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CLINICA MEDICA

INDICE
EMATOLOGIA Cardiomiopatie p189
MM p4 Cardiopatie congenite p194
Amiloidosi p12 Ipertofia del vs p197
Plasmacitoma p16 Cardiopatia ischemica cronica p198
Elettroforesi p17 SCA p203
Anemie p20 Complicanze IMA p211
S. mielodisplasiche p34 Nitrati p212
S. mieloproliferative acute p36 Ipotensione ortostatica p214
S. mieloproliferative croniche p38 Sincope p215
Linfomi p42 ECG e alterazioni p211
Leucemie linfatiche p46 BDB p225
Piastrinopatie p50 Pause all’ECG p226
Piastrinopenie p52 BAV p228
Piastrinosi p57 Aritmie ipocinetiche p230
Coagulopatie p58 Tachiaritmie atriali p231
Tachiaritmie giunzionali p233
CARDIOLOGIA Tachiartmie ventricolari p234
Prevenzione cv e alimentazione p61 Morte improvvisa p236
Dislipidemie p65 Anomalie genetiche proaritmogene p237
Ipertensione p74 Gestione delle tachicardie p238
Emergenze e urgenze ipertensive p87 Antiaritmici p239
Farmaci attivi sul SRAA p89
Beta-bloccanti p92 ACQUA ED ELETTROLITI
Calcio-Antagonisti p95 Metabolismo idroelettolitico p240
Diuretici p97 Volemia p242
DM p100 Natriemia p244
Chetoacidosi p116 Kaliemia p247
Sindrome iperosmolare p118 Magnesemia p253
Ipoglicemia p119 Calcemia p255
Prevenzione secondaria cv p121
Antiaggreganti p124 NEFROLOGIA
FA p129 Esame urine p261
Embolia p133 S. Nefrosica p263
FES p137 Nefropatie da farmaci p265
Anticoagulanti p138 IRA p269
Amiodarone p151 IRC p273
Dissecazione aortica p154 Equilibrio acido-base p278
Scompenso cronico p156
Scompenso acuto p168 REUMATOLOGIA
Embolia polmonare acuta p174 Esami in reumatologia p285
Ipertensione polmonare p176 Farmaci in reumatologia p287
Cuore polmonare p178 LES p291
Stenosi aortica p180 AR p293
Insufficienza aortica p183 RAA p295
Stenosi mitralica p185 S. da ab antifosfolipidi p297
Insufficienza mitralica p187 S. di Sjogren p298

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Sclerosi sistemica p299 Tamponamento cardiaco p474
Spondiliti sieronegative p302 IVU p477
Polimialgia reumatica p304 FUO p481
Fibromialgia p305
Miositi p306 ALTRO
Connettiviti p307 Anticolinergici p483
Uricemia p308 Terapia steroidea p486
Artrosi p312 Terapia del dolore p491
Vasculiti p313 Anafilassi p500
Sarcoidosi p319 Intossicazione p503

ENDOCRINOLOGIA
Tiroide p320
Paratiroidi p337
Ipofisi p345
Surrene p352
Sindromi polighiandolari p369
MEN p370
Emergenze endocrina p373
Testicolo p379
Osteoporosi p382

SISTEMA GI E EPATOLOGIA
IPP p385
Alcol p395
Pancreatite acuta p398
Pancreatite cronica p402
Emocromatosi p405
Cirrosi epatica p406
Insufficienza epatica acuta p412
MICI p416
Celiachia p423

PNEUMOLOGIA
Asma p424
BPCO p429
Versamento pleurico p436
Pneumotorace p439
Insufficienza respiratoria p442

INFETTIVI
Antibiotici p445
Polmoniti p449
Polmoniti ab ingesti p455
TBC p460
Pleuriti p462
Endocarditi p464
Miocarditi p468
Pericarditi p470
MIELOMA MULTIPLO – MM
Il mieloma multiplo è una neoplasia sostenuta dalla proliferazione di un clone neoplastico di
natura plasmacellulare (malattia mieloproliferativa). Nella maggior parte dei casi la
mutazione tumorale induce le plasmacellule mielomatose accumulatesi a livello del midollo
osseo a produrre ingenti quantità di un'immunoglobulina nota come componente
monoclonale (detta anche paraproteina o componente M), che può essere di diverso tipo: i
più diffusi sono IgG e IgA; meno frequenti sono i tipi IgM, IgD e IgE. Caratteristicamente la
crescita incontrollata delle plasmacellule e l’associata produzione di ab può causare:

- Alterazioni ossee: è generalmente il primo sintomo ma clinicamente non vengono


rilevate. Sarebbe dunque più appropriato parlare di dolore osseo ad esse correlato che
sarà diffuso ed intenso. Nell’anziano l’artrosi è la causa più comune di dolore osseo
ma generalmente è localizzata. Il dolore da MM non risponde tipicamente al
Paracetamolo, mentre viene controllato con gli antiinfiammatori: il processo alla base
è infatti osteolitico con creazione di uno stato infiammatorio. Più in particolare, le
cellule mielomatose sono in grado di produrre fattori che aumentano il numero degli
osteoclasti e ne intensificano l’attività (IL1beta, IL6, TNF, integrine alfa, RANK-L e
chemochine) e allo stesso tempo portano anche ad una riduzione della capacità di
compenso da parte degli osteoblasti. Queste alterazioni ossee possono essere:
o Osteolitiche: sono le più frequenti e con rx vedremo lesioni a stampo, a carta
geografica, destruenti, a margini sfumati e con necrosi scarsa o assente.
o Osteoporotiche (specie nella popolazione anziana).
o Osteosclerotiche (aree di rimaneggiamento non armonico e non
strutturalmente portante delle trabecole ossee).
Vengono interessate pressochè tutte le ossa: cranio, omero, coste, rachide, bacino,
femore…
- Anemia: l’insorgenza di questo sintomo dipende da diversi fattori. In primo luogo
dall’infiltrazione midollare con produzione da parte delle plasmacellule di TNF e IL
che sopprimono l’eritropoiesi, può poi sommarsi l’insufficienza renale e, nel caso di
forme con iperproduzione di IgM, l’emolisi. Inoltre, il mieloma è una malattia cronica
e, dunque, porta a produzione di citochine inibitorie, a ridotta sopravvivenza dei gr e
all’intrappolamento del ferro.
- Malattia renale: a determinarla è soprattutto la precipitazione di catene leggere che
determina una tubulopatia. Può portare ad un peggioramento dell’anemia per
mancata produzione di EPO.
- Ipercalcemia: è un’alterazione piuttosto tardiva dovuta alla presenza di numerose
lesioni osteolitiche. Se importante, l’ipercalcemia può dare alterazioni ECGgrafiche e,
specie nell’anziano, ipereccitabilità, agitazione e, nei casi più gravi, confusione,
sopore e coma.
- Riduzione della produzione di leucociti con aumento delle infezioni.
- Iperviscosità ematica: può essere dovuta ad una grande produzione di componente
monoclonale ed è caratteristica soprattutto della forma a IgM. Il problema principale
sono i fenomeni trombotici che ne derivano.
- Amiloidosi per la precipitazione della componente monoclonale.
- Altre manifestazioni: nell’anziano soprattutto possiamo avere anche neuropatie
periferiche dovute alla componente monoclonale che va a circondare i nervi o alla tp,
compressioni midollari e infezioni virali.
Esiste poi un tipo di mieloma che produce troppe catene leggere, da cui il nome di mieloma
a catene leggere, oppure mieloma di Bence Jones (30%). Queste catene leggere possono
interessare i reni e spesso si trovano nelle urine: per individuarle occorre fare il dosaggio
specifico delle catene leggere, che è però disponibile solo nei grossi centri. In questo caso,
infatti, a differenza del precedente, sia l’elettroforesi proteica che l’immunoforesi saranno
negative; l’unica positività eventualmente presente sarà quelle delle plasmacellule a livello
midollare. Il sospetto, in questo caso, deve nascere in caso di danno renale non spiegabile,
di alterazioni non specifiche dell’emocromo e dell’elettroforesi in presenza degli esami
precedentemente detti negativi.

Un tipo raro di mieloma è il cosiddetto mieloma non secernente, caratterizzato da scarsità o


assenza di produzione di catene di immunoglobuline.

In Italia il MM rappresenta l’1.2% di tutti i tumori diagnosticati negli uomini e l’1.3% dei
tumori del sesso femminile con un’incidenza media di 5:100 000. L’incidenza si sta
mantenendo pressochè stabile, la mortalità è, invece, in lieve calo (la sopravvivenza media è
del 76% a un anno e del 42% a cinque anni). Si tratta per lo più di una patologia
dell'anziano, dato che solo il 18% dei pazienti in media è più giovane di 50 anni alla
diagnosi e che l’età media alla diagnosi è di 68 anni. Tra i fattori di rischio per lo sviluppo di
MM ricordiamo la presenza di MGUS, l’età, l’etnia afro-caraibica e l’obesità perché aumenta
il rischio di evoluzione della MGUS.

DIAGNOSI
Il clinico dovrà sospettare MM quando sono presenti sintomi caratteristici, dolore osseo
diffuso, che nell’anziano rappresenta il sintomo di presentazione principale, o quando
casualmente vengano riscontrate anomalie agli esami ematici. Generalmente il sospetto
viene posto qualora si noti un’alterazione dell’elettroforesi proteica (!Diagnosi casuale),
ovvero un picco gamma la cui altezza è tre volte la base, oppure, più raramente, un
aumento delle frazioni beta o alfa2. L’elettroforesi viene fatta spesso nei ricoverati, non tanto
come screening per il mieloma, che comunque è una malattia piuttosto rara, quanto perché
permette di quantificare le proteine, e l’albumina in particolare, in modo da sapere se il
fegato stia funzionando, se la pressione oncotica sia adeguata e se siano presenti disturbi
idro-elettrolitici. Una riduzione delle proteine plasmatiche è poi importante per valutare gli
effetti della malnutrizione. In questo modo, casualmente, si può riscontrare una condizione
di paraproteinemia:

Sono necessari approfondimenti perché, anche ammesso di trovare una paraproteinemia


monoclonale, fatto per altro non raro (1.5% nella fascia 50-60 anni; 6% in una popolazione
over 80), non è detto di avere di fronte un pz affetto da MM; questo picco può infatti essere
spiegato in diversi modi:
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- 64% MGUS
- 14% MM
- 8% Amiloidosi
- 6% Linfoma
- 2% MS
- 2% LLC
- 2% Macroglobulinemia di Waldestrom

Si imposta dunque l’iter per pz con paraproteinemia in modo da stabilire la diagnosi corretta
ed, eventualmente, poter avere gli elementi che consentono di stadiare la malattia:

1. Immunofissazione su siero e su urine (proteinuria di Bence-Jones) per valutare la


monoclonalità e il tipo di proteine. In alternativa si può fare anche l’immunoforesi
che è un’indagine simile (?). L’immunofissazione viene fatta su tutti i pz con
paraproteinemia a prescindere dall’età e, se dà conferma della monoclonalità, porta
alla necessità di proseguire con l’iter.

2. Dosaggio delle Ig e delle proteine trovate nelle urine

3. Dosaggio di:

a. Hb, Creatinina e Calcio (anemia, ossa e funzione renale)


b. LDH e altri markers di alterazioni prodotte in caso di pz con iperIgM come
crioglobuline, crioagglutinine e complementemia
c. Markers tumorali, markers di epatite virale.
d. PCR: è un marker prognostico indipendente perché tanto più elevati saranno i
valori, peggiore sarà la prognosi.

4. RX scheletro per indagare le lesioni ossee, talvolta associando anche rx torace e eco
addome. Nonostante le linee guida raccomandino la RX scheletro [secondo
Romanelli] nel 28% si hanno falsi negativi che potrebbero invece essere diagnosticati
con TC o RM, che sono però più impegnative per il pz e più costose. Specie nel
soggetto anziano, infatti, il rachide è generalmente in condizioni non ottimali di per
sé e, dunque, vedere nuove alterazioni può essere difficile.

5. Biopsia osteomidollare per valutare l’osso e contestualmente anche la malattia


mieloproliferativa. Permette di quantificare la plasmacitosi midollare e di tipizzare le
cellule neoplastiche: si può infatti determinarne l’immunofenotipo e fare analisi
citogenetiche. Da queste ultime possiamo trarre informazioni prognostiche: ad
esempio, in caso si riscontri una del(17p) la prognosi del pz sarà peggiore, così come
se sarà presente una del(13) parziale o completa che comporta una minor risposta alla
tp. In futuro probabilmente le informazioni citogenetiche saranno importanti anche
per poter impostare una tp il più individualizzata possibile in base alle caratteristiche
della malattia di quello specifico individuo.

6. Dosaggio della Beta2microglobulina: è un indice diagnostico e prognostico perché


riflette la funzionalità renale ed è importante per stabilire il grado secondo
l’International staging system.

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I criteri diagnostici comprendono:

MGUS MS MM
Componente monoclonale Componente monoclonale Componente monoclonale
IgG <3.5g/dL, IgA<2g/dL e >3.5g/dL o componente IgG>3.5g/dL, IgA>2g/dL e
urinaria <500g/dL. monoclonale urinaria >500g/dL urinaria >1g/dL
Plasmacellule midollari <10% Plasmacellule midollari 10- Plasmacellule midollari >10%
30%
No danno d’organo (Hb>10g,
Cre<2mg/dL, Calcio normale), No danno d’organo Presenza di danno d’organo
no amiloidosi, no osteolisi, no
infezioni

In realtà, per la diagnosi di MM è importante considerare la presenza di criteri maggiori e


minori; p è infatti necessario riscontrarne almeno uno maggiore e uno minore oppure tre
minori:

- Plasmacitoma alla biopsia + IgG>3.5g/dL; IgA>2g/dL; BJ>1g/dL


- Plasmacitoma alla biopsia + osteolisi
- Plasmacitoma alla biopsia + ridotti livelli di Ig NON clonali
- Plasmacitosi midollare >30% + IgG>3.5g/dL; IgA>2g/dL; BJ>1g/dL
- Plasmacitosi midollare >30% + osteolisi
- Plasmacitosi midollare + ridotti livelli di Ig NON clonali
- IgG>3.5g/dL; IgA>2g/dL; BJ>1g/dL + osteolisi
- IgG>3.5g/dL; IgA>2g/dL; BJ>1g/dL + plasmacitosi midollare 10-30% + osteolisi
- IgG>3.5g/dL; IgA>2g/dL; BJ>1g/dL + plasmacitosi midollare 10-30% + ridotti livelli di
Ig NON clonali.

È dunque importante valutare la plasmacitosi midollare, che è utile per discriminare tra le tre
entità sopra descritte e, nel caso specifico di MM, a seconda del valore, può essere
considerata sia un criterio maggiore che minore; il dosaggio sia delle Ig clonali che non
clonali, la presenza di un plasmacitoma (proliferazione di plasmacellule riscontrata alla
biopsia ossea o di un tessuto molle) e di danno osseo.

Dopo aver fatto diagnosi è necessario stadiare la malattia valutando il danno d’organo:

Calcemia –> Calcio sierico >10mg/dL


Renal failure –> Creatinina >2mg/dL
Anemia –> Hb<10g/dL o Hb ridotta di almeno 2g
Bones –> Lesioni osteolitiche o osteoporosi
Altri: Iperviscosità sintomatica, amiloidosi, infezioni batteriche ricorrenti (>2/12m).

In particolare, il Durie-Salmon Staging System divide la malattia in tre stadi:

- Stadio 1: la massa tumorale è <0.6x1012cellule/m2 ed è necessario che siano


soddisfatti tutti i seguenti criteri (che sostanzialmente indicano l’assenza di danno
d’organo, in presenza però di condizioni che portano alla diagnosi di mieloma):
o Hb>10g/dL
o Calcio nei limiti di norma

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o IgG<5g/dL; IgA<3g/dL
o Proteine monoclonali nelle urine <4g/24h
o Assenza di lesioni ossee o lesione singola

- Stadio 2: è una condizione intermedia.

- Stadio 3: la massa tumorale è >1.2 x1012cellule/m2 ed è sufficiente che venga


rispettata almeno una delle seguenti condizioni:
o Hb<8.5g/dL
o Calcio>12mg/dL
o IgG>7g/dL; IgA>5g/dL
o Proteine monoclonali nelle urine >12g/24h
o Lesioni osteolitiche multiple o fratture.

Ogni classe può poi essere suddivisa in A o B sulla base dei valori di creatinina (< o > 2).

Un altro sistema di stadiazione è l’International Staging System basato sul dosaggio della
beta2 microglobulina e dell’albumina:

- Stadio 1: Beta2<3.5mg/L e Albumina>3.5g/dL –> sopravvivenza media 62 mesi

- Stadio 2: Beta2<3.5mg/L e Albumina <3.5g/dL O Beta2 3.5-5.5mg/L –>


sopravvivenza media 44 mesi.

- Stadio 3: Beta2>5.5mg/L –> sopravvivenza media 29 mesi.

TERAPIA
Il MM rimane ad oggi una malattia sostanzialmente incurabile, ciò che possiamo fare è
cercare di rallentarne la progressione e si sono ottenuti dei miglioramenti in termini
prognostici, soprattutto in seguito all’introduzione di buoni sistemi di stadiazione e di
strategie terapeutiche come il trapianto e l’uso di farmaci migliori. Tuttavia, la sopravvivenza
risulta tuttora non essere ottimale (mediamente 3 anni), anche a causa del fatto che, al
momento della diagnosi, la malattia sia già disseminata. La sopravvivenza è fortemente
influenzata anche dall’età: prima dei 40 anni, un pz su due è vivo a 5 anni dalla diagnosi, al
di sopra degli 80 questa percentuale si riduce al di sotto del 10%. Nell’anziano, infatti, molte
tp non risultano essere attuabili. Queste tp, comunque, devono essere cominciate solo
quando la patologia diventa sintomatica; in caso contrario il pz verrà semplicemente
monitorato. In caso, infatti, di mieloma asintomatico bisognerà controllare periodicamente
l’emocromo con formula, la creatinina, la calcemia e la calciuria, l’uricemia, le Ig con
immunofissazione, l’eventuale presenza di proteinuria di BJ, la PCR, l’LDH, la beta2
microglobulina e altri esami di secondo livello come l’imaging o l’aspirato.

Lo standard of care nei pz <65 anni è il trapianto autologo di midollo osseo: esso permette,
infatti, di raggiungere risultati migliori rispetto alla sola tp farmacologica, sia per quanto
riguarda la remissione (20-40% vs 5%), che la sopravvivenza event free (25-31 mesi vs 20
mesi) che la overall survival (57-60 mesi vs 40 mesi). Ciò che invece è ancora dibattuto è se
convenga fare un doppio trapianto, che sembra dare risultati migliori soprattutto nel giovane,
o uno singolo. In ogni caso, gli step da seguire comprendono:

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1. Ct di induzione: serve a ridurre le cellule mielomatose e può essere fatta sia con tre
farmaci (Bortezomib, Desametasone e uno fra Doxorubicina, Ciclofosfamide,
Lenalidomide o Talidomide) sia con due (Bortezomib+Desametasone o
Lenalidomide+Desametasone).

2. Mobilizzazione: per ottenere un numero adeguato di cellule staminali nel sangue


periferico è necessario mobilizzarle dal sangue midollare (prelevarle da questo sito è
possibile ma richiede anestesia generale e un’operazione chirurgica) utilizzando
fattori di crescita somministrati sottocute.

3. Aferesi: è il prelievo di cellule staminali da sangue periferico. Per poter affrontare


questa procedura il pz deve essere trattato con alte dosi di anticoagulanti, è poi
necessario incannulare entrambe le braccia poiché da un lato verrà prelevato il
sangue e dall’altro verrà reimmesso ciò che non viene selezionato. La procedura dura
3-4h e potrebbe dare problemi a causa del fatto che la macchina trattiene un volume
di sangue al suo interno (instabilità, vertigini e, più raramente, tremore, crampi
muscolari, ipotensione…). Talvolta può essere necessario ripeterla in giorni diversi
per ottenere un numero di cellule sufficienti. Dopo la raccolta, è importante
selezionare le cellule e purificarle: ci si serve di anticorpi clonali per riconoscere
antigeni neoplastici che ci permettono di isolare e scartare le cellule mielomatose.
Non si hanno ancora evidenze a proposito della reale efficacia di questo
procedimento, ad ogni modo, riducendo al massimo il numero di cellule
neoplastiche, anche senza certezza di eliminarle completamente, aumenta la
probabilità che quelle rimaste vengano combattute dal SI. Le cellule selezionate
vengono congelate in azoto a temperature fino a -140°C per criopreservarle.

4. Condizionamento: in regime di ricovero e di isolamento il pz riceve un trattamento


chemioterapico ad alte dosi (200mg/m2 di Melphalan) per cercare di distruggere tutte
le cellule malate o, in alternativa, con il medesimo scopo, si può fare rt total body.
L’effetto collaterale principale è in entrambi i casi quello della riduzione di tutte le
cellule del sangue con un rischio infettivo molto importante.

5. Reinfusione: attraverso un cvc o un cvp le cellule staminali precedentemente


prelevate vengono immesse nel pz e, durante le 2-3 settimane seguenti, esse
migreranno nel midollo e riprenderà lentamente l’emopoiesi (fase di attecchimento).
Fino al completamento di questo processo il pz deve essere mantenuto in isolamento;
quando poi all’emocromo non si accerta che si siano nuovamente raggiunti valori che
si correlano ad una riduzione del rischio emorragico e infettivo. Per la ripresa
completa sono comunque necessari circa 6 mesi.

Altre opzioni terapeutiche, da valutare in pz anziani, o che per comorbidità non possono
affrontare il tx, comprendono:

- Melphalan+Prednisone (M+P): si tratta sostanzialmente dell’associazione di un


antiproliferativo con attività alchilante con un cortisonico. In termini di sopravvivenza
questa combinazione ha dato risultati migliori rispetto alla semplice tp con antiblastici
e, dunque, ha segnato una svolta importante.

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- Talidomide: questo farmaco ha la capacità di alterare il pabulum tumorale in diversi
modi. È, infatti, un pro-apoptotico, altera la angiogenesi e la produzione di citochine
(IL6 e IL1beta) ed è citotossico. L’introduzione di questo farmaco ha permesso di
ottenere risultati migliori rispetto ad M+P, sia in termini di sopravvivenza globale che
di sopravvivenza libera da malattia; si è allora pensato di associarli tutti e tre. In
questo modo, nonostante un aumento di effetti collaterali, in particolare di natura
tromboembolica, si sono ottenuti risultati talmente migliori rispetto alle alternative
precedenti, che si è deciso di considerare la triple therapy come GS nei pz che non
possono sottoporsi a tx.

- Lenalidomide: è un analogo della Talidomide che si caratterizza per il medesimo


meccanismo d’azione e per una migliore tollerabilità. Si tratta, tuttavia, di un farmaco
più recente e, dunque, sul quale abbiamo a disposizione un numero minore di dati.

- Bortezomib: è un ab monoclonale da somministrare ev che è in grado di inibire il


proteasoma bloccando il meccanismo antiapoptotico; può pertanto essere considerato
un farmaco pro-apoptotico. L’efficacia è sostanzialmente sovrapponibile a quella
della triple therapy; cambiano però gli effetti collaterali correlati alla tp che in questo
caso saranno prevalentemente di natura neurologica: i pz possono sviluppare una
neuropatia periferica che, sebbene sia reversibile, può risultare molto disturbante.

Considerando i pro e i contro, se il pz non ha fdr particolari, la Talidomide è da preferire


perché è più sicura, visto il maggior numero di studi che sono stati fatti sull’utilizzo di questo
farmaco. Se il pz ha morbidità vanno, invece, considerate queste ultime: in caso di
insufficienza renale o di aumentato rischio trombotico sarà da preferire il Bortezomib; nel
caso, invece, di neuropatie pre-esistenti, ad esempio dovute al DM2, per non aggravarle, si
userà la Talidomide. È poi importante considerare che la Talidomide può essere presa al
domicilio, mentre il Bortezomib richiede il ricovero in DH.

Questi farmaci, sebbene utili, non risultano particolarmente efficaci sulla situazione ossea:
l’osso subisce, infatti, alterazioni che difficilmente permetteranno di tornare alla condizione
iniziale e, anzi, l’utilizzo di cortisone non è positivo per l’osso.

Ad oggi si stanno sviluppando nuovi farmaci: Pomalidomide, Carfilzomib (inibitore del


proteasoma con risultati più promettenti rispetto a quello che abbiamo attualmente a
disposizione), Ab monoclonali contro i recettori di superficie e istone-deacetilasi.

Abbiamo poi a disposizione una tp di supporto: è importante controllare l’anemia, le


infezioni e il dolore. Si possono usare in questo senso bifosfonati, calcio, EPO, antidolorifici
e fluidi.

MGUS
Con questa definizione si fa riferimento ad una situazione in cui sia presente una
componente monoclonale, non associata però ad una condizione neoplastica che, se non
progredisce, porta ad una sopravvivenza sostanzialmente parallela a quella della
popolazione generale dopo un’iniziale deflessione. Sono pz che devono essere tenuti
monitorati perché c’è un aumento della probabilità di sviluppare MM, con un rischio che
aumenta di pari passo ai livelli iniziali di Ig: se essi sono <0.5g/dL il rischio di avere un MM
nei 10 anni successivi è del 6%; per arrivare ad un 34% di probabilità nel caso in cui i livelli
10
iniziali siano >3g/dL. Le Ig, dopo la diagnosi, devono essere dosate inizialmente
trimestralmente, poi ogni 6 mesi e, infine, annualmente. Oltre a questo esame, il FU
annuale, che deve essere mantenuto indefinitamente, deve comprendere anche la crasi
ematica, la creatinina, la calcemia e l’analisi delle urine per determinare la presenza di
proteinuria di BJ. La MGUS è una condizione che non richiede trattamento, ma che
regredisce spontaneamente solo nello 0.4%, motivo per cui è raccomandato un FU a vita.
Nel caso in cui progredisca, nel 25% dei casi si avrà un aumento improvviso seguito da una
situazione stabile, nel 15% avrò un aumento improvviso e nel 12% un aumento graduale
con situazione stabile o un semplice aumento graduale. Talvolta la progressione si rende
evidente per la comparsa di danno d’organo.

MACROGLOBULINEMIA DI WALDENSTROM
Si tratta di una neoplasia monoclonale caratterizzata dalla proliferazione di cellule B non
ancora differenziate a plasmacellule e corrisponde all'entità clinica del linfoma
linfoplasmocitico. Colpisce prevalentemente i maschi sopra la sesta decade. L'eziologia è
sconosciuta, ma sono stati individuati alcuni fattori di rischio come la presenza in
anamnesi di malattie autoimmuni, epatite, infezione da HIV e da Rickettsie.

Come nel caso del mieloma vi è la presenza di un infiltrato plasmacellulare a livello


del midollo osseo e, nel plasma, la presenza di una componente M dovuta alla
iperproduzione di una gammaglobulina, che in questo caso appartiene alla classe IgM. A
differenza del mieloma, tuttavia, mancano le lesioni osteolitiche e la manifestazione clinica
preponderante è la sindrome da iperviscosità. Nonostante queste differenze, a causa delle
analogie con il mieloma, per lungo tempo la macroglobulinemia di Waldenström è stata
ritenuta una sua variante. Attualmente l'OMS la classifica tra i linfomi a basso grado di
malignità.

Nella maggior parte dei casi la malattia non mostra alcun sintomo per molti anni durante il
suo progredire; di solito esordisce tardivamente con astenia, cefalea, disturbi visivi, vertigini,
tutti sintomi causati dalla iperviscosità del sangue e dalla formazione di aggregati
di eritrociti (rouleaux) all'interno dei vasi. Possono inoltre comparire emorragia,
epatomegalia, linfoadenomegalia, o sintomi che fanno sospettare la presenza di
una neuropatia periferica. Spesso il soggetto colpito si dimostra più suscettibile alle infezioni,
fino alla setticemia.

La diagnosi viene sospettata ogni volta che si ritrova una sindrome da iperviscosità del
sangue, ma molto spesso la macroglobulinemia viene diagnosticata incidentalmente,
attraverso un controllo dei valori ematochimici che rivela la presenza di un picco
monoclonale all'elettroforesi sierica.

Il trattamento, solitamente palliativo, è farmacologico: si somministrano Clorambucile,


Fludarabina e Rituximab. Per migliorare la iperviscosità è utile la plasmaferesi, che consente
di rimuovere dal plasma una quota rilevante di macroglobulina.

La sopravvivenza media varia da 5 a 7-10 anni a seconda dell'età del paziente e della gravità
dei sintomi (fattori sfavorevoli: età sopra i 60 anni e presenza di anemia grave).

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AMILOIDOSI
È un gruppo di malattie caratterizzate dalla deposizione di fibrille formate da polimeri di
proteine non solubili in tessuti e organi. Queste proteine precipitano, acquisiscono una
conformazione a foglietto beta e risultano citotossiche per il tessuto.

Le amiloidosi possono essere classificate in base a diversi elementi:

AL ATTR AA Abeta2M AApoA1-2 BetaPP


Catene Beta2- Apolipopr Precursore
Proteina leggere Transtiretina* Sieroamiloide § Microglobuli oteina A1 della beta
na e A2 amiloide
Sistemica Sistemica: Sistemica
Sede di (cuore, cuore, Sistemica: rene Sistemica o o SNC
deposizio polmoni, sistema e fegato. localizzata localizzata (Alzheimer)
ne rene, nervoso (articolazioni) (rene,
fegato) testicolo)
Eziologia Acquisita Acquisita o Acquisita Acquisita Ereditaria Acquisita o
(MM) ereditaria (reattiva) (emodialisi) ereditaria

* Proteina epatica precursore dell’albumina che trasporta gli ormoni tiroidei


§ Proteina epatica di fase acuta

Per quanto riguarda le forme AApoA1: essendo forme genetiche, ne distinguiamo tipi diversi
a seconda della mutazione presentata dal pz, tra cui il tipo Brescia (polimorfismo ApoA1-75)
e il tipo Milano. Il primo si caratterizza per la deposizione di fibrille a livello testicolare con
conseguente infertilità, anche se non completa; interessamento renale che molto lentamente
porta a insufficienza renale a origine tubulare e possibile interessamento subclinico di altri
organi. Per entrambe, inoltre, si può dire che, nonostante sia frequente riscontrare un profilo
lipidico sfavorevole, non si avranno i livelli di aterosclerosi che ci si aspetterebbe, quindi si
pensa possano dare un effetto protettivo a livello vascolare. In generale, comunque, anche
nelle forme ereditarie, l’esordio è in età adulta: l’invecchiamento è dunque un fattore
scatenante.

Dal punto di vista della clinica possiamo avere diverse manifestazioni:

1. Amiloidosi renale:

a. AL: in questo caso avrò deposizione glomerulare con proteinuria spesso in


range nefrosico con tutte le conseguenze che ne derivano.
b. ApoA1: in questo caso, invece, avrò un interessamento tubulare dovuto a
deposito a livello interstiziale con progressione a insufficienza renale che
avviene molto lentamente.

2. Amiloidosi cardiaca: è tipica soprattutto delle forme AL e ATTR (amiloidosi cardiaca


senile). La deposizione di fibrille comporta ipertrofia e, dunque, disfunzione dapprima
diastolica e poi anche sistolica. Inoltre, questi soggetti sono anche a maggior rischio
di sviluppare anomalie di conduzione come BAV, BDB e, quindi, aritmie ventricolari

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potenzialmente fatali. Infine, anche a livello dei vasi coronarici ci può essere
deposizione di fibrille che si manifesta con episodi anginosi.

3. Amiloidosi gi: portando ad un inspessimento delle pareti gastriche si avrà paralisi a


questo livello e, se è coinvolto anche l’intestino, si può avere stipsi e fenomeni
subocclusivi. Questi pz possono anche perdere peso a causa del malassorbimento.

4. Amiloidosi neurologica: oltre che nella forma con deposizione di beta amiloide che
porta a demenza; in tutte le forme sistemiche possiamo avere interessamento del SNP,
soprattutto a livello degli arti inferiori, e del SNA (ipotensione ortostatica, ridotto
svuotamento vescicale e peggioramento della stipsi dovuta a riduzione della motilità
intestinale). Inoltre, anche la deposizione a livello dei vasi (angiopatia amiloide) può
portare a danni a livello del SNC a causa dell’aumentato rischio di sanguinamento.

5. Amiloidosi muscoloscheletrica: è più frequente nelle forme AA, AL e Abeta2M.


L’apparato muscoloscheletrico può essere interessato sia come conseguenza di una
neuropatia periferica (pseudoipertrofia) che anche in modo diretto, tipicamente
simmetrico. I pz potrebbero, ad esempio, sviluppare lo shoulder pad (ovvero
allargamento della parte anteriore della spalla per deposizione di fibrille a livello del
tessuto periarticolare).

6. Amiloidosi epatica: si manifesta con epatomegalia, alterazione degli indici di


funzionalità epatica, con annessa tendenza al sanguinamento, e colestasi. Con il
tempo questa condizione evolve in cirrosi grave.

7. Amiloidosi splenica

8. Amiloidosi cutanea: se le fibrille si depositano a questo livello si avrà un


inspessimento cutaneo con ecchimosi. Tra di esse, una presentazione caratteristica
sono i cosiddetti raccoon eyes, ovvero ecchimosi periorbitarie che compaiono dopo
sforzo isometrico o manovra di Valsalva come conseguenza dell’aumentata tendenza
al sanguinamento. Nel caso in cui ci si presenti una persona con questa situazione, in
assenza di un trauma, è doveroso approfondire: spesso si tratterà infatti di amiloidosi
già in fase avanzata.

9. Amiloidosi polmonare

10. Amiloidosi della lingua: essa apparirà aumentata di dimensioni, talvolta anche con
dolore associato e possibile disfagia.

DIAGNOSI
Quando compare una di queste manifestazioni cliniche, che non può essere spiegata con
una diagnosi più immediata, è necessario cominciare a sospettare che il soggetto sia affetto
da amiloidosi. Purtroppo l’estrema eterogeneità di presentazione può rendere difficile
considerare l’amiloidosi tra le DD. In caso di sospetto è possibile fare una biopsia,
generalmente a livello del grasso addominale sottocutaneo: essa sarà positiva alla
colorazione con rosso Congo e, inoltre, si noterà una caratteristica birifrangenza verde mela
al microscopio a luce polarizzata dovuta al ripiegamento. A questo punto, in caso di
positività sarà necessario fare ulteriori indagini immunoistochimiche che permettano di
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tipizzare la proteina. A volte, però, ci saranno falsi negativi: si tratta, infatti, di un esame con
specificità molto elevata, ma sensibilità non ottima, specie nel caso di forme genetiche, che
spesso risulteranno negative, o di forme localizzate. Se il sospetto è forte si può dunque fare
una biopsia dell’organo che si presume essere interessato. Inoltre, sempre a seconda degli
organi colpiti, ma anche della tipologia di amiloidosi che si sospetta essere presente, si
possono aggiungere altri esami:

- Cuore: si possono fare ecocardio ed ECG. In questo secondo esame si vedranno


tipicamente bassi voltaggi e, talvolta, anche aritmie e difetti di conduzione;
all’ecocardio potremo invece vedere l’ipertrofia concentrica del muscolo cardiaco. È
importante eseguire entrambi questi esami perché l’associazione di massa cardiaca
aumentata e bassi voltaggi è tipica dei pz con amiloidosi cardiaca. Si può aggiungere
anche una RM per studiare la struttura miocardica, tenendo comunque presente che
in caso di insufficienza renale il Gadolinio deve essere evitato.

- Nervi: si può sottoporre il pz ad elettromiografia.

- Fegato: può essere indagato con eco addome.

- Forme AL: una rx dello scheletro può essere utile per capire i danni causati dal MM.

- Forme AA: si può fare una scintigrafia per ricercare i depositi di sieroamiloide [cerco
l’infiammazione?].

Gli esami di laboratorio hanno, invece, generalmente, scarsa utilità: potremmo avere
alterazioni, ma esse saranno aspecifiche e non consentiranno di porre diagnosi. Può tuttavia
essere utile dosare il nt-pro-BNP che è un parametro prognosticamente utile per stimare la
sopravvivenza [nei pz con interessamento cardiaco?].

TERAPIA
Dipende, ovviamente, da quali organi siano colpiti: a meno che non sia presente una
patologia di base che causa l’amiloidosi stessa, si tratta più che altro di una tp volta a ridurre
i sintomi d’organo e a limitare le possibili complicanze. Ad oggi, infatti, nonostante si stiano
cercando, non abbiamo a disposizione farmaci che stabilizzino ed evitino il deposito di
fibrille. Una possibilità di tp eziologica, potrebbe essere somministrare l’Anakinra a pz affetti
da amiloidosi AA: si tratta, infatti, di un farmaco anti-IL1 che potrebbe placare
l’infiammazione alla base della patologia e, dunque, la produzione di proteina di fase acuta
che si accumula. Le tp utilizzate ad oggi comprendono:

- Nel caso di pz con interessamento cardiaco la tp dovrebbe essere volta sia a trattare
lo scompenso cardiaco, che la possibile insorgenza di aritmie ventricolari. Se nel
secondo caso è possibile avvalersi di Amiodarone; per il primo problema abbiamo
sostanzialmente le mani legate. I pz affetti da amiloidosi spesso non possono
assumere diuretici a causa dell’ipotensione e del grande spessore delle pareti
cardiache, o quantomeno devono assumerne piccole dosi e dilazionate lungo tutta la
giornata. Non possono essere prescritti nemmeno i beta bloccanti [? La Muiesan dice
che non vanno bene se la FE è ridotta, ma Metra aveva detto che, nonostante un
iniziale ulteriore decremento, poi hanno un effetto benefico quindi boh], gli ACE-ib, i
calcio antagonisti a causa dell’effetto inotropo negativo e nemmeno la Digitale
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perché, dal momento che si lega alle fibrille, è molto più facile dia tossicità. Rimane,
in alcuni casi, l’opzione tx di cuore. [Secondo il Simi: “l’impegno cardiaco va gestito
come una cardiopatia ischemica cronica con scompenso cardiaco severo mediante
beta-bloccanti e diuretici, modulati sulla base della PA e della FC”]

- Nel caso di pz con interessamento epatico, se la malattia non è troppo avanzata, si


può pensare di proporre un tx.

- Nel caso di pz con interessamento renale, specie in caso di forme genetiche nelle
quali non è possibile trattare la patologia di base, si può solo cercare di rallentare la
progressione verso insufficienza renale [teoricamente si usano Ace-ib/Sartani+diuretici
ma la Muiesan ha detto che non si possono usare, quindi?]. Nel caso si decidesse di
fare tx, bisogna tenere presente che l’amiloidosi potrebbe ripresentarsi.

- Per i pz che sviluppano neuropatia in corso di ATTR si può usare Tafamide. Sempre
per questa forma si stanno poi attualmente studiando l’uso di siRNA anti-TTR che
blocca la produzione della proteina e, dunque, sarebbe utile sia nelle forme ereditarie
che sporadiche e preverrebbe anche, ad esempio, il danno cardiaco, che invece non
viene contrastato dalla Tafamide.

[Dal Simi: per trattare l’amiloidosi primitiva si possono poi dare:

- Bortezomib+Desametasone (contestualmente si devono somministrare Omeprazolo e


Aciclovir per contrastare gli effetti collaterali rispettivamente della tp steroidea e
dell’inibitore del proteasoma.
- Melfalan+Desametasone
- Ciclofosfamide+Desametasone

Questi farmaci devono essere assunti per almeno due cicli per poter valutare la risposta. Se il
pz poi recidiva dopo 3 mesi dalla fine della tp si raccomanda di ripetere la tp di prima linea
che aveva prodotto risultati; se, invece, la recidiva avviene prima di 3 mesi il pz deve essere
considerato refrattario e si passa alle tp di seconda linea:

- Lenalinomide
- Talidomide

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PLASMACITOMA
Il plasmocitoma (mieloma) è una massa localizzata di plasmacellule monoclonali
neoplastiche, che rappresenta circa il 5% di tutti i tumori delle plasmacellule. Si tratta di una
neoplasia simile al MM, il quale è, però, una condizione diffusa. Esistono due forme di
plasmacitoma: il plasmocitoma primitivo dell'osso, che può più spesso evolvere a MM, e il
plasmocitoma extramidollare dei tessuti molli. L'80% dei plasmocitomi extramidollari si
localizza sul viso e nel collo, di solito nelle vie aeree superiori. I sintomi sono differenti a
seconda della sede in cui avviene la proliferazione anomalea. I plasmacitomi solitari dell’osso
provocano generalmente dolore e aumentato rischio di fratture; quelli extramidollari si
correlano a malfunzionamento del tessuto molle interesssato. Nel caso siano coinvolte le vie
aeree superiori, ad esempio, ci possono essere rinorrea, epistassi o ostruzione nasale. Per fare
diagnosi, oltre che della clinica, ci si avvale anche dell’elettroforesi, utile per dimostrare la
produzione di anticorpi monoclonali da parte delle cellule neoplastiche e di altri esami che
permettono di distinguerlo dal MM (imaging, biopsie e vari esami per valutare se siano
presenti i sintomi tipici del mieloma). L'età media alla diagnosi è 50 anni e il rapporto
maschio-femmina è 3:1. La sopravvivenza a lungo termine è possibile attraverso la rt locale,
soprattutto nelle forme che interessano i tessuti molli; meno frequentemente si ricorre a
chirurgia o a rt+ct.

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ELETTROFORESI DELLE PROTEINE
L'elettroforesi proteica è un metodo d'analisi per le proteine presenti nel sangue e nel siero. È
un metodo di separazione di particelle cariche elettricamente, che avviene attraverso
elettroforesi, cioè tramite il passaggio continuo di corrente elettrica in una soluzione. Le
particelle cariche migrano verso l'elettrodo di carica opposta con una velocità di migrazione
o mobilità elettroforetica legata a numerosi fattori dipendenti dalla natura del mezzo e dal
campo elettrico applicato e soprattutto dalla massa, dalle dimensioni, dalla carica e dalla
forma delle varie particelle.

Albumina 55.0 - 68.0 %


alpha1 Antitripsina 1.5 - 5.0 %
alfa Macroglobulina 6.0 - 12.5 %
Aptoglobina 0,34 - 2,00 %
Transferrina 2,0 - 3,8 %
Complemento C3 0,75 - 1,40 %
Immunoglobulina G 6,9 - 14,0 %
Immunoglobulina A 0,88 - 4,10 %
Immunoglobulina M 0,34 - 2,10 %

Solitamente albumina e globuline sono in proporzioni simili, ma l'albumina è molto più corta,
e carica negativamente mostrando una concentrazione visiva maggiore. Esiste inoltre una
piccola banda superiore all'albumina chiamata pre-albumina. Questa viene sintetizzata
dal fegato ed è contenuta soprattutto nei liquidi interstiziali e nel plasma, dove rappresenta,
da sola, circa la metà delle proteine circolanti. L'albumina svolge diverse funzioni, tra cui la
corretta gestione della pressione osmotica ed il trasporto di sostanze, come la bilirubina.

Le globuline sono classificate a seconda delle bande relative:

- La zona alfa o delle alfaglobuline è suddivisa in due bande:

o Alfa: alfa1-antitripsina, alfa1- glicoproteina acida (vn 0.2-0.4g/dL)


o Alfa2: aptoglobina, alfa2-macroglobulina, alfa2-antiplasmina (vn 0.4-0.8g/dL)

- La zona beta o delle betaglobuline: transferrina, lipoproteine a bassa densità (LDL),


complemento c3 (vn 0.6-1g/dL)

- La zona gamma o delle gammaglobuline: immunoglobuline (IgA, IgD, IgE, IgG and
IgM); paraproteine; le bande monoclonali appaiono solitamente in questa zona (vn
0.9-1.4g/dL).

Le globuline alfa 1 e 2 svolgono principalmente una funzione di trasporto dei lipidi,


dei grassi del sangue e degli ormoni. Anche le beta globuline trasportano le sostanze presenti
nel sangue; tra le più note proteine di questo gruppo vi sono la transferrina e la beta-2

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microglobulina. Le gamma globuline hanno, invece, principalmente una funzione
anticorpale.

L'elettroforesi serve per diagnosticare o monitorare le malattie che hanno tra i loro reperti
clinici un'alterazione delle concentrazioni delle proteine nel plasma, nelle urine o in altri
campioni biologici e per seguirle durante il FU, anche valutando l’efficacia della tp impostata.
Quest'anomalia può riscontrarsi, ad esempio, in caso di:

1. Malattie a carico del fegato e dei reni;


2. Infezioni o infiammazioni;
3. Mieloma multiplo;
4. Sclerosi multipla.

Il dosaggio delle proteine totali nel sangue (vn 6.8-8.3 g/dL) e dell'albumina (vn 3.6-4.9
g/dL) è di norma inclusa nei pannelli di controllo, quindi è frequentemente usata nella
valutazione dello stato di salute di una persona. Nelle analisi di routine, l'alterazione di questi
parametri può essere considerata un campanello d'allarme e può indurre ad approfondire il
quadro clinico, soprattutto se il paziente manifesta una particolare sintomatologia. Può poi
essere utile nel caso in cui ci sia il sospetto di infezione o infiammazione, malattie
autoimmuni, nefropatie, epatopatie o malattie caratterizzate dalla produzione di una
componente monoclonale.

Quando nelle urine è presente un'alta concentrazione di proteine, invece, il medico può
richiedere l'esecuzione dell'elettroforesi delle proteine urinarie. L'esame permette di
determinare la fonte dell'alterazione, confermando o supportando la diagnosi.

L'elettroforesi delle proteine del liquor può essere prescritta quando si sospetta la diagnosi di
sclerosi multipla. In tal caso, il tracciato elettroforetico che viene a determinarsi è
caratteristico, poiché evidenzia la presenza delle cosiddette bande oligoclonali, non presenti
normalmente nell'elettroforesi delle proteine sieriche.

Il riscontro all'elettroforesi di un aumento dell'albumina sierica è frequente durante gli stati


morbosi che sottraggono acqua all'organismo e comportano la comparsa di disidratazione,
tra cui: vomito e diarrea persistenti, ustioni estese, morbo di Addison e coma diabetico.
Potrebbe poi correlarsi alla presenza di Sarcoidosi o di malattia di Buerger.

Il riscontro all’elettroforesi di una riduzione dell’albumina sierica può essere dovuto a


malnutrizione, malassorbimento (Chron, enteropatie, celiachia, intolleranze proteiche),
aumentato catabolismo (infiammazioni severe, cachessia, neoplasie, iperitiroidismo…). Il
picco dell’albumina si riduce anche in seguito a patologie epatiche

Il riscontro all’elettroforesi di un aumento delle alfa 1 globuline può essere dovuto alla
presenza di un processo infiammatorio, all’assunzione di pillola contraccettiva o al fatto che
ci sia una gravidanza in atto.

Il riscontro all’elettroforesi di una riduzione delle alfa 1 globuline è tipica di malattie epatiche
gravi, enfisema congenito e malattie renali.

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Il riscontro all’elettroforesi di un aumento delle alfa 2 globuline può far propendere per una
malattia renale, per infiammazioni in corso, per la presenza di alcuni tumori maligni o di
diabete.

Il riscontro all’elettroforesi di una riduzione delle alfa 2 globuline può essere indicativo di
malnutrizione, malattie epatiche gravi ed emolisi.

Il riscontro all’elettroforesi di un aumento delle beta globuline è indicativo di


ipercolesterolemia, anemia da carenza marziale o di gravidanza in atto.

Il riscontro all’elettroforesi di una riduzione delle beta globuline può essere dovuta a
malnutrizione o a cirrosi epatica.

Il riscontro all’elettroforesi di un aumento delle gamma globuline policlonali può essere


associato a malattie infiammatorie croniche, malattie del sistema immunitario, AR, LES,
malattie croniche del fegato e infezioni acute e croniche. Se le gamma globuline risultano
essere monoclonali, invece, può essere dovuto a MM, linfomi o macroglobulinemia di
Waldenström. Per identificare quale gamma globulina è presente nella banda monoclonale in
un tracciato elettroforetico, è possibile procedere con un'immunofissazione.

Il riscontro all’elettroforesi di una riduzione delle gamma globuline indica generalmente una
malattia del sistema immunitario tale per cui cala la produzione di Ig.

! Alcuni medicinali possono influenzare l'esito dell'elettroforesi: i contraccettivi orali, gli


steroidi anabolizzanti, gli androgeni, gli ormoni della crescita, l'insulina e gli antibiotici
rientrano tra questi. Altri fattori che possono influenzare l'esame comprendono:
iperlipidemia, somministrazione di liquidi EV, dieta vegetariana e campioni emolizzati se
l’elettroforesi è eseguita sul siero.

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ANEMIE
Si definiscono come la presenza di un ridotto numero di GR (<3.5mln/mm3) o come una
ridotta concentrazione di Hb (<14g/dL nell’uomo e di 12g/dL nella donna).

Ci sono sintomi e segni che contraddistinguono ciascun tipo, ai quali se ne affiancano,


tuttavia, alcuni generici e comuni alle varie forme:

- Se l’insorgenza è lenta il pz può essere asintomatico


- Astenia e affaticabilità per poco O2 ai muscoli
- Cardiopalmo per aumento della FC (>100bpm) e possibile scompenso in pz con
sottostante patologia cardiaca o comparsa/peggioramento dell’angor in pz con stenosi
coronarica
- Dispnea per aumento della frequenza respiratoria come conseguenza del circolo
ipercinetico (il quale, oltre a questa patologia, può essere dovuto anche a
ipertiroidismo e Beri-Beri, ovvero una malattia da carenza di B1 che rende impossibile
utilizzare il glucosio)
- Comparsa di soffi, sempre dovuti al circolo ipercinetico
- Nel caso sia presente una componente emolitica può presentarsi subittero
- Pallore, specie a livello di sclere, palmo delle mani e letto ungueale, dovuto alla
vasocostrizione
- Alterazione di unghie (coilonichia, ovvero unghie a cucchiaio, crescita dismorfica,
lunetta bianca e deformità del letto ungueale) e capelli.
- Deformità ossee

ANEMIE SIDEROPENICHE
Il Fe viene introdotto con l’alimentazione: a livello gastrico viene ridotto e poi, nel duodeno e
nel digiuno, viene assorbito. In realtà, solo il 20% del Fe ingerito viene assorbito, quindi,
essendo il fabbisogno per compensare le escrezioni, che non possiamo controllare, di circa
1mg/die (1.4 per le donne), bisognerebbe assumerne una quantità 4-5 volte maggiore. Il Fe
contenuto in fegato e muscoli, ovvero quello in forma eminica, è quello maggiormente
assorbito, mentre, quello non eminico organico deve essere ridotto, e dunque dipende dalle
secrezioni gastriche, e, infine, quello non eminico inorganico risente anche dell’associazione
con altri cibi. Per permettere l’assorbimento di questo ione, gli enterociti presentano ossidasi
e recettori appositi (ferroportina); per il trasporto è, invece, necessaria la transferrina, per cui
il midollo presenta dei recettori. Dopo essere stato internalizzato, il ferro può venire legato
alla ferritina e andare a formare dei depositi, oppure può essere utilizzato, prevalentemente
per andare a formare il gruppo eme o per sintetizzare i citocromi. Si tratta, dunque, di uno
ione fondamentale; non bisogna tuttavia accumularlo in maniera eccessiva perché può
rendersi tossico. Anche la carenza è tuttavia problematica: in caso si verifichi questa
evenienza, infatti, in 4-6giorni caleranno i depositi con innalzamento della transferrina per
cercare di aumentare il trasporto, e in parallelo ci sarà desaturazione della stessa e il calo
della ferritina.

Le cause di questa carenza possono essere:

1. Perdita cronica: emorroidi, ulcere gastriche/duodenali, k colon, polipi, ipermenorrea


2. Ridotto assorbimento: celiachia, Chron, resezioni, k stomaco

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3. Ridotta assunzione: rara, solo in caso di scelte alimentari estreme
4. Aumento richieste: gravidanza, accrescimento
5. Atransferrinemia congenita

La diagnosi di anemia sideropenica viene posta in seguito alla presenza di:

1. Segni e sintomi caratteristici:

a. Triade di Plummer: glossite, anemia microcitica e disfagia per proliferazione


della mucosa dell’ipofaringe.
b. Glossite di Hunter: le cellule per replicare richiedono Fe, non riuscendo a farlo
la mucosa orale apparirà liscia e arrossata e la lingua disepitelizzata con
associati disfagia e bruciore.
c. Ipersensibilità termica del cavo orale
d. Ragadi
e. Unghie a vetrino d’orologio

2. Esame emocromocitometrico: hb ridotta, rbc normali, MCV<70-80fl, reticolociti<2.

3. Striscio di sangue: anisopoichilocitosi con gr sferici e dacriociti (a lacrima) piccoli e


pallidi. Con le colorazioni usate, ovvero EE o May-Grunwald-Giemsa, è possibile
vedere cellule a bersaglio.

4. Altri esami ematici:

a. Sideremia<40mcg/dL (vn 50-150mcg/dL)


b. Total iron binding capacity>450mcg/dL (vn 240-450mcg/dL)
c. Trasnferrinemia>400mg/dL (vn 240-360mg/dL): questo parametro è
importante perché una condizione con Fe basso e gr piccoli è riscontrata
anche in presenza di forme secondarie a patologie reumatologiche,
ematologiche o infettive, ma, in questi casi, la transferrinemia sarà normale.
d. Saturazione della transferrina<25-15% (vn 30-50%)
e. Ferritinemia ridotta (vn 100mcg/dL nell’uomo e 30mcg/dL nella donna): si
tratta comunque di un parametro non particolarmente affidabile in quanto la
ferritina è anche una proteina di fase acuta, dunque, in presenza di un
concomitante rialzo anche di VES e PCR, aumenterà a causa dell’evento
infiammatorio in corso.

