti a CT, i risultati positivi sono apprezzabili

❖ Siamo giustificati a trattare il tumore chirurgicamente in modo non radicale nel momento in cui
possiamo associare trattamenti adiuvanti o sequenziali che portino essi stessi alla radicalità: non si
parla quindi più di chirurgia radicale ma di trattamento radicale

Ricapitolando, i criteri irrinunciabili ad oggi sono:


• trattamento radicale del T primitivo
• non evidenza di M extra-epatica non controllabile
• asportazione M epatiche con intento radicale (R0), con adeguata funzionalità epatica residua post-
chirurgia.

Analisi e confutazione dei “dogmi” del passato

❖ Margine di sicurezza ampio (almeno 1 cm)


Questo concetto non ha retto alle esperienze successive, si dimostrò che un margine negativo poteva
essere anche minore di 1 cm, senza modificare la sopravvivenza.
Questo perché, a differenza del T primitivo che dà colonizzazione peritumorale per infiltrazione vascolare, le M danno difficilmente
satellitosi (16%), infiltrazione della glissoniana (14%) o micrometastasi (2%)

❖ Resezione anatomica seguendo piani anatomici sulla base della vascolarizzazione


Sono successivamente comparse esperienze che mostravano come la resezione anatomica non
differisse dalla resezione non anatomica.
Il discorso sembrerebbe essere: resezione anatomica dove è possibile, ma non va perseguita a tutti
i costi perché anche un intervento limitato, qualora opportuno, può portare agli stessi risultati

❖ M non resecabili
Erano destinate alla CT palliativa, il chirurgo non veniva più coinvolto perché il pz era considerato
“perso”.
Oggi dopo il trattamento con i nuovi regimi CT alcune di queste metastasi rientrano nei criteri di
resecabilità e sono quindi trattate (“pz che escono dalla porta e rientrano dalla finestra” cit.),
ottenendo una sopravvivenza a 5 anni del 33%.

❖ Numero di M
Certamente si può sostenere che tanto più le M sono numerose tanto più sarà complessa
l’asportazione, ma è difficile indicare un numero di M limite oltre il quale non si può andare.

Se il limite è tecnico, la possibile soluzione è la chirurgia in due tempi:


− in un primo tempo chirurgico, si procede con asportazione di minima delle M presenti nella
parte del fegato di sx, split dei due parenchimi ed embolizzazione della vena porta di dx

172
con materiale non riassorbibile o con legatura ⇛ in
questo modo il fegato di dx va incontro ad atrofia e
quello sx ad ipertrofia

− In un secondo tempo chirurgico, si asporta


completamente il fegato di dx, senza il rischio di
mandare il pz in insufficienza epatica.

Se il limite delle metastasi multiple è invece biologico, questo


si risolve grazie alla CT adiuvante dopo l’intervento.

Criteri di esclusione per l’intervento chirurgico:


• M epatica troppo grande che lascerebbe una porzione minima di parenchima: il volume residuo
deve essere almeno del 30-35%

• Volume residuo piccolo per resezioni multiple

• Posizione problematica vicino ai peduncoli vascolari arteriosi e venosi, indispensabili per la


corretta funzionalità del parenchima residuo

• M extra-epatiche ormai sono tutte controindicazioni relative.

Nonostante le considerazioni fatte fino ad ora, in realtà la chirurgia è applicabile in una bassa percentuale
di casi (15%), con una sopravvivenza a 5 anni del 50%.

Approccio migliore
Prevede una strategia onco-chirurgica definita alla prima valutazione clinica congiuntamente da oncologo
medico e chirurgo.
Anche se le M sono operabili fin da subito, sembra che fare la CT neoadiuvante dia un aumento di
sopravvivenza.
Permette inoltre il test of time, che consente di testare l’aggressività biologica del T: il T che progredisce in
corso di CT è di solito poco indicato per la chirurgia.

Ci sono comunque alcuni elementi che permettono di considerare la chirurgia d’emblè: presenza di M
singola che compare dopo 2-3 anni dalla resezione del T primitivo.

Strategia chirurgica
❖ TC o RM non sono sufficienti per una ricerca accurata di tutte le possibili M epatiche ⇛ è
necessario eseguire un’accurata esplorazione, con completa mobilizzazione del fegato per ricerca
delle M occulte

❖ Occorre agire sempre come se il pz dovesse essere nuovamente operato, ovvero essere
assolutamente conservativi sia per quanto riguarda il parenchima (⇒ chirurgia in due tempi) che
per quanto riguarda i peduncoli vascolari.
In particolare, il clampaggio del peduncolo epatico mediante manovra di Pringle permette di
ridurre il rischio di emorragia intraoperatoria (⇒ fattore prognostico negativo), ma d’altra parte si
crea un’ischemia epatica.
Nel fegato sano il clampaggio può essere tenuto anche 1h e mezza (l’unico problema è il rialzo
transitorio delle transaminasi post-intervento), nel cirrotico max 1h.

173
Quando i tempi di intervento sono lunghi ci sono tecniche alternative per scongiurare una ischemia
epatica massiva:
− clampaggio intermittente (con cicli di clampaggio e riperfusione)
− clampaggio selettivo di peduncolo dx o sx se devo resecare solo da una parte
− precondizionamento ischemico con 10 minuti di ischemia e 15 di riperfusione prima
dell’ischemia prolungata.

❖ Per la sezione del parenchima, oggi è molto usato il dissettore ad ultrasuoni Cavitron: il
parenchima grazie agli ultrasuoni si frantuma e i vasi vengono isolati e poi legati.

Altra possibilità di trattare il sanguinamento sono le colle biologiche, applicate sulla trancia di
dissezione alla fine dell’intervento.

Chirurgia delle M nell’anziano


Circa il 40% dei pz con M epatiche ha più di 70 anni, ma solo una
piccola percentuale di questi viene trattata chirurgicamente (10%).
C’è quindi un BIAS di selezione basato sull’età che porta i pz anziani
(anche se trattabili) verso un trattamento palliativo e non curativo.
Da diversi studi emerge però che i pz anziani, se selezionati, non
hanno una mortalità maggiore rispetto ai pz più giovani.

Dire tuttavia che l’età non conta nulla sarebbe una leggerezza, perché
sono documentate modificazioni della funzionalità epatica sulla base
dell’età: si ha una riduzione di volume e flusso epatico, della
funzionalità cellulare e immunitaria.
Queste alterazioni del tutto fisiologiche però non si associano ad un
aumento del rischio chirurgico.

Gli anziani sono una popolazione eterogenea, bisognerebbe ragionare


non per età ma per comorbilità: ad es. la demenza impatta molto
sull’intervento perché il pz avrà una ridotta capacità di collaborazione
nel post-operatorio.
La prevalenza di comorbilità aumenta con l’età della popolazione e
rappresenta un fattore indipendente nella riduzione della spettanza di
vita del pz e nella tolleranza al trattamento medico o chirurgico.
Bisogna sempre fare un ragionamento sulla aspettativa di vita del pz
indipendentemente dalla sua patologia metastatica; per farla breve se il
pz rischia di morire prima perché ha una cardiopatia o per la malattia
tumorale.
Tutto questo perché è bene chiedersi se ha senso sottoporre il pz ad un
certo rischio chirurgico se poi ne trarrebbe uno scarso beneficio.

174
DISAPPEARING LIVER METASTASIS
Rappresentano un concetto moderno, in quanto è degli ultimi anni l’applicazione estensiva dei protocolli CT
che permettono ad una metastasi di scomparire.

Una metastasi si definisce scomparsa quando non è più rilevabile agli esami strumentali, nemmeno con
calcificazioni residue, nella sede in cui era presente una evidente lesione ⇒ si parla in questo caso di
complete response (CR).

La strategia CT negli ultimi anni è molto cambiata: la CT non viene più usata con solo scopo down-staging
(⇒ con la finalità di ridurre le dimensioni della lesione per renderla trattabile chirurgicamente), ma anche
come terapia neoadiuvante (⇒ con la finalità di eliminare le micrometastasi).

Questo ci permette di introdurre un nuovo concetto: la risposta patologica completa (CPR), che consiste
nella necrosi della lesione con scomparsa totale di cellule patologiche all’analisi microscopica dopo
asportazione del pezzo.

Possiamo osservare come la CPR sia 10 volte più frequente della CR: questo sta ad indicare che la necrosi
della lesione (⇒ obiettivo primario perché significa neutralizzazione della malattia) non sempre si
accompagna alla sua scomparsa all’imaging.
Al contrario la CR può lasciare dei reliquati di cellule patologiche.

Le M che più frequentemente scompaiono sono quelle di pz con M multiple (tenendo presente che è
soprattutto per questi pz che viene indicata la CT neoadiuvante): le DLM sono solitamente di piccole
dimensioni, scompaiono dopo alcuni mesi di terapia, più frequentemente quando le M son > 3 e con almeno
7 cicli di CT (gli schemi CT più recenti danno risposte migliori rispetto a quelli basati sul 5-FU).
La probabilità di avere CPR nelle DLM varia dal 20 al 70%.

Bisogna fare anche attenzione al fatto che la CT, provocando steatosi epatica, che riduce la sensibilità e
specificità della TC e della PET ⇛ la lesione deve essere controllata con la RM.

Gestione del pz con M epatiche


Quando il pz ha una risposta completa, il
secondo passo consiste nell’esplorazione
chirurgica, con ricerca mediante “occhio-
mano-ecografia”:

• Se la lesione è identificabile, bisogna


sempre resecarla per una valutazione
istologica

• Se invece non sono identificabili


lesioni, due possibilità:
− follow-up: eventualmente
andando ad asportare in
seguito la recidiva se dovesse
presentarsi

− blind epatectomy, con


valutazione istologica del
pezzo operatorio.

La probabilità di cellule tumorali nella lesione clinicamente scomparsa è più elevata quando
intraoperatoriamente si vede qualcosa che non si vedeva all’imaging.

175
Al contrario, la lesione non visibile all’esame intraoperatorio (missing metastasis) ha più
probabilità di dare origine ad una durevole risposta clinica completa, dove per “durable clinical
response” si intende la somma dei casi di CPR e di non ricorrenza di missing metastasis per almeno
1 anno.

Le casistiche ci dicono che solitamente una recidiva in una DLM compare entro 12-18 mesi,
dopodiché che se la recidiva non compare entro questo tempo significa che probabilmente non
comparirà più.

Il problema clinico che si pone è cosa fare quando effettivamente la M scompare: la


raccomandazione è di trattare chirurgicamente il sito originario in cui era presente la M, anche se
intraoperatoriamente non è visibile, perché la sopravvivenza aumenta.

Concetti condivisi sulla gestione delle DLM


• Riguardo alla CT neo-adiuvante è appurato che questa viene fatta in casi selezionati, quando i pz
abbiano una malattia multi-nodulare e soprattutto quando le lesioni siano cosiddette “borderline
resectable”.
Durante la CT è bene fare controlli ravvicinati perché il rischio che le M progrediscano invece che
ridursi non è trascurabile e anche per prevenire le DLM

• È bene fare la resezione di ciò che è rilevabile all’esame intraoperatorio, eventualmente allargando
la resezione alle DLM se il sacrificio parenchimale è limitato.
La blind resection invece non è giustificata se significa resecare ampie porzioni di parenchima: in
questo ultimo caso è indicata sempre la CT adiuvante.

Concetti ancora da delineare


• RM come tecnica di imaging sia pre che post-operatoria: i suoi vantaggi infatti sono evidenti rispetto alla TC che è influenzata dal
background strutturale epatico e quindi non è indicata come tecnica di imaging dopo la chemioterapia neoadiuvante.
Inoltre, ricordiamo che la RM è in grado di valutare per un certo grado la CPR (ad es. ridotta captazione del mdc), che non sempre si
accompagna a risposta clinica completa.
È quindi necessario rifarsi ai nuovi criteri Recist (Response Evaluation Criteria in Solid Tumor) modificati. Tuttavia, la RM genera non
pochi problemi organizzativi, per questo la sua adozione è ancora motivo di discussione.

• Quanto procedere con la CT neoadiuvante: se il percorso del pz non è subito condiviso da oncologo e chirurgo c’è il rischio che venga
perseguito l’obiettivo di far sparire le lesioni, il che porta di solito problemi rilevanti nella gestione del pz (si dice che le DLM “siano il
sogno dell’oncologo e il dramma del chirurgo”)

• Resezione ampia nelle DLM: le M che scompaiono possono avere residuo neoplastico nel 50% dei casi, la CT neoadiuvante lascia
frequentemente delle micrometastasi.
Per questo sarebbe indicato eseguire resezioni ampie.
Molti esperti si sono confrontati su questo punto e ognuno pone delle perplessità.

• Trattamento laparoscopico o laparotomico: la valutazione intraoperatoria va fatta con la mobilizzazione del fegato perché solo allora si
può confermare la scomparsa clinica delle metastasi, inoltre anche l’ecografia intraoperatoria se fatta in laparotomia ha una efficacia
maggiore.
Il dubbio, quindi, potrebbe essere se programmare direttamente una laparotomia piuttosto che una laparoscopia.

176
CARCINOMA del PANCREAS ESOCRINO
Rappresenta il 3% di tutte le nuove diagnosi di tumore ed è uno dei tumori a prognosi più infausta, con una
sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi complessivamente pari all’8%.
La prognosi così severa è da attribuirsi al comportamento metastatico (linfonodale e a distanza) estremamente
precoce, all’aggressività clinica, alla diagnosi tardiva e alla limitata efficacia dei trattamenti CT correnti.
Il sesso M è lievemente più colpito (M:F = 1,5:1), con massima incidenza fra i 50-60 anni.

Fdr:
• Fumo di sigaretta: è il più importante
• Consumo di alcool
• Obesità e ridotta attività fisica
• Alto consumo di grassi saturi, scarsa assunzione di verdure e frutta fresca

• Patologie d’organo: pancreatite cronica, DM, pregressa gastrectomia

• Familiarità e predisposizione genetica: fino al 10% dei pz con tumori pancreatici evidenziano una
storia familiare, ma ad oggi meno del 20% dei casi di adenoK pancreatico familiare può essere
attribuito a sindromi genetiche note:
− Sindrome di Peutz-Jeghers (rischio nel corso della vita del 35%)
− Sindrome melanoma-nevo multiplo atipico familiare
− Mutazioni germline di BRCA
− Pancreatite ereditaria
− Sindrome di Lynch.

Istotipi
L’adenoK duttale è il più frequente (90% dei casi), ad origine
dall’epitelio dei dotti pancreatici.
Il grading istologico di queste lesioni non ha molta importanza dal punto di vista chirurgico in
quanto spesso lo si può valutare solo dopo la resezione.

Sedi di insorgenza del K pancreatico:


• Testa del pancreas: 60% dei casi
• Corpo: 15%
• Coda: 5%
• Pancreas intero: 20%

Storia naturale
• Diffusione locale: il pancreas è un organo profondo e retroperitoneale ⇛ una volta oltrepassata la capsula pancreatica, può intaccare il
grasso peripancreatico, le strutture vascolari (tripode celiaco), linfatiche ed i plessi nervosi.
Si è visto che anche tumori < 2 cm infiltrano i tessuti circostanti nel 90% dei casi

• Multicentricità: nel 20% dei casi alla massa principale si associano micro-focolai di displasia severa o di K in situ, che possono
potenzialmente dare recidive locali (abbastanza rare)

• Diffusione linfonodale: è presente nel 65%


dei pz operati e nel 60% dei tumori < 2 cm

• Infiltrazione vascolare: avviene prima a


livello venoso (v. mesenterica superiore,
confluenza mesenterico-portale e v.
splenica), per poi interessare anche le
arterie (a. mesenterica superiore, tripode
celiaco, a. epatica e a. splenica), in quanto
queste sono ad una distanza superiore

• Metastasi: per via ematica possono


raggiungere molti distretti, soprattutto: fegato, polmone, surreni, scheletro ed encefalo.

177
Clinica
• Perdita di peso

• Dolore addominale: non sempre presente, è dovuto all’infiltrazione retroperitoneale del tumore ed è generalmente localizzato ai
quadranti superiori, di tipo sordo, persistente, irradiato posteriormente “a barra”; può essere confuso con quello da pancreatite cronica

• Ittero ostruttivo progressivo (⇛ urine ipercromiche e feci ipo/acoliche, prurito generalizzato): è tipico dei tumori
localizzati alla testa del pancreas, per ostruzione/compressione del segmento intraepatico del dotto
biliare comune.
N.B: se l’ittero è associato a dolore è più spesso indice di patologia benigna, mentre se è isolato è segno di malattia maligna.

• Altri sintomi:
− Nausea e vomito
− DM di nuova insorgenza
− Malassorbimento e steatorrea
− Tromboflebite migrante: sindrome paraneoplastica, particolarmente sospetta in un uomo adulto senza altri fdr

− Il segno di Courvoisier-Terrier (⇒ colecisti dilatata e palpabile non dolente + lieve ittero), massa palpabile a livello addominale
e ascite sono rilevabili molto tardivamente.

Diagnosi
Avviene in media dopo 4 mesi dall’esordio dei
sintomi per i K della testa e dopo 6 mesi per quelli
del corpo e della coda.

• Anamnesi ed EO

• Esami ematochimici:
− Test di funzionalità
epatica ⇒ colestasi
− Marker tumorali
CEA e CA19.9: sebbene poco sensibili e specifici per la diagnosi, hanno valore predittivo
di ripresa di malattia nei pz già operati.
L'antigene del pancreas CA 19-9 può essere utilizzato per monitorare i pz con diagnosi di K pancreatico e per lo screening di
quelli ad alto rischio.
Tuttavia, questo esame non è abbastanza sensibile o specifico per essere usato per lo screening della popolazione.
I livelli molto elevati si devono ridurre dopo un trattamento efficace; gli aumenti successivi sono indice di una progressione
della malattia.
Inoltre, Ca19.9 può risultare elevato in caso di colestasi e ittero; la sua alterazione è più significativa in caso di pz non itterici o
in caso di non negativizzazione in seguito alla risoluzione dell’ittero.

• Eco addome: esame di primo livello, utile per la definizione dell’ittero ostruttivo (⇒ dilatazione delle vie
biliari) e per la valutazione del fegato.
Ha buon potere risolutivo sulla testa del pancreas.
Le neoplasie sono visibili come lesioni focali, di solito ipoecogene, ma la dimensione minima con cui possono essere individuate varia
molto in base all’esplorabilità del pancreas (influenzata da meteorismo, obesità, pancreatite cronica).
Può individuare adenopatie e masse metastatiche, che condizionano l’operabilità della lesione.
Permette l’esecuzione di biopsie mirate per via percutanea, anche se non sono consigliate sia per il rischio di formazione di fistole che per il
rischio di diffusione della malattia.
L’eco-color-doppler può essere usato per valutare i rapporti con i vasi e la presenza di
infiltrazione.

L’eco-endoscopia (transgastrica e transduodenale) permette una migliore visualizzazione del pancreas e della
coda (mal valutabile all’eco standard per l’interposizione del colon).
È utile per un’accurata valutazione dell’eventuale interessamento vascolare e per l’esecuzione di
biopsie (con rischi inferiori rispetto alla biopsia percutanea).

178
• TC torace-addome multislice con mdc: permette una migliore visualizzazione della neoplasia anche a
livello di corpo e coda, nonché dei vasi e delle M.
L’infiltrazione retroperitoneale è un segno di forte sospetto per lesioni avanzate e inoperabili.

• RM colangio-pancreatografica: viene usata alla fine del percorso diagnostico e permette di valutare
meglio struttura e consistenza del pancreas, entrambe fondamentali per predire il rischio chirurgico.
La coesistenza di dilatazione della via biliare e del Wirsung (⇒ segno del doppio canale) è
fortemente associato a tumore della testa del pancreas.

Per ricapitolare, si volge ecografia come esame di primo livello, poi TC come esame di prima scelta
per DD e stadiazione, infine RM come problem solver.
Questi esami di imaging sono indispensabili per distinguere tra pz potenzialmente eleggibili per
resezione con intento curativo e quelli con malattia non resecabile.

Altre metodiche:
• PET: non è molto usata, in quanto non altera la classificazione di operabilità: se sono presenti M, è quasi certo che il tumore non sarebbe
stato operabile anche per interessamento linfonodale e vascolare

• CPRE: può essere usata a scopo terapeutico per la risoluzione dell’ittero ostruttivo (⇒ mediante
posizionamento di protesi); in questo contesto è possibile ottenere campioni citologici tramite
brushing (i prelievi sono difficili e non sempre si ottengono risultati adeguati).

Oggi si è visto che il rapporto


costo-beneficio è favorevole
alla chirurgia diretta senza
detensione dell’ittero; può
ancora essere usata per la
palliazione nei pz non
candidabili alla chirurgia.

Tipi di protesi:
− Protesi classiche: sono in
polietilene e possiedono delle
alette che riducono il rischio di
dislocazione.
Se mantenute in sede per 3-4
mesi aumentano il rischio di
colangite e ri-occlusione ⇛ se
l’aspettativa di vita è più lunga
è consigliato usare una protesi
metallica

− // metalliche: sono auto-espandibili e permettono una rapida detensione dell’ittero (poche ore), riducendo molto il rischio di ri-
occlusione.
Sono preferite a quelle in polietilene soprattutto in caso di pz che hanno bisogno di CT; il difetto è che hanno un costo
superiore

• Pancreatoscopia e coledocoscopia: sono metodiche relativamente nuove e non disponibili in tutti i centri, non sono ancora
chiare le indicazioni

• Colangiografia transepatica percutanea (PTC)

• Drenaggio percutaneo transepatico biliare (PTBD): viene considerato in caso di fallimento o se vi sono
controindicazioni al posizionamento dello stent biliare per via endoscopica.
Permette il drenaggio percutaneo dell’ittero: si punge la via biliare sotto guida ecografica e si inserisce un catetere forato per portare la bile
all’esterno.
Questa metodica crea un passaggio diretto tra la via biliare e l’esterno, con alto rischio di contaminazione, soprattutto se il catetere arriva
nel duodeno (se viene posizionato troppo indietro c’è il rischio di dislocazione)

179
• Biopsia: si ritiene utile soprattutto nei pz con sospetto clinico e radiologico di adenK duttale in
assenza di chiari segni di malignità e nei pz non candidabili a chirurgia.
Oggi si esegue generalmente per via endoscopica (che permette una migliore visualizzazione e una riduzione delle
complicanze).
In passato si faceva per via percutanea (PFBN): le problematiche principali sono la sede profonda, la scarsa visibilità causata dallo stomaco
disteso o dal meteorismo, il trapasso dello stomaco.
Nel 3,3% si verificano complicanze come pancreatite, fistola pancreatica, sanguinamento e c’è il rischio di disseminazione tumorale.

• Laparoscopia esplorativa: oggi non è più usata per ottenere una conferma diagnostica, ma serve per ottenere una conferma dell’operabilità
della lesione prima di iniziare l’intervento stesso: permette di visualizzare i contatti con le strutture vascolari e biliari non visibili
all’imaging, soprattutto se associata ad ecografia.

Stadiazione

La stadiazione più importante è quella basata sulla resecabilità del T secondo la classificazione NCCN 2016:
➢ Resecabile (15% dei casi): con sopravvivenza a 5 anni del 25%.
Criteri:
− No M
− Nessun contatto con v. mesenterica superiore o v. porta o contatto ≤ 180° senza irregolarità
del contorno del vaso
− Nessun contatto con a. mesenterica superiore, tripode celiaco e a. epatica comune

➢ Borderline Resectable (10%): per cui è probabile una resezione non radicale (R1).
Criteri:
− No M
− Contatto con v. MS o della v. porta ≥ 180° oppure con irregolarità del profilo venoso
oppure con trombosi, ma con possibilità di ricostruzione vascolare
− Contatto con v. CI
− Contatto con a. MS o tripode celiaco < 180° o contatto con a. EC La differenza di classificazione tra
ma senza estensione al tripode celiaco o alla biforcazione dell’a. vene e arterie è data dal fatto che le
epatica arterie sono circondate da
strutture linfatiche e nervose ⇛
l’interessamento del vaso arterioso è
➢ Non resecabile (75%) sempre associato all’interessamento
Criteri: di queste strutture, quindi anche
− M+ (50% dei casi), incluse metastasi linfonodali non regionali ricostruendo l’arteria non si
otterrebbe un miglioramento in
termini di sopravvivenza.
− Contatto con v. MS o v. porta senza possibilità di ricostruzione
vascolare
− Contatto con a. MS o tripode celiaco ≥ 180%

− Contatto con aorta

180
Terapia

Malattia localmente avanzata non


resecabile

181
Trattamento chirurgico
Valutazione rischio operatorio
Il pz non deve solo essere in grado di sopportare
❖ Per K della testa del pancreas ⇒ Duodeno Cefalo- l’intervento, ma anche di sopportare le complicanze
Pancreasectomia (DCP) specifiche, che si verificano nel 50% degli interventi.

a) Intervento secondo Whipple Parametri associati ad aumento delle complicanze


perioperatorie:
Prevede resezione di antro dello stomaco, duodeno fino a prima
• Proteine totale < 6,2 g/dL
ansa digiunale, testa del pancreas e via biliare a monte del dotto • Albumina < 2,7 g/dL
cistico (si fa sempre colecistectomia). • Transferrina < 270 mg/dL
• Colinesterasi < 2200 U/mL
Occorre poi associare linfadenectomia delle stazioni linfonodali N1 • Diminuzione di peso > 10% in 3 mesi
ed N2. • Prealbumina < 0,20 mg/dL
Questo perché spesso le recidive locali sono causate da residui di malattia nei tessuti extra-
pancreatici (come linfonodi e plessi nervosi) e non da residui pancreatici. Se si devono attendere alcune settimane prima
L’indicazione è quella di rimuovere tutte le stazioni linfonodali N1 ed N2, ma questo correla dell’intervento (terapia neoadiuvante) è importante
con l’aumento di morbilità come ascite e linforrea post-operatoria. intervenire dal punto di vista dietetico.

Per la DCP, si usa l’accesso sottocostale, in quanto espone bene pancreas ed ilo epatico.
Prima di fare qualsiasi resezione bisogna valutare l’indennità delle strutture vascolari mediante di flessura epatica e duodeno (manovra di
Kocher).
Prima della sezione del pancreas è importante valutarne dalla faccia posteriore per verificare che l’asse mesenterico non sia coinvolto.
La sezione del pancreas può essere fatta con varie tecniche: il prof. usa un bisturi a freddo con dei punti per fare emostasi piuttosto che
tecniche di radiofrequenza in quanto è importante valutare la vascolarizzazione dell’organo (fdr principale per la formazione di fistole).

La ricostruzione solitamente utilizza un’unica ansa digiunale per ricollegare pancreas, dotto epatico
comune e stomaco, mediante:
• Anastomosi pancreatico-digiunale:
− termino-terminale: si può fare se i diametri sono congruenti; di solito si posiziona un tutore
nel Wirsung per evitarne la legatura accidentale e per facilitare il drenaggio

− termino-laterale: si può fare a tutto spessore o con una piccola incisione che permette di
collegare il Wirsung alla mucosa.

182
Per ricollegare il moncone pancreatico, si può anche usare lo stomaco al posto dell’ansa digiunale con diversi vantaggi: l’anastomosi è
più vascolarizzata e visualizzabile tramite endoscopia, i succhi pancreatici non vengono attivati dalla bile.

Il vantaggio nel lasciare il pancreas è che viene garantita sia la funzione endocrina che quella esocrina: i pz di solito non diventano
diabetici rimuovendo solo la testa del pancreas, al massimo hanno un peggioramento della tolleranza glucidica.

• Anastomosi bilio-digiunale termino-laterale

• Anastomosi gastro-digiunale.

b) DCP con conservazione di antro e piloro secondo


Longmire-Traverso
Vantaggi: intervento più rapido, migliore funzionalità gastrica e minore probabilità
di reflusso bilio-gastrico.
A lungo termine si è visto che è equivalente alla tecnica standard.

Complicanze
Il problema principale è il rischio di fistola (15% dei casi) a
livello dell’anastomosi, che può provocare ascessi
addominali/complicanze settiche e sanguinamento tardivo
(causa principale di morte nei pz operati).

POPF (Post-Operative Pancreatic Fistula)


Sono classificate in base alla presenza di complicanze secondo la
classificazione di Clavien-Dindo:
• Tipo A ⇒ fistole biochimiche: si fa diagnosi quando il valore delle amilasi nel drenaggio è > 3
volte quello delle amilasi sieriche; non modificano il decorso post-operatorio

• Tipo B ⇒ fistole clinicamente rilevanti, le cui complicanze modificano il decorso post-operatorio,


con necessità di trattamento.
Nello specifico, son definite da:
− Drenaggio peripancreatico persistente per > 3 settimane
− Specifici interventi percutanei o endoscopici per le raccolte
− Procedure angiografiche per il sanguinamento da POPF
− Segni di infezione senza insufficienza d’organo

• Tipo C:
− Reintervento
− Segni di infezione con insufficienza d’organo
− Insufficienza d’organo.

La previsione del rischio di fistola è importante per attuare manovre preventive come centralizzazione (⇒
trasferimento e management del pz in centri con alta esperienza), terapia anti-secretiva con somatostatina o digiunostomia
nutrizionale.
Fattori principali per il calcolo del rischio:
• Consistenza pancreas: se morbido, rischia di
lacerarsi al momento della sezione
• Eziologia della malattia
• Diametro del Wirsung: più è piccolo e più è alto il
rischio
• Sanguinamento intra-operatorio.

183
Emorragia Post-Pancreatectomia (PPH)
Si suddivide in:
• Emorragia precoce: si verifica entro 24h dall’intervento ed è generalmente dovuta ad un errore
tecnico dell’intervento (ad es. emostasi non sufficiente o laccio che ha ceduto):
− Se c’è un sanguinamento endoluminale/GI (ad es. a livello gastrico, rilevabile tramite
ematemesi), questo può essere dovuto a un sanguinamento a livello della mucosa o della
sutura ⇛ endoscopia immediata con emostasi
− // extraluminale, visibile dai drenaggi ⇛ chirurgia tempestiva per emostasi e rimozione
dell’ematoma

• Emorragia tardiva: di tipo arterioso, può manifestarsi anche a distanza di 15-30 giorni
dall’intervento, con elevata mortalità:
− Se sanguinamento endoluminale/GI ⇒ ulcera marginale dell’anastomosi pancreatica ⇛
endoscopia con emostasi.
Attenzione: anche se il sanguinamento sembra endoluminale, non bisogna escludere la
possibilità di sanguinamento in cavità peritoneale che drena all’interno dei visceri (⇒
sanguinamento pseudo-intraluminale).

− Se sanguinamento extraluminale ⇒ erosione settica delle a. peri-pancreatiche (nel 60% è


la a. gastroduodenale) associata a complicanze anastomotiche.
Spesso prima dell’emorragia compare uno pseudo-aneurisma, che è considerato una lesione
intermedia e va trattato indipendentemente dalle sue dimensioni.
Può provocare piccoli sanguinamenti, definendo un’emorragia sentinella che va valutata
con angio-TC (fornisce una visione panoramica, disegna l'albero vascolare con pari qualità della arteriografia,
quantifica l'emoperitoneo) o angiografia.
Trattamento in angiografia (⇒ embolizzazione o stent) o in caso di
insuccesso/sanguinamento massivo con re-laparotomia.
L’angiografia oggi è più usata della re-laparotomia in quanto permette di agire anche se il campo operatorio è molto
complesso ed è associata a rischi inferiori.
Il problema principale è che si tratta il sanguinamento, ma non si va a risolvere la fistola, quindi l’emorragia potrebbe
ripresentarsi.

Fdr più importanti per emorragia:


o linfadenectomia estensiva (per scheletrizzazione dei vasi)
o parenchima molle
o Wirsung piccolo.

In questi casi è possibile valutare monitoraggio con TC a una settimana dall’intervento.

184
❖ Pancreasectomia totale
È tecnicamente più semplice rispetto alla DCP (in quanto non è necessario confezionare l’anastomosi), ma si è visto che la mortalità non è inferiore
alla prima procedura.
Vantaggi: asportazione anche di eventuali focolai distaccati, linfadenectomia più completa ed elimina i rischi derivanti dal moncone lasciato in sede.

Indicazioni: solo in casi selezionati:


− moncone poco consistente
− margine di resezione con interessamento neoplastico
− forme estese o multicentriche
− durante intervento di DCP in caso di difficoltà nel confezionamento dell’anastomosi o evidente
disseminazione locale.

Conseguenze: insufficienza pancreatica esocrina ed endocrina.

❖ Per K di corpo e coda ⇒ spleno-pancreasectomia distale


Prevede resezione di corpo, coda e milza; si
completa con una linfadenectomia alle stazioni N2
(più standardizzata rispetto a quella della testa).

N.B: per tumori di tipo neuroendocrino e per i cistici è possibile proporre


la conservazione della milza.

L’accesso è per via sottocostale mediana e sx; è necessario mobilizzare


non solo il pancreas ma l’intero blocco spleno-pancreatico.
La sezione del pancreas avviene allo stesso livello di quella per la DCP,
cioè al passaggio dei vasi mesenterici; questo tipo di sezione permette di vedere bene i vasi e legare la vena splenica (la mesenterica se possibile va
lasciata aperta per consentire il deflusso di sangue dall’intestino).

Questo intervento ha un tasso superiore di fistole rispetto alla DCP (anche >50%), le quali sono però meno
aggressive (in quanto i succhi pancreatici non vengono attivati).

Risultati della chirurgia


Sono abbastanza modesti in termini di sopravvivenza e sarebbe meglio
intervenire agli stadi precoci.
Si è visto che a parità di stadio clinico l’esecuzione della pancreasectomia
determina un aumento di sopravvivenza di circa il 30% a 5 anni rispetto al
non intervento.

Il grading istologico influisce sulla prognosi, ma spesso non è valutabile prima


dell’intervento e non andrebbe comunque considerato una controindicazione
alla chirurgia.

Fattori prognostici più importanti:


• positività dei linfonodi asportati
• N-ratio: la prognosi di un pz con 1 solo linfonodo positivo in
vicinanza del tumore è sovrapponibile al pz con N0, mentre bastano
2-3 linfonodi positivi per farla peggiorare di molto.

Oggi si pensa che l’associazione di CT neoadiuvante e chirurgia sia la scelta migliore per trattare i tumori del pancreas.
Usare la CT neoadiuvante consente di osservare il tumore per più tempo definendone meglio l’aggressività e in alcuni casi può riportare
all’operabilità tumori prima definiti inoperabili.
Inoltre, nel 40% dei casi la CT non può essere fatta nel post-operatorio, quindi non farla prima toglie ai pz una possibilità di terapia: questo succede
perché l’intervento di pancreasectomia è impegnativo e collegato ad un alto rischio di infezioni.
Questo fattore è particolarmente importante nei tumori borderline per i quali c’è un rischio elevato di resezione incompleta.

185
Procedure palliative

Rischi della procedura endoscopica: occlusione della protesi, colangite e sanguinamento.


Se si interviene per via percutanea, le protesi sono più difficilmente sostituibili e c’è un più alto rischio di dislocazione.

La palliazione per il transito gastro-duodenale è necessaria quando il tumore infiltra il duodeno e ne occlude il lume (15% dei pz): si può fare una
gastro-entero-anastomosi per via laparoscopica/eco-endoscopica o si possono inserire protesi che bypassano il tratto occluso.

La palliazione del dolore avviene principalmente tramite terapia medica.

Possibilità di screening del tumore pancreatico


Nell’organizzazione del work-up diagnostico terapeutico di una neoplasia deve sempre essere vagliata la possibilità di un programma di screening,
che però deve rispondere ad alcuni requisiti:

❖ Mortalità e incidenza: è indubbio che il tumore del pancreas sia una delle neoplasie dotate di maggiore mortalità.
Tuttavia, in termini di incidenza si pone un problema: 9 casi/100.000 ab all’anno, ossia un valore circa 3-4 volte inferiore rispetto all’HCC

❖ Gruppi di soggetti a rischio identificabili: mentre per i tumori di


mammella, cervice uterina, colon e fegato l’individuazione di fasce
di popolazione maggiormente a rischio è abbastanza semplice, al
contrario l'attuale conoscenza dei fdr per i tumori del pancreas non
consente lo stesso.
Si può però quantomeno provare ad identificare una popolazione
più mirata su cui insistere per applicare questo screening: in
particolar modo bisognerebbe selezionare dei pz in cui il lifetime
risk è > 5% o incrementato di 5 volte: a tale scopo si è pensato di
analizzare la storia familiare.

❖ Metodica di screening: per il tumore del pancreas è necessaria


l’eco-endoscopia o la RM.
Questo limiterebbe il campo di applicazione dello screening, che
però sarebbe attuabile in un campione ridotto, formato solo da
coloro che hanno sindromi ereditarie.
Come in tutte le forme ereditarie, l’età di inizio dello screening
dev’essere precoce: il cut-off suggerito è 40 anni o 10 anni prima
rispetto all’età del parente più giovane che ha avuto il tumore del
pancreas.

❖ Impatto sulla prognosi: da diversi studi è emerso che anche


limitando lo screening a pz ad alto rischio la probabilità che si
arrivi ad una diagnosi è bassa e il beneficio prognostico ridotto.

186
TUMORI CISTICI del PANCREAS
Sono generalmente benigni e nella maggior parte dei casi non necessitano di trattamento chirurgico, che si
correla ad un elevato livello di mortalità peri-operatoria (5%) e a rilevanti sequele funzionali nel lungo
periodo dovute all’insufficienza pancreatica cronica.
Occorre comunque tener presente che alcuni tumori cistici del pancreas sono maligni, anche se meno
aggressivi rispetto ad un adenoK duttale.

Complessivamente rappresentano il 10% delle neoplasie epiteliali del pancreas esocrino e riconoscono
come gold-standard diagnostico la colangio-RM.

Classificazione anatomo-clinica
Distingue tre grandi entità:

➢ CISTOADENOMA SIEROSO
Anche detto tumore microcistico, rappresenta il 20% di tutti i tumori cistici del pancreas, si presenta
come una lesione cistica con diametro medio di 2 cm e struttura multiloculare ad alveare (facilmente
evidenziabile sia all’eco che alla TC).
La sua caratteristica principale è di essere benigno nel 100% dei casi.
Management:
• Se la diagnosi è ragionevolmente certa e il pz è asintomatico, non bisogna fare assolutamente
nulla.
Occorre differenziarlo dal cistoadenoma mucinoso, che può invece presentare una componente a rischio di progressione maligna

• Se le lesioni sono voluminose (> 4/5 cm), crescono nel tempo, provocano sintomi (ad es. dolore
addominale e dispepsia da compressione), si può considerare la resezione, ma al solo scopo sintomatico.

➢ IPMN (Intraductal Papillary Mucinous Neoplasm) del DOTTO PRINCIPALE


Rappresentano un altro 20% dei tumori cistici del pancreas, ma nel 70% dei casi è maligno ⇛ da
operare sempre.
Clinicamente si associa spesso a dilatazione del Wirsung.

Caratteristiche delle Neoplasie Intraduttuali Papillari Mucinose (IPMN): generalmente questi tumori insorgono in pz anziani, con leggera
prevalenza nel sesso M.
Sono localizzate più frequentemente a livello della testa e del processo uncinato del pancreas e soono caratterizzate dalla proliferazione delle
cellule intraduttali producenti mucina, all’interno del dotto principale o dei dotti secondari, o di entrambi.
Il risultato è la dilatazione dei dotti interessati o la loro ostruzione, con una sintomatologia, quando presente, caratterizzata da attacchi ricorrenti
di pancreatite acuta ostruttiva.
La produzione di muco può essere così abbondante da essere visibile durante l’esame endoscopico mentre fuoriesce dall’ampolla di Vater.

Le IPMN sulla base della localizzazione vengono distinte in:


− IPMN del dotto principale, quando la dilatazione interessa il dotto pancreatico principale, con un coinvolgimento che può essere diffuso
o segmentario; sono a più alto potenziale maligno (70%)
− IPMN dei dotti periferici, quando la dilatazione interessa i dotti pancreatici secondari, con interessamento uni- o multifocale
− IPMN di tipo misto, se la dilatazione interessa sia il dotto principale sia quelli secondari.

Complessivamente le IPMN si suddividono dal punto di vista AP in:


• Displasia lieve: Adenoma IPM
• Displasia moderata: IPMN Borderline
• Displasia grave: K IPM non invasivo
• K IPM invasivo: ha la particolarità rispetto all’adenoK di avere una sopravvivenza nettamente
maggiore (sopravvivenza a 10 anni pari al 60%, le forme non invasive addirittura il 100% di sopravvivenza).

Questioni aperte nella gestione dell’IPMN:


❖ Come riconoscere un IPMN: l’esame che si fa più spesso è la TC, anche se risulta decisamente più appropriata la colangio-RM.
N.B: la CPRE è un esame invasivo che può scatenare la pancreatite ⇛ va riservata solo nei casi in cui è operativa.

187
❖ Quando operarli: sono numerosi gli studi in letteratura che, in maniera retrospettiva, vanno ad analizzare i fattori pre-operatori predittivi
di malignità: alcolismo, ittero ostruttivo, diametro del Wirsung aumentato, elevato diametro delle cisti periferiche, presenza di noduli nella
parete delle cisti o del Wirsung.
Il problema è che la sensibilità di tutti questi fattori messi insieme arriva al 60%, quindi in un pz che non presenta nessuno di questi fattori
il tumore potrebbe essere ancora maligno (falsi negativi 40%).

La PET aggiunge specificità (cioè se una lesione è sospetta per essere maligna, ma non capta in PET può essere un falso positivo):
− Specificità della RM: 40% (quindi nel 60% dei casi il pz viene operato, pur sapendo che viene operato per errore)
− Specificità della PET: 100%

Inoltre si è visto che che:


• IPMN del dotto principale: spesso maligno (70% dei casi) ⇛ da operare sempre
• IPMN dei dotti secondari: generalmente non maligno ⇛ da non operare, a meno che non ci siano dei fdr clinici (ittero),
biochimici (CA 19.9) e radiologici di sospetta malignità (dimensione della cisti, spessore della cisti, presenza di noduli
intramurali con enhancement nello spessore della cisti e un diametro di parete > 3 mm).