Per quanto riguarda la terapia, un pz sideropenico deve essere trattato in modo da


ripristinare i depositi di ferro e, se presente, in modo da risolvere la situazione che ha portato
alla deplezione. La quantità di ferro da integrare viene decisa in funzione dei livelli di hb e
del peso del pz:

Peso 35-70Kg Peso >70Kg


Hb>10g/dL 1000mg 1500mg
Hb<10g/dL 1500mg 2000mg

Bisogna poi scegliere tra le diverse formulazioni disponibili:

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- Ferrograd (ferro solfato per os): si prescrivono 1-2 cp/die da 525mg che contengono
100mg di ferro elementare. Per massimizzare l’assorbimento sarebbe auspicabile
l’assunzione a digiuno, ma, per rendere la tp maggiormente tollerabile per il pz, è
possibile assumerla anche a stomaco pieno: a digiuno, infatti, può causare nausea,
epigastralgia, dispepsia, stipsi e diarrea. Il ferro solfato è quello che ha i migliori
rapporti costo/beneficio, tuttavia è possibile prescrivere anche ferro gluconato o
utilizzare formulazioni liquide; inoltre, specie in passato, si poteva associare vitC per
massimizzare l’assorbimento.

- Ferlixit (62.5mg di ferro gluconato in 100mL di SF EV): si possono fare una o due
somministrazioni al giorno in 60 minuti (infusione lenta per la tendenza a dare flebiti)
e vi si ricorre quando i pz non assorbono il ferro per os o non lo tollerano.

- Ferinject (500 mg di carbossimaltosio ferrico in flaconi da 10mL EV): nonostante la


modalità di somministrazione sia la medesima del farmaco precedente, in questo caso
la quantità di ferro è molto maggiore quindi è possibile ripristinare le riserve in tempi
più rapidi passando da due settimane a circa due giorni di tp.

Dopo circa 7-10 giorni dall’inizio della tp, se funziona, avrò un picco di reticolocitosi,
indice della ripresa di una corretta eritropoiesi; la normalizzazione dei valori di hb
richiederà poi 2-3 settimane. Questi controlli sono importanti per valutare l’efficacia della tp
e, per ottenere risultati i più attendibili possibile, il pz dovrebbe sospendere la tp con ferro
un paio di giorni prima del prelievo. Nel momento in cui le riserve sono tornate a valori
fisiologici assisteremo ad una normalizzazione dei valori di ferritina e, se siamo riusciti a
togliere le cause di depauperamento, è possibile sospendere la tp.

ANEMIE SIDEROBLASTICHE
Si tratta di forme caratterizzate dalla comparsa di sideroblasti ad anello nel midollo e di
eritrociti ipocromici nel sangue periferico a causa di un’alterata sintesi dell’eme. Questi
individui non hanno carenza marenziale, non possono però utilizzare il ferro presente
nell’organismo. Potrebbe trattarsi di un problema congenito, secondario all’assunzione di
farmaci (Isoniazide, Penicilammina…) o sostanza tossiche come l’alcol o il Pb o di una
manifestazione in corso di patologie di natura neoplastica o autoimmune. Vi è poi una
correlazione con carenza di rame o eccesso di zinco.

La terapia delle forme congenite consiste nella somministrazione di 50-100 mg/die di


Piridossina (VitB6); per le altre si può sospendere il fattore causale ma non fare molto altro.
Bisogna comunque stare attenti alla possibilità che il ferro, che non viene utilizzato, possa
accumularsi, motio per cui si possono prescrivere folati e chelanti. Se la causa è una
sindrome mielodispasica si possono dare stimolanti dell’eritropoiesi come la Darbopoietina;
se invece è correlata all’assunzione o alla carenza di qualcosa si può ovviare al problema alla
base. In tutti i casi possono poi essere utili trasfusioni per alleviare i sintomi.

ANEMIE MACROCITICHE DA CARENZA DI B12 E/O DI FOLATI


La vitB12 (Cobalamina) e i folati permettono la sintesi delle basi e, dunque, un deficit
comporterà difficoltà nella replicazione del DNA: l’anemia è la prima a comparire, ma, se
non si interviene, si avranno ripercussioni su tutta la linea emopoietica. Si verifica una
discrepanza tra la velocità di replicazione cellulare e la disponibilità di basi: il citoplasma
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matura, il nucleo no e l’anomalia maturativa comporta l’aggiungersi di una componente
emolitica sia splenica che midollare che va ad aggravare il quadro anemico dovuto
all’emopioesi inefficace. In queste condizioni il midollo viene continuamente stimolato:
aumenterà dunque la sua cellularità, ma, se non si ripristina il deficit, non si avrà un aumento
della produzione.

Per quanto riguarda le cause si devono considerare separatamente le due condizioni:

I folati vengono prodotti solo da vegetali e La B12 viene prodotta da alcuni batteri e la
batteri quindi devono essere introdotti con assumiamo mangiando alcuni alimenti
l’alimentazione (spinaci, fegato, arachidi, come carne, pesce e latticini. Il fabbisogno
verdura a foglia verde…): abbiamo è di circa 2mcg/die e i depositi che
bisogno di circa 100mcg/die per abbiamo a disposizione sono circa di 4mg.
compensare le perdite che avvengono Quasi tutto l’assorbimento avviene in
prevalentemente attraverso la bile e con lo maniera attiva a livello dell’ileo terminale
sfaldamento intestinale. Li assumiamo nella ed è permesso da una serie di passaggi
loro forma di deposito, ovvero il precedenti: a livello gastrico le proteasi
folilpoliglutammato: per poterli assorbire scindono la B12 dalla proteina a cui è
servono le deconiugasi che, a livello legata e permettono la sostituzione di
digiunale, permettono di ottenere quest’ultima con l’aptocorrina che viene
folilmono/diglutammato per i quali prodotta a livello parotideo ed ha la
abbiamo trasportatori. A questo punto i funzione di proteggere la B12.
folati vengono metilati e legati alle beta L’aptocorrina viene poi degradata dagli
globine che fungono da carrier, grazie alla enzimi pancreatici e sostituita dal fattore
B12 poi il gruppo metile viene rimosso. I intrinseco prodotto a livello gastrico: i
folati sono dunque trasportatori e donatori trasportatori a livello dell’ileo terminale
di unità monocarboniose che possono (cubiline) riconoscono proprio questo
essere trasferite sull’omocisteina per complesso e lo internalizzano. A questo
ottenere la metionina nel percorso di punto la B12 viene trasportata a livello
sintesi della mielina, per la sintesi di purine ematico dalla transcobalamina. Le cause di
e pirimidine. Sono dunque fattori una carenza di B12 comprendono:
fondamentali e abbiamo per questo a
disposizione depositi che, in caso di 1. Dieta vegana stretta
arresto dell’assunzione, sarebbero 2. Gastrite atrofica autoimmune con
sufficienti per circa 3-4 mesi. Una carenza anemia di Biermer (o perniciosa)
di folati può dipendere da: 3. Malassorbimento: resezioni,
celiachia, Chron, k gastrico
1. Carenza alimentare 4. Parassitosi (Tenie)
2. Methothrexate 5. Alcolismo (sia per il danno gastrico
3. Alcolismo (se ne riducono i depositi che epatico)
epatici) 6. Farmaci: colchicina, neomicina,
4. Epatopatia (beta globine) cloruro di k, antiepilettici,
5. Malassorbimento: resezioni, metformina
infezioni croniche, Chron 7. Gravidanza
6. Aumentato fabbisogno:
accrescimento, gravidanza (!spina
bifida)

La diagnosi viene posta in seguito alla presenza di:


23
1. Segni e sintomi caratteristici:

a. Astenia, pallore, subittero per aumento della bilirubina indiretta


b. Disturbi digestivi in caso di atrofia gastrica associata ad acloridia
c. Modesta epatosplenomegalia per aumento dell’emolisi
d. Alterazione degli epiteli proliferanti con, ad esempio, glossite e atrofia linguale
e. Disturbi neurologici per demielinizzazione e degenerazione dei cordoni
posteriori e laterali del midollo spinale, areflessia e andatura atassica da deficit
del controllo del movimento.

2. Esame emocromocitometrico: hb ridotta, rbc ridotti, MCV>100fl, reticolociti normali


o ridotti ed eventuale riduzione anche degli elementi delle altre linee.

3. Striscio di sangue: c’è macrocitosi.

4. Test di Schilling: si saturano EV i depositi di B12 poi se ne somministra una quota per
os marcata con cobalto 57. Se il pz è in grado di assorbirla, dopo 48h, ci sarà
radioattività urinaria >7%.

5. Altri esami ematici:

a. Dosaggio di folati e B12


b. Aumento bilirubina indiretta
c. Aumento LDH
d. Riduzione dell’aptoglobina

La terapia prevede di intervenire sulla causa a monte e sulla carenza con integrazioni. In
particolare, ad esempio, in caso di celiachia sarà sufficiente far cominciare al pz una dieta
adeguata per assistere ad una ripresa dell’assorbimento dovuta al miglioramento della
situazione villare. Si possono poi somministrare:

- Cianocobalamina per os: viene somministrata in dose di 1-2mg/die ma è utile solo


per coloro che non hanno come causa un malassorbimento. La vitamina B12 è poco
costosa e non è pericolosa in caso anche di sovradosaggio.

- Dobetin (cianocobalamina IM o SC): se ne somministra 1mg alla settimana per 8


volte, dopodichè, anche se rimane la necessità, si può passare ad 1 volta al mese.

- Formulazioni multivitaminiche sia per os che iniettabili

- Acido folico 1mg: vista la dose elevata, anche in caso di malassorbimento, è spesso
sufficiente questa modalità.

- Calcio levofolinato 7.5mg

- Folati EV: vi si ricorre prevalentemente in caso di ricovero e serve a velocizzare i


tempi, non tanto grazie ad un’efficacia maggiore.

24
ANEMIE EMOLITICHE
Fisiologicamente la vita media del GR è di 120gg; in caso sia presente un’anemia di questo
tipo essa sarà ridotta: in particolare, fino a che la vita media del GR rimane al di sopra dei
15gg, i meccanismi di compenso saranno sufficienti, mentre, al di sotto di questo cut off, si
manifesterà l’anemia. Il compenso, permesso da un aumento dell’eritropoiesi e dal numero
dei reticolociti, talvolta può venire meno anche in assenza di un’ulteriore riduzione della vita
media, ma in seguito a situazioni stressanti per l’organismo come una gravidanza, infezioni o
insufficienza renale. L’emolisi può avvenire all’interno dei vasi (prevalentemente per cause
extraglobulari) o a causa del sistema reticolo endoteliale con conseguente epato-
splenomegalia. A prescindere dalla sede, tipicamente avremo un aumento di LDH, della
conta reticolocitaria e della bilirubina indiretta associati ad una riduzione dell’aptoglobina.

Oltre alle forme dovute ad alterazioni dell’emoglobina, che verranno trattate separatamente,
l’emolisi può dipendere da diverse cause:

1. Alterazioni metabolico/enzimatiche:

a. Deficit di Glucosio-6P-Deidrogenasi: questo enzima è importante per


permettere di produrre NADPH, il quale riduce il glutatione e serve come
antiossidante diretto. In sua assenza, dunque, i gr sono più sensibili allo stress
ossidativo che può correlarsi, ad esempio, a infezioni, farmaci (sulfamidici,
paracetamolo, cloramfenicolo, chinolonici…), fave (divicina e convicina)… Un
attacco inizia con malessere, debolezza e dolore addominale; dopo 2-3h il pz
sviluppa ittero e le urine diventano ipercromiche. L’emolisi che causa questi
sintomi è prevalentemente intravascolare e darà luogo ad un’anemia
normocitica e normocromica. Oltre ai classici indicatori di emolisi, in questo
caso allo striscio potrò vedere le cosiddette cellule hemighost e alcuni gr
appariranno “morsicati”. Il gene si trova sul crX, quindi i maschi sono sempre
sintomatici, mentre le femmine possono presentare la mutazione in eterozigosi,
omozigosi o essere affette da una forma con mosaicismo.

Terapia: la principale misura che questi pz devono applicare è la prevenzione.


Essi dovranno infatti evitare tutto ciò che può innescare una crisi emolitica,
quindi, ad esempio, è opportuno che facciano tutti i vaccini possibili per
evitare infezioni. Se poi una crisi dovesse verificarsi e hb dovesse scendere
sotto ai 7g/dL si deve trasfondere e, ovviamente, rimuovere il fattore
scatenante.

b. Deficit di Piruvato-Chinasi: si tratta di un enzima fondamentale per fare la


glicolisi, ovvero l’unica fonte energetica del GR. In sua assenza, dunque, le
pompe non funzionano correttamente e ci sarà danno osmotico e non
vengono correttamente fosforilate le proteine del citoscheletro con
compromissione dell’integrità strutturale. Il risultato sarà dunque emolisi
extravascolare perché il sistema reticolo-endoteliale riconosce questi gr come
anomali e li distrugge.

Terapia: pz con forme lievi possono anche non richiedere alcun trattamento
particolare, in altri casi possono rendersi necessari trasfusioni o la splenectomia
per evitare che venga ridotto il numero di reticolociti che vengono prodotti

25
come compenso. La splenectomia non è in grado di risolvere il problema, può,
tuttavia, essere importante per ridurre il numero di trasfusioni a cui il soggetto
deve sottoporsi.

c. Emoglobinuria parossistica notturna: a causa di una mutazione somatica del


gene PIGA, questi soggetti non riescono ad ancorare correttamente il
fosfatidilinositolo alla membrana dei GR. Essendo questa proteina importante
per proteggere la cellula dalla lisi complemento-mediata, questi soggetti
avranno emolisi intravascolare con urine nerastre per la presenza al loro
interno di hb ossidata. Oltre all’emolisi, questo difetto si caratterizza anche per
pancitopenia e trombosi con sintomi associati a seconda del distretto colpito.
Tuttavia, nonostante sia una patologia cronica, l’emolisi non è continua ma si
presenta con delle crisi che possono essere scatenate da vaccinazioni,
interventi, antibiotici, infezioni o abbassamenti della temperatura corporea,
fatto che fisiologicamente avviene di notte e dà il nome alla patologia. Per
diagnosticarla con certezza si può fare citometria a flusso per dimostrare
l’assenza della proteina, oppure si può fare il test di Ham che prevede di
provare a scatenare l’emolisi abbassando il pH.

Terapia: in acuto potrebbe rendersi necessario fare trasfusioni ematiche,


mentre non ci sono ancora evidenze sull’effettiva utilità degli steroidi. In
cronico può essere utile fare una prevenzione contro il rischio trombotico: essa
è sconsigliata in soggetti che non abbiano mai avuto eventi; al contrario gli
anticoagulanti orali sono indicati in seguito ad un evento trombotico. Si è visto
che l’Eculizumab (blocca la scissione del frammento C5) migliora la qualità
della vita di questi pz, ma non influenza il rischio di morte; in alternativa si può
ricorrere al tx allogenico. Se si decide di prescrivere Eculizumab, si deve tenere
presente che si associa ad un’aumentata suscettibilità alle infezioni, soprattutto
da parte di germi capsulati, motivo per cui è importante vaccinare
preventivamente.

2. Alterazioni morfologiche

a. Ellissocitosi: è una patologia ereditaria a trasmissione AD a causa della quale i


GR sono maggiormente esposti all’emolisi extravascolare a vista la loro
morfologia alterata.

Terapia: vedi la forma successiva

b. Sferocitosi: si tratta di una patologia AD dovuta ad una mutazione a carico dei


geni che codificano per l’ankyrina (50%), la spectrina (25%) o la proteina 3
(25%). Queste proteine citoscheletriche sono importanti perché legano le
proteine che influenzano la forma e la permeabilità della membrana stessa. Ne
derivano diverse alterazioni: in primo luogo la forma sferica non viene assunta
solo dai gr invecchiati, come fisiologicamente dovrebbe avvenire, e dunque
c’è una maggior emolisi dovuta al sistema reticolo-endoteliale; in secondo
luogo aumenta la permeabilità a Na+ e K+ e, dunque, si riduce la resistenza
osmotica, al punto che si ha emolisi anche in soluzioni normali e, infine,
avremo anche un aumento della rigidità. Il risultato è che questi pz saranno

26
anemici, con splenomegalia palpabile, ittero e talvolta anche colelitiasi con
calcoli iperpigmentati. Dal punto di vista diagnostico bisogna ricordare che,
sebbene non si tratti di una forma autoimmune, si può avere una positività
spuria al test di Coombs dovuto al fatto che, a causa della mutazione, possono
venire esposti antigeni normalmente non evidenti. Appare, dunque, più utile
fare un test di resistenza osmotica.

Terapia: essendo una condizione genetica, sarà sostanzialmente di supporto


con supplementazione cronica di acido folico per compensare l’aumentato
fabbisogno da iperplasia eritroide ed, eventualmente con trasfusioni. Questi pz
beneficiano poi di splenectomia, che generalmente viene eseguita in età
scolare se i valori di hb rimangono in maniera persistente al di sotto degli
8g/dL. Queste procedura espone il pz a vari rischi, sia di natura infettiva, come
un aumentato rischio di sviluppare sepsi da Pneumococco, Meningococco o
H.Influenzae, che circolatoria con possibile occlusione della vena porta o di
quella mesenterica. Il rischio infettivo rende ragione del perché, anche a fronte
di valori di hb molto ridotti, non si effettua splenectomia prima dei 3-5 anni e
del perché, in vista dell’operazione, ci sia indicazione per questi pz a
sottoporsi ai vaccini disponibili. A volte l’efficacia non è completa perché nei
casi gravi permane una quota di emolisi a livello di fegato e midollo.

3. Cause extraglobulari:

a. Radiazioni

b. Agenti chimici: alchilanti, petrolio, benzene

c. Farmaci: ci sarà un’anemia normo o macrocitica, reticolocitosi, riduzione


dell’aptoglobina, aumento di LDH e bilirubina indiretta. Il test di Coombs sarà
positivo. Le manifestazioni cliniche variano da forme lievi di anemia a quadri
gravi di emolisi intravascolare con emoglobinuria, insufficienza renale acuta e
coagulazione intravasale dissemina. Ci possono essere due diversi meccanismi
patogenetici:

i. Cefalosporine, Piperacillina, Penicillina ad alte dosi, chinino e Chinidina


si associano alla formazione di anticorpi farmaco dipendenti; spesso
basterà sospendere il farmaco per far regredire il quadro. In altre parole,
in vitro questi ab hanno reattività verso i GR solo in presenza del
farmaco.
ii. Metildopa, Levodopa, Inibitori delle beta-lattamasi e chemioterapici
contenenti platino possono dare forme con anticorpi farmaco
indipendenti, tali per cui può essere necessario ricorrere ad
immunosoppressione. Si tratta di forme di fatto indistinguibili dalle
anemie emolitiche autoimmuni da ab caldi e la patogenesi può
includere mimetismo molecolare, adsorbimento aspecifico in superficie
che altera le proprietà antigeniche e disregolazione della risposta
immunitaria.

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Terapia: come già accennato, il primo passo deve sempre essere quello di
sospendere il farmaco ritenuto responsabile. Nelle forme non farmaco-
dipendenti si può dare 1mg/kg/die di Prednisone per spegnere la risposta
autoimmune che è stata scatenata dal farmaco. In caso di forme gravi, si deve
poi prevenire il danno renale mediante adeguata idratazione al fine di
mantenere una diuresi di almeno 2mL/kg/h; in casi estremi si ricorre alla dialisi.
È poi stata proposta l’alcalinizzazione delle urine in caso di emoglobinuria
severa.

d. Emolisine: serpenti, funghi, streptococchi (? La danno in vitro ma in vivo è


raro)

e. Problemi immunitari:

i. Malattia emolitica del neonato


ii. Trasfusione con sangue di gruppo non affine

f. Microangiopatie: PTT, SEU o microangiopatie trombotiche secondarie possono


causare anemia.

g. Problemi autoimmunitari (Coombs+):

i. IgG (Ab caldi): a temperature >37°C le IgG legano i gr opsonizzandoli e


facendo, dunque, in modo che essi vengano distrutti a livello splenico.
Possono essere forme idiopatiche o secondarie a LES, linfomi, sindromi
linfoproliferative e MM.

Terapia: in acuto è possibile somministrare 125mg 1-2volte/die EV di


Metilprednisolone, fare trasfusioni, o dare 400mg/kg/die per 5 giorni o
2g/kg/die per 2 giorni di Ig: esse interferiscono con la clearence delle
cellule rivestite dagli anticorpi responsabili dell’emolisi. Infine, è
possibile anche fare plasmaferesi sostituendo il plasma del pz con
quello di donatori che sarà privo di autoab. In seconda linea si può fare
splenectomia o dare Rituximab.
In cronico la prima linea di tp è costituita dall’impiego di steroidi (1-
2mg/Kg/die di Deltacortene per os) cui il 60-70% dei pz risponde. Lo
steroide esplica la sua azione riducendo la produzione di emolisine, la
loro affinità per gli epitopi e l’esposizione di recettori FCgamma da
parte dei macrofagi. Si può inoltre ricorrere a splenectomia, essendo
questa la sede principale dell’emolisi. In seconda linea si possono
introdurre immunosoppressori come l’Azatioprina, la 6-
Mercaptopurina, la Ciclofosfamide o il Clorambucil e, come ultima
ratio, agenti citostatici come la vincristina e la vinblastina.

ii. IgM (Ab freddi/crioagglutinine): essendo questi ab pentamerici, essi


sono in grado di legare due epitopi adiacenti e dunque di attivare una
lisi intravascolare complemento-mediata.

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Terapia: molte opzioni utilizzabili nella forma precedente non sono qui
sfruttabili. Ad esempio, i corticosteroidi danno pochi risultati. Anche se
fosse necessario fare trasfusioni, è importante farle a caldo per evitare di
esporre i gr a basse temperature. Fondamentale per questi pz è la
prevenzione, evitando che si espongano a condizioni che possano
abbassare la temperatura corporea. Si usa poi il Rituximab, che, se non
dovesse funzionare da solo, può essere associato a Fludarabina o
Bortezomib.

iii. Sindrome di Donath-Landsteiner: si hanno IgG che legano i gr a freddo


e danno emolisi.

ANEMIE DA ALTERAZIONI DELL’EMOGLOBINA


Hb è sintetizzata dal pro-eritroblasto e dall’eritroblasto ortocromatico. È formata dall’eme e
dalle globine e occupa più del 95% del citoplasma: se ci sono problemi nella sua sintesi avrò
dunque un’anemia microcitica. Possiamo avere alterazioni a diversi livelli:

1. Talassemie (alterazioni quantitative delle catene globiniche): all’interno della struttura


dell’hb ci sono 4 catene globiniche, due di tipo alfa e due di tipo non alfa.
Fisiologicamente, i tre tipi possibili sono hbA (alfa2beta2), hbA2 (alfa2delta2) e hbF
(alfa2gamma2); possono tuttavia formarsi altri tetrameri che sono indice di patologia
sottostante: hbH (beta4), hbBarts (gamma4) e hbPortland (beta2gamma2). La sintesi
di catene alfa è fisiologicamente bilanciata da quelle non alfa a formare tetrameri
corretti; se così non avviene, la solubilità delle singole catene è differente: esse
precipitano formando i corpi di Heinz rendendo la forma del gr anomala e
permettendo la distruzione a livello midollare o splenico. Possiamo avere:

a. Alfa talassemie (2 coppie di geni per le catene alfa):

i. Alfa talassemia 2: manca un solo gene alfa e i pz sono sostanzialmente


asintomatici perché gli altri tre compensano. C’è un 1-2% di hbBarts.
ii. Alfa talassemia 1: mancano due geni alfa quindi il soggetto sarà
anemico e l’hbBarts sarà il 5-6%. I gr sono solo lievemente alterati, così
come sarà lieve la sintomatologia.
iii. Sindrome da hbH: mancano tre geni alfa e, nonostante l’aumento di
hbH e hbBart, l’anemia è marcata.
iv. Idrope fetale: mancano tutti e 4 i geni alfa dunque la condizione non è
compatibile con la vita. Il feto, figlio di due genitori con l’alfa1, muore
appena nato: avrà solo hbBart e hbPortland dunque sarà molto ipossico
perché O2 viene ceduto poco. L’idrope è dovuta alla vasodilatazione
massiva e all’aumento della permeabilità.

Terapia: si può supportare il midollo dando 1mg/die di acido folico e, per


cercare di limitare l’emolisi, si può fare splenectomia.

b. Beta talassemie (1 copia di geni per le catene beta):

i. Maior o morbo di Cooley: il difetto a carico delle catene beta è in


omozigosi (beta0/beta0 –> assenza di catene beta). Le catene

29
precipitano già durante l’eritropoiesi e si ha un aumento compensatorio
di hbF, la quale non riesce comunque a togliere l’organismo da una
situazione di ipossia perché cede più difficilmente l’O2. Un altro
meccanismo di compenso è dato dall’aumento della stimolazione del
midollo da parte dell’EPO, la quale, risulta però inefficace e, anzi, porta
a complicanze come l’ipertrofia midollare con malformazioni
scheletriche come il cranio a spazzola o la facies microcitica (iperplasia
eritroide nel mascellare e protuberanza frontale), e a eritropoiesi
extramidollare, prevalentemente a livello splenico ed epatico con
aumento delle dimensioni di questi organi, la cui funzione è già
stimolata dall’aumento dell’emocateresi. Infine, grave problema di
questi pz è l’accumulo di ferro, fatto che viene peggiorato dalla
continua necessità di trasfusioni. Questa patologia, infatti, esordisce nei
primi anni di vita e rende gli affetti dipendenti dalle trasfusioni.
ii. Intermedia (beta+/beta+ o beta0/beta+)
iii. Minor: la malattia è in eterozigosi (beta+/beta o beta0/beta) e gli unici
segni sporadici possono essere dispnea o tachicardia quando, ad
esempio, il pz si reca ad alta quota.

Terapia: tradizionalmente i pz vengono curati con trasfusioni periodiche e, per


limitare il fenomeno dell’emosiderosi, si somministrano anche chelanti del
ferro. In particolare si può somministrare Desferioxamina SC o EV in caso di
condizioni gravi e in dosi dipendenti dall’età del pz (fino a 2g nei bambini e
fino a 2.5g negli adolescenti). Per limitare il disagio del pz, ad oggi è
disponibile anche il Deferiprone che può essere somministrato per os. Più
recentemente è stato introdotto il tx allogenico e, ad oggi, si stanno studiando
nuove tp come la manipolazione dell’espressione genica con 5-Azacytidine,
idrossiurea, eritropoietina, butirrato o il trapianto di cellule staminali.

2. Drepanocitosi (alterazione qualitativa delle catena globiniche): nelle catene beta in


posizione 6 c’è uno scambio adenina–>timina che porta ad avere una valina (apolare)
al posto di un acido glutammico (polare). La sostituzione abbassa la solubilità quando
hb è in forma deossigenata e, quindi, c’è precipitazione e il GR assume la
caratteristica forma a falce: in particolare, ciò si verifica a livello del microcircolo
perché qui lo stress ossidativo è maggiore e perché l’hb cede O2. Inizialmente
l’alterazione morfologica è reversibile quando, arrivando ai polmoni, si ha una nuova
ossigenazione, ma, con il tempo, diventa irreversibile. Questi GR falcemici faticano a
passare dai capillari e, dunque, soprattutto alle estremità, avremo scarsa
ossigenazione: esse diventeranno dapprima fredde e poi anche necrotiche con dolore
associato. A ciò può andare a sovrapporsi una condizione acuta dovuta ad un
aumento generalizzato dello stress ossidativo: alcuni farmaci, infezioni, cambiamenti
della temperatura, esercizio fisico intenso possono portare ad una crisi emolitica acuta
intravascolare. La crisi si caratterizza per febbre molto alta, anemia rapidamente
ingravescente e grave e per la presenza di dolore toracico e articolare. Possono poi
essere presenti infezioni o microlesioni cerebrali, sempre nell’ottica dei danni dovuti
alle turbe del circolo. Ci può essere ostruzione venosa acuta della milza con crisi da
sequestro splenico (trasfusioni e splenectomia), occlusione dei vasi retinici con
emorragia e distacco di retina, necrosi della papilla renale, ictus cerebrale, ischemia
articolare, priapismo e sindrome toracica acuta da interessamento del circolo

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polmonare che alla lunga dà ipertensione polmonare e scompenso dx. Quando sono
presenti sintomi indicativi per questa patologia, spesso in associazione a familiarità, la
drepanocitosi è facilmente diagnosticabile facendo elettroforesi dell’hb che mostrerà
picchi anomali.

Terapia: questi soggetti devono evitare le crisi acute quindi serve una tp profilattica
con vaccini, acido folico e, talvolta, antibiotici (in prevenzione si danno soprattutto ai
bambini; per quanto riguarda gli adulti, invece, devono essere istruiti sull’importanza
di assumerli in caso di febbre o dell’insorgenza di sintomi come odinofagia, tosse o
disuria). Se, nonostante questo, il pz dovesse avere una crisi si fa idratazione EV
associandola ad antibiotici come il Ceftriaxone, trasfusioni e tp per il dolore correlato
all’ischemia. Nel caso in cui dovesse esserci una crisi toracica acuta è necessario dare
O2 per mantenenere la s02>92-95%.
In cronico, in caso le crisi acute siano più di 2-3 l’anno con tp antalgica e/o
ospedalizzazione, nel caso in cui ci sia stata una pregressa crisi toracica acuta o se il
pz viene frequentemente ricoverato, c’è indicazione a prescrivere una tp con
10mg/kg/die di Idrossiurea, che poi deve essere aumentata controllando
periodicamente emocromo e funzionalità renale. Viene sospesa nel caso in cui ci
siano alterazioni all’emocromo. Altra tp che può essere eseguita è quella con L-
Arginina, che ha dimostrato però di essere di scarsa efficacia nel prevenire i fenomeni
trombotici. Infine, data la giovane età dei pz, è possibile proporre il tx.

3. Porfirie (alterazioni nella sintesi del gruppo eme): l’eme costituisce il gruppo non
prostetico di hb, mb e citocromi. La sintesi avviene principalmente a livello epatico e
midollare grazie a 8 diversi enzimi: nel fegato il processo è regolato dall’attività del
primo enzima (ala-sintetasi) che è inducibile e dipendente dal feedback negativo dato
dalla quantità di eme già presente nelle cellule; a livello midollare, invece, l’ala
sintetasi è regolata dal processo di captazione del ferro. Le porfirie sono un gruppo di
otto malattie metaboliche ereditarie caratterizzate da manifestazioni neuroviscerali
intermittenti, da lesioni cutanee, o dalla combinazione delle due. La trasmissione è
autosomica dominate con penetranza incompleta oppure autosomica recessiva con
penetranza completa. I segni clinici si manifestano di solito nell'età adulta, ma in
alcuni casi anche nell'infanzia. Le porfirie sono classificabili in due gruppi, epatico ed
eritropoietico, a seconda della locazione principale dell'anomalia metabolica. Le
porfirie epatiche croniche e le porfirie eritropoietiche presentano lesioni cutanee di
tipo bolloso o dolore acuto nelle zone esposte al sole (lesioni foto-algiche). Nelle
porfirie epatiche acute si verificano attacchi neuroviscerali associati ad intensi dolori
addominali (spesso con nausea, vomito e costipazione) e sintomi neurologici e
psicologici. Avremo accumulo di porfirine e dei loro precursori (acido delta-
aminolevulinico, ALA e porfobilinogeno, PBG) nel fegato e nel midollo osseo. Le
manifestazioni neurologiche sono causate dai precursori PBG e, specialmente, ALA
(neurotossicità diretta o indiretta). La diagnosi si basa sulla misurazione delle porfirine
e dei precursori nei campioni biologici (urine, feci, sangue). La diagnosi differenziale
include, in presenza di attacchi acuti, la sindrome di Guillain-Barré e tutte le cause di
dolore addominale; in presenza di segni cutanei, le fotodermatosi. Abbiamo:

a. Porfirie acute: si hanno attacchi scatenati da variazioni ormonali, alimenti,


alcol, farmaci, infezioni, diete povere di zucchero… I sintomi possono essere
vari, tra cui: dolore addominale, febbre, leucocitosi, tachicardia, sudorazione,
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iponatriemia, iperestesie, parestesie, tetania, allucinazioni, coma… Fanno parte
di questo gruppo:

i. Porfiria acuta intermittente


ii. Deficit di ala-deidrasi
iii. Coproporfiria ereditaria

Terapia: per gli attacchi acuti effettuare tempestivamente l'iniezione di eme


umano e/o la perfusione di carboidrati.

b. Porfirie croniche, si caratterizzano per la fotosensibilità. Possiamo avere:

i. Porfiria cutanea tarda: è la più frequente e generalmente si manifesta a


30-40 anni. I pz hanno fragilità cutanea, con formazione di bolle,
erosioni che si trasformano in bolle e cisti. Spesso ci sono poi problemi
epatici.
ii. Porfiria eritropoietica congenita: causa anemia emolitica e fotosensibilità
presenti dalla nascita. Le urine sono rosso scuro e, illuminando i denti
con luce uv, noteremo una colorazione rossastra dovuta all’accumulo di
porfirine a livello del fosfato di calcio. È rara e richiede trasfusioni e
trapianto.
iii. Protoporfiria eritropoietica: i pz hanno bruciore, eritema ed edema nelle
zone esposte al sole con ispessimento cutaneo a livello del dorso delle
mani e del naso.
iv. Porfiria epatoeritropoietica: si caratterizza per fotosensibilità grave,
fragilità cutanea, ipertricosi e anemia grave.
v. Porfiria variegata: le manifestazioni sono soprattutto cutanee ma c’è
anche la presenza di alcuni sintomi tipici delle forme acute come i
problemi neurologici.

Terapia: si possono poi prescrivere antiossidanti come il betacarotene,


idrossiclorochinina per facilitare l’eliminazione delle porfirine e Colestiramina
per ridurne l’assorbimento.

ANEMIA DA MALATTIE INFIAMMATORIE CRONICHE


Si tratta di forme multifattoriali che si osservano in un gruppo assai eterogeneo di condizioni
che comprendono infezioni, malattie autoimmuni, neoplasie, scompenso cardiaco, rigetto di
tx… Tutti questi quadri sono accomunati dall’attivazione della risposta immunitaria con
conseguente produzione di citochine. Rappresenta la forma pià frequente nei pz
ospedalizzati e, generalmente, è di lieve entità. Generalmente è normocitica e normocronica.

ANEMIE DA DEFICIT DI EPO


I pz con insufficienza renale producono spesso una ridotta quantità di questo ormone che è
fondamentale per stimolare l’eritropoiesi, in maniera comunque non proporzionale all’entità
del danno d’organo.

La terapia prevede, nel caso in cui i valori di hb scendano al di sotto degli 11g/dL, in assenza
di carenze, di somministrare EPO ricombinante al fine di mantenere i valori di hb tra 11 e 13
g/dL. Se ne devono prescrivere 80-120U/kg EV o SC 2-3 volte a settimana in modo da

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raggiungere circa 6000U nell’arco di 7 giorni. Gli effetti collaterali comprendono cefalea,
ipertensione e flu-like syndrome responsiva ai fans. Un’alternativa è data dalla
Darbepoietina alfa che richiede una somministrazione a settimana di 0.45-0.9mcg/Kg EV o
SC. Durante la tp è importante evitare bruschi aumenti dell’ematocrito e controllare la PA.

ANEMIE NELL’ANZIANO
Studi di popolazione hanno evidenziato come, al di sopra dei 65 anni, la prevalenza sia del
10% e sale ancora fino al 25% se si considerano solo soggetti con più di 85 anni, o fino al
50% negli anziano con multimorbilità o ospedalizzati. Nonostante ciò, spesso si tratta di un
fenomeno sottovalutato. In realtà, invece, influenza la qualità di vita a causa dell’astenia,
della debolezza e dell’aumentato rischio di cadute che ne deriva, e, anche per gradi lievi, si
associa in maniera indipendente ad un aumento della mortalità. Nell’anziano, l’anemia
riconosce quasi sempre una genesi multifattoriale complessa; i fattori più frequentemente
implicati sono malnutrizione (edentulia, anoressia, ridotto apporto dietetico nei soggeti
ospedalizzati), malassorbimento (esofagiti, gastriti, neoplasie maligne, angiodisplasie, farmaci
antitrombotici) e perdite gastrointestinali (gastriti croniche, infezioni da HP, PPI, polipi,
diverticolosi, neoplasie, angiodisplasie, emorroidi, farmaci antitrombotici). Spesso c’è poi una
componente di insufficienza renale con ridotta produzione di EPO; anche il midollo poi
“invecchia” e c’è una ipoproduzione.

Terapia: si devono correggere gli eventuali deficit e poi si deve intervenire, per quanto
possibile, sulle altre cause.

33
SINDROMI MIELODISPLASICHE
Si tratta di disordini acquisiti clonali delle cellule staminali emopoietiche. Si caratterizzano
per emopoiesi inefficace (riduzione del numero di cellule appartenenti a quella linea),
midollo ipercellulare con blasti anomali e rischio di evoluzione in leucemia acuta secondaria.

Secondo la vecchia classificazione FAB possono essere suddivise in:

1. Anemia refrattaria
2. Anemia refrattaria con sideroblasti ad anello
3. Anemia refrattaria con eccesso di blasti (5-20%)
4. Anemia refrattaria con eccesso di blasti in trasformazione (20-30%)
5. Leucemia mielomonocitica cronica

Attualmente si usa la classificazione WHO che si basa sul numero e sul tipo delle citopenie e
sulla percentuale di blasti presente a livello midollare:

1. Citopenia refrattaria con displasia unilineare


2. Anemia refrattaria con sideroblasti ad anello
3. Citopenia refrattaria con displasia multilineare
4. Anemia refrattaria con eccesso di blasti I (5-9%)
5. Anemia refrattaria con eccesso di blasti II (10-19%)
6. Sindrome mielodisplasica con delezione 5q isolata

Uno dei problemi principali di questi pz è il rischio di trasformazione leucemica che varia in
base al tipo di sindrome presente e pesa sulla prognosi. In particolare, il rischio è massimo
nel caso in cui sia presente un eccesso di blasti (>50%), intermedio in caso di citopenia con
displasia multilineare e di sindrome con delezione 5q isolata (>20%) e più bassa negli altri
casi. Ovviamente questi ultimi sono quelli con la prognosi migliore, con una sopravvivenza
mediana superiore ai 5 anni, mentre l’anemia refrattaria con eccesso di blasti si caratterizza
per una sopravvivenza media inferiore ai 2 anni. Particolare è il caso della sindrome
mielodisplasica con delezione 5q isolata: nonostante il rischio piuttosto alto di progressione,
la prognosi rimane comunque buona con sopravvivenza media >5 anni.

DIAGNOSI
Dal punto di vista obiettivo questi soggetti saranno sostanzialmente negativi; è allora
importante basarsi sui dati che ricaviamo dall’esame emocromocitometrico e morfologico del
sangue periferico: avremo una riduzione dei livelli di hb e della conta dei gr, reticolociti
scarsi e, talvolta, alterazioni anche piastriniche e leucocitarie. Tipicamente avremo poi anche
sideremia elevata, transferrina bassa e ferritina alta. Per approfondire è necessario procedere
con un aspirato o con una biopsia osteomidollare: vedremo una condizione di ipercellularità
e i difetti nell’emopoiesi. Potremo poi contare i blasti, verificare se siano presenti sideroblasti
ad anello e fare analisi per stabilire l’immunofenotipo e citogenetiche. Spesso potremo infatti
notare anomalie cromosomiche che è importante conoscere poiché si correlano alla
prognosi: ad esempio, se viene coinvolto il cromosoma 7 avremo un peggioramento della
prognosi, mentre il riscontro di un cromosoma 8 sovrannumerario ha ancora significato
incerto.

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TERAPIA
Viene scelta sulla base dell’età, delle eventuali comorbidità e del rischio di progressione: si
può applicare l’International Prognosis System Score. Si può optare per:

- FU, ovvero una strategia wait and see;


- Prescrivere semplicemente una tp di supporto per la citopenia: si possono fare
trasfusioni di piastrine ed emazie, dare EPO o fattori di crescita. Il problema di questi
ultimi è che favoriscono anche la crescita dei blasti. Se c’è linfopenia può essere utile
prescrivere antibiotici.
- Immunosoppressori come ciclosporina o steroidi.
- Antiangiogenetici come Talidomide.
- Ct a bassa/media intensità con Citosina-Arabinoside, 5-Azacitidina e Decitabina.
- Ct ad alta intensità con Citosina-Arabinoside, Etoposide, Idrarubicina. Mitoxantrone.
- Tx allogenico di midollo: si fa raramente perché i pz sono anziani.

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SINDROMI MIELOPROLIFERATIVE ACUTE
Si tratta sostanzialmente delle leucemie mieloidi acute, ovvero di malattie neoplastiche del
sistema ematopoietico, ed in particolare delle cellule totipotenti o multipotenti con
alterazione e blocco della maturazione. Si avrà, dunque, un accumulo in circolo e nel
midollo di cellule blastiche. Il quadro clinico può dipendere da insufficiente presenza di
cellule mature, dall’infiltrazione di organi e tessuti o dalla liberazione di mediatori, sia da
parte delle cellule neoplastiche che non, che portano a febbre, dolore, calo ponderale e
sudorazione profusa.

Sono patologie tipiche dell’anziano che non cronicizzano mai. Possono esserci:

1. Forme primarie
2. Forme secondarie a farmaci o ad altri leucemogeni (esordio subacuto e tp meno
efficace)
3. Forme secondarie a sindromi mielodisplasiche (esordio subacuto e tp meno efficace)

Per far diagnosi si ricorre a:

1. Esami ematici: i leucociti possono essere presenti in numero variabile, è però


importante chiedere anche la formula leucocitaria perché i blasti mieloidi
rappresentano spesso il 50-100%.
2. Biopsia midollare: la cellularità sarà aumentata a discapito del tessuto adiposo che
sarà sostanzialmente assente. Il numero di blasti è >30%.
3. Esami genetici per ricercare mutazioni, le quali possono avere significato diagnostico,
predittivo e prognostico.

La FAB divide le LAM in:

- M1: mieloblastica senza maturazione (18%)


- M2: mieloblastica con maturazione (35%)
- M3: promielocitica (20%). Si caratterizza per l’insorgenza di CID causata da
materiale tromboplastico liberato dalle cellule neoplastiche, ci saranno dunque
emorragie estese e gravi. Alla base c’è la formazione del gene chimerico PML-RARalfa,
motivo per cui è possibile trattarla associando retinoidi e antracicline.
- M4: mielomonoblastica (20%)
- M5: monoblastica. Si caratterizza per iperleucocitosi, epatosplenomegalia,
linfoadenomegalia, iperplasia gengivale e possibile interessamento di cute e SNC.
- M6: eritroblastica (più frequentemente secondaria a mielodisplasia)
- M7: megacarioblastica

La classificazione WHO prevede, invece, una suddivisione in:

- LAM con anomalie genetiche ricorrenti


- LAM con displasia multilineare
- LAM da radiazioni o agenti alchilanti
- LAM non altrimenti specificata

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Per quanto riguarda la terapia, queste patologie vengono trattate con ct di induzione e
consolidamento; per le forme aggressive o che non vengono gestite in questo modo, si può
pensare al tx di midollo. In particolare, per l’induzione si usano Antracicline e Citarabina; per
il consolidamento, gli schemi convenzionali prevedono di utilizzare Citarabina ad alte dosi, a
volti associate ad Antraciclina.

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SINDROMI MIELOPROLIFERATIVE CRONICHE
LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA
È un disordine mieloproliferativo cronico causato dall’espansione clonale di una cellula
staminale emopoietica multipotente e caratterizzato clinicamente da leucocitosi con cellule
mieloidi immature circolanti, marcata iperplasia mieloide midollare e frequente piastrinosi e
splenomegalia. Si ha un enorme espansione clonale di cellule che sono in grado di
completare il processo maturativo e che si caratterizzano per la mutazione t(9;22), a seguito
della quale si forma il cromosoma Philadelphia e si viene a creare il gene chimerico BCR-ABL.
Si assisterà ad un aumento della produzione di una proteina ad elevata attività
tirosinchinasica con alterazione dei sistemi di apoptosi, aumento del segnale mitogenico e
perdita dei segnali di adesione al microambiente. Il decorso clinico della malattia si
caratterizza per il susseguirsi di tre diverse fasi:

1. Cronica: dura 4-6 anni e si caratterizza per leucocitosi, piastrinosi, lieve anemia e
splenomegalia. I blasti rimangono <15% sia nel sangue periferico che nel midollo.
2. Fase accelerata: dura circa 1 anno, non è sempre presente e si contraddistingue per
progressiva anemizzazione e per la leucocitosi con lieve alterazione della formula
leucocitaria. I sintomi clinici si accentuano e aumentano i blasti, che però rimangono
<30%.
3. Fase blastica: dura 3-6mesi e viene definita come il momento in cui i blasti circolanti
diventano >30%; si caratterizza poi per il possibile coinvolgimento di altri organi oltre
a midollo, milza e fegato.

La diagnosi può essere occasionale o posta in seguito alla comparsa di sintomi, i quali
possono essere generici come astenia, calo ponderale e febbre, oppure possono essere
correlati alla poliglobulia. In questo secondo caso aumenta la funzione emocateretica della
milza con splenomeglia e possibile dislocazione degli organi vicini, e si ha un aumento
dell’uricemia. Agli esami di laboratorio si avrà leucocitosi con prevalenza della linea
granulocitaria, anemia in 1/3 dei casi e piastrine aumentate nella stessa percentuale.
L’aspirato midollare mostra marcata ipercellularità con iperplasia della porzione
granulopoietica, e talvolta anche di quella megacariopoietica. La diagnosi definitiva si fa
individuando la traslocazione.

Data l’estrema variabilità del tempo di progressione della LCM e della sopravvivenza, è
difficile trovare un sistema che permetta una valutazione prognostica e terapeutica. Uno dei
sistemi di valutazione più utilizzato è quello di Sokal che tiene in considerazione l’età del pz,
l’entità della splenomegalia, la conta piastrinica e la % di blasti ematici.

Terapia: negli ultimi anni si è voluta in maniera talmente importante da consentire ai pz in


fase cronica di avere un’aspettativa di vita simile alla popolazione sana di pari età
(sopravvivenza media di 25-30 anni). Questo è stato possibile grazie all’introduzione degli
inibitori delle tirosinchinasi, che riducono l’espressione dell’ibrido BCR-ABL a valori molto
bassi o non rilevabili nella maggior parte dei pz. I farmaci che vengono utilizzati
comprendono Imatinib (400mg/die), Idrossiurea, Dasatinib e Nilotinib. Dopo l’inizio della tp
è importante fare un esame citogenetico ogni 3-6 mesi nel primo anno: ciò è utile sia perché
il tempo di risposta è un importante fattore prognostico, sia perché in questo modo è

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possibile rilevare precocemente l’eventuale sviluppo di anomalie che possano far pensare ad
una progressione verso una leucemia acuta o verso una sindrome mielodisplastica.
L’obiettivo terapeutico è rappresentato dalla remissione molecolare completa e dalla
guarigione, dunque da un’emopoiesi non neoplastica e non clonale: si punta quindi ad
eradicare tutte le cellule contenenti l’ibrido. Per raggiungerlo, l’unico modo è il tx di midollo,
che deve essere fatto durante la remissione completa; non è però eseguibile in tutti i pz.
In acuto, nel caso di situazioni di emergenza con leucostasi e possibili complicanze
associate, è possibile fare leucoaferesi.

POLICITEMIA VERA – MORBO DI VAQUEZ


Con volume plasmatico non ridotto, possiamo avere 3 tipi di policitemia:

1. Forme secondarie a patologie polmonari, a permanenza ad alta quota o alla presenza


di uno shunt dx-sx: in tutti questi casi la PaO2 è ridotta e quindi aumenta la
produzione di EPO.
2. Forme paraneoplastiche: si hanno tumori che secernono EPO a prescindere dalla
PaO2.
3. Policitemia vera

È una malattia primitiva delle cellule staminali emopoietiche con mutazione di JAK2 che
porta ad espansione dell’eritrone in modo indipendente dall’EPO e che è contraddistinta da
segni e sintomi causati dall’aumento della massa totale eritrocitaria, da iperplasia eritroide
midollare EPO-indipendente. A causa della mutazione, le cellule neoplastiche sono più
sensibili alle citochine e ai segnali che ne aumentano la replicazione, non sono invece
sensibili alla regolazione a feedback negativo. Il principale fattore limitante è dunque il Ferro:
nell’uomo la policitemia sarà dunque più grave perché le riserve sono maggiori. Dal punto di
vista clinico ci possono essere cefalea, vertigini, acufeni, disturbi visivi e lipotimia.
L’inspissatio dà anche disturbi circolatori, soprattutto agli arti, e aumento del rischio
trombotico con possibilità di sviluppo di ictus o IMA. L’ipertensione maligna è un’altra
complicanza, così come l’embolia polmonare. Siamo in una condizione in cui c’è,
generalmente, piastrinosi, ridotta deformabilità eritrocitaria e aumento delle resistenze
periferiche: sono tutti fattori che aumentano il rischio trombotico. Questi pz hanno un forte
prurito sine materia post-bagno, forse dovuto all’aumento dell’istamina. C’è splenomegalia
lieve/moderata. Le indagini di laboratorio mostrearanno un aumento dei GR, Hb>16/dL e
ematocrito >49%, frequentemente avremo poi anche piastrinosi e leucocitosi neutrofila. Alla
biopsia si vedrà iperplasia globale con lieve fibrosi e assenza dell’emosiderina. Ad un certo
punto nel decorso della malattia il midollo non produrrà più GR, al punto che il pz avrà
bisogno di trasfusioni: una complicanza di questa patologia è, infatti, la fibrosi midollare
secondaria. La sopravvivenza media è di 12 anni.

Terapia: viene scelta sulla base della stratificazione del rischio:

- Pz a basso rischio, quindi con età <60anni, senza precedenti eventi trombotici:
correzione degli fdr cv, 100mg/die di ASA e salassi con fleobotomie di 250-500mL da
ripetersi 2-4 volte a settimana fino a portare l’ematocrito al di sotto del 45%.
- Pz ad alto rischio, ovvero con età >60anni e/o che abbiano avuto un precedente
evento trombotico: rispetto al punto precedente, viene aggiunta una tp citoriduttiva
(Idrossiurea, principalmente; a meno che i pz non si dimostrino resistenti o intolleranti

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per discarsie ematiche o per la presenza di ulcere agli arti inferiori o altri sintomi non
ematologici).

TROMBOCITEMIA ESSENZIALE
Si tratta di un disordine mieloprolifetativo cronico caratterizzato da trombocitosi e iperplasia
megacariocitaria midollare. È una malattia che colpisce soprattutto donne con più di 50 anni
e il problema principale è che alla lunga porta a fibrosi midollare con metaplasia mieloide di
milza e fegato. C’è poi un aumento del rischio trombotico sia venoso che arterioso; d’altro
canto queste piastrine, anche se presenti in numero aumentato, non funzionano
correttamente, quindi c’è anche un aumento dei fenomeni emorragici (ecchimosi,
gengivorragia, epistassi e metrorragie). Nell’80% dei casi la diagnosi è casuale: si troveranno
in diversi prelievi un numero di piastrine >600 000/mm3, talvolta con leucocitosi associata.
Allo striscio vedremo anisopoichilocitosi con prevalenza di piastrine piccole e a ridotto
contenuto di granuli densi; nel midollo c’è invece abbondanza di megacariociti grandi e
dismorfici. Nel 50% c’è la mutazione di JAK2; qualora non lo sia può essere necessario fare
DD con infiammazioni tissutali, neoplasie, infezioni, altre malattie post-mieloproliferative,
piastrinosi post splenectomia, iposplenismo, anemia sideropenica, interventi… Si tratta
dell’unica tra le malattie mieloproliferative a non essere definita da specifiche caratteristiche
genetiche o morfologiche; la diagnosi è dunque per esclusione.
La sopravvivenza media è maggiore di 12 anni e l’exitus è generalmente correlato alle
complicanze trombotiche.

Terapia: deve essere modulata in funzione del quadro clinico e del rischio trombotico. Si può
ricorrere all’antiaggregazione con 75mg/die di ASA, a meno che la piastrinosi non sia troppo
elevata perché si correla ad aumentato rischio emorragico. La tp citoriduttiva è riservata a pz
ad alto rischio, con età >40anni e con conta piastrinica compresa tra 0.7 e 1.5mln/mm3: si
usano IFNalfa nei pz più giovani, Idrossicarbamide o Idrossiurea in coloro che hanno 40-
60anni o alchilanti per i più anziani.

MIELOFIBROSI PRIMITIVA
C’è progressiva sostituzione del midollo con materiale fibrotico con soppressione
dell’emopoiesi e metaplasia mieloide a livello prevalentemente di milza e fegato. La
mielofibrosi primitiva consiste in un disordine clonale di una cellula staminale emopoietica
pluripotente con conseguente vantaggio proliferativo della linea megacariocitica, abnorme
produzoone di citochine e fattori di crescita, iperplasia dei fibroblasti e fibrosi midollare. La
causa è forse da ricercarsi in alterazioni nella produzione di PDGF e TGFbeta. Le forme
secondarie sono, invece, spesso, la fase ultima delle altre sindromi mieloproliferative
croniche. Le manifestazioni cliniche sono eterogenee e possono anche essere assenti. Alla
diagnosi sono spesso presenti astenia, calo ponderale, febbricola e sudorazione notturna.
Altro repero pressochè costante è l’epatosplenomegalia; nelle fasi avanzate possono
comparire ipertensione portale e segni dovuti a localizzazioni inusuali dell’emopoiesi
extramidollare. Agli esami ematici l’anemia e la trombocitopenia sono di comune riscontro,
nel 15% dei pz avremo trombocitosi e leucopenia. L’aspirato midollare può dare luogo a
punctio sicca o a frustoli midollare ipercelulati. Con il tempo c’è l’inevitabile evoluzione
verso insufficienza midollare o leucemia acuta, più spesso mieloide, a volta linfoide.