Il punto da tenere in considerazione è che le sequele dell’intervento sono drammaticamente importanti e il rischio è quello di lasciare il pz
in terapia sostitutiva cronica per tutta la vita:
− Per quanto riguarda la funzione esocrina, vengono forniti continuamente enzimi pancreatici esogeni senza un vero beneficio,
perché il pz continua a mal assorbire e a produrre anche fino a 10 scariche al giorno di aspetto untuoso
− // funzione endocrina, il problema non è tanto l’iperglicemia (facilmente controllabile con insulina), quanto le ipoglicemie,
potenzialmente mortali.

Quindi, davanti ad un Wirsung dilatato, ci si deve chiedere se sia dilatato per un’ostruzione a valle o se lo sia a causa della neoplasia.
È inoltre importante sapere fino a dove è dilatato il Wirsung, perché se lo è fino a prima dei vasi mesenterici (istmo del pancreas) si
procede con un intervento di spleno-pancreasectomia distale (conservativo); di contro, se la dilatazione supera questo limite, allora si è
costretti ad attuare la duodeno-cefalo-pancreasectomia (ben più demolitiva).

❖ Se si opera, quanto pancreas bisogna togliere?


− Se il pz è in buone condizioni, l’IPMN del dotto principale va operato, perché ha una probabilità del 60% di avere o sviluppare
in futuro malignità
− Il margine chirurgico va gestito insieme al radiologo e all’anatomopatologo durante l’intervento chirurgico, anche se nella
maggior parte dei casi bisogna fare pancreasectomia totale
− Buona parte di questi IPMN sono maligni, ma anche se sono aggressivi e sono stati trovati tardivamente con linfonodi positivi,
le probabilità di guarigione sono buone.

❖ Se non si opera, per quanto tempo bisogna tenerli sotto controllo?


Nel caso in cui il pz operato sia sopravvissuto all’intervento e non presenti nessun sintomo di recidiva dopo 97 mesi (≅ 8 anni).
Secondo il professore, già dopo 12-24-36 mesi dall’intervento, i tassi di recidiva sono veramente bassi e quindi si potrebbe anche smettere
di effettuare il follow-up.

➢ NEOPLASIE MUCINOSE CISTICHE e IPMN dei DOTTI SECONDARI


È il gruppo più
eterogeneo e più
frequente (60% di tutte
le lesioni cistiche del
pancreas) e spesso non è
facile distinguere con
l’imaging se è uno o se è
l’altro.

La differenza principale
fra i due tipi è la
comunicazione col dotto di Wirsung:
− assente ⇒ MCN
− presente ⇒ IPMN Branch Duct

Entrambe sono neoplasie a basso rischio di malignità (15-20% dei casi).

188
Flow-chart diagnostico-terapeutico per tumore cistico pancreatico non sieroso:

1) Valutare la presenza delle


seguenti condizioni:
• Caratteristiche di alto
rischio per malignità:
− Ittero ostruttivo
associato a lesione
cistica della testa del
pancreas
− Componente solida
con enhancement
all’interno della cisti
− Diametro del dotto
di Wirsung ≥ 10
mm

In tal caso, considerare


chirurgia (se clinicamente
appropriata).
Nelle forme di IPMN del dotto principale con dilatazione diffusa che interessa tutta la ghiandola la pancreasectomia totale è
l’intervento di scelta.
Negli altri casi si limita la resezione al tratto di ghiandola interessato (pancreasectomia sx o DCP).

• Caratteristiche di medio rischio (“Worrisome Features”):


− Segni di pancreatite
− Cisti > 3 cm
− Wirsung tra 5-9 mm
− noduli murali ma senza enhancement
− ispessimento delle pareti della cisti con enhancement
− cambiamento nel calibro del Wirsung con atrofia pancreatica distale
− ipertrofia di linfonodi sospetti peripancreatici

In tal caso, procedere con eco-endoscopia con agoaspirato (per citologia) e valutare se indirizzare
a chirurgia o follow-up.

2) In caso di negatività delle caratteristiche sospette per malignità, follow-up con RM e/o EUS a cadenza
programmata a seconda della grandezza della cisti:
- Se la cisti è < 1cm: controllo dopo 2-3 anni
- Se la cisti è > 3cm: stretta sorveglianza con RM ed EUS ogni 3-6 mesi; valutare chirurgia in pz giovani e sani.

189
NEOPLASIE del PANCREAS ENDOCRINO
Rappresentano solo il 2-5% delle neoplasie pancreatiche, con picco d’incidenza dai 30 ai 60 anni, ma quando associate a sindrome genetiche quali
MEN1 insorgono in età più precoce (10-30 anni).

L’OMS definisce le neoplasie del pancreas endocrino come neoplasie neuro-endocrine (NEN), in base all’espressione di marcatori condivisi con il
SN quali cromogranina A e sinaptofisina.
La classificazione OMS identifica due grandi categorie:

Questi tumori possono essere:


❖ Funzionanti: in grado di sintetizzare e secernere ormoni
pancreatici (tipicamente insulina e glucagone) ed anche altri
ormoni extrapancreatici (quali gastrina e VIP) con segni
clinici da iperincrezione ⇛ diagnosi più precoce e prognosi
migliore.
I più frequenti sono:
− Insulinomi: con comportamento benigno nel 90%
dei casi

− Gastrinomi: al contrario, con comportamento


spesso maligno.

❖ non funzionanti: senza segni clinici da iperincrezione (in


assenza o presenza di secrezione ormonale) ⇛ diagnosi più
tardiva e prognosi peggiore.

I NEN del pancreas possono insorgere anche nel contesto di una sindrome genetica come la MEN 1 (Multiple Endocrine Neoplasia), a trasmissione
AD determinata dalla mutazione loss of function del gene oncosoppressore MEN1.
Può manifestarsi con più di 20 neoplasie diverse; in termini pratici segue la “regola delle 3P”:
- Adenoma delle Paratiroidi
- Tumori neuroendocrini del Pancreas, soprattutto gastrinomi e insulinomi
- Meno frequentemente adenomi iPofisari, soprattutto Prolattinomi

Diagnosi:
• Su base clinica ⇒ pz con 2 o più tumori MEN1 associati
• // familiare ⇒ pz con tumore MEN1 associato ed un familiare di primo grado affetto da MEN1

In seguito alla formulazione del sospetto, si indirizza il pz ed i suoi familiari al test genetico.
Nei familiari risultati portatori di mutazione per la MEN1 viene effettuato lo screening biochimico e radiologico:

190
NEOPLASIE del PICCOLO INTESTINO
Costituiscono solo il 2,5 % di tutti i tumori del tratto GI, nonostante l’intestino tenue rappresenta il 75%
della lunghezza del canale alimentare.
Si tratta di una percentuale irrisoria se confrontata con i casi di tumore al colon (70 %), stomaco (16 %), esofago (10%).

A tal proposito, sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare la ridotta incidenza di neoplasie:
• Contenuto: è meno irritante (cancerogeno), perché prevalentemente liquido e contenente diversi tipi di sostanze rispetto al contenuto dello
stomaco (contenuto acido) o dell’intestino crasso

• Rapido transito: con ridotta esposizione a sostanze cancerogene

• Diversa popolazione batterica: quantitativamente ridotta e prevalentemente aerobica (ridotta produzione di cancerogeni); nell’intestino
crasso, i batteri sono molti di più (la massa fecale è composta per il 15-20% da batteri) e prevalentemente anaerobi

• Abbondante componente linfatica: il tenue può essere considerato un vero e proprio “organo linfatico”, con una grossa componente di
cellule immunitarie, soprattutto Ly

• Attività enzimatica: maggior presenza di succhi pancreatici e bile, con aumentata detossificazione di potenziali cancerogeni.

Sedi di insorgenza complessiva: non ci sono grosse differenze: ileo 38%, digiuno37%, 25% duodeno.
Mentre ileo e digiuno hanno limiti anatomici di separazione abbastanza vaghi (con l’ileo più lungo del digiuno), il duodeno ha invece limiti precisi di
demarcazione (inizia a livello del piloro, termina a livello del Treitz).
Se si considera la percentuale relativa di neoplasie che insorgono nel duodeno e la si rapporta alla scarsa lunghezza di questo tratto (20-25 cm), si
può dedurre che il duodeno è in effetti la sede privilegiata delle neoplasie del tenue.

Classificazione istologica

➢ Tumori benigni (40%):


− Leiomiomi (25% dei benigni): dimensioni >5 cm sono associate a rischio di degenerazione maligna
− Adenomi (25%): sono spesso associati alla FAP.
Il rischio degenerativo (7%) è relazionato alle dimensioni della lesione, alle caratteristiche istologiche (istotipo villoso, crescita
sessile) e di differenziazione

− Emangiomi

− Amartomi: possono essere associati alla sindrome di Peutz-Jeghers, una malattia genetica a
trasmissione AD, con prevalenza di 1:50.000.
Si caratterizza per polipi amartomatosi multipli nello stomaco, nel tenue e nel colon, insieme a
caratteristiche lesioni pigmentate nel derma (in particolare della mucosa orale).
È presente un aumentato rischio di tumori GI (fra cui anche pancreas) e non GI (come mammella,
polmone, utero, ovaie e testicoli).

− Neurofibromi.

➢ // maligni (60%):
− AdenoK (35%)
− Carcinoidi (40%)

− LNH (15%): con prevalente localizzazione a livello del digiuno.


Fdr: immunosoppressione, malattia celiaca di lunga data non trattata.

− Leiomiosarcomi
− GIST
− Sarcoma di Kaposi.

191
Clinica
Spesso sintomatica, ma con manifestazioni molto aspecifiche (come nausea, vomito, dolore addominale
intermittente, emorragia GI con anemia, calo ponderale…).
Per via della scarsa frequenza di queste neoplasie, non vengono quasi mai considerate come probabile causa
almeno inizialmente ⇛ diagnosi tardiva, con neoplasia in stadio avanzato o metastatico.

L’unico sintomo specifico è l’invaginazione (con conseguente quadro di occlusione), ma è il più raro (4%).
Infatti un’invaginazione intestinale nell’adulto (confermata tramite esami strumentali) è quasi sempre sostenuta da una neoplasia del piccolo intestino.

Buona parte delle diagnosi si ottiene dunque nella fase intraoperatoria e spesso in urgenza, con un pz
spesso operato per sindromi addominali acute di natura occlusiva, emorragica (ad es. emoperitoneo) o
peritonitica.

Queste lesioni spesso sono multifocali (soprattutto carcinoidi e linfomi) e si associano con lesioni tumorali
in altre sedi, soprattutto quando insorgono nel contesto di sindromi genetiche.

ADENOK del PICCOLO INTESTINO


Origina dalle cellule ghiandolari della mucosa intestinale, si localizza principalmente nel duodeno.
Fdr:
• FAP ⇒ adenoK duodenale
• Malattia celiaca ⇒ // digiunale
• Malattia di Crohn ⇒ ileale.

La sede di insorgenza rappresenta la discriminante maggiore: gli adenoK duodenali insorgono in pz più
anziani, tendono a essere più spesso localizzati e a dare minore incidenza di N+, ma richiedono chirurgia
radicale più complessa ⇛ prognosi peggiore.
Se la lesione è localizzata nella regione peripapillare (papilla di Vater, allo sbocco del dotto di Wirsung e del coledoco) è asportabile con un intervento
sovrapponibile a quello effettuato per l’adenoK del pancreas.

NEOPLASIE NEURO-ENDOCRINE (NEN)


Gruppo di neoplasie rare (con incidenza complessiva a 6 casi/100.000 ab
all’anno), che originano dalle cellule del sistema
neuroendocrino diffuso e pertanto possono potenzialmente
insorgere in qualsiasi distretto corporeo.
Nei 2/3 dei casi nascono nel tratto gastro-entero-pancreatico
(GEP-NEN); altra sede frequentemente coinvolta è l’albero
bronchiale.

I NENs sono distinti sulla base di conta mitotica e indice


proliferativo in:
• NET: tumori neuroendocrini ben differenziati (G1 e
G2).
Il termine “carcinoide” è stato originariamente utilizzato per questi
tumori perché tendono ad avere un decorso più indolente dei K GI

• NEC: K neuroendocrini poco differenziati (G3, con


>20 mitosi per 10 HPF oppure Ki67 > 20%).

I NEN del piccolo intestino insorgono ad un’età media 60


anni e hanno prevalente localizzazione a livello dell’ileo e
dell’appendice.
Dopo aver eseguito un'appendicectomia per appendicite acuta, il pezzo operatorio
viene analizzato istologicamente per ricercare eventuali anomalie che possano
spiegare lo stato infiammatorio; lo stesso procedimento si realizza dopo una colecistectomia.

192
Clinica:
• Forme silenti: asintomatiche, con riscontro causale (incidentaloma).

• Forme clinicamente evidenti:


− Funzionanti: in
grado di
sintetizzare e
secernere ormoni
con segni clinici
di iperincrezione
ormonale

− Non funzionanti:
senza segni clinici
di iperincrezione
(in assenza o presenza di
secrezione ormonale);
provocano sintomi
da complicanze
(principalmente
emorragie GI o occlusioni a livello del piccolo intestino).

Fra le manifestazioni da iperincrezione ormonale, la più conosciuta è la sindrome da carcinoide, tipicamente


dovuta alla sregolata secrezione di:
− serotonina (o 5-idrossi-triptamina, 5-HT): responsabile di dolori addominali con diarrea e nel lungo
periodo fibrosi endocardica (⇛ può provocare stenosi mitralica)

− istamina e bradichinina: responsabili di flushing cutanei (rossore sgradevole tipicamente del volto, collo e torace),
lacrimazione, scialorrea, broncocostrizione e ipotensione.

Si sviluppa più frequentemente con NEN a insorgenza ileale e presuppone la presenza di M epatiche (che
riducendo la capacità di clearance epatica, permettono il rilascio di ormoni direttamente nel sistema circolatorio ).
Fanno eccezione i NEN ad origine dal distretto toracico che possono causarla anche in assenza di M epatiche.

Può essere identificata con il dosaggio nelle urine delle 24h dell’acido 5-idrossi-indoloacetico (5-HIAA).
Per evitare risultati falsamente positivi, il test va effettuato dopo che il pz si sia astenuto per 3 giorni dall'assunzione di cibi contenenti serotonina (come
banane, pomodori, prugne, avocado, ananas, melanzane, noci).

Diagnosi e stadiazione: TC con mdc, RM, PET/TC con analoghi della somatostatina marcati con Gallio-68
(marcatore specifico per i NEN, soprattutto per le forme differenziate, che esprimono i recettori della somatostatina - SSTR).
Oggi la PET/TC è preferita alla scintigrafia con 111In-penteotride, nota anche come Octreoscan.
Le indicazioni all’impiego dell’imaging recettoriale con radiofarmaci che legano i recettori per la somatostatina includono la stadiazione
(caratterizzazione del T primitivo e delle lesioni metastatiche linfonodali e a distanza), la localizzazione del T primitivo ignoto in pz con M
neuroendocrine accertate, la dimostrazione in vivo dell’espressione dei SSTR sulle cellule neuroendocrine per la pianificazione terapeutica, nonché la
ristadiazione dell’estensione della malattia a seguito del trattamento.

Concetto fondamentale dei NEN è che persino piccole lesioni possono essere associate a M.
Circa il 90% dei carcinoidi siti nell’ileo, stomaco e colon coinvolgenti la tonaca muscolare ha anche già interessato i linfonodi locoregionali e sedi di
metastatizzazione a distanza (fegato e polmone). Al contrario, i carcinoidi localizzati in sede appendicolare e rettale raramente metastatizzano.
La prima sede per frequenza sono i linfonodi del meso, con un'invasione che si porta progressivamente in profondità fino alla radice della a.
mesenterica superiore.

193
Trattamento: è basato su una chirurgia curativa con resezione segmentaria del T (comprendendo il ventaglio
mesenterico del segmento intestinale asportato; nel contesto del mesentere si ha infatti la diffusione linfatica locoregionale della malattia ).

Si opera in laparotomia per diversi motivi:


- diversamente dai GIST, nei NEN è sempre consigliata una linfoadenectomia estesa (raggiungendo la
radice dei vasi dell'a. mesenterica superiore): ciò può essere fatto accuratamente, con rispetto delle strutture
vascolari, solo tramite approccio laparotomico
- essendo lesioni piccole (grandi come un chicco di riso) si possono trovare solo mediante palpazione
- essendo spesso lesioni multiple, ad un'ispezione non accurata potrebbe sfuggire tale multicentricità.

N.B: va associata la colecistectomia se è presente calcolosi e se c'è un trattamento con analoghi della somatostatina da associare dopo la chirurgia.

Lo stesso concetto di chirurgia curativa, quando possibile, va applicato alle M, ma bisogna considerare che:
- in un NEC metastatico, la prognosi non migliora neanche asportando le M (di solito epatiche) ⇛ è
controindicato intervenire
- in un NET ben differenziato, ha senso trattare eventuali M.

Confrontando le curve di sopravvivenza per le lesioni del digiuno e ileo, si nota che, per qualsiasi stadio di malattia, tali lesioni sono correlate con una
buona sopravvivenza (mediana: maggiore in ogni caso di 65 mesi).
Secondo alcuni dati, infatti, la presenza di M epatiche da NEN digiunale/ileale non modificherebbe più di tanto la sopravvivenza a lungo termine
e, in effetti i pz con malattia M+ (epatica) hanno una sopravvivenza a 5 anni del 54%, poco inferiore rispetto ai pz con malattia localizzata (65%).
Inoltre, quando le M non risultano asportabili, la chirurgia del T è comunque indicata per evitare complicanze intestinali.
La chirurgia delle M può essere fatta anche a scopo di debulking: pur essendo consapevoli del fatto che la chirurgia non sarà radicale viene comunque
intrapresa come scelta terapeutica per ridurre i sintomi e si garantisce così la possibilità di chemioembolizzare la restante quota di M rimasta.

Chirurgia delle M epatiche da NET


Considerazioni generali:
• il NET primitivo può non essere noto: è possibile fare a
meno, al momento della chirurgia, di avere sotto controllo il
T.
Solitamente, invece, ha poco senso operare le M se il T non può essere asportato o
non è controllato, poiché lascio in sede la fonte di disseminazione delle cellule
neoplastiche.

• non è richiesto che i margini di resezione siano negativi: non


c'è diversa sopravvivenza tra resezione R0 e R1; le M sono
espansive e non infiltrative

• la resezione completa di tutte le M non è richiesta

• le M extra-epatiche non sono controindicazione alla chirurgia epatica: la maggior parte dei pz muore
per insufficienza epatica.

Criteri per indicazione alla chirurgia per M epatiche:


• NET (G1-G2)
• M epatiche resecabili
• Basso rischio peri-operatorio
• Fegato residuo dopo chirurgia ≥ 30 %
• Assenza di cardiopatia da carcinoide
• M linfonodali o extraddominali trattabili, non carcinosi peritoneale diffusa o non resecabile.
• NET primitivo resecabile/resecato.
In realtà le ultime linee guida non confermano ciò: è frequente avere NET molto piccoli (che non si trovano agli esami
strumentali) ma molte metastasi, quindi talvolta si fa comunque chirurgia delle metastasi, resecando T in un secondo tempo.

194
N.B: l'assenza di M resta comunque l'aspetto prognostico positivo più importante, che influenza
nettamente la sopravvivenza.
L'unica eccezione è rappresentata dai NET localizzati nel digiuno/ileo, in cui la presenza di M
epatiche cambia di poco la sopravvivenza.
Per questi NET del piccolo intestino è quindi ancora più importante perseguire un atteggiamento
curativo (per quanto riguarda la chirurgia “radicale” del fegato), in grado di migliorare
significativamente la prognosi della malattia.

Per le M epatiche da NET, da molti anni esiste l'indicazione al trapianto


epatico in casi selezionati:
− NET (G1-G2)
− T primitivo e M extraepatiche rimosse prima dell’OLT
− T primario drenato dal sistema venoso portale
− Coinvolgimento epatico ≤ 50%
− malattia stabile da > 6 mesi
− pz giovane (<55 anni).

Controindicazioni:
 NEC (G3)
 M extra-epatiche
 Non GEP-NET o tumore drenato dal sistema venoso portale (ad es. esofago e retto)
 Avanzata cardiopatia da carcinoide
 Altre controindicazioni mediche o chirurgiche al trapianto.

Negli ultimi due anni, tale indicazione è stata estesa anche ai casi di M epatiche da CCR.

Resezione epatica per M da NET: immediata o differita?


Anche questa scelta è da discutere in un’ottica di approccio multidisciplinare, in
cui gli oncologi predominano.
La terapia medica, sia attraverso la classica CT sia con farmaci specifici (come
gli antagonisti dei recettori della somatostatina), è in grado di aumentare molto
la sopravvivenza a distanza.

Per quanto riguarda la terapia chirurgica, di solito si opera con una resezione
sincrona in un tempo (one-shot) se l’intervento sull’intestino è facile e la
chirurgia delle M lo è altrettanto, se i pz sono giovani ed in grado di sopportare
un intervento lungo (tali indicazioni valgono sia per i NET che per il CCR).

Talvolta le M epatiche sono rilevate durante l'intervento e si decide se procedere


con una chirurgia associata intestino-fegato in base a:
- Tipo di chirurgia epatica richiesta (maggiore/gravosa o minore)
- Possibilità di usare tecniche ablative associate (radiofrequenza)
- Accettazione resezione R2.

Quando queste condizioni non si verificano, è preferibile una chirurgia in due tempi.

La possibilità di scelta fra chirurgia sincrona o metacrona vale anche per NET con diversa sede.
Si ricorda che per M da NET del pancreas si aggiungono i problemi relativi alla chirurgia sul T, che risulta più difficile rispetto ad una chirurgia di
un T intestinale: in questi casi viene persa la possibilità di effettuare chirurgia sincrona (fare una duodenopancreatectomia associata a una resezione
epatica).

195
TUMORI STROMALI GI (GI-ST)
Tumori rari dei tessuti mesenchimali che possono interessare qualunque distretto del tratto GI, sebbene la
maggior parte si localizzi a livello dello stomaco e del piccolo intestino (a livello digiuno-ileale, in particolare a livello
del diverticolo di Meckel).

Patogenesi: i GIST originano dalle cellule di Cajal (ICC) e/o da una loro cellula progenitrice.
Le ICC sono le cellule pacemaker della normale peristalsi intestinale.

Nella quasi totalità dei casi si riscontra la mutazione gain-of-function nel gene KIT, rilevabile mediante IIC
con positività per l’Ag CD117 ⇛ diagnosi istologica e possibilità di target therapy.

Natura della lesione: macroscopicamente si presenta come


un tumore circoscritto, che cresce con comportamento
espansivo, rivestito generalmente da mucosa indenne, di
consistenza molle, ma molto vascolarizzato.

Nella maggior parte dei casi si tratta di lesioni benigne


(70%), la cui distinzione da forme maligne si basa
principalmente su dimensioni della lesione e indice
mitotico; occorre poi considerare anche l’eventuale
presenza di M (generalmente epatiche, più raramente polmonari) e sede
(nello stomaco sono più probabilmente maligni).

La distinzione dicotomica tra neoplasie benigne e maligne oggi non appare appropriata per i GIST ma si preferisce utilizzare il concetto di categorie
di rischio in un’ottica di probabilità.

Diagnosi: eco-endoscopia con biopsia + TC.

Trattamento:
▪ Target therapy di prima linea con Imatinib, seconda linea con Sunitinib e terza linea con Regorafenib.
Questi farmaci a bersaglio molecolare possono essere utilizzati:
− Pre-chirurgia ("preparatori" con effetto downstaging o neoadiuvante)
− Post- chirurgia ("complementari", ovvero terapia adiuvante)
− In sostituzione della chirurgia.

I farmaci molecolari sono efficaci, ma esiste un dubbio interpretativo per quanto riguarda la modalità di valutazione della risposta della
lesione a questi farmaci: infatti, si verifica prima un aumento apparente delle dimensioni (o una stabilizzazione nella crescita) e
contemporaneamente una alterazione della struttura della lesione (densità, vascolarizzazione) che ne rende più agevole la rimozione
chirurgica.

▪ Trattamento chirurgico: è largamente dipendente dall’estensione della lesione:


− per lesioni piccole (< 2 cm): trattamento conservativo (infatti raramente sono maligne)

− per lesioni >2 cm: intervento chirurgico con intento radicale (R0), possibilmente
rispettoso della funzionalità d'organo, eventualmente preceduto da target therapy a finalità
di downstaging.
Grosse resezioni con linfoadenectomie estese non sembrano dare un vantaggio terapeutico (per cui ad es. di fronte a una
piccola lesione nello stomaco, non ha senso fare una gastrectomia).

È fondamentale evitare la rottura della capsula tumorale, per via dello sgocciolamento di cellule che si impiantano facilmente
nel peritoneo.

− le M sono di solito passibili di resezione chirurgica, soprattutto se responsive alla target


therapy.
In generale, la terapia medica in associazione alla chirurgia nel trattamento delle M non serve solo ad aumentare la
sopravvivenza, ma anche a definire l'aggressività della patologia: se con la terapia medica (CT tradizionale, target therapy o
immunoterapia) la M si riduce, allora ha senso fare chirurgia.
La chirurgia delle M può essere effettuata nello stesso momento in cui è rimosso il T primitivo (sincrona) o in seguito
(metacrona): la scelta dipende dall'impatto che avrebbe quel determinato intervento chirurgico sul soggetto.

196
LESIONI PRECANCEROSE del COLON
Sono individuabili precocemente mediante screening con:
Intervallo di tempo nella progressione
delle lesioni precancerose:
❖ Metodiche di Cancer Prevention Test
Permettono di prevenire l’insorgenza del K colon-rettale: nel • Dalla mucosa normale
all’adenoma ⇒ da 5 a 20
complesso, han dimostrato una diminuzione di incidenza del CCR anni
dell’80% e una diminuzione di mortalità del 60%. • Dall’adenoma a K ⇒ da 5 a
15 anni
Fra tutte, la più efficace è la colonscopia, eseguita a partire dai 50 anni • In pz ad alto rischio, dalla
mucosa normale a K ⇒ circa
ogni 10 anni. 10 anni.

Esistono diverse tecniche alternative, tra cui la TC


colongrafia eseguita ogni 5 anni: tale procedura, però, è
in grado di rilevare solo lesioni di dimensioni > 5 mm e
non ne permette la rimozione con biopsia ⇛ colonscopia.

Chiamata anche colonscopia virtuale, prevede la somministrazione di un mdc a


base di Gastrografin che tagga le feci rimanenti dopo pulizia del colon per
ridurre falsi positivi e negativi alla ricostruzione da parte del software.
Per l’esecuzione dell’esame il colon viene disteso con anidride carbonica (più
tollerata dal pz perché si riassorbe più velocemente) e si procede alla
somministrazione di antispastici (Buscopan).
Tale TC consente una ricostruzione mutiplanare delle immagini sui piani
coronali e sagittali ed è possibile anche una rappresentazione 3D.

Più usata in passato era la sigmoidoscopia, eseguita ogni 5-10 anni, che indaga
la porzione più distale del colon, tenendo conto del fatto che, generalmente, le
lesioni adenomatose sono più frequenti nel colon di sx.
Si basava sull’ipotesi che se nel colon di sx non ci sono adenomi, è poco
probabile che ce ne siano nel colon di dx: questo approccio, in realtà, ha dei grandi limiti perché negli ultimi decenni si è riscontrata la
presenza di lesioni precancerose anche nel colon di dx che non sono adenomatose, ma serrate non polipoidi, iperplastiche e dalla
morfologia particolare, con le cripte disposte a dente di pettine.
Sono in genere difficili da identificare anche perché la loro presenza è indipendente dal fatto che ci siano anche lesioni adenomatose.

❖ Metodiche di Cancer Detection Test


Consentono, invece, di diagnosticare precocemente il CCR, permettendo una riduzione della sua
incidenza del 20%.

Tra queste tecniche si ricorda la ricerca del sangue occulto fecale (SOF), che indica la presenza di
un’eventuale lesione con microsanguinamenti.

In America la tendenza è quella di eseguire lo screening sottoponendo la popolazione a colonscopia.


In Europa, si preferisce screennare utilizzando la ricerca del SOF: il motivo è che, se si proponesse alla popolazione l’esecuzione di una
colonscopia dopo i 45-50 anni, essendo essa una procedura invasiva, l’aderenza sarebbe molto ridotta.
Lo screening con ricerca del SOF, anche se ha un risultato finale inferiore per quanto riguarda prevenzione e la riduzione dell’incidenza
del CCR, viene dunque preferito perché meglio accettato dalla popolazione generale.

Nel caso si utilizzi la ricerca del SOF, il percorso è il seguente:


− SOF negativo: ripetizione dell’esame a 2 anni
− SOF positivo: colonscopia.

Se la colonscopia è positiva:
− Se si riscontra una lesione neoplastica ⇒ resezione chirurgica della lesione + follow up

− // preneoplastica (più frequente) ⇒ rimozione endoscopica + follow up

Se la colonscopia risulta negativa: in questo caso si dovrà ripetere la ricerca del SOF a 5 anni.
Rappresenta comunque un problema, poiché esistono infatti i problemi dei falsi negativi alla colonscopia.

197
In termini di falsi negativi, alla prima colonscopia non vengono diagnosticati:
− Il 26% degli adenomi di dimensioni tra 1 e 5 mm
− Il 2,1% degli adenomi di dimensioni maggiori di 1 cm (adenomi avanzati)
− Il 2-6% dei K (soprattutto quelli con diametro ridotto, 5-8 mm).

Se le lesioni sono multiple, aumenta la percentuale di rischio di non riuscire ad identificare tutte le
lesioni presenti: per evitare ciò, occorre rispettare determinati criteri:
− Sufficiente sperienza dell’operatore
Chi esegue l’esame deve essere abile, addestrato e seguire programmi di miglioramento della qualità.
Con la sigla ADR si fa riferimento all’Adenoma Detection Rate: nella popolazione generale di età > 50 anni l’ADR deve
essere almeno del 25% nel sesso M e almeno del 15% nel sesso F.
Quindi nel 25% dei casi (nel sesso M) si deve documentare la presenza di un adenoma, se ciò non avviene, il colonscopista non
è sufficientemente addestrato o il colon non è adeguatamente pulito.

− Adeguata pulizia del colon


Da effettuare in maniera frazionata (una somministrazione il giorno prima e una la mattina prima della procedura per un
risultato ottimale).
Si attua con la procedura di enterolusi, grazie all’assunzione di preparati che permettono di evacuare tutte le feci, la cui
assunzione dipende dall’ora della colonscopia: le ultime dosi del preparato vanno assunte poche ore prima della colonscopia.
Può essere valutata con la scala di Boston che assegna ad ogni settore del colon (cieco-ascendente, trasverso, retto-sigma) un
punteggio da 0 a 3 in base alla pulizia, con valore totale max di 9.
Se il colon ha un punteggio ≥ 6 è possibile visualizzare in modo completo il 100% della superficie mucosa

− Esplorazione della mucosa:


o deve essere lenta ed ossessiva
o Tutti i polipi devono essere asportati
o Il tempo di retrazione dal cieco al retto, che è il tempo in cui si visualizza la mucosa,
deve essere > 6 minuti.

MORFOLOGIA degli ADENOMI


È definita sulla base della classificazione di Parigi:
1. Tipo I ⇒ lesioni polipoidi:
− Peduncolate
− Semipeduncolate
− Sessili

2. Tipo II ⇒ lesioni non polipoidi:


− Rilevate, granulari o non granulari
− Piatte
− Depresse
Una lesione che protrude nel lume per > 2,5 mm è una lesione polipoide, mentre una lesione
che protrude per < 2.5 mm è una lesione non polipoide.
Per misurare la protrusione si utilizza come parametro di riferimento lo spessore della pinza
da biopsia.

3. Tipo III ⇒ lesioni ulcerate.

Possono esistere lesioni miste (ad es. IIa + IIc).


Se la lesione ha diametro >10 mm viene definita LST (Lateral Spreading Tumor).

Si ha aumentata probabilità di malignità nei casi con:


• Dimensioni > 1 cm
• Presenza di tessuto villoso (nel 5% sono solo villosi, più frequentemente tubulo-villosi)
• Displasia di alto grado

Se presenti queste caratteristiche, si parla di adenoma avanzato.

198
I foci maggiormente sospetti per tessuto già neoplastico tipicamente hanno: morfologia ulcerata, forma
irregolare, maggiore friabilità.

La classificazione di Vienna consente di inquadrare le lesioni precancerose in 5 classi:


1) Assenza di neoplasia/displasia
2) Lesione indeterminata per neoplasia/displasia

3) Neoplasia intramucosa di basso grado (adenoma o displasia di basso grado)


4) Neoplasia intramucosa di alto grado:
− Adenoma o displasia di alto grado
− K non invasivo (“in situ”): nel colon si ha quando le cellule epiteliali displastiche rompono la membrana basale dell’epitelio per
invadere la sottostante lamina propria o muscolaris mucosae, ma rimangono entro la mucosa.
Poiché nella mucosa del colon i canali linfatici funzionali sono assenti, i K intramucosi hanno scarso potenziale metastatico e la
polipectomia completa è in genere curativa.

5) K invasivo: infiltrano la muscolaris mucosae con invasione della sottomucosa.

Le tre classi morfologiche della classificazione di Parigi si associano a un rischio progressivamente


maggiore di infiltrazione della muscolaris mucosae e poi della sottomucosa:
− Le lesioni polipoidi peduncolate hanno rischio più basso rispetto a quelle sessili
− Il rischio è ancora maggiore nelle lesioni non polipoidi, soprattutto per le lesioni depresse
− Laddove la componente è ulcerata il rischio è molto maggiore.
Questa classificazione morfologica vale anche per le lesioni di esofago e stomaco, con una differenza: nell’esofago sul fondo delle lesioni
depresse/ulcerate è presente tessuto tumorale, mentre nello stomaco non è presente tessuto tumorale.

Si distinguono 3 stadi di infiltrazione della t. sottomucosa:


• SM1: invasione del terzo superiore della t. sottomucosa ⇒ in
questo caso la resezione endoscopica è considerata radicale se i
margini sono liberi

• SM2: invasione dei due terzi superficiali della t. sottomucosa

• SM3: // tutto spessore.

Nelle lesioni SM2 ed SM3 l’asportazione endoscopica non è radicale: dopo l’asportazione della
lesione, il pz viene sottoposto a intervento chirurgico dato l’elevato rischio di cellule neoplastiche
negli strati profondi della parete viscerale, ma soprattutto per l’elevata probabilità di N+ ⇛ l’AP
deve proprio fare una misura precisa della profondità di infiltrazione.

Questo tipo di stadiazione riguarda l’intero tubo digerente, ma c’è una differenza in relazione alla sede anatomica per quanto concerne la
profondità di infiltrazione per definire le lesioni SM1, SM2 o SM3: nell’esofago SM1 ha una profondità di 200 micron, nello stomaco di
500 micron e nel colon di 1000 micron.
Questo deriva dalle caratteristiche anatomiche e dalla presenza di tessuto linfatico nella sottomucosa: nell’esofago il tessuto linfatico è
molto più rappresentato che nel colon, perciò la profondità per definire una lesione SM1 è inferiore.

199
STRATEGIA TERAPEUTICA
Sulla base della morfologia e del rischio di invasione della sottomucosa, si può rimuovere la lesione:
• Per via endoscopica
• Mediante intervento chirurgico solo dopo l’esecuzione di una biopsia.

Tecniche endoscopiche per valutazione istopatologica pre-asportazione


Consentono di individuare l’eventuale presenza di tessuto tumorale e definire i limiti della lesione per decidere le modalità di asportazione: si effettua
quindi quella che si chiama biopsia ottica.
Sono tecniche utilizzate in pochi centri perché richiedono strumenti particolari ed addestramento specialistico:
• Magnifying endoscopy: tramite l’utilizzo di lenti ingrandisce l’area da valutare
• Endomicroscopia confocale: si ha un quadro morfologico simile ad un esame istologico
• Cromoendoscopia: tramite colorazione della mucosa con coloranti vitali o tramite cromoendoscopia elettronica (che ha caratteristiche
specifiche per ciascun tratto del tubo digerente).

Con magnificazione e cromoendoscopia si può definire il Pit Pattern, ossia la morfologia dell’apertura
degli orifizi delle cripte: più sono anomali, maggiore è il rischio di neoplasia.
In particolare, dal tipo III in poi è probabile che sia già presente nella lesione del tessuto tumorale: quel
punto va asportato in blocco unico se la lesione è di grandi dimensioni.

Nello specifico:
• Pattern I e II sono normali, non neoplastici (orifizi rotondi, stellari o papillari)

• Pattern III è non invasivo:


− tipo IIIL con morfologia alterata
− tipo IIIs comincia ad allungarsi e ripiegarsi

• Pattern IV e V: invasivi.
− tipo IV: è ramificato e convoluto
− tipo V: non c’è più strutturazione delle ghiandole.

Abbiamo poi l’endocitoscopia, che permette di valutare con una sonda le caratteristiche delle cellule
prima della rimozione endoscopica della lesione, ma va valutata e quindi eseguita con l’aiuto di un
anatomopatologo.

Di fronte a polipi degenerati (riconoscibili per l’aspetto all’endoscopia, con superficie molto irregolare, estensione quasi circonferenziale, grosse
lesioni ulcerate), non si effettua la polipectomia ma una biopsia e poi direttamente la resezione chirurgica.

Tecniche endoscopiche di asportazione delle lesioni:

➢ Polipectomia endoscopica (snare polipectomy)


Nel polipo peduncolato si esegue mediante ansa
diatermica.

Complicanze:
• Sanguinamento (1,5%): il rischio di sanguinamento
è legato alle dimensioni del polipo (1-2% nei polipi di 1 cm,
sale al 7% nei polipi > 3 cm).
Per i polipi sessili il rischio è sempre maggiore ed è sempre aumentato in pz scoagulati.

Se c’è sanguinamento durante la procedura, si mettono in atto tecniche di emostasi meccanica come il posizionamento di clip metalliche
alla base della lesione, prima della rimozione della lesione, che restano in sede per alcuni giorni inducendo la trombizzazione del vaso.
Nei polipi con peduncoli di grandi dimensioni, si devono sempre adottare misure di prevenzione del sanguinamento, come con il
posizionamento di endoloop di plastica: il loop viene aperto, posizionato alla base del polipo e chiuso fino a comprimere il peduncolo.
Poi con l’ansa si seziona al di sopra dell’endoloop che rimane in sede finché la base del polipo non andrà incontro a necrosi, circa otto
giorni dopo l’esecuzione della procedura.

• Perforazione da danni termici parietali (1,5%): può essere conseguenza del fatto che durante la procedura
endoscopica, oltre al polipo, si ingloba una porzione di parete del viscere che viene danneggiata dalla dispersione di corrente anche
verso la parete.
Se ciò accade c’è la possibilità di suturarlo con clip emostatiche.

200
➢ Mucosectomia endoscopica (Endoscopic Mucosal Resection)
Si esegue nel caso di lesioni non polipoidi e LST.
È però una procedura ad alto rischio di
complicanze, in particolare perforazione.
Con un ago si inietta della soluzione liquida a livello della
sottomucosa per sollevare la lesione non polipoide e distanziarla dalla
tonaca muscolare e poi si procede alla rimozione con tecniche diverse:
si può usare l’ansa diatermica o aspirare la lesione in un cappuccio di
polietilene che presenta all’estremità un’ansa aperta, che
successivamente viene chiusa, permettendo la sezione (lift and cut).

➢ Dissezione sottomucosa endoscopica (Endoscopic Submuscosal Dissection)


Si esegue per lesioni di grandi dimensioni.
Queste vengono marcate con l’elettrobisturi, si inietta una soluzione
liquida nella sottomucosa, viene incisa circonferenzialmente la mucosa
sana attorno alla lesione e poi con accessori si entra nella sottomucosa e la
si disseca.

Dopo l’asportazione endoscopica, sarà l’esame AP a


definire la radicalità dell’intervento.

N.B: nel caso di lesioni ulcerate la rimozione endoscopica mediante


mucosectomia non è assolutamente possibile.

Follow-up
Dipende dalle caratteristiche isto-morfologiche e dal numero delle lesioni riscontrate:
• Se la lesione è a basso rischio (1 o 2 adenomi di dimensioni <10 mm) ⇒ colonscopia dopo 5 o 10 anni

• Se la lesione è a rischio intermedio (dimensioni tra 10-20 mm oppure presenza di tessuto villoso e/o displasia severa oppure presenza di 3
o 4 lesioni) ⇒ colonscopia dopo 3 anni

• Se la lesione è ad alto rischio (dimensioni > 20 mm oppure presenza di ≥ 5 lesioni) ⇒ colonscopia dopo un anno.

N.B: se alla colonscopia successiva si riscontra un adenoK, questo è un “cancro intervallo”, ovvero una lesione carcinomatosa che non è stata vista.

201
TUMORE del COLON

È una neoplasia frequente in Italia, sia nel sesso M (3° posto, 14% di tutte le nuove diagnosi di tumore) che
in quello F (2° posto, 12%).
La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è complessivamente pari al 65%.
L’età media di insorgenza è di 60 anni; raramente ci sono casi in soggetti di età < 40 anni.

Fdr:
• Dieta ⇒ elevato consumo di grassi animali, carni rosse (soprattutto se ben cotte o fritte) e insaccati, basso
consumo di fibre e vegetali
• Obesità e vita sedentaria

• Fumo di sigaretta
• IBD (⇒ soprattutto RCU, con rischio 5-6 volte maggiore, condizionato dalla durata e dall’estensione della malattia)

• Polipi adenomatosi: lesione precancerosa il cui rischio di trasformazione maligna è correlato a diverse caratteristiche:
- Istologia ⇒ la trasformazione è più frequente nei villosi rispetto ai tubulari
- Morfologia ⇒ // sessili rispetto ai peduncolati
- Diametro ⇒ > 1 cm
- Sede ⇒ prossimale rispetto alla distale
- Numero elevato

• Pregresso K colorettale

• Familiarità
• Sindromi di predisposizione ereditaria al CRC:
a) Sindrome di Lynch o sindrome non poliposica del K colorettale ereditario (HNPCC)
Malattia genetica a trasmissione AD, causata da mutazioni nei geni che codificano per proteine del mismatch repair.
Si ritiene che sia responsabile del 3% di tutti i K del colon-retto e che sia pertanto la forma sindromica più comune.
È caratterizzata da alta penetranza con alta incidenza di K colon-rettali nello stesso nucleo familiare in età giovanile (< 50
anni), con localizzazione prevalente nel colon dx/prossimale e assenza di polipi.
Nella sindrome di Lynch tipo I la malattia è localizzata esclusivamente al colon dx, mentre nella tipo II vi è un rischio
aumentato di neoplasie associate, quali K dell’endometrio, ovaio e stomaco.