Terapia: il tx allogenico rappresenta l’unico approccio con finalità curativa. Ogni altro
intervento è palliativo e volto al controllo dei sintomi, soprattutto quelli dovuti all’anemia,
alla spenomegalia e all’emopoiesi extramidollare. Si può stimolare l’eritropoiesi e prescrivere

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Idrossiurea o alchilanti. La splenectomia viene fatta solo in situazioni particolari. Si può fare rt
per controllare l’eritropoiesi extramidollare.

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LINFOMI
Negli USA rappresentano il 5% dei tumori e sono responsabili del 3% dei decessi cancro-
relati. Sono un gruppo di tumori del tessuto linfoide generalmente caratterizzati da
linfoadenopatia non dolente, la quale può accompagnarsi anche ad altri sintomi.

La valutazione di un pz con sospetto linfoma prevede:

1. Anamnesi: bisogna indagare eventuali viaggi che potrebbero spiegare una forma
reattiva; eventuali rapporti non protetti dai quali il pz potrebbe avere contratto l’HIV a
cui potrebbe correlarsi la linfadenopatia, l’uso di stupefacenti EV, farmaci o trasfusioni
recenti. Queti dati vengono raccolti perché solo l’1% delle linfoadenopatie persistenti
si rivela poi essere un linfoma, devo, quindi, considerare possibili altre cause. Devo
poi indagare se il pz lamenta una perdita di peso ingiustificata, sudorazione notturna o
febbre perché sono elementi che possono deporre a favore di una diagnosi di linfoma.
2. Esame obiettivo: bisogna definire il numero di stazioni interessate, le dimensioni
(>1cm) e la consistenza. Bisogna poi indagare un eventuale coinvolgimento
dell’anello tonsillare di Waldeyer, della milza e del fegato. Se i linfonodi sono pochi,
molli, piccoli e mobili, il pz andrà ricontrollato dopo 6-8 settimane, ma non si fa altro
perché la situazione non appare preoccupante, trascorso questo periodo, se la
situazione non si è risolta, o è addirittura peggiorata, bisogna procedere con l’iter
diagnostico.
3. Esami biochimici: si richiede esame emocromocitometrico e LDH.
4. Tecniche di imaging: RX torace e TC TAP.
5. Biopsia escissionale del linfonodo o agobiopsia ecoguidata se il linfonodo è profondo.
6. Biopsia osteo-midollare
7. Rachicentesi, biopsia cutanea o visita ORL, nel caso ci sia il sospetto che la malattia
interessi questi organi

Grazie ai dati ottenuti durante il processo di diagnosi e staging, è possibile procedere con la
stadiazione di Ann-Arbor:

- Stadio 1: coinvolgimento di una singola stazione linfonodale


- Stadio 1e: coinvolgimento di una singola stazione extralinfonodale (no midollo)
- Stadio 2: coinvolgimento di due o più stazioni linfonodali dallo stesso lato del
diaframma
- Stadio 2e: coinvolgimento anche di un 1 organo extralinfatico dalla stessa parte del
diaframma
- Stadio 3: interessamento di due stazioni sui 2 lati del diaframma
- Stadio 3s: interessamento splenico
- Stadio 3e: malattia extralinfonodale localizzata
- Stadio 4: malattia extralinfatica disseminata, con o senza coinvolgimento linfonodale o
malattia extralinfatica isolata con coinvolgimento di linfonodi non regionali o
interessamento midollare.

Oltre a ciò, la malattia viene considerata A se non ci sono sintomi costituzionali o B se è


presente febbre serale >38°C, perdita del 10% del peso corporeo, sudorazione notturna o
prurito sine materia.

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LINFOMI DI HODGKIN – LH
La distribuzione epidemiologica è bimodale con un picco in età giovanile e uno negli anziani.
HIV è un fdr e, forse, c’è anche un’associazione con EBV. I lyn mutati proliferano in modo
aberrante e resistente al SI: ciò è reso possibile dall’espressione di BCL2, dall’attivazione di
NFKb e da alterazioni dell’espressione di p53. Possiamo avere:

1. LH nodulare a predominanza linfocitica: rappresenta il 10% degli LH ed ha alcune


caratteristiche in comune con i LNH. Le cellule esprimono CD45 e EMA, non
esprimono invece i marker tipici del LH (CD15 e CD30). L’andamento è cronico e
recidivante e possono evolvere in LNH. La sopravvivenza è >80% e alcuni medici
decidono addirittura di non trattarlo.

2. LH classico: la malattia esordisce tipicamente nei primi stadi con una linfoadenopatia
non dolente che può essere in sede cervicale (60%), sovraclaveare, inguinale o
ascellare. Il linfonodo interessato sarà duro, ma non ligneo (in questo caso dovrei
pensare a una metastasi). In 1/3 dei casi sono poi presenti sintomi costituzionali e
splenomegalia. Vengono considerate manifestazioni inusuali un grave e inspiegabile
prurito, alterazioni cutanee, la degenerazione paraneoplastica del cervelletto,
l’ipercalcemia e una forma di anemia emolitica autoimmune. Il centro della malattia
sono comunque i linfonodi, che all’EO risultano ipomobili e tendenti alla confluenza.
La diffusione può avvenire per continuità, per via linfatica o per via ematica. Se la
massa linfomatosa ha un ingombro >10cm, il pacchetto linfonodale viene definito
bulky. Nel mediastino, in particolare, dopo RX si definisce bulky un massa cn
larghezza >1/3 del diametro toracico, il problema è che potrebbe andare a
comprimere, ad esempio, la cava superiore dando edema e turgore delle giugulari.
Agli esami di laboratorio avremo un rialzo degli indici di flogosi, anemia normocitica
ipocromica, leucocitosi neutrofila e un aumento delle transamina, se c’è
interessamento epatico. L’esame istologico fatto sull’intero linfonodo è importante per
fare diagnosi e per distinguere i vari sottotipi:

a. Variante scleronodulare (70%): ci sono bande fibrotiche che circoscrivono la


neoplasia
b. A cellularità mista (20%)
c. Ricco in linfociti (5%)
d. Con deplezione linfocitaria (5%): crescita di tipo diffso con ricca componente
reattiva.

Le cellule di Reed-Sternberg sono grandi, con citosol ampio e acidofilo e presenza di


multipli nuclei: si tratta di un reperto caratteristico degli LH.
I fattori prognostici principali di cui tenere conto sono la linfopenia, la VES,
l’ipoalbuminemia, l’età e la presenza di sintomi B, oltre ovviamente alle caratteristiche
della malattia. Anche i differenti istotipi hanno poi prognosi leggermente diversa
perché, ad esempio, quelli a deplezione linfocitaria sono tendenzialmente peggiori,
ma, dal momento che sono rari, questa distinzione non è poi così influente.

Terapia: i moderni schemi terapeutici prevedono l’utilizzo di rt (28-30 Gy su volumi ridotti)


associata a ct con schema ABVD (Doxorubicina, Bleomicina, Vinblastina e Dacarbazina; c’è
il rischio di avere tossicità cardiaca e polmonare e infertilità nel sesso maschile), con 3-4 cicli
nella malattia non particolarmente avanzata e 6 se lo stadio è alto. Alcuni hanno proposto

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negli stadi iniziali di fare solo ct ma, studi fatti a riguardo, hanno scoperto un vantaggio nel
fare comunque sempre anche la rt. Combinando i due approcci si hanno tassi di guarigione
maggiori al 90% riducendo comunque allo stesso tempo gli effetti collaterali. Per gli stadi di
malattia avanzata il trattamento principale è la ct, si può comunque associare anche qui rt
sulle sedi colpite. Si possono usare anche tp rivolte contro CD20 oppure tp molecolari che
permettano di rinforzare la risposta immunitaria del pz, inibito anche a causa del fatto che il
tumore spesso esprime PD1. Prima di iniziarla è importante che i pz, specie in età fertile,
siano informati dei rischi. Bisogna poi fare ECG+visita cardiologica perché le antracicline
sono cardiolesive. Il rischio maggiore che si correla agli alcaloidi della vinca è, invece, quello
di incorrere in uno stato di addome acuto.
Se tutto questo fallisce, la tp di salvataggio consiste nel trapianto di midollo associato a cicli
di ct ad alte dosi.

LINFOMI NON HODGKIN – LNH


Rappresentano il 3% di tutti i tumori e l’80% nei linfomi. Sono generalmente più frequenti
nell’anziano, ad eccezione di alcune forme linfoblastiche che sono tipiche del bambino.
Fattori di rischio per lo sviluppo sono immunodeficienza, patologie reumatologiche, HTLV1,
EBV, HP, Borrelia, Campylobacter, fertilizzanti, erbicidi. Nell’80% dei casi si rendono
evidenti grazie alla presenza di adenomegalie superficiali e profonde, in altri casi si possono
avere localizzazioni a livello dell’anello di Waldeyer o dei tessuti linfoidi mucosa-associati
(MALT). In generale, comunque, ne esistono molti tipi diversi che si comportano in modo
diverso e possono essere più o meno aggressivi:

1. LNH aggressivi: spesso si presentano già in stadio avanzato. Nel 40% c’è
sintomatologia evidente con febbre, sudorazione, calo ponderale, adenomegalie,
interessamento mediastinico o delle sierose; nel 20-30% c’è interessamento
dell’anello di Waldeyer e dei tessuti mucosa-associati; nel 20% c’è localizzazione
midollare. Sono tumori che diffondono rapidamente e che devono essere trattati con
polict, antiCD20 e, in alcuni casi, con profilassi meningea e tx. Ne fanno parte:

a. Linfomi a precursori
b. Linfomi diffusi a grandi cellule B: esordisce generalmente in stadio 3-4B e la
progressione di malattia è rapida perché il tempo di malattia è rapido.
c. Linfoma mantellare: oltre alla linfoadenopatia e ai sintomi B, spesso ci sono
anche localizzazioni midollari, nel sangue e nel tratto GI.
d. LNH a cellule T cutaneo: si parla di micosi fungioide se l’interessamento è
cutaneo; mentre, la forma leucemizzata prende il nome di sindrome di Sezary.
È un linfoma che risponde bene alla tp, ma va trattato perché lasciato a se
stesso non ha andamento tranquillo. Essendo a localizzazione cutanea, oltre
alle normali tp, si possono utilizzare anche steroidi topici, retinoidi e raggi UV.
e. Linfoma di Burkitt: si caratterizza per la traslocazione del gene MYC (Cr8). Ne
riconosciamo una forma endemica tipica dell’Africa (EBV), una forma
sporadica europea e una che si manifesta in soggetti immunodepressi. Si tratta
di una neoplasia con tempo di raddoppiamento brevissimo: questi pz avranno
uremia molto elevata per citolisi, sia fisiologica che causata dalla tp, e LDH
elevatissimo. Sempre a causa dell’aggresività, si svilupperanno rapidamente
masse neoplastiche evidenti: si hanno linfonodi che aggettando e
necrotizzano: nella forma endemica ciò avviene soprattutto a livello
mandibolare, in quella sporadica sono interessati soprattutto i linfonodi para-

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aortici e, infine, in quella correlata a immunodeficienza si avranno per lo più
forme diffuse. Istologicamente troveremo un pattern a cielo stellato, avremo poi
positività per il CD20.
f. Linfoma anaplastico a grandi cellule

2. LNH indolenti: sono raramente sintomatici e, per questo, la diagnosi è tardiva e i pz


sono spesso già allo stadio 4. La sopravvivenza media è di 8-10anni e le ricadute sono
frequenti. Generalmente nei giovani si fa rt e polict, nell’anziano si preferisce la rt. Ne
fanno parte:
a. Linfoma follicolare: progredisce molto lentamente e si caratterizza per la
comparsa di linfoadenopatie non associate ad altri sintomi, tanto che la tp può
essere posticipata a lungo.
b. Linfoma linfoplasmocitico B
c. Linfoma MALT: spesso insorge a livello gastrico in pz con infezione da HP.
Trattando con antibiotici è possibile eradicare contestualmente il linfoma.
d. LLC: pur essendo una leucemia, si comporta come un linfoma
e. Leucemia a cellule capellute: è assimilabile anch’essa ai linfomi perché le
cellule neoplastiche infiltrano milza e midollo, non però i linfonodi. Spesso si
ottiene una remissione completa e di lunga durata con un analogo delle purine
associato a Rituximab, a volte è necessaria la splenectomia.
f. Linfoma della zona marginale

Per valutare la prognosi degli LNH si calcola l’international prognosis index (IPI) che
considera età, livelli di LDH, performance status, stadio di Ann-Arbor e coinvolgimento
extralinfonodale. Il punteggio ottenuto si correla con la sopravvivenza libera da progressione
di malattia e con la sopravvivenza globale dopo tp convenzionale. Ci sono poi sistemi di
punteggio usati per forme particolari come quello a grandi cellule o il mantellare.

Terapia: lo schema di ct più utilizzato è R-CHOP con Rituximab, Ciclofosfamide,


Doxorubicina, Vincristina e prednisone. Si possono fare 4-8 cicli. Nelle forme indolenti si
mira all’eradicazione della malattia a prescindere dallo stadio di presentazione se il pz è
giovane o se si è nei primi stadi nel pz anziano. Si fanno pertanto cicli di tp citotossica
associata a Rituximab, in questo modo si ottengono percentuali di remissione completa
intorno al 60-65%. Negli anziani si può optare per rt, associandola o meno a monoct. Per
quanto riguarda le forme aggressive, visti i rischi importanti, si deve sempre puntare
all’eradicazione. Si usa anche in questo caso una polict, meglio se ad alte dosi, associandola
a Rituximab. Non trova invece particolari indicazioni la rt, alla quale si ricorre solo se ci sono
residui nodali postct o nelle sedi di malattia bulky.

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LEUCEMIE LINFATICHE
Come nel caso dei linfomi, si tratta di neoplasie della linfocitopoiesi, in questo caso, però, la
malattia non si localizza principalmente a livello nodale, ma si avranno blasti circolanti.

LEUCEMIA LINFATICA ACUTA LINFOIDE – LAL


È una malattia linfoproliferativa sistemica dovuta ad una trasformazione neoplastica
imputabile alla mutazione somatica delle cellule staminali ematopoietiche della linea linfoide.
Si tratta della più frequente tra le leucemie pediatriche (75%) e colpisce soprattutto tra i 2 e i
5 anni. Pare sia presente una componente genetica predisponente sulla quale vanno ad agire
altri fattori; tra i fattori predisponenti possiamo annoverare alcune aberrazioni cromosomiche
costituzionali, come nel caso della trisomia 21 o della sindrome di Klinefelter, e l’esposizione
ad agenti fisici e chimici come le radiazioni ionizzanti, il fumo passivo, i pesticidi, ad acqua
contaminata nel sottosuolo o all’alcol durante la vita intrauterina. La presentazione clinica è
molto variabile e comprende:

1. Sintomi d’esordio aspecifici come anoressia, irritabilità, letargia...


2. Febbre (50-60%) o CID
3. Sintomi dovuti all’insufficienza midollare con anemia (pallore, astenia,
tachicardia...), piastrinopenia (petecchie, ecchimosi e porpora) e neutropenia
(infezioni batteriche e, raramente, fungine).
4. Linfoadenomegalia, tipicamente non dolente (70%)
5. (Epato)splenomegalia (40-60%)
6. Dolori ossei e artralgie dovuti ad infiltrazione tumorale o ad espansione dello
spazio midollare (25%): il bambino potrà avere zoppia o rifiutarsi di camminare.
Sono dolori presenti durante tutto il giorno e molto intensi.
7. Sintomi dovuti a localizzazioni nel snc (3%) come sindrome meningea o paralisi dei
nervi cranici. Se non si interviene insorgeranno nel tempo confusione, sopore e coma
fino ad arrivare all’exitus.
8. Masse mediastiniche in caso di forme T più tipiche di bambini più grandi e di sesso
maschile. Si tratta di una massa mediastinica >1/3 del diametro toracico a livello di
D5.
9. Sintomi dovuti a localizzazioni testicolari con ingrossamento non dolente dello stesso.
10. Iperleucocitosi (10-15%) con possibile leucostasi cerebrale o polmonare e lisi blastica
con danni al rene.

Dopo aver raccolto la storia clinica, si richiede un emocromo: nell’80% si ha anemia


normocromica e normocitica, spesso c’è una piastrinopenia e, nelle fasi iniziali, spesso
troviamo leucopenia, talvolta abbiamo invece leucocitosi (10-15%). Allo striscio periferico si
cercano dei blasti, così come sull’aspirato midollare. Nel caso si riscontrino interessamenti
linfonodali, l’esame sul midollo è importante anche per distinguere tra forme leucemiche e
linfomatose: se l’invasione è >25% siamo nel primo gruppo, se è <25% ma >5% siamo nel
secondo; sotto il 5% siamo invece in una situazione fisiologica perché a questo livello è
normale trovare cellule immature. Sui campioni prelevati si devono fare analisi citogenetiche
(caratteristiche sono la t12;21 e la t9:22), anatomopatologiche (suddivisione in forme L1, L2
e L3 in base alla morfologia cellulare), del cariotipo e volte a determinare l’immunofenotipo.
Si deve poi verificare se la malattia coinvolga altri organi o meno: ad esempio, nel caso di
sospetto interessamento cerebrale si deve fare una rachicentesi: se ci sono più di 5

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leucociti/mm3 e blasti si fa diagnosi, gli esami di imaging sono invece spesso normali. I
testicoli vengono considerati interessati se c’è un aumento volumetrico >2DS misurato con
orchidometro di Prader e se ci sono caratteristiche cliniche indicative.

Ad oggi la prognosi è buona con una sopravvivenza libera da malattia nel 75% dei casi (è la
leucemia con prognosi migliore): ciò è dovuto principalmente all’introduzione di nuove cure
e al miglioramento delle strategie chemioterapiche organizzate in base ai gruppi di rischio
volte sia a combattere la malattia che a prevenire le ricadute, specie a livello del SNC. I
fattori prognostici comprendono la valutazione della malattia residua, l’età, la conta
leucocitaria alla diagnosi, il fatto che si tratti di una forma B o T, l’immunofenotipo e
l’eventuale localizzazione al ivello del SNC. È poi importante considerare la rapidità della
rispsota alla tp. In base a ciò possiamo distinguere i pz in a rischio standard (sopravvivenza a
5 anni: 91.4%), a rischio intermedio (sopravvivenza a 5 anni: 70%) e ad alto rischio
(sopravvivenza a 5 anni: 59.5%). Con il tempo poi la classe di rischio può cambiare.

Terapia: deve comprendere diversi aspetti:

1. Tp di supporto: CVC, indratazione (la lisi tumorale può danneggiare il rene), profilassi
2. Tp del dolore, sia per quello eventualmente correlato con la malattia, sia per quello
causato da procedure e trattamenti.
3. Profilassi per le infezioni: si usa un antimicotico, un antivirale e un antibatterico e si
consiglia l’assunzione di una dieta a base di cibi cotti. Familiari e operatori devono
fare il vaccino anti- influenzale e talvolta indossare la mascherina. Si può poi decidere
di fare decontaminazione intestinale con Colistina. Il bambino deve essere monitorato,
specie per l’infezione da Aspergillo e, nel caso in cui insorga un’infezione, essa deve
essere trattata in modo aggressivo visto che l’si del pz non è in grado di debellarla.
4. Tp volta a combattere la leucemia (2anni):

a. Induzione: l’obiettivo è quello di ottenere una remissione completa. Si


somministra un associazione di 4 farmaci per 4-6 settimane: Vincristina,
steroidi, Antracicline e Asparaginasi.
b. Prevenzione della colonizzazione del snc: si fa tp intratecale con solo
Metothrexate o associandolo a metilprednisolone e citosina-arabinoside, se il
rischio è molto elevato si può decidere di fare anche rt. Prima che questi
presidi venissero introdotti si aveva un interessamento del snc nel 50% dei
casi, ad oggi la percentuale è scesa al 5%.
c. Consolidamento e re-induzione: l’obiettivo è quello di eliminare la malattia
occulta. In base al rischio del singolo pz si adatta la durata e l’intensità,
generalmente si alternano comunque cicli di Methotrexate ad alte dosi per il
consolidamento e polict per la reinduzione.
d. Mantenimento: si somministra 6-mercaptopurina ogni giorno, Methotrexate
una volta a settimana e in maniera intermittente si aggiungono Vincristina e
prednisone.

Il trattamento può portare nel tempo a diverse sequele. Nell’immediato la neutropenia può
portare ad infezioni, così come la presenza del CVC, che per altro aumenta anche il rischio
trombotico. Ci può essere sofferenza della mucosa gi con dolori, vomito, diarrea e nausea. Il
Methotrexate, in particolare, mette il fegato sotto stress: generalmente si hanno valori di
transaminasi molto elevati. Inoltre, importante dal punto di vista psicologico, ci sarà la

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perdita dei capelli. A lungo termine ci possono essere problemi sia a livello dello sviluppo
neouropsichico che fisico; ci possono poi essere danni iatrogeni ad alcuni organi e si ha un
aumentato rischio di sviluppare una seconda neoplasia.
Nonostante tutti questi presidi, nel 20% dei bambini si verifica una recidiva, generalmente
precocemente, ovvero o durante i trattamenti o entro 2 anni dalla loro sospensione. La tp
delle recidive consiste principalmente nel trapianto di midollo, a meno che non si abbiano
fattori prognostici particolarmente positivi che facciano propendere per un tentativo con ct o
rt. Il trapianto, inoltre, può essere fatto non solo dopo che è comparsa la recidiva ma anche
prima se quest’ultima è molto probabile: nonostante si tratti di una procedura gravata da
diverse complicanze, a volte i rischi legati alla recidiva sono maggiori di quelli legati al
trapianto.

LEUCEMIA LINFATICA CRONICA – LLC


È una neoplasia ematologica caratterizzata dalla proliferazione e dall’accumulo nel midollo
osseo, nel sangue periferico e negli organi linfoidi, di piccoli linfociti, che nella grande
maggioranza dei casi sono di fenotipo B. È tipica dell’anziano ed è la leucemia più comune
nel mondo occidentale. Dal punto di vista clinico, può esordire con un aumento di volume
dei linfonodi, generalmente non dolente, di consistenza dura, mobili e senza tendenza alla
confluenza; si possono poi avere epatomegalia e splenomegalia. Nel 25-30% dei casi la
diagnosi è casuale perché non sono presenti né segni né sintomi clinici. Dal punto di vista
biochimico, per fare diagnosi di LLC si devono avere l’infocitosi periferica con più di 5000
linfociti/mm3, anemia e trombocitopenia (le Ig sono invece normali); si fanno poi lo striscio
periferico e la BOM che mostrerà infiltrazione linfoide >30%. Questi cloni riescono ad
accumularsi grazie all’espressione di BCL2 che svolge attività anti-apoptotica.

Dal punto di vista prognostico, è possibile stadiare i pz secondo due diversi schemi:

1. La stadiazione secondo il sistema di Rai divide i pz in:


a. Stadio 0, basso rischio: solo linfocitosi a livello midollare e nel sangue
periferico, hanno una sopravvivenza media >10anni.
b. Stadio I, rischio intermedio: si ha linfocitosi associata a linfoadenopatia e la
sopravvivenza media è di 8anni.
c. Stadio II, rischio intermedio: si ha linfocitosi con linfoadenopatia e
splenomegalia, con o senza epatomegalia. I pz sopravvivono mediamente per
6 anni.
d. Stadio III, alto rischio: c’è linfocitosi associata ad anemia e la sopravvivenza
media è di un anno e mezzo.
e. Stadio IV, alto rischio: c’è linfocitosi associata a trombocitopenia e la
sopravvivenza media è di un anno e mezzo.

2. La stadiazione secondo Binet divide i pz in:


a. Stadio A: linfoadenopatia clinicamente evidente in meno di tre sedi, assenza di
anemia o di trombocitopenia. Sono pz a basso rischio con una sopravvivenza
media >10anni.
b. Stadio B: tre o più sedi linfonodali coinvolte in assenza di anemia o
trombocitopenia. La sopravvivenza media è di 7 anni.
c. Stadio C: Hb<10g/dL e/o plt<100 000/mm3, la sopravvivenza media è di circa
2 anni.

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Oltre alle caretteristiche considerate da questi sistemi, è importante valutare anche il tempo
di raddoppiamento, la conta linfocitaria e alcuni parametri sierologici. Lo stato mutazionale è
considerato il parametro prognostico più affidabile.

Talvolta, la LLC può evolvere in LNH aggressivo diffuso a grandi cellule B (sindrome di
Richter). Si deve avere il sospetto di questa trasformazione nel caso in cui ci sia un rapido
deterioramento clinico, febbre non infettiva, progressiva linfoadenopatia e marcato
incremento della LDH sierica. È poi necessaria una conferma istologica su biopsia
linfonodale. La prognosi, in questo caso, sarà sfavorevole. In altri casi si ha evoluzione a
leucemia prolinfocitica.

Terapia: ad oggi la LLC è considerata una malattia incurabile e nessuna tp si è dimostrata


capace di modificare significativamente la sopravvivenza dei pz. L’uso di tp più moderne con
farmaci meno tossici ha reso possibile il raggiungimento di una più elevata percentuale di
remissioni complete, spesso però si hanno recidive. Il trattamento precoce non migliora la
prognosi quindi, pz in stadio Rai 0 o Binet A possono non essere trattati, ma solo monitorati,
e lo stesso vale per pz anziani. Il trattamento è, invece, indicato per pz in stadio più alto,
specie se c’è aumento della viscosità ematica dovuto all’aumento dei linfociti. Si utilizzano
agenti alchilanti come il Clorambucile, associandolo a cortisonici, e Rituximab.

LEUCEMIA PROLINFOCITICA
È una forma più aggressiva rispetto alla LLC caratterizzata da una sopavvivenza media di 2
anni se il fenotipo è B e di soli 7 mesi se il fenotipo è T. Sono colpiti prevalentemente anziani
di sesso maschile. Spesso la diagnosi viene posta già in stadio avanzato. Tipicamente i pz
avranno epatosplenomegalia e i prolinfociti saranno >100 000/mm3, mentre GR e piastrine
saranno ridotti. Si può fare ct e splenectomia.

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PIASTRINOPATIE
DISORDINI DELLA FUNZIONE PIASTRINICA
1. Tromboastenia di Glanzmann (AR): c’è un difetto dell’aggregazione primaria delle
piastrine, dovuto ad un deficit di GP2b/3a, secondario ad una mutazione puntiforme:
questo complesso glicoproteico funge da recettore per il fibrinogeno. I sintomi clinici
sono simili a quelli della malattia di Bernard con emorragie e aumentato rischio di
sanguinamento, ad esempio in seguito ad interventi odontoiatrici o chirurgici e al
parto.

Terapia: sostanzialmente l’unico trattamento richiesto è una prevenzione in previsione


di situazioni a rischio di sanguinamento con somministrazione di acido Tranexamico
che è un anti-fibrinolitico. Rari sono i casi che necessitano di trasfusioni piastriniche, e
ancora di più quelli che richiedono trapianto di midollo.

2. Sindrome di Bernard Soulier (AR): in questo caso il difetto ereditario presentato dalle
piastrine riguarda l’adesione. C’è una mutazione che porta a deficit di Gp1b che è il
recettore piastrinico per il vWF. È una patologia rara che porta a numerose
manifestazioni emorragiche tra cui ricordiamo la porpora, l’epistassi, la
menorragia...Allo striscio si vedranno poche piastrine ma di grandi dimensioni, è poi
importante fare i test per il tempo di sanguinamento e la citofluorometria che rivela la
carenza della glicoproteina di membrana.

Terapia: si basa sulla prevenzione evitando ASA, antiinfiammatori e tutte quelle


situazioni che comportino un maggior rischio di sanguinamento. In caso di inteventi
chirurgici o di emorragie importanti si può fare trasfusione piastrinica.

3. Malattia di vonWillebrand (AD, raro AR): è una disfunzione genetica caratterizzata


da emorragie spontanee a carico delle membrane mucose, da eccesivo
sanguinamento a seguito di una ferita e da menorragia. È caratterizzata da ridotti
libelli del vWF circolanti:

a. Tipo 1: c’è un difetto della liberazione del vWF dalle cellule endoteliale, spesso
si associano poi problemi anche nella cascata coagulativa.
b. Tipo 2aa: non vengono assemblati polimeri a maggior peso molecolare oppure
vengono catabolizzati prematuramente.
c. Tipo 2b: c’è un alterato legame delle forme anomale del vWF alle piastrine con
aggregati intravascolari che vengono rimossi rapidamente, ma lasciano
trombocitopenia ciclica.
d. Tipo 3: c’è una ridotta sintesi di vWF.

Ne deriva che il tipo 2 è caratterizzato da un difetto qualitativo, e i tipi 1 e 3 da difetti


quantitativi.

Terapia: la Desmopressina può essere somministrata a soggetti affetti dalla forma di


tipo 2. Si può poi fare tp sostitutiva con vWF plasma-derivato e FVIII concentrato.

4. Forme secondarie a farmaci

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DISORDINI DA DIFETTI DEI GRANULI PIASTRINICI
1. Sindrome di Hermansky-Pudlak: è una malattia multisistemica caratterizzata da
albinismo oculocutaneo, diatesi emorragica derivante da un deficit di granuli
piastrinici e, in alcuni casi, fibrosi polmonare da accumulo di sostanze intracellulari
simili alla cera o colite granulomatosa. Il problema a livello dei granuli intracellulari
può interessare anche i neutrofili e, dunque, la patologia può accompagnarsi anche
ad aumentata suscettibilità alle infezioni dovuta alla neutropenia.

2. Sindrome di Chediak-Higashi (AR): è una patologia molto rara, dovuta ad una


mutazione del gene CHS sul cromosoma 1. Associa albinismo oculo-cutaneo e
diluizione del pigmento, capelli argentati, ipertrofia epato-spleno-linfonodale e
infezioni cutaneo-respiratorie ricorrenti da piogeni. Questi sintomi sono causati da
anomalie funzionali dei granulociti che contengono grosse inclusioni lisosomiali
caratteristiche e da un difetto dei linfociti NK (Natural Killer). La prognosi di vita è
compromessa, l’unica tp che si può tentare è il trapianto di midollo.

3. Forme acquisite: leucemia, LES, epatopatie…

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PIASTRINOPENIE
Si tratta di problemi che portano ad avere un numero ridotto di piastrine che si manifesta con
petecchie emorragiche agli arti, porpora, epistassi, gengivorragia… A differenza che nelle
patologie che riguardano la coagulazione, qui il sanguinamento sarà immediato e protratto e
i test della coagulazione saranno normali.

Quando si sospetta ci sia una forma di piastrinopenia, gli esami da svolgere comprendono:

1. Emocromo con conta piastrinica: si parla di piastrinopenia quando il numero è ridotto


al di sotto delle 100 000/mm3. Se il numero è ancora piuttosto alto, spesso le
manovre compressive risultano già sufficienti per fermare il sanguinamento, mentre, se
è in atto un sanguinamento importante non coercibile o se si riscontra sepsi che
induce consumo piastrinico, si deve pensare alla somministrazione di concentrati
piastrinici. Se si riscontra una riduzione si può decidere di fare anche uno striscio di
sangue che aiuta ad indagare la morfologia.
2. Prove di funzionalità piastrinica: si uniscono al plasma prelevato al pz dei fattori pro-
aggreganti come l’adrenalina e si vede se il plasma diventa torbido
(immunoturbimetria).
3. Prove che mi permettono di slatentizzare il problema: tempo si sanguinamento
(>13min), test del laccio emostatico (la stasi permette di vedere porpore e petecchie),
test del pizzicotto o del martelletto.
4. Test della coagulazione (PT, PTT, fibrinogeno e D-dimero) per escludere che il
problema sia anche o solo a questo livello.
5. A seconda del sospetto eziologico si può pensare di ricercare autoab se si sospetta
una forma secondaria, ad esempio a LES, oppure si possono ricercare virus come EBV,
CMV o HIV o fare una biopsia osteomidollare per ricercare un difetto maturativo.

GRUPPO 1: RIDOTTA PRODUZIONE DI MEGACARIOCITI


Comprende:

1. Aplasia midollare

2. Sindrome di Fanconi: è un difetto ereditario tipicamente ar della riparazione del DNA


con pancitopenia progressiva da insufficienza del midollo osseo, malformazioni
congenite variabili con difetti di crescita e predisposizione allo sviluppo di tumori sia
ematologici che solidi. Spesso ci sono difetti congeniti a carico di scheletro
(ex.assenza del pollice), cute (macchie caffelatte), apparato cardiopolmonare,
gastrointestinale o SNC che si presentano come primo segno della malattia, se queste
non sono evidenti la diagnosi viene fatta per i problemi ematologici intorno ai 7 anni.
In generale, è una patologia caratterizzata da un’ampia varietà di quadri fenotipici. Il
gs diagnostico è il test al diepossibutano (DEB) che valuta in citogenetica la presenza
di alterazioni cromosomiche dopo esposizione delle cellule ad agenti alchilanti. Il solo
trattamento curativo è il trapianto di cellule staminali emopoietiche, fatto che però
aumenta ulteriormente il rischio di trasformazione tumorale. In alternativa si può fare
un trattamento volto a migliorare i sintomi.

3. Neoplasie: leucemie, linfomi, neoplasie mieloidi, metastasi…

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4. Tossici

5. Farmaci mielosoppressori:

a. Lievi: Alcaloidi della vinca


b. Moderati: Ciclofosfamide
c. Severi: Citosin-Arabinoside

GRUPPO 2: RIDOTTA PRODUZIONE DI PLT SENZA DANNO MIDOLLARE


Comprende:

1. Carenza di B12 e acido folico


2. Mielodisplasie
3. Forme familiari

GRUPPO 3: AUMENTATA DISTRUZIONE


Comprende:

1. Forme da cause extracorpuscolari:

a. PTI/Morbo di Werlhof: si tratta di una forma autoimmune nella quale,


all’aumentata distruzione delle piastrine, corrisponde un aumentato turnover
che cerca di sopperire alla ridotta sopravvivenza. Gli ag riconosciuti sono
presenti anche sui precursori, quindi anche i megacariociti sopravvivono
meno: per la diagnosi è, dunque, utile fare l’esame del midollo per escludere la
depressione midollare. In generale, comunque, è difficile fare diagnosi diretta
perché ricercare gli autoab non è agevole, quindi spesso si tratta di una
diagnosi per esclusione. Nei bambini si tratta generalmente di forme auto-
limitanti: c’è porpora con sindrome emorragica, spesso preceduta da infezioni
virali. Dal momento che il decorso è spesso benigno, si può evitare di trattare
limitando semplicemente l’attività fisica del soggetto per ridurre il rischio di
sanguinamento. Negli adulti, invece, sono più frequenti le forme subacute o
croniche: la splenomegalia è rara e la porpora è meno importante; si fa DD
con LES, epatopatie e leucemie linfoidi. Bisogna prestare attenzione ad
eventuale tp anticoagulante concomitante: in questo caso le piastrine non
devono scendere sotto le 50 000/mm3 e, in generale, bisogna tenere a mente
che nell’anziano il rischio di sanguinamento è aumentato, quindi queste forme
possono risultare pericolose e per questo necessitano di un monitoraggio più
attento dei valori.

Terapia: nei bambini si deve intervenire solo quando il numero di piastrine


scende al di sotto delle 20 000/mm3 perché in questo caso aumenta molto il
rischio di emorragia endocranica spontanea. Se ci sono solo emorragie cutanee
si somministrano steroidi per os; se, invece, ci sono emorragie mucose o se le
piastrine sono inferiori a 5000/mm3, oltre agli steroidi ad alte dosi, si fanno
anche infusioni di immunoglobuline. Queste ultime risultano utili, anche se la
ragione non è ancora stata chiarita, ma dopo pochi giorni non sono già più
presenti in circolo perché vengono catabolizzate.

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Nell’adulto si può ricorrere ad una tp steroidea con Prednisone per 3-4
settimane o con Desametasone ad alte dosi per 4 giorni da ripetere fino a 3-4
cicli. In seconda linea si può pensare di utilizzare il Rituximab, che è un anti-
CD20, che, inibendo i LynB, ha azione immunosoppressiva (per ora è
comunque un uso off-label). In fase cronica si potrebbe poi proporre una
splenectomia o prescrivere TPO-mimetici: sono agonisti del recettore della
trombopoietina posto su diverse cellule emopoietiche che permettono di
stimolare la produzione piastrinica.

b. Forme associate alla presenza di infezioni: per quanto riguarda le forme virali,
la piastrinopenia può essere il risultato della formazione di IC o del fatto che il
virus lisi le cellule endoteliali inducendo consumo delle stesse. Tra i virus
associati a piastrinopenia abbiamo HIV, HCV, EBV e CMV. Anche alcune forme
batteriche danno piastrinopenia, tra cui la febbre delle montagne rocciose o
una sepsi batterica.

c. Farmaci che si associano a distruzione immunologica delle piastrine:


i. Antibiotici sulfamidici
ii. Sedativi, ipnoinducenti, antiepilettici (Carbamazepina, Metildopa)
iii. ASA
iv. Eparina: si tratta della cosidetta HIT.

2. Forme da cause corpuscolari

GRUPPO 4: AUMENTATO CONSUMO


Comprende:

1. PTT/Sindrome di Moschowitz: è una grave malattia emolitica Coombs megativa con


sopravvivenza piastrinica ridotta a 1h. Alla base c’è un difetto di interazione tra le
piastrine stesse e la parete endoteliale: il vWF nella sua forma macromolecolare viene
fisiologicamente degradatato da una metalloproteinasi (ADAMTS13), nei pz affetti da
PTT, quest’ultima non funziona correttamente, quindi c’è attivazione spontanea
dell’aggregazione con aumentato consumo, in altre parole si formano trombi ialini in
assenza di danno. È una patologia fulminante e spesso fatale, che può essere
peggiorata e scatenata dall’effettiva presenza di un danno endoteliale. Avremo
piastrinopenia con o senza porpora, anemia emolitica microangiopatica, ipertermia e
IR. Inoltre, una peculiarità è rappresentata dall’interessamento neurologico con deficit
e alterato stato di coscienza: la sintomatologia può essere simile a quella di un TIA o
di un ictus con deficit sensitivi, motori o dell’eloquio causati da microaggregazione a
livello cerebrale con conseguente ischemia focale poco visibile alla TC a causa delle
dimensioni ridotte della stessa. Tutti i sintomi elencati non sono sempre presenti, e
questo può rendere difficile l’inquadramento diagnostico. Tipicamente, per parlare di
PTT, si deve avere un quadro con meno di 50 000 piastrine/mm3, aumento del tempo
di sanguinamento e schistociti allo striscio ematico.

Terapia: si interviene facendo plasmafaresi e infusione di plasma fresco per dare la


metalloproteasi mancante. Si possono poi somministrare steroidi.

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2. Sindrome uremico-emolitica: è secondaria ad un’infezione gi da parte di E.Coli
produttore di tossine shiga-like o da parte di Shigella. In un primo momento i sintomi
sono dovuti all’infezione intestinale: il bambino presenterà diarrea muco-emorragica,
dolori addominali e vomito. Nel frattempo, le tossine prodotte da questi batteri
entrano in circolo e danneggiano l’endotelio dei piccoli vasi: vengono, quindi,
richiamati i leucociti che producono citochine e vi è l’attivazione del complemento
con formazione di microtrombi. Le conseguenze sono una piastrinopenia da consumo
e un’emolisi intravascolare con frammentazione delle emazie. Le turbe del circolo
determinate da questi eventi possono anche danneggiare gli organi; in particolare
spesso si ha un danno renale dovuto ad insulto ischemico microangiopatico oppure si
può avere un interessamento neurologico. I sintomi della SEU compaiono 2-7 giorni
dopo quelli intestinali e comprendono astenia, pallore da anemizzazione, ematuria,
oligo/anuria e edemi da insufficienza renale. Se vi è l’interessamento neurologico, il
quadro è aggravato da sopore, cefalea, confusione mentale, crisi convulsive e, talora,
coma. Agli esami sarà possibile evidenziare la presenza di schistociti e degli indici di
emolisi e ci sarà un abbassamento del numero delle piastrine. C’è una mortalità
stimata del 5%, principalmente dovuta ad iponatriemia o a danno neurologico.
Frequenti sono le sequele nefrologiche anche se generalmente non sono di grave
entità. Più raramente si può avere la cosiddetta SEU atipica: sono forme che non sono
precedute da prodromi significative e possono interessare anche i neonati (la forma
tipica colpisce prevalentemente tra i 6 mesi e i 5 anni). Le cause possono essere varie,
spesso è comunque dimostrabile un’origine genetica a livello di geni codificanti per
proteine coinvolte nella cascata del complemento. Proprio a causa di questo
substrato, oltre ad avere una familiarità, questa forma è tipicamente ricorrente e lascia
danni importanti a livello renale conducendo a IR terminale.

Terapia: è di supporto. Si fanno trasfusioni, si cerca di espandere il volume con SF e si


deve tamponare l’IRA, talvolta anche con il ricorso alla dialisi. La somministrazione di
plt è sconsigliata per evitare la formazione di nuovi trombi.

3. CID: si tratta di un’attivazione disseminata dei processi coagulativi con blocco dei vasi
sanguigni a diversi livelli che può essere determinata da sepsi, chirurgia, traumi
importanti, neoplasia o gravidanza. I sintomi dipendono dal distretto interessato e
possono, ad esempio, includere dolore toracico o alle gambe, deficit neurologici e
sanguinamento dovuto alla mancanza di piastrine e fattori della coagulazione che
sono già stati consumati.

Terapia: deve essere principalmente rivolta a risolvere la condizione che ha


determinato la CID, si possono poi adottare misure di supporto come la
somministrazione di piastrine o di plasma fresco congelato.

4. Vasculiti:

a. Porpora di SH: rappresenta circa il 90% delle vasculiti in età pediatrica ed ha


un picco di incidenza tra i 4 e i 6 anni. Pare che la sua insorgenza possa
correlarsi ad una predisposizione genetica dovuta ad un polimorfismo della P-
selectina, ad infezioni, all’assunzione di farmaci e vaccini e ad altre patologie
come quelle neoplastiche. Alla base di questa vasculite troviamo la formazione
di complessi ag-IgA che si depositano sulla parete dei vasi e attivano la via

55
alternativa del complemento determinando accumulo di neutrofili con
infiammazione. Clinicamente abbiamo porpora palpabile, artrite o artralgie,
coinvolgimento gi e interessamento renale. A livello cutaneo, in particolare,
avremo un rash specie a livello di arti e natiche, spesso segno di esordio, che
evolve da eritematoso a orticarioide a maculare, si hanno poi petecchie ed
ecchimosi che non scompaiono alla digitopressione. Se la porpora è limitata
agli arti inferiori, la Schonlein-Henoch deve rappresentare la prima ipotesi
diagnostica; se è, invece estesa a tutto il corpo, oltre che a questa patologia, si
deve pensare anche alla SEU e alla PTI. Le manifestazioni gi sono più tardive e
generalmente c’è dolore addominale di tipo colico che peggiora dopo i pasti
dovuto alla vasculite mesenterica, la quale può portare anche ad ematochezia,
vomito o ematemesi. L’interessamento articolare è presente nei 2/3 dei pz:
tipicamente c’è artralgia simmetrica, non migrante, non destruente che
colpisce caviglie e ginocchia. L’interessamento renale è meno comune, nel
35% dei bambini ci sono però alterazioni dell’esame urinario con ematuria e/o
proteinuria: è pertanto importante fare un esame a fresco del sedimento e
misurare la pressione arteriosa come spia della funzionalità renale. Raramente
ci possono poi essere anche sindrome nefritica o nefrosica (7%) o IR a lungo
termine (1.8%): se ci sono chiari sintomi renali bisogna seguire il pz per 5 anni
e, nei casi gravi, può essere indicata la biopsia renale. Altri organi talvolta
interessati sono il testicolo, con conseguente quadro di scroto acuto con
testicolo in posizione normale, epididimo palpabile posteriormente e aumento
di volume dovuta all’idrocele reattivo; e il snc con rare crisi convulsive, coma o
sindrome di Guillain-Barré. La diagnosi è clinica, ci sono tuttavia dei casi atipici
nei quali potrebbe essere necessario fare una biopsia tissutale. Dal punto di
vista laboratoristico, avremo test coagulativi, conta piastrinica, fattori del
complemento e ANA nella norma, mentre nel 50% dei casi c’è un aumento
delle IgA. Sostanzialmente, la diagnosi richiede la presenza di porpora
palpabile in associazione ad almeno uno dei seguenti criteri: dolore
addominale diffuso, artrite/artralgia, interessamento renale con ematuria e/o
proteinuria e deposito di IgA alla biopsia. Nel 70% dei bambini il problema
tende a risolversi nel giro di uno-due mesi, sono tuttavia possibili le recidive,
evidenziabili in 1/3 dei casi, con sintomi dalla durata più breve e dall’intensità
ridotta; il problema in caso di recidiva è che, quando è presente un
interessamento renale, esso tenderà a peggiorare.

Terapia: vista la natura autolimitante della patologia, nei casi lievi è sufficiente
somministrare Paracetamolo; in quelle più gravi si può dare del cortisone, che
non riduce però l’incidenza di complicanze ma serve principalmente ad
alleviare i sintomi.

GRUPPO 5: COMPARTIMENTAZIONE
Le plt vengono sequestrate a livello splenico quando quest’organo risulta ingrandito. In
particolare, alla base potremo avere una splenomegalia congestizia dovuta a stasi portale,
infiltrazione splenica o patologie genetiche come la sindrome di Gaucher [sfingolipidosi
inserita nelle malattie da accumulo lisosomiale che può presentarsi in tre forme distinte: la
prima porta prevalentemente ad un coinvolgimento viscerale, in cui rientrano
l’epatosplenomegalia e la citopenia, la seconda porta a morte entro i due anni di vita e la
terza associa i problemi viscerali a quelli neurologici].

56
PIASTRINOSI
Si tratta di un aumento della conta piastrinica che supera i 400 000/mm3. Tra le cause
primarie riconosciamo le malattie mieloproliferative croniche, le quali necessitano di
immunosopressori talvolta associati all’Imatinib; e forme secondarie a infezioni, malattie
infiammatorie croniche, neoplasie, danno tissutale e necrosi post-chirurgica, anemia
sideropenica e post-splenectomia.

Il problema principale è un aumentato rischio trombotico: in pz giovani che non presentino


ulteriori fattori di rischio si può solo mantenere la situazione monitorata, in pz più anziani,
che siano magari anche ipertesi o diabetici, può essere necessario prescrivere una tp
antiaggregante o ridurre la produzione piastrinica con chemioterapici blandi per os o
interferone.

57
COAGULOPATIE
[Via estrinseca: Via intrinseca:
- Danno tissutale endoteliale - Sostanze o superficie estranee
- Rilascio fattore III - Attivazione fattore XII (attiva anche il
- Attivazione fattore VII (attiva anche il fattore VII)
fattore IX) - Attivazione fattore XI
- Attivazione fattore X in presenza di - Attivazione fattore IX
calcio, fosfolipidi e fattore V - Attivazione fattore X
- Attivazione trombina con formazione - Attivazione trombina con formazione
del tappo di fibrina del tappo di fibrina
- Attivazione fattore XIII (stabilizzante) - Attivazione fattore XIII (stabilizzante)

Il tempo di protrombina, o PT, è un test che controlla la via estrinseca del complemento misurandfo il
tempo necessario per la formazione del coagulo di fibrina quando al plasma del pz in esame viene
aggiunto calcio e tromboplastna. I vn sono compresi tra 11 e 14sec ed è utile per valutare la tp con
Warfarin o per vedere se siano presenti disturbi di tipo emorragico. Un PT lungo può essere indice di
carenza di VitK, di insufficienza epatica, o di defict dei fattori V, VII o X. I valori possono essere ridotti
anche in corso di malattie autoimmuni e di sindrome nefrosica Per valutare in maniera più accurata il
PT spesso viene calcolato l’INR (International Normalized Ratio, vn 0.9-1.3, vn con anticoagulanti 2-
3, vn con protesi valvolare meccanica 2.5-3.5)
Con il tempo di tromboplastina parziale (PTT) o il tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT) si
valuta la normalità della via intrinseca della coagulazione. Corrisponde al tempo di formazione di un
coagulo di fibrina nel sangue del pz al quale vengono aggiunti calcio e un reagente fosfolipidico. È
utile per monitorare la tp con Eparina e per valutare la presenza di possibili deficit coagulativi come
l’emofilia A e B, il deficit di VitK, la presenza di malattie epatiche o autoimmuni; se poi si ha una
diminuzione, essa potrà essere indicativa di tp cortisonica, trombosi o somministrazione di VitK.]

Il termine indica un gruppo di diverse patologie ella coagulazione, che possono essere
distinte in:

1. Forme congenite:

a. Emofilia A e B: alla base ci sono due mutazioni differenti (nella A si ha una


riduzione del fattore VIII, nella B del fattore IX), ma il quadro è sostanzialmente
sovrapponibile. Nei casi gravi avremo ematomi spontanei, in quelli moderati il
problema comincia a diventare evidente quando il bambino comincia a
camminare perché svilupperà molti ematomi e, infine, nelle forme lievi, la
sintomatologia compare solo se scatenata, ad esempio, da interventi
odontoiatrici. In questi soggetti si ha formazione del trombo con arresto
temporaneo del sanguinamento, che poi, però, riprende formando raccolte in
cavità ed ematomi. Ci può essere ematuria per sanguinamento delle vie
urinarie e si possono avere fenomeni infiammatori perché il sangue è
fortemente irritante.

Terapia: si utilizzano crioprecipitati che permettono di integrare il fattore


mancante. Si è visto, anche se non si sa perché, che nell’emofiliaco le infusioni
sono in grado di stimolare la produzione di una piccola quantità del fattore
mancante.

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b. Emofilia C: c’è un deficit di fattore XI ed è una forma meno grave delle
precedenti perché la via intrinseca può essere attivata anche dal FVIII che può
agire direttamente sul FVII.

c. Malattia di vonWillebrand

d. Deficit di fattore VII

e. Deficit di fattore II

f. Deficit di fattore X

g. Deficit di fattore XIII

h. Ipo/afrinogenemia

2. Forme acquisite da difetto di sintesi dei fattori:

a. Epatopatie croniche (cirrosi): il fegato sintetizza tutti i fattori della


coagulazione con l’eccezione del FVIII, è però fondamentale anche per la
produzione dei fattori anticoagulanti, anche questi ultimi saranno pertanto
ridotti. Ne deriva che, l’allungamento del PT e del PTT non riflettono un reale
disturbo della coagulazione in vivo. A riprova di ciò, bisogna considerare che il
sanguinamento nel cirrotico avviene prevalentemente a livello del tubo gi, dove
il problema non è lo stato coagulativo, ma la presenza di ipertensione portale.
Recenti studi hanno poi dimostrato come, al contrario, fenomeni trombotici
siano aumentati di frequenza in questi pz, a differenza di quelli emoraggici,
forse a causa della presenza di endotossine che possono attivare il sistema
emostatico in diversi modi. Per quanto riguarda le piastrine, in caso di
insufficienza epatica di entità abbastanza importante, si ha una riduzione del
loro numero, bilanciata però, come è stato dimostrato, da un’aumentata attività
delle stesse.

b. Farmaci antagonisti della VitK

c. Malassorbimento di VitK: può essere dovuto ad ostruzione del deflusso biliare


o a malassorbimento vero e proprio come nel caso della celiachia.

3. Forme acquisite da attivazione o consumo dei fattori:

a. CID: è una condizione grave con mortalità del 50%. Coesistono fenomeni
emorragici (gravi sanguinamenti cutanei e mucosi) e trombocitici (ischemie
periferiche). Si ha una fase trombotica seguita da una fase fibrinolitica. Agli
esami si rileverà piastrinopenia con presenza di schistociti, PT e PTT allungati,
fibrinogeno e D-dimero aumentati. Il fattore scatenante può essere un trauma,
una sepsi o una condizione stressante per l’organismo. Anche la LAM M3 si
associa frequentemente a CID. È importante correggere la causa e prevenire le
recidive.

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b. Anticorpi anti-fattori coagulanti circolanti che possono comprarire in corso di
malattie autoimmuni, neoplasie e gravidanza.

4. Forme acquisite da diluizione:

a. Trasfusioni massive

5. Forme acquisite da perdita di fattori:

a. Sindrome nefrosica

b. Coagulopatia da traumi

c. Coagulopatia nell’emorragia post-partum

60
PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE E ALIMENTAZIONE
Le coronaropatie e, in generale, i problemi che colpiscono le arterie hanno molto spesso
eziologia aterosclerotica (altre cause, specie per quanto riguarda le coronaropatie, possono
essere la presenza di emboli settici o iatrogeni, una stenosi ostiale delle coronarie causata da
patologie steno-calcifiche del bulbo aortico o patologie degenerative disseccanti).

Vista l’enorme importanza delle placche, ne consegue che tutti i fattori di rischio per lo
sviluppo di queste ultime debbano essere considerati importanti fattori di rischio
cardiovascolari e dunque debbano essere tenuti sotto controllo.

Fattori di rischio non modificabili:

1. Il sesso: la donna, in virtù della produzione di estrogeni (con effetto protettivo


sull’endotelio e sul cuore), tende a sviluppare patologia cardiovascolare più
tardivamente rispetto all’uomo.
2. Età
3. Familiarità: sia per gli eventi in sé che per i fdr come l’ipertensione.

Fattori di rischio modificabili:

1. Il fumo: sia quello attivo che quello passivo rappresentano uno dei più importanti
fattori di rischio, non solo cv, ma anche di natura polmonare e tumorale in generale.
In particolare, sussiste una correlazione diretta tra il numero di sigarette fumate ed il
rischio coronarico effettivo. Le dimensioni del “problema fumo” sono enormi, basti
pensare che ogni anno negli USA causa 430.000 morti, di cui più del 40% proprio
per cardiopatia.