Criteri di Amsterdam per sospetto clinico di sindrome di Lynch:


• Almeno tre membri della famiglia devono avete un tumore associato alla SL (colon-retto, endometrio, piccolo
intestino, uretere, rene)
• I seguenti criteri devono essere rispettati:
− Uno deve essere parente di I grado degli altri due
− Almeno due generazioni successive devono essere affettte
− Almeno uno dei tumori associati alla SL deve essere stato diagnosticato prima dei 50 anni
− Nei casi di CC deve essere esclusa la FAP.

I pz affetti da CRC e sospetti portatori di Sindrome di Predisposizione Ereditaria al CRC dovrebbero essere inviati
dall’oncologo in consulenza genetica, affinchè il genetista possa proporre test molecolari al pz; se diagnosticata una SPE-
CRC, potrà inoltre coinvolgere i suoi parenti per individuare, tramite test genetico “a cascata” nella famiglia, le persone ad
alto rischio ed invitarle a seguire protocolli di sorveglianza efficaci per ridurre la loro mortalità per cancro.

b) Poliposi adenomatosa familiare (FAP)


// a trasmissione AD, causata da mutazioni del gene oncosoppressore APC, caratterizzata da ≥ 100 polipi adenomatosi in
epoca giovanile.
Approssimativamente il 75% dei casi è ereditario, mentre i restanti sembrano causati da mutazioni ex novo.
La procto-colectomia profilattica con anastomosi ileo-anale a partire dai 35 anni è la procedura terapeutica d’elezione,
poiché in questi pz lo sviluppo del K è la regola alla terza-quarta decade di vita.
I pz possono anche sviluppare diverse manifestazioni extracoliche (precedentemente definite sindrome di Gardner):
− Benigne: comprendono tumori desmoidi, osteomi del cranio o della mandibola, cisti sebacee e adenomi in altre
parti del tratto GI
− Maligne: aumentato rischio di cancro nel duodeno, pancreas, tiroide, cervello (medulloblastomi< 1%) e fegato
(epatoblastoma dei bambini < 5 anni).

202
c) Poliposi MUTYH Associata (MAP)
// a trasmissione AR, causata da mutazioni di geni coinvolti nel sistema Base Excision Repair, è caratterizzata dalla presenza
di 10 a 100 polipi del colon: in questo caso la colonscopia è individualizzata in base al numero dei polipi riscontrati nel pz,
con una sorveglianza che inizia a partire dai 25 anni.

Da ricordare è che nella FAP e nella MAP il rischio di insorgenza di lesioni adenomatose non riguarda solo il colon e il retto,
ma anche stomaco e intestino tenue ⇛ screening/sorveglianza endoscopica anche per lesioni a livello delle altre porzioni del
tratto GI.

Screening
a) Nella popolazione generale:
• Ricerca del sangue occulto fecale (RSOF): eseguito ogni 2 anni tra i 50 e i 69 anni; se positivo,
colonscopia totale.
La RSOF è il test più accettabile, sebbene abbia bassa sensibilità. Ha dimostrato di ridurre la mortalità per CRC di circa 15-30%.

• Rettosigmoidoscopia: eseguita una sola volta nella vita tra i 55-64 anni

b) Nei pz ad alto rischio:


• Familiarità: con familiare di I grado con diagnosi di CRC o polipi adenomatosi con età ≤ 60
anni oppure due familiari di I grado (indipendentemente dall’età) ⇒ screening con colonscopia a
partire dai 40 anni oppure 10 anni prima del caso più giovane verificatosi in famiglia, ripetuta
ogni 5 anni

• Storia personale:
- CRC ⇒ colonscopia con cadenza annuale
- Polipi adenomatosi ⇒ // mediamente ogni 3 anni

• IBD ⇒ colonscopia dopo 8 anni dalla diagnosi di


malattia, ripetuta ogni 2 anni

• HNPCC ⇒ screening a partire dai 20 anni oppure 10


anni prima del caso più giovane, ripetuto ogni 2 anni
e dai 40 anni annualmente

• FAP ⇒ screening a partire dai 10 anni, ripetuto


annualmente.

Istotipi
Oltre il 90% dei CRC sono adenoK.
Diversi sottotipi:
- NAS
- Ad anello con castone ⇒ decorso aggressivo, con diagnosi in stadio più avanzato
- Midollare
- Mucinoso ⇒ scarsa risposta alla CT e RT

Altri tipi istologici (neoplasie neuroendocrine, amartomi, tumori mesenchimali, linfomi) sono relativamente inusuali nel grosso intestino.

203
Clinica
Sedi più frequenti per l’adenoK colorettale:

Ciò dipende dalla diversa flora batterica e dalle feci diverse al transito, ma anche dalla composizione della mucosa: infatti il SI è più presente con
aggregati linfoidi intramucosi a livello del colon di dx che non in quello di sx.

I segni/sintomi del CRC sono tipicamente dovuti alla crescita del tumore nel lume o all’invasione delle
strutture adiacenti ⇛ riflettono uno stadio avanzato.
Variano a seconda della sede:
• Colon dx ⇒ ha un lume più ampio, parete sottile e contenuto fecale liquido ⇛ l'ostruzione è un evento
tardivo.
Il sanguinamento è di solito occulto ⇛ anemia sideropenica.
Altre manifestazioni: calo ponderale e massa addominale palpabile nei casi più avanzati.

• Colon sx ⇒ ha un lume più piccolo, feci semisolide e il tumore tende ad una crescita circonferenziale
anulare ⇛ alterazioni dell’alvo, con stipsi alternata ad aumentata frequenza delle defecazioni o diarrea.
Il sintomo d'esordio può essere un'ostruzione intestinale parziale (con dolore addominale crampiforme, distensione
addominale, nausea e vomito, sino all’occlusione intestinale).
Le feci possono essere nastriformi o miste a sangue e muco.
Più raramente, specie nei K cecali o del sigma, il tumore può dare segno di sé a causa di un'invasione locale con perforazione tamponata ed
eventuale fistolizzazione in organi adiacenti, come la vescica (con conseguente pneumaturia) o all’intestino tenue.

Altra presentazione atipica consiste nella FUO dovuta ad ascessualizzazione intraddominale (retroperitoneale, della parete addominale o
intraepatica) causata da tumori che hanno dato luogo a perforazione localizzata.

Il quadro clinico del tumore del colon viene posto in DD con appendicite, diverticolosi, malattie infiammatorie intestinali, TBC intestinale, ecc.

• Retto ⇒ il sintomo iniziale più comune è la rettorragia e il sanguinamento durante la defecazione


con ematochezia.
Altri sintomi: tenesmo rettale, dolore rettale/perineale, sensazione di evacuazione incompleta.

Se il tumore è già in uno stadio metastatico possono essere presenti anche i sintomi legati alla diffusione a
distanza: si stima che circa il 20% dei pz esordisca con malattia in stadio IV (M+).
Vie di propagazione:
• Per contiguità ⇛ occlusioni intestinali, fistolizzazione e sepsi
• Per via linfatica/linfonodale ⇛ linfedemi
• Per via ematica ⇛ M al fegato e, in caso di partenza dal retto, anche polmone.
Poiché il drenaggio venoso del grosso intestino avviene attraverso il sistema portale, il primo sito di disseminazione ematogena è
solitamente il fegato, seguito dai polmoni, ossa e cervello.
Tuttavia, i tumori del retto distale possono metastatizzare ab initio anche ai polmoni (⇒ perché attraverso i vasi emorroidari vi è un
drenaggio venoso nella v. cava inferiore anziché nel sistema portale).

204
In ordine di frequenza i siti metastatici più comuni sono comunque in generale i linfonodi regionali, fegato, polmoni e peritoneo.
Alcuni dei sintomi riferibili alla presenza di malattia avanzata includono algie addominali in corrispondenza del quadrante superiore dx, distensione
addominale, senso di sazietà precoce, linfoadenomegalia sopraclaveare o noduli periombelicali.

Va ricordato infine che il CRC può essere il sito di origine di circa il 6% degli adenoK a sede primitiva ignota e che può essere diagnosticato sulla
base della scoperta di M epatiche rilevate incidentalmente in seguito ad esami strumentali come ecografia addominale o TC eseguite per la presenza
di altri sintomi.

Diagnosi
• Sospetto clinico sulla base di anamnesi ed EO

• Esami ematochimici: hanno un ruolo non ben definito:


- Emocromo ⇒ anemia sideropenica
- Test di funzionalità epatica ⇒ hanno però scarsa sensibilità per M epatica
- Marcatori tumorali CEA e CA19-9 ⇒ scarsa capacità diagnostica, sebbene i livelli di CEA
abbiano valore clinico nel caso di CRC già diagnosticato, con dosaggio prima della chirurgia e
nel follow-up

• Colonscopia totale: gold standard, perché consente di localizzare e biopsiare le lesioni lungo tutto il
decorso del colon.
Macroscopicamente alla colonscopia in genere si denotano masse esofitiche con margini irregolari e con una zona già ulcerata (spesso centrale,
la lesione in tal caso si definisce “a coccarda”) sulla quale è necessario fare dei prelievi poiché è lì che il tumore sta aggredendo maggiormente
la parete del viscere.
A volte invece la lesione ha un aspetto mucinoso, cistico o traslucido, altre volte ha aspetto più piatto, sessile o definito; in tutte l’elemento
comune resta la perdita della normale plica istologica del colon.

In alcuni casi può accadere che la colonscopia diagnostica sia effettuato in modo incompleto a causa dell'impossibilità del colonscopio a
raggiungere il tumore o visualizzare la mucosa a monte (ad es. a causa di stenosi tumorale, decorso tortuoso del viscere, preparazione
inadeguata) oppure per intolleranza del pz nei confronti dell'esame ⇛ altri esami:
- TC Colonscopia virtuale: da riservare a pz canalizzati è in grado di tollerare la preparazione orale, può fornire un'alternativa per
la diagnosi, anche se presenta il rischio di falsi positivi e non permette di eseguire biopsia per diagnosi istologica o exeresi di
adenomi

- In caso di occlusione intestinale una TC addome con protocollo GI è una buona alternativa alla TC colonscopia virtuale.
In questi pz che vanno chirurgia in urgenza senza aver eseguito una colonscopia, questo esame va comunque eseguito entro un anno
dalla chirurgia primaria per verificare la presenza di neoplasie sincronia o adenomi.

• Esami strumentali per la stadiazione:


• TC torace-addome-pelvi con mdc

• RM: generalmente riservata ai pz con rilievi TC di M epatica, in particolare se è necessaria una migliore definizione del carico di
malattia al fine di prendere decisioni sulla potenziale resezione epatica

• Nei tumori del retto extra-peritoneale ⇒ RM della pelvi ed eco-endoscopia transrettale

• CEA al momento della diagnosi (pre-operatorio)


È una molecola di adesione epiteliale e rappresenta un marcatore aspecifico il cui rialzo si presenta in condizioni di infiammazione
a carico di un epitelio (ad es. valori di riferimento doppi in soggetti fumatori con bronchite cronica) e che quindi non può essere
utilizzato come parametro diagnostico, ma viene valutato durante il follow-up: dopo un intervento radicale di asportazione del
tumore questo marker dovrebbe azzerarsi nell’arco di 4-6 settimane.

205
Classificazione TNM
Tumore primitivo (T)
• Tx: T non definibile
• T0: non evidenziabile

• Tis: K in situ: intraepiteliale o invasione della lamina propria.


Comprende cellule tumorali confinate all’interno della membrana basale ghiandolare (intraepiteliale) o della lamina propria (intramucosa)
che non raggiungono la sottomucosa

• T1: invade la sottomucosa


• T2: invade la t. muscolare

• T3: invade la t. sottosierosa o i tessuti pericolici e perirettali non ricoperti da peritoneo

• T4:
- T4a: invade il peritoneo viscerale
- T4b: invade direttamente o aderisce direttamente a strutture ed organi adiacenti.

Coinvolgimento linfonodale (N)


• NX: linfonodi regionali non valutabili
• N0: non metastasi nei linfonodi regionali

• N1: metastasi in 1-3 linfonodi regionali o evidenza di depositi tumorali satelliti nella sottosierosa o
nei tessuti non peritonealizzati pericolici e perirettali senza evidenza di metastasi linfonodali
regionali

• N2: metastasi in ≥ 4 linfonodi regionali


- N2a: Metastasi in 4-6 linfonodi
- N2b: in ≥ 7 linfonodi

Metastasi a distanza (M)


• MX: M non accertabili
• M0: assenza di M

• M1:
- M1a: M confinate ad un organo (fegato, polmone,
ovaio, linfonodi extraregionali) senza M peritoneali
- M1b: M in più di un organo senza M peritoneali
- M1c: M peritoneali con o senza M in altri organi.

Classificazione di Dukes modificata da Astler-Coller:


• Stadio A: T limitato alla mucosa

• B1: limitato alla muscolaris mucosae


• B2: oltrepassa la muscolaris mucosae e coinvolge la sottomucosa

• C1: come B1 ma con N+


• C2: come B2 ma con N+

• D: M+

206
Fattori prognostici:
• Stadio
• occlusione o perforazione (prognosi peggiore)
• colon dx prognosi peggiore

• Grado istologico (G3-G4)


• Infiltrazione linfovascolare e perineurale

• Caratteristiche molecolari del tumore ⇒ l’instabilità delle regioni microsatelliti (MSI, correlata a
mutazione dei geni del mismatch repair come nella SL) è associata una prognosi migliore, così
come una mutazione di BRAFV600E ad una prognosi peggiore.

Terapia

➢ Tumore del colon:


• Stadio 0 (Tis N0 M0) ⇒ escissione locale per via
endoscopica o resezione segmentaria se la lesione è troppo
grande.

Per i polipi peduncolati, la polipectomia endoscopica è considerata efficace fino a un


grado 3 di Haggitt.
In caso di invasione della sottomucosa (Haggitt 4), coinvolgimento dei margini di
escissione oppure invasione linfo-vascolare è consigliata la resezione segmentaria.

Per i polipi sessili, // efficace per le lesioni sm1, mentre per le lesioni sm2 ed sm3 è
consigliata la resezione chirurgica.

• Stadio I (T1-2 N0 M0, con coinvolgimento della t.


sottomucosa e/o della t. muscolare) ⇒ resezione chirurgica con anastomosi (non è richiesta terapia
adiuvante); sopravvivenza a 5 anni del 90%.

Sotto il profilo tecnico, la demolizione deve comprendere:


− segmento intestinale sede della neoplasia con margini di sicurezza
sufficientemente ampi sia a monte sia a valle (almeno 5-7 cm del
colon e 2-3 cm del retto)

− relativo mesentere con le stazioni di drenaggio linfatico


distrettuale, nel rispetto della vascolarizzazione del colon residuo.

Tipi di resezione:
− Nei K del cieco fino a trasverso prossimale ⇒ emicolectomia dx
(resezione dall’ultima ansa ileale fino alla metà prossimale del
trasverso) + ricanalizzazione con anastomosi ileo-ocolica.

− Nei K del trasverso distale fino a sigma ⇒ emicolectomia sx


(asportazione dalla metà distale del trasverso fino alla giunzione
retto-sigmoidea) + anastomosi colon-rettale.

− Nei K della giunzione sigmoido-rettale fino a retto medio ⇒


resezione anteriore (exeresi della metà distale del colon
discendente, sigma e ampia porzione del retto) + anastomosi colon-
rettale bassa.

− Nei K del retto inferiore, con coinvolgimento dello sfintere anale


esterno e/ o dei muscoli del pavimento pelvico ⇒ amputazione
addomino-perineale (asportazione del colon discendente distale,
sigma, retto e ano nella sua interezza, quindi anche canale anale con
la cute circostante, apparato sfinteriale, muscoli elevatori e tessuto
cellulo-adiposo delle fosse ischio-rettali e pelvi-rettali) + colostomia definitiva in fossa iliaca sx.

207
• Stadio II-III

Lo schema CT utilizzato è il FOLFOX, di cui ne esistono diversi tipi (FOLFOX 1, 2, ecc.), ma tutti prevedono la combinazione di 5-
fluorouracile e oxaliplatino, con aggiunta di acido folico (aumenta la citotossicità del 5-fluorouracile).
Lo schema XELOX sostituisce il 5-fluorouracile con la capecitabina (profarmaco che una volta assunto viene convertito a 5-
fluorouracile) che può essere assunta per os.

➢ Tumore del retto


Mentre il K del retto intra-peritoneale viene trattato analogamente ai tumori del colon, il K del retto extraperitoneale (ovvero al di sotto della
riflessione del peritoneo che divide la cavità addominale della pelvi) costituisce una neoplasia con una maggiore complessità di gestione in cui
un approccio multidisciplinare è assolutamente necessario.
La maggiore complessità di gestione dei K del retto extraperitoneale è dovuta prevalentemente alla sede anatomica del tumore: infatti queste
neoplasie sono situate all'interno del mesoretto, che è una struttura estremamente ricca di vasi linfatici ed ematici, sono in stretto contatto con
gli organi pelvici, con la fascia mesorettale (MRF) e con i muscoli elevatori dell'ano.
Da ciò conseguono due aspetti:
- chirurgia più complessa per la difficoltà ad ottenere una resezione R0 e per la necessità di salvaguardare la funzione sfinteriale
- rischio di recidiva non solo a distanza ma anche locale, a causa dell'interessamento del mesoretto.

Trattamento per categoria di rischio:


• Very early (cT1 cN0, con minima infiltrazione della sottomucosa sm1 o < 1000μm) ⇒
escissione locale per via endoscopica transanale “en bloc” con tecnica “full thickness”.
In caso di fattori prognostici sfavorevoli (⇒ sm >1, G3, invasione linfo-vascolare), il rischio di
N è maggiore ed è perciò indicata la chirurgia radicale con escissione totale del mesoretto
(TME)

• Early (cT1-T2) ⇒ chirurgia radicale con escissione totale del mesoretto.


In caso di fdr patologici (⇒ interessamento della fascia mesorettale, pN+, invasione vascolare
extra-murale), CRT adiuvante

• Intermediate in poi (≥ T3 o N+) ⇒ CRT pre-operatoria seguita TME

Dato che il retto è extraperitoneale, può essere sottoposto a CT-RT pre-operatoria (o anche post-operatoria) senza gli elevati danni
dell’intestino tenue che si presenterebbero nel caso in cui fosse applicata al tumore del colon.
Vantaggi: ridotta tossicità acuta, aumentata radiosensibilità, conservazione dello sfintere anale.

208
Modalità di accesso chirurgico
La resezione chirurgica del T primitivo con tecnica aperta è stata per lungo tempo considerata generalmente la terapia più efficace nel cancro del
colon.
I risultati più recenti degli studi sulla chirurgia laparoscopica nel cancro del colon hanno dimostrato che questa metodica ottiene gli stessi risultati
della tecnica aperta tradizionale in ambito oncologico, con riferimento particolare alla sopravvivenza globale e alle recidive in sede di ferita o
inserzione di trocar; anche morbilità e mortalità sono sovrapponibili tra le due metodiche.
La chirurgia laparoscopica ottiene risultati migliori a breve termine per quanto riguarda: degenza più breve, minore impiego di analgesici nel
decorso postoperatorio associato a dolore meno intenso e ripresa più rapida della motilità intestinale.

A ciò si aggiunga che l’escissione totale del mesoretto (TME) per via laparoscopica è un’applicazione più recente della chirurgia mininvasiva.
In tutti gli studi viene rimarcato che la tecnica è complessa e necessita di un’adeguata curva di apprendimento.
Per quanto concerne i risultati oncologici a breve termine, anche nella chirurgia rettale laparoscopica non ci sono differenze con la tecnica
tradizionale, mancano però al momento i risultati a lungo termine.
La tecnica mininvasiva nella terapia del cancro del retto dovrebbe essere utilizzata solo in centri ad alta specializzazione laparoscopica.

Follow up del CRC:


- Esame clinico ⇒ ogni 4 mesi per 3 anni, poi ogni 6 mesi per 2 anni
- CEA ⇒ ogni 4 mesi per 3 anni, poi ogni 6 mesi per 2 anni
- Colonscopia ⇒ a 6 mesi dall’intervento e poi a 3 e 5 anni dall’intervento
- Sigmoidoscopia ⇒ ogni 6 mesi per 2 anni (retto)
- Ecografia, TC addome, Rx torace ⇒ sconsigliato uso routinario
- Altri esami: solo su indicazione clinica.

Il vero obiettivo del follow up è quello di diagnosticare precocemente la malattia operabile, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di
insorgenza di M al fegato: se la recidiva è piccola il pz può essere sottoposto ad intervento chirurgico e andare incontro a guarigione; lo stesso per
le M al polmone.

➢ Malattia metastatica
Il trattamento del CCR metastatico è notevolmente cambiato negli ultimi anni e la prognosi dei pz affetti è passata da 12 mesi ai 30 mesi attuali,
frutto non solo dell’avvento dei nuovi farmaci, ma anche dell’integrazione dei trattamenti sistemici con quelli locoregionali.
Ottenere il cosiddetto “controllo di malattia” che auspicabilmente può declinarsi non solo nella stazionarietà del quadro, ma anche nella riduzione
volumetrica delle lesioni M, è la prima tappa fondamentale per poter mettere successivamente in campo ulteriori trattamenti sistemici e per
consentire in casi selezionati di adottare terapie locoregionali, in primis la chirurgia, volte alla resezione radicale delle M.

L’asportazione delle lesioni secondarie rappresenta ad oggi l’unica chance di guarigione per alcuni pz con CCRm e come tale è un obiettivo da
perseguire in ogni caso in cui tale approccio risulti applicabile.
La disponibilità di trattamenti CT e di associazioni di CT e farmaci a bersaglio molecolare ha infatti consentito di allargare la fetta di pz per cui
l’obiettivo della chirurgia radicale risulti perseguibile: si tratta dei cosiddetti pz “potenzialmente resecabili”, quelli in cui la chirurgia radicale delle
lesioni M, per lo più epatiche, non risulta tecnicamente fattibile, ma può diventarlo a seguito di una consistente riduzione volumetrica di tali lesioni.
In ogni caso l’integrazione della terapia sistemica e della chirurgia ha l’obiettivo non solo di condurre questi pz a resezione, ma anche di esercitare un
efficace controllo sulla malattia micrometastatica, responsabile delle riprese di malattia a seguito di chirurgia.

Esistono poi casi di malattia “marginalmente resecabile” in cui la chirurgia iniziale sulle M, sebbene tecnicamente fattibile, è giudicata inopportuna
per l’alto rischio di recidiva: in tal caso il trattamento di prima linea ha il compito non solo di mettere la malattia macroscopicamente evidente sotto
controllo e di agire sulla malattia micrometastatica per ridurre il rischio di recidiva, ma anche di far saggiare l’aggressività biologica intrinseca della
neoplasia, in modo da evitare eventualmente tentativi chirurgici gravosi e destinati a fallire rapidamente.

Algoritmo di trattamento sistemico della malattia metastatica:


1) Pz fit per terapia di combinazione?
− Se unfit ⇒ mono-CT + bevacizumab
− Se fit ⇒ step 2

2) Valutazione di RAS e BRAF:


− Se wild-type ⇒ doppia CT + anti-EGFR (cetuximab)
− // mutati ⇒ doppia CT + bevacizumab.

209
Tecniche chirurgiche in caso di occlusione intestinale

a) In caso di occlusione del colon dx:


▪ Nei pz in buone condizioni generali, la resezione del segmento colico occluso (⇒ emicolectomia dx) e
l’anastomosi ileo-colica in un unico tempo sono l’intervento di scelta.

▪ Nei pz in condizioni gravi o in presenza di perforazione e peritonite, può essere più conveniente un
trattamento in due tempi:
− In un I tempo, resezione del segmento + diversione completa del contenuto intestinale mediante
ileostomia terminale ed esteriorizzazione del colon prossimale
− In un II tempo, si provvederà a ristabilire la continuità ileo-colica.

▪ Qualora la lesione risulti non resecabile, bypass ileo-colico dell’ostruzione, mediante anastomosi latero-
laterale tra ileo e segmento colico distale all’occlusione.

b) In caso di occlusione del colon sx: il fine primario è quello di decomprimere il colon (al fine evitare una
possibile perforazione a monte) e se possibile di trattare in maniera definitiva la patologia.

▪ L’approccio tradizionale consiste in un trattamento in due tempi:


− in un I tempo, stomia prossimale decompressiva per risolvere l’ostruzione acuta
− in un II tempo, resezione colica con anastomosi e chiusura della stomia per ristabilire una
normale continuità intestinale.

▪ In alternativa, in caso di perforazione del colon peritumorale, intervento di Hartmann con:


− in un I tempo, resezione colica + colostomia prossimale + sutura del retto a valle
− in un II tempo, ricanalizzazione con anastomosi colo-rettale.

▪ La chirurgia sequenziale in più tempi è stata considerata, fino a


tempi relativamente recenti, una scelta obbligata, per evitare il
rischio di un’anastomosi colica con un colon prossimale
ripieno di feci e senza adeguata preparazione.
Questo approccio, però, solitamente comporta:
− ritardo nell’asportazione della lesione primitiva.
Questi pz, spesso anziani e defedati, si riprendono con molta difficoltà e
lentezza dall’episodio occlusivo

− morbilità correlata al peso di più interventi in


successione e al prolungamento della degenza.

Queste considerazioni hanno spinto a ricercare tecniche che


consentissero il trattamento in un solo tempo sia della
situazione occlusiva sia della patologia causale.
La prima di tali alternative chirurgiche si basa sull’esecuzione
intraoperatoria di un lavaggio del colon, attuato perfondendo il viscere con sol. fisiologica introdotta
nel cieco e raccolta, insieme con il materiale fecale, da un grosso tubo inserito al livello della sezione
distale.
Ottenuto così il completo svuotamento del colon prossimale, possono essere eseguite nello stesso
intervento sia la resezione sia l’anastomosi colica.

▪ Data l’evidenza che la mortalità e la morbilità operatorie sono significativamente più alte nei pz trattati
in urgenza per occlusione che nei pz operati in elezione per la stessa patologia senza occlusione,
è possibile ricorrere a una protesi autoespandibile da posizionare per via endoscopica nel segmento
ostruito, per poi eventualmente procedere a una resezione in elezione, se la malattia è resecabile.
Nel caso in cui la successiva stadiazione dimostri una malattia disseminata e/ o una neoplasia non resecabile, la ricanalizzazione protesica può
rappresentare la palliazione definitiva in grado di offrire la migliore qualità di vita possibile.

210
TUMORE della MAMMELLA
È la neoplasia più frequente nelle donne (30% di tutti i nuovi casi) ed è la prima causa di morte per
malattia neoplastica nel sesso F nelle diverse fasce d’età.
La sopravvivenza a 5 anni in Italia è complessivamente pari all’87%.

Il comune denominatore per la maggior parte dei fdr è un prolungato stimolo estrogenico che agisce su un
terreno geneticamente suscettibile, a questo si aggiungono poi:

• Età: la curva di incidenza cresce esponenzialmente a partire dai 30 anni, con


picco d’incidenza a 70 anni

• Lunga durata del periodo fertile, con nulliparità, menarca


precoce e menopausa tardiva

• TOS durante la menopausa

• Elevato consumo di alcool e grassi animali


• Obesità e SM

• Pregressa RT a livello toracico e specialmente se prima dei 30 anni d’età

• Pregresso tumore della mammella, anomalie


mammografiche (come micro-calcificazioni e iperdensità mammografica),
lesioni istologiche identificate in precedenti biopsie (soprattutto lesione sclerosante complessa e iperplasia atipica)

• Storia familiare
• Forme ereditarie (6% dei casi): 1/4 di queste è determinata dalla mutazione dei due geni BRCA-1 e
BRCA-2(Breast Cancer Type 1 and 2 susceptibility protein, coinvolti nel riparo del DNA e del rimodellamento della cromatina).
Nelle donne portatrici di mutazioni del gene BRCA-1 il rischio di ammalarsi nel corso della vita di K mammario è pari al 65% (con
istotipo triplo negativo e poco differenziato) e nelle donne con mutazioni del gene BRCA-2 pari al 40%.
Per cui vanno discusse procedure chirurgiche profilattiche quali la mastectomia bilaterale e l’ovariectomia bilaterale.

Altri fattori ereditari:


o Mutazioni del gene ATM (Ataxia Telangiectasia Mutated) o del gene CHEK2
o Sindrome di Li-Fraumeni
o Sindrome di Cowden
o sindrome di Peutz-Jeghers.

Ricercare una mutazione (ad es. BRCA) è utile nella fase pre-operatoria poiché, se la pz presenta un elevato rischio legato alla
mutazione, potrebbe avere un beneficio maggiore eseguendo una mastectomia bilaterale, invece di una quadrantectomia.

Screening
È un’attività di prevenzione secondaria periodica rivolta a donne asintomatiche al fine di effettuare una diagnosi di K mammario in stadio precoce e,
quindi, offrire trattamenti meno aggressivi, con l’obiettivo di ridurre la mortalità da K mammario.

La mammografia digitale è tuttora ritenuto il test di screening più efficace:


- nelle donne in fascia d’età 50-74 anni, la mammografia è raccomandata con cadenza biennale

- nelle donne in fascia d’età 40-49 anni, la mammografia andrebbe eseguita personalizzando la
cadenza sulla base anche dei fdr.
La RM Mammaria con mdc a cadenza annuale di screening trova indicazione nelle donne ad alto rischio definite come segue:
- mutazione BRCA1 o BRCA2
- lifetime risk 20–25% secondo i comuni modelli di predizione del rischio
- sindrome di Li-Fraumeni, Cowden o Bannayan-Riley-Ruvalcaba
- pregressa RT toracica tra i 10 e i 30 anni.

213
Chemioprevenzione
In Italia, l’AIFA ha inserito il tamoxifene per il trattamento preventivo del K mammario in donne ad alto rischio, come pure il raloxifene per le
donne in postmenopausa ad alto rischio.
Ad oggi l’indicazione all’uso degli inibitori dell’aromatasi per la chemioprevenzione del K della mammella non è registrata in alcun Paese ed il loro
utilizzo è quindi off-label.

Istotipi di K invasivo della mammella


• NST (Not Special Type): precedentemente noto come K duttale NAS, è il più frequente (75% dei
casi)
• Lobulare (⇒ tipicamente ormono-dipendente)
• Di istotipo speciale: tubulare e cribriforme (a ottima prognosi), midollare, mucinoso, apocrino, papillare, micropapillare (molto
aggressivo)

Approccio diagnostico alla patologia della mammella


Innanzitutto, occorre premettere che la maggior parte delle lesioni della g. mammaria sono benigne (90%).

1) L’inizio dell’iter diagnostico tipicamente avviene con il riscontro:


a) Alla mammografia di screening, di un nodulo radiopaco, a contorni sfrangiati o spiculati, con
microcalcificazioni

b) All’EO palpatorio (da parte della pz stessa o del medico),


di un nodulo palpabile, generalmente non dolente, duro, a
margini mal definiti.
N.B: nella metà dei casi il tumore si presenta nel quadrante superiore esterno.

Più raramente, abnorme secrezione a livello del capezzolo,


retrazione del capezzolo, cute arrossata, edematosa, “a
buccia d’arancia” (⇒ mastite carcinomatosa).

Nei casi più avanzati, linfoadenopatia dei linfonodi


ascellari, generalmente non dolenti, duri e fissi.
Nel caso di linfoadenopatie di maggiori dimensioni o di un vero e proprio
pacchetto linfoadenopatico si può verificare un ostacolo al circolo linfatico ⇛
linfedema dell’arto superiore.

In caso di EO positivo ⇒ mammografia, con referto


espresso tramite categorizzazione BI-RADS:

214
2) Nella fase investigativa sulla natura di una lesione rilevata clinicamente e/o mammograficamente, si
può approfondire l’indagine mediante:
• Ecografia: molto utile nella definizione di una massa dopo mammografia per consentire una valutazione completa.
Inoltre, è l’esame più adatto nel caso di donne giovani (< 30 anni), dove la componente ghiandolare (radiopaca/bianco alla mammografia)
prevale sulla componente adiposa, rendendo talvolta difficile l’interpretazione dell’esame mammografico.

• RM: metodica di II livello, con indicazioni limitate: sorveglianza delle donne ad alto rischio BRCA1/BRCA2, lesioni
sospette multifocali o bifocali, casi difficilmente interpretabili con l’esecuzione degli esami di I livello, ricerca di lesioni sospette nei casi
di CUP (cancer of unknown primary), valutazione dell’infiltrazione del m. pettorale.

3) Una volta posto il sospetto radiologico di lesione tumorale, si


procede all’accertamento istopatologico, mediante prelievo di
frustoli di tessuto con agobiopsia (tecnica CNB o VAB, sotto guida
ecografica o mammografica) sulla lesione tumorale primitiva.

L’agoaspirato con ago sottile consente un prelievo citologico, con sensibilità e specificità
abbastanza elevate, ma non permette un’accurata valutazione istologica ed IIC.
Pertanto, ad oggi il suo ruolo è limitato all’accertamento citologico di sospette metastasi
linfonodali locoregionali.

Classificazione molecolare:

4) Esami strumentali per la stadiazione:


• Mammografia della mammella controlaterale
• Ecografia mammaria: particolarmente utile in pz giovani e con elevata densità mammaria
• RM mammaria con mdc: rappresenta la metodica più sensibile per la valutazione della malattia residua dopo trattamento
sistemico neoadiuvante ed è considerata una metodica integrata nella stadiazione locoregionale (ad es. multifocalità, infiltrazione muscolo
pettorale, linfonodi loco-regionali)

• RX torace: per escludere M polmonari e/o versamento pleurico


• Ecografia epatica: per escludere M epatiche

• Scintigrafia ossea: andrebbe riservata ai pz con malattia linfonodale ascellare, in stadio III o con elevati livelli sierici di FA

• TC total body con mdc e PET-FDG: riservate ai pz con malattia localmente avanzata oppure qualora vi sia un fondato
sospetto di M (in base ad alterazioni bioumorali e sintomi clinici quali cefalea, vomito a getto, crisi epilettiche, versamento pleurico,
epato-splenomegalia, lesioni palpabili cutanee…)

• Per controllare l’evoluzione è utile il monitoraggio di marcatori quali CEA e CA15.3.

215
Fattori prognostici:
• Età ⇒ prognosi peggiore < 35 anni
• T3 (> 5cm) e T4 (estensione diretta alla parete toracica o alla cute)
• Linfonodi ascellari +
• Caratteristiche istopatologiche (grading istologico e infiltrazione linfo-vascolare)
• Profili di espressione genica
• Multifocalità (stesso quadrante) e multicentricità
• Ly intramurali (⇒ uno spiccato infiltrato linfocitario si associa a prognosi migliore)

Classificazione TNM clinica

Tumore Primitivo (T)


• Tx: tumore primitivo non definibile
• T0: non evidenza del tumore primitivo

• Tis: K in situ
- Tis (DCIS): K duttale in situ
- Tis (Paget): Malattia di Paget del capezzolo non associata con K invasivo e/o in situ nel parenchima mammario sottostante

• T1: tumore della dimensione massima fino a 20 mm


• T2: 20 - 50 mm
• T3: > 50 mm
• T4: tumore di qualsiasi dimensione con estensione diretta alla parete toracica e/o alla cute (ulcerazione o noduli cutanei)

Coinvolgimento dei linfonodi Regionali (N)


Da Nx a N3 a seconda del numero, sede (ascellare con livello I-II-III, mammaria interna, infraclaveare e sovraclaveare) e dimensioni delle metastasi
linfonodi locoregionali:
• Nx: linfonodi regionali non valutabili (ad es. se precedentemente asportati)
• N0: linfonodi regionali liberi da metastasi (agli esami strumentali e all’esame clinico)

• N1: metastasi nei linfonodi ascellari omolaterali mobili (livello I-II)

• N2: metastasi nei linfonodi ascellari omolaterali (livello I-II) che sono clinicamente fissi o fissi tra di loro; o in linfonodi mammari
interni omolaterali clinicamente rilevabili in assenza di metastasi clinicamente evidenti nei linfonodi ascellari

• N3: metastasi in uno o più linfonodi sottoclaveari omolaterali (livello III


ascellare) con o senza coinvolgimento di linfonodi ascellari del livello I, II; o
nei linfonodi mammari interni omolaterali in presenza di metastasi nei
linfonodi ascellari livello I-II; o metastasi in uno o più linfonodi
sovraclaveari omolaterali con o senza coinvolgimento dei linfonodi ascellari
o mammari interni

Metastasi a distanza (M)


• Mx: metastasi a distanza non accertabili
• M0: non evidenza clinica o radiologica di metastasi a distanza
• M1: metastasi a distanza.

216
Terapia

A) Malattia localizzata

1) Trattamento loco-regionale
▪ Chirurgia mammella ⇒ diverse tecniche a seconda del grado di estensione del T:
- Chirurgia conservativa: rappresenta il
trattamento di prima scelta in stadio I-II
(e in casi selezionati più avanzati):
o Quadrantectomia: ideata da
Umberto Veronesi, consiste nella
rimozione chirurgica del tumore,
di una porzione ampia di tessuto
circostante (almeno 1 cm), cute
sovrastante e porzione
corrispondente della fascia del
muscolo pettorale.
Deve essere sempre seguita dalla RT della mammella residua, allo scopo di
diminuire il tasso di recidive locali.
Ad oggi la chirurgia conservativa risulta essere quella più praticata, dal momento che in studi randomizzati
la terapia non è stata associata ad un vantaggio di sopravvivenza rispetto a quella conservativa

o Escissione ampia

Controindicazioni chirurgia conservativa: condizioni fisiche generali o psichiche compromesse, presenza di


microcalcificazioni diffuse, tumori multicentrici, controindicazioni specifiche per RT (⇒ gravidanza, impossibilità di
mantenere una posizione adeguata ad una corretta irradiazione).

- // demolitiva:
o mastectomia radicale di Halsted: prevede asportazione della mammella, cute sovrastante,
complesso areola-capezzolo, muscoli grande e piccolo pettorale, linfonodi ascellari.
Tale tecnica comporta un notevole danno funzionale ed estetico ed oggi è limitata solo a specifici casi in
cui vi sia infiltrazione del m. grande pettorale

o mastectomia radicale modificata:


− di Patey: prevede asportazione di mammella, cute sovrastante, m.
piccolo pettorale e linfonodi ascellari
− di Madden: senza asportazione m. piccolo pettorale.

Attualmente viene eseguita quando non vi sia indicazione ad interventi


conservativi.
Queste tecniche possono essere associate a buoni risultati estetici e funzionali,
soprattutto quando è possibile applicare la mastectomia nipple sparing,
seguita da ricostruzione mediante apposizione di protesi.

▪ Chirurgia cavo ascellare: per l’indicazione si ricorre alla


tecnica del linfonodo sentinella.
Un tracciante radioattivo o un colorante sono iniettati nel sottocute del pz a
livello tumorale; ciò permette di identificare in sede intraoperatoria il primo
linfonodo di drenaggio del letto tumorale che viene pertanto definito
linfonodo sentinella.
Questa tecnica si basa dunque sul principio che se il primo linfonodo di
drenaggio del letto tumorale è negativo anche gli altri lo siano.
Questo è vero nella quasi totalità dei pz, anche se esistono rari casi in cui vi è un
“salto” del linfonodo sentinella.

217
Per quanto riguarda le metastasi per via linfatica, l’attenzione clinica è
rivolta soprattutto ai linfonodi ascellari, anche perché la maggior parte
dei tumori insorge nel quadrante superiore esterno della mammella,
la cui linfa, appunto, è drenata da questa stazione linfatica.
È più che opportuno ricordare che la linfa dei quadranti interni della
mammella raggiunge i linfonodi mammari interni.

Una volta identificato, viene rimosso ed analizzato


estemporaneamente:
- Se negativo ⇒ si procede oltre
- Se positivo per metastasi da K ⇒ dissezione ascellare completa oppure sampling
linfonodale (rimozione chirurgica di un numero limitato di linfonodi).
Altre indicazioni: positività clinica dei linfonodi ascellari alla palpazione, imaging o esame citologico, T4 clinico e K
infiammatorio.
Complicanze: drenaggio linfatico rallentato con conseguente sviluppo di linfedema dell’arto, infezioni,
compromissione della funzionalità dell’arto.

▪ RT adiuvante: nelle pz sottoposte a chirurgia conservativa.


Ha dimostrato di ridurre significativamente il tasso di recidive locali a 10 anni, probabilmente mediante l’eliminazione di residui
tumorali microscopici nella mammella.

È indicata anche dopo mastectomia nelle pz con: T > 5 cm (T3-T4), metastasi linfonodali ascellari ≥ 4, margini di resezione
infiltrati dal T, edema o ulcerazione della cute, presenza di noduli cutanei satelliti

2) Terapia sistemica dopo trattamento locoregionale (adiuvante)


Ha lo scopo di ridurre il tasso di recidive a distanza agendo sulle eventuali micrometastasi:
a) Luminal ⇒ terapia endocrina ± CT (a seconda dei fdr, in particolare N+)

La terapia endocrina si differenzia in base allo stato menopausale:


▪ Pre-menopausa ⇒ tamoxifene (SERM) o exemestane (inibitore dell’aromatasi) per 5-10 anni, associato o meno a
soppressione ovarica mediante Gn-RH agonisti (ad es. leuprorelina).
▪ Post-menopausa ⇒ inibitori dell’aromatasi (ad es. anastrazolo) per 5-10 anni.

b) HER-2 ⇒ CT + Trastuzumab (Ab monoclonale anti-HER2) per 1 anno


Se T2 (2-5cm) e/o N+ (stadio II-III), consigliato approccio neoadiuvante

c) Triplo negativi ⇒ CT
Se T2 e/o N+, consigliato approccio neoadiuvante

B) Malattia (metastatica)
È ancora oggi considerata inguaribile: l’obiettivo è quindi il prolungamento della sopravvivenza
nell’ottica di una cronicizzazione della malattia e il miglioramento della qualità di vita.
Per tale motivo, il gold standard è il trattamento sistemico essendo la malattia metastatica raramente
passibile di trattamenti loco-regionali curativi.
Circa il 6% dei tumori mammari si presenta come metastatico ab initio alla diagnosi; inoltre il 25% dei pz trattati con terapia adiuvante è
destinato ad una recidiva di malattia.
Sedi di M più frequenti: ossa, polmone, fegato e cervello.

a) Trattamento loco-regionale
In presenza di malattia oligo-metastatica (M ≤ 5), un approccio multidisciplinare più aggressivo in cui la terapia sistemica sia
associata a trattamenti loco-regionali con chirurgia e RT può avere un impatto sulla prognosi a lungo termine.

b) Trattamento sistemico
Si avvale di regimi combinati che comprendono: CT, terapia endocrina e target therapy (⇒ inibitori delle CDK 4/6 come palbociclib,
anti-HER2 come trastuzumab e pertuzumab, PARPi per mutazioni BRCA).