2. L’ipertensione: danneggia sia il cuore che i vasi. In particolare, il danno dato


dall’ipertensione sul muscolo cardiaco può essere di tipo coronarico (quindi infarto),
ma può anche determinare un sovraccarico di lavoro, che può portare a una
ipertrofia, base per l’insorgenza di uno scompenso. Molti studi che sono stati effettuati
assicurano che il controllo adeguato della pressione può ridurre effettivamente il
rischio di infarto acuto del miocardio.

3. La dislipidemia e l’ipercolesterolemia (vn<200mg/dL): la correlazione tra i livelli di


colesterolo e l’aumento di mortalità per cardiopatia ischemica è molto evidente. La
frazione più importante del colesterolo da mantenere monitorato è il colesterolo LDL
(vn<100mg/dL, meglio se <70mg/dL in un soggetto ad alto rischio), essendo
quest’ultimo il diretto responsabile del danno endoteliale. In particolare, esso si
deposita a livello endoteliale e richiama macrofagi che si trasformano in cellule
schiumose. Se poi il colesterolo si ossida, la placca diventa instabile e, dunque, oltre ai
problemi legati all’ostruzione del lume, aumenta anche la probabilità di formazione di
trombi. Per mantenere basso il colesterolo LDL è importante intervenire
sull’alimentazione e mediante farmaci appositi. Per i soggetti che, tuttavia, presentano
geneticamente degli elevati livelli di LDL, l’unica soluzione è quella di intervenire
farmacologicamente con statine, Ezetimibe e, eventualmente, aggiungendo anche gli
inibitori dell’enzima PCSK-9. Il colesterolo HDL (vn >40mg/dL nell’uomo e >50mg/dL

61
nella donna) ha, invece, un ruolo protettivo, dunque, anche avere bassi di
quest’ultimo risulta essere un fattore di rischio: si è osservato che associare un valore
di LDL alto ad uno di HDL basso moltiplica esponenzialmente la probabilità di
incorrere in un evento cv. Il problema è che non abbiamo a disposizione dei metodi
per alzare le HDL, ad eccezione dell’attività fisica. Molto meno evidenze sono invece
presenti per quanto riguarda gli elevati livelli di trigliceridi, i quali possono comunque
essere controllati con l’assunzione di acidi grassi e, soprattutto, con un’alimentazione
corretta dal momento che, rispetto al colesterolo, sono molto più dipendenti da
quest’ultima.

4. Il diabete: il rischio relativo di morte cv nel diabetico è più alto rispetto a quello nel pz
non diabetico; non solo: si nota anche che il rischio è ancora più alto nei diabetici
con storia di precedente infarto. Il muscolo cardiaco nel soggetto diabetico presenta
delle alterazioni microscopiche che aggravano il quadro e favoriscono la disfunzione
cardiaca. Il controllo dei livelli di glucosio nel sangue è molto importante sia per il
cuore che, in generale, per tutto l’organismo.

5. La sedentarietà

6. Il sovrappeso e l’obesità (in particolare si deve misurare la circonferenza vita-fianchi


che viene considerata indicativa se >102cm): il tessuto adiposo contribuisce a
generare uno stato infiammatorio generalizzato che peggiora il quadro cardio-
vascolare. In generale, l’aumento del rischio CV dipende da un aumento dei valori di
insulinemia con attivazione del SRAA e dell’ortosimpatico, dalla disfunzione
endoteliale con abbassamento di NO, dal fatto che spesso c’è anche un pattern
lipidico pro-aterogeno e dall’aumento dello stress ossidativo. Viene considerato
normale un BMI<25kg/m2, vi sono poi i soggetti definiti sovrappeso (BMI 25-
29.9kg/m2) e, infine, quelli obesi (1°grado 30-34.9kg/m2, 2°grado 35-39.9kg/m2 e
3°grado >40kg/m2). Un soggetto obeso ha un aumentato rischio di morbilità con
maggiore incidenza di patologie quali osteoartrosi, calcolosi della colecisti, sleep
apnea e patologie respiratorie e depressione. Sul versante CV, aumentano sia gli fdr,
da considerarsi essi stessi patologie come la dislipidemia, il DM2 o l’ipertensione, sia
gli eventi veri e propri ad essi correlabili come cardiopatia ischemica o ictus
cerebrale. Inoltre, anche la mortalità per qualsiasi causa, negli obesi, risulta
aumentata del 18% rispetto ai soggetti normopeso (!Curve si sopravvivenza a J: pare
che i soggetti lievemente sovrappeso siano quelli con mortalità più bassa, ma in realtà
c’è un bias importante dato dal fatto che nella fascia dei “magri” vi sono anche
soggetti che lo sono, ad esempio, per la presenza di patologie neoplastiche o di
malattie croniche).

Questi fdr predispongono allo sviluppo di cardiopatia ischemica, malattia cerebrovascolare,


arteriopatia periferica e aterosclerosi aortica con possibile insorgenza di aneurismi.
Complessivamente, ad oggi, le patologie CV sono al primo posto come causa di morte e
peggioramento della qualità di vita nei paesi industrializzati.

L’alimentazione gioca un ruolo fondamentale, specie se affiancata ad una corretta attività


fisica, per prevenire le patologie CV. L’alimentazione andrebbe, dunque, controllata sia da
un punto di vista quantitativo che qualitativo. Per quanto riguarda il primo punto, sono stati
fatti studi sulle scimmie che ci hanno permesso di capire come la restrizione calorica abbia
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un effetto positivo sia per quanto riguarda la morbidità che la mortalità e, probabilmente, in
associazione a vantaggi in termini cognitivi. La restrizione calorica è, tuttavia, molto difficile
da applicare, si è allora pensato di verificare gli effetti del digiuno: uno studio ci ha mostrato
che 5 giorni al mese senza assumere cibo possono ridurre l’incidenza di fdr per
l’invecchiamento e per le malattie età-correlata. Per quanto riguarda la qualità, bisogna
bilanciare in maniera corretta i nutrienti:

- I grassi: essi svolgono funzioni importanti e, dunque, non devo essere esclusi dalla
dieta, se ne devono tuttavia scegliere le tipologie giuste. Possiamo infatti avere:

o Grassi saturi (olio di cocco o di palma, carne e latticini): si associano ad un


alto rischio di malattia coronarica
o Grassi trans insaturi (margarina, prodotti da forno): si associano ad un alto
rischio di malattia coronarica.
o Grassi monoinsaturi (olio di oliva o di canola): si correlano ad un minor rischio
cardiovascolare.
o Grassi polinsaturi (omega3 e omega6 contenuti nel pesce e nei vegatali): si
correlano ad un basso rischio di malattia coronarica e sembrano inoltre
prevenire la morte improvvisa in pz con coronaropatia ischemica, forse in virtù
della prevenzione di eventi aritmici maggiori. Riducono anche i valori di
trigliceridi plasmatici.

- Il colesterolo: questo acido grasso deriva sia da produzione endogena che dagli
alimenti. Il range di intake compreso tra 100mcg e 300mcg/die è quello che influenza
maggiormente i livelli di colesterolemia: al di sotto pare non ci siano variazioni, così
come al di sopra. Cibi ricchi di colesterolo sono il cervello, specie quello di vitello
cotto, e le uova.

- Il pesce: è una fonte proteica molto importante che, rispetto a prodotti caseari e
pollame, si associa ad un minor rischio di coronaropatia, al pari di noci (che però
hanno un elevato contenuto calorico e, dunque, vanno consumate con moderazione)
o fagioli. Il pesce è molto ricco di Acido Eicosapentaenoico, Docosapentoico e
docosaesanoico (omega3) che hanno effetto antiaritmico, bradicardizzante,
ipotensivante e permettono di ridurre i trigliceridi nel sangue. In realtà, per le dosi
normalmente assunte non si manifestano questi effetti, andranno dunque assunti dei
supplementi. Nonostante i pregi evidenti, bisogna limitare il consumo di pesce, o
almeno scegliere attentamente il tipo, a causa della presenza di mercurio, la cui
assunzione non dovrebbe superare 0.1mcg/kg. In particolare, tra i pesci ricchi di
mercurio, ricordiamo la spigola, il dentice e lo sgombro; ne contengono invece
quantità basse le alici, il salmone e le cappesante.

- Il sale: nonostante molti medici consiglino un basso contenuto di sale nella dieta per
ridurre l’intake di sodio e, dunque, i valori pressori; non ci sono in realtà dati così
certi in letteratura che vi sia effettivamente una stretta correlazione. La relazione
risulta, infatti, visibile, solo se consideriamo i valori mediani di consumo di sodio in
relazione all’aumento della pressione arteriosa con l’aumentare dell’età. Pare che la
quantità ottimale da consumare sia di 10-11g/die di sale che corrispondono a 5g di
sodio; vi sono, tuttavia, studi che correlano consumi di sodio inferiori a 1g/die a un
minor numero di eventi cardiovascolari.
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- Gli alcolici: il consumo è sconsigliato perché, nonostante sul versante cardiovascolare
pare che piccoli consumi possano avere un effetto protettivo, gli effetti dannosi di
queste bevande si esplicano su numerose patologie e tessuti e, dunque, i rischi sono
maggiori rispetto ai teorici benefici. In realtà, potrebbe essere tollerato il consumo di
24g/die di alcol nell’uomo e di 12g/die nella donna e nell’anziano, devono invece
evitarlo i giovani.

- Il cioccolato: quello fondente contiene flavanoli che paiono essere in grado di


migliorare l’insulinemia, di ridurre i valori di PA e di avere un effetto protettivo
sull’endotelio. Alcuni studi hanno dimostrato come nell’anziano possa esserci anche
un effetto positivo sui processi cognitivi con una funzione protettiva nei confronti
della demenza. Non bisogna comunque esagerare, sia per il contenuto calorico, che
per la tendenza a dare stipsi.

Sostanzialmente, ad ogni pasto dovremmo suddividere i cibi in 50% di frutta e verdura, 25%
di cereali integrali, 25% di proteine come pollo, pesce o fagioli (evitare carne rossa e
processata). I condimenti devono essere sani e si deve bere acqua.

SINDROME METABOLICA
Perché si possa applicare questa definizione si devono avere almeno 3 tra le seguenti
condizioni:

1. PAD>85mmHg e/o PAS>130mmHg


2. Crf addominale >88cm nella donna e >102cm nell’uomo
3. TG>150mg/dL
4. HDL<40mg/dL nell’uomo e <48mg/dL nella donna
5. Alterata glicemia a digiuno (100-125mg/dL)

Ognuna di queste condizioni rappresenta un fdr per lo sviluppo anche delle altre e, insieme,
concorrono a portare allo sviluppo di malattie CV e DM2: si parla di rischio cardio-
metabolico. Altre alterazioni che entrano a far parte di questo quadro sono l’ipertrofia del vs,
la steatosi non alcolica, le infezioni, le patologie infiammatorie o immunomediate, sleep
apnea, l’iperuricemia…

Il concetto di sindrome metabolica è stato molto enfatizzato quando si è scoperto il


Rimonabant: questo farmaco prometteva, infatti, di agire su tutti questi fattori. Il problema è
che, essendo un inibitore del recettore degli endocannabinoidi, riduceva molto il tono
dell’umore e questo ha reso il suo utilizzo molto limitato. Si preferisce, dunque, andare ad
agire sulle singole alterazioni.

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DISLIPIDEMIE
Si intende un aumento del colesterolo LDL o di quello totale, oppure una riduzione dei
valori di HDL.

Colesterolo TOT Colesterolo LDL Colesterolo HDL


<200 Auspicabile <70 Ottimale se rischio alto <40 Basso (uomini)
200-239 Borderline <100 Ottimale <50 Basso (donne)
>240 Alto 100-129 Accettabile
130-159 Borderline
160-169 Alto
>170 Molto Alto

Il problema è che le dislipidemie aumentano la probabilità di avere placche aterosclerotiche


che, a loro volta, possono rendersi responsabili dell’insorgenza di patologie ischemiche,
coronariche, cerebrali o periferiche. A livello endoteliale, infatti, il colesterolo può
accumularsi e richiamare macrofagi che si trasformano in cellule schiumose; se, poi, il
colesterolo si ossida, la placca diventa instabile e dunque, oltre ai problemi legati
all’ostruzione del lume, avremo maggior probabilità di sfaldamento della placca stessa con
embolismo.

Possiamo distinguere dislipidemie primarie, quindi senza causa nota e forme secondarie che
si associano alla presenza di DM2, obesità, sindrome nefrosica (aumentano le LDL e i TG
perché gli epatociti producono più lipoproteine per compensare la perdita proteica),
ipotiroidismo, epatopatie colestatiche… Due casi particolari sono i fumatori, nei quali
assistiamo ad una riduzione delle HDL con compromissione delle funzioni antiossidante e
antiinfiammatoria, e i soggetti che abusano di alcolici, nei quali si ha un aumento importante
dei TG. Talvolta, poi, abbiamo anche forme iatrogene dovute, ad esempio, a tp con
estrogeni, beta bloccanti o diuretici tiazidici.

Per quanto riguarda le forme genetiche abbiamo:

1. Ipercolesterolemia familiare: si ha un aumento delle LDL che può dipendere da tre


fattori:

a. Recettore epatico delle LDL


b. Apolipoproteina B100
c. PCSK9 (importante perché porta alla degradazione del recettore per le LDL e,
dunque, quando presente in eccesso, le LDL vengono internalizzate meno
perché i recettori non possono tornare in membrana e ne aumentano i livelli
ematici)

La mutazione alla base può essere in omozigosi, fatto raro e facilmente diagnosticabile
perché questi soggetti hanno LDL>300, xantomi cutanei e tendinei dall’infanzia,
stenosi dell’arco aortico e cardiopatia precoce, oppure può essere presente in
eterozigosi. Quest’ultima evenienza è molto più frequente (1:500) e per la diagnosi è
in questo caso importante applicare il Dutch score:

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Dopo aver avanzato il sospetto di malattia prematura e confermato la diagnosi con i
criteri clinici, è possibile fare analisi genetica (solo in centri specializzati, come
Milano e Padova), non solo al soggetto interessato, ma su tutta la famiglia. Fare
diagnosi è importante perché, specie nelle forme omozigoti, è importante trattare
anche i bambini perché quello che determina la comparsa dell’evento CV è il tempo
d’esposizione, motivo per cui bambini che hanno 350 mg/dl di LDL da quando sono
nati e che non vengono trattati, possono anche avere IMA a 13 anni.

2. Iperlipidemia familiare combinata: la prevalenza è di 1:100-200 e c’è ampia variabilità


fenotipica. Tutti questi soggetti, infatti, sono maggiormente predisposti allo sviluppo di
aterosclerosi, ma il profilo lipidico può variare, e questo vale sia per diversi soggetti
che per il medesimo soggetto in epoche diverse.

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3. Disbetalipoproteniemia familiare III: c’è un aumento del colesterolo totale e dei TG
che porta ad aterosclerosi precoce, xantomi striati, piani e tuberosi nelle zone soggette
a sfregamento. La prevalenza è di 1:1000 e la mutazione alla base può essere diversa.

Il numero di soggetti con dislipidemia è alto e in aumento, motivo per cui ci si è posti la
domanda su chi convenga screenare per questo problema e come farlo. Il profilo lipidico,
ovvero il dosaggio ematico di colesterolo totale, HDL e TG (il valore di LDL può essere
calcolato secondo la formula di Friedewald facendo colesterolo tot–(HDL+(TG/5) e dunque
non serve dosare anche la LDL), deve essere richiesto in tutti quei soggetti che presentano
determinati fdr che possano farci pensare a livelli potenzialmente elevati. Sono, dunque,
candidati pz con DM2, con patologie CV, ipertesi, fumatori, obesi, con malattie autoimmuni
o infiammatorie croniche, con IR o con anamnesi familiare positiva (in soggetti particolari
può essere opportuno dosare anche l’ApoB e L’Apolipoproteina a: essi sono particolarmente
importanti se sospetto forme familiari). Più dibattuta è, invece, la necessità di screenare
soggetti con più di 40 anni ma senza FDR, la Muiesan ritiene che andrebbe fatto.

La terapia ipolipemizzante si basa sostanzialmente inizialmente sul mantenimento di una


vita sana e, eventualmente, sull’utilizzo di statine. Se poi non si riescono ad ottenere i target
che vengono calcolati sulla base del rischio del pz, si possono aggiungere altri farmaci come
Ezetimibe, inibitori di PSCK9, fibrati… In alternativa si possono utilizzare anche nutraceutici.
A grandi linee:

67
Il livello di rischio lo classifichiamo in base allo score dell’Europa del nord e score
dell’Europa del sud e i parametri sono molto pochi:

1. Pressione sistolica
2. Colesterolo
3. Fumo/non fumo
4. Sesso
5. Età [dibattito sul senso di proseguire o meno la tp in soggetti over80, cosa che
secondo la Muiesan va assolutamente fatta]

In realtà, però, sappiamo che il rischio cv aumenta anche in:

- Soggetti con deprivazione sociale: vivono soli e presentano un disagio sociale; fatti
che si ripercuotono sullo stile di vita con un limitato accesso ai farmaci,
un’alimentazione scorretta e depressione.
- Soggetti sedentari con obesità centrale.
- Diabetici: hanno rischio CV aumentato, e questo aumento è più marcato nelle donne
rispetto agli uomini
- Soggetti con biomarkers che indicano un’infiammazione cronica sottostante anche di
basso grado: quest’ultima può, insieme a valori elevati di colesterolo, far impennare
gli eventi cardiovascolari.
- Soggetti con placca carotidea asintomatici: potrebbero aver avuto un danno
dell’endotelio vascolare durante una qualsiasi infezione (polmonare ad esempio).
- Soggetti con insufficienza renale
- Soggetti con storia familiare di malattia cardiovascolare prematura

In generale, il rischio può essere calcolato o sulla base della probabilità che quel pz abbia
un evento nell’arco di 10 anni, oppure esistono anche delle carte che prendono in
considerazione la differenza di probabilità di avere un evento tra un soggetto che presenta
un dato fattore di rischio e uno che non lo presenta.

Definire il rischio è importante poiché in base ad esso ci si pone l’obiettivo, che è


primariamente la riduzione di LDL fino ad un determinato livello che sarà tanto più basso
quanto maggiore è il rischio del pz. Il colesterolo totale, se particolarmente elevato, può
essere considerato un surrogato, ma non rappresenta il target primario. Stesso discorso vale
per le HDL, per le quali inoltre non disponiamo molti mezzi terapeutici, ma, in entrambi i
casi, se la tp porta anche ad un miglioramento di questi valori, tanto di guadagnato. Quindi,
sostanzialmente, per decidere come trattare il pz stratifico il suo rischio, in base a questo
pongo dei valori target di LDL e, di conseguenza, prescrivo una tp idonea ad ottenere i
risultati prefissati. Quindi:

- Se il pz ha rischio CV basso e valori normali non serve intervenire, se le LDL però


superano i 100 è opportuno consigliare di migliorare lo stile di vita. In questi pz è
possibile considerare un intervento farmacologico solo se i valori di LDL superano i
190mg/dL.
- Se il paziente ha un rischio moderato, ossia inferiore al 5%, ci accontenteremo di
avere le LDL pari a 115 mg/dl e per raggiungere questo obiettivo è possibile
considerare il ricorso a farmaci.

68
- Se il paziente ha rischio cardiovascolare elevato, ossia compreso tra 5-10%, il target
terapeutico è 100 mg/dl: per raggiungerlo sarà necessario impostare immediatamente
un trattamento farmacologico in associazione al cambiamento dello stile di vita.
- Se il paziente è a rischio molto elevato, ossia superiore al 10% (ad esempio il
paziente che ha già avuto evento cardiovascolare, o è diabetico o è già in
insufficienza renale) deve assolutamente ridurre le LDL a valori inferiori o uguali a 70
mg/dl, oppure ridurle almeno del 50% ed è necessario cominciare immediatamente
con una tp farmacologica.

In generale, comunque, l’approccio da tenere nei confronti dei livelli di LDL è the lower the
better: c’è, infatti, come evidenziato dallo studio IMPROVE-IT, una relazione continua tra la
quota di riduzione delle LDL e la riduzione degli eventi cardiovascolari.

La riduzione dei livelli di LDL è utile non solo come prevenzione primaria, ma anche in
soggetti che già presentano o hanno presentato problemi correlati all’aterosclerosi. Ad
esempio, nel caso in cui i pz abbiano arteriopatie, le Statine permettono di ottenere una
riduzione della progressione delle placche, così come in pz che hanno già avuto ictus
emorragico possiamo ridurre il rischio che un evento ateroembolico si ripresenti. Per quanto
riguarda i diabetici, pz con DM1 vanno portati a valori di LDL inferiori di 70 mg/dl, mentre
per pz con DM2 ci si accontenta di valori inferiori a 100 mg/dl. Necessitano di trattamento
con statine anche i pz con insufficienza renale, avendo cura di scegliere quelle meno escrete
attraverso questa via. Tutto ciò vale anche per i pz anziani, l’unica cosa che cambia è il
dosaggio che, generalmente, dovrà essere mantenuto più basso. Si è visto che la riduzione
del rischio CV che si ottiene nei soggetti sopra i 75 anni è del 13%: si tratta di un valore che,
seppure inferiore rispetto al 22% dei soggetti più giovani, rimane significativo e dunque non
si può non prescrivere statine ad alcuni pz solo a causa della loro età. Ciò su cui invece si
dibatte è la necessità di fare prevenzione primaria nei soggetti anziani, la secondaria è
necessaria.

Per ottenere l’abbassamento innanzitutto si deve migliorare lo stile di vita, poi si può
prescrivere statine, delle quali posso gradualmente aumentare la dose, fino a che non si
raggiunge il valore di LDL target. Se però c’è intolleranza alle statine, abbiamo a
disposizione altre possibilità come i sequestranti della bile o Ezetimibe, il quale interferisce
con l’assorbimento di colesterolo. Nei pazienti che hanno una dislipidemia mista, si dà la
statina ed eventualmente la si può combinare con l’acido nicotinico o con un Fenofibrato,
ma non con Gemfibrozil. Infine, sui valori di HDL le evidenze sono poche, si può decidere
di associare i fibrati alla statina (la Rosuvastatina alza i livelli di HDL? Nello studio Stellar
pare ci sia un aumento del 7-9%) oppure pensare di dare acido nicotinico; ciò che rimane
più efficace per aumentare le HDL è comunque l’attività fisica. I diversi approcci possibili,
dunque, comprendono:

- Stile di vita associato o meno a cibo/nutraceutici (utilizzati soprattutto in prevenzione


primaria e con costi a carico del pz)
- Per fare prevenzione primaria o trattare pz con rischio intermedio: dieta+nutraceutici
e, se non basta, aggiungo statine di primo livello ed, eventualmente, statine di
secondo livello
- Per fare prevenzione secondaria o trattare pz ad alto rischio: dieta+statine di secondo
livello, a cui può essere associato o meno Ezetimibe

69
- In casi estremi (ad esempio nella dislipidemia aterogena residua) si possono associare
a statine+ezetimibe anche gli inibitori di PCSK9 o il fenofibrato (quest’ultimo usato
soprattutto nei diabetici) oppure ancora gli OMEGA3.

STILE DI VITA
Per ridurre le LDL:

- Ridurre gli acidi grassi saturi, i grassi trans, gli alimenti ricchi di colesterolo
- Aumentare le fibre, le proteine di soia e l’apporto di fitosteroli
- Dimagrire e fare attività fisica

Per aumentare le HDL:

- Ridurre i grassi trans


- Dimagrire e fare attività fisica (150min/settimana)
- Bere poco alcol, o ancora meglio, non berne e non fumare

Il problema è che, spesso, il pz vuole vedere risultati in tempi rapidi e una dieta ben fatta
non è conciliabile con una tale rapidità. Inoltre, ci sono pz che faticano a seguire queste
prescrizioni.

NUTRACEUTICI
Tutti i pazienti con LDL sopra il livello desiderato e che non vogliono/possono prendere
statine, dovrebbero assumere un nutraceutico. Ciò può anche aiutare la compliance perché,
non essendo coperti dal SSN, il pz li deve pagare e, dunque, sarà più spronato, una volta
pagati, ad assumerli. Quelli che funzionano meglio sono:

1. Riso rosso fermentato: il Monascus Purpureus, ovvero il fungo che fa diventare rosso
il riso, produce monacolina K che è un analogo naturale della Lovastatina, motivo per
cui il riso rosso agisce sull’HMG-reduttasi come le statine e ha un efficacia piuttosto
buona (riduce le LDL di un 20-30% rispetto ai valori di partenza). Il problema è che
in molti criticano l’uso del riso rosso per scarsità di studi clinici. In effetti, l’unico che
è stato fatto, è uno studio cinese in cui sono stati arruolati 5000 pz in prevenzione
secondaria: ha permesso di notare sia una riduzione della mortalità CV, che di quella
per altre cause, pare che sia in grado di ridurre del 37% gli eventi CV.
2. Berberina: aumenta l’espressione dei recettori delle LDL, facilitandone la captazione.

STATINE
Questi farmaci sono in grado di abbassare i livelli di colesterolo inibendo l’HMG-reduttasi
che è l’enzima limitante nella biosintesi del colesterolo. Dal momento che a livello
intracellulare le concentrazioni di colesterolo si devono mantenere costanti, viene stimolata
l’esposizione di recettori per le LDL sulla membrana esterna, con conseguente riduzione del
colesterolo circolante. Non tutte le statine riducono le LDL alla stessa maniera: ciò dipende
sia dal dosaggio che dal tipo di statina scelto:

Statine primo livello

- Fluvastatina 20 mg –> riduzione LDL del 20%


- Fluvastatina 40 mg –> riduzione LDL del 30%
70
- Lovastatina 20 mg –> riduzione LDL del 20%
- Lovastatina 40 mg –> riduzione LDL del 30%

- Sinvastatina 10 mg –> riduzione LDL del 30%


- Sinvastatina 20 mg –> riduzione LDL del 35%
- Sinvastatina 40 mg –> riduzione LDL del 40%

Statine di secondo livello

- Atorvastatina 10 mg –> riduzione LDL del 40%


- Atorvastatina 20 mg –> riduzione LDL del 45%
- Atorvastatina 40 mg –> riduzione LDL del 50%

- Rosuvastatina 40 mg –> riduzione LDL del 55%; è la più potente

Per scegliere quale Statina utilizzare, oltre che sull’efficacia e la potenza, ci si deve basare
anche su altri elementi: possono variare, infatti, ad esempio, la biodisponibilità, la durata
d’azione e la via di eliminazione. Bisogna poi considerare le interazioni farmacologiche: vi
sono, infatti, molti farmaci che, agendo da inibitori enzimatici, portano ad un aumento della
concentrazione della statina con aumento della probabilità che si verifichino effetti
collaterali. Ad esempio, Atorvastatina, Lovastatina e Sinvastatina sono metabolizzate da CYP
3a4 e bisogna fare attenzione a Tamoxifene, Antifungini, SSRI, Verapamil, Corticosteroidi…
Per quanto riguarda, invece, Fluvastatina e Rosuvastatina (CYP2C9), bisogna prestare
attenzione agli antifungini e all’Amiodarone. Infine, tutte le statine risentono dell’assunzione
di Ciclofosfamide, inibitori delle proteasi, Gemfibrozil e Macrolidi.

Secondo le linee guida, in riferimento alla NOTA13:

- Se il rischio è moderato, siamo sotto i 115 mg/dl, posso usare tutte le statine tranne la
Rosuvastatina
- Se il rischio è alto, posso usare tutte le statine, tranne la Rosuvastatina; se, però, le
altre statine non hanno funzionato posso passare alla Rosuvastatina, eventualmente
associandola ad Ezetimibe (i due farmaci esistono già in combinazione fissa)
- Se il rischio è altissimo, posso usare tutte le statine, tranne la Rosuvastatina, che è da
riservare all’insuccesso terapeutico o a quei pz con effetti collaterali associati
all’utilizzo di altre statine [perché vista la sua lunga emivita posso darla a giorni
alterni?]

Il problema principale legato alla Rosuvastatina era di natura economica, con la disponibilità
del generico, tuttavia, si pensa che queste disposizioni cambieranno a breve.

Non tutti i soggetti possono assumere le statine: esse portano, infatti, talora, all’insorgenza di
miopatia con algie, ad un aumento delle transaminasi correlato alla necrosi epatocellulare e
ad un aumento della prevalenza di diabete o dell’aumento della glicemia a digiuno
(quest’ultimo punto potrebbe portare a chiedersi il senso di ridurre un fdr cv portando
all’insorgenza di un altro; in realtà si è visto che si tratta comunque di un evento raro e non
in grado di intaccare i benefici tratti dalla somministrazione di statine). Si parla di

71
intolleranza alle statine, la quale, oltre che essere in relazione alla dose, può dipendere dalla
presenza di altri fdr come:

- L’ età
- L’ipotiroidismo
- Miopatie sottostanti
- Insufficienza renale: in realtà, se la prescrizione viene fatta in maniera corretta e
tenendo conto di questa caratteristica del pz, le statine proteggono il rene dal danno;
chiaramente se, invece, si prescrive una statina a dosi normali e a prevalente
eliminazione renale in un pz con filtrato ridotto se ne aumenta oltremodo la
concentrazione.

Non bisogna, inoltre, dimenticare che spesso può capitare di trovarsi di fronte a forme
psicogene o psichiatriche di mialgia: avremo pazienti che lamentano terribili dolori
muscolari, ma hanno le CPK normali. Ciò è giustificato da una parte dalla tendenza del pz
ad attribuire qualsiasi problema ai farmaci che assume e dall’altra ad una sorta di terrorismo
psicologico che porta il pz a lamentare sintomi che in realtà non sono presenti. Ciò detto,
comunque, la miopatia da statine, sebbene i meccanismi con la quale ciò avvenga non siano
ancora completamente chiariti, è un evento che può verificarsi. Nel caso in cui si dimostri
intolleranza, è importante sospendere il farmaco per un tempo dipendente dall’entità del
rialzo delle CPK: se, infatti, esse rimangono inferiori alle 800 U/L bastano 2-4 settimane,
altrimenti ne sono necessario 6-8. Dopo la sospensione, il pz va rivalutato e seguito per
capire se i sintomi scompaiono o meno (!anche altri farmaci o diverse associazioni possono
portare a problemi a livello muscolare, quindi, anche attraverso un’anamnesi farmacologica
accurata, è necessario capire se sia effettivamente un effetto dovuto alla statina) e poi si può
provare a reintrodurre la statina. Specie se l’aumento è importante, è opportuno ridurre il
dosaggio oppure provare con una statina differente. Se i sintomi ritornano e le CPK
aumentano, ma di meno, si risospende la statina e se ne sceglie una ad ancora più basso
dosaggio o si passa all’assunzione della statina a giorni alterni. Se, invece, i sintomi con il
dosaggio più basso non ritornano, allora il paziente continua con la statina. Si pensa a
ricorre ad una diversa terapia rispetto alle statine se il pz continua ad avere gli affetti
collaterali nonostante il basso dosaggio e alla modalità di assunzione intermittente.

I controlli devono essere fatti prima di iniziare la tp, dopo 2-3 mesi e poi ogni 8-12 mesi.

Ci sono alcune situazioni particolari:

1. Pz in trattamento con la statina, che abbiano HDL basse, oppure che abbiano
trigliceridi elevati: è meglio associare Sinvastatina e Ezetimibe, oppure si può usare il
fenofibrato (i fibrati funzionano soprattutto se ho trigliceridi elevati e non funzionano
in quelli che non hanno né trigliceridi elevati, né basso colesterolo HDL)
2. Pz con IRC moderata/grave: scelgo statine con bassa escrezione renale e posso
associarle a Ezetimibe. Se questi pz hanno anche TG elevati non uso il Fenofibrato
ma OMEGA3 con un dosaggio elevato (2-3 gr/die). Per quanto riguarda Rosuvastatina
e Pravastatina, fino a 60 ml/min di clearance della creatinina, si può mantenere un
dosaggio normale, poi vanno quantomeno ridotte.
3. Pz con IRA: si deve preferire l’associazione di Atorvastatina, Sinvastatina e Ezetimibe.
4. Pz trapiantati o in cura con antiretrovirali: bisogna scegliere le statine con minima
interferenza enzimatica o d’escrezione di questi farmaci. Sono dunque da preferire
72
Atorvastatina e Sinvastatina a dosaggi piuttosto bassi, potrò poi associare Fenobibrati
e Ezetimibe, se non dovessero essere sufficienti.

EZETIMIBE
È un farmaco capace di inibire selettivamente l’assorbimento intestinale del colesterolo
assunto con la dieta e di quello presente nella bile. In particolare, il bersaglio molecolare
dell’azione di questo farmaco è NPC1L1 che è presente sia a livello dell’orletto a spazzola
intestinale che a livello epatico. Questo farmaco può essere associato alle statine nel caso in
cui queste ultime non siano sufficienti a raggiungere il target e induce un abbassamento del
15-20% dei valori di LDL, a prescindere dalla dose della statina associata.

INIBITORI DI PCSK9
Questi farmaci, ovvero Evolocumab e Alirocumab, sono efficaci, ma il loro uso è limitato a
soggetti nei quali non si riesce in alcun modo a raggiungere il target a causa del loro costo
elevato. Possono essere utili, ad esempio, nel caso di forme familiari, dopo aver comunque
tentato con l’associazione Statina a massima dose e Ezetimibe per un tempo di almeno 6
mesi. Altra indicazione al loro utilizzo sono i pz che abbiano reale miopatia da statina tale
da impedire loro di assumere quei farmaci nonostante ne avrebbero bisogno. Negli
ipercolesterolemici familiari gravi, analizzati dallo studio ODYSSEY, in cui si testava
l’Alirocumab, non emerge una palese evidenza favorevole, però si vede che gli inibitori di
PCSK9 riducono mortalità totale e mortalità cv. L’ultimo studio è stato il FOURIER che aveva
come obiettivo primario quello di andare a vedere quali fossero gli effetti della
somministrazione di Evolocumab: si è osservato che i soggetti che prendevano l’inibitore di
PSCK9 avevano una riduzione degli eventi cv maggiori del 20%. Questi farmaci devono
essere somministrati SC ogni 2-4 settimane a dosaggi diversi.

In passato c’era in commercio anche il Bococizumab, il quale è stato però ritirato dal
mercato perché portava alla formazione di ab che ne contrastavano l’azione; per quanto
riguarda, invece, quelli ad oggi disponibili, è stato dimostrato che non abbiano potere
antigenico.

TRIGLICERIDI
Dal punto di vista dello stile di vita, per ridurre i valori di TG, è importante che i pz riducano
il consumo di alcol e di carboidrati e che facciano attività fisica regolare. Dal punto di vista
farmacologico, specie in pz con rischio elevato, si può raccomandare l’assunzione di fibrato
come primo farmaco, ed, eventualmente, in una fase successiva, si associa la statina. Sono
poi utili anche gli OMEGA3.

73
IPERTENSIONE
Si parla di ipertensione quando i valori di PA sono >140/90. Come fattori predisponenti
possiamo considerare vari fattori genetici, obesità e sovrappeso, stress, e, meno certamente,
un peso alla nascita molto basso o molto alto e un eccessivo apporto di sodio con la dieta.

PAS PAD
(mmHg) (mmHg)
Ottimale <120 E <80
Normale 120-129 E/O 80-84
Normale alta 130-139 E/O 85-89
Ipertensione 1°grado 140-159 E/O 90-99
Ipertensione 2°grado 160-179 E/O 100-109
Ipertensione 3° grado >180 E/O >110
Ipertensione sistolica >140 E <90
isolata *

*Nel giovane potrebbe essere espressione di circolo ipercinetico, nell’anziano, invece,


indica rigidità delle arterie dovuta ad un processo aterosclerotico che porta ad aumento della
pressione differenziale.

Riconosciamo forme definite primarie e forme secondarie, che, nonostante siano solo il 10%,
sono importanti da riconoscere poiché, generalmente, il trattamento dovrà essere diverso o,
quantomeno, più aggressivo. Tra le forme secondarie riconosciamo:

1. Ipertensione nefroparenchimale (>60%): a causa di una patologia renale, acuta o


cronica, si avrà uno squilibrio tra il SRAA e i vasodilatatori con peggioramento del
danno renale e perpetuamento del circolo vizioso. Alla base abbiamo una ritenzione
di sodio con espansione del volume, la perdita di nefroni, una riduzione
dell’inattivazione del cortisolo, un aumento dell’endotelina e una riduzione dei
vasodilatatori come prostaglandine, ossido nitrico e chinine. Punto importante da
ricordare è che alla base potrebbero esserci anche farmaci che vanno a danneggiare
la funzione renale.
2. Ipertensione nefrovascolare (20%): la causa è una stenosi della arterie renali dovuta
ad aterosclerosi, o, nel giovane soprattutto, a displasia fibromuscolare; cause più rare
comprendono lesioni vasculitiche o traumatiche o una compressione ab estrinseco da
parte, ad esempio, di una neoplasia, di un ematoma o in presenza di fibrosi
retroperitoneale. Sostanzialmente, a livello renale viene registrata una riduzione della
pressione, viene quindi attivato il SRAA che determina una vasocostrizione per
migliorare teoricamente l’afflusso ematico; in realtà, però, se entrambe le arterie sono
stenotiche, ciò porta solo ad un peggioramento della situazione. La stenosi delle
arterie renali è frequente nell’anziano, tuttavia si è osservato che non tutti quelli che
ne sono affetti hanno questa forma di ipertensione, dunque si è giunti alla conclusione
che si tratti solo di una condizione predisponente, ma non necessariamente
scatenante. Per poter fare diagnosi di malattia nefrovascolare è necessaria una
dimostrazione angiografica diretta di una stenosi o la dimostrazione indiretta
attraverso l’osservazione di un flusso turbolento. Si parla di vera e propria ipertensione
nefrovascolare quando c’è ipertensione in presenza di una stenosi di almeno il 70%
che viene corretta con stent o angioplastica: è una diagnosi a posteriori. Il problema è

74
che non tutti coloro che ne soffrono beneficeranno dell’intervento: secondo alcuni,
anzi, la sua efficacia è sovrapponibile a quella della tp medica e, specie in una
persona anziana, è gravato da complicanze (soprattutto episodi embolici). Inoltre,
migliorare la stenosi dal punto di vista chirurgico non sempre risolve il problema.
3. Ipertensione endocrina (10%):
a. Surrene: iperaldosteronismo, Cushing, feocromocitoma
b. Tiroide: ipotiroidismo con ritenzione e aumento del volume plasmatico o
ipertiroidismo che si associa ad aumento della PAS e non della PAD. T3
promuove la trascrizione dei recettori adrenergici
c. Paratiroidi: iperparatiroidismo
d. Ipofisi: acromegalia
e. Iperaldosteronismo glucocorticoido-sopprimibile: il gene dell’aldosterone
sintetasi è posto sotto controllo del regolatore della 11beta-idrossilasi con
sovraespressione dell’enzima e aumento dei valori di aldosterone che portano
a ritenzione di sodio e, conseguentemente, di acqua in assenza di un feedback
negativo perché il gene dell’aldosterone non dipende da questi parametri ma
dall’ACTH.
f. Psuedoiperaldosteronismo: un eccesso di glucocorticoidi porta questi ultimi a
legare anche i recettori dei mineralcorticoidi.
g. Mutazioni del gene che codifica per la 11beta-deidrosteroidodeidrogenasi:
questo enzima, presente a livello renale, è importante per convertire il cortisolo
in cortisone (quest’ultimo, a differenza del precedente, non lega i recettori per i
mineralcorticoidi). Se il gene che codifica per questo enzima è mutato, il pz
avrà ipertensione severa, ipopotassiemia e alcalosi con renina e aldosterone
bassi.
h. Pseudoipoaldosternonismo di tipo 2
4. Ipertensione da farmaci (5%):
a. Contraccettivi ed estrogeni
b. Corticosteroidi se superano la capacità di inattivazione renale
c. Decongestionanti nasali (ammine simpatico-mimetiche)
d. Droghe: anfetamina, ecstasy,cocaina
e. Fans: inibiscono l’azione delle PG
f. Ciclosporina
g. Sospensione brusca di antiipertensivi come la Clonidina
5. Altre cause:
a. Coartazione aortica: tra l’origine della succlavia sx e il primo paio di intercostali
nella vita fetale sbocca il dotto arterioso di Botallo, importante per congiungere
le polmonari all’aorta. Alla nascita i polmoni si espandono e questo porta ad
inversione del flusso del dotto; le cellule a questo livello sono in grado di
registrare l’aumento della PaO2 e reagiscono con metaplasia funzionale che
porta a chiusura del dotto. Se alcune di queste cellule sono presenti a livello
aortico si determina uno strozzamento con stenosi serrata. A causa di ciò
avremo valori pressori elevatissimi a monte che non possono essere corretti
con tp medica per non abbassare ulteriormente quelli a valle, dunque, già a 20
anni, se non si interviene chirurgicamente, questi pz avranno aterisclerosi
severissima.
b. Patologie del SNC con interessamento dei centri di regolazione vasomotoria
(traumi, infezioni, ipertensione endocranica).
c. Alcol: piccole quantità vasodilatano, grandi quantità, però, ipertendono.

75
d. Liquirizia: inibisce l’azione della 11-beta-deidrossisteroidodeidrogenasi a causa
del acido glicirretinico in essa contenuto
e. Ipertensione familiare con brachidattilia

Queste forme vanno sospettate quando ci sono ulteriori sintomi che facciano propendere per
una di queste cause o quando si ha di fronte un caso di ipertensione resistente, ovvero che
non risponde ad una combinazione di almeno 3 farmaci. In questo caso, infatti, dovrò fare
esami di approfondimento:

- Se sospetto patologia renale faccio un’eco


- Se sospetto una forma nefrovascolare faccio un doppler
- Se sospetto iperaldosteronismo faccio il rapporto aldosterone/renina
- Se sospetto ci sia un feocromocitoma devo dosare le metanefrine urinarie
- Se sospetto il Cushing doso il cortisolo urinario (urine delle 24h)

In generale, l’iter diagnostico dell’ipertensione prevede diversi step:

1. Conferma dell’ipertensione: secondo le nuove linee guida del 2018 sono da


considerarsi sia le misurazioni ambulatoriali, che quelle domiciliari. Sta inoltre
prendendo piede una misurazione ambulatoriale con il medico che si assenta perché
questo permette di ottenere valori molto simili rispetto a quelle domiciliari, limitando
l’effetto camice bianco. Questa è stata una novità perché prima le misurazioni
domiciliari venivano considerate meno importanti a fini diagnostici. Secondo le linee
guida la PA va provata si in clinostatismo che in ortostatismo dopo 1 e 3min perchè,
specie negli anziani, ci può essere ipotensione ortostatica ed è qualcosa di cui tener
conto quando si deve impostare una tp, oltre che essere, in associazione
all’ipertensione, un fattore di rischio per lo sviluppo di decadimento cognitivo e
demenza.

Se al controllo il pz ha valori pressori ottimali, può ripetere la misurazione dopo 5


anni, se li ha normali dopo 3. Se si comincia ad andare sul normale-alto, devo
considerare l’ipertensione mascherata, quindi considerare la misurazione out-of-office
e, anche se fosse negativa, ripetere almeno una volta all’anno la misurazione. Nel
caso, infine, in cui il pz sia francamente iperteso, si può o cercare conferma nella
visita successiva, o ricercarla in misurazioni domiciliari, siano esse quelle effettuate
dal pz, sia tramite misurazione nelle 24h. La misurazione della pressione nelle 24h
viene fatta in caso di:

a. Sospetta ipertensione da camice bianco (ad esempio valori molto elevati ma in


assenza di danno d’organo) o mascherata (disparità tra ambulatorio e
domicilio)
b. Ipotensione marcata durante il pranzo o in ortostatismo
c. Disturbi del sonno come insonnia o apnea
[Castellano l’anno scorso aveva aggiunto anche:
d. Ipertensione di grado 1 alla misurazione clinica
e. Se sospetto una forma secondaria perché mi permette di valutare se il
fenomeno del depping, ovvero il fatto che la PA di notte scenda
fisiologicamente di circa 10mmHg, sia presente o meno. Se non lo è
probabilmente si tratterà appunto di una forma secondaria.
76
f. Se c’è ispessimento delle tonache vascolari o ipertrofia ventricolare.]

2. Domande per valutare se possa trattarsi di una forma secondaria:

a. Storia familiare positiva per patologia renale


b. IVU ricorrenti, ematuria, malattia renale nota o massa palpabile (rene
policistico)
c. Anamnesi farmacologica
d. Cefalea, ansia, palpitazioni (feocromocitoma)
e. Alcalosi metabolica, fenomeni di tetania (iperaldosteronismo, la tetania si
spiega con l’alcalosi metabolica cui fa seguito un maggiore legame del calcio
alle proteine)
f. Segni e sintomi indicativi per tireopatia o per Cushing
g. Soffi e differenza pressoria tra gli arti (coartazione aortica)

3. Valutazione del danno d’organo e delle condizioni cliniche: l’eventuale presenza di


un danno d’organo deve sempre essere ricercata perché predice la mortalità e, se
presente, bisogna cambiare la tp perché il rischio cambia. In primo luogo è
importante valutare la presenza dei seguenti segni e sintomi:

a. Encefalo: cefalea, vertigini, alterazioni del visus, deficit motori e sensitivi, tia e
ictus pregressi e decadimento cognitivo.
b. Retina: ci possono essere reperti suggestivi per retinopatia che variano a
seconda del grado:
i. 1° stadio: lieve e diffuso restringimento arteriolare retinico
ii. 2° stadio: vasocostrizione diffusa e focale e arteriole maculari tortuose
iii. 3° stadio: alterazioni vascolari, sul fondo emorragia a fiamma, edema
retinico, essudati cotonosi.
iv. 4° stadio: papilledema da stasi, possibile distacco di retina e sclerosi
vasale
c. Cuore: alterazioni della FC, soffi e segni di scompenso (rantoli polmonari).
d. Rene: nicturia, ematuria.
e. Arterie periferiche: assenza o riduzione del polso, estremità fredde, lesioni
ischemico-necrotiche.
f. Carotide: soffi
g. Sleep apnea: russamento, pneumopatia cronica

Tutti i pz devono fare l’ECG, la stima del filtrato glomerulare, il dosaggio della
creatinina e il dipstick per valutare se è presente microalbuminuria, e, in caso
affermativo, procedere con un esame delle urine delle 24h e quantificare la
microalbuminuria (30-300mg/24h). Questi esami sono quelli che hanno un miglior
rapporto tra il costo e l’importanza delle informazioni fornite. Altri esami di routine
sono l’emocromo, la glicemia a digiuno, l’assetto lipidico, l’uricemia, la potassiemia e
la sodiemia. Si può poi decidere di fare altri esami, sia biochimici che strumentali,
utili anche per ricercare reperti indicativi di danno d’organo asintomatico, specie
qualora vi fosse motivo di sospettarne la presenza:

a. Ecocardio: oltre all’ECG, che già, grazie alla formula di Sokolow-Lion (S V1+ R
V5-6 >3.5mV), permette di sospettare la presenza di ipertrofia ventricolare, dà
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una conferma della presenza di questa alterazione, alla quale viene data molta
importanza nelle ultime linee guida. In particolare, con l’ecocardio è possibile
calcolare l’indice di massa ventricolare sx che è da considerarsi patologico se
>115g/mg nell’uomo e se >95g/mg nella donna. Rispetto alla definizione
tramite ECG, in questo modo aumentano la sensibilità e la specificità ed è
inoltre possibile quantificare meglio il danno. L’ipertrofia del vs rappresenta un
parametro prognostico: se al primo esame essa fosse presente, e al controllo
successivo, dopo impostazione di adeguata tp, fosse regredita, il rischio del pz
si ridurrebbe significativamente.
b. Doppler TSA: permette di valutare lo spessore della parete carotidea, che è da
considerarsi patologico se >0.9mm, e di identificare eventuali placche
ateromatose presenti. Un buon controllo dei valori pressori, associato al
controllo dei valori del colesterolo, permette di ridurre la progressione della
placca con miglioramento del rischio, ma non permette di ridurre gli eventi.
c. ABI index: se <0.9 è indicativo per rigidità vasale.
d. Esame delle urine con valutazione quantitativa e qualitativa della proteinuria e
stima del filtrato glomerulare: esso permette di valutare l’efficacia della tp
poiché se esso non cambia o tende a migliorare, il rischio di avere eventi cv si
riduce rispetto a pz in cui progressivamente il filtrato si riduce nonostante la tp.

4. Valutazione del rischio CV del pz:

Gli fdr cui si fa riferimento comprendono sesso (maschi>femmine), l’età (>55 negli
uomini e >65 nelle femmine), il fumo, la presenza di alterata glicemia a digiuno o di
alterata tolleranza al glucosio, l’obesità, specie addominale, la presenza in anamnesi
familiare di eventi cv precoci, le displipidemie, l’iperuricemia, la menopausa precoce,
la FC (>80bpm a riposo) e tutta una serie di fattori psicosociali ed economici che si
associano a scarso accesso alle tp e scarsa compliance. Alcuni di questi fdr sono stati
aggiunti a partire dalle ultime linee guida.

Per danno d’organo (HMOD) si intende:

a. Indurimento della parete arteriosa con escursione pressoria >60mmH


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b. Ipertrofia ventricolare all’ECG (indice di Sokolow-Lion) o all’ecocardio
c. Microalbuminuria o elevato rapporto albumina-creatinina nelle urine,
preferibilmente del mattino
d. Disfunzione renale cronica
e. ABI<0.9
f. Retinopatia avanzata con emorragia o essudati, papilledema

Per danno cardiovascolare o renale (CVD e CKD) si intende:

a. Stroke ischemico, emorragia cerebrale, TIA


b. CAD: infarto miocardico, angina, pregressa rivascolarizzazione miocardica
c. Riscontro di placche ateromatose alle metodiche di imaging
d. Scompenso cardiaco
e. Patologie arteriose periferiche
f. FA

5. Determinazione dello SCORE (Systematic COronary Risk Evaluation System):

Insieme alle condizioni previste dallo SCORE, è necessario considerare anche altre
caratteristiche, come ad esempio lo stress psicosociale, l’inattività fisica, l’obesità,
l’ipertrofia ventricolare sx, l’OSAS, l’insufficienza renale, la tp antiretrovirale, la
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presenza di malattie autoimmuni e l’etnia (hanno rischio aumentato gli immgirati di
prima generazione dal sud dell’Asia, dall’Africa sub-sahariana e dai caraibi; è invece
ridotta in soggetti che arrivano dalla parte est dell’Asia e dal Sud America.

! La mortalità per eventi CV in correlazione alla PA presenta una curva a J: quindi,


non solo l’ipertensione, ma anche l’ipotensione (<120/70) rappresenta un fdr.

Il trattamento che deve essere impostato dopo la diagnosi, dipende in primo luogo dal grado
di ipertensione:

1. Valori normali-alti –> Consigli sullo stile di vita+considerare tp farmacologica in pz a


rischio molto alto, come quelli con patologie CV, in particolar modo se interessano le
coronarie.
2. Ipertensione di grado 1 –> Consigli sullo stile di vita+trattamento farmacologico
immediato in pz ad alto rischio CV, che presentino danno d’organo o patologia
renale. Nei pz, invece, con rischio medio-basso, i farmaci devono essere considerati
solo se, dopo 3-6 mesi di cambiamento dello stile di vita, i valori di PA non risultano
comunque controllati.
3. Ipertensione di grado 2 –> Consigli sullo stile di vita+trattamento farmacologico
immediato in tutti i pz mirando a controllare i valori entro 3 mesi.
4. Ipertensione di grado 3 –> Consigli sullo stile di vita+trattamento farmacologico
immediato in tutti i pz mirando a controllare i valori entro 3 mesi.

In generale, la riduzione dei valori di PA deve essere graduale per evitare che, specie pz con
valori alti, possano risultare fortemente sintomatici.

Bisogna poi tenere conto anche dell’età del pz, sia biologica che cronologica, perché questo
influenza i valori che impongono l’inizio della tp:

L’età, in associazione agli fdr cv eventualmente presenti, determina poi anche il target da
raggiungere:

80
In base ai dati forniti da svariati studi clinici, la massima protezione nei confronti di end
point cardiovascolari viene ottenuta con valori di PAS<130-140mmHg e valori di PAD<70-
80mmHg. In caso di pz con altri fattori di rischio come diabete o nefropatia cronica, ma
anche in caso di prevenzione secondaria, è auspicabile ottenere valori più bassi. Se si parte
da valori alti, è necessario ridurli progressivamente e non improvvisamente per evitare che il
pz risulti fortemente sintomatico.

Per raggiungere questi valori, oltre alle raccomandazioni, è spesso necessario prescrivere più
di un farmaco. In realtà, anche la monotp potrebbe essere una soluzione, spesso bisogna
però ritoccare la dose, oppure si può rendere necessario cambiare farmaco e il pz può
perdere fiducia nel medico ed essere meno compliante. La monotp viene dunque riservata a
pz con ipertensione di grado 1. Con lo stesso scopo, sono da preferire formulazioni che già
comprendono l’associazione tra i farmaci scelti. Per queste ragioni la tp di combinazione è
considerata l’opzione migliore. Le combinazioni da preferire comprendono:

- ACE-ib + Calcio antagonista


- Sartano + Calcio antagonista
- ACE-ib + diuretico tiazidico
- Sartano + diuretico tiazidico

Se anche in questo modo non si dovesse riuscire ad arrivare ai valori auspicabili, si può
passare alla prescrizione di 3 farmaci: ACE-ib+Calcio antagonista+Diuretico; si potrebbe
anche sostituire l’ACE-ib con un Sartano, ma in Italia non esiste una combinazione
preformata. Se la pressione non viene controllata neanche con la triplice tp, il pz viene
definito resistente (10% dei casi): è possibile aggiungere lo Spinorolattone, un alfa-
antagonista o un beta-bloccante. Per quanto riguarda i beta-bloccanti, essi devono essere

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considerati ad ogni step di trattamento purchè sussista una specifica indicazione al loro
utilizzo (scompenso cardiaco, IMA, FA) o nel caso di donne giovani che desiderino una
gravidanza.