218
Tecniche chirurgiche

➢ Quadrantectomia
È una tecnica con intento radicale che garantisce di curare la pz, ma con conservazione della ghiandola mammaria; l’asportazione deve
cadere ad almeno 1cm in tutte le dimensioni rispetto alla massa tumorale.

Al contempo è necessario anche soddisfare l’unico vero scopo della chirurgia conservativa, cioè che il risultato finale sia esteticamente
apprezzabile: la gradevolezza di una mammella si ottiene se si mantiene la simmetria con la controlaterale e la proiezione del complesso
areola-capezzolo.
Se questi due obiettivi non si raggiungono, la chirurgia conservativa non va fatta: andrà fatta un’altra scelta sempre conservativa in associazione
ad una chirurgia plastica ricostruttiva che consenta comunque di avere simmetria e proiezione con una protesi, con un lembo di rotazione del
gran dorsale o con un lembo adiposo della faccia anteriore dell’addome.

Indicazioni:
− Tumore < 3 cm
− Assenza di multifocalità
− Istologia (assenza di componente intraduttale estesa)
− Non gravidanza in atto: è un elemento limitante per la RT
− Desiderio della pz e adeguato risultato estetico
− Accessibilità a struttura per la RT: dopo il quadrante va assolutamente fatta la RT, si tratta di 15-20 sedute.

Il quadrante è l’asportazione della losanga di cute sovrastante il tumore, associata o


meno a un allungamento verso il cavo ascellare per rimuovere i linfonodi ascellari, o
meglio, per effettuare la biopsia del linfonodo sentinella. Molto comodo è il quadrante
supero-esterno (che è anche quello più colpito), un po’ meno gli altri quadranti.

La tecnica ELIOT (ELectron IntraOperative Therapy) consente di somministrare la


RT intraoperatoriamente.
Si fa l’intervento e successivamente si posiziona dietro la ghiandola mammaria, quindi
immediatamente davanti alla parete toracica, un disco di piombo che isola tutto quello
che c’è dietro dalle radiazioni, dopodiché si irradia direttamente in sala operatoria.
Questa irradiazione fatta direttamente sul parenchima, quindi non sulla cute che copre la regione, e con una protezione molto fisica di ciò che
c’è dietro alla zona irradiata, mi consente di somministrare tutta la dose di RT che in condizioni normali la pz riceverebbe in 15-20 sedute
perché non avrò la radionecrosi cutanea e non avrò i danni sul cuore, sul polmone, sulle ossa che stanno dietro.

➢ Mastectomia
▪ Mastectomia semplice: rimozione dell’intera mammella, senza toccare i due muscoli grande e piccolo pettorale e senza andare in
ascella per togliere i linfonodi. In questo caso approccerò il cavo ascellare solo con il linfonodo sentinella.
Le situazioni in cui potrebbe essere applicata sono diverse, fra cui tumore fillode e tumore sarcomatoide.

▪ Mastectomia radicale modificata: si chiama radicale in riferimento all’asportazione di tutta la mammella.


Con questa tecnica rimuovo la mammella con il suo complesso areola-capezzolo, incido la fascia che tiene unito il grande pettorale con il
gran dentato, quindi apro il cavo ascellare e sollevo il grande pettorale per raggiungere i linfonodi del cavo ascellare di I e II livello ed
asportarli. Successivamente asporto tutto quello che c’è lateralmente e dietro al piccolo pettorale.

La modalità più frequente per ricostruire una mammella in un tempo è l’inserimento di un espansore e poi una protesi, o direttamente
di una protesi, sotto il grande pettorale.
L’espansore è un sacchetto di materiale plastico vuoto che viene a mano a mano riempito con delle punture attraverso la cute, fino a che
non gli si fa raggiungere il volume equivalente alla protesi che avevamo in mente di mettere: questo richiede dai 3 ai 6 mesi.
Quando l’alloggiamento è pronto e si è adattato ai nuovi volumi, l’espansore viene svuotato e si fa una piccola incisione.
Viene tirato fuori e al suo posto viene inserita la protesi definitiva in silicone il cui volume era stato predisposto prima dell’intervento, in
base al volume della mammella controlaterale e ai desideri della persona.
L’espansore si mette perché con le tecniche di mastectomia tradizionale il chirurgo asporta una fetta di cute molto consistente, quindi
l’espansore serve non tanto per creare l’alloggiamento sotto il muscolo, che si può tranquillamente ottenere inserendo una patch di
pericardio bovino o di una protesi sintetica che aumentino l’alloggiamento sotto il muscolo, ma serve per recuperare superficie cutanea.

Quando il nodulo è piccolo ed è profondo, con una sufficiente distanza dal piano cutaneo, si possono fare:
▪ Mastectomia Skin Sparing: con risparmio cutaneo; per la ricostruzione non avrò bisogno dell’espansione

• Mastectomia Nipple Sparing: stesso concetto della skin sparing, con risparmio anche del complesso areola-capezzolo che eventualmente
può essere riposizionato.

219
LESIONI BENIGNE della MAMMELLA
Rappresentano la maggior parte delle masse mammarie (90%).

Classificazione
a) Lesioni non correlate a trasformazione neoplastica:
• Cisti: vanno rimosse se hanno componente solida (rilevabile all’eco) o recidivano
rapidamente dopo lo svuotamento
• Metaplasia apocrina
• Lieve iperplasia duttale

• Fibroadenoma: è il più comune tumore benigno della mammella, insorge più


frequentemente in età giovanile (20-30 anni), nel 15% dei casi è multiplo e bilaterale.
Può essere considerato il risultato di un processo iperplastico indotto da un’eccessiva
risposta della componente stromale agli estrogeni.
Si presenta come un nodulo di consistenza fibrosa, a superficie liscia, con margini ben
definiti, mobile sui piani superficiali e profondi; segno clinico tipico all’EO “è il “segno del
topolino” in cui si apprezza la mobilità della lesione rispetto al parenchima ghiandolare
circostante.
Solitamente di forma ovoidale allungata, può presentare diametro variabile; quando supera i
4 cm di diametro si parla di fibroadenoma gigante; la crescita è possibile, anche se lenta, e
può essere più rapida durante la gravidanza e l’allattamento.
La terapia è chirurgica nel caso in cui il fibroadenoma abbia dimensioni > 2 cm oppure
quando sia stata dimostrata ecograficamente una rapida crescita del nodulo nel tempo.

b) Lesioni che determinano RR di 1,5 – 2 volte ⇛ resezione chirurgica.


• Iperplasia duttale moderata
• Adenosi sclerosante
• Lesione sclerosante complessa (“cicatrice radiale”)

• Papilloma intraduttale: colpisce intorno ai 30-50 anni, tende a manifestarsi con secrezione
ematica/siero-ematica dal capezzolo; utile la duttogalattografia per la diagnosi.

c) // RR 3 – 5 volte ⇛ resezione chirurgica + successivo stretto follow-up (test di screening ogni 12-18 mesi).
Sono spesso diagnosticate in seguito al risconto in una mammografia di screening di zone di
distorsione parenchimale, non si manifestano con un nodulo:
• Iperplasia duttale atipica
• Iperplasia lobulare atipica.

TUMORE FILLOIDE
È un tumore misto epiteliale e stromale meno frequente rispetto al fibroadenoma.
Colpisce donne di età media e si presenta come un nodulo generalmente di grandi dimensioni (spesso > 4 cm), di consistenza elastica, mobile sui
piani.
La crescita è rapida e costante con possibili fenomeni di compressione del parenchima circostante e della cute, che può presentarsi ulcerata per
necrosi da compressione vascolare.

Istologicamente si distinguono tre forme: benigna, borderline e maligna.

La DD è con il fibroadenoma nelle forme benigne, con il carcinoma mammario nella forma maligna.

La terapia del tumore filloide è chirurgica e consiste nell’asportazione del nodulo con margini di parenchima circostante sano per prevenire le
recidive locali.
La mastectomia si rende necessaria nelle forme estremamente voluminose, ulcerate e nelle forme con degenerazione sarcomatosa.

220
CARCINOSI PERITONEALE
Diffusione e impianto di cellule neoplastiche sulla superficie della sierosa peritoneale (viscerale o parietale).
È indice prognostico sfavorevole ed è classificata come stadio di malattia terminale.

Le neoplasie peritoneali si suddividono in:


• Neoplasie primitive del peritoneo: rare, rappresentate soprattutto da sarcomi e mesoteliomi
• Neoplasie di organi endo-addominali:
− tratto GI: soprattutto colon, stomaco, pancreas e vie biliari
− utero e ovaie
• Neoplasie di organi extra-addominali, come K della mammella, polmone e melanoma.

La carcinosi peritoneale può svilupparsi in seguito a disseminazione:


• per contiguità (più frequente): le cellule neoplastiche esfoliano nella cavità addominale
• iatrogena: mobilizzazione di una neoplasia, procedure diagnostiche (come biopsia o laparoscopia diagnostica)
• per via sistemica (con diffusione transmesoteliale o translinfatica).

Un raro tumore metastatico del peritoneo è lo pseudomixoma peritonei, derivante da K mucosecernenti appendicolari (90% dei casi) o ovarici (7%); in
minime percentuali, può derivare anche da tumori del colon, dello stomaco e del pancreas.
La sua incidenza annuale è stimata intorno a 1 caso /1.000.000 ab all’anno, con maggior rischio nel sesso F e diagnosi effettuata solitamente dopo i 40 anni.
Appare come una massa sessile o peduncolata di consistenza gelatinosa.

AP
All’esame macroscopico le metastasi peritoneali si presentano sotto forma di noduli neoplastici localizzati sulla superficie peritoneale. Come conseguenza
della crescita progressiva del tumore, lo stroma circostante sviluppa una reazione fibrotico-desmoplastica che determina un progressivo rimaneggiamento
del grasso omentale che viene sostituito da tessuto fibroso e cellule neoplastiche determinando l’aspetto macroscopico definito “omental cake”.
La diffusione trans-peritoneale delle cellule neoplastiche può inoltre interessare bilteralmente le ovaie andando a configurare il quadro definito “Tumore di
Krukemberg”.

Clinica
• Disturbi addominali aspecifici: con vaga dolenzia, quadro dispeptico, alvo irregolare, calo ponderale

• Ascite carcinomatosa: è il quadro più frequente (70%), consiste in un versamento peritoneale che contiene cellule neoplastiche.
È stato suggerito che la formazione dell’ascite sia dovuta alla presenza di noduli tumorali sulla superficie peritoneale che determinano
un’alterata permeabilità vascolare e ostruzione al drenaggio linfatico.
Il colore del liquido dell’ascite carcinomatosa è siero-ematico tendente al torbido, e il suo riscontro permette di identificare un tumore fino ad
allora sconosciuto.

• Disturbi del transito intestinale, fino a un quadro di occlusione intestinale: i noduli neoplastici (localizzati a
livello dei mesi o della parete intestinale) determinano distorsioni della normale anatomia dei visceri endocavitari e provocano retrazioni in
grado di causare occlusione dei visceri addominali

• Versamento pleurico: per via della presenza di noduli neoplastici a livello della cupola diaframmatica, infatti attraverso gli stomata le
cellule tumorali possono attraversare il diaframma ed impiantarsi a livello pleurico.
È molto più frequente che una neoplasia addominale primitiva determini coinvolgimento pleurico rispetto alla situazione inversa (primitiva
neoplasia pleurica come causa di versamento peritoneale).

Diagnosi
• Ecografia: identificazione di versamento ascitico ed eventuali masse

• Paracentesi con esame citologico: orienta la diagnosi di certezza di ascite carcinomatosa

• TC: per identificazione dei noduli di carcinosi e ricerca del T primitivo qualora non ancora identificato
Non è accurata nella stadiazione della carcinosi (tendenza a sottostadiare), dunque necessita di un approfondimento laparoscopico

211
• Videolaparoscopia: consente la stadiazione della carcinosi (secondo PCI), l’esecuzione di biopsie (per
risalire all’origine istopatologica), la valutazione del risultato ottenibile in termini di citoriduzione (CC0,
CC1, CC2).

Stadiazione
Si basa sul PCI (Peritoneal Cancer Index), che esprime l’estensione di
malattia peritoneale mediante un valore complessivo determinato da:
• dimensione dei noduli peritoneali:
− (LS): LS0: assenza di malattia
− LS1: presenza di noduli inferiori a 0.5cm
− LS2: noduli tumorali compresi tra 0.5 e 5.0 cm
− LS3: presenza di noduli tumorali superiore a 5.0
cm o più noduli confluenti.

• distribuzione dei noduli sulla superficie peritoneale:


l’addome viene diviso in nove regioni dell’anatomia
tradizionale a cui si aggiungono 4 segmenti del piccolo
intestino (digiuno superiore ed inferiore; ileo superiore ed
inferiore) per un totale di 13 regioni.
La somma del punteggio LS in ciascuna delle regioni ci dà
come risultato il PCI del pz, con un punteggio massimo di 39.

Terapia
▪ Chirurgia citoriduttiva
È un concetto sviluppato da Sugarbaker che ha descritto le 5 procedure di peritonectomia per rimuovere chirurgicamente tutto il rivestimento
peritoneale parietale della cavità addomino-pelvica.
Sono comprese nelle manovre di peritonectomia la resezione del grande e del piccolo omento.
Quando la malattia interessa il peritoneo viscerale, si rende frequentemente necessaria la resezione degli organi contigui.
Un limite potenziale alla CRS è rappresentato dal coinvolgimento della superficie peritoneale del mesentere: in tali casi, può necessitare la
peritonectomia parziale o completa di entrambi i lati del mesentere.
La CRS implica il concetto di radicalità chirurgica con la completa rimozione della malattia macroscopicamente apprezzabile od eventuale
residuo minimo millimetrico.
Tale concetto si differenzia dal Debulking che sottende invece alla rimozione palliativa di parte della malattia neoplastica con grossolano
residuo neoplastico.

La completezza della citoriduzione rappresenta il fattore prognostico più importante delle neoplasie peritoneali ed è espresso dal cosiddetto
cc-score, declinato in:
− cc-0: assenza di residuo macroscopico
− cc-1: residuo < 2,5mm
− cc-2: residuo tra 2,5mm - 5 cm
− cc-3: residuo >5 cm e con noduli confluenti.

▪ Chemio-ipertermia intraperitoneale (HIPEC)


Consiste nella perfusione della cavità addominale con una
quantità variabile (3-6 litri) di liquido (Perfusato) in cui vengono
somministrate alte dosi di chemioterapici in condizioni di
ipertermia.
Il sinergismo d’azione tra il CT il calore si traduce in un effetto
sinergico superiore a quello additivo.
La HIPEC si esegue immediatamente dopo aver terminato la
CRS mediante il posizionamento di un sistema di cannule
attraverso la parete addominale (generalmente 4) connesse ad un
circuito da circolazione extracorporea.
Per l’esecuzione della metodica è necessaria una macchina che
consente di: perfondere la cavità addominale attraverso un sistema
di pompe, riscaldare il perfusato attraverso uno scambiatore di
calore, mantenere un flusso costante e infine monitorare molteplici
parametri di sicurezza durante lo svolgimento della metodica.
Si fa pertanto circolare il perfusato con i chemioterapici in
condizioni di ipertermia ad Addome Chiuso oppure Addome Aperto.
Durata della perfusione, tipo di chemioterapici e temperature sono funzione del tipo istologico che si vuole trattare.

212
TUMORE del POLMONE
È una neoplasia abbastanza frequente in Italia, sia nel sesso M (2° posto, 15% di tutte le nuove diagnosi di
tumore), che nel sesso F (3° posto, 12%).
Rappresenta la più frequente causa di morte per patologia neoplastica negli uomini in tutte le fasce di età.
La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è complessivamente pari al 16%.
Il picco di incidenza è intorno ai 55-65 anni di età.

Fdr:
• Fumo di sigaretta
Rappresenta il più consolidato fdr.
Circa l’80-90% delle neoplasie del polmone si sviluppa nei fumatori o in coloro che hanno smesso di recente.
L’associazione appare molto significativa con il K squamo-cellulare e il K a piccole cellule.

• Carcinogeni di tipo professionale, come l’asbesto, radon e metalli

• Inquinamento atmosferico

• RT

• Malattie polmonari croniche (come BPCO, fibrosi polmonare…)

• Fattori genetici di suscettibilità.

Principali istotipi
➢ K squamo-cellulare
Rappresenta circa il 30% dei K polmonari.
È molto più frequente nel sesso M e nei fumatori.
Insorge nella quasi totalità dei casi come forma ilare, determinando in fase avanzata sintomi da ostruzione bronchiale

➢ AdenoK
Rappresenta circa il 40% dei K polmonari.
Nei paesi occidentali, la frequenza dell’ADC è in netto incremento.
È l’istotipo più frequente nei non fumatori e nei pz più giovani.
Ha prevalente sviluppo periferico, con frequente coinvolgimento pleurico e versamento neoplastico consensuale. È frequentemente multifocale.
Tende inoltre a metastatizzare a distanza precocemente.

➢ Neoplasie neuro-endocrine del polmone


Comprendono principalmente:
− carcinoide tipico
− K a piccole cellule (microcitoma)
Presenta prevalente localizzazione centrale ed è per definizione una neoplasia indifferenziata (G3).
Ha una storia naturale estremamente rapida, con prognosi infausta in pochi mesi; tuttavia, proprio a causa del suo alto indice di
proliferazione, è molto sensibile alla CT-RT, anche se i risultati non sono durevoli.
La sopravvivenza a 5 anni è del 5%.

221
Clinica
La maggior parte dei tumori polmonari sono occulti e vengono diagnosticati casualmente.
Nei restanti casi, il tumore polmonare produce una serie di segni/sintomi spesso avvertita solo in fase
tardiva:

Segni/sintomi:
a) Dovuti alla crescita locale del tumore
• Tosse (50-75% dei casi): tipicamente secca e stizzosa, ingravescente, prolungata durante tutta la giornata e presente anche
durante la notte.
È dovuta all’infiltrazione dei recettori della tosse, i quali sono presenti solo fino alla VII gen. bronchiale ⇛ si manifesta principalmente
con tumori che interessano le vie aree centrali.

• Emoftoe ed Emottisi: dovute all’erosione delle venule della sottomucosa da parte dei tumori centrali

• Infezioni bronco-polmonari recidivanti: causate dal ristagno di secrezioni distalmente al segmento stenosato e perciò
caratteristicamente insorgenti sempre nella stessa sede.

• Dispnea: dovuta al versamento pleurico a seguito di infiltrazione della


pleura, più tipica dei tumori periferici

• Dolore al petto: quando vengono infiltrate pleura parietale, grossi bronchi,


n. intercostali…

b) // all’invasione di strutture adiacenti


• Sindrome di Bernard-Horner: per lesione del SN simpatico
cervicale (con parasimpatico che prevale), con miosi persistente ipsilaterale, ptosi,
apparente enoftalmo, anidrosi e alacrimia

• Sindrome di Pancoast: per lesione del plesso brachiale, conseguente


alla crescita di un tumore a sede apicale, è caratterizzata da algie e parestesie
persistenti a collo, spalla e lato ulnare del braccio

• Sindrome mediastinica: conseguente a invasione/compressione del mediastino, con singhiozzo e


paralisi emidiaframmatica (⇒ legati al coinvolgimento del n. frenico), disfonia/afonia (⇒ per infiltrazione del n.
laringeo ricorrente di sx; si differenzia dal dx perché passa sotto l’arco aortico ), disfagia (⇒ esofago), versamenti
intrapericardici o aritmie cardiache (⇒ pericardio o irritazione delle fibre simpatiche)

• Sindrome della v. cava superiore: conseguente a infiltrazione/compressione che determina


congestione venosa, è caratterizzata da turgore delle vene giugulari, edema a mantellina con
cianosi e gonfiore dell’emisoma superiore (incluse le congiuntive), dilatazione delle vene
collaterali del torace (⇒ il sangue cerca di tornare al cuore dx) e disturbi neurologici (⇒ alterazioni del visus e della
coscienza, cefalee).

c) // metastasi
Possono comparire come primo sintomo della malattia: interessano frequentemente polmone (lo stesso e/o
controlaterale) e SNC, con possibili alterazioni del comportamento, deficit focali, sindrome da ipertensione
endocranica, crisi epilettiche….
Le metastasi si presentano spesso anche nel fegato, surreni e ossa.

d) Sindromi Paraneoplastiche
Insieme di condizioni cliniche associate a neoplasia, non legate agli effetti locali ma secondarie alla produzione da parte delle cellule neoplastiche di
fattori ad azione sistemica:
• Manifestazioni cutanee: dermatomiosite, acanthosis nigricans, eritema multiforme e gyratum…
• Sindromi paraneoplastiche endocrine (12%): sindrome di Cushing per produzione di ACTH ectopico, SIADH, produzione di PTHrP
• Clubbing (o ippocratismo) digitale e osteoartropatia Ipertrofizzante
• Manifestazioni vascolari: ipercoagulabilità con tromboflebite migrante superficiale, endocardite trombotica non batterica…
• // neurologiche: sindrome miastenica di Lambert-Eaton (nel SCLC)
• Le sindromi PN possono essere correlate anche ad effetti sistemici (30%), quali febbre, anemia, anoressia, perdita di peso e cachessia.

222
Diagnosi

1) Ricerca del T mediante:

• RX torace
Deve essere sempre eseguita in proiezione antero-posteriore e latero-laterale, per minimizzare la possibilità che l’ombra cardiaca si sovrapponga ad
eventuali lesioni.
Permette di valutare: eventuali lesioni in massa, infiltrati polmonari recidivanti/persistenti, la presenza di zone atelettasiche e versamento pleurico.
Se la clinica è negativa, una RX negativa non esclude la presenza di neoplasia

Localizzazione ilare e nodulo isolato in campo polmonare superiore dx e sx

• TC torace-addome con mdc: oltre a confermare e permettere la diagnosi anche con masse piccole,
può essere utilizzata per una prima definizione della stadiazione secondo la classificazione TNM e per la
ricerca di eventuali metastasi (linfonodali e a distanza).
Caratteristiche quali le dimensioni della neoformazione, l'irregolarità del profilo, la densità disomogenea, l'assenza di depositi calcifici e il progressivo
accrescimento nel tempo aumentano la probabilità di malignità della lesione.
Comuni modalità di presentazione: lesione periferica solitaria, atelettasia polmonare (con o senza versamento pleurico), lesione addensanti ilare con o
senza infiltrazione del mediastino, nodulo non solido o parzialmente solido (anche definito vetro smerigliato), lesioni multiple polmonari, versamento
pleurico.

• PET-TC con FDG: permette di localizzare e valutare l’attività metabolica di un nodulo/massa.


Viene somministrato per ev glucosio marcato con radioisotopo Fluoro18 (⇒ fluoro-desossiglucosio), che viene captato prevalentemente dai tessuti
con alto metabolismo e qui decade emettendo positroni ⇒ un positrone che si libera dal suo radioisotopo cerca un elettrone; una volta trovato
l’elettrone, tali due particelle si annichiliscono e rilasciano due fotoni, illuminando preferenzialmente il nodulo/massa.
I noduli PET positivi hanno elevata attività metabolica, assumono tanto glucosio ed emettono tanti fotoni: maggiore è la positività della PET,
maggiore è la probabilità che quel nodulo sia maligno.

Il vantaggio della PET è di caratterizzare meglio il nodulo polmonare solitario (con elevato VPN) e di
illuminare con alta sensibilità sia i linfonodi coinvolti che le M a distanza (⇒ in particolari metastasi
extratorachiche ed ossee), permettendo una stadiazione più accurata.

2) Caratterizzazione istologica: per una diagnosi precisa, in modo da orientare le successive decisioni
terapeutiche.

La diagnosi cito-istologica può essere effettuata con prelievi sul T, sui linfonodi loco-regionali (⇒ ilari o
mediastinici, patologici se > 1 cm) o sulle M a distanza qualora presenti, mediante diverse metodiche:
• Se la lesione cresce all’interno del bronco, fibrobroncoscopia con agobiopsia bronchiale o trans-
bronchiale sotto guida eco-endoscopica (EBUS-TBNA, Endobronchial UltraSound-TransBronchial Needle Aspiration);
può essere usata anche per campionare stazioni linfonodali ilio-mediastiniche adiacenti.
È possibile anche l’esame citologico dell’espettorato (⇒ scarsa sensibilità, che aumenta se ripetuto per 3 giorni
consecutivi) e del versamento pleurico (se presente, mediante toracentesi)

• Se invece la lesione è periferica, agoaspirato/agobiopsia trans-parietale TC-guidata (⇒ gravata però da rischio


di pneumotorace)

223
Più raramente, soprattutto in caso di prelievo insufficiente, si ricorre a biopsie chirurgiche:
- Mediastinoscopia → permette di ottenere biopsie dei linfonodi mediastinici
- Chirurgia toracoscopica videoassistita VATS (⇒ esame endoscopico del cavo pleurico)
- Toracotomia e mediastinotomia.

3) Esami strumentali per la stadiazione:

• TC torace + addome
• RM encefalo: per M cerebrali
• PET-TC con FDG
• Altre metodiche:
- BOM → per pz con microcitoma ai fini di una corretta stadiazione

- Biopsia delle lesioni metastatiche

- La scintigrafia con octreotide è molto attendibile nel verificare


la presenza di carcinoidi e di eventuali M.
Al contrario, la PET non è di molta utilità data la scarsa tendenza
delle cellule ad accumulare il glucosio marcato.

Classificazione TNM

Tumore primitivo (T)


• Tx: tumore occulto
Il tumore primitivo non può essere definito, oppure ne è provata l’esistenza per la presenza di cellule tumorali nell’escreato o nel liquido di
lavaggio bronchiale, ma non è visualizzato con le tecniche di imaging
• T0: nessuna evidenza del T

• T1: T < 3 cm nella sua dimensione massima


• T2: 3-5 cm o T con una qualunque delle seguenti caratteristiche:
- Interessamento del bronco principale
- Invasione della pleura viscerale
- Associazione a polmonite ostruttiva

• T3: 5- 7 cm o associato a nodulo/i nello stesso lobo del T primitivo o che invade direttamente parete toracica, n. frenico, pericardio
parietale

• T4: > 7 cm o associato a nodulo/i in un lobo ipsilaterale ma differente rispetto al lobo del T primitivo o che invade direttamente
diaframma, mediastino, cuore, grandi vasi…

Coinvolgimento dei linfonodi loco-regionali (N)


• N1: metastasi nei linfonodi peribronchiali e/o ilari ipsilaterali e intrapolmonari
• N2: // mediastinici e/o sottocarenali ipsilaterali
• N3: // mediastinici controlaterali, ilari controlaterali, scaleni e/o sovraclaveari

Metastasi a distanza (M) ⇒ stadio IV.

Stadi:
1) Stadio I ⇒ T1 – N0 – M0

2) II ⇒ T1/2 – N1
T3 – N0

3) IIIA ⇒ T1/2 – N2
T3/4 – N1

IIIB ⇒ T1/2 – N3
T3/4 – N2

4) IV ⇒ qualsiasi M.

224
Terapia

A) NSCLC

➢ Malattia negli stadi iniziali (⇒ stadi I-II)

a) Chirurgia
Rappresenta il trattamento elettivo nel NSCLC in stadio I o II, oltre che in casi selezionati
nello stadio IIIA (N2).
Criteri di operabilità:
• biologici (⇒ prospettiva di radicalità in relazione allo stadio)
• anatomici (⇒ volume minimo di recezione necessario ad ottenere la radicalità)
• funzionali (⇒ capacità respiratoria predetta dopo intervento radicale, utile a garantire una sufficiente funzionalità
respiratoria).

Viene pertanto definito:


• operabile: un individuo affetto da malattia resecabile e presumibilmente in grado di tollerare il trauma chirurgico necessario
• resecabile: una malattia che può essere completamente asportata mediante un intervento chirurgico
• curativo: un intervento potenzialmente in grado di guarire la malattia.

I pz affetti da tumore polmonare non sempre rispettano i criteri di operabilità, presentando


spesso comorbidità (ad es. BPCO, oltre che patologie cv relate al tabagismo) ⇛ occorre
un’attenta valutazione funzionale cardio-respiratoria (in condizioni basali e sotto sforzo), escludendo
dalla chirurgia chi non appaia autonomo dal punto di vista respiratorio nel post-operatorio o
presenti un rischio di complicanze cv eccessivo.
Il pz deve effettuare una preparazione all’intervento che comprende:
− abolizione del fumo
− fisioterapia respiratoria
− terapia antibiotica qualora fosse indicata
− somministrazione di mucolitici e broncodilatatori: perché il momento dell’intervento coincide con la riattivazione della
motilità muco-ciliare abolita dal fumo e il paziente si accorge di avere più muco.

Lo standard chirurgico è rappresentato dalla lobectomia polmonare mediante toracotomia


(antero-laterale o postero-laterale) o approccio mini-invasivo con VATS (in pz con stadio clinico I).
In caso di lesione a localizzazione centrale oppure nel caso di superamento delle scissure
polmonari da parte della neoplasia, è indicata l'esecuzione della bilobectomia o della
pneumonectomia.
Ampiamente dibattuta la discussione sul rapporto rischio beneficio tra lobectomia e resezioni
minori (segmentectomia e resezione cuneiforme), che possono essere effettuate solo in gruppi
selezionati, come in caso di lesioni non solide a “vetro smerigliato” (Ground Glass Opacities:
GGO, spesso infatti configurano adenok in situ o minimamente invasivo) o stadi molto precoci
(Tis o T1a).

La chirurgia di risparmio polmonare permette di eseguire lobectomie o bilobectomie anche in pz in cui l’infiltrazione della
diramazione bronchiale richiederebbe resezioni più ampie.
Queste tecniche permettono di operare pz altrimenti esclusi per indici di funzionalità respiratoria non permissivi per ampie
resezioni.
Ad es. se il tumore occupa l’origine del bronco lobare superiore di sx e si spinge al bronco principale l’intervento classico sarebbe
la pneumonectomia sx sacrificando il lobo inferiore che non è interessato dalla patologia. Se si va ad asportare il bronco lobare

225
inferiore e a sezionare il bronco principale e infine reimpiantare il lobo inferiore ci si limita a fare una lobectomia anziché una
pneumonectomia.

Stessa cosa si potrebbe fare anche con l’arteria qualora risultasse infiltrata: se si ha un’infiltrazione dell’arteria polmonare
principale viene asportata e si utilizza poi un patch di pericardio a ricostruire la parete infiltrata dalla neoplasia.

Se il bronco principale di dx è occupato da una neoplasia vegetante richiederebbe una resezione completa del polmone di destra: in
questo caso può essere fatta una resezione del bronco e di parte della trachea e una rianastomosi tra il lobo inferiore e la trachea
risparmiando una parte importante.

Tutte queste resezioni vengono chiamare resezioni a manicotto o sleeve resection che possono essere bronchiali, vascolari o
entrambe.
Un’altra tecnica di ventilazione temporanea è la Jet Ventilation che è una ventilazione ad alta frequenza e ad alta velocità che
permette di ventilare il polmone controlaterale.

Le più frequenti complicazioni perioperatorie sono: FA, atelettasia, infezioni polmonari, perdite
aeree prolungate, ARDS, insufficienza respiratoria, fistola bronchiale, empiema, embolia
polmonare.
La mortalità per lobectomia si attesta fra il 2-5%, maggiore per la pneumonectomia.

La resezione polmonare si associa linfadenectomia ilo-mediastinica completa (tecnica di


prima scelta) o a sampling sistematico linfonodale.

Lo stadio IIIA con interessamento dei linfonodi mediastinici (N2) rappresenta un gruppo
eterogeneo di neoplasie con prognosi molto diversa:
▪ In caso di N2 con un solo linfonodo in una singola stazione a sede “favorevole”
(facilmente aggredibile chirurgicamente) ⇒ chirurgia + CT adiuvante ± RT
▪ // con più stazioni linfonodali mediastiniche ⇒ CT o CRT neoadiuvante (con intento
citoriduttivo per rendere la massa tumorale operabile chirurgicamente) seguito da chirurgia.

b) CT adiuvante (post-operatoria): indicata in caso di:


- Stadi II-IIIA
- N+ alla stadiazione AP
- Buone condizioni generali, con performance status 0-1 e buona ripresa fisica dopo la
chirurgia

Pz con pN2 o residuo di malattia sono valutati anche per RT adiuvante.

c) RT stereotassica
Rappresenta un trattamento alternativo alla chirurgia per pz in stadio I non operabili per motivi funzionali, internistici o che
rifiutino l’intervento chirurgico.

d) Follow up: con controllo clinico ogni 3 mesi, TC con mdc ogni 6 mesi – 1 anno.
La prognosi del pz affetto da NSCLC sottoposto a resezione chirurgica radicale correla strettamente con la stadiazione patologica di
malattia, stadiazione stabilita dall' esame istologico del tessuto resecato.
La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi varia dal 90% per lo stadio patologico IA al 60% per lo stadio II.
La diffusione metastatica distanza rappresenta la principale causa di recidiva post-operatoria, mentre la probabilità di ricaduta
locale interessa circa un terzo dei pz operati.

226
➢ Malattia in stadio localmente avanzato (⇒ IIIA non resecabile, IIIB, IIIC)

➢ Malattia metastatica
Il K squamo-cellulare presenta spesso delezioni riguardanti loci oncosoppressori.
L’adenoK è invece caratterizzato da mutazioni gain-of-function a carico dei componenti delle vie di signaling per i fattori di crescita.

Oggi tutti i pz con istologia non-squamosa o mista, ma anche i pz con istologia squamosa pura soprattutto se giovani e/o non fumatori, o
se con diagnosi fatta su piccole biopsie, dovrebbero essere testati per:
▪ ROS-1 ⇒ crizotinib
▪ ALK ⇒ crizotinib, per i pz in progressione alectinib e ceretinib
▪ EGFR ⇒ anti-EGFR di I gen. gefitinib ed erlotinib e di II gen afatinib; in caso di resistenza III gen osimertinib

Se nessun target molecolare, due opzioni in base ai livelli di espressione di PD-L1:


▪ Se PD-L1 < 50% ⇒ CT a base di platino ± bevacizumab

▪ ≥ 50% ⇒ anti-PD-1 pembrolizumab.

B) SCLC
Non viene trattato chirurgicamente.
La risposta al trattamento CRT è inizialmente molto buona; l’efficacia terapeutica viene meno una volta che il tumore recidiva ( ⇒ il microcitoma ha
un’elevata tendenza a recidivare).

227
NODULO POLMONARE
Lesione focale del parenchima polmonare con diametro < 3 cm; se > 3 cm si parla di “massa polmonare”.
Può essere identificata casualmente con Rx del torace, a cui segue un approfondimento con TC torace.
La prevalenza nella popolazione generale non è conosciuta con precisione: il range risulta molto ampio (17-51%) perché gli studi che lo definiscono
sono fatti generalmente su popolazioni a rischio (fumatori ed ex fumatori).

Quesiti:
a) Perché fare una TC del torace, dal momento che già all’Rx si vede un’opacità polmonare?
Perché non sempre un’opacità presente al radiogramma del torace è espressione di un nodulo polmonare. Tale opacità potrebbe invece essere:
• malformazione bronchiale (atresia bronchiale): l’opacità è determinata dal ristagno di secrezioni mucose all’interno dei bronchi che non
riescono a svuotarsi
• alterazione costale (ad es. esito di frattura costale)
• malformazione arterovenosa.

La TC può, quindi, confermare o smentire il sospetto diagnostico.

b) Senza o con mdc?


La valutazione pre-contrastrografica consente di capire la densità del nodulo, in base alla quale è possibile stabilire se il nodulo sia espressione di
lesione maligna o se rimane indeterminato:
• i noduli fibrotici (esiti di processi flogistici) spesso diventano completamente calcifici, con densità simile a quella delle coste

• l’amartoma è una lesione benigna che presenta all’interno delle componenti adipose, osservabili solo con una fase pre-contrastrografica

Di fronte a quadri così chiari (quali noduli completamente calcifici o amartomi) non è necessario effettuare l’esame con mdc perché non
aggiungerebbe niente.

Il discorso cambia per quanto riguarda una lesione espressione di una malformazione vascolare oppure per una lesione localizzata tra i vasi
polmonari: il mdc consente di discriminare quello che è lesione dai vasi.

Principali controindicazioni mdc:


 allergie al mdc (è possibile effettuare una preparazione dedicata per poter ridurre l’entità della reazione allergica)
 alterata funzionalità renale (ad es. pz con insufficienza renale non sottoposti a dialisi: se fossero dializzati basterebbe effettuare una
dialisi dopo l’esame per eliminare il mdc)
 metformina (è preferibile sospenderla 48 h prima di effettuare la TC con mdc e riprenderla 48 h dopo).

c) Quali informazioni fornisce la TC?


• Dimensioni:
- se < 5mm: il rischio che possa essere una neoplasia maligna è basso (anche nel caso del forte fumatore; si fa comunque un
controllo a distanza di tempo)
- se 5-10 mm: il rischio è intermedio
- se > 10 mm: il rischio è alto (soprattutto se sono presenti i fdr come il fumo) ⇒ nodulo sospetto

• Densità/consistenza:
- Nodulo solido (più frequente)
- Nodulo subsolido ⇒ ground glass puro o misto

• Calcificazioni:
- diffuse, concentriche, centrali, a pop-corn ⇒ lesioni benigne

- a lamina concentrica, con piccole calcificazioni (che si possono trovare anche in M


di tumori extra-polmonari) o eccentriche (tipiche del carcinoide) ⇒ lesioni maligne

• Margini
- Lisci ⇒ lesioni benigne.
Attenzione: escludere M di neoplasie extra-polmonari perché queste hanno margini lisci

- Irregolari (lobulati o spigolati) ⇒ più probabilmente lesioni maligne

• Forma
- Sferica (“coin lesion”) ⇒ lesioni benigne (ad es. amartoma).
Attenzione: escludere M di neoplasie extra-polmonari perché queste hanno forma sferica (e margini lisci) ⇛ importante
indagare se il pz ha avuto una pregressa neoplasia e di che tipo

- Non sferica ⇒ lesioni maligne.

228
Oggi la TC è in grado di acquisire sezioni anche minori di 1 mm e per questo è sempre più frequente il riscontro di noduli molto piccoli anche in
maniera incidentale.
Sono di particolare interesse tutti i noduli che < 1 cm (a rischio basso-intermedio), classificati in:
1. Noduli piccoli ⇒ 5-10 mm
2. // molto piccoli ⇒ 3-5 mm
3. Micronoduli ⇒ < 3 mm (non sono espressione di patologia soprattutto nel pz che non ha
anamnesi oncologica positiva)

Di fronte ad un nodulo > 2 cm, solitamente il chirurgo preferisce asportare il nodulo, poiché è
altamente probabile che sia maligno.

Linee guida Fleischner Society per il follow-up di piccoli noduli solidi indeterminati:

Oggi l’analisi delle variazioni dimensionali di un nodulo è in modalità tridimensionale (volumetrica): con i software a disposizione (3D-CAD
Volumetric Analysis and Volume Doubling Time) si può effettuare un’analisi volumetrica attraverso programmi computerizzati, confrontando i
differenti volumi nel tempo e calcolando la velocità di crescita, cioè il tempo di raddoppiamento = VDT (Volume Doubling Time).
In particolare:
• VDT > 600 giorni ⇒ rischio di malignità basso
• VDT 400-600 giorni ⇒ // intermedio
• VDT < 400 giorni ⇒ // alto

Prima che si introducesse questa tecnica si pensava che i noduli per un po’ rimanessero stabili e poi a un certo punto iniziassero a crescere
velocemente.
In realtà andando ad analizzare i vari casi si vede che il tempo di crescita, il tempo di raddoppiamento, rimane costante: quindi quando il nodulo è
piccolo, variazioni volumetriche significative non vengono apprezzate perché il diametro varia di poco, quando il nodulo è di 1 cm l’incremento
volumetrico è molto più rilevante anche guardando l’immagine bidimensionale.
Oggi con queste tecniche tridimensionali molto diffuse si può anticipare la diagnosi e dunque migliorare la prognosi del pz.

Per quanto riguarda la PET-TC, le condizioni necessarie per l’indicazione:


• sempre dopo TC a distanza di almeno 2-3 settimane
• Solo in presenza di noduli polmonari solidi > 8 mm

229
La PET risulta positiva per tutte le lesioni con alto metabolismo glucidico, quali i tumori e le alterazioni flogistiche.
Bisogna però tenere da conto che il carcinoide (tumore neuroendocrino) non capta il FDG, pur avendo natura maligna ma crescita borderline.

Noduli solidi > 8 mm e negativi alla PET-TC hanno una probabilità di malignità del 15% ⇛ è fondamentale il monitoraggio, poiché non può essere
esclusa la malignità; occorre considerare la morfologia e i margini (lobulati = rischio intermedio).

Noduli sub-solidi (o ground-glass)


Sono costituiti da due componenti: una componente a densità ridotta e una componente più solida.

Queste lesioni sono da considerarsi più sospette di quelle solide, in quanto spesso
espressione di lesioni neoplastiche, in particolare l’adenoK a crescita lepidica.

Fondamentale è valutare la persistenza o meno nel tempo: se una lesione scompare


dopo un intervallo di 1-3 messi non sarà una lesione neoplastica; al contrario se la
lesione con queste caratteristiche nel tempo rimane, anche se non cresce in maniera
significativa, sarà espressione di una lesione neoplastica.

Prendendo 10 anni di letteratura, oltre il 90% delle lesioni subsolide persistenti sono
espressione di lesioni invasive o preinvasive.

Devono essere seguite per molti anni, anche oltre 5 anni;


• Nodulo ground glass puro (solo a vetro smerigliato)
• // parzialmente solido con piccola componente solida circondata da vetro smerigliato
• // parzialmente solido con componente solida maggiormente rappresentata.