Vista l’ampia varietà di farmaci disponibili, per fare una scelta si può considerare anche le
eventuali altre comorbidità del pz stesso:

- Aterosclerosi asintomatica: calcio antagonisti e ACE-ib


- Microalbuminuria e disfunzione renale: ACE-ib e sartani
- IRA: ACE-ib/Sartano + diuretico o ACE-ib/Sartano + Ca-antagonista
- Cardiopatia ischemica: iniziare con ACE-ib/Sartano+beta-bloccante, se necessario
associare un terzo farmaco.
- Scompenso e FE ridotta: ACE-ib/Sartani+diuretico+beta-bloccante (pensare se
introdurre Entresto)
- FA: ACE-ib/Sartano + beta bloccante (se controindicato, per esempio perché il pz è
asmatico, si può usare un calcio antagonista).
- DM: ACE-ib e sartani
- Razza nera: diuretici, calcio antagonisti

STILE DI VITA
Oltre che utilizzando i farmaci, è importante comunicare ai pz la necessità di modificare
anche le proprie abitudini di vita, si dovrebbe a tal proposito raccomandare:

- Perdita di peso se il pz è sovrappeso


- Attività aerobica regolare (almeno 30min/die per 5-7 giorni alla settimana),
- Moderazione nell’uso di alcol,
- Ridurre il consumo di sale a una quantità <5g,
- Consumare frutta, verdura e prodotti con basso contenuto di grassi saturi
- Smettere di fumare.

Nonostante ciò, è spesso difficile che il pz riesca a modificare radicalmente il proprio stile di
vita. Inoltre, le modifiche pressorie così ottenute sono spesso transitorie. Per queste ragioni,
molto frequentemente è necessario associare una tp farmacologica, ad eccezione di pz con
valori normali-alti, per i quali si è visto che un trattamento non serve, a meno che, come
detto, non sussistano altri fdr importanti.

APPROCCIO CHIRURGICO
Se non è possibile raggiungere il target solo con i farmaci si può pensare, ad esempio, di de-
nervare l’arteria renale per via endovascolare, con laser o ultrasuoni: in questo modo si
riduce l’attività simpatica che agisce sul rene e si migliora la condizione del pz. In realtà,
sono stati fatti studi che hanno messo parzialmente in dubbio l’efficacia di questa metodica,
motivo per cui viene riservata solo a casi che possano realmente trarne beneficio perché
resistenti alla tp farmacologica, o per lo meno a quella che è possibile prescrivere loro.

Un altro sistema è quello di installare una specie di fascetta con degli elettrodi a livello
cartodieo: essa manderò degli impulsi che permettono una normale funzione dei recettori
del seno carotideo. Secondo gli studi attuali i risultati riportati non sono però quelli sperati.

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Si è pensato anche di utilizzare una sorta di vaccino anti-angiotensina II, il problema è che
in caso di shock questa molecola è fondamentale quindi non è saggio andare ad impedirne
completamente l’azione.

ACE-INIBITORI
Agiscono impedendo di convertire l’angiotensina 1, scarsamente dotata di attività biologica,
in angiotensina 2; tuttavia, in misura minore, ciò potrà accadere comunque con una via
indiretta. Essi, però, sono anche importanti per catabolizzare la bradichinina e la sostanza P:
l’accumulo di queste sostanze a livello polmonare è responsabile dell’insorgenza di uno dei
principali effetti collaterali associati all’uso di questi farmaci, ovvero di tosse stizzosa, secca e
persistente. Forse questo meccanismo è anche responsabile dell’eventuale comparsa di
angioedema a livello di laringe, bocca, gola e lingua. Altri effetti collaterali possono essere
l’ipotensione, specie alla prima somministrazione, motivo per cui comincio con dosi basse,
l’iperkaliemia (–>utile associazione con un tiazidico per bilanciare) e, se il pz ha stenosi delle
arterie renali, se è affetto da scompenso o se c’è ipovolemia, si può avere IRA. Si possono
prescrivere:

- Enalapril (5-40mg, a volte in formulazione con tiazidico),


- Captopril (50-150mg)
- Lisinopril (1-80mg)
- Ramipril (2.5-10mg in 2 somministrazioni).

Nei pz ipertesi gli ACE-ib sono farmaci di prima scelta, specie nei pz sotto i 55 anni:
riducono sia la PAD che la PAS, aumentano la VFG e non modificano la perfusione cerebrale
e cardiaca. Se i pz sono al contempo anche diabetici, pare che questi farmaci riducano il
danno endoteliale renale.

Controindicazioni assolute: gravidanza (sono teratogeni), angioedema, iperkaliemia, stenosi


bilaterale delle arterie renali
Controindicazioni relative: donne a rischio di gravidanza

SARTANI
Hanno effetti molto simili agli ACE-ib, ma, essendo inibitori del recettore AT1
dell’angiotensina 2, bloccano anche l’effetto della componente minoritaria prodotta dalla via
indiretta. Essi, inoltre, non portano ad alterazione della clearence di bradichinine e sostanza
P riducendo gli effetti collaterali. Ne fanno parte:

- Irbesartan (150-300mg),
- Telmisartan (20-80mg),
- Losartan (50-100mg),
- Eprosantan (600mg),
- Valsartan (80-320mg),
- Candesartan (8-32mg)
- Olmesartan (10-40mg).

Anche in questo caso, possibili effetti collaterali sono l’ipotensione, specie inizialmente, la
possibile comparsa di IRA, l’iperkaliemia e la teratogenicità.

Controindicazioni assolute: gravidanza, iperkaliemia, stenosi bilaterale delle arterie renali


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Controindicazioni relative: donne a rischio di gravidanza

CALCIO-ANTAGONISTI
la loro azione principalmente a livello arteriolare e, a differenza dei beta bloccanti, non
danno ipotensione posturale perché non agiscono sulle venule, riescono però ad abbassare
la pressione vasodilatando e allo stesso tempo riducono il post carico rendendo il lavoro
cardiaco richiesto minore. I calcio antagonisti, inoltre, agiscono anche a livello coronarico
permettendo di aumentare l’apporto di O2 al miocardio. Ne deriva che trovano indicazione
sia come anti-ipertensivi che in pz con angina pectoris. Possono essere somministrati una
volta al giorno alla dose di 5-10mg per quanto riguarda l’Amlodipina (Norvasc) e alla dose di
30-60mg per la Nifedipina (Adalat). Gli effetti collaterali dipendono soprattutto da una
eccessiva vasodilatazione che può interessare diversi distretti: a livello cerebrale avrò cefalea,
a livello cutaneo la comparsa di rash… Inoltre, è possibile che vengano bloccati anche i
canali per il calcio a livello gi con conseguente riduzione della peristalsi e stipsi e che il pz
abbia edemi, specie a livello perimalleolare a causa della contrazione riflessa post-capillare.

Controindicazioni relative: tachiaritmia, scompenso cardiaco

I calcio antagonisti non diidropiridinici sono, invece, il Verapamil e il Diltiazem che riducono
le correnti transmembrana di calcio a livello cardiaco e arteriolare. Riescono, dunque, a
ridurre le resistenze a livello periferico e, allo stesso tempo, ad avere un effetto inotropo
negativo sui miociti e un effetto cronotropo e dromotropo negativo sulle cellule pace-maker.
Questi farmaci sono prevalentemente usati come anti aritmici e non come anti-ipertensivi,
anche perché il loro effetto vasodilatante è minore rispetto a quello di Amlodipina e
Nifedipina; possono però essere utili in prevenzione secondaria, specie in soggetti con
angina pectoris. Non vanno mai associati ai beta bloccanti perché si sopprimerebbe troppo
l’attività cardiaca.

Controindicazioni assolute: disfunzione ventricolare sx, scompenso cardiaco, BAV di


secondo o terzo grado, blocco trifascicolare

DIURETICI DELL’ANSA
A livello dell’ansa di Henle si ha il maggior riassorbimento di sodio: questi diuretici agiscono
proprio a questo livello e sono i più potenti che abbiamo a disposizione. In particolare,
quello maggiormente usato è la Furosemide (per os 25-500mg, può poi essere somministrato
anche EV): essa blocca il trasportatore NKCC a livello del tratto spesso ascendente riducendo
il riassorbimento di sodio. In maniera collaterale ciò porta ad una riduzione del
riassorbimento di magnesio e calcio. Inoltre, portando ad un aumento delle PG si ha un
miglioramento del flusso renale. Vi si ricorre in caso di emergenze ipertensive e di
ipertensione poco responsiva. Sul versante degli effetti collaterali dobbiamo ricordare un
possibile sviluppo di alcalosi metabolica ipokaliemica (–>utile associare antialdosteronici che
sono risparmiatori di potassio) e altre alterazioni elettrolitiche come una riduzione della
magnesemia, della calcemia e della cloremia. Possono invece aumentare l’uricemia, la
glicemia, le LDL e i TG.

! Bisogna prestare attenzione alla concomitante somministrazione di FANS perché portano a


competizione per i trasportatoti di acidi con conseguente riduzione dell’escrezione della
Furosemide e possibilità di andare incontro a fenomeni dovuti al sovradosaggio. Sono inoltre
controindicati per pz con ir subclinica e pz cirrotici.

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ANTAGONISTI RECETTORIALI DEL MINERALCORTICOIDI
I diuretici risparmiatori di potassio che possono essere associati alla tp con Furosemide
comprendono ad esempio lo Spinorolattone –ha vari effetti collaterali dovuti al fatto che,
essendo uno steroide di sintesi, può legarsi a svariati recettori steroidei–, il Canrenone
(Luvion) e l’Amiloride (Moduretic). Se dati da soli, bisogna prestare attenzione
all’iperkaliemia, specie se in associazione a FANS, beta bloccanti, ACE-ib o Sartani e in pz
con patologie renali. Le indicazioni all’uso sono l’iperaldosteronismo, sia primario che
secondario, ad esempio da scompenso cardiaco, l’ipertensione in associazione e, pare che in
pz diabetici possano limitare gli effetti fibrotici e infiammatori causati in questi soggetti
dall’aldosterone

Controindicazioni assolute: insufficienza renale acuta o severa, iperkaliemia.

DIURETICI TIAZIDICI
Sono diuretici di media intensità che agiscono bloccando il trasportatore NCC a livello del
tubulo distale facendo in modo che, venendo riassorbiti meno ioni, venga riassorbita anche
meno acqua e, dunque, che si riduca il volume plasmatico. In cronico, inoltre, riducono le
resistenze periferiche con meccanismi che coinvolgono la regolazione della concentrazione
di sodio e calcio nella cellula muscolare liscia vascolare. Il capostipite è l’Idroclorotiazide
(12.5-50mg), sono poi state aggiunte la Clorotiazide (l’unica che può essere data anche EV),
l’Inapamide e il Clortalidione. Questi ultimi due sono definiti simil-tiazidici perché hanno
caratteristiche accessorie: l’Inapamide ha al contempo anche un’attività calcio-antagonista; il
Clortalidone ha maggior potenza e durata d’azione. Un effetto collaterale comune a queste
molecole è l’iperuricemia poiché competono con il trasportatore renale per gli acidi organici;
aumentando poi il riassorbimento di calcio si potrebbe avere ipercalcemia, ma è un evento
raro. Altri effetti collaterali comprendono l’alcalosi metabolica con iperuricemia, l’ipokaliemia
(–> associazione con i risparmiatori di potassio; ex. Moduretic: Idroclorotiazide+Amiloride),
l’iperlipidemia e l’iponatriemia. Sono utili in caso di ipertensione moderata.

Controindicazioni assolute: gotta


Controindicazioni relative: sindrome metabolica, intolleranza glucidica, gravidanza,
ipercalcemia, ipokaliemia.

BETA BLOCCANTI
Sono in grado di abbassare la pressione arteriosa diminuendo la gittata cardiaca in seguito a
riduzione della frequenza e della contrattilità. Sono particolarmente efficaci nei pz ipertesi e
tachicardici e la loro efficacia ipotensiva è migliorata dall’associazione con un diuretico. Non
sono tra i farmaci di prima scelta.

Controindicazioni assolute: BAV di secondo e terzo grado, asma


Controindicazioni relative: sindrome metabolica, intolleranza glucidica, atleti, BPCO

ALFA ANTAGONISTI
Per l’ipertensione può essere usata la Fenossibenzamina (20-120mg), utile nei pz con
feocromocitoma; negli altri casi non ci sono evidenze di una riduzione effettiva degli eventi.

IPERTENSIONE NELL’ANZIANO
Gli anziani hanno spesso una maggiore variabilità pressoria nelle 24h e sono più proni a
sviluppare effetti collaterali, anche a causa della frequente politp. Occorre pertanto esercitare

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particolari cautele: i dosaggi richiesti sono generalmente più bassi e bisogna monitorare la PA
per evitare di portarlo ad una situazione di ipotensione, che è comunque qualcosa che
andrebbe evitato. Si devono poi prendere in considerazione tutti i farmaci che il pz assume
per evitare che interagiscano in maniera sfavorevole. Per trattare l’ipertensione sistolica
isolata nell’anziano è preferibile usare diuretici, e calcio antagonisti

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EMERGENZE ED URGENZE IPERTENSIVE
Con emergenza ipertensiva si intende una condizione di pericolo per la vita dovuta ad un
grave aumento dei valori pressori in grado di indurre un danno d’organo clinico acuto o un
suo peggioramento. I danni d’organo cui si fa riferimento comprendono:

- SNC: ictus emorragico o ischemico, ESA ed encefalopatia ipertensiva (ovvero


alterazioni dello stato di coscienza dovute ad aumento della permeabilità dei vasi che
perdono la loro capacità di regolazione: ci saranno sintomi neurologici dovuti
all’improvvisa iperperfusione. Si deve intervenire con cautela perché, sempre a causa
della mancata autoregolazione, c’è rischio ischemico)
- Sistema CV: SCA, disezione aortica o rottura di un’aneurisma, insufficienza cardiaca
acuta.
- Retina: emorragie, essudati e papilledema
- Rene: proteinuria, ematuria, riduzione del filtrato e IRA

Ha sintomi evidenti e va trattata tempestivamente (minuti). Fanno parte delle emergenze


ipertensive l’eclampsia, l’ipertensione perioperatoria e le crisi ipertensive associate a
feocromocitoma, a farmaci o a sostanze d’abuso.

Con urgenza iperensiva si intende un grave aumento dei valori pressori, ma in assenza di
danno d’organo. Nelle nuove linee guida viene definita ipertensione grave non controllata
una situazione con valori di PA>180-110mmHg senza danno d’organo, si preferisce non
parlare di urgenza perché non si può sapere da quanto tempo il pz abbia effettivamente
questi valori. I sintomi sono pochi, o talora assenti, e può essere trattata nell’arco di ore o
giorni. Comprendono: ipertensione maligna, riacutizzazione di sclerodermia, vasculite
sistemica con grave ipertensione, pre-eclampsia, ipertensione correlata ad interventi
chirurgici, ipertensione da farmaci, ipertensione nella gravida con ritardo della crescita intra-
uterina e ipertensione associata a lesioni del midollo spinale.

Per arrivare alla definizione del quadro sono fondamentali la sintomatologia, l’anamnesi e
l’esame obiettivo: in primo luogo si deve discriminare tra urgenze ed emergenze e, in questo
secondo caso, sapere a carico di quale organo si sia manifestato il danno guida nelle scelte
terapeutiche. Un pz con valori pressori elevati può presentare diversi sintomi:

1. Di natura generale: sudorazione, arrossamento cutaneo, pallore, vertigine, tinniti,


senso di angoscia e morte imminente.
2. Cardiaci: cardiopalmo, dolore toracico, dispnea
3. Neurologici: cefalea, alterazione dello stato di coscienza, alterazioni focali della
capacità motoria e della sensibilità
4. Renali: oligo-anuria, proteinuria, ematuria
5. Oculari: scotomi, riduzione del visus, amaurosi transitoria, diplopia, cecità

Si deve poi indagare l’anamnesi farmacologica: è importante l’aderenza all’eventuale tp già


impostata e se, anche se il pz non ha malattia CV, abbia assunto corticosteroidi,
mineralcorticoidi, estrogeni, FANS, ciclosporina, EPO, Metoclopramide, anti-VEGF o altri
anti-neoplastici. Ci sono poi sostanze e prodotti naturali come la cocaina o la sua
sospensione, gli steroidi anabolizzanti, i narcotici o l’ergotamina.

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Per quanto riguarda il backgroung, è importante sapere se al pz sia già stata posta diagnosi di
ipertensione o se sono presenti patologie a cui l’ipertensione si correla come il
feocromocitoma. Si deve poi cercare di stabilire da quanto tempo sia presente questa
condizione e quanto velocemente i valori salgano.

I valori pressori devono essere strettamente monitorati, anche perché nel 30% dei casi si ha
una riduzione spontenea. Si devono poi valutare i polsi perché una riduzione può far
propendere per dissecazione aortica, lo stato neurologico e si deve auscultare il cuore.

Sul versante strumentale, vanno richiesti ECG, esame del fundus oculi, emocromo, le
metanefrine, la glicemia, gli elettroliti e la creatinina. Test più specifici vengono richiesti nel
caso in cui il sospetto clinico sia già indirizzato, come dosaggio dell’aldosterone o delle
catecolamine, RX torace, ecocardio, TC o RMN.

Se si stabilisce che si tratti di un’emergenza ipertensiva, è necessario ricoverare il pz in tp


intensiva o subintensiva e ridurre i valori con farmaci endovena ad azione rapida, ma che
permettono comunque una riduzione graduale per evitare di peggiorare la situazione (a
meno che non si abbia dissecazione aortica, qui il pz deve essere portata al massimo a
110/60 e ad una fc di 60bpm per poter essere operato, o nel caso in cui si abbia
preeclampsia grave o una crisi associaa al feocromocitoma perché qui si punta subito ad
abbasarla sotto i 140mmHg). Le linee guida statunitensi affermano, con l’eccezione dei casi
sopra citati, di ridurre del 25% i valori nelle prime 2-3h con:

- Labetalololo (alfa e beta bloccante)


- Nitroprussiato di sodio
- Nitroglicerina
- Nicardipina (calcio antagonista diirdopiridinico)
- Furosemide

NON si dovrebbe mai somministrare Nifedipina sublinguale perché provoca un calo molto
drastico che può portare a riduzione della perfusione coronarica e cerebrale, oltre che ad
una sensazione di morte imminente.

Se si stabilisce che si tratti di un’urgenza ipertensiva, il pz viene tenuto in osservazione per


ore/giorni e gli si somministra la tp per os.

PSEUDOURGENZE
Corrispondono alle seguenti condizioni:

1. Epistassi venosa: molti sono convinti si verifichi come un compenso per


l’ipertensione; in realtà pare che il rialzo dei valori pressori sia dovuto alla reazione di
panico e allarme dovuta all’epistassi quindi, risolvendo l’epistassi, anche i valori
pressori tornano nella norma.
2. Attacchi di panico con stato iperadrenergico
3. Sindrome da sospensione dell’alcol

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FARMACI ATTIVI SUL SRAA
Il SRAA ha un legame importante con l’ipertensione. Fisiologicamente l’angiotensinogeno
viene prodotto a livello epatico e viene attivato dalla renina. La renina viene prodotta in
risposta a input di tipo fisico (tensiocettori dell’arteriola afferente che recepiscono una
riduzione della tensione e stimolano la produzione di renina), di tipo chimico (a livello della
macula densa ci sono recettori sensibili alla variazione della concentrazione di sodio e
potassio che aumentano la produzione di renina qualora se ne abbia una riduzione) e di tipo
neuro-mediato (i recettori beta1 sono sensibili a variazioni della pressione intravasale e
stimola la produzione di renina quando ne registrano una diminuzione). La renina, dunque, è
in grado di clivare l’angiotensinogeno permettendo di ottenere l’angiotensina 1, che, a sua
volta, viene ulteriormente clivata dall’enzima ACE che le consente di acquisire maggiore
attività biologica. L’angiotensina 2 è in grado di produrre diversi effetti:

1. Contrazione della muscolatura liscia vasale, specie arteriolare, non associata a


bradicardia riflessa.
2. A livello surrenalico stimola la sintesi e la secrezione di aldosterone che aumenta il
riassorbimento renale di acqua e sodio e la secrezione di potassio.
3. Nel rene si ha riduzione della secrezione di renina per un meccanismo a feedback
negativo
4. Nel SNC determina un aumento della sensazione di sete e la secrezione di
vasopressina, un antidiuretico e vasocostrittore capillare, e di ACTH.
5. A livello endoteliale e cardiaco ha effetto mitogeno con ipertrofia e rimodellamento.

ACE-IB
Le indicazioni all’uso di ACE-ib comprendono:

1. Ipertensione: sono farmaci di prima scelta, specie nei pz sotto i 55 anni; non sono
invece da utilizzare nelle persone di colore, come anche i sartani, perché nella razza
nera i livelli di renina sono naturalmente scarsi. Riducono sia la PAD che la PAS,
aumentano la VFG e non modificano la perfusione cerebrale e cardiaca. Se i pz sono
al contempo anche diabetici, pare che questi farmaci riducano il danno endoteliale
renale.
2. Scompenso cardiaco congestizio: portano ad un miglioramento del quadro
emodinamico perché, in seguito alla riduzione delle resistenze, permettono un
aumento della gc. Si ha poi un miglioramento degli edemi.
3. Infarto miocardico: migliorano la sintomatologia e riducono la percentuale di re-
infarto anche grazie alla riduzione del lavoro cardiaco. Assunti immediatamente dopo
l’evento permettono di ridurre l’area di necrosi.
4. IRC: rallentano la progressione verso l’emodialisi perché, vasodilatando a livello
renale, sono in grado di aumentare la VFG e, al contempo, di ridurre la produzione di
matrice e la proliferazione delle cellule mesangiali.
5. Proteinuria: riducono la pressione di filtrazione quindi riducono l’escrezione di
proteine. [Con proteinuria si intende la presenza di quantità superiori a 150mg/die di
proteine nelle urine. Può essere conseguente a glomerulopatie, diabete, infezione, pre-
eclampsia, LES o amiloidosi. Si parla, invece, di proteinuria funzionale quando si è di fronte ad
una condizione transitoria di aumento dell’escrezione proteica, come nel caso di attività fisica
intensa, febbre, disidratazione o stress emotivo. Nei giovani si può avere anche proteinuria
ortostatica oppure una proteinuria può essere presente anche per iperafflusso, come nel caso

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di MM. Non sono poi da sottovalutare come causa nemmeno farmaci come FANS e
antibiotici]

Gli effetti collaterali sono:

1. Ipotensione: in pz con elevati livelli plasmatici di renina, dopo la prima dose si può
verificare un drammatico calo pressorio.
2. Tosse: il 15-20% dei pz presenta una tosse secca e fastidiosa mediata dall’accumulo
nei polmoni di bradichina, sostanza P e prostaglandine che non vengono degradati da
ACE perché inibito dal farmaco. Una riduzione del dosaggio o il passaggio a un
sartano sono efficaci per ovviare a questa complicanza, che comunque scompare alla
sospensione della tp con ACE-ib.
3. Iperkaliemia: è un evento molto raro in pz con normale funzionalità renale o DM, è
invece qualcosa di cui tenere conto se queste due condizioni sussistono.
4. IRA: dal momento che l’angiotensina 2 è in grado di vasocostringere per mantenere
una filtrazione adeguata nel caso di bassa perfusione renale, se la sua produzione è
inibita può venire meno questo compenso. In particolare, ciò può verificarsi nei
soggetti con stenosi bilaterale delle arterie renali, con insufficienza cardiaca o con
deplezione di volume, ad esempio dovuta all’uso di diuretici o diarrea.
5. Tossicità fetale: causando ipotensione anche nel feto possono provocare danni,
motivo per cui non si devono assolutamente usare in gravidanza.
6. Angioedema: nello 0.1-0.5% dei pz in tp con questi farmaci si può avere un
rigonfiamento rapido di naso, gola, bocca, glottide, laringe, labbra e/o lingua. Si tratta
di una condizione reversibile alla sospensione, ma potenzialmente pericolosa, tanto
che può essere necessario somministrare adrenalina, antistaminici o cortisonici.

Le controindicazioni assolute sono: gravidanza (sono teratogeni), angioedema, iperkaliemia,


stenosi bilaterale delle arterie renali.

Le controindicazioni relative comprendono le donne a rischio di gravidanza.

Le interazioni farmacologiche che possono avere luogo sono:

1. Gli antiacidi possono ridurre la biodisponibilità degli ACE-ib


2. I FANS possono ridurre l’effetto ipotensivante perché c’è una ridotta sintesi di PG
3. Gli antagonisti recettoriali dei mineralcorticoidi e i supplementi di K+ possono
aggravare la tendenza all’iperkaliemia che già si correla a questi farmaci.
4. Digossina e litio aumentano la loro concentrazione plasmatica se somministrati
insieme agli ACE-ib

SARTANI
Le indicazioni all’uso dei Sartani comprendono:

1. Ipertensione, sono farmaci di prima scelta (disponibili anche in associazione fissa con
Idroclorotiazide e Amlodipina)
2. Scompenso cardiaco congestizio
3. Nefropatia diabetica (prevenzione e rallentamento della progressione, Irbesartan e
Losartan)
4. Prevenzione della cardiopatia ischemica (Telmisartan)

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5. Trattamento IMA (Valsartan e Losartan)

Per quanto riguarda gli effetti collaterali, generalmente si tratta di farmaci ben tollerati. A
differenza degli ACE-ib, non provocano tosse e l’incidenza di angioedema è molto più bassa.
In pz in cui la funzione renale dipende strettamente dal SRAA, ad esempio in caso di stenosi
bilaterale delle renali, vanno utilizzati con cautela perché possono dare ipotensione, oliguria,
ipertazotemia progressiva o IRA. Nei pz con nefropatia o che assumoni supplementi di K+ o
diuretici risparmiatori di potassio possono dare iperkaliemia.

Le controindicazioni assolute sono: gravidanza, iperkaliemia, stenosi bilaterale delle arterie


renali.

La controindicazione relativa è in donne a rischio di gravidanza.

Le interazioni farmacologiche che possono avere luogo sono:

1. Diuretici risparmiatori di potassio: aumenta il rischio di iperkaliemia


2. ACE-ib: inibizione dell’escrezione renale
3. I FANS possono ridurre l’effetto ipotensivante perché c’è una ridotta sintesi di PG
4. Litio: aumenta la sua concentrazione plasmatica in caso di tp con Sartani

ALISKIREN
È un inbitore diretto della renina, che dunque impedisce che l’angiotensinogeno venga
convertito in angiotensina. Gli studi clinici hanno stabilito l’efficacia di questo farmaco nel
ridurre i valori pressori, la quale è pressochè sovrapponibile a quella degli ACE-ib e dei
sartani. Ha poi effetti cardioprotettivi e renoprotettivi quando usato in combinazione,
l’efficacia a lungo termine deve però essere ancora confermata.

Si tratta di un farmaco generalmente ben tollerato. Gli effetti collaterali che può causare sono
a livello gastrointestinale, cefalea, vertigini, astenia, angioedema.

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BETA BLOCCANTI
[I recettori adrenergici sono recettori di membrana che interagiscono con l'adrenalina e
altre catecolamine e sono recettori metabotropici. La funzione e posizione dei recettori alfa e beta ha
importanti implicazioni, in quanto le loro caratteristiche sono molto importanti ai fini dei loro effetti
fisiologici:
- Alfa1: è un recettore di tipo eccitatorio postsinaptico presente in prevalenza sulla muscolatura
liscia dei piccoli vasi, la cui stimolazione genera contrazione della muscolatura liscia vasale
generando un aumento della pressione. È presente anche sulla muscolatura del sistema
urogenitale e degli sfinteri.
- Alfa2: è un recettore presinaptico, presente sulle terminazioni nervose, è deputato alla
regolazione della secrezione di neurotrasmettitori sia catecolaminergici che colinergici: la sua
attivazione determina una diminuzione della produzione di noradrenalina (feedback
negativo) e acetilcolina. Inoltre, la sua attivazione a livello pancreatico diminuisce la
secrezione di insulina.
- Beta1: è un recettore di tipo eccitatorio, importantissimo per l'attività cardiovascolare, è
principalmente presente a livello cardiaco e renale. La sua stimolazione genera a livello
cardiaco un effetto inotropo e cronotropo positivo, mentre, a livello renale, stimola la
secrezione di renina da parte delle cellule juxtaglomerulari.
- Beta2: è un recettore di tipo eccitatorio presente a livello di muscolatura liscia bronchiale,
muscolatura liscia gastrointestinale; è inoltre presente sulla muscolatura liscia di coronarie e
grandi vasi che irrorano la muscolatura scheletrica. L'attivazione di questo recettore genera
rilassamento della muscolatura liscia bronchiale, gastrointestinale e dei grandi vasi periferici.
Inoltre, è importante per il metabolismo glucidico conducendo ad un innalzamento della
glicemia. I farmaci b-bloccanti non selettivi per beta1 generano un effetto netto opposto, nei
vari apparati, rispetto all'attivazione simpatica provocando così aumento della contrazione
delle cellule lisce a livello bronchiale (broncospasmo), gastrointestinale (aumento nel numero
di evacuazioni) e vasale (iniziale innalzamento della pressione diastolica, effetto però
destinato a scomparire nell'arco di poche settimane dall’inizio della terapia conducendo ad
un netto calo pressorio dovuto anche e soprattutto all'azione del farmaco sui recettori beta1
cardiaci e renali).
- Beta3: è un recettore di tipo eccitatorio, presente soprattutto a livello del tessuto adiposo,
dove attiva una lipasi che libera acidi grassi dai trigliceridi]

I principali effetti dei beta bloccanti vengono esercitati a livello del sistema cv; sono tuttavia
differenti tra soggetti normali e soggetti con disfunzioni come ipertensione o ischemia
miocardica. Le catecolamine esercitano un’azione cronotropa e inotropa positiva, ne deriva
che i beta-bloccanti abbiano azione bradicardizzante e di riduzione della contrattilità, in
maniera, però, proporzionale all’attivazione dei recettori stessi. Gli effetti sulla gittata
dipendono dal tempo di somministrazione: inizialmente si avrà una riduzione della stessa,
con uso prolungamento si ha, invece, riduzione delle resistenze periferiche e aumento della
gittata. Oltre che a livello cardiaco, avremo anche un effetto a livello polmonare: nei pz
affetti da BPCO si deve prestare molta cautela perché si potrebbe avere broncocostrizione
importante. Dal punto di vista metabolico ci può essere un blocco della glicogenolisi che
rende difficile il compenso dell’ipoglicemia, specie in soggetti affetti da DM1. Si dividono in
diversi gruppi:

1. Beta bloccanti di prima generazione: sono bloccanti non selettivi dei recettori beta1 e
beta2. Ciò significa che bisogna prestare attenzione nei pz con asma e BPCO perché
portano a broncocostrizione, ai diabetici perché, a livello epatico, i recettori beta2
inducono glicogenolisi e dunque aumenta il rischio di ipoglicemia, e ai pz con

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arteriopatia obliterante perché si impedisce la vasodilatazione. Ne fanno parte il
Pindololo 7.5-15mg/die in più somministrazioni) e il Propranololo (40mgx2);
quest’ultimo può essere utile nei soggetti che, oltre all’ipertensione, abbiano forme di
aritmie perché svolge anche una funzione di anti-aritmico stabilizzando la membrana
e rendendo più difficile la depolarizzazione dei cardiomiociti. È poi utile anche come
antiaritmico anche il Sotalolo.

2. Beta bloccanti di seconda generazione: sono cardioselettivi in maniera dose-


dipendente e variabile a seconda della molecola. Ne fanno parte l’Atenololo (25-
100mg), il Bisoprololo (5-10mg) e l’Esmololo (EV, rapida durata d’azione con attività
anche anti-aritmica).

3. Beta bloccanti di terza generazione selettivi: il Nebivololo 5mg è il più selettivo in


assoluto (1:300) ed è al contempo anche un donatore di monossido di azoto che ha
azione vasodilatante.

4. Beta bloccanti di terza generazione non selettivi: nonostante leghino entrambi i


recettori, sono dotati di meccanismi d’azione accessori volti ad evitare la
vasocostrizione. Ad esempio, il Carvedilolo (12.5-50mg in 2 somministrazioni), è in
grado di vasodilatare grazie alle sue proprietà alfa1-antagoniste ed è anche un
antiossidante grazie all’anello insaturo presente nella sua struttura che lo rende
particolarmente adatto per i pz con scompenso cardiaco. C’è poi il Labetalolo.

Come indicazioni terapeutiche, i beta bloccanti possono essere usati in caso di:

1. Angina
2. Infarto miocardico: numerosi studi hanno dimostrato come essi siano utili sia
nell’immediato che anche a distanza e permettono una riduzione della mortalità di
circa il 25%. Probabilmente sono utili perché permettono di ridurre la richiesta di O2
da parte del miocardio e anche in virtù della loro azione anti-aritmica.
3. Insufficenza cardiaca: come detto, in fase acuta possono anche determinare un
peggioramento della funzionalità cardiace; tuttavia sono fondamentali sul lungo
termine perché bloccano il circolo vizioso che va ad instaurarsi in risposta ad una
situazione di insufficienza cardiaca.
4. Ipertensione: sono in grado di abbassare la pressione arteriosa diminuendo la gittata
cardiaca in seguito a riduzione della frequenza e della contrattilità. Sono
particolarmente efficaci nei pz ipertesi e tachicardici e la loro efficacia ipotensivante è
migliorata dall’associazione con un diuretico; come antiipertensivi non sono
comunque considerati di prima scelta.
5. Aritmie

Le controindicazioni sono:

1. Insufficienza cardiaca acuta


2. Shock cardiogeno
3. BAV di 2° o 3° grado
4. SSS
5. Bradicardia <50bpm
6. Ipotensione sintomatica
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7. Asma o BPCO gravi
8. Arteriopatia obliterante periferica o sindrome di Raynaud

Come già si può parzialmente evincere, alcuni degli effetti mediati dai recettori beta in
svariate parti dell’organismo sono da intendere come effetti avversi per contrastare i quali
potrebbe essere utile utilizzare molecole maggiormente selettive. Tra gli effetti collaterali
abbiamo:

1. Eccessiva bradicardia
2. Ipotensione e astenia
3. Vasocostrizione periferica
4. Broncospasmo (nei pz con asma)
5. Crampi muscolari
6. Disturbi gi
7. Calo del desiderio sessuale e impotenza
8. Aumento degli enzimi epatici
9. Cefalea

Le interazioni di cui bisogna tenere conto sono:

1. Calcio antagonisti non diidropiridinici: si ha un eccessivo effetto soppressivo sulla


contrattilità miocardica e sulla conduzione atrioventricolare
2. Antiaritmici di classe I: potenziamento dell’effetto sulla conduzione atrioventricolare e
dell’effetto inotropo negativo.
3. Farmaci parasimpaticomimetici
4. Insulina e ipoglicemizzanti orali: aumenta l’effetto ipoglicemizzante
5. Diigitale: riduzione della FC e aumento del tempo di conduzione
6. FANS: riducono l’effetto dei beta-bloccanti

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CALCIO-ANTAGONISTI
I canali del calcio voltaggio sensibili (tipo L) mediano l’ingresso di calcio extracellulare nel
muscolo liscio (ivi comprese quelle dei vasi), nei miociti cardiaci e nelle cellule dei nodi
cardiaci. Sia nel muscolo liscio che nei miociti, il calcio funge da innesco per la contrazione;
ne deriva che questi farmaci sono in grado di indurre vasodilatazione e di ridurre la
contrattilità cardiaca, in particolare:

- Effetti sui vasi: i calcio antagonisti sono in grado di inibire i canali ionici voltaggio
dipendenti della muscolatura liscia vasale, e in particolare artieriolare, a fronte di uno
scarso effetto sulle venule (scarsa influenza sul precarico).
- Effetti sulle coronarie: riducendo le resisteze a questo livello, si aumenta il flusso
ematico che raggiunge il miocardio.
- Effetti sulle cellule cardiache: si ha un effetto inotropo negativo, evidente solo con i
calcio antagonisti non diidropiridinici.
- Effetti sulle cellule dei nodi: sono trascurabili per quanto riguarda le diidropirine,
importanti per Verapamil e Diltiazem che sono in grado di ridurre la frequenza dello
scarico dell’imput alla contrazione e riducono anche la velocità di passaggio dello
stesso a livello del NAV.

Non si associano a ritenzione renale di fluidi, non si ha tolleranza, non si hanno alterazioni
del metabolismo glucidico e lipidico, non si ha ipotensione posturale (!Importante negli
anziani) e, alla sospensione della tp, non c’è effetto rebound.

Le diidropiridine, Amlodipina e Nifedipina riescono ad abbassare la pressione vasodilatando


e, allo stesso tempo, riducono il post carico rendendo il lavoro cardiaco richiesto minore.
Bisogna considerare che inducono un’attivazione simpatica riflessa; la quale può essere
considerata positiva perché va a ridurre l’effetto inotropo negativo.

Trovano indicazione in pz ipertesi e in pz con angina pectoris (in associazione con


betabloccanti per evitare l’iperattivazione simpatica). [Secondo Memo Benidipina e
Efonidipina sono utili in IRC perché riducendo la pressione nell’arteriola afferente ed
efferente, aumentano il flusso renale e la filtrazione. L’Amlodipina favorisce l’afflusso di
sangue a livello encefalico e può quindi essere utile per ridurre il decadimento cognitivo].

Le controindicazioni comprendono ipotensione grave, shock, ostruzione del tratto di efflusso


ventricolare sinistro.

Gli effetti collaterali dipendono soprattutto da una eccessiva vasodilatazione che può
interessare diversi distretti: a livello cerebrale avrò cefalea, a livello cutaneo la comparsa di
rash… Inoltre, è possibile che vengano bloccati anche i canali per il calcio a livello gi con
conseguente riduzione della peristalsi e stipsi e che il pz abbia edemi, specie a livello
perimalleolare a causa della contrazione riflessa post-capillare.

Le interazioni principali che si possono avere sono con il Diltiazem che aumenta le
concentrazioni plasmatiche dell’Amlodipina e con l’eritromicina. Potrebbero essere possibili
anche altre interazioni, ad esempio con la Rifampicina, che pare ridurre la concentrazione
plasmatica di questi farmaci.

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I calcio antagonisti non diidropiridinici (Verapamil e Diltiazem) riducono le resistenze a
livello periferico, con un effetto ipotensivante inferiore rispetto alle diidropiridine, hanno poi
un effetto inotropo negativo sui miociti e un effetto cronotropo e dromotropo negativo sulle
cellule pace-maker.

Questi farmaci trovano indicazione come anti aritmici, possono poi essere utili in
prevenzione secondaria, specie in soggetti con angina pectoris.

Tra le controindicazioni dobbiamo considerare che non si possono prescrivere a soggetti con
PAS<90mmHg, in caso di SSS, se c’è BAV di 2° o 3° grado, se la FC è <40bpm e se c’è
insufficienza ventricolare sx con congestione polmonare. Non vengono dati a soggetti con
scompenso cardiaco.

Gli effetti collaterali principali comprendono: cefalea, flushing, stipsi, vertigini, disturbi della
conduzione AV, bradicardia, esantemi, edema agli arti inferiori, sonnolenza, astenia e
scompenso cardiaco.

Le interazioni farmacologiche sono soprattutto con farmaci che vanno ad accentuare l’effetto
bradicardizzante e quello sulla trasmissione a livello del NAV, come Amiodarone o beta-
bloccanti. Si deve poi prestare attenzione ad una possibile riduzione eccessiva della
pressione se si associano nitroderivati o alfa-bloccanti. Se contemporaneamente si assumono
psicofarmaci, la concentrazione di molti di essi sarà aumentata, così come nel caso delle
statine.

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DIURETICI
I diuretici sono farmaci che aumentano la velocità di flusso urinario, hanno poi la capacità di
aumentare la velocità di escrezione del sodio e possono interferire anche con la
concentrazione di altri ioni.

DIURETICI OSMOTICI
Fanno parte di questa classe Glicerina, Isosorbide e Mannitolo. Quest’ultimo trova
applicazione nel trattamento della sindrome da squilibrio da dialisi: un richiamo troppo
rapido di soluti dai liquidi extracellulari provoca una riduzione dell’osmolalità, l’acqua viene
attratta all’interno delle cellule determinando ipotensione e sintomi centrali. Con il mannitolo
si riesce ad aumentare l’osmolalità dei liquidi extracellulari, in modo che l’acqua possa essere
richiamata a questo livello. Il mannitolo è poi utilizzato quando è necessario ridurre
rapidamente la pressione endooculare, come nei casi acuti di glaucoma, ed è utile anche per
ridurre l’edema cerebrale (50-200mg/die EV), nonostante ad oggi, a questo scopo, si
preferisca usare il Desametasone. Questa loro attività di richiamo dei fluidi è, però, anche
alla base degli effetti collaterali di questi farmaci: ad esempio, in pz affetti da scompenso
cardiaco, ci può essere edema polmonare conclamato. Ci può poi essere iponatriemia con
cefalea, nausea e vomito.

DIURETICI DELL’ANSA
A livello dell’ansa di Henle si ha il maggior riassorbimento di sodio: questi diuretici agiscono
proprio a questo livello, e in particolare a livello del trasportatore NKCC, e sono i più potenti
che abbiamo a disposizione. Grazie al blocco di questo simporto viene aumentata la
secrezione di NaCl e di K+ e, secondariamente, aumenta anche l’escrezione di magnesio e
calcio. Tra i farmaci di questa classe, il principale è la Furosemide (per os 25-500mg, può poi
essere somministrato anche EV).

Le indicazioni per l’uso di questo farmaco sono:

1. Edema polmonare acuto: determinano un aumento rapido della capacitanza venosa e


un aumento immediato della natriuresi, si riduce così la pressione di riempimento del
ventricolo sx e si ha il miglioramento dei sintomi.
2. Scompenso cardiaco avanzato: permettono di ridurre il volume dei fludi extracellulari
riducendo la congestione venosa e polmonare. In questo modo si ha una riduzione
della mortalità, del rischio di peggioramente della disfunzione ventricolare e un
miglioramento della capacità di compiere esercizio fisico.
3. Emergenze ipertensive e ipertensione poco responsiva
4. Ipervolemia che richieda un trattamento rapido e potente
5. Presenza di edemi o ascite: ad esempio, nel caso di edemi da sindrome nefrosica,
questi farmaci appaiono tra i pochi ad essere effettivamente efficaci per ridurlo.
6. IRA
7. Iperkaliemia in associazione alla somministrazione di NaCl e acqua.

Tra le controindicazioni abbiamo ipersensibilità ai sulfamidici o alle sulfaniluree,


l’insufficienza renale anurica, l’ipokaliemia e l’iponatrimia.

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Sul versante degli effetti collaterali, invece, dobbiamo ricordare un possibile sviluppo di
alcalosi metabolica ipokaliemica (–>utile associare antialdosteronici che sono risparmiatori di
potassio) e altre alterazioni elettrolitiche come una riduzione della magnesemia (fdr per la
comparsa di aritmie), della calcemia (tetania) e della cloremia. Possono invece aumentare
l’uricemia, la glicemia, le LDL e i TG. In caso di somministrazioni EV rapide si può avere
ototossicità, che fortunatamente è spesso reversibile.

Le interazioni che si possono verificare sono con:

1. Aminoglicosidi: determinano un sinergismo che aumenta la possibilità di avere


ototossicità
2. Anticoagulanti: la loro azione potrebbe essere potenziata dal diuretico
3. Digitale: aumenta la probabilità di avere aritmie
4. FANS: riducono l’attività dei diuretici
5. Corticosteroidi: aumentano il rischio di ipok

DIURETICI TIAZIDICI
Sono diuretici di media intensità che agiscono bloccando il trasportatore NCC (simporto
sodio-cloro) a livello del tubulo distale facendo in modo che, venendo riassorbiti meno ioni,
venga riassorbita anche meno acqua e, dunque, che si riduca il volume plasmatico. In
cronico, inoltre, riducono le resistenze periferiche con meccanismi che coinvolgono la
regolazione della concentrazione di sodio e calcio nella cellula muscolare liscia vascolare. Il
capostipite è l’Idroclorotiazide (25-50mg), sono poi state aggiunte la Clorotiazide (l’unica
che può essere data anche EV), l’Inapamide e il Clortalidione. Questi ultimi due sono definiti
simil-tiazidici perché hanno caratteristiche accessorie: l’Inapamide ha al contempo anche
un’attività calcio-antagonista; il Clortalidone ha maggior potenza e durata d’azione.

Le indicazioni al loro utilizzo comprendono:

1. Ipertensione moderata: hanno un importante effetto sinergico con altri antiipertensivi


e costo ridotto, sono dunque molto utilizzati.
2. Scompenso cardiaco in fase iniziale
3. Nefrolitiasi da ipercalciuria idiopatica
4. Edemi associati a cirrosi epatica, sindrome nefrosica, IRC e GN acuta
5. Diabete insipido (?)

!Hanno poco effetto se la GFR è <30-40mL/min, sono pertanto controindicati; sotto questa
soglia si passa ai diuretici dell’ansa.

Tra gli effetti collaterali comuni a queste molecole c’è l’iperuricemia poiché competono con il
trasportatore renale per gli acidi organici; aumentando poi il riassorbimento di calcio si
potrebbe avere ipercalcemia ma è un evento raro. Altri effetti collaterali comprendono
l’alcalosi metabolica, l’ipokaliemia (–> associazione con i risparmiatori di potassio; ex.
Moduretic: Idroclorotiazide+Amiloride), l’iperlipidemia e l’iponatriemia. Riducono, inoltre, la
tolleranza al glucosio. Per quanto riguarda l’ipokaliemia, è importante ricordare che si tratta
di un fdr per lo sviluppo di aritmie, motivo per cui non andrebbe mai associata con la
Chinidina, poiché anche quest’ultima ha potenziale aritmogeno perché allunga il QT.

Si possono avere interazioni con:

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1. Uricosurici: riduzione dell’effetto
2. FANS: riduzione dell’efficacia del diuretico
3. VitD: potenziamento dell’effeto
4. Insulina: riduzione dell’effetto

ANTAGONISTI DEI RECETTORI DEI MINERALCORTICOIDI


I diuretici risparmiatori di potassio comprendono lo Spinorolattone, il Canrenone e
l’Amiloride.

Le indicazioni all’uso sono:

1. Iperaldosteronismo, sia primario che secondario, ad esempio da scompenso cardiaco,


2. Ipertensione in associazione ad altri diuretici (Triamterene+Idroclorotiazide,
Amiloride+Idroclorotiazide).
3. Pz diabetici: pare che possano limitare gli effetti fibrotici e infiammatori causati in
questi soggetti dall’aldosterone]

Le controindicazioni comprendono una ClCr<30mL/min, l’IRA, l’iperkaliemia, l’iponatriemia


severe, l’ipovolemia, l’insufficienza epatica grave.

Dal punto di vista degli effetti collaterali, lo Spinorolattone può legarsi a svariati recettori
steroidei. Se dati da soli, tutti gli antagonisti dei recettori dei mineralcorticoidi possono dare
iperkaliemia, specie se in associazione a FANS, beta bloccanti, ACE-ib o Sartani e in pz con
patologie renali.

Possono esserci interazioni con

1. Altri farmaci metabolizzati da CYP3A4: ketoconazolo, claritromicina, antivirali…


2. FANS: riducono l’effetto diuretico
3. Digossina: aumento dei livelli sierici
4. Glucocorticoidi: aumento della ritenzione idrosalina

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DM
È una sindrome dismetabolica caratterizzata dall’aumento cronico dei livelli glicemici. Come
anche nel caso dell’obesità, si sta notando negli ultimi anni un fortissimo incremento – in
Italia i casi sono più che raddoppiati negli ultimi 30 anni –: questo non è un caso anche
perché la distribuzione di pz con le due malattie è pressochè sovrapponibile. Negli USA i
diabetici sono l’8% della popolazione e, seguendo questo trend, si arriverà al 15% nel 2050;
in Italia invece il tasso grezzo è di 4:100 e negli over75 il 20% dei soggetti ne è affetto.
Bisogna poi considerare che, verosimilmente, c’è un gran numero di pz che non hanno
ricevuto la diagnosi e, dunque, i numeri sarebbero ancora più alti. Il problema è che questa
malattia rappresenta la prima causa di morte per macroangiopatia, la prima per amputazione
dovuta ad arteriopatia obliterante, la prima causa nel mondo occidentale di cecità e la terza
causa di dialisi.

Fisiologicamente, quando la glicemia si alza dopo un pasto, il glucosio entra nelle cellule
beta pancreatiche grazie al trasportatore GLUT2 e qui viene convertito in glucosio-6-fosfato
grazie ad una glucochinasi. Conseguentemente aumenta la quantità intracellulare di ATP e si
chiudono i canali per il potassio ATP-dipendenti: questo ione non può quindi uscire
all’esterno e depolarizza la membrana portando a sua volta all’apertura dei canali del calcio.
L’ingresso di calcio permette l’esocitosi dei granuli con all’interno l’insulina: essa è dunque
liberata in circolo e può legarsi ai propri recettori specifici che hanno varie funzioni, tra le
quali quella di aumentare l’espressione del recettore GLUT. In generale l’insulina ha effetto
su:

- Metabolismo del glucosio: promuove la sintesi di glicogeno e riduce al contempo la


glicogenolisi.
- Metabolismo proteico: ha effetto anabolizzante e riduce la gluconeogenesi.
- Metabolismo dei lipidi: anche qui l’effetto è anabolizzante, quindi aumenta la
lipogenesi e inibisce la lipolisi. Si riduce poi la produzione di chetoacidi: i corpi
chetonici sono infatti il risultato dell’attivazione della lipolisi in condizioni di carenza
di zuccheri. Dalla degradazione degli acidi grassi si ottiene Acetil-CoA il quale, grazie
al ciclo di Krebs, viene tramutato in energia. Se però l’Acetil-CoA è presente in
quantità eccessive tende a fondersi con un’altra molecola omologa portando alla
formazione di Aceto-acetiCoA, che si unisce poi ad un altro Acetil-CoA per formare
3-idrossi-3-metil-glutaril-CoA. Quest’ultimo si dissocia a dare acetoacetato e Acetil-
Coa: l’aceto-acetato viene o ridotto a 3beta- idrossibutirrato o decarbossilato ad
acetone.

Dal punto di vista eziologico possiamo distinguere:

1. Diabete primario, comprende:

a. DM1: si tratta di una forma piuttosto rara con una prevalenza di circa lo 0,3%
e che tendenzialmente viene diagnosticata in soggetti con meno di 30 anni. Si
ha distruzione delle cellule beta del pancreas con generalmente perdita
completa della produzione di insulina. Alla base potrebbero esserci o una
reazione autoimmune cellulo-mediata oppure, secondo alcune ipotesi, qualora
quest’ultima non sia dimostrabile, ci potrebbe essere una virosi non

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identificata. Generalmente questi soggetti hanno una predisposizione genetica
(HLA-DR3DQ2, HLA-DR4DQ8), a causa della quale si possono riscontrare
altri processi autoimmuni, a carico ad esempio della tiroide o dell’intestino
(celiachia). Gli autoab circolanti possono essere diretti contro l’insulina, contro
alcuni determinanti antigenici delle cellule delle isole pancreatiche o contro
l’acido glutammico-decarbossilasi. Nell’ultimo caso pare che ci sia una cross
reazione causata da alcuni antigeni del Coxsackie virus B che sembrerebbero
avere una struttura analoga all’enzima. L’individuo affetto è tipicamente
normopeso, tendente alla chetosi e con una sintomatologia caratteristica con
esordio brusco ed eclatante, le complicanze invece non sono generalmente
presenti fino ad anni dopo la diagnosi.

b. DM2: è molto più frequente rispetto alla forma precedente (prevalenza del 5%)
e può presentarsi come una forma caratterizzata prevalentemente da insulino-
resistenza o come una con prevalente deficit secretivo; i due difetti sono
comunque entrambi presenti, l’unica cosa è che può prevalere uno o l’altro.
Non viene più chiamato insulino indipendente perché anche qui, con il
tempo, questa capacità viene persa e, dunque, in fase più o meno tardiva
anche questi pz, come i precedenti, necessitano di integrare con insulina
esogena. Le cause potrebbero essere diverse: si può avere una predisposizione
genetica data da determinati polimorfismi, la sedentarietà, il basso peso alla
nascita perché si attivano in maniera epigenetica dei geni “risparmiatori” e
dall’altro lato l’alto peso alla nascita perché è indice di famigliarità per il
sovrappeso. Il sovrappeso, infatti, e l’obesità soprattutto, è anch’esso un
importante fattore di rischio a causa delle adipochine prodotte dal tessuto
adiposo, tra cui ricordiamo la resistina. Nel caso in cui si abbia associazione di
obesità e DM si ha un aumento del rischio di sviluppare ipertensione arteriosa
e di avere eventi cv dovuti sia ad alterazioni protrombotiche, che ad un profilo
lipidico pro-aterogeno con rialzo delle LDL e dei trigliceridi e riduzione delle
HDL. A differenza della forma precedente, spesso la diagnosi è tardiva rispetto
all’esordio della patologia, il quale comunque avviene tipicamente dopo i 40
anni. A causa di questo ritardo, dovuto anche alla sintomatologia assente o
modesta, la prima spia sono spesso proprio le complicanze.

2. Diabete secondario, quindi con una causa di sviluppo specifica:

a. Difetti genetici con alterazione delle funzioni delle cellule beta che dunque
non sono più in grado di sintetizzare o secernere insulina. Si parla di MODY:
ovvero maturity onset diabetes of the young, questo perché il quadro è simile
al DM2, ma l’insorgenza è giovanile. Bisogna riconoscere questi pz perché
non serve l’insulina ma bastano ipoglicemizzanti orali e perché così i familiari
possono essere sottoposti a screening. Le due forme più frequenti sono:

i. MODY 3: la mutazione è a carico del gene HNF1alfa (hepatocyte


nuclear factor). Questi soggetti presentano iperglicemia ingravescente e,
nel tempo, potrebbero manifestare complicanze micro/macrovascolari e
chetoacidosiche. Caratteristica di questa forma è la bassa soglia renale: i
pz hanno glicosuria, dunque anche poliuria e polidipsia. Generalmente

101
la diagnosi viene posta durante l’adolescenza con il riscontro di valori
di glicemia variabile, ma sopra il limite.

ii. MODY 2: il problema è a carico di una glucochinasi. Questi soggetti


hanno un innalzamento della soglia glicemica che innesca la
secrezione insulinica: ne deriva che hanno valori di glicemia un po’ più
alti della norma (a digiuno tipicamente 110-130mg/dL), ma stabili per
tutta la vita e in assenza di altri sintomi. Non essendoci nemmeno le
complicanze, la tp è puramente dietetica: si consiglia di fare pasti misti
e di non eccedere con gli zuccheri semplici.

b. Difetti genetici che portano a sintetizzare un’insulina quantitativamente o


qualitativamente non idonea.

c. Difetti genetici a carico del recettore per l’insulina. Ne è un esempio la


sindrome di Donohue, nota anche come leprechaunismo a causa della facies
caratteristica: questi soggetti avranno ipotrofia muscolare e atrofia del tessuto
adiposo cutaneo oltre ad una spiccata insulino-dipendenza.

d. Lesioni del pancreas esocrino: pancreatiti, traumi, neoplasie, emocromatosi e


pancreatopatie da calcoli biliari possono influenzare anche la componente
endocrina.

e. Endocrinopatie con aumentata sintesi di ormoni contro-insulari: Cushing,


feocromocitoma, ipertiroidismo, iperaldosteronismo, somatostatinoma,
acromegalia e glucagonoma.

f. Farmaci: glucocorticoidi, beta-adrenergici, tiazidici, beta-bloccanti.

g. Virus: rosolia congenita e CMV.

Dal punto di vista fisiopatologico bisogna considerare che siamo in una situazione con un
aumentato glucosio circolante e una riduzione del suo utilizzo in periferia. Il glucosio non
arriva dunque al tessuto adiposo, al muscolo e al fegato con conseguente astenia e iperfagia
(essa è caratteristica sia del DM1 che del DM2, ma solo i secondi aumentano effettivamente
il loro peso). Non viene poi inibita la gluconeogenesi, quindi si ha perdita del tessuto
muscolare, e nemmeno la lipolisi, con liberazione di acidi grassi che possono essere
trasformati in corpi chetonici. L’aumento del glucosio in circolo porta ad un aumento della
sua escrezione urinaria, dal momento poi che si tratta di una sostanza osmoticamente attiva
si ha anche poliuria: la risposta centrale a ciò è la polidipsia. L’iperglicemia porta anche
all’aumento della glicosilazione delle proteine con aumento dei prodotti AGE.

Le complicanze possono essere suddivise in:

1. Metaboliche:

a. L’impossibilità di utilizzare il glucosio per assenza dell’insulina associata ad un


aumento di ormoni controinsulari (glucagone, catecolamine, cortisolo e GH)
porta ad avere un eccesso di corpi chetonici, situazione che comunque può
102
essere anche parafisiologica e non necessariamente connessa al diabete se
compare in seguito a digiuno prolungato, gravi stati febbrili o gastroenteriti. Si
parla di chetoacidosi che è una complicanza tipica del DM1: il problema è
che, avendo questi corpi valenza acida, il calo del pH può portare a
danneggiamento delle cellule neuronali: inizialmente i bicarbonati
tamponano, ma, poi, quando viene a mancare il compenso, il soggetto entra in
acidosi metabolica con gap anionico aumentato. Le manifestazioni
comprendono nausea, vomito, sete, poliuria (c’è tanto glucosio in circolo e
quando viene escreto, essendo osmoticamente attivo, porta all’eliminazione
anche di un grande quantitativo di acqua), dolore addominale, dispnea con
respiro di Kussmaul, ipotensione e disidratazione, tachicardia e sintomi
neurologici. L’alito sarà fruttato perché la parte volatile dei corpi chetonici
viene espulsa con la respirazione dando un odore caratteristico. Nei bambini
una complicanza molto grave può essere l’edema cerebrale. Vengono
considerati eventi precipitanti l’inadeguata somministrazione di insulina,
eventi infettivi o ischemici, farmaci e gravidanza. Per gestire questi pz come
prima cosa è necessario confermare la diagnosi (aumento glicemia,
chetonemia, acidosi metabolica), dopo di che devono essere ricoverati e
bisogna monitorare gli elettroliti, l’equilibrio acido base e la funzione renale.
Come terapia si infondono liquidi e si somministra insulina a breve durata
d’azione [-> v.di Chetoacidosi diabetica].

b. La sindrome iperosmolare è invece caratteristica del DM2. Si ha un aumento


dell’osmolarità plasmatica dovuta sia a livelli di glicemia molto elevati (600-
1200), che alla poliuria. Le cellule si disidratano progressivamente e si ha una
compromissione dello stato di coscienza con, talvolta, coma o convulsioni.
Nell’anziano è frequente nel caso in cui la tp non sia adeguata o quando le
condizioni vengono peggiorate da un’infezione sovrapposta o da un evento
ischemico. Questi pz si presenteranno tipicamente disidratati, con ipotensione
e tachicardia; non troveremo invece nausea, vomito, dolore addominale… [->
v.di Sindrome osmolare].

2. Non metaboliche: generalmente questo gruppo di complicanze insorge dopo 20 anni


circa di iperglicemia e, dunque, vengono considerate complicanze croniche.
Purtroppo il DM2 resta a lungo non diagnosticato, quindi è possibile che già alla
diagnosi siano presenti le complicanze. In realtà, l’iperglicemia cronica è un
importante fattore eziologico, ma i meccanismi che determinano la disfunzione
cellulare e d’organo non sono tuttora noti. Alcuni ritengono che il meccanismo di
danno sia dato dagli AGE, ovvero dai prodotti terminali della glicosilazione non
enzimatica: essi formano legami crociati tra proteine, accelerano l’aterosclerosi,
promuovono la disfunzione glomerulare, riducono la sintesi di NO e alterano struttura
e composizione della matrice extracellulare. Secondo altri il problema sarebbe che,
quando si superano certi libelli glicemici, una parte del glucosio viene convertita a
sorbitolo che va ad alterare il potenziale redox con aumento dell’osmolarità delle
cellule e generazione di ROS: si è allora tentato di utilizzare inibitori dell’aldoso
reduttasi per prevenirne la formazione, ma non si sono ottenuti risultati soddisfacenti.
Infine, altri ancora credono che l’iperglicemia aumenti la formazione di
diacilglicerolo con attivazione di proteinchinasi, le quali alterano la trascrizione di
alcuni geni. A prescindere dalla causa, spesso vi sono elevati livelli di fattori di
103
crescita che paiono svolgere un ruolo importante nell’instaurarsi delle complicanze.
Questo gruppo comprende:

a. Maggiore suscettibilità alle infezioni e ridotta risposta alle stesse, alla quale si
associa poi una riduzione della capacità di guarigione.

b. Macroangiopatia diabetica: è un'alterazione dei grossi vasi sanguigni che


comporta la tendenza a sviluppare aterosclerosi più precocemente e più
intensamente di quanto non si verifichi nella media della popolazione. Legata
probabilmente al fenomeno della glicazione delle lipoproteine LDL, la
macroangiopatia diabetica e l'aterosclerosi che ne consegue rappresentano un
importante fattore di rischio per ictus, angina pectoris, infarto del
perifericardio... I diversi quadri comprendono:

i. Coronaropatia
ii. Arteriopatia periferica
iii. Malattia cerebrovascolare

c. Microangiopatia diabetica:

i. Renale: la nefropatia diabetica è la comparsa di proteinuria persistente


(>300mg/die) in pz diabetico non affetto da altre nefropatie, da IVU o
da insufficienza cardiaca. L’IRC è la seconda causa di morte nel
diabetico: bisogna, dunque, riconoscerla subito in modo da poter
intervenire immediatamente per provare a modificare la storia naturale.
[Tra coloro che sono affetti da DM1, a 15 anni il 20-30% sviluppa
microalbuminuria, di questi il 40% svilupperà nefropatia franca, la
quale nel 95% causa IRC. Dopo 25 anni di malattia il rischio
diminuisce. Per quanto riguarda invece il DM2, a 10 anni il 25%
sviluppa microalbuminuria, il 5% proteinuria e lo 0,8% IRC]. Sempre
dal punto di vista epidemiologico, è importante notare che, specie nei
pz affetti da DM2, non è sempre il diabete la causa dell’insorgenza di
nefropatia, è più probabile che sia così se: il diabete dura da almeno 10
anni, l’esordio è con microalbuminuria, c’è un aumento delle
dimensioni renali per iniziale iperfiltrazione e se si trova anche
retinopatia diabetica. La nefropatia diabetica prevede il susseguirsi di
stadi ben definiti:

1. Iperfiltrazione: si ha ipertrofia iperfunzionale del glomerulo, la


VFG è superiore ai valori di riferimento e la creatininemia è
sotto. Il glucosio è osmoticamente attivo: l’iperglicemia
comporta espansione del volume con ipertensione, inoltre una
quantità maggiore di glucosio passa dal filtro glomerulare e viene
riassorbita dal tubulo contorto prossimale nsieme al sodio. Arriva
dunque meno sodio al tubulo contorto distale e questo attiva il
feedback tubulo glomerulare con attivazione del SRAA e
conseguente aumento di volume e di PA.
2. Nefropatia subclinica silente: si ha microalbuminuria episodica
da sforzo. I valori sono 25-300 mg/die (vn <20mg/die), mentre,
104
su urine random, il rapporto albumina/creatinina è maggiore di
25mg/g creatinina. Quando compare microalbuminuria si avrà
nefropatia nell’88% con DM1 e nel 22% con DM2: è pertanto
fondamentale monitorarla perché è il segno più precoce, come
anche in caso di ipertensione e obesità.
3. Nefropatia incipiente: si ha microalbuminuria persistente con
valori maggiori di 300mg/die, per cui si passa a dosare la
proteinuria che costa meno. Si può ancora tornare indietro, ma
arrivati alla proteinuria è più facile che al massimo si riesca a
stabilizzare il quadro.
4. Nefropatia clinica: proteinuria e inizio declino funzionalità
renale.
5. IRC: si abbassa la VFG e la proteinuria cala per mancanza di
glomeruli filtranti. Si prepara il pz all’ingresso in dialisi. In
questa fase bisogna abbassare l’insulina perché viene eliminata
meno.

ii. Retinica: a questo livello possiamo riscontrare diverse tipi di lesione.


Maggiori sono i livelli glicemici e maggiore sarà la probabilità di
sviluppare un danno a livello oculare. Gli essudati cotonosi sono
chiazze biancastre indice di pregressi eventi infartuali, possono poi
esserci lesioni proliferative date da un aumento di cellularità non
funzionale, lesioni conseguenti a neovascolarizzazione o, tardivamente,
evidenza di processi fibrotici. Le lesioni ischemiche sono
tendenzialmente quelle più precoci, nel loro insieme comunque, questi
possibili danni portano a perdita del visus. In generale, possiamo
classificare la retinopatia in due stadi: non proliferativa e proliferativa.
Nel primo caso ci sono microaneurismi vascolari, emorragie puntiformi
ed essudati cotonosi: ciò è causato da perdita dei periciti retinici,
dall’aumento della permeabilità vascolare e da alterazioni del flusso.
Quando l’ipossiemia porta alla proliferazione vascolare si passa allo
stadio proliferativo.

d. Neuropatia diabetica: può essere sia una forma di danno microvascolare con
danneggiamento dei vasa vasorum, che il frutto di un danno alla guaina
mielinica. Si tratta di un evento piuttosto frequente perché interessa circa il
50% sia degli affetti da DM1 che da DM2. La forma più comune è la
polineuropatia simmetrica distale: può essere sia sensitiva (parestesie o
ipoestesia) che motoria. Nelle forme sensitive, l’assenza di nocicezione può
rendere più facile l’insorgenza del cosiddetto piede diabetico:
microtraumatismi ripetuti portano ad ulcerazioni che si rimarginano molto
lentamente e spesso si sovrainfettano. Altre conseguenze della neuropatia sono
l’ipotensione ortostatica (abbassamento della sistolica di almeno 20mmHg
dato da un’impossibilità ad adeguarsi al cambio di posizione), la riduzione
della variabilità della FC nell’arco delle 24h, la perdita di controllo sfinteriale e
le disfunzioni erettili.

105
e. Disfunzioni gastrointestinali: possono comparire in soggetti con DM di lunga
durata. Ci può essere gastroparesi e/o alterata motilità dell’intestino tenue e
crasso con stipsi o diarrea.

Per fare diagnosi di diabete bisogna essere di fronte ad almeno uno di questi quadri:

1. Presenza di segni e sintomi riconducibili al diabete con valori glicemia casuale


maggiori di 200mg/dL (11,1mmol/L).
2. Glucosio plasmatico a digiuno superiore a 126mg/dL (7mmol/L) per due misurazioni
distinte nel tempo.
3. Glucosio plasmatico dopo carico orale di glucosio maggiore di 200 mg/dL
(11.1mmol/L). Questo test viene chiamato OGTT: si somministra al pz una soluzione
acquosa con 75g di glucosio e poi si eseguono delle misurazioni della glicemia, se
seriate si può andare a costruire una curva glicemica.
4. Valori di emoglobina glicata superiori al 6.5% (44 mmol/L). È una metodica
importante sia per porre diagnosi, appunto, che per monitorare il pz perché con
buona affidabilità rende conto dei livelli glicemici delle ultime 8-12 settimane. Infatti,
più sono alti i valori di glucosio, più sarà alto il numero di proteine che verranno
glicate; dal momento che l’emivita di un globulo rosso è di circa tre mesi, si può
capire perché si riesca ad avere una finestra così ampia. Questi processi sono inoltre
dannosi per il nostro organismo: col tempo portano ad un aumento delle stress
ossidativo e a disfunzioni endoteliali.

Non si usano per fare diagnosi il sangue capillare, che trova invece spazio nel monitoraggio
del pz diabetico, e la glicosuria, perché quest’ultima può riflettere sia grandi aumenti per
breve tempo, che piccoli aumenti per un tempo maggiore, quindi ha scarsa sensibilità.

Con le metodiche diagnostiche è possibile anche definire altre tre entità:

1. Per i soggetti nei quali la glicemia a digiuno è compresa tra 100 (valore fisiologico) e
126mg/dL si parla di alterata glicemia a digiuno. Essi avranno un rischio cv non
particolarmente aumentato, ma un rischio molto più alto di sviluppare diabete
franco.
2. Coloro che dopo due ore dal carico orale di glucosio abbiano una glicemia tra 140 e
199mg/dL denoteranno, invece, una ridotta tolleranza al glucosio, la quale determina
un aumento del rischio cv, che diventa di fatto omologabile a quella dei pz affetti da
diabete franco.
3. In gravidanza, se vengono riscontrati valori alterati per la prima volta, si parla di
diabete gestazionale. In particolare, la diagnosi viene posta quando la glicemia a
digiuno in qualsiasi età gestazionale è compresa tra 92 e 126mg/dL o quando dopo
l’OGTT fatta tra la 24° e la 28° settimana si registrano valori superiori a 180mg/dL
dopo 60min o a 153mg/dL dopo 120min. La gravidanza espone a un rischio maggiore
le pz perché la placenta è in grado di produrre ormoni contro-insulari.

Il diabete è una di quelle patologie per le quali vale la pena fare test di screening perché è
un importante problema di salute pubblica, perché presenta uno stadio iniziale asintomatico
e perché abbiamo a disposizione un trattamento efficace e in grado di modificare l’outcome
a breve termine. Le linee guida dei vari paesi sono differenti nello stabilire quali siano i pz da
screenare; quelle italiane sono molto simili a quelle dell’ADA (American Diabetes
106
Association): viene raccomandato ogni tre anni a coloro che abbiano un BMI<25 e almeno
uno dei fattori di rischio; in assenza di fattori di rischio si comincia a screenare a partire dai
45 anni anche con BMI non elevato. Gli fdr da considerare comprendono familiarità, stile di
vita sedentario, appartenenza a gruppi etnici ad alto rischio come afroamericani o ispanici,
storia di DM gestazionale, displipidemia, alterata glicemia a digiuno, sindrome dell’ovaio
policistico e storia di vasculopatie sia famigliare che personale. Lo screening consiste
sostanzialmente dei test detti prima: si misura, dunque, l’emoglobina glicata o la glicemia a
digiuno, oppure si può fare l’OGTT.

La visita di un pz diabetico, o nel quale si sospetta tale patologia, deve comprendere


un’anamnesi accurata sia familiare, che fisiologica, che patologica remota. Quest’ultimo
punto è importante per le scelte terapeutiche che devono tenere conto, non solo dei sintomi
presentati dal paziente, ma anche delle comorbidità (patologie cardiache, gonadiche,
epatiche come emocromatosi o cirrosi...) e di eventuali farmaci che il pz ha in tp e che
potrebbero andare ad interferire con i livelli glicemici. All’esame obiettivo si valutano
parametri come il peso, l’altezza, la crf addominale, la PA, il fundus e, nei pz con DM1, la
tiroide. Anche valutare il fegato è importante perché la steatosi è uno dei principali sintomi
della sindrome metabolica. Si possono poi ricercare le complicanze ispezionando la cute,
valutando i polsi, facendo un esame neurologico... L’esame delle urine è molto importante
per valutare la funzionalità renale: si valutano proteinuria, e in particolare microalbuminuria,
chetonuria e si fa un’analisi del sedimento. Nei soggetti con DM1 è poi importante fare
screening per capire se ci siano altre malattie autoimmuni associate. Infine, si fanno ECG e
valutazione oculistica.

La terapia volta ad abbassare i valori glicemici di questi pz è importante prevalentemente per


prevenire le complicanze di questa patologia, che sono le principali responsabili di danno e
di avventi avversi a cui un pz potrebbe andare incontro. È importante sia intervenire sullo
stile di vita (dieta, incremento attività fisica, calo ponderale) che intervenire in maniera
precoce con una tp farmacologica. L’UKPDS ha evidenziato come pz trattati in maniera
aggressiva dall’esordio avessero dopo 10 anni una riduzione sia del rischio microvascolare,
che dei casi di IMA, che della mortalità in generale rispetto a soggetti trattati meno
aggressivamente, anche se il controllo diventava meno aggressivo nel tempo, fatto spiegabile
con il concetto di memoria metabolica. Si deve dunque associare una tp farmacologica ad
una NON farmacologica.

Per quanto riguarda il target della tp si usano i valori di hb glicata. Per ogni riduzione di
unità di emoglobina glicata si riduce notevolmente il rischio di sviluppare microangiopatia e,
meno significativamente, anche quello di avere macroangiopatia. L’obiettivo terapeutico
varia:

1. Mantenere livelli di emoglobina glicata al di sotto del 7% è il target a cui si punta


nella maggior parte dei pz: si riduce del 37% il rischio di complicanze microvascolari
e del 15% quello delle complicanze macrovascolari (queste ultime dipendono anche
da diversi altri fattori come il fumo o la PA). La glicemia a digiuno dovrebbe oscillare
da 70 a 130mg/dL, mentre quella postprandiale dovrebbe essere al di sotto 180
mg/dL. Nei pz con DM2 sarebbe auspicabile avere valori postprandiali minori di
140mg/dL. Questi pz hanno, infatti, minore possibilità di avere ipoglicemia.

107
2. Avere un’emoglobina glicata minore del 7-8%, quindi un obiettivo meno stringente, è
raccomandato in pz con diabete di lunga durata, se ci sono altre malattie CV, se il pz
è anziano o se c’è tendenza all’ipoglicemia. In questi pz andare a livelli di glicata più
bassa è rischioso e, inoltre, non si deve sconfinare nell’accanimento terapeutico: se
l’aspettativa di vita è bassa è inutile imporre obiettivi che abbassino la qualità di vita.

3. Livelli di emoglobina glicata al di sotto del 6,5% sono auspicabili in pz con nuova
diagnosi, giovani, senza malattia CV o altre comorbilità,

Dal punto di vista comportamentale, è importante che i diabetici conoscano il concetto di


indice glicemico: alcuni alimenti, come ad esempio le patate o la polenta, sono in grado di
far salire molto rapidamente i valori di glucosio nel sangue; al contrario, altri, come la pasta
ad esempio, pur contenendo zuccheri, portano a picchi meno considerevoli. Il problema è
che, quando ci sono picchi, aumenta anche la risposta insulinica con conseguente stress
ossidativo e successiva discesa più rapida della glicemia. Da una parte avremo dunque un
sovraccarico a livello pancreatico e d’altra parte il pz avrà fame più frequentemente. I
carboidrati non devono, comunque, essere esclusi dalla dieta di un pz diabetico, bisogna
semplicemente tenere conto che i carboidrati ingeriti sono i principali determinanti della
glicemia post-prandiale. L’apporto calorico dei carboidrati può essere compreso tra il 45 e il
60%, non si deve comunque rimanere sotto ai 130g/die di carboidrati. È importante tenere
conto dell’indice glicemico e devono essere preferiti alimenti con basso indice glicemico
associati ad alimenti ricchi in fibre idrosolubili. Se il pz è in buon compenso glicemico può
assumere una piccola quota di saccarosio o altri zuccheri aggiunti, in sostituzione, però, di
altri alimenti con elevato indice glicemico. In generale, nei pz che assumono insulina, è
importante che le dosi vengano calibrate in base al tipo di pasto che si andrà ad assumere.
Per quanto riguarda i grassi, essi non devono superare il 35% (30% se il pz è obeso)
dell’energia totale perché, altrimenti, si andrebbe a favorire l’insorgenza di obesità e perché si
aumenterebbe ulteriormente il rischio cv di questi soggetti, che di per sé è già aumentato.
Anche qui si deve operare una distinzione: i grassi trans andrebbero evitati, i grassi saturi
dovrebbero essere assunti in maniera contenuta, mentre, quelli polinsaturi fanno bene. Infine,
per quanto riguarda le proteine, esse dovrebbero rappresentare il 10-20% dell’intake;
bisogna però considerare altri fattori: se il controllo del diabete non è ottimale, potrebbero
essere necessari quantitativi superiori per sopperire al catabolismo proteico; al contrario, se
c’è nefropatia diabetica, può essere necessario ridurle. A pz con grado iniziale di nefropatia
si dovrebbe consigliare un introito proteico effettivo di 0.8-1g/kg; nei pz con nefropatia
conclamata è utile non superare gli 0.6-0.8g/die. È poi importante l’assunzione di fibre.

Per questi pz è poi fondamentale svolgere attività fisica, specie se si tratta di DM2 perché ciò
porta ad un aumento della sensibilità muscolare all’insulina. Si dovrebbe consigliare di fare
150min/settimana di attività aerobica di intensità moderata (50-70% della FCmax), distribuiti
in almeno 3 giorni alla settimana. L’attività sportiva, specie se di buon livello, è difficile da
gestire in pz affetti da DM1 che non hanno una pompa insulinica, perché c’è un rischio
importante di avere ipoglicemie. I soggetti con questa patologia dovrebbero poi evitare di
fare immersioni perché, se dovessero sentirsi male, non si riuscirebbe ad intervenire
prontamente.

Un problema importante è che, se generalmente i pz sono complianti per quanto riguarda le


prescrizioni farmacologiche, spesso non riescono o non vogliono modificare il proprio stile

108
di vita e parte della responsabilità di ciò è del medico che non è riuscito a far capire loro
l’importanza di questi interventi che sono parte integrante della tp.

Per raggiungere il target terapeutico è però spesso necessario ricorrere anche ad una tp
farmacologica. In prima battuta, nei soggetti affetti da DM2 è possibile ricorrere alla tp
farmacologica con ipoglicemizzanti:

1. Insulino-sensibilizzanti:

a. Biguanidi (metformina): sono ipoglicemizzanti orali utilizzati come prima


scelta nel trattamento del DM2 in quei pz che abbiano ancora una produzione
residua di insulina (salvo intolleranza o insufficienza renale con
VFG<60ml/min). Aumentano l’ingresso e l’utilizzo di glucosio nel muscolo,
inibiscono la gluconeogenesi e aumentano l’ossidazione degli acidi grassi e la
sensibilità all’insulina. Il meccanismo alla base di questi effetti non è ancora
stato completamente chiarito, pare che il target sia l’inattivazione dell’AMPK,
un elemento regolatore fondamentale del meccanismo energetico
intracellulare. C’è poi un effetto anoressizzante dato dal disaccoppiamento
della fosforilazione ossidativa. Secondo dati recenti sembra che la Metformina
abbia anche effetti anti-proliferativi: ad esempio, nei pz con noduli tiroidei
sembra che si ottenga una riduzione del numero e delle dimensioni degli
stessi. Inoltre, pare si riesca ad ottenere anche un controllo della steatosi
epatica, condizione spesso presente nel pz diabetico.

La tp con metformina deve essere iniziata alla dose più bassa possibile (250-
500mg/die suddivisi in 2-3 somministrazioni) e poi, al bisogno, la dose può
essere aumentata fino a raggiungere 1-3g/die. Può dare problemi a livello
gastrointestinale come meteorismo, crampi o disgeusia con percezione di
sapore metallico. Nei pz con funzionalità renale non perfetta, nel caso in cui vi
sia concomitante disidratazione, ci può essere un rapido accumulo del
farmaco con il rischio, altrimenti remoto, di acidosi lattica. Ciò si verifica
perché la Metformina favorisce l’utilizzo di glucosio a livello intestinale dove
viene fatta glicolisi anaerobia con produzione di lattati, che, se in eccesso,
possono accumularsi. Condizioni che favoriscono l’accumulo sono il digiuno,
l’assunzione di alcol, lo scompenso cardiaco, l’insufficienza respiratoria e
l’insufficienza epatica. I pz che sviluppano acidosi lattica avranno respiro di
Kussmaul e, talvolta, alterazioni dello stato di coscienza. Si ha un quadro che
può assomigliare per certi versi alla chetoacidosi, ma in questo caso non si
avrà chetonuria e il pz non sarà disidratato. Dopo aver fatto diagnosi, è
necessario sospendere il farmaco e idratare per favorire l’elimazione renale o,
addirittura, con lo stesso scopo, fare dialisi. Si può poi dare bicarbonato di
sodio. Nonostante tutto, si tratta di una complicanza gravata da mortalità del
50%.

Vantaggi: no ipoglicemie, riduzione degli eventi cv


Principali effetti indesiderati: effetti gi, acidosi lattica, deficit di B12.

b. Tiazolidinedioni (Pioglitazone, Rosiglitazone): sono agonisti del recettore


gamma-PPAR che hanno la capacità di modulare l’espressione di geni
109
coinvolti nel metabolismo glucidico e lipidico. Ne deriva che a livello epatico
avremo una riduzione della gluconeogenesi, a livello muscolare una riduzione
dell’utilizzazione di glucosio e, a livello adipocitario, un minor rilascio di acidi
grassi a fronte di un aumento dell’adipogenesi; in generale avremo poi un
aumentata sensibilità all’insulina. Esiste un rischio di insufficienza cardiaca
congestizia secondaria all’uso di questi farmaci.

Vantaggi: no ipoglicemie, riduzione eventi cv, aumento delle HDL, riduzione


dei TG, efficacia nel tempo.
Principali effetti indesiderati: incremento ponderale, ritenzione idrica con
edemi, possibile insorgenza di insufficienza cardiaca, riduzione di hb, fratture
nelle donne, edema maculare diabetico.

2. Insulino-secretagoghi:

a. Sulfaniluree (Glibenclamide): stimolano la secrezione di insulina facilitando la


depolarizzazione della cellula agendo su un recettore del potassio.

Vantaggi: riduzione delle complicanze microvascolari


Principali effetti indesiderati: ipoglicemia, incremento ponderale, necessità di
frequenti titolazioni.

b. Meglitinidi: hanno effetto e meccanismo simile al gruppo precedente, ma


hanno durata d’azione più breve, quindi si riduce il rischio di ipoglicemia.

Vantaggi: escursioni post-prandiali ridotte


Principali effetti indesiderati: ipoglicemie, incremento ponderale, necessità di
frequenti titolazioni

5. Incretino-mimetici (Exenatide, Liraglutide, Albiglutide e Dulaglutide): stimolano la


secrezione post-prandiale di insulina e riducono quella di glucagone agendo sui
recettori di GLP1. GLP1 è fisiologicamente prodotto dalle cellule L presenti a livello
dell’ileo e del colon e la sua funzione è quella di ridurre la produzione di glucagone e
favorire quella di insulina, con anche azione trofica sulle beta-cellule. Sono poi
importanti per ridurre il senso di fame, sia dando un senso di pienezza gastrica, sia
tramite la produzione di amilina. Infine, questi peptidi hanno effetto in tutto
l’organismo perché sono anche protettivi per il cuore, determinano un rallentamento
dello svuotamento dello stomaco, promuovono un aumento dei livelli di calcio
nell’osso e aumentano l’uptake di glucosio a livello muscolare. Lo stimolo per la
liberazione di questa sostanza, così come di GIP, che però è sintetizzato dalle cellule
K del duodeno, è la presenza di cibo a livello del tratto gastoenterico. Il razionale
dietro questi farmaci è quello di mimare l’azione di queste molecole biologiche.
Vengono somministrati SC settimanalmente, o più frequentemente, e sono disponibili
associazioni con Metformina. Secondo alcuni studi aumenterebbero la frequenza di
carcinoma midollare nei soggetti che li assumono, verosimilmente si tratta comunque
di un riscontro non dotato di grande rilevanza clinica.

Vantaggi: elevata efficacia, no ipoglicemie, riduzione del peso e della PA, riduzione
delle escursioni glicemiche post-prandiali, ottimo profilo di sicurezza cv.
110
Principalli effetti indesiderati: nausea, vomito, diarrea, aumento della FC, rari casi di
pancreatite.

6. Inibitori del DPP-4 (Sitagliptin, Saxagliptin, Alogliptin, Linagliptin e Vildagliptin).


L’effetto è analogo al gruppo precedente perché anche in questo caso c’è la volontà
di mimare il sistema incretinico; questi farmaci possono, però, essere somministrati
per os prima di ogni pasto. Nonostante questa maggior comodità sono leggermente
meno efficaci nel determinare riduzione dei livelli di emoglobina glicata e non
determinano una perdita di peso, a differenza dei precedenti in cui sarà mediamente
di 3-5kg.

Vantaggi: no ipoglicemie, ridotte escursioni post prandiali, ottimo profilo di


tollerabilità e di sicurezza cv
Principali effetti indesiderati: possibili rari casi di pancreatite, angioedema, orticaria,
vasculite e patologie esfoliative della cute.

7. Gliflozine (Dapagliflozina, Canagliflozina, Empagliflozina): aumentano la secrezione


renale di glucosio e, indirettamente, anche di sodio inibendo SGLT2, un co-
trasportatore atto a riassorbirlo dai tubuli. Nel pz diabetico questi farmaci permettono
una riduzione della glicemia, una diminuzione di peso, della PA e una riduzione
della filtrazione glomerulare che può compensare l’iperfiltrazione che caratterizza le
prime fasi della nefropatia diabetica. Quest’ultima caratteristica, però, li rende non
adatti in soggetti che abbiamo un filtrato inferiore ai 45mL/min. Sul versante degli
effetti collaterali abbiamo un aumento delle LDL e un aumento delle infezioni
urinarie. Infine, aumentano lo stimolo urinario e questo può essere un fdr per la
disidratazione, visto che questi pz tendono già a perdere molti liquidi per ragioni
osmotiche.

Vantaggi: no ipoglicemie, riduzione del peso, riduzione della PA, riduzione dei livelli
di acido urico e riduzione degli eventi cv.
Principali effetti indesiderati: chetoacidosi, infezioni genito-urinarie, ipotensione.

8. Acarbosio: è un inibitore dell’alfa glucosidasi che riduce l’assorbimento di glucosio a


livello intestinale riducendo l’indice glicemico di qualsiasi alimento. Il problema è
che è scarsamente tollerato perché la persistenza di carboidrati parzialmente indigeriti
a livello del tubo digerente favorisce la proliferazione della flora intestinale con le
problematiche associate. A fronte di questi effetti collaterali, la loro efficacia è
piuttosto limitata perché non si raggiunge una riduzione superiore allo 0.5% di glicata
neanche a dose piena. Non vengono per questo usati molto frequentemente.

Vantaggi: no ipoglicemie, minori escursioni glicemiche postprandiali, riduzione degli


eventi cv.
Principali effetti indesiderati: flatulenza, diarrea, dolori addominali, nausea, vomito,
dispepsia, efficacia modesta e necessità di titolare frequentemente.

Per scegliere quale tipologia di farmaco scegliere in un dato pz, è possibile considerare le
caratteristiche di ciascun farmaco e porle a confronto con le necessità del pz.

111
METFORM GLIFLOZINE ANALOGHI INIBITORI TIAZOLID SULFANI
GLP1 DPP4 INEDIONI LUREE
Efficacia Alta Media Alta Media Alta Alta
Ipoglicemia No No No No No No
Peso = Perdita Perdita = Aumento Aumento
Aterosclerosi Potenziale Beneficio Beneficio = Potenziale =
(cuore, beneficio (Canagliflozin) (Liraglutide) beneficio
cervello)
Insuff. = Beneficio = Potenziale Rischio =
cardiaca (Canagliflozin) rischio aumentato
Costo Basso Alto Alto Alto Basso Basso
Somministraz Orale Orale SC Orale Orale Orale
ione
Progressione = Beneficio Beneficio = = =
nefropatia (Canagliflozin) (Liraglutide)

Alla luce di ciò, posto che in prima linea abbiamo tipicamente l’intervento sugli stili di vita e
la Metformina, è possibile decidere su quale farmaco orientarci sulla base del pz stesso, in
modo da ottenere una tp il più possibile individualizzata.

112
- Se il pz presenta una cardiopatia/cerebropatia su base aterosclerotica si può pensare
di associare alla Metformina un analogo di GLP1 ed eventaulmente aggiungere
Canagliflozin.

- Se il pz ha prevalentemente problemi legati ad insufficienza cardiaca o renale è


consigliabile utilizzare le Gliflozine perché hanno effetto natriuretico e diuretico.

- Se il pz non ha particolari problemi possiamo scegliere la tp sulla base di cosa


vogliamo ottenere:

o Evitare l’ipogliemia: Inibitori di DPP4, Gliflozine, Analoghi di GLP1 O


Tiazolidinedioni.
o Promuovere la perdita di peso: i più efficaci sono gli analoghi di GLP1,
possono essere utili anche le Gliflozine.

113
Si può poi aggiungere una tp insulinica, che, invece, nel caso di pz con DM1, è il cardine
terapeutico sin dalla diagnosi. Nei pz con DM2 l’insulina non dovrebbe essere un farmaco di
prima scelta, ma, in realtà, specie per pz con livelli di glicata >9%, quindi particolarmente
elevati, spesso nella pratica clinica vengono prescritte dosi piccole o medie di insulina
basala perché è importante raggiungere l’obiettivo terapeutico in tempi rapidi. Inoltre,
sebbene storicamente si tendesse ad escludere il ricorso all’insulina come prima linea di
terapia, si è notato che anche a costo di essere più aggressivi dal punto di vista
farmacologico permetteva di raggiungere effetti migliori.

La terapia convenzionale, non più usata, prevedeva due somministrazioni giornaliere di


insulina. Ad oggi si utilizza una tp intensiva con somministrazioni in corrispondenza di tutti i
pasti di insulina rapida e ultra-rapida associate ad una a lunga durata presa in un momento
casuale della giornata. Questo ha permesso di ridurre la progressione del danno d’organo, ed
in particolare della retinopatia e, in maniera meno eclatante, della nefropatia. Le dosi
vengono valutate in funzione dei valori glicemici tramite algoritmi che permettono di
calcolarle.

Esistono diversi tipi di insulina, ad oggi sono tutte prodotte in laboratorio e non sono più
tratte da animali: esse sono, dunque, meno allergizzanti e evitano la produzione di ab. Ci
sono:

1. Insuline ad azione ultrarapida: sono utili per il controllo della glicema postprandiale
e la loro durata d’azione non supera le 4-5h. Per ottenere una riduzione dell’emivita
si è ricorso a sostituzioni aminoacidiche che permettono un assorbimento più rapido.
Ne fanno parte:

a. Insulina lispro (Humalog): prolina e lisina nella catena beta vengono invertite
b. Insulina aspart (Novorapid): un residuo di prolina è sostituito con l’aspartato.
c. Insulina glulisina (Apidra): sulla catena beta un glutammato sostituisce una
lisina e una lisina sostituisce un’asparagina.

2. Insulina ad azione rapida (insulina regolare): è sempre ricombinante ma non vengono


fatte particolari modifiche alla struttura. La durata d’azione è di circa 5-8 ore.

3. Insuline ad azione intermedia e lunga:

a. Insulina isofano: come eccipiente viene utilizzata la protamina che rallenta la


dissociazione verso la forma monomerica e garantisce che l’insulina inizi la
propria azione circa 2 ore dopo la somministrazione con un picco di attività
dopo 6-8 ore. Ci sono comunque grosse differenze tra i vari soggetti.
b. Insulina detemir: richiede due somministrazioni al giorno per poter
mantenere livelli di insulinemia basale adeguati.
c. Insulina glargine (Lantus): permette di avere un protratto plateau di
concentrazione plasmatica in assenza di picchi grazie a sostituzioni
aminoacidiche. Per questa ragione è quella che viene normalmente utilizzata.
d. Insulina degludec.

Alternative terapeutiche comprendono l’infusione continua di insulina, dedicata soprattutto a


pz giovani e sportivi affetti da DM1, e la modificazione biologica di cellule staminali: si
114
prelevano cellule dall’individuo, si de-differenziano e si fa in modo che diano origine a
cellule beta che poi possono essere impiantate sottocute. Il trapianto è raramente effettuato
nei pz con DM1, quando si decide di farlo, è generalmente nell’ambito di un trapianto
pancreatico-renale con il pancreas messo in sede eterotopica. Al contrario, invece,
l’infusione continua trova applicazione ed è permessa da pompe programmabili che
permettono la somministrazione di insulina basale, alla quale poi va comunque aggiunta
quella in bolo in corrispondenza dei pasti. Ad oggi spesso questi infusori sono associata a
sensori sottocutanei in modo da scongiurare il rischio di ipoglicemia.

I soggetti con DM2, inoltre, hanno un rischio cv elevato, motivo per cui spesso necessitano
anche di antiaggreganti, statine e anti-ipertensivi (da preferire ACE-ib e Sartani).

115
CHETOACIDOSI DIABETICA
Si tratta di una complicanza acuta che colpisce soprattutto soggetti affetti da DM1, del quale
può rappresentare anche la manifestazione d’esordio. L’impossibilità di sfruttare il glucosio
come fonte energetica (a causa dell’assenza di insulina) porta alla liberazione di acidi grassi
con formazione di corpi chetonici. Fattori che favoriscono l’insorgenza di chetoacidosi sono
infezioni, ridotta alimentazione, nausea e vomito.

Un pz in chetoacidosi presenta:

1. Tachicardia
2. Tachipnea o respiro di Kussmaul
3. Alito acetonemnico
4. Tendenza all’iperreflessia
5. Lieve stato di disidratazione
6. Stato confusionale e coma nei casi molto gravi
7. Iperglicemia (generalmente 250-600mg/dL) con aumento dell’osmolarità plasmatica
8. pH<7.30
9. Chetonuria
10. Iponatriemia perché il sodio si lega all’acido idrossibutirrico e viene eliminato con le
urine
11. Iperkaliemia per uno scambio tra l’interno e l’esterno della cellula nel tentativo di
tamponare l’acidità
12. Aumento delle amilasi in assenza di pancreatite

LIEVE MODERATA GRAVE


Glicemia >250mg/dL >250mg/dL >250mg/dL
pH arterioso 7.25-7.30 7.00-7.24 <7.00
Bicarbonati 15-18mEq/L 10-15mEq/L <10mEq/L
Chetoni urine + + +
Chetoni siero + + +
Osmolarità Variabile Variabile Variabile
Gap anionico >10 >12 >12
Stato di coscienza Cosciente Cosciente/confuso Stupore/coma

[DD: nella sindrome iperosmolare i chetoni nelle urine o nel siero possono essere presenti o
meno, ma il tratto saliente è che avremo una glicemia più elevata (>600mg/dL) con
osmolarità sierica >320mOsm/kg. Il pH sarà >7.30, i bicarbonati non saranno consumati e il
gap anionico sarà >12.]

Nelle forme lievi, la correzione è facile e il pz può esssere dimesso rapidamente; al


contrario, nelle forme gravi, avremo bisogno di un trattamento aggressivo e si devono trattare
anche le condizioni predisponenti per evitare che compaiano complicanze anche più gravi.
Nei pz con alterazioni dello stato di coscienza bisogna sostenere la respirazione e le
condizioni emodinamiche; è poi fondamentale monitorare la diuresi, con catetere nelle
forme gravi, e posizionare un acesso venoso.

La prima cosa da fare è infondere 500cc di fisiologica a 10-20mL/min e si può


eventualmente somminitrare anche insulina pronta per metà SC e per metà EV alla dose di

116
0.5U/kg (questo secondo le linee guida americane, la Muiesan dice sia meglio fare circa 20U
perché, specie per forme all’esordio, non siamo in grado di prevedere quale sarà la
sensibilità di quel soggetto all’insulina). A questo punto sarà necessario correggere l’acidosi e
e l’iperglicemia. Si prosegue con l’idratazione, riducendo via via la quantità e
contemporaneamente si somministrano 2-3U di insulina (SC nei casi lievi, EV nei casi gravi):
ciò va fatto fino a che non si riesce a riportare la glicemia al di sotto di 250mg/dL. Raggiunta
questa soglia la SF viene sostituita con la glucosata; quando poi si raggiungo i 200mg/dL si
dimezza la dose di insulina.

Durante questo processo andiamo ad abbassare il pH, quindi il K+ rientra nelle cellule e la
potassiemia può abbassarsi in maniera improvvisa; quindi, se i valori di partenza sono
normali somministro contemporaneamente anche KCl, se sono già bassi dovrò invece
aspettare a dare l’insulina e fare prima solo KCl per alzare la potassiemia.

Il bicarbonato di sodio viene usato solo se pH<6.9 perché abbassando la glicemia con
l’insulina si riesce normalmente ad alzare in contemporanea anche il pH.

Infine, l’ultimo step è quello di trattare la causa scatenante.

117
SINDROME IPEROSMOLARE
È una complicanza metabolica tipica del DM2 caratterizzata da iperglicemia grave,
disidratazione estrema, iperosmolarità plasmatica e alterazione dello stato di coscienza.
Generalmente insorge nel contesto di uno stress dell’organismo e le complicanze
comprendono coma, convulsioni e decesso.

Un pz con sindrome iperosmolare presenta:

1. Poliuria e polidipsia
2. Segni di disidratazione marcata (pliche cutanee, globi oculari infossati, lingua secca)
3. Possibile alterazione dello stato di coscienza
4. Presenza di fattori predisponenti (febbre, ictus)
5. Glicemia molto elevata e glicosuria molto marcata
6. Assenza di chetonuria
7. Elettroliti normali
8. Osmolarità plasmatica molto elevata
9. Creatinina elevata per IRA pre-renale dovuta alla disidratazione

Anche in questo caso sarà necessario correggere la carenza di liquidi e la glicemia e andare
ad agire sulla causa scatenante. Si deve somministrare fisiologica o soluzione ipotonica (qui
il deficit da colmare è di circa 10L, contro i 4-6L che bisogna reintegrare in caso di
chetoacidosi), in maniera lenta per evitare che si sviluppi edema polmonare acuto: si dà alla
velocità di 1L/h per la prima ora e poi si passa a 200-500mL/h. In associazione si deve
somministrare insulina, e, come nel caso precedente, per farlo bisogna prestare attenzione
alla kaliemia.

118
IPOGLICEMIA
L'ipoglicemia è il rapido abbassamento della concentrazione di glucosio nel sangue, in
particolare quando si raggiungono valori <70mg/dL. Per parlare di forme gravi non si
considerano più i valori di glicemia, quanto piuttosto l’eventuale presenza di alterazioni
dello stato di coscienza.

È possibile distinguere:

- Ipoglicemie post-prandiali, possono dipendere da:

o Farmaci ipoglicemizzanti orali esclusa la metformina, a meno che non sia in


associazione alle Sulfaniluree. Nel diabetico queste crisi sono piuttosto
frequenti, non solo a causa dei farmaci, ma anche perché, dopo l’assunzione
degli stessi, il pz deve assicurarsi di assumere un pasto sufficiente. Episodi di
ipoglicemia in tp ipoglicemizzante sono più frequenti se il pz soffre di
insufficienza renale, cardiopatia iscemica o se ha un DM di lunga durata.
o Ingestione di glucosio in grande quantità: si ha un iniziale picco insulinemico
a cui fa seguito una riduzione molto marcata della glicemia (circa 4-5 ore
dopo).
o Dumping syndrome: lo stomaco si svuota molto rapidamente e dunque c’è
assorbimento rapido di glucosio. Come prima quindi si ha un picco
insulinemico seguito da ipoglicemia.
o Soggetti che mangiano molto rapidamente.

- Ipoglicemia da eccessiva utilizzazione di glucosio:

o Insulinoma: è un tumore delle cellule beta del pancreas caratterizzato


dall’iperproduzione di insulina che è responsabile di ipoglicemie molto gravi
(questi pz si riconoscono perché mangiano continuamente).

- Ipoglicemia da insufficiente produzione di glucosio:

o Dieta ipoglucidica con invece abbondante assunzione di lipidi.


o Insufficienza epatica con assenza di glicogeno e impossibilità di effettuare
gluconeogenesi. Attenzione che si tratta di forme avanzate perché in quelle
lievi si tende a riscontrare iperglicemia.
o Carenza di GH o di glucocorticoidi.
o Alterazione degli ormoni tiroidei.

Un’altra condizione è l’ipoglicemia relativa: quando un pz diabetico non viene trattato in


modo corretto, può avvertire i sintomi tipici dell’ipoglicemia anche con valori di glucosio nel
sangue di 90-100mg/dL.

Manifestazioni cliniche sono prevalentemente a carico del sistema nervoso simpatico e


centrale; la sintomatologia varia a seconda della rapidità con cui si riduce la glicemia, a
quando si introduce glucosio come misura di correzione. Due altre condizioni che possono
influenzare la sintomatologia sono la ripetizione di episodi di ipoglicemia e l’eventuale

119
presenza di alterazioni a carico del circolo vascolare cerebrale, soprattutto nei soggetti
anziani. L’ipoglicemia nel paziente anziano con stenosi vascolari cerebrali può riprodurre la
stessa sintomatologia dell’ictus come ad esempio emiparesi e spesso ci può essere Babinski+.
Il sintomo prevalente è determinato dalla carenza di glucosio in un determinato distretto
cerebrale, situazione più o meno simile a ciò che si verifica nel caso di ischemia cerebrale.

Ci sono sei fasi progressive:

1. Fase parasimpatica: dove all’inizio ci sono i meccanismi di compenso che inducono


sensazione di fame, è presente lieve dolore in epigastrio, sensazione di nausea,
rallentamento della frequenza cardiaca e riduzione della pressione arteriosa;
2. Fase simpatica: se il soggetto non mangia c’è attivazione simpatica e in questa fase
compaiono i veri sintomi dell’ipoglicemia, tipicamente intorno ad una glicemia di 50-
60mg/dL. Il soggetto avverte sensazione di agitazione e irrequietezza, sudorazione
(può essere l’unico sintomo in caso di tp con beta bloccanti perché l’input è
colinergico), aumento della frequenza cardiaca quindi cardiopalmo, ipertensione,
senso di fiacchezza generalizzato e tremori fini;
3. Fase corticale: caratterizzata da sonnolenza, cefalea e alterazioni del comportamento,
quali automatismi nel movimento ed irritabilità;
4. Fase mesencefalica: si verificano perdita di coscienza e contrazioni tonico-cloniche
fino a convulsioni;
5. Fase pontina: compare l’atteggiamento decerebrato, ossia flessione verso l’esterno
degli arti superiori, e il coma (tipicamente per valori di glicemia <30mg/dL);
6. Fase bulbare: è la fase più grave, condizione estremamente grave, caratterizzata da
coma profondo, bradicardia, miosi, ipotermia e alterazione del riflesso pupillare.

Episodi ripetuti di crisi ipoglicemica possono indurre una carenza di sensibilità, da parte
dell'organismo, all'ipoglicemia, tale per cui l'individuo coinvolto non avverte più quando è
in corso un calo eccessivo della glicemia. Questo comporta, chiaramente, il mancato ricorso
a un trattamento tempestivo. In genere, la tendenza a sperimentare ripetute crisi
ipoglicemiche riguarda le persone con malattie come DM, insulinoma, cirrosi epatica...

Questi episodi di ipoglicemia, specie nel diabetico, andrebbero evitati perché hanno valenza
prognostica sfavorevole. Con l’ipoglicemia, infatti, si verificano attivazione del SI,
alterazione della coagulazione con tendenza ad una maggiore attivazione delle piastrine,
disfunzione endoteliale con ridotta vasodilatazione e una risposta di compenso con aumento
della FC e della PA. Pur di evitarli, in soggetti con DM di lunga durata, anziani e con
condizioni non perfette, si preferisce tollerare valori di glicata leggermente più elevati.

Se il soggetto è cosciente, deve assumere 15g di zucchero puro e si deve ricontrollare la


glicemia capillare dopo 10min, se i valori sono ancora bassi deve assumerne altri 15. Esempi
di alimenti contenenti 15g di zucchero sono 4 zollette o bustine di zucchero, ½ bicchiere di
succo di frutta, 3 caramelle fondenti; non bisogna associarli a grassi che ne rallentino
l’assimilazione. Se il soggetto non è cosciente ci si comporta in modo diverso a seconda che
abbia già o meno un accesso venoso. In caso affermativo si somministrano 50mL di
soluzione glucosata al 33% in bolo in pochi minuti; se non c’è un accesso venoso si da 1mg
di glucagone IM. Questo viene fatto perché si deve agire il più rapidamente possibile per
evitare che il pz entri in coma (! Il coma diabetico può essere sia iperglicemico, che
ipoglicemico).
120
PREVENZIONE SECONDARIA CARDIOVASCOLARE
Si tratta delle strategie messe in atto per evitare che pz che hanno già avuto un evento
cardiovascolare possano averne un secondo, fatto per altro non improbabile perché,
presumibilmente, se quel soggetto ha sviluppato aterosclerosi in un distretto, la avrà anche in
altri. Secondo studi che sono stati fatti si tratta di pz che, anche se trattati in maniera corretta,
hanno comunque una probabilità più elevata di sviluppare nuovamente un evento
cardiovascolare, sia dopo la dimissione che a distanza di 5 anni. In particolare, i pz più
difficili da gestire sono quelli con angina instabile: si tratta, infatti, di una patologia della
quale è difficile fare diagnosi perché ci si può basare solo su quanto riportato dal pz e al
massimo su qualche alterazione dell’ECG. Per quanto riguarda, invece, i pz che hanno avuto
IMA, il rischio di un secondo evento nel primo anno è di circa il 20%, poi si riduce e si
rialza nuovamente negli anni successivi. Ne deriva che, in generale, il pz con patologia
cardiovascolare, richiede di essere seguito nel tempo e trattato in modo da ridurre non solo
la probabilità di altri eventi, ma la conseguente mortalità ad essi relata. Grazie allo studio
Euroaspire IV è stato, infatti, possibile notare come, in pz che abbiano avuto IMA, spesso
non c’è un controllo adeguato della PA neanche dopo l’evento, così come i valori di
colesterolemia sono troppo elevati e questo non dovrebbe accadere; una delle ragioni è che,
passato il primo anno dopo l’evento, l’interesse per questi pz spesso scema. Si è infatti visto
che non tutti prendono le statine (circa 85%), e anche per chi le prende non sempre si
raggiunge il target di avere le LDL<70mg/dL, non tutti utilizzano i beta bloccanti e ancora
meno ACE-ib o Sartani; quasi tutti invece mantenevano l’antiaggregazione, anche doppia e
anche se non necessaria. Questi sostanzialmente sono i farmaci target e servono per ottenere
i target della prevenzione secondaria:

1. Riduzione dei valori pressori: se un pz smette di prendere i Beta-bloccanti, ha un


rischio che aumenta di circa 2 volte di morte.
2. Riduzione della colesterolemia e, in particolare, delle LDL: se un pz smette di
prendere le Statine, ha un rischio aumentato di morte di 3 volte.
3. Controllo dei valori glicemici sia come prevenzione che come trattamento del DM.
4. Evitare il verificarsi di eventi tromboembolici: se il pz smette di prendere ASA, ha un
rischio aumentato di morte di 1.5 volte.