La velocità di crescita di queste tre tipologie è progressivamente più alta:


▪ per il primo tipo tempi di raddoppiamento molto lunghi che possono arrivare a 5000 giorni (non ha nemmeno senso operarle, sarebbe
sovradiagnosi)
▪ la terza categoria invece è costituita da lesioni che crescono molto rapidamente, con tempi di raddoppiamento che si avvicinano ai 500
giorni (se superiore ai 15 mm generalmente va operato)

Oggi le linee guida che aiutano clinico e radiologo nella gestione di questi noduli:
a) nodulo ground glass puro < 6 mm ⇒ no follow up (perché quella lesione non diventerà mai clinicamente evidente, anche se non è benigna lo
è il suo comportamento).
Se le lesioni parzialmente solide sono < 6 mm è difficile distinguere tra le due
forme.

b) Nodulo > 6 mm ⇒ monitoraggio per opacità ground glass (secondo linee guida
giapponesi):
• Nodulo ground glass puro ⇒ valutare persistenza con rivalutazione TC dopo
3 mesi: se persiste, controllo annuale per 5 anni

• Nodulo parzialmente solido con componente solida < 5 mm ⇒ // TC dopo


3 mesi: se persiste, controllo annuale e verificare che la componente solida e
le dimensioni globali del nodulo non aumentino.

Chirurgia se componente solida ≥ 5 mm o dimensioni globali ≥ 15 mm.


• Nodulo parzialmente solido con componente solida ≥ 5 mm ⇒ // TC dopo 3 mesi: se persiste, chirurgia.

La lesione va tolta perché è un adenoK molto spesso invasivo e, se tolte con questa tempistica, hanno una prognosi molto buona.

La PET può essere eseguita solo nel caso in cui il nodulo è parzialmente solido con componente solida > 8 mm.
Le lesioni ground glass espressioni di adenoK a crescita lepidica sono a basso metabolismo glucidico; tanto è più alto il SUV tanto è più probabile
la natura infiammatoria, quindi questo può creare problemi di interpretazione nel momento in cui viene fatta una PET immediatamente dopo una TC.

230
METASTASI POLMONARI
Sono molto frequenti: pressoché tutte le neoplasie maligne sono potenzialmente in grado di dare M polmonari, poiché l’azione filtro del circolo
capillare polmonare intrappola le cellule tumorali circolanti.
Possono presentarsi come formazioni nodulari uniche o multiple, spesso periferiche e localizzate in prossimità di un vaso delle basi polmonari
(per la maggior perfusione).
Nel 15-20 % dei casi le metastasi si presentano singole, mentre nel restante 80% dei casi invece saranno multiple.

È importante considerare il tempo di comparsa di queste metastasi rispetto alla neoplasia primitiva: potremo avere infatti metastasi sincrone alla
neoplasia primitiva o metastasi metacrone, che compaiono ad una lunga distanza temporale dalla resezione del tumore originario.

I tumori che più frequentemente metastatizzano a livello polmonare sono: tumori del colon-retto, mammella, rene, vescica, sarcomi, polmone
(controlaterale).

In riferimento al trattamento chirurgico delle metastasi polmonari, dobbiamo precisare fin da subito come siano escluse da questa possibilità
terapeutica le metastasi miliariformi provenienti da neoplasie altamente vascolarizzate (tumore renale, tiroide, osteosarcoma, corion-epitelioma).

Non esistono ancora delle linee guida in merito alla metastasectomia polmonare: di fatto, esiste una importante casistica di metastasi polmonari
trattate, che correlano con un miglioramento della prognosi.
I principi generali del trattamento chirurgico delle M al polmone sono:
• T primitivo sotto controllo
• Possibilità di radicalità chirurgica (asportazione completa con margini
liberi): la resezione atipica oggi è l’intervento più eseguito, mantenendo
un margine di 0,5-1 cm
• Assenza di M extra-polmonari
• Quadro spirometrico compatibile con la/e resezioni
• Assenza di alternative terapeutiche (specialmente con l’introduzione
della target therapy e dei farmaci biologici).

I fattori prognostici che orientano l’intervento chirurgico nelle M polmonari sono


diversi:
- Intervallo libero da malattia: se i noduli compaiono tardivamente
(lesioni metacrone), significa che sono lesioni a lentissima crescita; il
tempo di raddoppiamento cellulare è basso e questo è un indice
prognostico favorevole
- Interessamento linfonodale: indice prognostico sfavorevole
- Numero e sede delle M: definisce il grado di “esplosività” della malattia;
ovviamente meno sono, più l’intervento è accettabile
- Istotipo
- Età del pz.

MESOTELIOMA PLEURICO
Riconosce come fdr principale l’esposizione ad asbesto/amianto.
È di interesse per la sua relativa diffusione e per, purtroppo, la sua scarsa sopravvivenza.

Clinica: la sintomatologia è subdola, ma alcune caratteristiche non devono essere trascurate: la principale è un versamento pleurico recidivante
(spesso i pz vengono classificati come pleuritici).
Quando la neoplasia raggiunge una fase più avanzata, attraverso l’infiltrazione della parete toracica produce dolore e l’ispessimento proliferativo
della pleura (insieme al dolore e al versamento) genera dispnea.
La storia naturale è estremamente severa, con una sopravvivenza media di 9 mesi dalla diagnosi.

Diagnosi: è legata fondamentalmente al sospetto medico, l’unico fattore che determina una diagnosi precoce. Prevede:
• Rx torace: evidenzia il versamento pleurico
• TC torace: possibile evidenza di mammelloni pleurici
• Videotoracoscopia: evidenza diretta di lesioni a “spruzzo di calce” e possibilità di prelevare campioni bioptici per la diagnosi di certezza.

Trattamento: approccio multimodale, con RT-CT e chirurgia.


L’intervento è possibile solo a determinate condizioni: tumore in fase iniziale e istotipo epitelioide.
In alcuni casi si associa anche l’ipertermia intraoperatoria chemioterapica.
Il trattamento chirurgico può essere anche estremamente esteso, con rimozione dell’intera pleura-polmone e parte del diaframma, oppure nelle fasi
molto iniziali può essere più mirato.

231
INCIDENTALOMA SURRENALICO
Qualsiasi massa scoperta per caso in corso di procedure diagnostiche o interventi chirurgici eseguiti per
altri motivi.

Epidemiologia
Prevalenza in studi radiologici è del 4% nell’adulto, aumentando all’8% negli anziani.
La popolazione più colpita è quella sopra i 60-70 anni, soprattutto di sesso F.

Classificazione istologica
• Incidentalomi del corticosurrene:
- Adenoma (70% dei casi) ⇒ benigno, generalmente non funzionante
- Iperplasia nodulare
- K (10% dei casi)

• // midollare del surrene: feocromocitoma (7% dei casi)

• Metastasi (in particolare da K mammario e polmonare, K renale, melanoma, linfoma e leucemia…)

• Altre masse: come mielolipoma e cisti.

Diagnosi
In seguito al riscontro casuale, occorre definire:

1) Funzionalità (riscontrata nel 15% degli incidentalomi):


• Eccesso di catecolammine ⇒ feocromocitoma: si valuta con dosaggio delle metanefrine urinarie
nelle 24h
• Ipercortisolismo ⇒ sindrome di Cushing: si valuta con cortilosemia alle ore 23, cortisoluria nelle
24h; nei casi dubbi si fa test dinamico di inibizione con desametasone a basse dosi (elevata
cortisolemia)
• Iperaldosteronismo ⇒ IA, ipokaliemia, alcalosi metabolica, aldosteronemia (aumentata) e attività
della renina plasmatica (PRA, ridotta)

• Iperandrogenismo ⇒ dosaggio androgeni surrenalici: DHEA, DHEA-S, androstenedione,


testosterone liberi e 17-OH-progesterone

• Iperestrogenismo (raro) ⇒ dosaggio 17-β-estradiolo

• Insufficienza surrenalica (rara) ⇒ cortisolemia delle ore 8 (ridotta), cortisoluria delle ore 24 (ridotta);
nei casi dubbi test dinamico di stimolo con ACTH rapido per ev (ridotta cortisolemia)

2) Malignità (nel 13% degli incidentalomi): ad oggi non esistono marker specifici: l’unica eccezione è
l’infiltrazione delle strutture circostanti o la presenza di M.
Occorre pertanto indagare all’imaging elementi suggestivi di malignità.

Per quanto riguarda le metodiche:


• Ecografia: di solito è l’esame diagnostico che porta il pz all’attenzione del medico.
Purtroppo però non è in grado di caratterizzare morfologicamente la lesione in termini di benignità o malignità ed è fortemente inadeguata
per un corretto bilancio spaziale.

È utilizzata nel follow-up di lesioni definite benigne alla TC o RMN per cui non sia prevista la
chirurgia.

232
• TC: è l’esame di riferimento e consente di valutare diversi criteri diagnostici:
− Criteri morfologici aspecifici:
o Dimensioni: diametro > 4cm è indice di malignità
o Variazioni volumetriche: una rapida crescita > 1 cm all’anno è indice di malignità

o Margini: se irregolari ⇒ maggiore probabilità che la massa sia maligna

o pattern strutturale: se disomogeneo ⇒ // maligna

− Valutazione densità del tessuto (con TC senza mdc): attraverso la misura del grasso
intracellulare (infatti si sa che le cellule del surrene hanno un alto contenuto lipidico e di conseguenza quanto più la
neoplasia è ben differenziata e quindi benigna, tanto maggiore sarà il contenuto lipidico):
o Densità bassa (< 10 HU): il contenuto lipidico è così elevato da permettere con
assoluta serenità di classificare la lesione come benigna (71% di sensibilità e 98% di
specificità)
Quindi, mettendo insieme i diversi parametri, se i criteri morfologici propendono per la benignità e la densità è <
10HU allora si può affermare che la lesione è benigna con una specificità del 100%

o Densità alta (> 10 HU): la lesione è meritevole di ulteriori indagini

− Studio TC con mdc: per valutare pattern di


enhancement e wash-out (ossia la cinetica di dismissione del mdc):
o HU < 30 e wash-out > 50% ⇒ lesione benigna
o HU > 30 e wash-out < 50% (lenta dismissione del mdc)
⇒ // maligna
o Casi dubbi ⇒ RM

• RM: deve essere effettuata con acquisizione delle sequenze in T1 e T2 e


bisogna partire dal presupposto che le lesioni maligne del surrene, sia primitive
che secondarie, hanno un maggiore contenuto di acqua, al contrario delle
lesioni benigne che hanno un maggior contenuto lipidico.
Le lesioni maligne tendono a presentare una marcata e
disomogenea ipointensità in T1 e iperintensità in T2.
Facendo la RM in prima battuta si potrebbe avere un overlap con l’adenoma,
cosa che non accade se abbiamo già un dato TC in grado di darci informazioni
riguardo ad un ipotetico adenoma.

Un ulteriore metodica di approfondimento è la RM


chemical shift (riduzione del segnale in opposizione di fase, che
permette di acquisire immagini con soppressione del segnale del grasso):
− Se si ha riduzione del segnale ⇒ lesione benigna
− // aumento ⇒ maligna
− Casi dubbi ⇒ surrenectomia diagnostica o PET

• PET con 18-FDG: nelle lesioni neoplastiche dimostra fissazione elevata (superiore a quella del fegato).
In particolare, si valuta il rapporto tra la captazione massima misurata in SUV (Standardized Uptake Value) nella lesione neoplastica e
sulla cupola epatica (SUVmax tumore / SUVmax fegato), con cut-off di 1,7:
− Se il rapporto è <1,7 ⇒ lesione benigna
− // > 1,7 ⇒ // maligna.

Quando si richiede la PET è opportuno tener presente che il risultato ottenuto è fortemente correlato alla funzionalità del tumore stesso:
se funzionante sarà fortemente positivo in quanto formato da una massa metabolicamente molto attiva.

233
• Agobiopsia eco/TC-guidata: è necessario escludere il feocromocitoma prima di procedere.
In realtà questa procedura è sconsigliata in quanto la differenza AP fra adenoma e K surrenalico non
è marcata e aumenta il rischio di disseminazione di cellule neoplastiche.

Risulta invece utile in caso di neoplasia extra-surrenalica concomitante per confermare evidenze
radiologiche di M surrenali.

Follow-up
Obiettivi:
• individuare precocemente una crescita dimensionale della lesione, che potrà essere trattata quando
ancora di dimensioni facilmente aggredibili con chirurgia laparoscopica (riducendo così l’invasività ed
aumentando tollerabilità e sicurezza; al contrario, una massa di grandi dimensioni richiederebbe un approccio laparotomico
significativamente più invasivo).
Si ricorre a monitoraggio ecografico o TC con controlli a distanza di 6 mesi, 1 o 2 anni, 5 anni; al
termine dell’iter, se il quadro è invariato, non è indicato proseguire con il follow-up.
Agli Spedali Civili si può procedere ad anni alterni, senza essere mai sospeso: questa scelta è stata fatta in virtù della mancata
conoscenza sulla cinetica di crescita della lesione e per la possibilità che lesioni a lenta crescita possano nel tempo raggiungere
dimensioni molto elevate senza dare sintomi, diventando poi aggredibili esclusivamente con tecniche invasive

• valutare se nel tempo la lesione diventi secernente: monitoraggi con valutazione cortisolemia dopo
inibizione con desametasone a basse dosi (1 mg per os la sera prima alle ore 23) e metanefrine urinarie e/o
ematiche dopo 6 mesi e poi annualmente per 3-4 anni

La letteratura dice che un incidentaloma benigno ha la possibilità di avere una crescita dimensionale nel 10% dei casi e nel 3% dei casi di ridursi; il
rischio di malignità è invece pressoché assente.
Per quanto riguarda la funzionalità, esiste una bassa probabilità che la lesione sia un feocromocitoma misconosciuto alla diagnostica biochimica
iniziale; più raramente la massa può essere secernere cortisolo (Cushing) ed eccezionalmente può verificarsi un’iper-increzione tardiva di aldosterone.

Terapia
L’intervento di asportazione dell’incidentaloma in laparoscopia deve essere eseguito in caso di:
• Massa funzionante (clinicamente o biochimicamente)
• Sospetta lesione maligna.

Masse di grosse dimensioni (10-12 cm) richiedono un’incisione per via laparotomica o toracotomica.

234
K SURRENALICO
È piuttosto raro, con incidenza di 1-2 casi/milione di ab all’anno.
Sindromi ereditarie correlate: sindrome di Li Fraumeni, sindrome di Beckwith-Wiedemann e complesso di Carney.

Clinica
È spesso correlata alle manifestazioni da ipersecrezione ormonale mista di cortisolo e androgeni.
I tumori non secernenti causano una clinica aspecifica caratterizzata da dolori addominali, lombalgia,
astenia, calo ponderale e febbre (⇒ le aree necrotiche del tumore possono sovrainfettarsi).

All’EO eventuale massa addominale (se il tumore supera i 10-15 cm), che può determinare sintomi/segni da
compressione della v. cava inferiore (⇒ edemi, varici agli arti inferiori, riduzione dell’afflusso di sangue al
cuore) e varicocele.

Diagnosi
È basata sull’imaging, anche per la diagnosi di certezza
occorre l’istologia, mediante i nove criteri morfologici di
Weiss.

Stadiazione

STADIO Caratteristiche
I Dimensioni <5cm
II >5cm
III Invasione locale o
linfonodale
IV M+

La storia naturale del tumore vede una sopravvivenza a 3-9 mesi dalla diagnosi senza interventi.
Dopo trattamento chirurgico, la sopravvivenza a 5 anni si attesta complessivamente intorno al 30%.
Fattori prognostici: stadio, età (> 40 anni), caratteristiche istologiche e biologiche, radicalità dell’exeresi, risposta alla CT.

Terapia
La chirurgia in laparotomia rappresenta la terapia di prima scelta per gli stadi I-III, mentre è discusso il
ruolo dell’intervento chirurgico per lo stadio IV.
Prevede surrenectomia (con dissezione in unico blocco e tumore integro per evitare l’impianto di cellule surrenali tumorali),
linfadenectomia (di linfonodi surrenalici e dell’ilo renale con aggiunta di linfonodi ritenuti patologici) ed eventuali resezioni di
organi circostanti infiltrati.

Una chirurgia regionale appropriata espone comunque ad un elevato tasso di recidiva


locale e/o peritoneale, normalmente causata dalla rottura del tumore o meno frequentemente dallo
sgocciolamento di cellule in transito in strutture vascolari o linfatiche lesionate nell’intervento.
Per prevenire o quantomeno ridurre l’impatto di queste recidive si sono adottate pratiche di
chemioipertermia intraperitoneale intraoperatoria (con cisplatino e doxorubicina a 42° per 60 minuti al termine del tempo
demolitivo, ovvero dopo fuoriuscita del pezzo operatorio).

In caso di pz con M, si ricorre a un ciclo di CT e, a seguito della risposta, si può valutare bonifica
chirurgica del T e del cavo addominale; dopo la chirurgia ci può essere un’ulteriore CT che in alcuni casi
può portare alla NED (no evidence of disease).
Schema di CT Berruti: cisplatino + etoposide + doxorubicina + mitotane (⇒ dotato di un’azione di blocco della steroidogenesi insieme ad un’attività
citotossica sulle cellule cortico-surrenali); questa CT dà tossicità di terzo-quarto grado non trascurabili, ma nemmeno drammatiche.

235
FEOCROMOCITOMA
Tumore raro secernente catecolammine (⇒ noradrenalina e adrenalina), originante da cellule
neuroendocrine cromaffini (feocromociti).
La localizzazione principale è la midollare del surrene (75%), ma può originare anche da paragangli con
fenotipo simpatico (⇒ in tal caso si parla di feocromocitoma extrasurrenalico, con localizzazione toracica o addominale).

Ha comportamento generalmente benigno; solo l’insorgenza di M definisce il tumore come maligno nel
10% dei casi (⇒ a tal proposito si dice che il tumore segue la “regola del 10%” perché nel 10% dei casi è
bilaterale, extrasurrenalico ed insorge nei bambini).

La maggior parte dei feocromocitomi produce sia NA che A, mentre una minoranza produce solo NA,
caratteristica che si riscontra maggiormente nei feocromocitomi extrasurrenalici.

Eziologia
a) Forme familiari (20%):
- Sindromiche
o MEN 2
o Sindrome di Von Hippel-Lindau (VHL)
o Neurofibromatosi di tipo I
o Feocromocitoma-paraganglioma familiare multiplo

- Non sindromiche ⇒ il feocromocitoma/paraganglioma è l’unica manifestazione, con trasmissione AD

b) Forme sporadiche (80%)

Clinica
Nel 90% dei casi è presente IA, che può manifestarsi in diversi modi:
• IA stabile e refrattaria con crisi (45% dei casi)
• IA parossistica (35%)
• IA stabile (5%)

Le crisi da ipersecrezione di catecolamine si manifestano con variabile durata (da pochi secondi ad alcune
ore) e frequenza (da una volta ogni qualche mese a più volte al giorno), che tendono ad aumentare con la
massa del tumore (⇒ tipicamente ha crescita lenta, tranne nelle rare forme maligne).
Fattori scatenanti:
• Manovre di Valsalva e movimenti che comprimono la massa tumorale (ad es. cambiamenti di
posizione, massaggi addominali, defecazione, minzione…)
• Alimenti che contengono tiramina (⇒ grana, vino rosso) e sinefrina (⇒ succo di agrumi)
• Farmaci
• Induzione di anestesia, interventi chirurgici, indagini diagnostiche invasive.

Segni/sintomi comuni (legati alla stimolazione simpatica):


• Triade di cefalea, cardiopalmo e sudorazione
• Pallore
• Flushing (⇒ arrossamento del volto)
• Disturbi della vista
• Nausea e vomito, dolori addominali
• Ansia e attacchi di panico
• Parestesie
• Iperglicemia
• Può seguire ipotensione ortostatica (⇒ provocata dalla desensitizzazione dei recettori adrenergici).

La crisi nei casi più gravi può portare a complicanze quali: emorragia intracranica, IMA, aritmie, SC acuto e
dissecazione di eventuale aneurisma.

236
Per valutare eventuali picchi ipertensivi durante la giornata ⇒ holter pressorio nelle 24 ore (⇒ prevede la
misurazione della PA ogni 15-20 minuti durante il giorno e ogni 30 minuti durante la notte).

Diagnosi
A seguito del sospetto clinico, si procede con il dosaggio della metanefrine urinarie nelle 24 ore (⇒ cataboliti
delle catecolammine: NA → normetanefrina e A → metanefrina), più sensibile e specifico del dosaggio delle catecolammine
(sia plasmatiche che urinarie).

Risultati:
• Valori normali ⇒ assenza di malattia oppure feocromocitoma non funzionante nel lasso di tempo della raccolta urine: in tal caso occorre
ripetere durante crisi parossistiche

• Aumento modesto (inferiore a 2 volte //) ⇒ si deve ripetere la misurazione e prendere in considerazione il test di inibizione alla clonidina
(simpaticolitico agonista dei recettori α2 adrenergici centrali): se i livelli si mantengono elevati, è probabile un feocromocitoma

• Aumento significativo (almeno 2 volte il limite superiore del range) ⇒ indagini per localizzazione
tramite TC o RM con mdc di addome e pelvi.

Nel caso in cui siano negative in presenza di evidenza clinica e biochimica, si può approfondire mediante
scintigrafia con metaiodobenzilguanidina.

Ulteriori indagini:
• RM whole body
• Octreoscan
• PET
• Cateterismo selettivo delle v. surrenali (⇒ si misurano le concentrazioni di catecolammine/metanefrine al fine di capire la localizzazione
del tumore).

Nel caso in cui si sia arrivati alla localizzazione del tumore, screening genetico per valutare la presenza di
forme familiari.

Terapia
Intervento di resezione in via laparoscopica, solo dopo adeguata preparazione (di almeno 2 settimane, ma
anche per un paio di mesi) per controllare crisi da manipolazione del tumore, che prevede α1-bloccanti
(quali fenossibenzamina e doxazosina); solo dopo possono essere aggiunti β-bloccanti per il controllo della
FC (⇒ da non usare in monoterapia in quanto potrebbero provocare gravi EC, quali parossismi ipertensivi ed edema polmonare, per il blocco dei
recettori β2 che sono vasodilatatori periferici).
Nel caso in cui non si riesca a controllore adeguatamente la PA, possono essere aggiunti Ca-antagonisti (ad
es. amlodipina).

La preparazione pre-operatoria è ottimale e consente di operare il pz quando:


• PA <160/90
• Assenza per 7 giorni anomalie ECG
• Non più di una extrasistole/5 min
• Ecocardiografia senza aree di discinesia
• Assenza di ipotensione ortostatica.

Nel post-operatorio va documentata la riduzione delle metanefrine urinarie.


La terapia antiipertensiva viene immediatamente bloccata: l’ultima assunzione di doxazosina sarà la mattina dell’intervento.
Il trattamento mira a gestire nuovamente il quadro pressorio definito dalla presenza, seppur minima, di ipotensione causata da persistenza dell’alfa
blocco, caduta delle catecolamine e down-regolazione dei recettori beta.
È importante inoltre correggere l’ipoglicemia.
I pz per qualche giorno appaiono marcatamente letargici.

Nelle forme familiari vi è un aumentato rischio di feocromocitoma bilaterale.


In caso di lesione neoplastica ad un surrene non c’è indicazione alla chirurgia profilattica del surrene apparentemente sano perché lo stato adreno-
privo è di difficile gestione.
Se si dovesse presentare bilateralmente, si eseguirebbe surrenectomia parziale di risparmio, cercando di preservare, seppur minimamente,
l’attività corticale della ghiandola lasciando in sede almeno una porzione di un surrene.

237
CHIRURGIA ONCOLOGICA nell’ANZIANO
Si tratta di uno dei temi caldi della chirurgia moderna per l’aumento dell’età media della popolazione: più di 1 pz su 5 sopra gli 85 anni andrà
incontro ad intervento chirurgico negli ultimi anni della sua vita.

I tumori prevalenti nel pz anziano sono:


• K prostatico: patologia quasi esclusiva di questa categoria di pz, al 95% infatti si presenta negli anziani; secondo un urologo se tutti gli
uomini arrivassero ad un’età di 110 anni, il tumore della prostata si manifesterebbe nel 100% di questi
• tumore alla mammella
• // polmone
• // colon-retto, pancreas e ovaio.

Nei pz anziani il rischio di cancro è circa 40 volte maggiore rispetto ai pz tra i 20 - 44 anni e 4 volte rispetto all’età adulta (tra i 45 - 64 anni).
L’aumentata insorgenza nel pz anziano può essere correlata anche con una peggiore prognosi: non è vero, infatti, che in questi casi l’organismo sia
“più rallentato” rispetto a quello di un giovane e che quindi la crescita sia più indolente; in particolare per alcuni tumori come linfoma NH, leucemia
mieloide acuta e K dell’ovaio la prognosi risulta essere peggiore che nel paziente giovane, al contrario per tumore della mammella e NSCLC.

Aspetti di cui tener conto nel pz anziano in ambito oncologico:


• l’età si dimostra essere un fattore fondamentale per quanto riguarda le possibilità di cura della neoplasia
• non aderenza ai programmi di screening
• tendenza del pz a sottostimare i sintomi e presentazione clinica più sfumata ⇛ diagnosi tardive, con neoplasie già in stadio avanzato
• isolamento sociale e geografico
• comorbidità del pz
• il pz anziano viene considerato come fragile e quindi si pensa a modulare l’aggressività dell’intervento chirurgico in base anche al
rapporto rischio-beneficio.
Il professore si mostra poco d’accordo con questo aspetto: per un tumore del retto dovrò resecarlo e lo stesso per un tumore dello
stomaco, magari lasciando scelta tra 2 cm in più o in meno, ma queste sono le cose che devo fare, non posso pensare di essere meno
radicale del dovuto e non posso in questi casi farmi condizionare troppo dalla situazione del pz.
Ciò che devo tenere a mente è che la chirurgia potrà anche non curare ma almeno deve pensare di ridurre al minimo le complicanze.

Secondo studi, gli interventi con finalità curativa si attuano meno all’aumentare dell’età del pz: questo porta però a risultati
peggiori.
Un eventuale approccio più conservativo nel pz anziano, portando come giustificazione la scarsa aspettativa di vita, è ampiamente
discutibile al giorno d’oggi.
Si nota dagli ultimi dati come una riduzione dei trattamenti chirurgici curativi in elezione in questi pz e invece un aumento dei
trattamenti palliativi porti ad un aumento vertiginoso dei trattamenti eseguiti in urgenza, gravati da complicanze peggiori (ad es. per il
colon citiamo occlusione e perforazione).

In conclusione, lo standard di terapia non dovrebbe essere lo stesso tra l’anziano e il giovane, ed è importante studiare le sue comorbidità
per capire la miglior opzione (indipendentemente dall’età), modulandone il rischio chirurgico.
Non può esistere una “chirurgia ridotta”: l’asportazione deve sempre seguire il criterio di radicalità completa fino a R0 (⇒ margine di
resezione indenne da tumore/senza residuo).

Definizione di pz anziano
Fino a pochi anni fa per l’OMS il pz viene considerato anziano quando supera i 65 anni, oggi la terza età viene poi ulteriormente suddivisa in “young
old” fino ai 75 anni, “real old” fino ai 85 anni e “oldest old” se supera tale età.

Oggi nel pz anziano è fondamentale valutarne la fragilità, che indica uno stato di aumentata vulnerabilità allo sviluppo di disabilità e/o morbilità e
scarsa possibilità di recupero dell’omeostati dopo un evento stressante, come post-intervento.
Si ha tipicamente nel pz che ha comorbidità, cioè che presenta condizioni patologiche concomitanti e indipendenti dalla patologia in esame che
possono compromettere la prognosi del pz fino a determinarne il decesso.
Un pz fragile, con 85 anni e più di 3 comorbidità, non autonomo nelle attività quotidiane, e con una sindrome geriatrica, ha di per sé una mortalità
stimata a 2 anni del 40%, per cui è lecito chiedersi se valga la pena operare questo malato e magari aumentare la sua aspettanza a 3 anni quando
però incidono queste altre patologie.
È bene rischiare alto se il beneficio è molto, ma non rischiare se apporto soltanto il minimo beneficio.

Tra le più importanti e difficili comorbidità da gestire viene citata la demenza, che può portare a morte il pz anche in caso di intervento perfettamente
riuscito.

La capacità di recupero totale post-intervento del pz è chiamata resilienza: se presente a sufficienza, permette di recuperare la situazione di partenza.
Tanto più un pz è fragile, tanto più la complicanza risulterà in un danno più grave e scarsamente recuperabile.
Volendo classificare i reparti o gli ospedali secondo questi aspetti di recupero e conseguenze per il paziente, un ospedale “buono” è quello che si
mostra in grado di gestire al meglio le complicanze.
Riuscire, coordinando i vari reparti interessati, in un ospedale di ottimo livello, a risolvere una situazione difficile in un paziente è indice di buona
qualità dell’ospedale; di contro, troviamo il failure to rescue, ovvero l’insuccesso nel perseguire l’obiettivo sopra descritto.

238
Si viene a delineare la possibilità di definire un pz come “unfit for surgery”, spesso proprio in funzione dell’età e delle comorbidità.

Una tabella sull’aspettanza di vita ci fa notare come questa sia per una persona di 85
anni pari ad ancora circa 6 anni, per cui non si può dire che un paziente oncologico sia
escluso da chirurgia perché “tanto morirà prima”, non operandolo sicuramente morirà
prima di quanto atteso ma proprio a causa del tumore, che invece avrei potuto trattare
dandogli più tempo.

Risultati della chirurgia nel pz anziano


Dati sulla mortalità peri-operatoria mostrano che le complicanze sistemiche sono più
frequenti nel pz anziano (ad es. l’insufficienza respiratoria e cv o eventi cbv).
L’unico caso contrario risulta essere la guarigione delle anastomosi, dove i tempi
registrati sono uguali ai pz più giovani.

Chirurgia epatica per tumore nel pz anziano


Il pz oncologico può essere operato al fegato per la presenza di M o per HCC primitivo.

Risulta evidente dai dati che i pz con M sono per la maggioranza over 70 anni, ma sono
molti meno quelli a cui è stata offerta possibilità di cura, nonostante la terapia chirurgica
sia l’unica possibile, in quanto la CT abbia vincoli per quanto riguarda la fragilità del
paziente.
Questo conferma la tesi che il pz anziano oncologico spesso meno considerato e gli
siano offerte in misura minore soluzioni radicali di tipo chirurgico.

Prendendo in considerazione pz sia anziani che giovani con HCC e Child Pugh Score
(indice di funzionalità epatica) apparentemente conservato, i primi sembrerebbero
presentare un andamento peggiore rispetto ai pz più giovani: questo è dovuto non tanto
all’età in sé quanto esclusivamente al fatto che molti di essi non vengono proprio
sottoposti a cure.
La prognosi però, al netto delle comorbidità, è uguale nelle due popolazioni di pz.

Anche confrontando il guadagno netto di prognosi nel trattamento palliativo o


terapeutico del HCC esso è indipendente dall’età, mentre è invece fortemente dipendente da un’eventuale recidiva.

Gestione del pz con tumore del fegato negli Spedali Civili di Brescia
Nell’U.O. di Brescia viene calcolato il rischio pre-operatorio per singolo pz, che comprende: valutazione funzionalità epatica residua, valutazione
cardiologica, respiratoria ed anestesiologica.
I pz individuati come particolarmente fragili vengono preparati per l’intervento con una riabilitazione pre-operatoria: il pz viene mandato alla
Domus Salutis per due settimane dove effettua terapia fisioterapica due volte al giorno, vengono rifatte le valutazioni sopra elencate e controllato
l’apporto calorico/proteico.

La resezione deve essere sì radicale, ma va considerata la possibile minore capacità riparativa del tessuto epatico nel pz anziano e devo quindi adattare
la chirurgia al tipo di tumore e di paziente.

Trattamento del pz metastatico


La maggior parte dei tumori metastatici si presenta in pz con > 70 anni (33-50%), ma solo una piccola parte di questi viene operato (8-20%), per cui si
crea un bias età-correlato che porterà a favorire un trattamento palliativo nel pz anziano con neoplasia in fase metastatica.

Il fegato nel pz anziano ha ridotte dimensioni e volume, ridotta funzionalità cellulare e capacità rigenerativa, minore afflusso di sangue, ridotta
funzione immunitaria; tutto questo mi porterebbe a dire che sia controindicato anche operare un fegato sano nel pz anziano, ma in realtà questi fattori
riassumibili nel concetto di “senescenza fisiologica” non aumentano il rischio chirurgico.

La probabilità nel pz anziano di sviluppare complicanze è praticamente uguale a quella nel giovane, ma la mortalità da complicanze nel pz over 80
arriva ad essere addirittura 10 volte maggiore.
Le più comuni sono:
− polmonite (ha il 10% di mortalità)
− IVU
− infezione del sito chirurgico (8% di mortalità)
− permanenza del catetere
− cachessia
− piaghe da decubito.

239
Chirurgia d’urgenza nel pz anziano
Determina un rischio di complicanze pressoché uguale a quello di una chirurgia ordinaria, ma ha un rischio di mortalità molto più alto quando si
sviluppano complicanze.
Gli obiettivi quindi sono due:
• prevenire le complicanze in modo da ridurre la mortalità
• qualora questo non sia possibile, riuscire a trattarle in modo ottimale.

Uno studio sulla resezione gastrica per cancro in pz anziani ha rivelato che c’è una buona probabilità di fare un intervento curativo.
Si osserva tuttavia che nei pz >80 anni è stata effettuata una linfoadenectomia meno estesa rispetto che in quelli < 80anni.
Questo significa che se il pz si ritiene particolarmente fragile, bisogna cercare di prevenire la complicanza: se si sa che la metodica (in questo caso
la linfoadenectomia estesa) può comportare una maggiore complicanza, è bene prevenirla con logica.

L’età avanzata è spesso fonte di preoccupazione sia da parte dei familiari, sia da parte del medico nei confronti dell’intervento chirurgico: si deve
sottolineare come un intervento chirurgico in una persona anziana non ha solo l’obiettivo di allungare l’età di vita, ma soprattutto è orientato a
prevenire la complicanza, in modo da ridurre il dolore e migliorare la qualità della vita e la disabilità.
D’altro canto, i possibili rischi dell’intervento sono:
• morte
• dipendenza
• istituzionalizzazione: il pz è costretto a una permanenza in ospedale per un lungo periodo.

Nel pz geriatrico la capacità di vivere una vita indipendente, con una minima perdita di funzione e magari la non cura della sua malattia, può prendere
la prevalenza su un intervento terapeutico eroico.
Seguendo un algoritmo, occorre:
1. identificare il problema principale che porta il malato in ospedale
2. prima di definire il progetto terapeutico, è necessario scoprire l’interesse e la preferenza del pz (ad es. al pz può non interessare vivere 6
mesi in più se questo significa vivere con il dolore o in ospedale)
3. stabilire gli obiettivi del trattamento più pertinente per quel pz, non per la patologia
4. valutare l’aspettativa di vita, con terapia del problema, senza terapia del problema e con terapia palliativa
5. discussione con il pz.

Come già accennato la chirurgia d’urgenza nell’anziano ha con sé una forte percentuale di rischio, che si può ridurre trasformando la chirurgia in
urgenza in una chirurgia programmata (⇒ in elezione).
I vantaggi di una chirurgia programmata sono:
− identificare i fdr modificabili e migliorarli (ad es. disidratazione, anemia…)
− trasferire il pz in centri ospedalieri esperti.

Al contrario, la chirurgia d’urgenza presenta questi limiti:


− non ha orario e spesso deve essere effettuata a orari inconvenienti con risorse di personale non ottimali
− spesso non si ha una diagnosi precisa
− limitato background di informazioni del pz
− poco tempo per programmare il piano terapeutico.

Ruolo della chirurgia mini-invasiva nel pz anziano


Per definizione la chirurgia mini-invasiva ha un impatto appunto meno invasivo sul pz, ragion per cui il soggetto anziano sembrerebbe essere il
candidato ideale.
È possibile quindi, qualora non sia possibile rendere l’urgenza un intervento in elezione, trattarla con la chirurgia mini-invasiva.
Una laparotomia in emergenza in un pz anziano deve essere rapida ed essenziale, rispettando il principio del damage control.

È importante anche valutare quando una chirurgia mini-invasiva in urgenza può essere indicata nel pz anziano: la tecnica deve essere scelta quando è
rapida, sicura ed in grado di ottenere il migliore risultato, perché il fine deve essere sempre la sicurezza del malato.

240
EMOSTATICI in CHIRURGIA
Un prodotto emostatico è un qualsiasi presidio che blocca l’emorragia in atto.

L’emostasi può essere effettuata con tre metodi:


▪ emostasi legata al calore ⇒ elettrobisturi
▪ emostasi mediante punto di sutura

▪ emostasi chimica con prodotti emostatici, che riproducono il processo dell’emostasi fisiologica.
Fra questi, rientra la colla di fibrina che contiene i componenti necessari per la formazione della fibrina: il fibrinogeno e la trombina, presenti
in concentrazioni decine o centinaia di volte superiori a quelle plasmatiche.
Ha tre principali azioni:
− emostatica: blocca l’emorragia in atto
− sigillante: sigilla e rende impermeabile la superficie, impedendo la fuoriuscita di liquidi, gas o solidi
− collante-adesiva: unisce, attacca organi, strutture o tessuti.

L’emostasi chimica offre enormi vantaggi quando i tessuti sono particolarmente fragili o molto sanguinanti.
Emblema di questa situazione è la milza: se questa sanguina e si provvede a dare dei punti di sutura, il sanguinamento può peggiorare
fino a richiedere talvolta l’asportazione dell’organo; poter applicare una colla e formare un coagulo è senza dubbio l’opzione migliore.

Campi di applicazione:
❖ // epatica
− La maggior parte dei sanguinamenti si osservano nelle fasi di isolamento del fegato e durante la sezione parenchimale.
L’utilizzo delle comuni colle avviene quindi soprattutto in questa fase, per perfezionare l’emostasi e sigillare la trancia di
sezione.
Tuttavia, è da tener presente che la funzione coagulativa nel pz cirrotico è sempre compromessa e tende a ipercoagulare (perché
il fegato produce sia fattori pro- che anti-coagulanti e nel cirrotico l’equilibrio si sposta).

− L’efficacia della colla di fibrina nella chirurgia epatica è dimostrata nella prevenzione dell’ascite post-operatoria dopo
resezione epatica per HCC in cirrosi: in questo caso si sfrutta l’azione sigillante della colla di fibrina, la quale spruzzata sulla
zona va a sigillare i vasi linfatici che si sono danneggiati.

❖ Chirurgia pancreatica
Durante una resezione del pancreas spesso si forma una fistola pancreatica e soprattutto ci sono tanti piccolissimi duttoli che non si
vedono: avere un prodotto che sigilli il moncone pancreatico è l’optimum.
La potenzialità di questa applicazione è enorme.
Tuttavia il pancreas produce numerosi enzimi litici che consumano il supporto di collagene, quindi l’azione sigillante sarà temporanea.

❖ // plastica:
− spruzzando la colla di fibrina sull’area donatrice dell’innesto, si ha un’azione emostatica per fermare il sanguinamento
− // ricevente, si ha un’azione collante/adesiva per facilitare l’attecchimento (senza punti di sutura)

❖ // ortopedica
− nella chirurgia protesica riduce il rischio di sanguinamento (azione emostatica) e del fabbisogno trasfusionale
− nella chirurgia riparativa può essere utilizzare per veicolare i condrociti per i processi degenerativi

− chiusura delle vie biliari.

❖ Altre applicazioni cliniche


− Ernioplastica inguinale laparoscopica
L’intervento consiste nel fissare una mash (una rete) sopra il buco attraverso il quale passa l’ernia.
La colla di fibrina è utilizzata per eseguire un ancoraggio atraumatico della mash, per prevenire gli ematomi e per ridurre le
raccolte sierolinfatiche post-operatorie.
In questi interventi tuttavia la colla riesce a resistere fino a certe pressioni oltre le quali risulta inutile.

− Mastectomia con linfoadenectomia ascellare


In questo intervento si fa un’estesa sezione di vasi ematici e linfatici con conseguente formazione di uno spazio potenziale tra la
parete toracica e il flap cutaneo.
La colla di fibrina viene utilizzata per creare un adeguato sealing di capillari e di linfatici e per facilitare un’adesione precoce
del flap cutaneo alla parete.

241
Nella seguente tabella si osservano i vari tipi di presidi emostatici con le relative indicazioni.
La più semplice è la cellulosa ossidata, ottima per i sanguinamenti modesti; al contrario invece la gelatina o la colla di fibrina sono più idonee per
sanguinamenti arteriosi importanti.

CELLULOSA COLLE DI
OSSIDATA GELATINE COLLAGENI FIBRINA TROMBINA

potere emostatico Buono/ottimo discreto buono ottimo ottimo


reazione tissutale assente blanda moderata moderata moderata
proprietà battericide Ampio spettro
(gram+/-)

tempo di
riassorbimento rapido medio lento Molto lento Molto lento

praticità d’uso ottima buona buona scarsa scarsa

242
DIABETE MELLITO in CHIRURGIA
Il DM è una sindrome dismetabolica caratterizzata da un aumento cronico della glicemia.

Criteri ADA per la diagnosi di DM:


• Presenza di segni/sintomi della malattia (⇒ poliuria, polidipsia e calo ponderale) + glicemia casuale ≥ 200 mg/dL (misurata in qualsiasi
momento del giorno, indipendentemente dall’ultimo pasto)

• HbA1c ≥ 6,5% (permette di valutare la glicemia media nei tre mesi precedenti al prelievo)

• Glicemia a digiuno (⇒ nessuna assunzione calorica per almeno 8 h) ≥ 126 mg/dL in almeno
In condizioni fisiologiche, la glicemia
due misurazioni a distanza su plasma venoso plasmatica a digiuno è compresa fra 70 -
100 mg/dL
• Glicemia 2 ore dopo carico orale con glucosio (OGTT) ≥ 200 mg/dL.
L’OGTT (Oral Glucose Tolerance Test) consiste nella somministrazione per os di una soluzione acquosa (300 mL) contenente 75 g di
glucosio, a cui seguono misurazioni seriate della glicemia

È sufficiente la positività ad uno solo di questi criteri per fare diagnosi di DM.