CONTROLLO DELLA PA IN PREVENZIONE SECONDARIA


In prevenzione secondaria si punta ad ottenere valori di PAS intorno ai 130mmHg, o
leggermente inferiori in caso di pz che mal tollerano una PA elevata, ma senza mai andare
sotto i 120mmHg perché si potrebbe ottenere un effetto controproducente dovuto alla
riduzione della perfusione coronarica. A tal proposito è stato fatto uno studio che dimostrava
come, in pz con malattia coronarica stabile, il rischio nel range di 120-139mmHg era
sostanzialmente sovrapponibile, mentre si alzava sia con valori più bassi che più alti; inoltre,
scendendo sotto i 120mmHg, aumentava la quota di pz che manifestava effetti collaterali
come ipotensione, vertigini o peggioramento della funzione renale, e quindi sospendeva la
tp. Per quanto riguarda la PAD, il target è 70-80mmHg, anche in questo caso cercando di
non scendere al di sotto, fatto che può essere difficile nell’anziano, per le stesse ragioni dette
sopra. Lo studio Invest ha mostrato come, in pz sottoposti a rivascolarizzazione, per
abbassamenti fino a 70mmHg si assisteva ad un miglioramento della prognosi; mentre, nei
pz non sottoposti a rivascolarizzazione fosse meglio non scendere al di sotto degli 80mmHg.
Questo perché, non essendo stato riaperto il vaso, riducendo troppo la PAD, non viene

121
garantito l’apporto ematico attraverso un vaso ancora parzialmente stenotico. Oltre ai valori
in assoluto, bisogna stare attenti anche ad evitare oscillazione nei valori di PA, motivo per
cui sono da preferire farmaci che permettano un’unica somministrazione quotidiana e che
siano in combinazione fissa.

Tra i farmaci che possiamo scegliere per ottenere questo scopo abbiamo:

1. ACE-ib: hanno indicazione IA dunque è fondamentale prescriverli. In particolare, il pz


deve cominciare ad assumerli già dopo 24h dall’evento per cercare di prevenire il
rimodellamento e, dunque, che si possa instaurare uno scompenso cardiaco. Le
controindicazioni principali sono il fatto che il pz abbia una ClCr<30mg/dL, il fatto
che si tratti di una pz donna che potenzialmente potrebbe rimanere incinta, che il pz
abia stenosi bilaterale dell’arteria renale o ce abbia iperpotassiemia. In un tutti gli altri
casi sono utili e vanno dati e l’ideale sarebbe farlo in associazione ai beta bloccanti,
che non possono però essere utilizzati se il pz ha un BAV.
2. Sartani: sono la seconda scelta per pz che non tollerano l’ACE-ib.
3. Diuretici risparmiatori di potassio: sono utili in pz che abbiano anche scompenso
cardiaco o DM, bisogna comunque sempre fare attenzione all’iperpotassiemia e,
nonostante ci sarebbe la possibilità di farlo, sarebbe meglio non associarli agli ACE-ib.
Bisogna comunque ricordare che i diuretici sono da evitare, ad esempio, in pz che
soffrono al contempo di gotta.
4. I Ca antagonisti erano ampiamente usati in soggetti affetti da angina pectoris perché
l’idea era quella che, agendo sulla muscolatura dei vasi coronarici, riducessero gli
spasmi a questo livello e, in secondo luogo, permettono di ridurre la progressione
delle placche. In generale, in prevenzione secondaria sono comunque usati
prevalentemente in associazione. Inoltre, bisogna esercitare cautela: il Diltizaem ha
un effetto inotropo negativo importante quindi va evitato, specie in cronico, in pz che
hanno una riduzione della FE; inoltre, sia il Verapamil che il Diltiazem, non sono da
prescrivere a soggetti con BAV.
5. Beta-bloccanti: sono stati fatti studi che hanno confermato come immediatamente
dopo l’evento essi siano fondamentali, mentre, a distanza di cinque anni dall’evento,
la differenza tra chi li prende e chi non lo fa si accorcia nettamente, quindi, ad oggi ci
si sta chiedendo per quanto abbia senso proseguire con questa tp e si sta ipotizzando
che i Beta-bloccanti potrebbero essere sospesi dopo cinque anni, rimane tuttavia
ancora un ambito nel quale non abbiamo certezze.

Si deve sempre iniziare con una duplice tp, meglio se in associazione fissa; la monotp è da
considerarsi solo in pz fragili e anziani. Le possibili combinazioni di farmaci da utilizzare
sono:

- ACE-ib (o Sartano se intolleranza) + Beta-bloccante


- ACe-ib (o Sartano) + Ca antagonisti non diidropiridinici (ad esempio, pz asmatici che
non possono prendere il beta bloccante).
- Ca antagonisti + diuretici
- Ca antagonisti + Beta-bloccanti

Se poi la duplice tp non è sufficiente si possono aggiungere altri farmaci:

- ACE-ib + Beta-bloccante + Diuretico (+25-50mg di Spinorolattone)


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CONTROLLO DELLA COLESTEROLEMIA IN PREVENZIONE SECONDARIA
In prevenzione secondaria si è visto che sono da preferire Statine ad alto dosaggio come
l’Atorvastatina 80mg rispetto al placebo o a statine meno potenti o efficaci. Lo studio
Improve-it ha paragonato in pz con sindrome coronarica acuta l’uso di Simvastatina 40mg
rispetto all’uso della stessa, associandola però a 10mg di Ezetimibe: si è visto che l’unione
dei due farmaci, dopo due anni e mezzo dall’evento ha permesso una riduzione significativa
degli eventi, specie nei pz che erano al contempo diabetici. Per quanto riguarda, invece,
l’utilizzo degli inibitori di PCSK9, sono stati fati due studi: l’Odyssey e il Fourier, e entrambi
hanno mostrato la loro efficacia nel ridurre sia l’incidenza di eventi, che di ospedalizzazione
che di morte. Il problema in questo caso è il costo: si possono, infatti, aggiungere alla tp solo
se dopo 6 mesi con Statina alla massima dose tollerata e Ezetimibe non viene raggiunto il
target o se, anche dopo aver fatto sospensioni, cambiato dosi e cambiato tipologia di Statina,
il pz ha una comprovata intolleranza alle stesse.

CONTROLLO DELLA GLICEMIA IN PREVENZIONE SECONDARIA


Oltre a cercare di evitare che il pz diventi diabetico, o a tenere sotto controllo la glicemia se
lo è già, si è visto come il punto importante sia tenere sotto controllo lo stato di
infiammazione cronica che ne deriva. A tal proposito è stato fatto uno studio che ha
permesso di osservare come, somministrando il Canakinumab, un inibitore di IL6, si sono
potuti abbassare i livelli di fibrinogeno, PCR e dell’interleuchina stessa con effetti positivi
sulla comparsa di eventi.

PREVENZIONE DEGLI EVENTI TROMBOEMBOLICI -> v.di antiaggreganti.

123
ANTIAGGREGANTI
Le piastrine, formando il cosiddetto trombo bianco, permettono l’emostasi primaria. Quando
si verifica un danno endoteliale, dopo una prima fase denominata fase vascolare, in cui si
assiste a fenomeni vasocostrittori, le piastrine riconoscono il collagene esposto a seguito
della discontinuità che si è verificata e aderiscono. La cosiddetta fase piastrinica del processo
emostatico comincia dopo pochi secondi e si conclude fisiologicamente nell’arco di pochi
minuti: il tappo è, infatti, temporaneo e instabile e necessita della terza fase, quella
coagulativa, per permettere un arresto permanente del sanguinamento. Durante la fase
piastrinica si verificano adesione, attivazione e aggregazione. L’endotelio danneggiato espone
il vWF che viene riconosciuto da GP1b che è un’integrina piastrinica: in questo modo si
verifica l’adesione che è facilitata anche dall’esposizione del collagene. Per l’attivazione è
importante il TXA2 perché, attraverso la fosfolipasi, si avviano i percorsi che porteranno alla
liberazione di sostanze, tra cui l’ADP e la serotonina. Il primo media l’inibizione
dell’adenilato ciclasi legandosi ai recettori 2PY, la serotonina ha, invece, effetto pro-
aggregante e vaso-costrittore. L’aggregazione, infine, avviene mediante ponti di fibrinogeno
che si formano sfruttando altre integrine di membrana (GPIIb, GPIIIa) che sono rese
riconoscibili dai processi che caratterizzano l’attivazione piastrinica.

Il problema è che, dal punto di vista evolutivo, questi sistemi, così come quelli che
permettono la fase coagulativa, si sono sviluppati in un’epoca in cui era fondamentale
arrestare un sanguinamento nel tempo più breve possibile, ma, nel mondo di oggi, questo
processo risulta addirittura troppo efficace rispetto alle nostre necessità e troppo sbilanciato a
favore della trombosi. Per questa ragione, farmaci che agiscono sul processo emostatico, sia
primario che secondario, sono molto diffusi.

COX INIBITORI
Nonostante quasi tutti i FANS abbiano come meccanismo d’azione proprio il blocco di
questo enzima, quello che viene sfruttato anche come antiaggregante è sostanzialmente
l’ASA, il quale è in grado di indurre questo effetto in maniera irreversibile. Questo principio
attivo, infatti, determina un’acetilazione irreversibile della COX e, in particolare, a carico del
gruppo ossidrile OH di un residuo serinico posto a 70aa dal C terminale della catena
(Ser529). Dal momento che le piastrine non sono in grado di fare sintesi proteica, questo
blocco irreversibile impedisce il funzionamento della COX1 per tutta la durata della vita
della piastrina stessa, ovvero per circa 10 giorni. Questo fatto è importante da sapere nel
caso in cui sia necessario sospendere la tp con ASA, ad esempio in vista di un intervento
chirurgico: se si vuole avere l’annullamento dell’effetto antiaggregante è necessario che lo si
faccia almeno 7-10 giorni prima. La sospensione, comunque, non deve essere fatta in pz ad
alto rischio, candidati a chirurgica cardiaca o a bypass aorto-coronarico. Altra
considerazione importante da fare è che potenzialmente ASA è in grado di bloccare sia la
COX1 piastrinica che la COX2 prodotta dall’endotelio: alle dosi comunemente usate di 100-
500mg/die, ovvero nettamente inferiori rispetto a quelle impiegate per avere un effetto anti-
infiammatorio, l’effetto è invece sostanzialmente selettivo per COX1 [Secondo Memo non è
questione di dosi, semplicemente la cellula endoteliale, a differenza delle piastrine, può fare
sintesi proteica e, dunque, produrre nuova COX2]. Viene così mantenuta l’attività della
COX2 che ha di per sé effetto antiaggregante: permette, infatti, la produzione di PGI2 con
effetto vasodilatante e antiaggregante. Inibendo, invece, COX1, l’ASA è in grado di inibire
l’aggregabilità piastrinica e di aumentare il tempo di sanguinamento; non ostacola, invece,

124
l’adesione piastrinica. Il tempo di sanguinamento può essere facilmente calcolato utilizzando
una struttura simile ad una ghigliottina per praticare due taglietti sull’avambraccio (Test di
Ivy): con una carta assorbente si devono assorbire le gocce di sangue per evitare che si
verifichi l’emostasi secondaria e vedere solo l’efficacia dell’aggregazione. In condizioni
fisiologiche il tempo di sanguinamento deve essere inferiore a 13min.

I minimi dosaggi efficaci variano in base alla ragione per cui viene prescritta:

- 50mg per la prevenzione di ischemia cerebrale transitoria e ictus ischemico


- 75mg in caso di ipertensione o angina stabile o instabile.
- 160mg in caso di IM acuto o di ictus ischemico acuto.

Secondo alcuni studi, addirittura, in prevenzione primaria degli eventi trombotici, possono
essere sufficienti 30mg/die. In realtà, comunque, l’efficacia preventiva dell’ASA è tanto
maggiore quanto più è elevato il rischio del pz; nei soggetti sani è invece bassa.

Dal punto di vista della farmacocinetica, ASA è assorbito a livello gastrico e nella prima
parte del tenue e raggiunge il picco plasmatico in circa 40min; se invece si vuole avere un
picco più tardivo si possono usare formulazioni gastroprotette. Dopo 30min dall’assunzione
comincia l’effetto farmacologico e l’emivita è di 15-20 min, nonostante, come detto, l’effetto
perduri molto più a lungo. L’eliminazione è per via renale ed è favorita da un pH urinario
basico.

Le controindicazioni sono:

1. Dispepsia
2. Lesioni gastriche come ulcere, ernia iatale o reflusso
3. Sindromi emorragiche come l’emofilia o la malattia di Von Willebrand.
4. Trombocitopenie e trombocitopatie
5. Gotta
6. Grave insufficienza renale e epatica
7. Età minore di 12 anni per il rischio di sindrome di Reye, ovvero di un’encefalopatia
con steatosi epatica massiva.
8. Allattamento; non rappresenta, invece, una controindicazione la gravidanza, dove, al
contrario è impiegato nel trattamento profilattico della pre-eclampsia.

Se un pz in trattamento con ASA sviluppa un evento vascolare o più, è necessario chiedersi


se ci sia resistenza alla tp antiaggregante o se si sia di fronte ad un fallimento clinico. Infatti,
in alcuni pz tale evento può verificarsi perché il farmaco non svolge la propria azione a
causa di una resistenza da parte delle piastrine oppure perché esistono altri pathway che non
vengono contrastati da questa tp. Nel caso di sospetta resistenza, come prima cosa devo
assicurarmi che il pz assuma effettivamente la tp prescritta, in secondo luogo è importante
eliminare le tp che possono interferire: ad, esempio, se al contempo il pz fa una tp cronica
con FANS, essi competeranno per il legame, ma con questi ultimi sarà reversibile e, dunque,
l’effetto verrà rapidamente meno. Se nessuna di queste cose si verifica è necessario pensare
ad un cambio di farmaco; non è invece efficace aumentare la dose perché l’effetto
antiaggregante dell’ASA è di tipo tutto o nulla. A prescindere, i pz che hanno effettivamente
resistenza all’ASA hanno statisticamente una maggiore probabilità di andare incontro ad
eventi come infarto miocardico, lesioni vascolari e morte.
125
Sempre per quanto riguarda il metabolismo dell’acido arachidonico, sono ad oggi in fase di
studio diverse molecole che andrebbero ad agire in momenti diversi di questo pathway. Si è
pensato, infatti, di andare ad inibire anche la trombossano-sintetasi o il recettore del
trombossano, così come di utilizzare farmaci ad azione combinata. In alcuni casi i trial sono
stati bloccati a causa della scarsa tollerabilità.

DIPIRIDAMOLO
Questo farmaco è in grado di determinare un incremento della produzione e secrezione, da
parte dell'endotelio vascolare, di PGI2: una prostaciclina capace di indurre vasodilatazione
ed inibire l'aggregazione piastrinica. Inoltre, il Dipiridamolo può esercitare un effetto diretto
sulle piastrine, inibendo la fosfodiesterasi piastrinica ed incrementando i livelli di cAMP
intrapiastrinico, impedendo la mobilizzazione del calcio intracellulare, bloccando la
fosfolipasi e tutti quei meccanismi alla base dell'attività coagulante. L’effetto è un
miglioramento del flusso coronarico, dell'ossigenazione e del metabolismo miocardico,
nonché un generale miglioramento delle proprietà emodinamiche del paziente. Può essere
prescritto da solo o in associazione ad ASA, aumentando l’efficacia di quest’ultima.

ANTAGONISTI DEL RECETTORE ADP – TIENOPIRIDINICI


Fanno parte di questo gruppo Clopidogrel (75mg/die), più selettivo, e la Ticlopidina (250-
500mg/die). Il Clopidogrel è circa sei volte più potente e viene generalmente meglio
tollerato; il profilo di efficacia è probabilmente superiore all’ASA: i dati finora raccolti
indicano maggiore efficacia nel prevenire eventi cardiovascolari maggiori. La Ticlopidina,
inoltre, è ad oggi poco utilizzata a causa dei suoi effetti collaterali anche importanti come
neutropenia o agranulocitosi.

Si tratta di profarmaci che necessitano di attivazione epatica (Citocromo p450): una volta
attivati sono in grado di esplicare il loro meccanismo d’azione agendo come antagonisti non
competitivi dei recettori P2Y12. Si tratta di recettori di membrana che, a seguito del legame
con ADP, permettono l’innesco del pathway cellulare che porta alla stabilizzazione
dell’aggregazione piastrinica. Essendo il legame irreversibile, come nel caso dell’ASA, si
ottiene un’inibizione per tutta la durata della vita della piastrina con allungamento del tempo
di sanguinamento.

Le controindicazioni comprendono grave insufficienza epatica e potenziali cause di


sanguinamento come la presenza di ulcere peptiche. Non sono inoltre presenti tanti dati
riguardo all’uso in gravidanza e durante l’allattamento, quindi si preferisce evitarlo,
nonostante non ci siano chiare evidenze di teratogenicità.

[Da farmaco: esiste anche il Ticagrelor che, pur mantenendo il medesimo meccanismo
d’azione dei precedenti, viene detto non tienopiridinico e si differenzia perché è già attivo e,
dunque, ha un’azione più rapida]

INIBITORI DEI RECETTORI GLICOPROTEICI IIB-IIIA


Il meccanismo d’azione delle molecole appartenenti a questo gruppo si basa sul rendere
impossibile la creazione di ponti tra le piastrine e con l’endotelio. L’indicazione principale al
loro utilizzo è la sindrome coronarica intermedia, si possono poi usare dopo una PTCA o in
alcune forme di infarto NSTEMI: si tratta, infatti, di farmaci da somministrare EV che hanno
rapida azione. In generale, abbiamo:

126
1. Abciximab: è un anticorpo monoclonale costituito da una porzione Fab combinata
con una struttura chimerica di origine umana o murina. Se ne somministrano
0.25mg/kg in bolo e poi si fa infusione continua alla dose di 0.125mcg/Kg/min per
12h se PTCA o per 36h in presenza di sindrome coronarica acuta. L’emivita è molto
breve, ma l’azione antipiastrinica è prolungata. Il problema è che più un farmaco è
attivo, più ci si devono aspettare effetti collaterali: in particolare, il più temibile è
l’insorgenza di piastrinopenia (1.6%), motivo per cui prima di somministrarlo è
importante richiedere la conta piastrinica [solo lui o tutti? Secondo lo studio Pursuit
pare sia un problema anche dell’eptifibatide]
2. Eptifibatide
3. Tirofiban
4. Lamifiban

Come è ovvio che sia, questi farmaci aumentano il rischio di sanguinamento, che può essere
considerato major bleeding in caso in cui porti alla necessità di fare una trasfusione o se si
associa ad un prolungamento dell’ospedalizzazione. Ciò è stato confermato anche dai vari
studi che hanno mostrato come questi farmaci si associno maggiormente ad eventi
emorragici rispetto ad un placebo. In caso l’emorragia insorga contestualmente a trattamento
con Abciximab occorre infondere piastrine perché il legame che quest’ultimo è in grado di
formare con le glicoproteine è irreversibile; al contrario, se sono stati usati gli altri farmaci è
sufficiente sospendere l’infusione perché, nonostante abbiano emivita più lunga, il legame
che formano è labile e transitorio.

INIBITORI DELLA TROMBINA


Sono farmaci che, pur agendo a livello piastrinico, hanno sostanzialmente azione
anticoagulante. Il primo ad essere stato messo in commercio è lo Ximelagatran, il quale è
però stato rapidamente ritirato a causa dell’epatotossicità ad esso correlata. È stato allora
introdotto il Dabigatran che non permette il passaggio da fibrinogeno a fibrina e fa parte dei
NAO (-> v.di anticoagulanti).

INDICAZIONI ALL’USO DI UNA TP ANTIAGGREGANTE

1. Prevenzione primaria

Donne >65anni con rischio cv NON basso ASA 81mg/die o IIa B


100mg a giorni alterni
Donne <65anni con rischio cv medio-alto IIb B
(prevenzione ictus ischemico)
Donne <65anni con rischio cv basso // III B (NO)
Uomini con rischio alto (rischio di eventi cv a 10 ASA 75-162mg/die IA
anni >10%)
Diabetici con rischio di eventi cv a 10 anni >10% ASA 75-162mg/die IIa B
in assenza di elevato rischio di sanguinamento o di
altri farmaci che inibiscono la coagulazione
Diabetici a basso rischio // III C (NO)
Diabetici con rischio medio ? IIb C

Sostanzialmente: gli unici per cui ci siano forti evidenze a favore della
raccomandazione di una tp antiaggregante sono gli uomini con elevato rischio
cardiovascolare. Deve poi essere considerata per donne anziane con un rischio
127
medio-elevato e per diabetici con un rischio importante. Al contrario, in caso di
diabetici a basso rischio o di donne con meno di 65 anni in assenza di fattori di
rischio, le evidenze sono contrarie alla prescrizione di una tp antiaggregante. Ci sono
poi situazioni intermedie nelle quali non è ancora chiaro come si debba procedere e
per le quali le linee guida ci dicono che l’antiaggregazione potrebbe essere presa in
considerazione: è il caso di diabetici con rischio intermedio o di donne giovani ma
con rischio medio-alto. Bisogna comunque sempre considerare il pz nella sua
interezza e valutare, ad esempio, quale sia il suo rischio emorragico.

2. Prevenzione secondaria

ASA 75-162mg/die IA
+ per un anno
Pz con Coronary artery disease (CAD) o Sindrome Clopidogrel 75mg/die IB
coronarica acuta senza sopraelevazione del ST Plasgruel 10mg/die IB
(NSTE-CAS) Ticagrelor 90mg/die in IB
due somministrazioni
(solo per pz che hanno
fatto PCI per NSTE-CAS)
Pz con Coronary artery disease (CAD) o Sindrome Clopidogrel 75mg/die IB
coronarica acuta senza sopraelevazione del ST Plasgruel 10mg/die IC
con allergia all’ASA Ticagrelor 90mg/die in IC
due somministrazioni
Pz che hanno subito interventi percutanei delle ASA 81-325mg/die IA
coronarie (PCI) o altre procedure interventistiche
ASA 81-325 mg/die IA
+
Pz in tp fibrinolitica per STEMI Clopidogrel 75mg/die
per almeno 14gg IA
o fino a un anno IC
ASA 162-325mg/die per IA
Pz con stent coronarico metallico almeno un mese,
ASA 75-162mg/die per IA
sempre
ASA 162-325mg/die per IA
3 mesi con Sirolimus, per
Pz con stent coronarico medicato 6 mesi con Paclitaxel
ASA 75-162mg/die per IB
sempre
Pz con stent e alto rischio di sanguinamento ASA 75-162mg/die come IIa C
tp iniziale
Pz che hanno fatto bypass aorto-coronarico ASA 100-325mg/die IA
I (CABG)

In prevenzione secondaria l’utilizzo di antiaggreganti è molto più raccomandato


rispetto alla prevenzione primaria, tanto che in molti casi è sostanzialmente
mandatorio prescriverli. Bisogna, tuttavia, considerare che, in caso il rischio di
mortalità per sanguinamento superi il beneficio, si può pensare di sospendere la tp.
Inoltre, anche in caso in cui non sia così elevato, il rischio di sanguinamento è
sempre presente e ci possono essere problemi a livello gastrico –> IPP.

128
FIBRILLAZIONE ATRIALE
Si tratta di una tachiaritmia atriale caratterizzata da una scoordinata attivazione atriale che
porta ad avere una sistole atriale non emodinamicamente efficace.

Dal punto di vista epidemiologico l’incidenza aumenta notevolmente con l’età e spesso fa
seguito a patologie organiche del cuore: sono, infatti, da considerarsi condizioni
predisponenti l’ipertensione arteriosa (dà ipertrofia ventricolare e conseguente dilatazione
atriale), l’insufficienza cardiaca (specie di classe funzionale IV), le valvulopatie, i difetti
interatriali con sovraccarico di volume atriale, la cardiopatia ischemica, il dm e l’obesità. In
un cuore predisposto, ci possono essere anche dei trigger come l’alcol, le infiammazioni, gli
interventi chirurgici o l’embolia polmonare. Esistono poi forme solitarie/idiopatiche che
compaiono in soggetti giovani senza evidenti fattori causali o forme congenite (cr
10q). Considerando tutta la popolazione adulta, la prevalenza è del 3%, raggiunge però il
10% nei soggetti ultraottantenni.

Esistono due ipotesi fisiopatologiche: potrebbe trattarsi di un fenomeno dovuto a circuiti di


rientro (FA secondarie a patologie che portano all’ingrandimento dell’atrio) oppure alla
presenza di cellule, generalmente localizzate all’imbocco delle vene polmonari nell’as, che
sono in grado, grazie alle loro caratteristiche embrionali, di dare l’input alla contrazione. In
entrambi i casi, comunque, la FA scatena la FA stessa perché porta a rimodellamento
elettrico e meccanico: dunque, se da una parte alterazioni dell’atrio possono portare
all’insorgenza di questa patologia, d’altra parte la fa stessa porta a compromissione della
funzione cardiaca e a modificazioni della struttura.

Il fatto di avere foci che si contraggono in modo disomogeneo porta diverse conseguenze:

1. Il ventricolo si riempie in misura minore perché la sistole atriale contribuisce al


riempimento per un 30%. Se il soggetto ha poi una ridotta compliance ventricolare, la
sistole atriale acquisisce un’importanza ancora maggiore e, dunque, il volume di
sangue protosistolico in ventricolo può essere ridotto in misura importante e il pz avrà
dispnea, astenia e altri sintomi legati all’insufficienza emodinamica.

2. A livello del nav arrivano molte stimolazioni e, nonostante non riescano a passare
tutte (!il simpatico è in grado di ridurre il periodo refrattario), si ha un aumento della
frequenza di scarica verso i ventricoli con aumento della FC e irregolarità dei battiti. In
realtà, la risposta ventricolare può variare ed essere elevata, normale o bassa. In
quest’ultimo caso si può avere sincope.

Ne esistono diverse forme:

1. FA parossistica: si tratta di un episodio che si esaurisce spontaneamente in meno di


48h.

2. FA persistente: dura almeno una settimana e richiede cardioversione perché non


regredisce da sola. Per fare cardioversione è importante verificare prima che non siano
già presenti trombi, quindi, o si procede con un ecocardio o si da tp anticoagulante e
poi si aspettano 40gg per effettuare la procedura (la prima strategia è preferibile).

129
3. FA persistente a lungo termine: di durata maggiore a 1 anno. In questi pz
generalmente sono già stati fatti svariati tentativi di cardioversione e, dunque, è da
valutare se sia opportuno riprovare.

4. FA permanente: non si interviene più per cardiovertire il paziente.

5. FA silente: può essere identificata solo con PM o con registratori sottocutanei.

Se la forma è parossistica non si assiste ad un aumentato rischio trombotico; se la FA dura


più di 48h è necessario prescrivere anticoagulanti o procedere alla chiusura chirurgica
dell’auricola che è la sede più frequente di sviluppo dei trombi. Essi sono pericolosi perché
possono portare a fenomeni microembolici cerebrali: l’ictus è, infatti, una complicanza di
questa patologia e si verifica 3 volte più frequentemente rispetto alla popolazione generale. Il
rischio tromboembolico è particolarmente elevato nelle forme silenti poiché, in assenza di
diagnosi, non viene fatta la prevenzione.

La mortalità dei pz con FA è maggiore nei pz con FA persistente, ma, l’incidenza di end point
primario è massima in quelle parossistiche.

La clinica di questi pz comprende: cardiopalmo, dispnea, astenia e, nei predisposti, dolore


toracico. In base alla gravità dei sintomi possiamo applicare l’EHRA score:

Per fare diagnosi, oltre che palpando il polso del paziente, questa anomalia è ben visibile
anche con l’ECG: le onde P non saranno più presenti e verranno sostituite da oscillazioni
irregolari lungo l’isoelettrica (onde f, ben visibili in V1) che precedono i complessi QRS.
Aumentando la frequenza (generalmente 100-160 bpm), questi ultimi saranno più ravvicinati
e a distanza irregolare. Per distinguerla dal flutter: in questo caso c’è un rapporto conservato
tra atri e ventricoli espresso dalla presenza dell’onda F e la frquenza ventricolare è sempre un
sottomultiplo di quella atriale. Altro esame importante è l’ecocardiogramma, preferibilmente
transesofageo: è importante perché permette di rilevare la presenza di trombi, si può inoltre
andare a vedere se è presente una sottostante cardiopatia organica, fondamentale anche per
prendere le decisioni terapeutiche.

La tp in acuto è analoga a quella del flutter. Per prima cosa devo dare Eparina e devo
verificare se c’è instabilità emodinamica:

- Sì –> Cardioversione elettrica transtoracica sincronizzata da effettuarsi all’apice


dell’onda R per scongiurare il rischio di arresto sinusale. Deve essere effettuata in pz

130
scoagulato: ci sono una serie di studi che hanno paragonato tutti i NAO al Warfarin,
con risultati buoni in termini di efficacia e sicurezza. La terapia non andrebbe
interrotta nemmeno dopo la cardioversione.
- No –> Cardioversione farmacologica

La cardioversione farmacologica può essere fatta con diversi farmaci: se il pz non ha


patologie strutturali cardiache sottostanti si utilizzano antiaritmici di classe IC, ovvero
Flecainide (2mg/kg EV in 10min) o Propafenone (2mg/kg EV in 10min), da somministrare
sotto continuo monitoraggio cardiologico per registrare il rientro al ritmo sinusale Se il pz ha
patologie strutturali cardiache, invece, si usa l’Amiodarone (5mg/kg in glucosata in 1h), che
raggiunge l’effetto massino a 24h dalla somministrazione iniziale. Se il paziente non si
cardioverte va proseguita un’infusione continua e poi bisogna vedere se continuare la sua
somministrazione come misura profilattica della FA oppure no, se non la prosegue prima
della dimissione bisogna fare un carico di farmaco per via orale. I farmaci fino ad ora visti
sono utili per il riprstino del ritmo sinusale, ci sono poi farmaci volti al controllo della
frequenza: Betabloccanti e Calcio antagonisti possono essere usati per controllare la
frequenza ventricolare e si danno soprattutto a pz emodinamicamente stabili in cui non
conosciamo il momento preciso d’inizio della FA. Ci accontentiamo della riduzione della FC
per garantire una portata adeguata e per ridurre la sintomatologia sgradevole accusata dal
pz. Possono essere iniziati per ev e poi proseguiti per bocca. Si possono dare 5mg EV in bolo
di Verapamil, 0.25mg/kg in bolo di Diltiazem o Metoprololo EV o per os. La Digitale può
essere necessaria in alcuni pz per mantenere un adeguato controllo della frequenza
ventricolare. Le fiale sono da 0,5 mg, se ne somministra di solito 1 in bolo lento e può essere
poi eventualmente ripetuta, il dosaggio della successiva terapia per bocca sarà della metà
dunque 0,25 mg.

Recentemente è stato pubblicato un nuovo studio sul NEJM che paragona, in pz con FA di
recente insorgenza, i risultati della cardioversione immediata e di quella ritardata. Nella
cardioversione ritardata il pz non viene subito cardiovertito, ma viene messo in terapia
anticoagulante e di controllo della frequenza ventricolare e rivalutato a distanza di 4
settimane. In questo modo elimino il dubbio che la FA riferita come a new onset sia in realtà
presente da tempo (capita spesso che il paziente sia in FA da tempo senza rendersene conto)
e quindi il rischio di embolia in seguito a cardioversione. Ne è risultato che i risultati erano
sostanzialmente sovrapponibile e che il 70% dei pz che avrebbe dovuto essere sottoposto a
cardioversione ritardata in realtà andava incontro a cardioversione spontanea. Le linee guida
attuali indicano comunque come sia appropriato cardiovertire appena possibile, questa cosa
sta, dunque, però, venendo messa in discussione perché aspettando si può ottenere il
risultato in maniera spontanea, evitando così costi maggiori e procedure fastidiose per il pz.

Se l’aritmia è presente già da tempo, o se comunque l’insorgenza non è databile, si può


procedere in due modi:

1. In una grande struttura con ecografista disponibile e pz che tollera poco l’FA: si
imposta la terapia anticoagulante con Eparina e si richiede un ecocardio trans-
esofageo per valutare la presenza di un trombo in auricola. Se ci sono trombi in atrio
non si può fare la cardioversione; si continua dunque con la tp anticoagulante (meglio
un anticoagulante diretto, non il Warfarin) per tre settimane, dopodichè si ripete
l’ecocardio TE e, se il trombo non è più presente, si procede con la cardioversione
elettrica o, più frequentemente per comodità, farmacologica.

131
2. Di fronte a disponibilità minori e pz che tollera meglio la FA: si rallenta la frequenza
ventricolare e si dà terapia anticoagulante per tre settimane e, solo allora, si considera
la cardioversione elettrica. Se il ritmo sinusale è ripristinato continuo a somministrare
anticoagulante per altre 3-4 settimane se il punteggio CHA2DS2-VASc è basso, o più
a lungo se è alto (es di fronte a cardiopatica dilatativa, perché so che la FA prima o
poi ricompare e si rifà un trombo)

In cronico, quello che ci interessa è controllare la frequenza ventricolare o, in alternativa il


ritmo, ed evitare l’insorgenza di trombi. Per quanto riguarda la FC, deve essere mantenuta
bassa e quindi si danno beta-bloccanti, calcio antagonisti, digitale (! I non diidropiridinici
non possono essere prescritti se c’è anche scompenso; i digitalici si e anche i beta-bloccanti).
Per decidere se è appropriato prescrivere un anticoagulante, si devono valutare il rischio
tromboembolico (CHA2DS2VASC SCORE) e il rischio di sanguinamento (HAS-BLED
SCORE):

- CHA2DS2-VASC>2 –> anticoagulante: le nuove linee guida americane hanno


stabilito che il Warfarin, in assenza di controindicazioni, sia da preferire. Le linee
guida europee, invece, permettono di scegliere tra Warfarin e NAO (che sono da
preferire se il rischio emorragico è elevato, i quali però non possono essere dati se la
funzionalità renale è bassa o in caso di valvola meccanica)
- CHA2DS2-VASC=1 –> posso scegliere in base alle caratteristiche del pz tra
anticoagulante o aspirina.
- CHA2DS2-VASC=0 –> aspirina oppure niente in base alle caratteristiche del pz (es pz
giovane che dopo esercizio fisico strenuo e disidratazione ha episodio parossistico di
FA)

Se ne risulta che il pz non può assumere tp anticoagulante si procede per via percutanea a
chiudere l’auricola dell’as.

132
EMBOLIA POLMONARE
Si definisce embolia polmonare l’ostruzione acuta, completa o parziale, di uno o più rami
dell’arteria polmonare. Dal punto di vista eziologico, alla base possiamo avere:

1. Trombi rossi: sono a partenza generalmente da TVP degli arti inferiori.


Sostanzialmente a livello di un vaso degli arti inferiori si ha formazione di un trombo
rosso: questa condizione è favorita in presenza della triade di Virchow. Essa prevede
l’insieme di una condizione di stasi ematica imputabile ad esempio ad insufficienza
venosa, ad un aumento della viscosità ematica o alla presenza di un’ostruzione, di un
danno tissutale collegato o alla stasi stessa (c’è ipossia quindi si possono avere danni
all’endotelio) oppure ad esempio a interventi chirurgici, ustioni o neoplasie; e di una
condizione di ipercoagulabilità. Nei soggetti definiti trombofilici è presente un deficit a
livello del sistema antitrombotico fisiologico, ad esempio si può avere un deficit di
antitrombina, della proteina C o della proteina S; è però molto più comune che
l’ipercoagulabilità sia acquisita (obesità, immobilizzazione, neoplasie, ct, gravidanza,
malattie autoimmuni come la sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi). Dunque, dovrò
avere il sospetto di una forma primaria nel caso in cui ci sia una storia familiare
positiva o se si ha un soggetto molto giovane con episodi di TVP non spieganili. Il
trombo può situarsi sia nelle arterie prossimali dell’arto inferiore che in quelle distali, il
problema è che la seconde sono spessissimo asintomatiche. Segni e sintomi tipici di
TVP sono arrossamento, edema, calore, dolorabilità spontanea o evocata con
manovre come quella di Homans o di Bauer. Per indagare una condizione di questo
tipo si può fare un eco-color-doppler il quale è però utile nei soggetti sintomatici per
confermare il sospetto mentre risulta meno dirimente per i pz asintomatici; un metodo
molto importante è poi il dosaggio del D-dimero. Si tratta di una molecola costituita
da frammenti di fibrina: il dosaggio è quindi molto sensibile ma poco specifico quindi
è utile soprattutto per escludere ma non lo è più di tanto per porre diagnosi definitiva
perché può essere indice anche di situazioni come interventi chirurgici, traumi,
infezioni, infiammazioni gravi, gravidanze e neoplasie. Si può dunque dire che questa
metodica abbia elevato potere predittivo negativo ed elevata sensibilità ma bassa
specificità (40%). Al di sotto dei 50 anni sono valori normali quelli al di sotto dei 50
picogrammi/L, dopo questa età bisogna però tenere presente che i range fisiologici
aumentano di 10 picogrammi ogni anno di età. È importante riuscire a fare diagnosi di
TVP e trattarla o ancor meglio prevenirla nei soggetti a rischio perché, oltre all’embolia
polmonare, questa patologia può portare nel 30-50% dei casi ad avere a distanza di
anni una sindrome post-trombotica. Nel caso in cui il trombo si formi a livello di una
valvola essa perderà infatti nel tempo la sua funzionalità e questo porta a dilatazione
venosa con fuoriuscita di plasma per l’aumento pressorio dato dalla mancata
frammentazione della colonna ematica.
2. Trombi grassosi in seguito a fratture ossee.
3. Trombi amniotici: le vene uterine vicino al parto si dilatano e possono lasciar passare
del liquido amniotico.
4. Trombi gassosi
5. Trombi neoplastici
6. Trombi settici

133
Sulla base di quanto detto l’immobilizzazione (aereo, ospedalizzazione prolungata…),
l’infarto acuto del miocardio, i traumi del midollo spinale e la sedentarierà rappresentano i
fattori predisponenti più importanti. Meno rilevanti sono la ct, accessi venosi centrali, la tp
sostitutiva ormonale o quella contraccettiva, le malattie autoimmuni, il post-partum, la
trombofilia e l’uso di EPO.

Dal punto di vista clinico, possiamo avere:

1. Tachipnea
2. Rantoli
3. Tachicardia
4. Talora febbre
5. Dolore toracico simil-infartuale per stiramento dei nocicettori posti sulla parete
dell’arteria polmonare che viene stirata dalla dilatazione.
6. Dolore pleuritico: si collega a infarto polmonare con necrosi emoraggica.
7. Dispnea da stimolazione dei recettori delle fibre C polmonari
8. Cianosi
9. Sincope (più rara)
10. Tavolta shock e ipotensione

Le DD sono pertanto con infarto del miocardio, dissezione aortica, polmonite e pleurite.

I quadri clinici dipendono dalla quantità di emboli, dalla frequenza con la quale si
susseguono i fenomeni embolici e dalla reazione umorale-nervosa del circolo polmonare.
Sono poi importanti le condizioni cliniche basali del pz. Possiamo avere:

1. Quadro cardiocircolatorio: si ha sostanzialmente uno scompenso acuto destro. C’è


un aumento repentino del post-carico del vd che, data la rapidità d’insorgenza, non
permette un compenso efficace. Abbassandosi la portata del cuore dx si riduce anche
il pre-carico del cuore sx e dunque si riduce la portata anche del cuore sinistro.
Questo porterà a tachicardia compensatoria che non è però in grado di fare fronte alla
gravità del quadro ma può potenzialmente peggiorarlo perché in una condizione di
riduzione della pressione si vanno ad aumentare le richieste del cuore e quindi si può
avere ischemia o infarto. Quindi: si avrà ipotensione, sincope e talvolta anche shock
cardiogeno; se l’embolia è massiva può portare anche a morte improvvisa. È dunque
fondamentale fare diagnosi in maniera tempestiva: ci si può avvalere dell’ECG (bdb
dx e spostamento dell’asse) o dell’ecocardio fast. L’11% dei soggetti colpiti muore
entro la prima ora.

2. Quadro polmonare: è meno grave del precedente e la sintomatologia principale è


data dall’ipossiemia (è parenchimale perché c’è un aumento del gradiente alveolo-
arterioso per O2) e dall’ipocapnia. Si ha stimolazione delle fibre C per congestione
vascolare e trasudazione e stimolazione dei chemocettori periferici con aumento della
ventilazione. Quando ci sono zone scarsamente perfuse si ha un aumento delle
resistenze come meccanismo di compenso per deviare il sangue; nelle aree
embolizzate ci sarà poi atelettasia per mancanza di surfactante. L’aumento della
frequenza respiratoria, nonostante sia un meccanismo di compenso, aggrava il quadro
perché si ha comunque ipossiemia ma ad essa va ad aggiungersi l’ipocapnia con
alcalosi respiratoria acuta.

134
3. Infarto polmonare: si verifica quando un embolo di dimensioni ridotte va ad
incunearsi a livello delle arteriole polmonari in un soggetto in cui la circolazione
bronchiale che dovrebbe compensare non è sufficiente. Si ha dunque in pz con BPCO
o fibrosi cistica ma non deve essere considerato un quadro con gravità importante. La
triade classica di sintomi è costituita da dolore pleuritico, emoftoe e febbricola. Infatti
essendo una patologia periferica può interessare la pleura ma non dare un quadro
cardio-circolatorio o polmonare. La situazione, potenzialmente riconoscibile con rx –
lievi opacità periferiche – o meglio con una tc, non deve essere sottovalutata perché
potrebbe essere prodromica di un’embolia massiva.

4. Quadro silente: piccole embolie polmonari non curate perché asintomatiche sono
pericolose perché nel tempo possono portare all’insorgenza di ipertensione arteriosa
polmonare di tipo tromboembolico con scompenso destro. Se, infatti, l’embolo non si
risolve spontaneamente, può diventare fibrotico e adeso all’endotelio portando ad un
aumento delle resistenze vascolari polmonari con conseguente deviazione del flusso
verso le zone sane. Probabilmente si ha neovascolarizzazione a valle
dell’embolizzazione grazie ad anastomosi con il circolo bronchiale che è però ad alta
pressione e dunque aumenta lo stress vasale. L’ipertensione polmonare correlate a
embolia polmonare è frequente soprattutto in pz che abbiano fattori genetici
predisponenti, che siano splenectomizzati, che facciano tp sostitutiva tiroidea o che
abbiano neoplasie. Si tratta con antagonisti del recettore per l’endotelina o con
stimolatori della guanilato ciclasi.

Come prima cosa è importante capire quale sia effettivamente la probabilità che un dato pz
abbia embolia polmonare. Per farlo ci sono diverse scale come quella di Wells o di Ginevra.
Nel primo caso si considera la sintomatologia di TVP, la tachicardia, il fatto che il soggetto
sia stato immobilizzato e altre caratteristiche relative sia alla sintomatologia del pz, sia al
fatto che abbia potuto sviluppare una trombosi. In passato calcolare il punteggio di Wels era
molto complesso, ora si è semplificato e si assegno ad ogni fdr un punteggio di 1 o 0: se il
totale è >2 l’embolia polmonare è probabile, se è >4 è fortemente probabile. Lo score di
Ginevra comprende più o meno gli stessi punti, ad eccezione delle possibili diagnosi
alternative (fonte di soggettività), valuta: FC, emottisi, recenti frattura, dolore alla gamba, età
avanzata. Per ogni criterio si assegna un punteggio di 1, se la FC è >95bpm se ne
aggiungono 2.

Dopo aver stratificato il rischio del pz, la prima cosa che ci interessa sapere è se il pz è in
shock oppure no perché questo, in associazione all’ipotensione, mi fa considerare il pz
come un pz ad alto rischio:

- In pz in shock e ipotesi, quindi emodinamicamente instabili, è necessario fare


immediatamente un’angioTC e cominciare subito una tp anticoagulante. Se la TC non
fosse disponibile, si può fare un ecocardio per vedere segni di sovraccarico
ventricolare destro e si può misurare la pressione in arteria polmonare che sarà
elevata (>25mmHg): se l’esame è positivo si comincia subito il trattamento. Per le
donne gravide si preferisce fare scintigrafia perché la quota di radiazioni è inferiore. Il
trattamento trombolitico prevede di usare Streptochinasi, Urochinasi e rtPA e poi di
proseguire con infusione di eparina. Questo trattamento NON può essere fatto se c’è
un sanguinamento in atto o se il pz recentemente è stato sottoposto ad interventi
chirurgici (3 settimane) o se ha una neoplasie cerebrale che potrebbe sanguinare; in
135
questi casi somministro solo l’eparina. L’eparina, infatti, se ce ne fosse bisogno,
potrebbe essere immediatamente sospesa cessando il suo effetto. Inoltre, se la
trombolisi non si può fare o non funziona si può fare embolectomia o per aspirare il
trombo o per somministrare il trombolitico localmente.

- In pz emodinamicamente stabili ci si comporta in modo diverso a seconda di quale


sia effettivamente il rischio che ci sia embolia polmonare:

o Probabilità alta: si deve fare una TC che può confermare l’embolia, e dunque
porre indicazione al trattamento, oppure escluderla. Nel frattempo si può
somministrare una dose iniziale di eparina (!Alcuni radiologi potrebbero prima
richiedere il D-dimero e così si perde tempo, cosa che noi dobbiamo evitare).
o Probabilità alta: si richiede il D-dimero: se risulta normale ci si ferma, se è
positivo è necessario che il pz venga sottoposto ad angioTC di conferma. Il D-
dimero serve dunque pù che altro per escludere; esso si alza sempre, ma
potrebbe alzarsi anche in caso di traui, neoplasie, infezioni, SCA o ictus.

Oltre ovviamente al fatto di avere un pz emodinamicamente instabile, per valutare il rischio


di mortalità dei pz con embolia polmonare si usa il punteggio PESI . Se il pz non è in shock e
non ha un valore di PESI elevato significa che il rischio di mortalità è talmente basso da poter
stare relativamente tranquilli. Ciò influenza anche il trattamento: se il pz è stabile e con
rischio basso posso trattarlo con NAO; a differenza di pz in condizioni più gravi che
richiedono prima eparina in bolo, poi trombolisi, poi eparina in infusione.

Una volta risolto l’episodio, si deve cercare di evitare che possa verificarsi nuovamente. Se
l’embolia insorge in seguito alla presenza di un fdr temporaneo è necessario proseguire con
anticoagulanti per 3 mesi e poi si possono sospendere; se invece l’embolia è stata spontanea
e il pz non ha un elevato rischio di sanguinamento, si può proseguire più a lungo, anche per
6 mesi-1 anno. Nei pz neoplastici, che per altro hanno un rischio aumentato, pare che
l’Edoxaban sia da preferire. possibilità è il posizionamento di un filtro cavale.

136
FAT EMBOLISM SYNDROME – FES
È una vera e propria sindrome molto sottovalutata e caratterizzata dalla presenza di droplets
di grasso all’interno della microcircolazione periferica e polmonare. È importante distinguere
il fat embolism dalla fat embolism syndrome. La prima è una condizione molto comune, si
verifica, infatti, fino al 90% dei casi di fratture severe, ma che solo nel 10% dei casi si
associa ad una sintomatologia. Anche nella FES è presente un’embolia grassosa, che è però
caratterizzata dalla presenza delle seguente triade sintomatologica:

1. Rash petecchiale, che si pensa essere dovuto ad embolizzazione periferica.


Tipicamente è rosso-brunastro, può durare solo poche ore.
2. Stato mentale in peggioramento: ha una patogenesi non ancora completamente
chiarita. Sono, tuttavia, state avanzate diverse ipotesi: si pensa che l’insorgenza di
sintomi neurologici sia favorita dalla presenza di shunt del forame ovale, arterovenosi
o di shunt all’interno della circolazione polmonare. Quando le droplets arrivano a
livello cerebrale, sono in grado di esercitare un effetto irritante.
3. Insufficienza respiratoria progressiva: si verficia perché le microdroplets di grasso
vanno nei polmoni e hanno un effetto irritativo, determinano una specie di ARDS.

Questi sintomi, e di conseguenza questa sindrome, possono insorgere in seguito a traumi,


fratture pelviche o delle ossa lunghe, procedure ortopediche, liposuzioni, ustioni, pancreatiti,
osteomieliti, lisi tumorale, tp steroidea o anemia falciforme. C’è di solito un periodo di
latenza di 12/48 h, a meno che non sia la forma fulminante in cui il paziente muore con una
forma di cuore polmonare acuto. È importante che, specie nei pz con traumi, si operino
rapidamente per evitare che questa sindrome possa insorgere.

La diagnosi è clinica, non esiste un esame specifico per fare diagnosi né un esame per
escluderla. Sono stati proposti dei criteri diagnostici, ma essendo la presentazione diversa
attualmente la diagnosi è per esclusione.

Non esiste una terapia, si fa terapia di supporto. I pz devono essere ventilati con O2, NIV o
intubazione, si deve poi fare profilassi per la TVP e idratazione. È stato abbastanza in auge
negli anni passati l’utilizzo di alte dosi di corticosteroidi che però non hanno nessuna
evidenza dimostrata di efficacia. L’uso di eparina, che viene spesso somministrata e viene
proposta in alcune review, non ha nessuna evidenza di efficacia. Se il pz sopravvive,
tipicamente i deficit neurologici tendono a regredire.

137
ANTICOAGULANTI
La formazione del trombo rosso permette il realizzarsi dell’emostasi secondaria: la fase
coagulativa è sostanzialmente una serie di reazioni biochimiche che si attuano mediante
attivazioni sequenziali permettendo come termine ultimo di attivare la protrombina a
trombina, la quale a sua volta cliva il fibrinogeno per ottenere la fibrina. In particolare, la
fase coagulativa può essere attivata attraverso la via intrinseca, che parte dall’esposizione del
collagene subendoteliale, oppure attraverso la via estrinseca, quindi in seguito alla
liberazione del fattore tissutale. La differenza sta nel fatto che la prima parte da una semplice
lesione vascolare, mentre la seconda si attiva quando è presente una vera e propria ferita
che, oltre alla lesione della parete del vaso, causa anche danni ai tessuti circostanti e dunque
richiede un intervento più rapido. Molti dei fattori che prendono parte ad entrambe le vie
sono VitK-dipendenti.

Con formazione del coagulo si intende la stabilizzazione del tappo piastrinico grazie a
polimeri insolubili di fibrina che inglobano piastrine aggregate ed eritrociti.

CHA2D2VASC SCORE E INDICAZIONI AGLI ANTICOAGULANTI


Generalmente una terapia anticoagulante viene prescritta previa valutazione del rapporto tra
il rischio tromboembolico (CHA2DS2VASC SCORE) e il rischio di sanguinamento (HAS-
BLED SCORE).

Congestive heart failure Hypertension


Hypertension Anomalie epatiche/renali
Age x2 Stroke
Diabetes Bleeding
Stroke x2 L: valori di INR
Vascular disease Età
Sex Category Drugs (alcol o altri farmaci)

138
Se il pz non ha un rischio emorragico troppo elevato, la tp anticoagulante può essere
prescritta in caso di:

1. TVP (profilassi o trattamento)


2. TEP (profilassi o trattamento)
3. FA
4. Sindrome coronarica acuta (SCA)
5. Bypass aortocoronarico
6. Emofiltrazione
7. Cateterismo venoso periferico o centrale

EPARINE
Si tratta, dal punto di vista molecolare, di unità disaccaridiche dell’acido ialuronico e della
glucosamina (glicosaminoglicani) uniti a formare catene di diversa lunghezza con peso
molecolare variabile. Data la loro natura, questi farmaci devono essere somministrati per via
parenterale poiché altrimenti verrebbero digeriti.

1. Eparina standard non frazionata: è una miscela eterogenea di catene con PM


variabile tra 5000 e 30 000 Da e una media di 10 000 Da. Si ottiene dalla mucosa
intestinale di suino o bovino e ne esistono due forme:

a. Eparina sodica (5 000UI/mL in fiala da 10mL o da 5ml): utilizzata EV in bolo in


caso di embolia polmonare.
b. Calciparina (12 500UI in 0.5mL o 5000UI in 0.2mL) da somministrare SC: il
suo utilizzo è divenuto molto scarso in seguito all’introduzione delle EBPM.

! Non si fa IM perché c’è rischio di sanguinamenti ed ematomi.

Meccanismo d’azione: l’eparina si lega ad un inibitore circolante della coagulazione,


l’antitrombina, e forma con quest’ultima un complesso, accelerandone l’azione. In
particolare, il legame avviene per mezzo di una sequenza pentasaccaridica solfata
contenuta nella sequenza polimerica dell’eparina e sostanzialmente media una
modifica conformazionale che aumenta l’interazione con i fattori attivati della
coagulazione e, di conseguenza, la loro inattivazione. Oltre che inattivare la trombina
(Fattore IIa), ha un’azione anche sulla protrombinasi (fattore X, il primo della via
comune) e su altre proteasi coinvolte in questo processo. La capacità di bloccare step
diversi della cascata coagulativa è permessa dalla lunghezza della molecola stessa,
che deve essere di almeno 18 unità disaccaridiche per permettere la formazione di
complessi ternari.

Indicazioni: entrambe vengono utilizzate per profilassi e tp della malattia


tromboembolica venosa e arteriosa e, come detto, quella sodica si utilizza anche
nell’embolia polmonare. In questo secondo caso è necessaria l’ospedalizzazione per
il monitoraggio del PTT che permette di decidere la dose.

Controindicazioni:

- Sindromi emorragiche in atto o recenti


- Coagulopatie congenite o acquisite (tra cui importanti epatopatie)
- Recente trauma cranico
- Grave piastrinopenia
- Impossibilità di eseguire test di coagulazione del sangue intero e APTT
- Ipertensione grave non controllata (può favorire lo stravaso di sangue)
- Ipersensibilità nota, all’eparina in particolare, o a sostanze di origine suina in
generale

Cautele e interazioni:

- Età: molto spesso il pz anziano è anche un pz fragile


- Insufficienza epatica e renale
- Gravidanza (assenza di dati certi)
- Tp del pz che abbiano un effetto che può essere sinergico: anticoagulanti orali,
antiaggreganti, FANS, trombolitici.
- Altri farmaci eventualmente presenti in tp che possono interagire riducendone
l’azione: Digitale, Tetracicline, Nicotina, Glucocorticoidi, Penicilline,
Antistaminici.