Classificazione
Distingue sulla base di criteri eziopatogenetici:

A) Forma primaria: non presenta una causa scatenante precisa, ma una serie di fattori predisponenti:

➢ Tipo 1: distruzione della -cellula che determina solitamente deficit insulinico assoluto, con meccanismo:
- Immunomediato (tipo 1A, più frequente)
- Idiopatico (tipo 1B – 10%)

➢ Tipo 2 (rapporto 9:1 con DM 1): spazia da una fase iniziale di predominante insulinoresistenza con deficit insulinico relativo fino a una
fase tardiva in cui prevale un difetto della secrezione insulinica con insulinoresistenza.

Fattori predisponenti:
▪ Predisposizione genetica
▪ Obesità (soprattutto viscerale) e sedentarietà.

B) Forma secondaria:
➢ Difetti genetici della funzione della -cellula (⇒ Maturity Onset Diabetes of the Young - MODY)
➢ Difetti genetici dell’azione insulinica per alterazioni a carico del recettore
➢ Malattie del pancreas esocrino ⇒ pancreatite, trauma, neoplasia…
➢ Endocrinopatie ⇒ acromegalia, sindrome di Cushing, glucagonoma, feocromocitoma…
➢ Diabete indotto da farmaci o chimici ⇒ glucocorticoidi, ormone tiroideo, agonisti -adrenergici, tiazidi…

C) DM gestazionale: diabete diagnosticato per la prima volta durante la gravidanza.

Epidemiologia

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Clinica
1) DM1
Esordisce nel 50% dei casi a un’età inferiore ai 20 anni, soprattutto durante la pubertà.
L’esordio può essere acuto con chetoacidosi diabetica oppure subacuto con sintomi/segni più sfumati.
Sintomi comuni all’esordio:
- Poliuria, con conseguente sete e polidipsia → il deficit assoluto di insulina e il concomitante aumento dei livelli di glucagone provocano
iperglicemia; quando la glicemia supera la soglia renale per il riassorbimento di glucosio (⇒ 180 mg/dL), compare glicosuria, che
provoca diuresi osmotica con conseguente poliuria.

- Dimagramento con polifagia paradossa e astenia


- Parestesie

2) DM 2
Esordisce di solito in età adulta e si associa frequentemente a obesità viscerale e IA.
Può manifestarsi, analogamente al DM 1, con poliuria, sete, polidipsia, polifagia (⇒ che in questo caso determina un aumento del peso, a differenza
del DM1) e astenia, anche se nella maggior parte dei casi la diagnosi viene fatta per occasionale riscontro di iperglicemia.
Poiché il DM 2 può rimanere a lungo asintomatico (⇒ in media 7 anni), un’elevata percentuale di soggetti presenta già all’esordio le complicanze
croniche della malattia.
I pz con DM2 hanno scarsa tendenza a sviluppare chetoacidosi diabetica, sebbene i soggetti più anziani possano sviluppare sindrome iperglicemica
iperosmolare.

Complicanze metaboliche acute del DM:


• Chetoacidosi diabetica
• Sindrome iperglicemica iperosmolare (non chetosica)

Complicanze croniche del DM:


a) Complicanze macro-vascolari
La macroangiopatia diabetica è una tendenza a sviluppare aterosclerosi più precocemente e più marcatamente, come conseguenza del danno cv
indotto dall’insulinoresistenza e dall’iperglicemia; spesso poi nel soggetto con DM2 si sommano vari fdr cv.
Le malattie cv sono responsabili di oltre il 50% dei decessi tra i soggetti diabetici.

b) // micro-vascolari
• Retinopatia diabetica
• Nefropatia diabetica

• Neuropatia diabetica → comprende:


- Neuropatia periferica: il quadro più frequente è quello di una poli-neuropatia sensitiva distale cronica.

- Neuropatia autonomica (nel 30% dei pz con diabete di lunga data) con:
o ipotensione ortostatica, tachicardia a riposo e minor variabilità della FC nelle 24h
o Disturbi GI per difetti della motilità intestinale
o Disturbi sfinterici con incontinenza o ritenzione, disfunzione erettile

• Piede diabetico: consiste in ulcerazioni, distruzione dei tessuti profondi, infezioni e


deformità del piede, conseguenti sia alla neuropatia periferica che alla macroangiopatia
diabetica, che possono talora degenerare in gravi lesioni necrotiche, tanto che il DM è la
principale causa di amputazione non traumatica degli arti inferiori.
Risulta espressione di una malattia già estremamente avanzata e l’amputazione della
gamba è correlata ad una mortalità del 60% nei 5 anni successivi.
Fondamentale nella prevenzione delle ulcere diabetiche è l’educazione del pz: si
raccomanda attenzione nella scelta delle calzature, ispezione quotidiana del piede,
igiene scrupolosa e di evitare comportamenti a rischio, come camminare a piedi nudi o
calzare scarpe strette.
La terapia si basa su: scarico della lesione, trattamento delle lesioni, rivascolarizzazione
quando possibile, medicazioni continue.

Per prevenire l’insorgenza delle complicanze croniche, è necessario rispettare i seguenti


obiettivi:
• HbA1c < 7,0%
• Glicemia a digiuno 70-130 mg/dl
• Glicemia post-prandiale < 180 mg/dL o meglio ancora
< 140 mg/dL nel DM2 (perché vi è una minore instabilità glicemica, quindi è meno probabile che possa andare incontro a ipoglicemia).

244
Problematiche chirurgiche del DM
Sono connesse ad un aumentato rischio di complicanze peri-operatorie (⇒ polmoniti, IVU, infezione della ferita chirurgica, sepsi…), che
mediamente allungano la degenza di 4-5 giorni.

Il riscontro al ricovero, soprattutto a seguito di un evento traumatico, di un’iperglicemia (> 140-150 mg/dL) è un evento comune (circa il 38% dei
ricoveri, di cui il 12% sono pz con diabete non noto), come risposta dell’organismo allo stress; difatti la glicemia in poche ore torna a valori
fisiologici.

Fondamentale è l’esame dell’Hb glicata, che permette di categorizzare i pz:


• HbA1c < 5.2%: pz con glicemia normale, l’iperglicemia è un epifenomeno
(iperglicemia da stress)

• // tra 5.2 - 6%: situazione dubbia che richiede un percorso diagnostico specialistico

• // > 6%: pz con DM sfuggito alla diagnostica sul territorio.

Nelle situazioni che non richiedono un intervento in urgenza, è importante portare prima il
livello glicemico < 140-150 mg/dL, in modo da ridurre in maniera importante il rischio di
mortalità associato alle complicanze.

In caso di ricovero, l’AIFA impone il cambiamento della terapia con ipoglicemizzanti orali
ad insulina entro 48 h dall’intervento, in quanto questo riduce il rischio di acidosi lattica.
L’assunzione della metformina viene riprese ad alcuni giorni dall’operazione.
Durante il ricovero il farmaco d’elezione è l’insulina.

È possibile mantenere oppure adottare la terapia con ipoglicemizzanti orali quando il pz:
− È in condizioni cliniche stabili
− Ha una patologia di modesta entità
− Si alimenta regolarmente
− Non ha insufficienza epatica o renale
− Ha un buon controllo glicemico.

In conclusione, è importante mantenere la glicemia tra valori che oscillano tra 100 mg/dL - 180 mg/dL,

Terapia insulinica
Si basa su quattro iniezioni sottocutanee giornaliere:
− 1 somministrazione di basal bolus con un analogo lento
− 3 somministrazioni prima dei pasti con analoghi rapidi.

Nel caso invece di nutrizione enterale e/o parenterale, in cui si somministra


una nutrizione in maniera continuativa nell’arco della giornata, è indicato
insulina per ev in maniera continua.

Altre indicazioni alla terapia con insulina per ev:


– complicanze metaboliche acute
– periodo perioperatorio
– interventi di cardiochirurgia
– trapianto d’organo
– shock cardiogeno
– terapia steroidea ad alte dosi.

Chirurgia bariatrica-metabolica
Non trova più indicazione solamente nel trattamento delle grandi obesità refrattarie, ma sta conquistando sempre più spazio anche nella terapia delle
forme diabetiche (soprattutto in pz con alto grado di obesità).
A seguito dell’intervento si ha un notevole miglioramento della condizione metabolica: la malattia diabetica va in remissione rapidamente dopo
l’intervento prima che si abbia una riduzione significativa del peso e inoltre, a parità di perdita di peso ottenuto con la restrizione calorica, l’intervento
di chirurgia bariatrica ottiene un maggior miglioramento del controllo glicemico.

I meccanismi coinvolti in questo processo non sono del tutto chiari, ma sembrano coinvolgere in maniera importante:
− incretine: aumentano i livelli di GLP-1 e insulina post-prandiali (in alcuni casi si riduce anche la grelina). Questo è il motivo per cui un
carico orale di glucosio determina un picco di secrezione insulinica maggiore rispetto al carico in vena, in quanto l’assunzione per via
orale mette in gioco il sistema delle incretine.

245
− circolazione entero-epatica: si notano delle alterazioni a livello del signaling degli acidi biliari
− aumento del consumo metabolico di glucosio da parte dell’intestino e riduzione del trasportatore SGLT1, con aumento della sensibilità GI
all’insulina
− alterazioni del microbioma.

L’utilizzo della chirurgia metabolica si sta


diffondendo sempre più: infatti i criteri di
prescrizione per l’intervento, che all’inizio
erano legati alla presenza di BMI molto
elevato, ora si stanno facendo meno stringenti
in modo da poter trattare tutta quella porzione
di casi non francamente obesi ma refrattari alla
terapia farmacologica per il diabete.

246
TERAPIA ANTICOAGULANTE
Comprende:
• Farmaci con somministrazione parenterale ⇒ eparine
• // per os (TAO) ⇒ anticoagulanti di vecchia gen. (Warfarin e Acenocumarolo) e NAO (nuovi anticoagulanti orali).

EPARINE
Sequenze di mucopolisaccardi che potenziano l’attività dell’antitrombina, con via di somministrazione parenterale.

➢ Eparina standard o non frazionata/ ad alto peso


molecolare (H-MWH)
È utilizzata in forma sodica nell’embolia polmonare in pz ad alto rischio in bolo per ev;
ha effetto rapido.
Necessita del monitoraggio dell’aPTT (che deve aumentare tra 2-3 volte rispetto ai
valori basali) per stabilire quale sia il dosaggio migliore ⇛ è necessaria
l’ospedalizzazione.
L’aPTT valuta la via intrinseca della coagulazione (⇒ fattori XII, XI, VIII e IX, poi via
comune con X, V, II e fibrinogeno).

Indicazioni: profilassi e terapia della malattia tromboembolica venosa e arteriosa.

➢ Eparine a basso peso molecolare (L-MWH)


Sono quelle più utilizzate.
Modalità di somministrazione: sottocutanea, con dosaggio variabile in base al peso.

Farmacocinetica: l’azione farmacologica inizia dopo circa 3-4 h (è evidente quindi che
non potranno essere utilizzate per le emergenze).
L’emivita è di circa 4h e viene eliminata per via renale.

Indicazioni terapeutiche dell’Enoxaparina sodica:


▪ Profilassi TEV in pz chirurgici:
- Nei pz a moderato rischio tromboembolico ⇒ 2.000 UI in unica
somministrazione giornaliera per iniezione sottocutanea (sc)
- // alto rischio tromboembolico ⇒ 4.000 UI

▪ Profilassi TEV in pz non chirurgici ⇒ 4.000 UI

▪ Terapia TVP/embolia polmonare:


− 150 UI/kg x 1volta/die in pz non complicati, con basso rischio di recidiva di
TEV

− 100 UI/kg x 2 volte/die in tutti gli altri pz, quali pz obesi, con EP
sintomatica, patologia tumorale, recidiva di TV o trombosi prossimale (vena
iliaca).

Tabella posologica per VFG 15- 30: dosaggi dimezzati, con 2.000 UI per la profilassi
TEV e 100 UI x 1 volta/die per teapia TVP/embolia polmonare.
In caso di VFG < 15 ml/min, l’Enoxaparina non è raccomandata.

Controindicazioni:
 Sindromi emorragiche in atto o recenti
 Anamnesi positiva per HIT nei 100 giorni precedenti o in presenza di Ab circolanti
 Coagulopatia e grave piastrinopenia
 Recente trauma cranico.

Cautele e interazioni:
• Età (⇒ l’anziano è il pz più fragile)
• Insufficienza epatica e renale
• Gravidanza (non vi sono dati certi)
• Concomitanti terapie con anticoagulanti orali, antiaggreganti piastrinici, FANS, trombolitici (generalmente la terapia viene sospesa prima
di iniziare il trattamento con eparina)

247
Effetti indesiderati per Eparina non frazionata ed L-MWH:
• Emorragia maggiore (il più frequente)
• Heparin-Induced Thrombocytopenia (HIT)
• Altre complicanze: osteoporosi e ipersensibilità cutanea locale, reazioni anafilattoidi, iperpotassiemia ed aumento transaminasi.

Trattamento del sovradosaggio da LMWH o da Eparina non frazionata:


• In caso di errore di somministrazione, in genere è sufficiente la temporanea sospensione del farmaco
• In caso di emorragia da sovradosaggio ⇒ solfato di protamina.

➢ Fondaparinux
È un inibitore del fattore X-attivato, somministrato per ev o sc;
rispetto all’eparina impiega un po’ di tempo ad agire, ma ha
lunga emivita.

Vantaggi:
• Minor rischio di HIT, quindi può essere usato nei
pz con piastrinopenia
• Somministrazione una volta al giorno
• Dosaggio in base al peso corporeo (valutare sempre
la funzione renale).

Svantaggi:
• la sua lunga emivita è controproducente in caso di sanguinamento prolungato
• non si sa quale sia la sicurezza in gravidanza, quindi si utilizzano altre eparine, che si sono dimostrate sicure per il feto (sono invece da
sospendere gli AVK)

Take-home messages
La scelta della terapia è determinata da una parte dall’intento di prevenire eventi
trombotici, dall’altra evitare eventi emorragici.
Pazienti polipatologici e anziani hanno rischio emorragico tutt’altro che basso.
Certamente nella pratica clinica bisogna utilizzare sempre i criteri contenuti negli
score CHA2DSVASC e HASBLED.

248
TERAPIA ANTICOAGULANTE ORALE (TAO)
Circa il 2% della popolazione italiana assume farmaci anticoagulanti:
− Più della metà di questi pz sono affetti da FA
− TEV (31%)
− Protesi valvolari cardiache (13%)
− arteriopatie obliteranti (5%).

Per la FA vi sono due score utilizzati come guida riguardo l’uso della TAO per la prevenzione degli eventi trombo-embolici: lo score CHADVASC
descrive il rischio di ictus, mentre lo score HAS-BLED il rischio emorragico.

Fdr emorragico reversibili:


• IA
• INR labile o tempo in range terapeutico <
60% in pz trattati con AVK
• Terapie che predispongono a
manifestazioni emorragiche, come
antiaggreganti e FANS
• Abuso di alcol.

// potenzialmente reversibili:
• Anemia
• Insufficienza epatica
• IR
• Piastrinopenia

È importante notare che tra i fdr tromboembolico sono presenti anche alcuni fdr per eventi emorragici, in particolare età avanzata e IA.

249
➢ WARFARIN
Agisce mediante inibizione della vitamina K-reduttasi ⇛ si impedisce così la γ-
carbossilazione da parte della vitamina K dei fattori VII, IX, X e II, indispensabile per la loro
attività biologica.

Assorbimento Completo e rapido


Legame farmaco-proteico 99%
Metabolizzazione Epatica (CYP-2C9)
Escrezione Renale
Emivita plasmatica 25-60 h
Dose iniziale 2,5-10 mg/die

È un farmaco usato da molto tempo, nonostante presenti grosse limitazioni:


• Terapia “a ponte”: se inizio terapia col Warfarin (2,5-5 mg/die) servono almeno 5
gg per portare l’INR a range e nel frattempo è necessario embricare con
eparina.
Questo perché l’emivita dei fattori la cui produzione è inibita può essere anche
molto lunga, come nel caso del fattore II che è di 72 h.
Pertanto, quando si comincia la terapia bisogna attendere almeno la 5° giornata
prima che l’INR cominci ad allungarsi.

• Finestra terapeutica molto stretta: nella maggior parte dei pz viene somministrato
Warfarin in modo tale che l’INR tra 2 - 3; nei pz con valvola meccanica INR 2,5 -
3,5.
Al di fuori di questo range, si ha rischio di sanguinamenti intracranici quando l’INR
> 3, mentre rischio di ictus ischemico quando INR < 2.
È pertanto necessario dosare continuamente l’INR, almeno una volta al mese, ma anche settimanalmente a seconda dei casi.
Il PT valuta la via estrinseca della coagulazione (⇒ parte dal fattore VII, poi via comune con X, V II e fibrinogeno).
L’INR è una misura derivata dal PT che mette in relazione il PT del pz con il PT di una popolazione di riferimento: se è uguale a 1
significa che è normale, se aumenta significa che è più scoagulato di una persona normale.

• Interazioni con:
- verdure a foglie larghe verdi (⇒ broccoli, cavolo, cavolini di Bruxelles, cime di rapa, spinaci…)
- FANS e antiepilettici
- Amiodarone

• La risposta è anche determinata da polimorfismi genetici del citocromo P450.

Come si calcola l’INR


Il PT è un indice del tempo di coagulazione del plasma del pz che può essere espresso in secondi oppure come PT
ratio.
Un PT normale impiega 11 secondi a coagulare.
Il PT di un pz con indicazione a terapia anticoagulante deve essere un po’ più lungo, ad es. 22 secondi,
corrispondente ad una ratio di 2, il che significa che questo soggetto è due volte più anticoagulato di una persona
normale.
ISI è un indice di sensibilità che varia a seconda del reagente utilizzato nel laboratorio in cui viene effettuata la misurazione del tempo di
coagulazione: l’INR è la International Normalized Ratio, cioè la ratio normalizzata per il tipo di reagente che c’è in laboratorio.

Molti medici non sanno distinguere il significato di PT e INR rispetto a quello di aPTT.
PT e INR sono esami diversi rispetto al PTT (o aPTT): non ha senso chiedere l’INR per un malato che fa terapia eparinica, viceversa non ha senso
chiedere il PTT per un malato che sta facendo un anticoagulante orale.
La terapia anticoagulante tradizionale per bocca si controlla con PT INR.

Risposta alla terapia anticoagulante


È molto individuale.
Per identificare il pz ipersensibile alla TAO:
- Innanzitutto, si esegue PT e PTT per valutare l’assetto coagulativo di base (l’INR sarà vicino a 1)

- Successivamente somministro una compressa di warfarina 5mg il primo e il secondo giorno,


dopodiché eseguo PT in terza giornata: nel 99% dei casi il PT in 3° giornata è uguale a quello basale,
mentre nel pz ipersensibile potrò trovare già un INR di 2 o 3 ⇛ se ciò accade devo immediatamente
dimezzare o ridurre ad un quarto la dose

- Se invece il PT (in 3° giornata) rimane uguale (al basale) continuo a somministrare una compressa al giorno e in quinta giornata eseguo il
dosaggio del PT.

250
Controindicazioni assolute:
• Gravidanza (teratogeno) ⇛ si somministra eparina
• Emorragia maggiore: entro un mese dall’insorgenza

Gestione del Warfarin in caso di intervento chirurgico


Prima di un intervento chirurgico va sospesa la terapia anticoagulante orale, ad eccezione di
interventi di chirurgia minore che si effettuano in range terapeutico (di VKA): in questi casi si
possono eventualmente utilizzare dei presidi come l’acido tranexamico topico o per os.

Un pz che abbia una protesi valvolare mitralica (più a rischio di trombosi rispetto alla protesi
aortica) oppure FA con protesi valvolare, possiede un elevato rischio trombotico quindi
sospendere la TAO significa esporlo ad un rischio di ictus che può essere dell’1%, anche se il
VKA è momentaneamente sostituito da eparina (pz ad alto rischio).

Per il pz che entra in urgenza non è possibile effettuare la sospensione a tempo debito della
terapia, pertanto è necessario ricoagularlo.
In particolare, ciò va effettuato in caso di emorragia, sia come complicanza della terapia
anticoagulante, sia conseguente ad es. ad un incidente stradale che abbia provocato una
rottura di milza.
Oggi il 70-80% delle rotture di milza o di fegato sono trattate conservativamente
quindi è fondamentale poter ricoagulare questi pz.
Per ricoagulare si possono utilizzare:
- Vitamina K (Konakion): antagonista della warfarina, che impiega tuttavia
6-12h per esercitare il proprio effetto e nelle persone più anziane, magari
scompensate con stasi epatica o epatopatiche, può impiegare anche 24 h;
non è quindi sufficiente in caso di emergenza chirurgica
+
- Concentrato di complesso protrombinico a 4 fattori (CPC): sono
considerati farmaci salvavita, ricoagulano il pz immediatamente.

Se un pz scoagulato va incontro ad un’emorragia cerebrale è necessario intervenire ricoagulandolo il prima possibile poiché, se si attende, il focolaio
emorragico si espande (raddoppia in 6h).

Se l’intervento chirurgico non è urgente ma viene programmato (in elezione), nei giorni precedenti si effettua la cosiddetta bridging therapy: si
sospende la TAO e si somministra eparina al posto del VKA.
Nello specifico, nei pz ad alto rischio di trombosi (⇒ pz con TVP recente, protesi valvolare meccanica in posizione mitralica, protesi vecchio
modello a palla, FA con pregresso TE arterioso o valvulopatia mitralica), occorre:
1. Interrompere TAO 4-5 giorni prima dell’intervento

2. Iniziare LMWH a dosi indicate per alto rischio oppure eparina standard.
LMWH va cominciata dopo 48h dalla sospensione della warfarina (poiché la
warfarina ha emivita di 48h, quindi è necessario attendere che venga
completamente eliminata dall’organismo, altrimenti è come se somministrassi due
anticoagulanti contemporaneamente)

3. Quando INR scende, sospendere LMWH 12 ore prima dell’intervento o eparina


stadard 5h prima.

La ripresa della terapia anticoagulante può anche essere ritardata di qualche giorno dopo
l’operazione, in base al parere del chirurgo.
Ad es. in caso di intervento maggiore è possibile attendere anche 7-10 giorni.

251
➢ NUOVI ANTICOAGULANTI ORALI
Inibiscono un singolo fattore della coagulazione in modo specifico:
• Dabigatran: inibisce la trombina (fattore IIa); presenta un antidoto specifico (Idarucizumab)
• Apixaban, Edoxaban e Rivaroxaban: // fattore Xa

Vantaggi:
• Non hanno bisogno di terapia “a ponte” (embricazione con eparina), poiché iniziano la loro attività immediatamente.
Pertanto, dopo un intervento di chirurgia maggiore si attendono 5-6 giorni in modo che la ferita si stabilizzi, sostituendoli in questo lasso di
tempo con eparina

• Non necessitano di monitoraggio INR


• Minori interazioni
• Diversi TCR hanno mostrato che:
- Il rischio di ictus ischemico, embolia ischemica e ictus emorragico è ridotto con i NAO rispetto al Warfarin
- Il rischio di mortalità per tutte le cause è ridotto con i NAO.

Limiti:
 Controindicati in caso di protesi valvolare meccanica o stenosi mitralica
 Non possono essere somministrati in pz in IRC grave con VFG ≤ 15 (per via dell’escrezione renale)

Indicazioni:
▪ Prevenzione TEV in ambito ortopedico
▪ Prevenzione eventi trombo-embolici in FA non valvolari

▪ Trattamenti di TVP ed embolia polmonare (in pz con rischio intermedio basso)


La terapia della TVP è uguale alla terapia dell’embolia polmonare.

Opzioni di trattamento:
− LMWH ⇒ enoxaparina 150 UI/kg x 1 volta die o 100 UI/kg x 2 volte/die
− Fondaparinux (5 mg, 7,5 mg, 10 mg)
− Eparina sodica per ev, mirando ad aPTT in range 1,5-2,5

− Iniziare AVK contemporaneamente all’eparina, dopodichè sospendere eparina quando INR ≥ 2 in due determinazioni e non prima
di 5 giorni.

Nel pz che non ha insufficienza renale, è possibile oggi un approccio alternativo con i DOAC:
− Terapia con eparina per i primi 5-9 giorni, poi Dabigatran (150mg x 2volte/die) o Edoxaban (60mg/die)
− Subito Apixaban/Eliquis (10mg x2/die per i primi 7 giorni, poi 5mg x2/die) o Rivaroxaban/Xarelto (15mg x2/die per i primi 21
giorni, poi 20mg/die)

▪ Prevenzione eventi cv in pz con SCA (soprattutto Rivaroxaban, ma in realtà possono essere utilizzati anche Dabigatran ed eventualmente
fare associazioni con antiaggreganti).

Fattori che richiedono aggiustamento il dosaggio:


❖ Funzionalità renale, valutata mediante formula di Cockroft-Gault:
− Se VFG < 50, il dosaggio si riduce.
− Se VFG < 15, non c’è indicazione ai NAO
− Secondo la Prof. Muiesan, se VFG ≤ 29 sarebbe meglio non utilizzare NAO e passare al Coumadin.

❖ Età > 80 anni e peso < 60 kg ⇒ ridurre il dosaggio

❖ Funzionalità epatica ⇒ attenzione soprattutto al Rivaroxaban (⇒ ha maggiore eliminazione epatica).


Per valutare la funzionalità epatica, indice di Child-Pugh: i NAO sono tutti controindicati in caso di Child Pugh C.

❖ Interferenza con i farmaci: ad es. verapamil, amiodarone, statine, antibiotici.

Gestione dei DOAC in caso di procedure chirurgiche:


• Interventi con basso rischio di sanguinamento (ad es. togliere un dente, cataratta, incisioni dermatologiche) ⇒ si può evitare qualsiasi
interruzione (al limite evitare compressa del mattino, il giorno dell’intervento)

• Medio rischio (ad es. endoscopia con biopsia, posizionamento di pacemaker…) ⇒ sospensione NAO almeno 24h prima.

• Alto rischio (ad es. per procedure chirurgiche in pz in anestesia epidurale, biopsie epato-duodenali, interventi toraco-addominali…) ⇒
sospensione NAO 48h prima.

Dopo l’intervento si somministra eparina ev per i primi giorni.

252
CHIRURGIA BARIATRICA
Branca della chirurgia che si occupa dei pz affetti da obesità.

Esistono diverse classificazioni dell’obesità: le principali sono la classificazione morfologica, che distingue l’obesità in ginoide e androide, e la
classificazione quantitativa basata sulla valutazione del BMI.

Indice di Massa Corporea (IMC) o Body Mass Index (BMI):

Mediante questa formula è possibile classificare i pz in:


Sottopeso < 18
Normopeso 18-24.9
Sovrappeso 25-29.9
Obesità I grado 30-34.9
// II grado 35 – 39,9
// III grado > 40
− Mordid Obesity 40-49.9
− Superobesity 50-59.9
− Super-superobesity > 60

Strategie terapeutiche:

Indicazioni alla chirurgia dell’obesità:


• BMI > 40 Kg/m2 (oppure eccesso ponderale > 45 Kg)
• BMI > 35 Kg/m2 solo in presenza di comorbilità
• Età compresa tra i 18 ed i 60 anni (65 anni in presenza di comorbilità)
• Assenza di psicopatologia maggiore in atto, disturbo di dismorfismo corporeo, neoplasia o stati precancerosi, tossicomania ed alcoolismo
• Fallimento di precedenti tentativi di calo ponderale e/o di mantenere la perdita di peso con presidi dietetico-comportamentali, la soluzione
chirurgica non è la prima da introdurre
• Assenza di ogni causa dimostrabile endocrina di obesità (suscettibile di trattamento specifico)
• Consenso informato
• Piena disponibilità ad un prolungato follow up dedicato
• Assenza di ogni stato patologico, correlato o meno all’obesità, che aumenti in maniera significativa il rischio operatorio/anestesiologico.
• Assenza di ogni stato patologico, correlato o meno all’obesità, che riduca significativamente la spettanza di vita.

253
TECNICHE CHIRURGICHE

A) INTERVENTI GASTRORESTRITTIVI
Hanno l’obiettivo di indurre un senso di sazietà precoce con l’assunzione di una modesta quantità di cibo, in relazione al volume della capacità gastrica.

Tipologie di intervento:
➢ Gastroplastica Verticale secondo Mason
Si crea, in regione sotto cardiale, una neocavità gastrica cilindrica.
Si viene a creare una compartizione gastro-gastrica cioè una separazione della cavità
gastrica sotto cardiale verticale all’His.
La neocavità gastrica ha una capacità di 30/40 cc ed è collegata con il resto della cavità
gastrica a livello del neopiloro.
Si utilizza un rinforzo extraluminale per evitare l’espansibilità tissutale, in quanto il cibo
deve ristagnare, distendere la neocavità gastrica e successivamente passare nella cavità
residua.
Questo meccanismo induce un senso di sazietà precoce.

➢ Gastroplastica Verticale secondo Maclean


Rappresenta l’alternativa alla Mason: oltre alla compartimentalizzazione vi è la sezione completa
gastro-gastrica.
Si correla con un lieve aumento delle complicanze, ma l’intervento non presenterà negli anni il
rischio della fistolizzazione gastro-gastrica.
Anche in questo caso si usa una benderella per rinforzare il neopiloro.

➢ Bendaggio gastrico
Ha soppiantato la gastroplastica verticale per la maggior semplicità nell’esecuzione
dell’intervento e per anni è stato uno dei principali interventi nell’ambito della
chirurgia bariatrica.
Ultimamente è sempre meno applicato in quanto presenta risultati scadenti e la
qualità di vita scarsa a causa della restrizione alimentare esasperata: i malati devono
avere una fase masticatoria prolungata, frullare il cibo, devono mangiare molto poco,
ma cibi ad alto contenuto idrico e alimentarsi lentamente.
La tecnica chirurgica consiste nel posizionamento di un anello in silicone a pochi
centimetri dal passaggio esofago gastrico creando una neo cavità di pochi cc,
all’inizio virtuale e che poi il cibo spontaneamente creerà.
Il bendaggio prevede nella parte interna un anello in silicone che è collegato tramite
un sistema di connessione esterna a un Port sottocutaneo che permette l’introduzione
di un liquido specifico per diminuire l’outlet gastro-gastrico, ossia stringere
ulteriormente il passaggio dalla neocavità alla cavità residua.

➢ Sleeve gastrectomy
Rappresenta oggi uno dei principali interventi.
Si esegue una sezione gastrica partendo da circa 6 cm dal piloro, tubulizzando lo stomaco e
rimuovendo tutta la parte parietale dello stomaco.
La restrizione è meno importante dal punto di vista volumetrico per cui ci permette una
maggiore alimentazione, che però rappresenta un problema se applicato ad un iperfagico.
Un iperfagico, infatti, potrà non mangiare come prima, ma sottoporre ad un’ipertensione il
tubulo e questo col tempo può dilatarsi e quindi andare incontro ad un’eccessiva compliance
alimentare, fenomeno che potrebbe correlarsi con l’arresto del calo ponderale o addirittura ad
un aumento del peso.
L’altra problematica della sleeve è l’infrequente, ma preoccupante, sviluppo di fistola per
problemi di scarsa vascolarizzazione e ipertensione endoluminale, che interessa circa l’1%
dei pz.

254
➢ Plicatura gastrica
Richiede la devascolarizzazione della grande curva e
l’introflessione a punti staccati o in continua della grande curva,
calibrando il tubolo gastrico con una sonda da 50 french. Spesso i
punti staccati possono cedere per cui si può dilatare lo stomaco e
la restrizione gastrica viene meno; è consigliata quindi la sutura
in continuo.
Anche in questo secondo caso risulta difficile graduare il
tubulizzazione gastrica, per cui la tecnica non è più in voga.
Concludendo, con questa tecnica sicuramente non si hanno più i
rischi della creazione di una fistola, ma i rischi di insuccesso sono
maggiori.

➢ Magenstrasse and Mill gastroplasty


Con questa tecnica si seziona lo stomaco a partire da 6 cm dal piloro e si gradua la
tubulizzazione con una sonda da 50 french.
Mediante questa procedura non si asporta la porzione parietale dello stomaco per cui si crea
una via alimentare e una via gastrica.
È importante far si che il cibo non refluisca nella parte gastrica, altrimenti aumenta la capacità
gastrica: per fare ciò bisogna ridurre l’ipertono del piloro mediante una piloroplastica manuale
intraoperatoria o endoscopica preoperatoria.

Il vantaggio degli interventi restrittivi è che non si tocca l’intestino, non si crea nessun bypass intestinale,
non correndo quindi tutti i rischi e le complicanze correlate con queste manovre.
In particolare, gli interventi restrittivi non presentano problemi di deficit di sostanze, oligoelementi e
vitamine, ma sono correlati alla presenza di steatorrea.
I principali problemi degli interventi restrittivi sono correlati con la restrizione alimentare, che invece
non interessa gli interventi malassorbitivi.

B) INTERVENTI MALASSORBITIVI

➢ Diversione Bilio-Pancreatica secondo Scopinaro


“Intervento che si propone di ottenere una stabile
riduzione del peso corporeo per mezzo di una
permanente limitazione del riassorbimento
intestinale essenzialmente selettiva per i grassi ed i
farinacei” cit. Scopinaro.

➢ By-Pass Bilio-Intestinale

255
C) INTERVENTI MISTI
Si tratta degli interventi che vanno per la maggiore al giorno d’oggi:

➢ Bypass gastrico anatomico


Si crea una piccolissima neocavità gastrica
staccata dal resto dello stomaco e si associa
il bypass intestinale con una modifica ad Y
del piccolo intestino.
In questo modo si ha la creazione di un
tratto alimentare puro, un tratto bilio-
pancreatico e un tratto comune.
Il malato non potrà più sottoporsi ad
accertamenti endoscopici delle prime vie
digestive.

➢ Minibypass anatomico
Prevede la creazione di una neocavità
gastrica, con una capacità gastrica che è pari
al doppio rispetto a quella del bypass
gastrico.
Il minibypass risulta essere sempre un
bypass anatomico in quanto il tratto viene
staccato completamente dallo stomaco.
Un'altra differenza riguarda l’anastomosi: al
posto dell’anastomosi alla Roux si esegue
una sola anastomosi ad omega; questo
rende l’intervento più rapido e meno
rischioso perché si fa una sola anastomosi.
Nonostante ciò, una delle problematiche correlate alla tecnica è l’ingresso delle secrezioni biliari, le quali prima di scendere nel tratto
comune potrebbero verniciare cronicamente la neocavità gastrica e indurre lesioni precancerose.

➢ Bypass gastrico funzionale


Si crea la neocavità gastrica e si crea un
bypass ad omega, ma la neocavità viene
lasciata in comunicazione con il resto della
cavità.
La tecnica generalmente utilizzata è quella
del bendaggio gastrico e ciò rende possibile
l’esplorazione endoscopica.

➢ RYGBP Funzionale Modificato


(Mittempergher)

ALGORITMO TERAPEUTICO
I soggetti vengono valutati da un gruppo multidisciplinare e suddivisi in:
• Idonei alla chirurgia: nel caso di controindicazioni all’intervento
malassorbitivo vengono indirizzati all’intervento restrittivo, mentre nel caso
vi siano controindicazioni all’intervento restrittivo, vengono indirizzati verso
l’intervento malassorbitivo.
Prima di un intervento restrittivo si potrebbe sottoporre il paziente al test di
posizionamento di un palloncino per sei mesi per vedere la compliance del
paziente all’intervento di gastro restrizione.

• Non idonei al trattamento chirurgico: vengono avviati verso il


posizionamento del palloncino endogastrico o del pacemaker gastrico.

256
❖ Palloncino endogastrico
Dispositivo inserito per via endoscopica e successivamente
riempito con liquido o aria per un volume di 500 cc.
Questo dispositivo occupa 1/3 della cavità gastrica e quindi
induce una restrizione gastrica di media entità che dopo 6
mesi deve essere rimosso.
È un provvedimento assolutamente non invasivo perché
viene applicato e rimosso per via endoscopica.
I risultati sono scadenti, in relazione alla difficoltà nella
rieducazione alimentare del pz, che non sempre porta alla
risoluzione della condizione.
Il candidato ideale è l’iperfagico, giovane e fortemente
motivato che ha avuto la fortuna di avere un consenso
informato completo e che quindi comprende l’azione di aiuto
del palloncino assieme al periodo di rieducazione alimentare.

❖ Implantable gastric stimulator


Pace-maker gastrico che viene posizionato per via
laparoscopica.
Vengono posti degli elettrodi nella parte prossimale dello
stomaco che inducono un’antiperistalsi favorendo la
persistenza del cibo nello stomaco.
L’obbiettivo del dispositivo è quello di indurre un senso di
sazietà permanente.
I risultati risultano essere molto operatore-dipendente, la
gestione di questi device è molto delicata e il costo è
esorbitante, e in relazione a ciò viene scarsamente utilizzato.

CONTROINDICAZIONI:
• Per interventi restrittivi:
 Binge Eating Disorder
 Sweet Eaters
 Grazing, Night Eating, Emotional Eating.
Questi tre primi parametri corrispondono ad abitudini alimentari che non sono compatibili con l’importante restrizione
alimentare indotta dagli interventi restrittivi.

 Obesità diencefalica
 Personalità fobico-ossessiva
 Scarso livello intellettivo: ci vuole discreta collaborazione e bisogna comprendere la masticazione e il rapporto col cibo
 Ridotto metabolismo basale, se viene ridotta l’assunzione calorica si riduce ulteriormente il metabolismo basale e questo non
aiuta anzi danneggia il paziente
 Controindicazioni relative:
o BMI > 45: tanto più è obeso il pz, tanto più gli interventi non ottengono risultati
o Età < 35: questo parametro viene posto in relazione all’aspettativa di vita del pz e i problemi che l’operazione
comporta sul cronico

• // malassorbitivi:
 Indisponibilità a mantenere un impegno di cura e di controlli medici continuato nel tempo
 Condizioni economiche che impediscano l’acquisto degli integratori necessari, i malati dovrebbero curarsi per tutta la vita
 Attività lavorative e/o abitudini di vita incompatibili con alcuni effetti dell’intervento, risulta infatti facile la diarrea e la
steatorrea
 Personalità incapace di mantenere un rapporto di continuità o che hanno difficoltà con l’area della dipendenza
 Rischio anestesiologico elevato
 Grave disprotidemia (albuminemia < 3.4 g/dl)
 Enteropatia diarrogena
 Controindicazioni relative:
o BMI < 45
o Età > 45
o Tabagismo: questi interventi espongono maggiormente al rischio di ulcere peptiche post anastomotiche.

Più è anziano il pz, più risulta corretto indirizzarlo verso interventi meno impegnativi.

257
Se non vi sono controindicazioni specifiche, si può scegliere in base ai parametri riportati in tabella:

Tanto maggiore è il BMI, tanto più sarebbe da orientare il pz verso un intervento malassorbitivo o misti, che però prevedano un’entità di malassorbimento
maggiore.
I piccoli obesi, invece è meglio indirizzarli verso interventi restrittivi o misti con un’entità di malassorbimento modesto.
Il pz deve capire che si tratta di interventi che cambiano la qualità di vita e richiedono collaborazione a vita.

COMPLICANZE
a) Chirurgiche:
• Maggiori:
− Precoci:
o Fistola gastrointestinale ⇛ ascesso o peritonite, infezione severa di ferita o deiescenza
o Emorragia GI che necessiti di emotrasfusioni
o Lesione splenica che necessiti di splenectomia
o Occlusione intestinale, volvolo o sindrome dell’ansa cieca

− Tardive:
o Ulcera peptica complicata
o Colelitiasi, laparocele, cedimento della linea di sutura meccanica, fistola gastro-gastrica
o Reospedalizzazione per grave deficit proteico o altro deficit nutrizionale.

• Minori:
− Precoci: sieroma, infezione cutanea o di ferita minore, edema dell’anastomosi
− Tardive: stenosi anastomosi, alterazioni elettrolitiche, vomito o diarrea persistenti, esofagite, esofago di Barrett, ulcera peptica

b) Mediche:
• Maggiori:
− Precoci:
o Polmonari: polmonite
o Cv: infarto miocardico, SC, stroke
o Renali: IRA
o Psichiatriche: depressione severa
postoperatoria

− Tardive:
o Epatiche: insufficienza, cirrosi

• Minori:
− Precoci: atelettasia polmonare, IVU, TVP,
scompenso elettrolitico, vomito, esofagite

− Tardive: anemia, deficit metabolici


(vitamine, minerali, proteine), perdita dei
capelli.

258
TRAPIANTO di ORGANI
Sostituzione di un organo malato, non più funzionante, con uno sano prelevato da un donatore.
Si possono trapiantare: cuore, fegato (in toto o diviso in fegato dx e sx), rene, pancreas, intestino, polmone.

Tipi di donatore:
➢ Donatore vivente: generalmente un parente dei pz che ricevono l’organo.
Esiste un programma cross-over: sono più coppie che si scambiano gli organi donati da vivente per ricevere a loro volta organi da
donatori viventi compatibili.
Per chiarire: una coppia era incompatibile direttamente al trapianto di rene (cioè la moglie non poteva donare al marito).
Entrando nel programma cross-over il marito ha ricevuto il rene da un altro donatore vivente e la moglie ha deciso di donare il rene per
fare in modo che qualcun’altro compatibile potesse ricevere il trapianto.

➢ Donatore cadavere a cuore battente: pz morto che presenta completa assenza di attività elettrica cerebrale

➢ Donatore a cuore fermo: pz morto in seguito ad arresto cardiaco.


Sono state identificate delle classi di donatore a cuore fermo diverse tra di loro.

Esistono essenzialmente due categorie:


− Categorie non controllate, che
comprendono:
o Pz che viene trovato a casa
sua in arresto cardiaco

o Pz che va in arresto in
ambiente pubblico senza
nessuno che lo rianima.

Sono donatori che hanno una qualità


degli organi utilizzabili incerta e non
documentabile con sicurezza, quindi
in Italia non sono usati

− Categorie controllate (classi III e


IV): pz ricoverati in ospedale, in cui
l’arresto cardiocircolatorio è atteso ma
ineluttabile o si verifica in modo
inaspettato, ma viene immediatamente
recuperato con massaggio cardiaco
efficace e subito messo in circolazione
extracorporea (ECMO).

Il ricondizionamento degli organi è necessario perché il prelievo viene fatto su un donatore non nelle condizioni ottimali, dal momento
che:
o La perfusione non è propria del pz, ma sostenuta artificialmente
o C’è stato un tempo di ischemia calda di 20 minuti, stabilito per legge
o Spesso il pz aveva già avuto un arresto cardiocircolatorio, con una fase di anossia cerebrale e organica di cui non sempre si ha
una completa conoscenza.

Per ovviare a questo problema, l’organo viene messo in un apparecchio dove circola un liquido artificiale costituito da sostanze che lo
rendono il più simile possibile al plasma umano.

Prelievo degli organi


Prevede in un primo tempo l’esplorazione delle cavità toracica e addominale, valutando tutti gli organi alla ricerca di tutto ciò che può costituire un
pericolo (neoplasia) non identificato da accertamenti pre-operatori.

Quando gli organi sono pronti a essere rimossi bisogna fare in modo di preservarli, perciò viene immesso nel sistema circolatorio del pz, attraverso
delle cannule in aorta e in vena cava, una soluzione a 2-3 gradi contenente glucosio, elettroliti, glutatione ridotto, cortisone e sostanze stabilizzatrici di
membrana.
Questa soluzione sostituisce il sangue del pz e viene immessa per due motivi:
- Ridurre l’attività metabolica per ridurre i danni dell’ischemia
- Fornire alle cellule nutrizione e stabilità di membrana per mantenere un’efficiente attività funzionale.

Quella più usata è la soluzione Celsior che ha effetto stabilizzante di membrana, di nutrizione cellulare e di refrigerazione.

259
Il primo organo che viene tolto è il cuore, poi vengono prelevati nell’ordine fegato e reni.
Più raramente si prelevano anche pancreas, polmoni ed eccezionalmente intestino; questo perché sono organi con pochi pz in lista d’attesa.

Dopo il prelievo gli organi vengono posti in contenitori sterili nel ghiaccio.
Il tempo che intercorre fra il prelievo ed il trapianto viene definito tempo di ischemia fredda: è opportuno che tale intervallo di tempo non si
protragga oltre le 24 ore.

Allocazione d’organi
Si basa su diversi criteri:
• Organi salvavita: cuore e fegato devono rispettare le emergenze/urgenze sul territorio prima regionale, poi nazionale ed eventualmente poi
europea

• Criteri immunologici: meno importanti per cuore e il fegato, più importanti per rene, polmone e intestino.
Si guarda la compatibilità:
− AB0
− HLA: il sistema è molto complesso e comprende centinaia di antigeni diversi.
Si testano 5 classi di antigeni (i più importanti per l’immunità cellulo-mediata): la compatibilità deve essere accettabile, cioè almeno
3/5.

− Cross match negativo: occorre valutare se esistono Ab preformati diretti contro l’organo trapiantato che porterebbero a rigetto
iperacuto.
Un ricevente rimane in attesa per molto tempo (ad es. l’attesa media per trapianto di rene a Brescia è di 3 anni) e durante questo
lasso di tempo i pz fanno diversi trattamenti, come trasfusioni di sangue o di plasma, oppure contraggono infezioni a seguito delle
quali possono sviluppare Ab che prima non avevano, definiti Ab irregolari.
Quindi i diversi organismi che si occupano dell’allocazione aggiornano i sieri dei pz in lista ogni 6/8 mesi e li conservano in una
banca interna.
Questo avviene perché quando si decide di trapiantare, si deve sapere se il siero del donatore e del pz hanno o meno Ab irregolari
incompatibili.

− Età donatore/ricevente: solitamente non si mette un organo di un donatore di 80 anni in un ricevente di 20

− Dimensione organo/ persona: non si mette un cuore di un uomo di 80-90 kg in una donna di 50 kg.

− Tempo di attesa in lista


− Urgenza.

La compatibilità influisce profondamente sulla sopravvivenza degli organi.


Il rigetto rappresenta il principale ostacolo alla riuscita del trapianto: questo accade perché il SI del ricevente riconosce Ag di istocompatibilità
diversi dai propri sulle cellule dell’organo trapiantato e contro di essi pone in atto un’azione di aggressione che solo una terapia immunosoppressiva a
tempo indeterminato può controllare.
Guardando i dati, si vede tuttavia che un organo che non ha compatibilità ha comunque l’80% di probabilità di sopravvivere 3 anni, che è comunque
un buon risultato considerando che la sopravvivenza a tre anni è del 90% in caso di completa compatibilità.
Questo perché oggi esistono metodiche di immunosoppressione più potenti e selettive rispetto ad un tempo.

260
TRAPIANTO di RENE
Indicazioni:
- Patologie glomerulari
- DM: nefropatia diabetica con sclerosi glomerulare, sclerosi interstiziale, danno glomerulare che portano a insufficienza renale.
Nella nefropatia diabetica, soprattutto in pz giovani, oggi si tende a fare un trapianto combinato rene e pancreas.
- Angiosclerosi ipertensiva.

Preparazione
Il primo tempo del trapianto è la preparazione su banco: infatti, quando si preleva un organo viene fatto un prelievo “grossolano” senza isolare
l’organo in dettaglio perché si cerca di essere il più rapidi per refrigerarlo ed evitare ulteriori danni.
Bisogna preparare arteria renale, vena renale e uretere, che vengono adattati alle strutture vitali del pz per essere anastomizzate con la vena e le
arterie dello stesso in modo che il rene riprenda la sua funzione.

Il rene non viene messo in sede nativa (cioè in sede retroperitoneale), ma viene posizionato in fossa iliaca in sede extraperitoneale, nella parte più
bassa dell’addome.
Questo perché fare l’intervento in sede retroperitoneale e attaccare il nuovo rene all’arteria e alla vena renale sarebbe più complesso, invasivo e
cruento.

Quindi si esegue una incisione arcuata pararettale o più bassa, si espone il retroperitoneo e si fanno anastomosi tra:
- Arteria rene ⇒ arteria iliaca del pz
- Vena rene ⇒ vena iliaca del pz
- Uretere ⇒ vescica del pz.

Strategie per aumentare la disponibilità di reni


- Tecnica cross-over
- Donazione a cuore fermo
- Tecniche di ricondizionamento degli organi
- È stato introdotto il concetto di donatore marginale, cioè un donatore non ottimale che rientra nei criteri allargati di donazione (ECD):
o Età > 60 anni
oppure
o Età 50-59 con 2 criteri tra: storia di IA, morte da causa cbv, creatinina ≥ 1,5, DM, IA con più di 2 farmaci.

Se si confrontano i risultati nell’utilizzo di reni da donatori non ottimali rispetto a donatori sani, i trapianti ECD
vanno meno bene: a 3 anni la perdita del trapianto è del 20% superiore nei donatori ECD, per cui si selezionano
dei riceventi idonei a questi reni subottimale.
Grazie a questa evidenza, si è pensato di considerare la possibilità di trapianto doppio di rene.
Per decidere se effettuare un trapianto doppio o singolo, si è stabilito un criterio clinico per la valutazione del
donatore e istologico per la qualità del rene: nei donatori marginali si fa una biopsia sull’organo prelevato e
l’anatomopatologo fornisce uno score che tiene conto di diversi aspetti istologici:
− Grado di sclerosi glomerulare
− Atrofia tubuli renali
− Fibrosi dell’interstizio renale
− Ispessimento dei vasi corticali, cioè il loro grado di sclerosi.

Risultati:
- Score tra 0 e 3 ⇒ trapiantare rene in singolo
- Score tra 4 e 6 ⇒ trapianto rene in doppio
- Score > 7 ⇒ reni non idonei al trapianto.

Trapianto di rene da donatore vivente


È in progressivo aumento e in alcuni paesi rappresenta il 50% degli organi trapiantati.
Questa procedura implica, oltre alla sicurezza del ricevente, anche quella del donatore.
Oggi le procedure di prelievo sono laparoscopiche o robotiche, con mortalità bassa (circa 0,03%) legata a eventi di ordine generale (IMA, embolia
polmonare).
Anche le complicanze tardive da sovraccarico funzionale (ipertensione, microalbuminuria, possibile IRC) sono modeste.

È un processo molto più complesso rispetto alla donazione da cadavere, perché bisogna verificare che il donatore non abbia ricevuto coercizioni
familiari anche non esplicite.

261
TRAPIANTO di PANCREAS
È utilizzato raramente, perché il controllo dei diabetici è molto buono, grazie alle terapie mediche.
Ci sono casi, tuttavia, in cui il trapianto di pancreas serve e cambia la vita: in tal caso esistono diverse opzioni:
• trapianto simultaneo rene-pancreas: spesso il pz che ha diabete avanzato ha anche insufficienza renale; è la scelta più facile e migliore
dal punto di vista prognostico

• trapianto di pancreas successivo al trapianto di rene: questo avviene perché il diabete è comparso a seguito della terapia
immunosoppressiva o perché il diabete è peggiorato nel tempo

• trapianto isolato di pancreas: in pz con reni normali.

Il pancreas viene trapiantato preservando la sua vascolarizzazione.


Ha apporto sanguigno da rami dell’arteria mesenterica e arteria splenica.

262
TRAPIANTO di FEGATO
A differenza degli altri tipi di trapianto, è nato come terapia per il cancro ed è la terapia di scelta per quasi
tutte le cause di “Chronic Liver Disease”.
Proprio per questo motivo e data l’elevata prevalenza di CLD, si pone il problema di individuare quali casi
escludere:
• Pz non sufficientemente gravi: è un intervento salvavita, pertanto è indicato quando il pz ha un
elevatissimo rischio di morte a 6 mesi se non trapiantato

• Controindicazioni al trapianto.

La graduatoria della lista d’attesa per il trapianto si basa sostanzialmente sul guadagno in termini di
sopravvivenza: se ad es. la stima della sopravvivenza a 5 anni dal trapianto è del 50% in un pz e dell’80%
in un altro, allora quest’ultimo trarrà maggior guadagno e verrà trapiantato.
Occorre dunque selezionare per ciascuna patologia i pz che, sulla base della storia naturale della malattia e
delle terapie alternative, beneficerebbero maggiormente del trapianto e poi valutare se i risultati attesi sono
comparabili a quanto ottenibile per le altre cause di cirrosi.

Sebbene sia un intervento salvavita, oggi può eventualmente essere sfruttato anche per migliorare la qualità di vita, come nei casi di:
• Prurito intrattabile: raro, ma particolarmente invalidante
• Colangite ricorrente
• Ascite intrattabile
• Osteopatia metabolica.
• Letargia.

Quando trapiantare?
• Non troppo presto, poiché terapie alternative potrebbero stabilizzare la malattia
• Non troppo tardi, poiché condizioni generali scadenti aumentano la mortalità operatoria.

Nel grafico si vede come varia la sopravvivenza dei pazienti in base all’UNOS-status
(stadiazione dell’United Network for Organ Sharing): i pz di stadio I, cioè con una
funzione epatica non gravemente compromessa, hanno un’aspettativa di vita a 1
anno dal trapianto decisamente più alta rispetto a quella di pazienti di stadio IV.

Anche lo stato nutrizionale ha un effetto importante sull’andamento del trapianto


epatico, con una
mortalità che varia da uno 0% a un 28% (in caso di pz severamente malnutritito).

Considerati i tempi di attesa non brevi, il pz va inserito in lista quando compaiono i


primi segni di insufficienza epatica.

Valutazione del pz
Prende in esame diversi parametri:
• Gravità di malattia
• Efficacia terapie alternative
• Parametri psicosociali: il pz deve assumere regolarmente la terapia per evitare il rigetto, quindi se è
scostante e inaffidabile non può essere trapiantato
• Controindicazioni
− Assolute:
 AIDS conclamata
 Neoplasia extraepatica (per via della terapia immunosoppressiva)
 Infezione non controllata
 Tossicodipendenza attiva
 Malattia cardiopolmonare grave: non può sopportare l’intervento chirurgico
 Ipertensione polmonare severa
 Non compliance al trattamento immunosoppressivo (protratto a vita)

263
− Relative: condizioni cliniche che hanno un impatto negativo sulla morbidità e mortalità postoperatorie, ma che in certe circostanze
possono conseguire un favorevole risultato a lungo termine:
 Età > 65 anni: concetto molto relativo
 EpatoK con determinate caratteristiche
 Alcolismo: il pz deve essere astemio da 6 mesi
 HBeV e HBV-DNA+: non è più controindicazione assoluta grazie ai farmaci anti-virali
 HIV +: in casi selezionati non è più controindicazione.

Riflessione del Prof: l’HIV positività e l’etilismo possono essere anche valutati da un punto di vista etico: perché utilizzare una
risorsa utile per la società per un pz che per anni è stato tossicodipendente?
Queste sono le cosiddette “self-inflicted diseases” e costituiscono per lo più un problema etico; seguendo questo ragionamento
allora non si dovrebbero più operare nemmeno i tumori al polmone nei fumatori.
Il medico però non può giudicare e non può etichettare una categoria come non meritevole di cura, deve curare in ugual modo sia
l’assassino che la vittima.
Il trapianto, tuttavia, è una risorsa limitata: ogni anno in Italia si fanno circa 1100 trapianti di fegato, perché ci sono 1100 donatori.
Se ci sono 1500 candidati, come si sceglie chi sottoporre a intervento e chi no? Questo è stato un grosso problema etico per molti
anni. La trapiantologia trova nell’etica il suo tallone di Achille, ma forse anche l’aspetto più qualificante.

Risultati generali
Sono migliori in ordine decrescente nelle seguenti patologie:
1. Cirrosi biliare primitiva: hanno l’andamento migliore

2. Cirrosi epatica alcolica: fondamentale l’astensione da alcol


nel post-trapianto.
“Il trapianto deve essere considerato dal pz come un patto, come un dono da parte
della società e come tale deve essere meritato” cit.

3. Cirrosi post-necrotica/epatitica
4. Epatite acuta fulminante

Il cancro epatobiliare ha l’andamento peggiore se eseguito come


terapia del cancro avanzato.
Oggi invece trapiantando nei tumori epatici in fase iniziale in cirrosi si
ottiene una sopravvivenza molto alta, addirittura superiore a quella delle
altre indicazioni.

TRAPIANTO in PAZIENTI NEOPLASTICI


Può essere considerato qualora siano rispettati i criteri di Milano:
• 1 nodulo singolo ≤ 5 cm
oppure
• 2-3 noduli di cui il maggiore ≤ 3 cm

È importante considerare le dimensioni tumorali, in quanto correlano con la


probabilità di infiltrazione vascolare (con conseguente diffusione per via ematogena).

Sono state poi effettuate delle rimodulazioni che hanno permesso di dare un’opzione terapeutica a pz che
sarebbero altrimenti stati esclusi dalla lista trapianto, come:
❖ UCSF criteria:
• 1 nodulo singolo ≤ 6.5 cm
oppure
• 2-3 noduli ≤ 4.5 cm e diametro tumorale totale ≤ 8 cm.

❖ Criteri di Herrero:
• 1 nodulo singolo ≤ 6 cm
oppure
• 2-3 noduli ≤ 5 cm alla TC

Con questi criteri, la sopravvivenza a 5 anni è del 79%.

264
Trattamento pre-trapianto
Può essere indicato per le seguenti due condizioni:
• per evitare che un pz candidabile a trapianto esca
dalla lista a causa della progressione tumorale ⇒
fenomeno del drop out

• per rendere candidabili pz che inizialmente non


possono entrare in lista ⇒ con intento di
downstaging.

Occorre anche tener conto del fattore tempo, che fornisce


informazioni riguardo la biologia del tumore: se in seguito
a un qualsiasi trattamento la malattia si riduce o stabilizza
per dei mesi, allora si ha a che fare con un tumore
biologicamente poco aggressivo; al contrario un tumore
cresciuto rapidamente in soli 6 mesi è difficilmente
trattabile.

Dunque, le strategie utilizzate in lista d’attesa sono:


• Osservazione senza trattamento pre-trapianto: se la lista d’attesa per quel gruppo sanguigno in
quel centro è breve e il nodulo è piccolo, probabilmente non ci sarà drop out e quindi non si fa nulla

• Trattamento pre-trapianto: soprattutto per i pz in cui è prevedibile l’uscita dalla lista d’attesa, sulla
base di dimensioni e tempo di attesa (con terapie loco-regionali o resezione epatica)

• Priorizzazione (soprattutto negli USA): si fa salire in graduatoria i pz con HCC per evitare il drop out,
attribuendo punti aggiuntivi nello score MELD.

Resezione epatica
È sempre stata considerata una terapia alternativa al trapianto e il dubbio su quale sia la soluzione migliore tra le due è tuttora irrisolto:
▪ Recentemente si è valutata una possibile consequenzialità delle due terapie: prima si reseca il nodulo e solo se il pz recidiva si trapianta.
Non sempre però il pz quando recidiva è ancora trapiantabile, poiché l’età media dei pz resecati è di 71 anni, se si ha recidiva dopo 2
anni il trapianto non è più possibile.

▪ Altra possibile opzione è quella di sfruttare la resezione per selezionare l’indicazione al trapianto: dopo aver resecato la massa si valuta
il tumore all’AP e poi si decide se trapiantare

▪ Ulteriore alternativa è utilizzare la resezione come terapia ponte: ad es. ci sono 5 noduli, ne tolgo 2 e il pz rientra così nei criteri di
Milano.

Trapianto da vivente
Viene ampliamente sfruttato per il trapianto di rene, ma può essere fatto anche con il fegato: un parente può donare il fegato di sx senza che ci sia
dunque necessità di inserire il pz in lista.
Questi pz avevano un andamento post-trapianto non buono, poiché non si aspetta il tempo giusto.
L’attesa in lista sembrava una “perdita di tempo”, in realtà era un metodo per selezionare la biologia del tumore: se si fa trapianto subito dopo la
diagnosi, si sa poco della biologia del tumore ed è proprio questa a prevedere l’andamento clinico.

265
CHIRURGIA MINI-INVASIVA
È una modalità di intervento chirurgico applicata a diverse branche della chirurgia, in cui il chirurgo si trova a distanza dal campo operatorio e
introduce gli strumenti attraverso delle piccole incisioni cutanee: per questo motivo si tratta di una chirurgia meno aggressiva.
Il vantaggio non è semplicemente estetico, ma anche e soprattutto funzionale.

LAPAROSCOPIA
È una tecnica chirurgica che consente di esaminare organi e tessuti situati all'interno dell’addome e della pelvi eseguendo delle piccole incisioni, a
differenza della chirurgia tradizionale a “cielo aperto” che richiede tagli più grandi.

Utilizza uno specifico strumento, simile a un tubo sottile, denominato, appunto, laparoscopio.
Esso è costituito normalmente da due camere, una che contiene una sorgente luminosa e una fotocamera che proietta le immagini su uno schermo per
permettere al chirurgo di vedere l’interno del corpo, una che può contenere uno strumento chirurgico per prelevare i tessuti da analizzare (biopsia) o
per eseguire un vero e proprio intervento.

Oggi la lista degli interventi possibili in laparoscopia è vasta: colecisti, appendice cecale, giunto esofagogastrico, colon e retto, ernie
inguinali/laparoceli, chirurgia bariatrica.
In tutti questi campi la laparoscopia è considerata una procedura di scelta per i pz idonei, ma questo non equivale a dire la laparoscopia sia il gold
standard.
Se il chirurgo si trova in difficoltà durante un intervento in laparoscopia o insorgono complicanze, lo si converte in open.
Il vero gold standard è quindi la chirurgia open, perché è la metodica che risolve i problemi in corso di laparoscopia.
Una tecnica è gold standard, ovvero è da preferirsi, qualora le condizioni anatomiche lo permettano e qualora il chirurgo sia esperto.

Differenze tra le due tecniche:


❖ Per il pz:
− considerando che in laparoscopia vengono attuate piccole incisioni, il pz in primo luogo ha meno dolore, può mobilizzarsi più
rapidamente, respirare più profondamente e riprendere più rapidamente la propria attività quotidiana

− In secondo luogo, si ha una più rapida ripresa della funzionalità dell’intestino, grazie al fatto che l’intestino rimane
all’interno dell’addome ed escluso dal contatto con le mani; questo fa sì che il malato possa riprendere ad alimentarsi già dopo
poche ore dall’intervento

− Questi vantaggi, validi per la patologia benigna e nel pz giovane, sono meno evidenti nella patologia oncologica, che però non
esclude un suo utilizzo

❖ Per il chirurgo: si tratta di una tecnica completamente diversa:


− la visione del campo operatorio è più definita, nonostante le piccole incisioni, grazie all’utilizzo di telecamere e monitor ad alta
definizione
− Di contro, si ha una diversa risposta tattile, visione bidimensionale (anche se ci sono sistemi laparoscopici con visione
tridimensionale), talvolta il tempo dell’intervento in laparoscopia si allunga
− il limite principale è che il chirurgo deve apprendere una tecnica diversa, con una lunga curva di apprendimento.

Laparoscopia in chirurgia oncologica


Può essere utilizzata per interventi a livello esofageo, gastrico, epatico e pancreatico.
Studi recenti sulla chirurgia laparoscopica per il CRC hanno dimostrato che, se si va a comparare la sopravvivenza senza recidive e la sopravvivenza
globale negli interventi in open e in laparoscopia, i risultati sono sovrapponibili.

Attualmente la chirurgia laparoscopica è controindicata per:


 Tumore di Klatskin (colangioK ilare, cioè tumore dell’ilo epatico): è necessario eseguire anastomosi estremamente fini
 Tumori della colecisti: per il rischio di microperforazioni della parete
 Tumori maligni del surrene: problematici per la sede retroperitoneale.

In ambito neoplastico si può infine eseguire una laparoscopia diagnostica in caso di sospetto di carcinosi peritoneale, sebbene oggi possa essere
diagnosticata anche con una buona TC o RM nella maggior parte dei casi.

Considerazioni finali:
• Il messaggio su cui la comunità scientifica è concorde è quello di proteggere il pz da questa procedura: il paziente deve essere sottoposto a
questa tecnica solo dopo che il chirurgo abbia completato il processo formativo

• È importante non modificare le indicazioni giustificandole con la nuova tecnica: non è la tecnica che dà l’indicazione chirurgica

• La chirurgia laparoscopica è la tecnica del presente e del futuro, la maggior parte delle neoplasie addominali può essere trattata così, ma
rimarrà sempre una tecnica per pz selezionati

266
• Il rischio è l’overutilization, cioè l’utilizzo laddove non ci sia l’expertise, spinto dalla necessità di eseguire interventi in laparoscopia per
non essere fuori moda.
Allo stesso modo, è opportuno evitare qualsiasi metodica in situazioni dove non ci sia una comprovata efficacia: quando non c’è un
conclamato beneficio, bisogna procedere con molta cautela.

CHIRURGIA ROBOTICA
Per definizione un sistema robotico è un sistema programmabile per eseguire autonomamente un determinato compito.
Ciò che noi chiamiamo attualmente chirurgia robotica non funziona in questo modo: il chirurgo seduto alla console compie dei gesti mediante un
sistema master-slave e la macchina riproduce i gesti del chirurgo sul pz.

Occorre fare questa precisazione perché proprio in questi anni stanno arrivando i primi sistemi veramente robotici: dalla telecamera che si muove
da sola seguendo ciò che sta facendo il chirurgo, all’assistente robotico, una macchina che aiuta il chirurgo eseguendo in autonomia alcune
operazioni, fino ad arrivare forse a macchine che eseguono qualche porzione dell’intervento da sole, come ad es. delle anastomosi.
Il robot impara le procedure grazie al machine learning, ovvero dopo che ha analizzato una grande quantità di video di interventi forniti dall’azienda
produttrice.
Il vantaggio è che, una volta che una sola macchina ha imparato, può insegnare a tutte le altre macchine in pochissimo tempo, evitando quindi di
dover formare un nuovo chirurgo da zero.
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale (A.I.) è già presente in alcune branche mediche, come la radiologia e l’anatomia patologica, dove è dimostrato
per certe diagnosi le macchine sono meglio dei medici (es. diagnostica del tumore alla mammella).
È inoltre dimostrato che i medici che usano l’A.I. stanno soppiantando quelli che non la usano.

Differenze con la laparoscopia


Gli strumenti sono articolabili, con ampi gradi di movimento, si può lavorare in un ambiente molto piccolo con movimenti ultrafini (il diametro di
questi è di 7 mm): si possono fare dei movimenti che in laparoscopia sono molto più complessi.
La telecamera è totalmente stabile, robotica e regolata dall’operatore.
Rispetto alla chirurgia laparoscopica, in quella robotica manca un feedback tattile, l’unico tipo di ritorno che ha il chirurgo è di tipo visivo.
Questo limite è però superato dalla visione tridimensionale grazie alla quale è possibile lavorare anche senza feedback tattile: il chirurgo si accorge di
toccare una cosa perché questa si deforma.
Questo fenomeno si chiama traslazione semantica da visivo a tattile: il cervello raccoglie informazioni tattili da afferenze visive.

Indicazioni
Non c’è nessuna indicazione alla chirurgia robotica in chirurgia generale.
Non ci sono nemmeno evidenze di primo livello per la chirurgia robotica che dimostrino che sia meglio della laparoscopia.
Quindi perché investire su questa tecnologia? L’impressione è che la laparoscopia, con tutti i suoi limiti sia una fase di passaggio, tecnologicamente
si può avere qualcosa di meglio.

I vantaggi della chirurgia robotica si rendono più evidenti quando l’intervento è molto difficile o ci sono ricostruzioni complesse da fare.

La chirurgia robotica è ancora da considerare pionieristica: i robot stanno avendo in questi ultimi anni una diffusione sul territorio e anche in questo
campo la chirurgia generale è subentrata più tardivamente, rispetto all’urologia, primo grande campo di applicazione di questa tecnica; nella
fattispecie, gli interventi in chirurgia robotica per le patologie della prostata sono aumentati in questi ultimi anni.

In chirurgia generale chi lo prova tendenzialmente non torna indietro, perché il vantaggio puramente tecnico è innegabile soprattutto in ambito
ricostruttivo. Questo vantaggio tecnico però, se non diventa un vantaggio clinico misurabile, non giustifica l’utilizzo della tecnologia così costosa.

267
PROTOCOLLO ERAS (Enhanced Recovery After Surgery)
È un approccio innovativo per gestire la fase pre-, intra- e post-operatoria dei pz, al fine di migliorare l’outcome e ridurre le complicanze, basato su
prove scientifiche fornite dalla Evidence-based medicine.

1) Fase pre-operatoria
Prevede:

✓ Valutazione del pz: bisogna indagare condizioni cliniche, stato nutrizionale e stato psicologico del pz per verificare di poter garantire
l’adesione al programma ERAS.
Se si tratta di un pz defedato, prima di avviarlo alla chirurgia bisogna fargli compiere un percorso di recupero funzionale e nutrizionale.
Si va ad agire sui fdr modificabili quali esercizio fisico, stato nutrizionale e attività respiratoria.

✓ Selezione: nel protocollo non vengono ancora inclusi i pz operati in urgenza o che hanno un rischio ASA ≥ 4

✓ Consenso informato ed educazione del pz

 Preparazione intestinale non più necessaria: è stata dichiarata come inutile, se non dannosa poiché comporta disidratazione, squilibri
elettrolitici, oltre che ritardare la canalizzazione dei pz.
Per cui al giorno d’oggi non viene più fatta.
Al massimo si fa una dieta priva di scorie e clistere la sera prima dell’intervento.
Fanno eccezione interventi in cui è prevista:
− colonscopia intraoperatoria
− ileostomia intraoperatoria
− resezioni rettali ultrabasse.

✓ Nutrizione pre-operatoria con somministrazione di maltodestrine: hanno la caratteristica di essere assorbite e degradate in un tempo
molto lungo, mantenendo la glicemia stabile, a differenza degli altri zuccheri.
Vengono somministrate sciolte in acqua la sera prima e la mattina dell’intervento, in dosi rispettivamente di 800 ml e 400 ml.

✓ Profilassi antibiotica peri-operatoria

 Pre-anestesia: non viene quasi più usata perché non comporta una sostanziale diminuzione del dolore post-operatorio e può prolungare la
fase di incoscienza post-operatoria.

2) Fase intra-operatoria

✓ Tecnica anestesiologica:
− preferire agenti a breve emivita in modo che vengano smaltiti velocemente nel post-operatorio
− tecnica anestesiologica che riduca al minimo lo stress chirurgico
− controllo del dolore intra e post-operatorio: ad es. è raccomandato il posizionamento di un catetere epidurale per
somministrare farmaci analgesici, che può esser tenuto 2 o 3 giorni migliorando il dolore post-operatorio.

✓ Tecnica chirurgica: le tecniche mini-invasive (⇒ laparoscopia) sono migliori per il recupero post-chirurgico e sono considerate migliori
le incisioni trasversali o oblique

✓ Prevenzione dell’ipotermia: mediante materassini riscaldati

✓ Sondino naso-gastrico: dovrebbe essere rimosso prima del risveglio del pz.
Il suo utilizzo si associa a numerose problematiche: aumentato rischio di polmoniti, atelettasia, ipertermia, ridotta motilità intestinale e
aumento rischio di reflusso gastro-esofageo.
Il sondino può essere utile per valutare il caso in cui l’anastomosi sanguini, in particolare nel caso di chirurgia dello stomaco e dell’esofago.

✓ Rimozione precoce di drenaggi e catetere vescicale.

3) Fase post-operatoria

✓ Controllo del dolore ottimale: mediante:


− Posizionamento di catetere epidurale
− analgesia controllata dal pz
− pompa elastomerica con catetere pre-peritoneale che infonde anestetico locale
− utilizzo di paracetamolo e FANS

268
− utilizzo limitato di oppioidi
− Si ritiene più efficace la prevenzione del dolore con una terapia preimpostata rispetto alla somministrazione di antidolorifici al
bisogno.

✓ Prevenzione e trattamento della nausea e del vomito: al fine di ottenere una rialimentazione orale precoce.
Nella maggior parte dei casi è sufficiente la somministrazione di ossigeno nel post-operatorio.
I farmaci utilizzati sono: desametasone, ondansetron, droperidolo, propofol.

✓ Prevenzione ileo paralitico: mediante


− analgesia epidurale ed opioid sparing analgesia
− terapia infusionale restrittiva (per evitare edema)
− uso di solfato di Mg per os, che a livello intestinale agisce come lassativo osmotico (1g x 2 volte/die dalla sera stessa
dell’intervento fino alla dimissione)

✓ Nutrizione post-operatoria precoce

✓ Mobilizzazione precoce: per il giorno dell’intervento l’obiettivo è di tenere il pz in poltrona per 2h, aumentando tale tempo a 6h in prima
giornata post-operatoria.

Protocolli ERAS applicati al Civile per chirurgia resettiva epatica


▪ Durante il pre-ricovero il pz viene sottoposto a numerosi accertamenti: esami ematochimici, markers tumorali, ECG e visita cardiologica
se necessaria, RX torace, valutazione stato nutrizionale, visita anestesiologica.
Viene fatto un colloquio in cui viene consegnato il fascicolo informativo e viene acquisito il consenso informato con adesione al protocollo
ERAS.
Vengono prescritti immunonutrienti (⇒ glutammina, arginina, omega 3, nucleotidi) per almeno cinque giorni prima dell’intervento

▪ Viene prescritto digiuno ai solidi da 6h prima dell’intervento e viene assunta la bevanda con maltodestrina

▪ Il SNG viene rimosso al risveglio in sala operatoria.


Dopo due ore dall’intervento il pz può iniziare a bere e dopo 4 può iniziare a mobilizzarsi.
L’alimentazione enterale può riprendere dopo 6h se il pz se la sente, con dieta ERAS 0.
È utile la somministrazione di un procinetico come il solfato di Mg (un cucchiaino in mezzo bicchiere mezz’ora prima dei pasti), come nei
giorni successivi fino alla dimissione.
▪ In 1° giornata viene rimosso il catetere vescicale (se non ci sono controindicazioni) e il pz viene mobilizzato: il pz deve rimanere fuori dal
letto per almeno 8h e deve camminare.
Viene somministrata la dieta ERAS 1.
Fondamentale è sempre il controllo del dolore, poiché un pz che ha dolore non è collaborante.
▪ In 2° giornata è previsto che il pz abbia un’attività motoria normale.
Si passa ad una dieta ERAS 2.

▪ I criteri di dimissibilità possono essere considerati dalla 4° giornata:


− pz vigile e orientato
− parametri vitali stabili
− non evidenza o sospetto di complicanze
− deambulazione autonoma per almeno 100 metri
− alimentazione con dieta solida ben tollerata
− pz canalizzato e con diuresi spontanea
− assenza di sintomatologia (nausea, vomito, vertigini)
− autosufficienza nelle attività di base
− volontà da parte del pz e

È fondamentale seguire il pz anche a domicilio per controllare che il post-operatorio prosegua correttamente.
Una dimissione precoce deve tenere conto del domicilio del pz, possibilità di assistenza domiciliare da parte dei famigliari, oltre che della
sintomatologia (dolore o febbre).
È poi fondamentale istruire il pz sui sintomi di un problema anastomotico per fare sì che si possa recare velocemente in ospedale.

Prescrizioni domiciliari: terapia analgesica e eventualmente antiemetica, attività fisica evitando sforzi, riferimenti su come contattare
l’istituto in caso di necessità, istruzioni sulla gestione post-operatoria di medicazioni.
Follow-up: contatto telefonico il giorno dopo la dimissione, visita di controllo in settima giornata e dopo un mese.

269
Diete ERAS
• Dieta ERAS 0: semolino o minestrina 40g, parmigiano 10g, olio 10g, succo di frutta senza polpa 200ml

• Dieta ERAS 1:
− bere almeno 2L di liquidi (acqua e succo di frutta)
− colazione con caffè d’orzo o tè, biscotti o fette biscottate 30g, zucchero 5g
− spuntino con yogurt bianco 125g
− pranzo con pasta o riso 30g, parmigiano 10g, carne bianca 70-80g o pesce 100g, olio 10g, pane comune 25g, succo di
frutta 200ml
− spuntino con caffè d’orzo o tè, biscotti o fette biscottate 30g, zucchero 5g
− cena uguale al pranzo

• Dieta ERAS 2:
− bere almeno 2L di liquidi
− colazione con caffè d’orzo o tè, biscotti o fette biscottate 30g, zucchero 10g
− spuntino con yogurt bianco 125g
− pranzo con pasta o riso 40g, parmigiano 10g, carne bianca 100g o pesce 150g, patate, carote o zucchine 150g, olio 15g,
pane comune 50g, frutta fresca senza buccia (mela o banana) 150g
− spuntino con caffè d’orzo o tè, biscotti o fette biscottate 30g, zucchero 10g
− cena uguale al pranzo.

È già una dieta quasi libera.

270
NUTRIZIONE ARTIFICIALE in CHIRURGIA
Procedura terapeutica mediante la quale è possibile soddisfare i fabbisogni nutrizionali di pz non in grado di alimentarsi sufficientemente per via
orale.
In ambito ospedaliero, la NA è indicata in caso di:
● Malnutrizione: è definita come un’alterazione dello stato nutrizionale per carenza o eccesso (squilibrio) di calorie, proteine ed altri nutrienti
che porta a effetti negativi sull’organismo e sull’evoluzione clinica
● Supporto nutrizionale in caso di pz impossibilitato ad alimentarsi per via orale
● Ipercatabolismo
● “Riposo intestinale” (condizioni post-chirurgiche).

Malnutrizione calorico-proteica
Nel pz ospedalizzato, è la risultante di un deficit, acuto o cronico, sia
di calorie (substrati energetici) che di proteine (substrati plastici).
È caratterizzata clinicamente da riduzione della massa magra ed
espansione del compartimento extracellulare.
Bisogna tenere a mente che il muscolo è il sito di stoccaggio
principale dell’acqua: bevendo 3L di acqua al giorno, ne verranno
urinati 2.5-3 senza che l’acqua passi direttamente dallo stomaco al
rene ma, entrando e uscendo dal muscolo sarà immagazzinata in parte
ed eliminata nel tempo.
Perdendo massa magra, il pz è costretto a trattenere liquidi nel terzo
spazio: pericardio, pleura e con la formazione di edemi declivi.

Dati epidemiologici:
● prevalenza del 30%
● sono più colpite le persone con età > 65 anni, di sesso F,
● è frequente nei reparti di chirurgia gastroenterologica e oncologica, dove già al momento del ricovero una buona parte dei pz presenta deficit
nutrizionali importanti, sebbene sia più frequente nei pz ricoverati in area medica rispetto all’area chirurgica (37% vs 23,3%)
● Nel 63% dei malati lo stato nutrizionale peggiora dopo 15 gg di ospedalizzazione
● la massa magra si riduce sensibilmente dopo 8 gg di ospedalizzazione.

Cause di malnutrizione calorico-proteica:


● farmaci che interferiscono con appetito o che presentano EC sull’apparato GI
● mancato monitoraggio di peso, altezza e BMI
● patologie di base e sue complicanze
● immobilizzazione a letto
● uso prolungato di perfusioni parenterali gluco-saline o alimentazione artificiale ipocalorica protratta.

Conseguenze cliniche:
● Incremento vulnerabilità del pz con maggiore morbilità e mortalità
● Aumento di complicanze
● Azione negativa sui risultati delle terapie
● Riduzione della risposta immunitaria ⇛ predisposizione alle infezioni
● Aumento del rischio di insorgenza di fratture o di piaghe da decubito
● Ritardo della guarigione delle ferite chirurgiche
● Riduzione massa e forza muscolare
● Effetti dannosi a livello psichico con depressione e inappetenza
● Compromissione della funzione di organi ed apparati
● Aumento delle cure e prolungato recupero delle performance
● Allungamento della degenza.

Viene mostrata la tabella seguente correlando il BMI con la mortalità: presi


due pz che devono fare lo stesso intervento, uno con 35 di BMI e un altro
con 16, il primo presenta una mortalità doppia.
Si può concludere che in ambito chirurgico la malnutrizione si associa ad
un incremento della morbilità e mortalità perioperatoria.

271
Parametri necessari per la valutazione dello stato di nutrizione:

a) Parametri clinici:
− Anamnesi: ad es. comparsa di edemi, anoressia, vomito o diarrea, sui cambiamenti delle abitudini alimentari, sulla presenza di
malattie croniche, di comorbilità e sulla terapia farmacologica

− EO: prestare attenzione all’eventuale presenza di ittero, di alterazioni della mucosa orofaringea e di edemi e alla riduzione del
grasso sottocutaneo e delle masse muscolari (in particolare dei muscoli interossei della mano).

b) Parametri antropometrici:
− Valutazione statica ⇒ BMI
− // dinamica ⇒ calo ponderale

c) Parametri bioumorali:
− Albuminemia: per valutare malnutrizione cronica (avendo emivita di 20 giorni)

− Proteine a breve emivita, quali transferrina, prealbumina e Retinol Binding Protein

− Un parametro fondamentale per lo studio del metabolismo dei pz è il bilancio azotato, cioè la differenza tra azoto introdotto
(dieta, NA) e quello perso (⇒ urine, feci, capelli, desquamazione).
Il bilancio azotato in un soggetto normale dipende, in condizioni di adeguato apporto proteico, dall’azoto totale eliminato e
dalla quantità di proteine introdotte.
Nella pratica comune il bilancio viene generalmente estrapolato dalla concentrazione dell’azoto ureico urinario, cui viene
sommato un fattore costante (2-4 g), che costituisce approssimativamente la somma delle perdite non ureiche e non urinarie:
N urinario totale = N ureico urinario (80%) + altri composti azotati (20%)

Con buona approssimazione si può calcolare l’azoto ureico moltiplicando l’urea delle urine delle 24 ore × 0,46.
I fattori che possono condizionare l’accuratezza del bilancio azotato sono la difficoltà di misurare con precisione le perdite di
azoto non urinarie e la possibile inaccuratezza nella raccolta del campione di urine delle 24 ore.
Il bilancio azotato fornisce informazioni sull’entità del catabolismo proteico del pz.
Considerando che il soggetto normale perde con le urine meno di 5 g di N/ die, si possono riconoscere queste diverse
situazioni:
o catabolismo lieve: perdita di 5-10 g di N/ die
o // aumentato: perdita di 10-15 g di N/ die
o // grave: perdita di > 15 g di N/ die.

d) Indici multidimensionali di screening

e) Studio della composizione corporea (ad es. bioimpenziometria)

272
Screening dello stato nutrizionale
Viene generalmente effettuata mediante diversi questionari:
• MNA (Mini Nutritional Assessment): specifico per l’età geriatrica
• NRS (Nutritional Risk Screening): utile in ambito ospedaliero
• SGA (Subject Global Assessment): specifico per l’età geriatrica ed in ambito ospedaliero

• MUST (Malnutrition Universal Screening Tool): usato in ambito ospedaliero e di comunità.


Viene eseguito attraverso una serie di fasi:

Indicazioni della NA in Chirurgia nella fase peri-operatoria con evidenza grado A


• In presenza di malnutrizione moderata/severa, definita da almeno uno dei
seguenti parametri:
− calo ponderale ≥ 10-15% negli ultimi 6 mesi
− BMI < 18,5 (se oncologico BMI < 20,5)
− albumina sierica < 3,0 g/dL (senza insufficienza epatica o renale).

• Pz candidati ad interventi di chirurgia maggiore per patologia


oncologica del tratto GI superiore (ad es. gastrectomia totale) e della
testa-collo devono essere valutati indipendentemente dallo stato
nutrizionale alla presa in carico

• Pz ben nutriti ma impossibilitati ad alimentarsi per os per più di 7 giorni


perioperatori o di inadeguata assunzione orale (consumano <60% del
fabbisogno nutrizionale) per più di 10 giorni perioperatori.

273
NUTRIZIONE ENTERALE
È la metodica di prima scelta in tutti i pz con indicazione alla NA: il presupposto è che l’intestino sia integro, funzionante e accessibile.
Quando la NE non è sufficiente a coprire i fabbisogni del pz è indicata una nutrizione mista (NE+NP).
Si realizza somministrando le sostanze nutritive direttamente nell’intestino (bypassando sempre la bocca e l’esofago ed alcune volte anche lo
stomaco).
Vantaggi:
● Utilizza la via fisiologica
● Preserva la funzione intestinale (mantenimento funzionalità intestinale, trofismo della mucosa e capacità di assorbimento)
● Mantiene la funzione immunitaria intestinale (⇒ produzione di IgA)
● Riduce il rischio di complicanze gravi infettive
● Produce meno alterazioni metaboliche.

Controindicazioni:
 Occlusione intestinale con ostruzione meccanica
 Grave ischemia intestinale
 Fistole intestinale ad alta portata (perdite > 400 ml/die)
 Gravi alterazioni della funzione intestinale da enteropatie o riduzione della superficie assorbente (⇒ vomito e diarrea intrattabili, sindrome da
intestino corto con < 60 cm di ileo residuo, enteriti da CT o RT)

Mezzi di somministrazione:
• Sondini: Naso-Gastrico (SNG) o Naso-Digiunale (SND).
Si usano solitamente per brevi periodi (da 1 a 3 mesi) ed è necessario che non vi siano stenosi invalicabili
delle vie digestive alte

• Stomie: gastrostomia (PEG) e digiunostomia (PEJ).


Si utilizzano quando è richiesta la NE per un periodo prolungato.
La PEJ si posiziona quando non è possibile posizionare una PEG oppure non esiste uno stomaco.
Indicazioni alla PEJ:
− Esofagite da reflusso e/o rischio di «ab ingestis»
− Gastroparesi (ad es. da DM, patologie locali o sistemiche, farmaci...)
− Chirurgia del tratto GI superiore
− Neoplasie maligne gastriche, duodenali e pancreatiche non operabili (confezionata chirurgicamente o
per via percutanea endoscopica PEJ)
− Trattamento di alcune complicanze della chirurgia del tratto gastrointestinale superiore (anastomotic
leakage).

Esistono diverse miscele per la NE:


• naturali (con alimenti naturali freschi o preparati industrialmente)
• monomeriche/oligomeriche (nutrienti allo stato elementare)
• polimeriche
• specifiche per l’insufficienza d’organo (rene, fegato, DM, polmone, intestino corto)
• modulari (parzialmente complete e da integrare).

Le miscele per NE sono nutrizionalmente bilanciate (è possibile conoscere per filo e per segno cosa e
quanto è contenuto attraverso delle schede tecniche) e ne esistono con composizioni varie tra i vari
macrocomponenti: normocaloriche/normoproteiche, normocaloriche/iperproteiche,
ipercaloriche/normoproteiche, ipercaloriche/iperproteiche, ipocaloriche/iperproteiche, ecc).

Fabbisogno nutrizionale
Nelle forme lievi o moderate di malnutrizione, di più frequente riscontro nella pratica clinica, il supporto nutrizionale prevede la somministrazione di
25-35 kcal/ kg/ die associati a 0,8-1,5 g/ kg di proteine,
L’acqua deve essere fornita con la dieta in quantità adeguata: nell’adulto circa 35 mL/kg di acqua, cioè circa 1.500-2.000 mL di acqua al giorno.
Il fabbisogno di acqua aumenta con febbre, vomito, diarrea, sudorazione e in presenza di fistole enteriche.

Modalità di somministrazione
• Infusione pre-pilorica: richiede un normale svuotamento gastrico e può
essere somministrata:
− con nutripompa in modalità continua o discontinua/ciclica
− a boli (30-50 ml ogni 3-5 minuti)

• // post-pilorica: da usare per gastroparesi, ostruzione gastrica, dopo


interventi chirurgici sul tratto digestivo superiore e solo con
nutripompa.

Nello specifico esistono delle velocità alle quali impostare le pompe e che possono variare in base ai segmenti interessati dalla stomia.

274
Sbagliando la velocità di somministrazione rischio EC: diarrea, addominalgia, vomito con rischio di complicare in ab ingestis.
Complicanze delle NE

275
NUTRIZIONE PARENTERALE
Deve essere utilizzata solo quando vi sia una controindicazione alla NE o quando essa sia impraticabile.
Consiste nella somministrazione di nutrienti direttamente per ev, scavalcando l'apparato digerente.
Si pratica grazie a delle sacche che possono avere diverse preparazioni:
● Standard (industriali)
● Personalizzate (galeniche, preparate dalla farmacia dell'ospedale)

Le formulazioni in commercio sono classificate in base al numero di


compartimenti che le costituiscono: esistono quindi sacche definite
singole, binarie o terziarie.
Le soluzioni per nutrizione parenterale comprendono soluzioni con
singole componenti:
● sacca contenente solo amminoacidi (AA)
● // solo glucosio
● // solo lipidi.

È possibile ottenere sacche binarie unendo sacche contenenti ad es.


glucosio ed amminoacidi.
Aggiungendo anche i lipidi otteniamo una sacca terziaria, che viene
precostituita commercialmente.
Se alle sacche ternarie vengono aggiunte vitamine, oligoelementi ed
elettroliti si ottiene la miscela all-in-one, cioè tutto in uno.
Per somministrare al pz una sacca tricompartimentale è necessario scuotere la sacca e rompere i setti che distinguono le tre camere così che la
sacca diventerà una camera unica e si mischieranno i componenti da somministrare al paziente.

Gli oligoelementi contenuti nelle sacche all-in-one (zinco, rame, cromo, manganese, molibdeno, selenio, iodio e fluoro) non sono da ritenersi
indispensabile nelle NPT a breve termine ma vanno invece sempre somministrati nelle NPT a medio/lungo termine (>10 giorni) mediante fiale che
possono essere aggiunte direttamente nella sacca o infuse separatamente.
Tutte queste miscele non contengono né vitamine né oligoelementi; sono da aggiungere all’infusione.

Modalità di somministrazione
La NP presenta specifiche caratteristiche dettate dalla sede di infusione:
● via centrale: vena di grosso calibro.
Prevede l'utilizzo di un catetere che consente un collegamento tra l'esterno e una vena
centrale.
Questa sede è più pericolosa rispetto al posizionamento in una vena periferica, poiché il
catetere va direttamente all’interno della vena cava ed eventuali batteri possono transmigrare
dalla cute alla punta dello stesso.
I cateteri sono biocompatibili e arrivano in regione atrio-cavale poichè in questa sede
l’osmolarità delle soluzioni infuse viene istantaneamente diluita con l’osmolarità del sangue
della vena cava, evitando così il danno chimico sulla vena.

Tipi di catetere:

● via periferica: vena di piccolo calibro.


Prevede l’inserzione di un midline, cioè un catetere venoso di
piccolo calibro che arriva a livello della vena ascellare.
Esiste anche il mini midline, tale per cui la punta si ferma all'interno
del braccio ed è lungo circa 5-6 cm.

Fattori determinanti/limitanti il loro diverso utilizzo:


● necessità di somministrare elevati volumi di liquidi per
raggiungere l’obiettivo nutrizionale
● necessità di mantenere un’osmolarità accettabile

276
La densità calorica corrisponde a quante calorie sono presenti per ml di soluzione (questo concetto vale sia per le pappe da NE che per le sacche da
NP):
− Quando devo infondere una nutrizione per ev attraverso una via periferica (piccola) necessariamente devo utilizzare una densità calorica
bassa: maggiore quantità di acqua rispetto al glucosio, al lipide e all'amminoacido; generalmente il rapporto è 0,7 calorie ogni ml di acqua

− Quando invece ho a disposizione una via centrale di grosso calibro il rapporto di solito è 1:1 o anche 1,1:1 o 1,2:1.

Questa differenza è fondamentale perché, aumentando la concentrazione degli elementi nell'acqua, aumento l’osmolarità: infondendo delle nutrizioni
che hanno osmolarità tre/quattro volte maggiore, per non rischiare un’occlusione acuta della vena da irritazione chimica, è necessario avere una vena
di grosso calibro ed è per questo che la differenza tra nutrizione parenterale periferica e centrale è legata alla densità calorica, strettamente legata al
concetto osmolarità.

Complicanze:
• Precoci: si possono riscontrare dal primo giorno fino alle prime due/tre settimane di somministrazione e riguardano:
− squilibri idroelettrolitici
− alterazioni del metabolismo: ipertrigliceridemia e iperglicemia
− alterazioni EAB
− sindrome da refeeding.

• Tardive: si manifestano di solito dopo un mese dall'inizio della


nutrizione e sono quasi specifiche per la nutrizione endovena:
− alterazioni epatobiliari: alterazione della funzione
epatica fino a colestasi intraepatica
− alterazione del metabolismo osseo: alterazione del
riassorbimento di fosfato e calcio dalle ossa
− alterazione dell'apparato gastroenterico
− carenze di micronutrienti e di vitamine, nel caso in
cui le miscele non vengano ben bilanciate.

Fabbisogni calorico-proteici nel perioperatorio


Normalmente, dopo interventi chirurgici, si consiglia la somministrazione di 25-30 kcal/ kg di peso corporeo/ die.
La somministrazione quotidiana di aminoacidi pari a 1,5 g/ kg di peso corporeo/ die è generalmente efficace nel limitare le perdite di azoto.
Nelle patologie acute e croniche la richiesta energetica aumenta rispetto ai valori proposti dalle equazioni di Harris-Benedict; essa, però, non supera
in media il 120-130% del valore predittivo.

È di fondamentale importanza evitare di ipernutrire il pz.


L’ipernutrizione, infatti, ha come conseguenza l’incremento della spesa energetica, del consumo di ossigeno e della produzione di anidride carbonica.
In particolare, nei pz gravemente malnutriti, con alterata funzionalità cardiaca, ventilatoria e respiratoria, gli effetti di un’ipernutrizione possono
essere deleteri.
Oltre alla sindrome da refeeding, essa può causare la degenerazione grassa del fegato, colestasi e ipertrigliceridemia.

Refeeding syndrome
Si verifica in corso di rialimentazione dopo grave malnutrizione calorico
proteica.
La complicanza si verifica in corso di terapia medica rialimentando un pz
che prima non mangiava, dunque con un metabolismo adattato all'utilizzo
come fonte energetica di grassi e di corpi chetonici (prodotti dallo
smantellamento degli acidi grassi da parte dei mitocondri).

Vede alla base un sovradosaggio di calorie in un pz che non è in grado di


gestirle.
La malnutrizione calorico proteica porta, come abbiamo visto, a deficit di
sali minerali intracellulari e vitamine e
riduzione della massa magra e di tutti gli organi.
Le alterazioni spesso non sono evidenti agli esami di laboratorio.
Queste alterazioni però diventano evidenti con una rialimentazione non
adeguata: se si somministrano elevate quantità di carboidrati si stimola un’ipersecrezione dell'insulina con passaggio di fosforo nelle cellule e con
aumentata sintesi proteica.
L’insulina è anabolizzante, dunque agisce sui recettori che attivano la trascrizione proteica.
Il pz malnutrito non è in grado di gestire questa cascata ormonale, ed ecco così che se è aumentata la richiesta intracellulare di potassio, magnesio,
fosforo e vitamine.

277
La sola somministrazione di glucosio non accompagnata da quantità adeguate di sali minerali e vitamine scatena un deficit acuto di
micronutrienti, in particolare di fosforo.
Inoltre il glucosio e l’insulina riducono l'escrezione di sodio ed acqua e il pz trattiene liquidi e si gonfia.
Il pz non ha muscolo dove mettere l'acqua ed è così che sviluppa un edema polmonare, un versamento pericardico e edemi declivi.
Il fosforo serve per produrre ATP, e se non ho fosforo non posso produrre ATP e se non ho ATP il sistema si blocca: non c'è energia per mandarlo
avanti.

SINDROME da INTESTINO CORTO (SBS)


È determinata da un’insufficiente superficie assorbente intestinale dovuta una riduzione della lunghezza dell'intestino tenue.
Le principali funzioni digestive ed assorbitive sono localizzate nell'intestino tenue ⇛ quadro clinico di malassorbimento e di di malnutrizione.

La lunghezza dell’intestino tenue nell’uomo varia da 3 a 8 m.


La SBS si sviluppa quando la lunghezza del tenue residuo è:
• < 200 cm senza colon in sede
• < 50 cm con il colon

Caratteristiche cliniche:

Complicanze a lungo termine:


● Calcoli renali e biliari (maggiormente in pz senza valvola ileocecale)
● Disidratazione
● Deficit di Mg
● Squilibrio elettrolitico e alterazioni acido-base
● Complicazioni metaboliche come acidosi D-lattica (acidosi metabolica) e iperammoniemia.

I pz con SBS hanno uno stato di malassorbimento cronico per il quale è necessario molto spesso il supporto nutrizionale.
I supplementi nutrizionali devono essere dati normalmente 24-48h dopo l’intervento chirurgico per prevenire la perdita di massa magra.
I pz che non sono in grado di aumentare la loro nutrizione per via orale o non sono in grado di assorbire energia sufficiente richiedono
necessariamente supporto nutrizionale endovenoso.

L’intestino corto si può complicare in insufficienza intestinale cronica, che è definita come una riduzione della funzione intestinale al di sotto del
minimo necessario per l’assorbimento di macronutrienti e/o acqua ed elettroliti, tale da richiedere la supplementazione ev per mantenere lo stato di
salute o la crescita.
La riduzione della funzione di assorbimento che non necessita di supplementazione ev può essere considerata deficit di funzione intestinale.
Negli adulti la SBS è la più comune causa di insufficienza intestinale cronica (75% dei casi)

Gestione della SBS


1) Fase acuta: nelle prime 3-4 settimane bisogna prevenire la disidratazione.
Questi pz perdono bicarbonato dalla stomia, quindi bisogna dare infusione di liquidi, elettroliti e bicarbonati se serve

2) Fase di adattamento intestinale: va da 6 a 24 mesi dopo la resezione.


Bisogna mantenere lo stato nutrizionale, stimolare l'intestino ad ipertrofizzarsi e proseguire una supplementazione nutrizionale sia ev che
orale
3) Fase di mantenimento: l’insufficienza intestinale è sotto controllo.
I villi intestinali si ipertrofizzano e dunque l’intestino si è adattato a gestire la nutrizione anche in caso di importanti resezioni.
Richiede da 6 a 24 mesi ma alcuni pz, in casi rari, possono raggiungerla anche dopo 5 anni.

IMMUNONUTRIZIONE CHIRURGICA
È un trattamento nutrizionale a sostegno di una efficace risposta immunitaria che si effettua con formulazioni arricchite di immunomodulanti
(⇒ glutammina, arginina, acidi grassi della serie w-3, RNA).
Negli ultimi anni diversi studi hanno dimostrato che pz trattati con immunonutrienti prima e dopo la chirurgia elettiva maggiore del tratto GI hanno
una riduzione significativa delle complicanze infettive post-operatorie e dei tempi di degenza ospedaliera.

278
PATOLOGIE INFETTIVE in CHIRURGIA

INFEZIONE del SITO CHIRURGICO


È l’infezione della sede di incisione, che può riguardare tessuti molli, organi più profondi o anche
cavità. Profilassi: si fa per prevenire un’infezione.

Terapia: si fa per curare una malattia, quando ormai


Si manifestano necessariamente entro 30 giorni dall’intervento (perché sono infezioni nosocomiali)
l’infezione è avvenuta
o 90 giorni nel caso del posizionamento di protesi.
Colonizzazione: non è un’infezione.
Definizioni dell’ECDC Ci sono dei batteri sulla mia mano, questi crescono,
➢ Infezione incisionale superficiale: si verifica entro 30 giorni, coinvolge solo cute o ma non fanno un danno e non danno segni o sintomi
sottocute e presenta almeno una delle seguenti caratteristiche: dell’infezione.
L’esempio più classico è lo stafilococco epidermidis
− secrezione purulenta
− esame colturale positivo su campioni di tessuto o fluido prelevati asetticamente Infezione: i germi ci sono, crescono e fanno un danno
− almeno una fra i seguenti segni/sintomi: dolore o lassità dei tessuti, edema locale
localizzato, rubor, calor
− l’incisione deve essere riaperta dal chirurgo Contaminazione: non è una colonizzazione.
È la presenza di un germe in un sito, senza che questo
Non vanno diagnosticate come infezioni superficiali di ferita chirurgica: proliferi o cresca.
o Ascesso della sutura (infiammazione e secrezioni minmaili unicamente dai punti
di sutura)
o Infezioni di episiotomia o dopo circoncisione dei neonati
o Infezioni di ustioni

➢ Infezione incisionale profonda: si verifica entro 30 giorni dall’intervento o entro un anno in presenza di materiale impiantabile, coinvolge
i tessuti molli più profondi (come fascia e tessuti muscolari) e presenta almeno una delle caratteristiche di cui sopra

➢ Infezione di organi e spazi.

Nel 2011-12 e poi 2016-2017 l’ECDC (European center for disease, prevention and control) ha dimostrato che almeno il 6% dei pz ricoverati hanno
un’infezione nosocomiale legata all’assistenza.
Il 20% delle infezioni correlate all’assistenza sono infezioni del sito chirurgico, ma non tutti gli interventi hanno la stessa incidenza: ci sono siti
definiti “puliti” dove le infezioni del sito chirurgico sono rare (ad es. la tiroide), mentre in chirurgia addominale invece gli organi non sono sterili e
le infezioni del sito chirurgico possono arrivare al 13%.

Agente eziologico
Varia a seconda di diversi fattori:
• Se l’insorgenza dell’infezione è molto precoce (entro le 48 h), bisogna pensare a germi particolarmente aggressivi come S. pyogenes o C.
difficile
• Per la chirurgia pulita (come la chirurgia ortopedica, la chirurgia cardiaca, l’oculistica, la neurochirurgia, chirurgia della mammella) gli
agenti eziologici più frequentemente coinvolti sono i Gram +: S. aureus, S. coagulasi negativi, quali S.epidermidis e S. Hominis,
• Per la chirurgia intestinale e urologica, i tipi di germi più frequentemente coinvolti sono Gram + ma soprattutto Gram – anaerobi saprofiti
dell’addome
• Per la chirurgia vascolare l’intervento è pulito o sporco a seconda della sede (ad esempio le carotidi sono una sede pulita a differenza della
aorta addominale e ciò influenza pertanto l’eziologia di un’eventuale infezione della ferita).
• Infine, nella chirurgia ostetrico ginecologica, oltre ai batteri Gram - intestinali, vi sono anche i batteri del tratto ostetrico ginecologico
(Streptococco Agalactie B e anaerobi).

Diagnosi
Parte da un sospetto clinico.
I segnali da ricercare sono: dolore, edema, eritema, secrezione purulenta e febbre se l’infezione ha coinvolgimento sistemico.
Bisogna guadare la ferita, le medicazioni devono essere trasparenti o, se spesse, vanno cambiate ogni 48h.

Dopodiché occorre procedere con accertamenti:


• Esami ematochimici: emocromo con formula, PCR, VES

• Emocolture se febbre

• Esame colturale delle secrezioni: è la cosa più importante perché, una volta iniziata la terapia empirica antibiotica, non sapere quale
germe ha causato l’infezione rende molto complicato impostare la terapia specifica.

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• Esami strumentali: ECO o TC nel sospetto di infezioni profonde
• Esame colturale su secrezioni purulente aspirate o su aspirato/campione di tessuti profondi: se la ferita secerne pus, bisognerebbe
aspirare il pus: sia perché in questo modo si aumenta di molto la quantità di batteri raccolti, sia perché il tampone superficiale non
sempre è il metodo più adeguato per trasportare i batteri e ciò può ostacolarne la crescita

• Esame colturale del liquido di drenaggio: mettendo un drenaggio in sede addominale, il tubo verrà colonizzato dai germi della cute e
dell’intestino in 24-48h: pertanto quello che cresce in questo drenaggio, soprattutto se il pz sta bene, non è un germe responsabile di
infezione, ma di colonizzazione.

Se, invece, il pz sta male e si decide di fare un esame colturale, c’è il rischio che i germi colonizzanti abbiano preso il sopravvento su
quelli patogeni ⇛ si deve togliere il drenaggio, metterne uno nuovo e solo a quel punto fare l’esame colturale.
L’isolamento dei batteri dal drenaggio è considerato attendibile se posizionato da meno di 48h, dopo di che i batteri sono considerati
sempre colonizzanti.
Per quanto riguarda la candida, invece, servono anche meno di 24h.

Terapia
➢ Per le infezioni superficiali:
− Riaprire la ferita ed evacuare il materiale purulento, mandandolo al colturale
− Effettuare medicazioni locali
− Valutare l’antibiotico: ad es. se il pz è febbrile, presenta valori di PCR mossi, secrezione dalla ferita e ha effettuato una
revisione, si può aspettare l’esame colturale:
o se l’esame culturale è negativo e la ferita va bene con la sola medicazione non si tratta il pz
o al contrario il trattamento antibiotico va valutato.

➢ Per le infezioni profonde:


− Esami colturale prima di iniziare antibiotico
− Bonifica
− Terapia antibiotica empirica, con piperacillina-tazobactam (a dosaggio standard 4,5g x 4volte/die) ± vancomicina (2g/die
in infusione continua, dopo dose di carico 1g) se sospetto gram+ multiresistenti (come MRSA).
Tale associazione si effettua soprattutto nelle chirurgie pulite (neurochirurgia, cardiochirurgia, chirurgia vascolare e
l’ortopedia).
Per vedere se il pz è un portatore di MRSA si può effettuare in fase pre-operatoria un tampone nasale: se il tampone risulta
positivo per MRSA si effettuerà una profilassi pre-operatoria utilizzando anche la vancomicina

La terapia di un’infezione non complicata dura mediamente 7-10 gg; tuttavia, può essere prolungata in caso di ascessi o raccolte
da drenare.

Prevenzione
Prima dell’intervento:
• fare smettere di fumare il pz (almeno 4 settimane prima) perchè il fumo causa alterazioni del microcircolo, che in caso di presenza i batteri
favoriscono l’infezione
• selezionare i pz: se un pz ha un’infezione in corso (ad es. IVU), se possibile, sarebbe meglio non operarlo proprio in quel momento e
aspettare la guarigione dell’infezione
• far lavare il pz con doccia o bagno la sera antecedente al giorno della chirurgia
• evitare di radere la parte operata con il rasoio (che causa microlesioni che potrebbero favorire la penetrazione di batteri), usando invece il
clipper
• fare antibiotico profilassi quando raccomandato
• utilizzare soluzioni di clorexidina su base alcolica per preparare la pelle all’intervento

Durante l’intervento:
• mantenere un’adeguata temperatura corporea del pz
• mantenere livelli di glicemia < 200 mg/dl
• forte disciplina in sala operatoria

Nel post-operatorio:
• controllo della glicemia
• utilizzo di garze sterili per coprire la ferita e monitoraggio
• igiene delle mani
• doccia al pz dopo 48h.

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PROFILASSI ANTIBIOTICA PERI-OPERATORIA
Serve a ridurre solamente le infezioni del sito chirurgico, non le infezioni nel post-operatorio in senso generale.
Le linee guida italiane (2011) forniscono diverse indicazioni:
• somministrare l’antibiotico prima che avvenga la contaminazione batterica; non tutti gli interventi richiedono la profilassi antibiotica,
alcuni hanno un tasso di incidenza di infezioni del sito chirurgico talmente basso che non è “cost effective” dare l’antibiotico
• tipo di antibiotico da utilizzare
• minimizzare gli effetti che l’antibiotico ha sulla flora microbica del pz: l’antibiotico necessariamente modifica la flora batterica, quindi un
antibiotico inappropriato farebbe sì che la prossima infezione del sito chirurgico non sia più da germi multisensibili, ma probabilmente da
germi multiresistenti, perché già sottoposti ad un trattamento antibiotico
• minimizzare gli effetti indesiderati; essendo una profilassi non necessariamente quel pz avrà un’infezione del sito chirugico, quindi si deve
evitare di dare EC ad un individuo che sta bene
• minimizzare modificazioni alle difese immunitarie del pz
• la profilassi perioperatoria non è finalizzata a proteggere dalle infezioni post-operatorie
• stratificare il rischio di ogni pz (ASA score).

Stratificazione del rischio


Non tutti i pz hanno lo stesso rischio di sviluppare infezioni.
C’è uno score per stratificare il rischio, nato per gli anestesisti, che si chiama ASA
score (da 1 a 5): i pz con score più elevati hanno un rischio maggiore di sviluppare
infezioni.

Ad aumentare il rischio di infezioni concorrono:


• Presenza di malattie concomitanti nel pz
• Durata dell’intervento: più l’intervento è breve, minore è il rischio
• Classe di intervento:

Criteri di somministrazione
• Momento di somministrazione
Bisogna avere il picco di concentrazione plasmatica quando si sta per fare l’incisione cutanea, pertanto occorre somministrare
l’antibiotico 30 -60 minuti prima dell’incisione (la vancomicina 90 minuti prima)

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• Tempo totale di somministrazione
La terapia serve a ridurre l’incidenza delle infezioni del sito chirurgico per cui, essendo l’incisione il periodo di maggior vulnerabilità, si fa
una sola somministrazione prima dell’intervento per coprire quel preciso momento.
Ci sono due indicazioni per effettuare una dose intraoperatoria:
− Interventi molto lunghi hanno rischio aumentato: ogni farmaco ha una sua emivita e se la durata dell’intervento fosse il
doppio dell’emivita del farmaco somministrato, bisognerà fare anche una somministrazione intraoperatoria

− Se il pz perde molto sangue (più di 1,5L), bisogna fare un’altra somministrazione, perché la concentrazione del farmaco cala.

Ci sono rare eccezioni che giustificano la somministrazione nel post-operatorio, ma solo per pz con elevatissimo rischio di infezioni del
sito chirurgico: la somministrazione si fa in questo entro le 24h successive.
La presenza di un drenaggio non giustifica la prosecuzione della profilassi.

• Scelta della molecola


Deve avere azione battericida, non batteriostatica, e
profilo farmacocinetico idoneo, con spettro
comprendente i patogeni contaminanti più comuni, e
efficacia verso i patterns di resistenza prevalenti
nell’ecosistema locale (slide).
I farmaci ottimali sono le cefalosporine di I (cefazolina)
e II gen.
La III generazione (ceftriaxone) è da evitare perché ha
uno spettro molto più ampio, che in questo caso non
serve, e potrebbe indurre resistenze ⇛ va riservata per la
terapia.
La somministrazione è sempre per ev.

Nella chirurgia colorettale, se si utilizza una


cefalosporina di II gen. bisogna associare il
metronidazolo, perché le cefalosporine non sono attive
sugli anaerobi.
L’ampicillina sulbactam, invece, è attiva anche sugli
anaerobi, quindi il metronidazolo non è più necessario.

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INFEZIONI INTRA-ADDOMINALI
Si distinguono in:
• Normali: limitate al singolo viscere (ad es. appendicite)
• Complicate: nel caso l’infezione si estenda dal viscere cavo allo spazio peritoneale, dando quindi ascesso o peritonite.

• Comunitarie: insorge nelle prime 48 h dal ricovero


• Nosocomiali.

Agenti eziologici
La flora batterica varia a seconda del tratto GI considerato:
• nello stomaco: troviamo pochi batteri a causa dell’elevato pH, gli unici riscontrabili sono lattobacilli
• nel tenue: streptococchi, lattobacilli, enterobacteriaceae
• Nel colon:
− La flora dominante è rappresentata dagli anaerobi: Bacteroides, Prevotella, Bifidobacterium, Clostridi
− la subdominante è costituita da anaerobi facoltativi: Enterobacteriaceae (soprattutto E. coli), Streptococchi, Enterococchi
− infine troviamo una flora rada costituita da Klebsiella, Citrobacter e Proteus e una flora transitoria costituita da Pseudomonas e
Candida, che danno infezioni solo in caso di alterazione della restante flora a causa di antibiotici ed operazioni.

L’uso degli antibiotici altera la flora batterica fisiologica, in particolare:


• cefalosporine di III gen
• fluorochinoloni (ciprofloxacina e levofloxacina).

Non posso utilizzarli in profilassi e vanno utilizzati quasi sempre come seconda linea.

Le peritoniti primarie sono normalmente date da un singolo agente, mentre quelle secondarie e terziarie sono polimicrobiche, in cui troviamo
soprattutto anaerobi e anaerobi facoltativi.
Nelle infezioni nosocomiali occorre poi considerare P. aeruginosa, Enterococchi, MRSA, che fanno parte della flora rada, che normalmente non dà
infezione, ma che in ospedale può darla a causa dell’assunzione degli antibiotici.

Ogni ospedale possiede una personale flora batterica e quindi è stata cercata quella del Civile.
Tra tutte le colture nelle chirurgie, la componente principale è rappresentata da gram negativi,41 % gram positivi e 4% funghi.
Il più frequente in assoluto è l’E. coli: lo troviamo anche nelle emocolture, anche se il patogeno più frequente nelle emocolture è lo Stafilococco
Epidermidis coagulasi negativo, che però è un contaminante e non un colonizzante.

Terapia
Consiste innanzitutto nel “source control”, ovvero nella ricerca ed eliminazione del focolaio settico:
− Drenaggio: in caso di ascesso intraddominale, empiema pleurico, pielonefrite o colangite
− Asportazione di parti necrotiche: come in caso di infarto intestinale, fascite necrotizzante e necrosi pancreatica infetta, in quanto le zone
necrotiche possono sovra
− Rimozione dei presidi: protesi, catetere vascolari di tutti i tipi, catetere vescicale, tubo endotracheale colonizzato
− Controllo definitivo: ad es. tramite resezione sigma per diverticolite, colecistectomia per colecistite o amputazione per mionecrosi (spesso
nei diabetici, dove gli stati settici originano dagli arti necrotici).

La terapia antibiotica empirica è da applicare il prima possibile: una terapia ritardata oltre le 24h aumenta la mortalità.
Terapia antibiotica di prima scelta nelle:
• infezioni comunitarie medio-moderate:
− ampicillina-sulbactam per ev (3g x 3-4 volte/die), attiva sul 95% degli anaerobi, mentre le cefalosporine e fluorochinoloni no.
− In alternativa: ceftriaxone+ metronidazolo per ev.
− In caso di allergia alle penicilline: ciprofloxacina + metronidazolo per ev

• infezione comunitaria grave o ospedaliera:


− piperacillina-tazobactam (4,5g x 4 volte/die, copre lo Psudomonas) + amikacina (aminoglicoside superbattericida) per ev.
− In alternativa, nei casi più estremi: (per evitare insorgenza di resistenze): Meropenem per ev
− In caso di allergia alle penicilline, amikacina+ tigeciclina per ev.

Fondamentale è poi la de-escalation della terapia nel momento in cui arriva un isolamento affidabile, aggiustando la terapia antibiotica e se possibile
somministrandola per os.

Non esiste una durata precisa, perché ogni pz risponde in maniera diversa: si impiegano 5-7 giorni se è stata fatta una source control corretta.
La terapia sarebbe comunque da proseguire fino a quando il pz è apiretico, non ha più leucocitosi e ha ripreso la funzionalità GI.

Nei casi più gravi con batteri difficilmente eradicabili (⇒ infezioni da Candida, S. aureus, germi MDR, pancreatite necrotizzante infetta) può essere
necessario proseguire anche per 2-3 settimane, fino a 6 settimane in caso di ascesso non sufficientemente drenato.

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Bisogna anche sapere gestire la sepsi, che si può sospettare tramite il qSOFA, score di
derivazione semplificata dello score SOFA rianimatorio:
• Stato mentale alterato ⇒ GCS ≤ 14
• Ipotensione ⇒ PAS < 100 mm-hg oppure pz iperteso ma con PAS molto inferiore ai
suoi standard
• Tachipnea ⇒ FR > 22.

In tal caso bisogna procedere secondo l’acronimo CAVOLO:


- Colture
- Antibiotico: entro la prima h
- Volemia: le sepsi spesso danno ipotensione e dobbiamo saperla ripristinare
- Ossigenoterapia: la sepsi consuma ossigeno e dobbiamo misurare la saturazione e far sì che il pz saturi almeno 92-94 %
- Lattati: indice diretto dell’anaerobiosi che si sta verificando, importanti marcatori di shock settico
- Output urine: è un parametro indiretto dell’emodinamica.

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DEISCENZA ANASTOMOTICA
Riapertura spontanea di una ferita (o anastomosi) precedentemente suturata, che rappresenta una
complicanza post-operatoria piuttosto temuta.

Criteri generali che definiscono un’anastomosi ben eseguita:


• Preservare le labbra (lips) dei monconi anastomizzati, che devono essere approssimati senza tensione

• Includere nella sutura meno tessuto possibile

• I due monconi intestinali devono essere vascolarizzati dai propri vasi: per valutare tale aspetto si può osservare
il colore del viscere (roseo) o con le mani palpare le arterie e valutarne la pulsazione; a Brescia si procede normalmente con
strumentazione doppler o sfruttando coloranti come il verde indocianina per osservare la perfusione del viscere.

Conseguenze delle deiscenze anastomotiche:


• a breve termine:
− Sepsi causata della fuoriuscita di materiale enterale: si verifica soprattutto per anastomosi
intraperitoneali e non drenate
− Complicanze emorragiche
− Possibilità di guarigione spontanea.

• a lungo termine:
− Significato “funzionale” del leakage: parte dell’intestino può diventare insufficiente ed
andare incontro ad atrofia, soprattutto quando escluso dal transito intestinale per lungo
tempo

− // “oncologico” del leakage: rischio aumentato di recidiva neoplastica locale e a distanza.

In chirurgia generale, la maggiore incidenza di deiscenza


(leakage) si ha nella chirurgia gastrica, del pancreas (32%
dei casi), del colon e del retto (11% dei casi), unitamente a
fdr, quali: sesso M, pregressa RT, ampia contaminazione del
sito chirurgico, emorragia intraoperatoria.

Deiscenze nella chirurgia colon-rettale


Sono tanto più frequenti quanto più la resezione è bassa nel
retto.

Fondamentale per la prevenzione è la diverting stoma: si


procede con un’ileo o colon-stomia protettiva a monte,
lasciando temporaneamente l’anastomosi senza il passaggio di feci per aiutare la guarigione della sutura.
Si utilizza selettivamente in presenza di fdr per alto rischio di leakage.

La prassi a Brescia per la chirurgia del retto prevede:


1. Preparazione meccanica del grosso intestino: dieta particolare 3 giorni prima dell’intervento con sostanze che facilitano l’evacuazione

2. Posizionamento di drenaggio chiuso nella pelvi: permette di diagnosticare più rapidamente un’eventuale deiscenza e ne facilita una
guarigione spontanea (una deiscenza non può guarire se non c’è drenaggio)

3. Omentopessi (se fattibile): si posiziona una porzione di omento a livello della cavità che si crea per evitare la formazione di spazi vuoti
che facilitano la formazione di ematomi e sieromi che si possono infettare

4. Extra-peritoneizzazione dell’anastomosi: cosicché eventuali complicanze si sviluppino al di fuori del peritoneo

5. Colon-stomia (no ileo-stomia): in casi selezionati.

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Classificazione di Clavien-Dindo
Suddivide le complicanze post-operatorie a seconda del loro impatto clinico in cinque gradi:

• Grado I: complicanze lievi, che determinino una modifica del normale decorso post-operatorio,
trattabili con analgesici, antipiretici, diuretici, infusioni elettrolitiche, antiemetici, fisioterapia

• // II: complicanze che necessitano di trattamento farmacologico più impegnativo che nel grado I;
sono comprese emotrasfusioni e nutrizione parenterale totale

• // III: // trattamento chirurgico, endoscopico e/o radiologico:


− 3a: senza anestesia generale (ad es. protesi o drenaggio)
− 3b: in anestesia generale

• // IV: complicanze potenzialmente a rischio di morte (incluse quelle a livello del SNC) che
richiedono ricovero in Unità di Terapia Intensiva:
− IVa: singola disfunzione d’organo (compresa dialisi)
− IVb: multipla //

• // V: decesso del pz.

Tale suddivisione è poi traducibile nella differenziazione in leakage radiologico, minore e maggiore sulla
base dell’impatto che determina sul pz e della necessità di reintervento.
In altre parole, un leakage è tanto più grave quanto più richiede una modifica sostanziale dell’abituale iter
terapeutico del malato, fino anche al reintervento.

DEISCENZE ANASTOMOTICHE SUBCLINICHE/RADIOLOGICHE


Non comportano un quadro sintomatologico e son rilevabili mediante alcuni test, come:
• controllo del transito dopo gastrectomia totale prima di consentire al pz la ripresa
dell’alimentazione: si utilizza il Gastrografin (un mdc idrosolubile e non irritante per il peritoneo) e si osserva in
fluoroscopia se il mdc fuoriesce dall’anastomosi

• clisma opaco dopo intervento a livello del-colon retto.

Management: mantenere il pz a digiuno e il quadro si risolve spontaneamente.


Tuttavia, occorre non sottovalutare tale quadro in quanto può essere precursore di complicanza settica e
determinare un ritardo nella ripresa dell’alimentazione e prolungamento della degenza ospedaliera.
In ambito oncologico, il vero problema è il ritardo di inizio di CT, in quanto è necessario aspettare 30-40
gg, dal momento che la CT su suture recenti non è indicata.

DEISCENZE ANASTOMOTICHE CLINICAMENTE RILEVANTI


Sono distinte in:
● Clinical Minor Leak (Contained Leak): possono causare peritonismo localizzato o ascesso para-
anastomotico

● Clinical Major Leak (Free Leak): possono causare peritonite locale o diffusa.

Lo studio “Leackage mascherata come complicanza cardiaca” evidenza come tutti i casi (100%) di
leakage minor fossero misconosciuti all’inizio.
Nell’86% dei casi questi pz vennero trattati inizialmente per cardiopatia: il segno sospetto principale era una
FA nel postoperatorio.
Il 43% dei pz con sintomi cardiaci avevano in realtà una deiscenza anastomotica: questo può portare ad un
ritardo diagnostico di oltre 11 gg.

286
Spesso i malati vengono dimessi dall’ospedale senza una diagnosi corretta: si tende infatti ad interpretare la
non completa ripresa del soggetto come un elemento legato al disagio che il pz prova in ospedale,
aspettandosi che questo quadro si risolva in seguito a dimissione.

Management: è mirato in prima istanza al controllo della sepsi (altrimenti la deiscenza non può andare incontro a
guarigione spontanea), pertanto occorre:
1. Drenare il materiale infetto
2. Eradicare la fonte di infezione
3. Prevenire la recidiva di sepsi.

La scelta del trattamento varia a seconda che l’anastomosi sia:

Anastomosi Anastomosi
intra-peritoneale extra-peritoneale
Incidenza Minore Maggiore
Fdr Legati al pz e al grado di Legati alla sede
contaminazione del campo dell’anastomosi (“the lower
the anastomosis, the higher
the risk”)
Stomia di protezione Quasi mai Utilizzo di routine/selettivo
Mortalità correlata Maggiore (peritonite diffusa) Minore (spesso
paucisintomatica)
Terapia del leakage:
▪ Endoscopia/radiologia − Bassa efficacia − In casi selezionati
▪ Reintervento − Spesso demolitivo su anastomosi − Spesso conservativo
▪ Colostomia secondaria − Generalmente temporanea − Più spesso definitiva

▪ Il trattamento medico (⇒ terapia antibiotica e nutrizionale) viene applicato in tutti i pz

▪ In casi selezionati con peritonite circoscritta e pz a basso rischio, si può intervenire con
trattamento radiologico/endoscopico: ad es. posizionando uno stent che sigilli l’area anastomotica
permettendo alla fistola di guarire, utilizzando una colla biologica o un drenaggio percutaneo

▪ La terza opzione è il trattamento chirurgico: si sceglie tale opzione in tutti i casi che non
soddisfano i criteri per terapia conservativa/dopo fallimento terapia conservativa.
Si tende a confezionare una stomia nella quasi totalità dei casi.
Se si sceglie di mantenere l’anastomosi è necessario posizionare un drenaggio e fare una stomia a
monte: questo si verifica soprattutto in caso di anastomosi bassa (ad es. 2 cm dall’ano) perché se si
decidesse di demolirla poi sarebbe molto difficile rioperare e ricanalizzare il pz.
Molto diverso è invece il caso in cui si tratti di un’anastomosi ileale, dove la demolizione
dell’anastomosi non compromette la possibilità di ricanalizzare successivamente il pz.

In linea generale, soprattutto per le deiscenze più alte è sempre da preferire una resezione
dell’anastomosi rispetto ad una revisione della stessa.

DEISCENZA ANASTOMOTICA unita ad ASCESSO


La deiscenza anastomotica può portare alla fuoriuscita di liquido enterico e alla conseguente formazione
dell’ascesso para-anastomotico.
Se l’ascesso si rompe:
− all’interno del lume peritoneale, può andare incontro a guarigione
− nel peritoneo, può portare a peritonite generalizzata.

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Anche un ematoma può portare ad un ascesso ed è
per questo che la pulizia ed una buona emostasi
durante l’intervento sono fondamentali.
A sua volta, questo ascesso può andare incontro a
rottura in sede di anastomosi e determinare lui stesso
la deiscenza anastomotica.

Si ha sospetto di ascesso legato a deiscenza


anastomotica quando:
• Il test dell’aria risulta positivo.
Questo test prevede che, confezionata l’anastomosi, si inserisce
una sonda simile ad un catetere vescicale nel retto, si insuffla
aria, si versa dell’acqua dove presente l’anastomosi e si osserva
se si formano bolle aeree.

• Presenza di materiale fecaloide nel drenaggio

• Mancata risposta alla terapia conservativa e al drenaggio: perché anche se dreno l’ascesso questo, essendo a contatto
con la deiscenza, continua a riformarsi.

Una deiscenza anastomotica non obbligatoriamente porta ad ascesso, perché se il leakage è ben drenato, l’ascesso non si forma.
Attenzione che una raccolta di liquido sieroso (anche di 300 cc) nel cavo peritoneale in seguito a intervento si forma sempre, ma ciò non significa per
forza trovare un ascesso.
La pelvi extra-peritoneale è uno spazio virtuale nel pz non operato, mentre nel pz operato, a cui sono stati rimossi retto e mesoretto, si crea una
cavità molto grossa, non rivestita da peritoneo e non in grado, quindi, di riassorbire liquidi.
A questo livello non è presente una superficie innervata e qui può raccogliersi una grande quantità di liquido, anche con caratteristiche settiche,
senza alcuna manifestazione clinica, passando inosservata.

Management: prevede innanzitutto drenaggio (se ≥ 3 cm affinché il “ricciolo” finale del drenaggio percutaneo abbia fisicamente
spazio per drenare) o aspirazione (se più piccolo) dell’ascesso, in concordanza con il principio di controllo della
sepsi.
Si procede di norma con un drenaggio radiologico a meno che, per aspetti tecnici, non ci siano difficoltà a raggiungere l’ascesso; ecco che in questo
caso si procede col drenaggio chirurgico.

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