Complicanze:

- Emorragia maggiore: in particolare, nel caso della forma sodica che richiede
somministrazione continua, è necessario monitorare frequentemente il PTT per
evitare che il pz diventi troppo scoagulato. Se si dovesse verificare
un’emorragia grave si può somministrare solfato di protamina che è l’antidoto
dell’eparina sodica (è invece solo parzialmente utile nei confronti delle EBPM).
- Trombocitopenia (HIT: heparin induced Thrombocytopenia): perché l’eparina
si possa identificare come causa di questo fenomeno, è fondamentale
considerare il timing, ovvero che l’evento si verifichi entro 100 giorni dalla
seconda somministrazione; oltre questo cut off potrebbe succedere che si
manifesti, ma è più raro e si parlerà di delayed onset HIT. Il meccanismo
patogenetico è la presenza di ab circolanti rivolti contro l’eparina complessata
con il platelet factor 4: si parla, dunque, di una malattia protrombotica
immunomediata e farmaco-indotta. Il complesso attiva le piastrine circolanti
attraverso il loro recettore FCgammaRIIA e si ha piastrinopenia da consumo e
ipercoagulabilità. Se si sospetta che un pz abbia HIT, si può applicare uno
score che mi permette di valutare quale sia la probabilità che effettivamente
questo evento si sia verificato sulla base di quattro punti: entità della
trombocitopenia, tempi di diminuzione, presenza di trombosi o di altre sequele
e l’eventuale presenza di altre cause che possano averla determinata. In
particolare, risultano indicativi per la presenza di HIT il fatto che le piastrine si
siano ridotte di più del 50%, il fatto che il problema si sia presentato 5-10
giorni dopo la somministrazione, che siano presenti trombosi, necrosi
sistemica o reazione sistemica in seguito alla somministrazione di un bolo e
che non siano presenti ulteriori cause evidenti per i fenomeni constatati (questi
elementi permettono di conteggiare 2 punti). Se il punteggio ottenuto con il
cosiddetto score delle 4T è 6-8 allora la probabilità sarà elevata. Qualora il
sospetto sia particolarmente forte, ma il punteggio ottenuto fosse basso, è
possibile misurare gli ab anti eparina-F4. Quando la diagnosi viene confermata
l’eparina deve essere sostituita con altri anticoagulanti.
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- Osteoporosi [La dose critica di eparina in grado di causare una riduzione della
densità minerale ossea e fratture, soprattutto vertebrali, è risultata essere
superiore a 15000 U/die, somministrata per almeno 3 mesi. Gli effetti sull’osso
appaiono essere legati alla dose, piuttosto che alla durata del trattamento.
L’eparina in vitro potenzia l’attività osteoclastica, riduce l’attività osteoblastica,
la sintesi della matrice ossea, l’attività di fattori di crescita e il metabolismo della
vitamina D]
- Ipersensibilità cutanea locale, reazioni anafilattoidi (orticaria, angioedema,
shock anafilattico)
- Iperpotassiemia
- Aumento delle transaminasi

2. Eparine a basso peso molecolare (EPBM): sono preparazioni omogenee di catene con
PM di 4000-6000 Da ottenute a partire dall’eparina standard sfruttando processi di
depolimerizzazione chimica o enzimatica. In Italia ne abbiamo a disposizione
diverse, che sono sostanzialmente sovrapponibili, nonostante non tutte siano state
approvate per ogni uso, e che differiscono per dosi e adattabilità sul corpo:

a. Enoxaparina (Clexane): è una delle più utilizzate, in particolare:

i. Profilassi TVP in pz chirurgici con rischio moderato –> 2000UI (20mg)


in un’unica somministrazione;
ii. Profilassi TVP in pz chirurgici con rischio alto –> 4000UI in un’unica
somministrazione;
iii. Profilassi della TVP in pz non chirurgici –> 4000UI in un’unica
somministrazione;
iv. Trattamento della TVP e dell’embolia polmonare –> in pz con basso
rischio di recidiva e non complicati 150UI/kg; in pz più a rischio,
quindi obesi, oncologici, forme sintomatiche o elevato rischio di
recidiva si preferisce somministrare 100UI/kg due volte al giorno.

b. Dalteparina
c. Nadroparina
d. Parnaparina
e. Reviparina
f. Bemiparina

Tutte vengono somministrate SC e le UI, che devono essere decise sulla base del peso
del pz, indicano l’attività anti-fattore X. Durante la somministrazione il pz deve essere
sdraiato e bisogna avere cura di cambiare ogni volta la sede perché, inevitabilmente,
possono formarsi delle ecchimosi e bisogna avere cura anche di non cambiare la
tipologia che si è scelta per non commettere errori di dosaggio. Nonostante costino di
più rispetto alle forme non frazionate, pare che il consistente risparmio dei costi
sull’ospedalizzazione (che può protrarsi anche per 10-15 giorni in caso di eparina
sodica, sia per il fatto che necessita di somministrazione EV che perché richiede un
monitoraggio piuttosto stretto del PTT) compensi la spesa farmaceutica maggiore.

Meccanismo d’azione: come le eparine non frazionate, anche queste sono in grado di
legare l’antitrombina III mediando un cambio conformazionale, ma, a causa della
141
loro minore lunghezza, permettono di aumentare l’azione solo nei confronti del
fattore Xa e non della trombina: hanno, pertanto, un’azione maggiormente selettiva.
Impedendo l’azione del fattore X, si impedisce alla base la formazione di trombina,
per contrastare la quale servirebbero dosi molto maggiori. Ciò si traduce dunque nella
possibilità di utilizzare dosi inferiori.

Indicazioni: in generale, sono la prevenzione e il trattamento della TVP, la


prevenzione della coagulazione in emodialisi; trovano applicazione anche in caso di
sindromi coronariche acute come prevenzione e/o trattamento. Ovviamente, come
detto, non tutte sono state approvate per tutti questi usi. L’azione delle EBPM inizia
dopo 3-5h dalla somministrazione, non sono dunque farmaci utili in emergenza;
d’altro canto la lunga emivita, che permette spesso una sola somministrazione al
giorno, rappresenta un vantaggio nel caso in cui debba essere usata come profilassi.

Controindicazioni:

- Sindromi emorragiche in atto o recenti


- Coagulopatia congenita o acquisita
- Recente trauma cranico
- Ipertensione grave non controllata
- Insufficienza renale terminale: per quanto riguarda l’Enoxaparina, ad esempio,
non è raccomandato l’uso a causa della mancanza di dati se ci sono pz con
ClCr<15mL/min al di fuori della prevenzione della formazione di trombi nella
circolazione extracorporea che si ha con la dialisi.
- Malattia epatica severa
- Piastrinopatia da EBPM
- Ipersensibilità nota all’eparina in particolare o a sostanze di origine suina in
generale

Cautele e interazioni:

- Età: molto spesso il pz anziano è anche un pz fragile


- Insufficienza epatica
- Insufficienza renale: per pz con una ClCr di 15-30mL/min è necessario
esercitare cautela. Ad esempio, in caso di Clexane, le dosi vanno ridotte: per la
profilassi della TVP si usano 2000UI, per il trattamento della stessa si fanno
100UI/kg in singola somministrazione/die, così come per trattare l’angina
instabile e l’infarto NSTEMI. In caso, invece, di compromissione renale
moderata (ClCr 30-50mL/min) e lieve (50-80mL/min) è raccomandato un
monitoraggio ma non è necessaria una riduzione delle dosi.
- Gravidanza
- Difetti congeniti o acquisiti della coagulazione
- Tp del pz che abbiano un effetto che può essere sinergico: anticoagulanti orali,
antiaggreganti, FANS, trombolitici.
- Disidratazione: specie in pz anziani ciò può alterare i valori di filtrato renale
con conseguente riduzione della clearence del farmaco.

Complicanze: sono sostanzialmente sovrapponibili a quelle già descritte per l’eparina


non frazionata, ma, con EBPM sono meno frequenti. Inoltre, in caso di sovradosaggio
142
con problemi correlati, è difficile che sia necessario ricorrere al solfato di protamina
perché in genere è sufficiente sospendere la somministrazione.

g. Fondaparinux: sebbene rientri nelle EBPM, rappresenta un farmaco un po’ a se


stante. È un inibitore del fattore Xa da somministrare EV o SC dotato di lunga
emivita che consente una sola somministrazione al giorno, a fronte di una
latenza d’azione non trascurabile. La sua lunga emivita rappresenta anche uno
svantaggio poiché, in caso di sanguinamento, è difficile intervenire. Inoltre,
sempre a causa della sua emivita, non può essere usata per la profilassi
chirurgica. Per quanto riguarda i vantaggi, invece, il più importante è un minor
rischio di trombocitopenia, che la rende utile in caso di pz con piastrinopenia
e permette di non dover monitorare la conta piastrinica. Si tratta comunque di
un farmaco di recente introduzione sul quale non abbiamo ancora molte
informazioni: non sappiamo, ad esempio, quale sia la sicurezza in gravidanza
o quali problemi possa dare se usato in cronico, ad esempio in pz con FA.

Riassunto sulle varie tipologia di eparina:

Eparina EBPM Fondaparinux


Fonte Biologica Biologica Sintetica
Peso molecolare 15 000Da 5000Da 1500Da
Fattori inibiti Xa; IIa Xa (IIa) Xa
Biodisponibilità 30% 90% 100%
Emivita 1h 4h 17h
Escrezione renale No Si Si
Efficacia dell’antidoto Completa Parziale Nessuna
Trombocitopenia <5% <1% <1%

WARFARIN
È un analogo della VitK in grado di inibire la reduttasi che è fondamentale per mantenere la
VitK in forma ridotta in modo che possa agire come cofattore nella reazione di gamma-
carbossilazione. Nonostante la grande importanza rivestita dal punto di vista storico da
questo farmaco che ha permesso di fare una tp anticoagulante per os, esso presenta
limitazioni importanti:

1. L’inizio e il termine dell’azione sono molto lenti: all’inizio della tp sarà, dunque, utile
affiancare l’eparina, che poi dovrà essere sospesa e il pz dovrà essere attentamente
monitorato per verificare che il suo INR si trovi all’interno della finestra terapeutica.
Sostanzialmente avremo bisogno di 3-5 giorni perché il Warfarin faccia effetto.
L’Acenocumarolo, che è un principio simile al Warfarin, ha azione lievemente più
rapida, ma è soggetto a fluttazioni dell’INR molto più marcate, motivo per cui
sostanzialmente non viene utilizzato. Per quanto riguarda, invece, il termine lento
dell’azione, ciò può essere un problema nel momento in cui il pz sanguini e sia
necessario interrompere bruscamente l’effetto anticoagulante.

2. La gestione della tp è complessa e deve essere fortemente individualizzata: la finestra


terapeutica di questo farmaco è, infatti, ristretta e, dunque, spesso è necessario
ricorrere a schemi di trattamento molto complessi, anche in virtù del fatto che la
risposta non è completamente prevedibile e varia da soggetto a soggetto. Tipicamente

143
si inizia con dosaggio standard, e poi, dopo un paio di giorni, si ricontrolla l’INR per
capire di quanto farmaco necessiti il pz. In seguito, l’INR andrà dosato almeno una
volta al mese al fine di verificare che venga mantenuto tra 2 e 3, o tra 2.5 e 3.5 in
caso di pz con valvola meccanica. Il problema è che, al di sotto di questi cut off, si
potrebbero avere fenomeni ischemici, al di sopra emorragici. In particolare, se al
controllo:

a. INR <1.5 –> è necessario aumentare la dose del 15% a settimana


b. INR compreso tra 1.6 e 1.9 –> è necessario aumentare la dose del 10% a
settimana;
c. INR corretto –> si conferma lo schema terapeutico;
d. INR compreso tra 3 e 3.9 –> è necessario abbassare del 10% la dose;
e. INR compreso tra 4 e 4.9 –> è necessario saltare una dose e poi ricominciare
riducendo però del 10%;
f. INR >5 –> interrompo fino alla normalizzazione dei valori e poi riparto con
una dose ridotta del 15%.

3. Ci sono molti fattori che influenzano l’azione del farmaco come l’assunzione di VitK
con l’alimentazione (verdura a foglie larghe, pomodori…) o la funzionalità epatica e,
conseguentemente, l’utilizzo di altri farmaci metabolizzati dai medesimi citocromi (ad
esempio, i FANS aumentano l’effetto del Warfarin, mentre i barbiturici, gli
antiepilettici e la Rifampicina lo riducono).

NAO
Fanno parte di questa categoria:

1. Dabigatran: è un inibitore della trombina attivata (IIa) che, dunque, impedisce il


clivaggio del fibrinogeno a fibrina.
2. Rivaroxaban, Apixaban, Edoxaban: sono inibitori del fattore attivante la trombina (Xa)

Questi farmaci, di più recente introduzione, presentano diversi vantaggi rispetto al Warfarin:

1. Iniziano la loro attività immediatamente e, dunque, non hanno bisogno di una terapia
a ponte. Ciò è particolarmente evidente con il Dabigatran che, avendo un basso
legame con le proteine, è immediatamente disponibile.

2. Interagiscono in maniera molto più ridotta con gli alimenti e, anzi, nel caso del
Rivaroxaban si deve raccomandare l’assunzione durante i pasti perché in questo
modo viene migliorato l’assorbimento.

3. Sono associati in misura minore ad eventi emorragici rispetto al Warfarin: in


particolare, si è registrata una riduzione del 15% a livello cerebrale. Dal punto di
vista del rischio di sanguinamento, quello che risulta meno favorevole è il
Rivaroxaban, che si associa a sanguinamenti intestinali in maniera più frequente
rispetto agli altri.

4. Il loro effetto è prevedibile e si prescrive una dose sulla base:

144
a. Della funzione renale: il Dabigatran viene escreto maggiormente a livello
renale (85%), e, dunque, risente maggiormente dei valori di clearence, rispetto
al Rivaroxaban (33%) e all’Apixaban (25%). La funzione renale del pz viene
stimata basandosi sulla ClCr calcolata utilizzando la formula di Cockroft-Gault:

Dabigatran Rivaroxaban Edoxaban


ClCr>80mL/min 150mg x2 20mg 60mg
ClCr 50-30mL/min 110mg x2 15mg 30mg
ClCr 30-15mL/min NO Si possono dare, ma è rischioso
ClCr<15mL/min NO NO NO

b. Del peso: nei soggetti che pesano meno di 60kg il dosaggio deve essere
ridotto;

c. Dell’età: il dosaggio viene ridotto al di sopra degli 80 anni o dei 75, se c’è
contemporaneamente un peso basso;

d. Della razza: questo punto è valido solo per il Dabigatran che, negli asiatici,
richiede un dosaggio inferiore.

La regolazione del dosaggio dell’Apixaban funziona, invece, in maniera differente: il


dosaggio raccomandato è di 5mg x2 e deve essere modificato solo qualora sussistano
almeno due parametri alterati. In altre parole, si passa a 2.5mg x2 quando si è di
fronte ad un pz che abbia almeno due delle seguenti caratteristiche: età maggiore di
80 anni, peso minore di 60kg e ClCr<30mL/min.

5. Una volta stabilita la dose, non è necessario monitorare continuamente la


coagulazione tramite determinazione dell’INR. Nonostante non sia richiesto l’INR,
questi pz devono essere sottoposti a FU controllando la funzionalità renale ed epatica
e l’emocromo; non meno importante è poi accertarsi che il pz sia effettivamente
compliante. Il dosaggio ematico del farmaco non viene effettuato, a meno che si sia in
presenza di un sanguinamento acuto.

Per scegliere quale molecola usare, oltre alla funzionalità renale, si deve considerare il
rischio di sanguinamento: se è elevato converrà utilizzare farmaci con emivita più breve ma
che richiedono due somministrazioni quotidiane, in modo che sia più facile fermare
un’eventuale emorragia (Dabigatran e Apixaban); al contrario, se si vuole favorire la
compliance permettendo una sola somministrazione giornaliera opterò per Rivaroxaban o
Edoxaban.

Indicazioni:

- Prevenzione della TEV in ambito ortopedico


- Prevenzione di ictus e embolia in caso di FA non dipendente da problemi valvolari:
sono stati fatti studi che hanno confermato come i NAO garantiscano una riduzione
della probabilità di andare incontro a questi eventi del 20% superiore rispetto al
Warfarin perfettamente dosato.
- Trattamento di TVP e TEP: a questo scopo viene usato prevalentemente il
Rivaroxaban, secondo una recente revisione, comunque, tutti risultano essere indicati.

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- Prevenzione eventi cv in pz con sindrome coronarica acuta, anche in associazione
agli antiaggreganti.

Questi farmaci sono più costosi rispetto alle alternative, ma, in virtù del loro migliore profilo
di efficacia e di sicurezza, permettono di risparmiare riducendo i ricoveri e gli eventi.
Tuttavia, proprio a causa del loro costo elevato, non vengono prescritti a tutti e per decidere
se utilizzare i NAO o il Warfarin si calcola uno score che attribuisce un punteggio al pz e se
il totale è >1 sarebbe corretto utilizzare i primi. I parametri considerati sono:

1. Sesso femminile (1 punto)


2. Età <60 anni (1 punto)
3. Medical history (? 1 punto)
4. Trattamento concomitante che può interferire con il Warfarin (1 punto)
5. Fumo (2 punti)
6. Razza nera (2 punti)

Controindicazioni:

- Protesi meccaniche o stenosi mitralica grave


- ClCr<15mL/min: è necessario passare al Warfarin, cosa che in realtà sarebbe
auspicabile fare già a partire da 30mL/min. (!Per funzionalità renali migliori, invece, i
NAO hanno un effetto maggiormente protettivo sul rene rispetto al Warfarin,
probabilmente perché quest’ultimo aumenta il deposito di calcio a livello vascolare).
- Funzionalità epatica molto ridotta: per pz con Child Pugh C i NAO sono
controindicati poiché essi vengono metabolizzati anche a questo livello, in
particolare il Rivaroxaban. In caso di Child Pugh B è invece necessario esercitare
cautela.

NAO e interventi chirurgici: per decidere quanto prima sia necessario sospendere il
trattamento devo tenere conto del rischio di sanguinamento del pz, anche sulla base della
tipologia di intervento, e della sua funzionalità renale:

- ClCr>80mL/min e rischio medio (esami endoscopici con biopsia, posizionamento di


PM…) –> 24h prima
- ClCr>80mL/min e alto rischio (anestesia epidurale, biopsie epatiche e duodenali,
interventi toraco-addominali…) –> 48h prima
- ClCr 30-15mL/min –> 36h prima (Apixaban), 48h prima (Rivaroxaban e Edoxaban)

In caso di interventi a basso rischio di sanguinamento come cataratta, glaucoma o esami


endoscopici senza biopsia è possibile non sospendere i NAO. Questo è stato molto
importante perché, prima della loro introduzione, era necessario sospendere il Warfarin,
passare all’eparina e poi tornare al Warfarin sempre monitorando l’INR e sempre tenendo
conto del tempo richiesto perché questo farmaco cominci ad essere efficace.

In generale, considerando la funzione renale, se non ottimale, quello che è maggiormente a


rischio di non venire completamente eliminato prima dell’intervento è il Dabigatran a causa
del fatto che la sua escrezione è prevalentemente renale.

146
NAO e interazioni farmacologiche:

Verapamil Devo ridurre le


dosi di Dabigatran
e Edoxaban
(citocromo p450)
Amiodarone Dabigatran
Statine Dabigatran ne
aumenta la
concentrazione
del 18%
Claritromicina e Aumentano la
Azitromicina concentrazione Gli antibiotici sono un ambito delicato
plasmatica dei per i pz in NAO: sarebbero, in
NAO generale, da preferire Cefalosporine e
Macrolidi Da usare con Chinolonici.
cautela in un pz in
tp con NAO
Rifampicina Controindicata in
pz in NAO
Antiretrovirali Interferiscono con
tutti i NAO in
maniera
importante
Antimicotici Controindicati in
pz in tp con
Dabigatran,
Rivaroxaban e
Apixaban
Antiepilettici Devo aumentare
la dose di NAO
Desametasone Interferisce con
(steroidi in quasi tutti i NAO
generale)
Vinblastina e Controindicate in
Doxorubicina pz in NAO

IL TRATTAMENTO DEL SANGUINAMENTO NEL PAZIENTE ANTICOAGULATO


Con l’invecchiamento della popolazione c’è un’esplosione di fibrillazione atriale, di
trombosi venosa ed embolia polmonare: tutte queste condizioni richiedono una tp
anticoagulante, poiché non farla comporta un netto peggioramento della prognosi. Il
problema è che, parallelamente, specie nella popolazione anziana, c’è anche un’elevata
probabilità di sanguinamenti. Bisogna, dunque, sempre considerare i due piatti della
bilancia; cosa particolarmente complessa nell’anziano, anche perché i fattori che
predispongono al sanguinamento sono in gran parte sovrapponibili a quelli che favoriscono
il tromboembolismo. Questi pz, infatti, sono quelli che traggono maggior beneficio dalla
scoagulazione, ma, allo stesso tempo, sono anche quelli con maggior rischio di
sanguinamento. Per ovviare a questo problema, alcuni hanno proposto di sostituire
l’anticoagulante con un antiaggregante: sono, dunque, stati fatti studi al proposito, che però
147
ha mostrato come non sia possibile. I pz che venivano trattati con anticoagulanti avevano un
rischio dimezzato di avere un evento tromboembolico, rispetto a colore che venivano trattati
con antiaggreganti. Analizzando i vari farmaci sulla base del loro rischio di sanguinamento:

1. Warfarin: il periodo in cui si verificano più frequentemente i sanguinamenti è quello


iniziale (e in particolare il primo mese), a causa del fatto che la titolazione della dose
non è sempre facile. Negli USA i pazienti trattati con Warfarin hanno un rate annuale
di sanguinamento di 1.7-3.4%.
2. NAO: i sanguinamenti intracranici, che sono quelli più sfavorevoli in assoluto, sono
molto ridotti. In generale, si hanno meno sanguinamenti, ad eccezione del Dabigatran
che favorisce i sanguinamenti gi. Il rischio di sanguinamento è comunque presente,
ciononostante, le nuove linee guida dicono che, se si inizia una tp con anticoagulanti
è opportuno prescrivere i NAO. Al contrario, chi è già in tp con Warfarin o
Acenocumarolo NON deve passare ai NAO, perché sappiamo che i pazienti
sanguinano soprattutto i primi 30 giorni, per cui se stanno andando bene e non c’è un
buon motivo non cambio l’anticoagulante.
3. Anticoagulanti e antiaggreganti: bisognerebbe stare molto attenti a prescriverli
entrambi. Vengono associati dopo SCA per al massimo un anno, dopodichè
l’antiaggregante deve essere sospeso. Questa associazione, infatti, porta ad un
raddoppiamento del rischio di sanguinamento; rischio che, subito dopo che si è
messo uno stent ha senso correrere, dopo no.

Ciò detto, quali sempre ci sono benefici maggiori a scoagularli accettando il rischio di
sanguinamento: è un errore non scoagulare un pz che cade, a meno che non cada tutti i
giorni. Ne deriva che dobbiamo essere in grado di gestire il sanguinamento in un pz
scoagulato, proprio perché si tratta di un’evenienza piuttosto frequente. Tra questi sono
compresi anche gli eventi di major bleeding, ovvero quelli che comportano a morte del pz,
quelli che interessano un’area o un organo critico (midollo spinale, area intracranica,
pericardio…) o che causano un abbassamento dei valori di hb di almeno 2g/dL. Dal punto di
vista clinico, il modo più facile per definire un sanguinamento grave è la presenza di
instabilità emodinamica.

In generale, la gestione di qualsiasi sanguinamento prevede i seguenti passi:

1. Local management: si cerca di tamponare il sanguinamento attraverso un’emostasi


endoscopica, un’angiografia interventistica…
2. Volume resuscitation: vengono dati liquidi (si tende ad usare molto i cristalloidi), si
può usare il sangue se sta sanguinando tanto e ha un livello di Hb critico < 7 g/dL.
Quando viene trasfuso un paziente di taglia media vi aspettate che salga di 1 g di
emoglobina per ogni sacca che gli viene fatta.

A questo punto, nei pz che assumono anticoagulanti, bisogna valutare l’entità del
sangunamento. Se è modesto e si ferma si può adottare un approccio wait and see,
aspettando che la clearence del farmaco avvenga spontaneamente (!Bisogna tenere a mente
che per esempio il Dabigatran è escreto dal rene, se paziente ha IR ci vorrà molto tempo
affinché se ne liberi, mentre altri farmaci hanno una piccolissima escrezione renale.
Modificare il pH urinario non serve a velocizzare l’eliminazione dei farmaci). In casi un po’
più importanti si può decidere di somministrare antifibrinolitici come l’acido tranexamico

148
(1g in vena ripetibile ogni 6h se necessario) o la desmopressina (0,3 µg/kg e.v. con dose
massima di 20 µg), ma non aspettiamoci grandissimi risultati.

Ci sono poi algoritmi specifici a seconda dell’anticoagulante che il pz assume:

Se il pz che sanguina è in terapia con NOAC va cercato di:

- Capire quando è stata assunta l’ultima dose, sia perché l’Apixaban, ad esempio, ha
emivita breve, quindi potrebbe accadere che a breve la sua concentrazione
plasmatica cali per conto suo; ma anche perché ci permette di capire se abbia senso
dare il bicarbonato o meno. Se, infatti, l’assunzione dell’anticoagulante è avvenuta da
meno di 2h, questo farmaco è in grado di prevenirne l’assorbimento.
- Fare un prelievo per capire la funzione renale (creatinina) e l’Hb;
- Valutare la coagulazione;
- Valutare i livelli plasmatici del farmaco se l’ospedale è in grado di farlo;
- Valutare se il sanguinamento sia life-threatening o meno; nel secondo caso si può
adottare un approccio wait and see, nel primo si utilizzano invece gli antidoti:

o Idarucizumab (Praxbind): è l’unico pronto da usare in ospedale in Europa ed è


specifico per il Dabigatran. Il meccanismo d’azione prevede che il farmaco
abbia un’elevata affinità per l’anticoagulante con cui, dunque, si lega,
prevenendo il legame con la trombina. Questo farmaco permette di ottenere la
normalizzazione della coagulazione in minuti o poche ore. Si fa in due boli
(2.5gx2 EV a non più di 15min di ditanza) e l’effetto dura per 24 h, quindi non
c’è il rischio che il paziente ricominci a sanguinare.
o Andexanet alpha (non ancora commercializzato in Europa perché sono state
registrate alcune complicanze di natura trombotica): è una forma inattiva che si
lega e sequestra Apixaban e Rivaroxaban, dovrebbe poi funzionare anche con
l’Edoxaban e, forse, anche nei confronti dell’Enoxaparina. Si fa un bolo seguito
da infusione e la dose dipende dalla quantità di anticoagulante che il pz
assume. Secondo le nostre linee guida, può essere utilizzato, nonostante non
sia commercializzato perché non approvato dall’EMA, solo in caso di
sanguinamento pericoloso per la vita o non controllato, non perché devono
fare un intervento.
o Ciraparantag: è un farmaco ancora in fase di sviluppo, che promette di riuscire
ad antagonizzare non solo i NAO, ma anche l’EBPM, l’eparina non frazionata
e il Fondaparinux.

Si possono usare anche i concentrati dei fattori della coagulazione (il plasma, invece,
non antagonizza i NAO, è utile solo per espandere il volume). Generalmente si usano
i concentrati inattivi, perché, rispetto a quello attivati, hanno minor effetto
protrombotico. Di solito si usano i concentrati a 4 fattori (II, VII, IX, X) alla dose di
50U/Kg.

Se il pz che sanguina è in terapia con Warfarin viene sempre somministrata una fiala di
Konakion, ma non è l’unica cosa da fare. Se, infatti, si deve fermare un sanguinamento, si
può applicare anche il secondo step, ovvero si possono somministrare i concentrati di fattori
della coagulazione o il plasma. I primi sono comunque da preferire perché i tempi sono più
lunghi (devo tipizzare AB0, scongelare il plasma e infonderlo più lentamente rispetto ai
149
tempi richiesti per dare i fattori della coagulazione) e perché con il plasma c’è un piccolo
rischio di trasmettere patogeni.

Se il pz che sanguina è in terapia con eparina, l’antidoto è il Solfato di protamina, che deve
essere somministrato alla dose di 1mg/100U di eparina somministrata, senza però mai
superare i 50mg. Con l’eparina non frazionata si può usare aPTT per sapere quanto è
scoagulato il pz e quanto è stato efficace il suo reversal. Per quanto riguarda, invece, le
EBPM, bisogna considerare che il Solfato di Protamina le antagonizza solo per il 60-80%. I
l solfato di protamina è importante sapere che può causare reazioni da ipersensibilità
(allergie, anche shock anafilattico).

150
AMIODARONE
Si tratta di un farmaco inizialmente sviluppato come antianginoso che presenta varie
proprietà elettrofisiologiche che sono favorevoli nel trattamento delle tachiaritmie.
L’Amiodarone è in grado di determinare una riduzione della FC, un allungamento del PR,
del QRS e del QT (!Nei soggetti in politp bisogna prestare attenzione a non associare troppi
farmaci in grado di allungare il QT per evitare un effetto proaritmico).

Le indicazioni principali all’utilizzo di questo farmaco sono:

1. FA: può essere somministrato per os per mantenere il ritmo sinusale in seguito a
cardioversione se è presente un rischio di recidiva; oppure può essere usato per la
cardioversione farmacologica nei pz emodinamicamente stabili. Di fronte ad un pz
con FAP ricorrente, possiamo ripristinare il ritmo sinusale o puntare al controllo della
frequenza e si decide in base alla presenza o assenza di sintomi, ai potenziali effetti
collaterali legati al fatto di lasciare un pz in FA e a quelli legati alla tp. L’Amiodarone
trova applicazione nella prevenzione delle recidive: è un farmaco ampiamente
utilizzato in questo senso perché efficace e con basso potenziale aritmico. È poi
piuttosto facile anche da gestire perché la tp può essere iniziata anche in regime
ambulatoriale senza rischi correlati alla prima dose. Infine, se anche non dovesse
prevenire correttamente la recidiva, comunque è in grado di migliorare la vita del pz
perché, rallentando la FC, riduce l’impatto della FA. In realtà, per il mantenimento del
ritmo sinusale, la Flecainide è meglio, ma per prescriverla si deve essere certi che il
cuore del pz sia sano; al contrario, l’Amiodarone può essere prescritto anche in
soggetti con malattia strutturale con ridotta contrattilità.

2. Controllo e prevenzione delle tachiaritmie ventricolari: è efficace nel sopprimerle e


ha meno effetti collaterali di altri farmaci, pare poi non aumento la mortalità nei pz
affetti da scompenso cardiaco. L’Amiodarone è efficace nella soppressione degli
episodi di tachicardia ventricolare non sostenuta e nel controllo dell’extrasistolia
ventricolare: in merito a questo secondo punto bisogna comunque tenere conto che
non è un’indicazione sufficiente; si può infatti pensare di prescriverlo a pz che
abbiano al contempo cardiopatie, ad esempio, mentre in un soggetto con cuore sano
ha più senso dare i beta-bloccanti. In realtà, la prima scelta per contrastare le
tachiartimie ventricolari in soggetti a rischio è il defibrillatore impiantabile, sia in
prevenzione primaria che secondaria. L’Amiodarone rimane pertanto un’opzione
terapeutica da considerare nel caso in cui i soggetti non vogliano o non possano
impiantare il defibrillatore. Infine, c’è indicazione anche nei soggetti che hanno il
device, ma che vi devono ricorrere frequentemente: questo perché, mentre il
defibrillatore contrasta la tachiartimia quando insorge, l’Amiodarone ha invece la
funzione di prevenirla.
Sia EV che per os può essere dato per prevenire le aritmie in pz che devono essere
sottoposti ad interventi cardiochirurgici.

! L’Amiodarone è uno dei farmaci che più spesso rappresenta un fossile terapeutico perché
viene lasciato in tp anche se non sarebbe più necessario, anche a causa del fatto che i
medici hanno paura che, se sospendendolo si verificasse poi un evento avverso, potrebbero
venire incolpati.

151
AMIODARONE E TIROIDE
Fisiologicamente, a livello tiroideo l’eliminazione di un atomo di Iodio in posizione 5
sull’anello fenolico permette l’attivazione da T4 a T3, mentre, l’eliminazione di un’atomo di
iodio, sempre in posizione 5, ma dell’anello tirosilico, pemette l’inattivazione di T4.
L’Amiodarone è in grado di sopprimere la conversione da T4 a T3: ne deriva che i livelli di
quest’ultimo si abbassano, mentre quelli di TSH si alzano inizialmente, per poi normalizzarsi
dopo circa 3 mesi. Questi soggetti hanno spesso un lieve ipotiroidismo che non trova
espressione clinica: ne deriva che, anche se al primo controllo si riscontrassero valori
anomali, non è necessario impostare una tp, ma si deve prevedere un ulteriore controllo. In
altri casi si può avere ipotiroidismo clinicamente evidente.

In realtà, l’Amiodarone può influenzare l’attività tiroidea in modi diversi tanto che, oltre ad
un quadro di ipotiroidismo, subclinico o clinico, si può avere anche ipertiroidismo, noto
come tireotossicosi da Amiodarone. Essa può essere di 2 tipi:

1. Tireotossicosi di tipo 1: è la forma più frequente ed è caratterizzata da un aumento


della sintesi di Tiroxina e di Triiodotironina. Si riscontra più frequentemente in pz con
preesistente patologia tiroidea: ad esempio, ci potrebbe essere un gozzo
multinodulare che diventa tossico o una malattia di Graves che viene slatentizzata
(non è dunque infrequente trovare agli esami ematochimici auto-anticorpi). Questo si
verifica perché l’Amiodarone contiene quantità ingenti di Iodio: ogni 100mg si
assumono circa 3mg di Iodio, che corrisponde a circa 10 volte il fabbisogno, il tutto
va poi moltiplicato perché le compresse sono da 400mg. Tale sovraccarico di iodio
determina una saturazione dei depositi e stimola la produzione di ormone tiroideo.
Dal momento che avremo un aumento della funzionalità tiroidea, all’imaging avremo
un aumento della vascolarizzazione e captazione dello Iodio. Si somministrano
farmaci tireostatici come il Metimazolo.

2. Tireotossicosi di tipo 2: il farmaco determina un effetto tossico diretto sulle cellule


epiteliali follicolari con conseguente rilascio di ingenti quantità di T4 e T3. Dal
momento che si attiva un processo infiammatorio, agli esami ematochimici avremo
un rialzo della PCR; per quanto riguarda l’ecografia e la captazione di iodio vedremo
una riduzione della vascolarizzazione e della captazione dovute alla distruzione delle
cellule tiroidee. Si tratta di una forma meno frequente che non insorge su una
patologia tiroidea preesistente. È necessario prescrivere CS ad alte dosi e, ovviamente,
sospendere l’Amiodarone. Anche spegnendo il quadro infiammatorio, se la
distruzione tiroidea è stata di entità importante, il tutto potrebbe esitare in
ipotiroidismo

Monitorare la funzionalità tiroidea in pz che assumono Amiodarone è dunque importante


per poter intervenire su eventuali alterazioni (che interessano il 2-24% dei pz, o il 3-4% se si
considerano solo le dosi basse), ma anche perché potrebbe essere necessario anche
aggiustare la tp. Spesso, infatti, questi soggetti assumono contemporaneamente anche il
Warfarin, le cui dosi vanno ridotte in caso di tireotossicosi e aumentate in caso di
ipotiroidismo perché il primo ne aumenta l’efficacia e il secondo la riduce.

152
ALTRI EFFETTI COLLATERALI
Oltre alle interferenze con la funzionalità tiroidea, l’Amiodarone può anche causare:

1. A livello polmonare un’interstiziopatia (5-15% per dosi >400mg/die, che sono però
superiori a quelle normalmente impiegate come mantenimento): si manifesta con
tosse, ma può poi progredire fino ad insufficienza respiratoria ed è irreversibile.
2. A livello cardiaco determina bradicardia, BAV e moderati effetti pro-aritmici.
3. A livello epatico, se vengono assunti più di 400mg, ci potrebbe essere un aumento
delle transaminasi o addirittura l’instaurarsi di epatite con possibile evoluzione
cirrotica.
4. A livello oculare determina quasi sempre depositi corneali (che non rappresentano
indicazione per interrompere il trattamento), più rari sono disturbi del visus e una
neurite ottica.
5. A livello cutaneo ci può essere una colorazione bluastra e fotosensibilità.
6. A livello del tratto gi, specie con dosi elevate, si può avere nausea, anoressia e stipsi.
7. A livello del tratto genitale si possono avere epididimite e disfunzione erettile
8. A livello del SNC ci possono essere diverse manifestazioni.

FOLLOW-UP DEI PZ IN TP CON AMIODARONE


Visti gli svariati effetti collaterali che si associano a questo farmaco, i pz devono essere
sottoposti ad una serie di controlli:

1. Si deve fare un ECG basale, uno dopo la dose di carico e, successivamente, va


ripetuto annualmente. Si ricercano disturbi della conduzione e si verifica l’entità
dell’allungamento del QT (! Altri farmaci che allungano il QT sono Ciprofloxacina,
Ivabradina, Sotalolo, Quetiapina, Levosulpiride…)
2. Si deve monitorare la possibile comparsa di manifestazioni cutanee o neurologiche
3. Si testa la funzionalità tiroidea ogni sei mesi, così come con lo stesso intervallo di
tempo si valutano le transaminasi.
4. Si deve prescrivere una visita oculistica quando si iniza il trattamento e poi
annualmente.
5. Si deve fare una RX torace al momento dell’inizio della tp e poi la si ripete
annualmente. Per valutare il polmone si fa anche un test iniziale della funzionalità
polmonare, che andrà poi ripetuto nel caso in cui compaiano sintomi.

153
DISSECAZIONE AORTICA
Si tratta di uno slaminamento della parete del vaso, causato dalla fissurazione della superficie
interna, con passaggio di sangue tra l'intima e la media e formazione di un lume falso che va
a comprimere il vaso vero. A prescindere dal punto d'origine, questa patologia tende ad
estendersi agli altri metameri aortici. È una malattia vascolare relativamente rara associata ad
elevata mortalità, alla base si ha generalmente uno stress meccanico eccesivo o
un'alterazione della costituzione della parete aortica con un indebolimento, i quali possono
essere la conseguenza di:

1. Ipertensione arteriosa con picchi pressori che danno un forte stress di parete (ex
eclampsia o uso di sostanze stupefacenti)
2. Incidenti traumatici con rapida decelerazione: le strutture interne dell'organismo
vengono traslate e l'aorta stesse viene spinta da una parte dal peduncolo cardiaco e
dall'altra dall'arco aortico, viene così favorita la formazione di una breccia.
3. Bicuspidia della valvola aortica
4. Coartazione istmica
5. Patologia aterosclerotica
6. Patologie connettivali: Marfan, Ehler-Danlos, Loeys Dietz. In questi casi la
componente fibrosa, ovvero il collagene, può venire sostituito in maniere importante
da sostanza morfa con disorganizzazione della tonaca media e riduzione della
capacità di sopportare lo stress indotto dall'onda sfigmica.

Può verificarsi in presenza o meno di una dilatazione aneurismatica.

La sintomatologia è estremamente caratteristica e deve essere riconosciuta in fretta in modo


da poter intervenire rapidamente. Il pz avrà un dolore trafittivo, a carattere migrante (la
patologia si estende) e ad insorgenza improvvisa e violenta. I polsi periferici risulteranno
spesso asimmetrici e ci saranno segni di mal perfusione con cianosi. Talora si può apprezzare
la presenza di edema a mantellina a livello mediastinico. In alcuni casi avremo anche i
sintomi dati dalle complicanze associate a questa patologia: si può avere adiastolia quando si
va incontro a tamponamento cardiaco, insufficienza aortica severa per prolasso di una o più
cuspidi, IMA per compressioni deli osti coronarici da parte del flap intimale e coinvolgimento
di altri organi per riduzione della perfusione sistemica (ira, ictus ischemia mesenterica o degli
arti inferiori).

Quando c'è il sospetto di dissezione aortica è importante valutare il pz con ecocardio


(preferibilmente TE perchè è l'unico modo per vedere in maniere adeguata il tratto
ascendente e l'arco) e TC. Questo secondo esame è utile per valutare non solo dove origina
la dissezione ma anche quali vasi siano interessati.

Secondo la classificazione di Stanford abbiamo un tipo A in cui è coinvolta l'aorta


ascendente e un tipo B, in cui quest'ultima non è coinvolta. Più precisamente, il tipo A
coinvolge la regione che si estende fino al punto di passaggio tra la carotide comune sinistra
e la succlavia sx, mentre, il tipo B riguarda la porzione di aorta successiva all’origine della
succlavia sx. La differenza è importante per capire l'evoluzione clinica della patologia perchè
nel tipo A il pz muore nel 90% dei casi entro poche ore (tamponamento cardiaco e arresto
cardiocircolatorio); mentre nel tipo B le complicanze sono soprattutto legate ad ischemia dei

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distretti distali come i visceri, gli arti o il midollo: ciò influenza dunque anche le scelte
terapeutiche. In base alla classificazione di Stenford si può capire quali pz necessitino di un
intervento d'emergenza (tipo A) e quali possano, inizialmente, essere gestiti con tp medica
(tipo B):

1. Tipo A –> si sostituisce l'aorta ascendente con una protesi, se possibile risparmiando
la valvola aortica.

2. Tipo B –> l'80-85% dei pz non richiede un trattamento chirurgico in acuto, ma basta
somministrare analgesici e ipotensivanti per ridurre lo stress: in particolare, si usano i
beta-bloccanti perchè sono gli unici che non vanno ad aumentare la pressione di
escursione. Se dopo due settimane il quadro è stato stabilizzato, si può passare
all'inserimento di endoprotesi per chiudere la breccia intimale. Questo gruppo di pz
deve, però, essere diviso tra forme complicate e non: se c’è dolore ma non ischemia si
parla di forma non complicata e si devono somministrare beta-bloccanti, calcio
antagonisti e nitrati per ottenere una ipotensione controllata (PAS<100 mmHg). Nelle
forme complicate, ovvero quelle in cui si ha dolore, ischemia, degenerazione acuta o
rottura dell’aorta, si interviene chirurgicamente: generalmente si fa un intervento
endovascolare con il quale si va a chiudere la rottura con un’endoprotesi, possono poi
essere utilizzati anche stent o bypass per i vasi secondari.

155
SCOMPENSO CARDIACO CRONICO
[Parametri che influenzano il lavoro cardiaco (fisiopatologia):

1. Precarico: si tratta del carico a cui è sottoposto il cuore prima dell’inizio della sistole e può
essere considerato in modo approssimato pari al volume o alla pressione ventricolare in vs a
fine diastole (volume telediastolico o pressione telediastolica). Il precarico condiziona la
gittata cardiaca: secondo la legge di Frank-Starling, entro limiti fisiologici, maggiore sarà il
volume ventricolare telediastolico, più saranno stirate le fibre e maggiore sarà l’energia di
contrazione durante la sistole. Questo è importante, ad esempio, quando si passa dal
clinostatismo all’ortostatismo: il cuore riesce a mantenere invariata la propria gittata perché,
nonostante si riduca il precarico, è in grado di adeguare la contrazione. Il problema è che, in
un cuore insufficiente, la gittata cardiaca diventa quasi indipendente dal precarico perché c’è
un difetto di contrattilità che non permette l’adeguamento.

2. Postcarico: è il risultante delle forze che si oppongono all’eiezione del ventricolo sinistro. In
base alla legge di Laplace, il postcarico è uguale al prodotto tra pressione e volume fratto lo
spessore della parete ventricolare. Quindi: maggiore sono la pressione arteriosa e il volume
arterioso e minore è lo spessore miocardico, maggiore sarà la difficoltà a portare a termine la
sistole in modo corretto. Un cuore normale è indipendente dal postcarico perché riesce a
mantenere la propria gittata a prescindere, mentre un cuore insufficiente diventa criticamente
dipendente dal postcarico, devo dunque tenere la PA bassa.

3. Contrattilità: è la capacità intrinseca del miocardio di contrarsi indipendentemente dalle


condizioni di carico ed è legata alle interazioni molecolari tra calcio e proteine contrattili. La
contrazione deriva da uno scorrimento dell’actina sulla miosina che permette all’actina di
avvicinarsi al centro del sarcomero. Dal punto di vista molecolare la depolarizzazione
permette l’ingresso di Ca nel citoplasma grazie all’apertura di canali, a sua volta l’aumento
della concentrazione intracitoplasmatica di questo ione porta alla fuoriuscita di Ca dal
reticolo. Il Ca è importante perché lega la troponina C permettendo il blocco dei meccanismi
inibitori della contrazione attuati dalla troponina T (lega la tropomiosina) e dalla troponina I
(lega l’actina). Alla fine della contrazione il Ca viene nuovamente estromesso dalla cellula e
ripompato nel reticolo (pompe SERCA).

4. Meccanismi neurormonali: in un contesto fisiologico essi sono importanti per adeguare


l’attività cardiaca alla situazione e alle richieste dell’organismo mentre, nel caso il pz abbia
un’insufficienza cardiaca, portano all’insorgenza dei sintomi e ad un peggioramento del
quadro. Si hanno:

a. Sistema nervoso simpatico: con l’arrivo delle catecolamine e il loro legame con i
recettori beta si ha l’attivazione dell’adenilato ciclasi che porta alla formazione di
cAMP. Questa molecola attiva delle chinasi (PKA) che favoriscono l’ingresso e il
rilascio dal reticolo del calcio e accelerano il rilasciamento agendo sul fosfolambano e
sulla ATPasi Ca-dipendente del reticolo. Si ha, dunque, un aumento della contrattilità
(inotropo positivo) e di avere un più rapido rilasciamento delle fibre (lusitropo
positivo), in modo che possa aumentare la FC. In corso di scompenso cardiaco questi
meccanismi, a lungo termine, portano, però, ad un peggioramento del quadro con
aumento della mortalità. L’attivazione del simpatico in questo caso risulta localizzata
soprattutto a livello cardiaco (ipertrofia eccentrica, apoptosi, fibrosi, aritmie per
aumento del calcio libero intracellulare) e renale (stimola direttamente il
riassorbimento di Na, aumenta le resistenze vascolari, favorisce il rilascio di renina e
riduce la risposta ai peptidi natriuretici). Il cuore si adatta a questo aumento

156
importante di catecolamine riducendo il numero di recettori, il rovescio della medaglia
è però una ridotta capacità di adattarsi ad uno sforzo. C’è poi un effetto tramite i
recettori alfa anche a livello del sistema vascolare: si ha vasocostrizione neurogenica e
ipertrofia della muscolatura liscia vasale.

b. SRAA: si tratta di un sistema a catena che permette l’attivazione sequenziale di


angiotensina e aldosterone. Alla base c’è un aumento della produzione della renina a
livello iuxtaglomerulare ogni qualvolta il rene percepisce una riduzione della sua
perfusione, in seguito a stimolazione simpatica o perché registra una riduzione del
sodio che arriva a livello della macula densa. La renina agisce clivando
l’angiotensinogeno prodotto dal fegato per ottenere l’angiotensina I, dalla quale si
ricava angiotensina II grazie all’enzima ACE, il quale ha anche la funzione di
degradare le bradichinine (funzione antiproliferativa e vasodilatatoria). L’angiotensina,
che può comunque essere sintetizzata in modo indipendente grazie alle chimasi,
agisce su due tipi di recettori:
i. AT1: danno vasocostrizione, ipertrofia cellulare, ritenzione idrosalina e
attivazione simpatica.
ii. AT2: hanno un’azione opposta di controllo.
Oltre che sui vasi, sul rene e sul miocardio, l’angiotensina agisce anche a livello
centrale aumentando la sensazione di sete e sul surrene permettendo la liberazione di
aldosterone che amplifica la ritenzione sodica e la deplezione di K e ha azione
profibrotica, proaritmica e proischemica.

c. Endotelina: è un potente vasocostrittore, il cui rilascio può essere aumentato


dall’angiotensina. Agisce su due recettori: il tipo A media la sua azione vasocostrittrice
e pro-proliferativa mentre il tipo B funge da controllo e ha azione inversa. Purtroppo i
farmaci che abbiamo a disposizione per ridurne le concentrazioni non si sono rivelati
efficaci nel trattamento dello scompenso, mentre possono essere somministrati con
beneficio a pz con ipertensione polmonare primitiva.

d. Vasopressina: favorisce il riassorbimento dell’acqua a livello del tubulo collettore e


aumenta la sensazione di sete. Inibirla non ha portato ad un miglioramento della
prognosi.

e. Citochine: l’attivazione infiammatoria causa ipertrofia, anomalie contrattili, fibrosi,


necrosi e apoptosi.

f. Peptidi natriuretici: vengono prodotti dai cardiomiociti atriali quando le fibre sono
eccessivamente distese. A differenza dei mediatori precedenti hanno, però, effetto
positivo perché la loro funzione è quella di ridurre il sovraccarico di lavoro del cuore:
portano a vasodilatazione, inibizione del SRAA, del simpatico e della vasopressina]

Lo scompenso cardiaco è una sindrome clinica complessa definita come l’incapacità del
cuore di fornire il sangue in quantità adeguata rispetto all’effettiva richiesta dell’organismo o
come la capacità di soddisfare tale richiesta solamente a pressioni di riempimento
ventricolari superiori alla norma. In effetti, sulla base della FE (volume telediastolico-volume
telesistolico)/volume telediastolico, che viene valutato tramite ecocardio considerando come
valori normali quelli >55%), si possono distinguere due tipologie principali di scompenso:

1. A frazione di eiezione normale (HFpEF)/scompenso diastolico (FE>50%): la


patogenesi è extracardiaca; alla base ci sono, infatti, l’irrigidimento delle pareti
arteriose che accompagna l’invecchiamento, l’ipertensione, il diabete e l’insufficienza

157
renale. In altre parole, si è in una situazione di aumentato post-carico che si riflette
sul cuore con sviluppo di ipertrofia e scompenso. Non si hanno a disposizione molti
farmaci: si può agire sui fattori di rischio o consigliando di fare esercizio fisico. Ad
oggi, si stanno poi sperimentando nuovi farmaci che agendo su eNOS e adenilato-
ciclasi contrastino l’invecchiamento e la vasocostrizione. La mortalità a 3 anni è del
25%. Per fare diagnosi è necessario che siano presenti segni e sintomi, che la frazione
di eiezione non sia ridotta in modo importante, che il vs non sia dilatato e che siano
presenti alterazioni strutturali cardiache come un’ipertrofia del vs o un allargamento
dell’as o disfunzione diastolica. Tra i parametri di disfunzione diastolica, oltre agli
elevati livelli di peptidi natriuretici, è importante valutare con ecocolordoppler il
rapporto E/e’: l’onda E misura la velocità di flusso del sangue dalla mitrale in
protodiastole mentre l’onda e’ è la velocità di escursione della parete ventricolare sul
piano valvolare mitralico. Se il rapporto è aumentato siamo di fronte a una situazione
di scompenso diastolico.

2. A frazione di eiezione ridotta (HFrEF)/scompenso sistolico (FE<40%): alla base ci sono


generalmente patologie cardiache. È, infatti, importante considerare che molte
problematiche cardiache hanno come end point proprio lo scompenso: è il caso di
miocarditi, IMA e cardiomiopatie. Il denominatore comune è la deposizione di
tessuto fibroso che compromette la capacità contrattile del miocardio: si ha una
progressiva dilatazione del vs dovuta ad ipertrofia eccentrica dei miofilamenti
(rimodellamento) e, come detto, alla fibrosi che rende il fenomeno irreversibile. Il
problema non è comunque dato dall’insulto iniziale, quanto piuttosto dai meccanismi
compensatori: la riduzione della gittata sistolica porta, infatti, ad attivazione del
sistema nervoso simpatico e del SRAA al fine di trattenere liquidi. Si usano dunque
farmaci per evitare il rimodellamento e l’azione del simpatico; nonostante questo, la
mortalità a 3 anni è comunque più elevata che nella forma precedente e si assesta
intorno al 30%. Per fare diagnosi, oltre alla presenza di segni e sintomi, è necessario
constatare la riduzione della frazione di eiezione.

C’è poi una categoria intermedia in cui la FE è compresa tra il 40% e il 49%.

In USA lo scompenso cardiaco viene diviso in 4 stadi:

a. Assenza di segni e sintomi ma presenza di fattori di rischio.


b. Alterazioni strutturali cardiache in assenza di sintomi
c. Alterazioni strutturali associate a segni e sintomi (è la definizione europea di
scompenso)
d. Scompenso refrattario alla tp, potrebbe essere necessario il trapianto cardiaco
o l’assistenza cardiaca meccanica.

C’è poi un’altra classificazione fatta in base alla capacità funzionale dalla New York Heart
association (NYHA):

a. Classe I: soggetti con sintomi associati ad attività superiore a quella comune.


b. Classe II: soggetti con sintomi durante attività comuni
c. Classe III: soggetti con sintomi durante attività inferiori a quelle quotidiane.
d. Classe IV: soggetti con sintomi a riposo.

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EZIOLOGIA
Alla base di uno scompenso cardiaco possiamo avere:

1. Cardiopatia ischemica: la rivascolarizzazione con angioplastica o bypass può


migliorare i sintomi, la capacità di fare esercizio e la prognosi in pz che abbiano un
miocardio funzionalmente inibito ma ancora vitale. In particolare, parliamo di
miocardio stordito in seguito a brevi episodi di ischemia. Si ha risoluzione spontanea,
nonostante il metabolismo rimanga alterato (captazione anomala alla PET): ne deriva
che, nonostante il miocardio venga correttamente riperfuso, permeane una riduzione
della capacità contrattile. Quando, invece, l’ischemia è cronica, si può avere una
situazione di miocardio ibernato: è una compromissione funzionale persistente che
può essere migliorata o aumentando il flusso o riducendo la domanda di ossigeno.
Oltre a fenomeni ischemici, in caso di infarto vero e proprio, si può avere disfunzione
ventricolare dovuta a rimodellamento: una volta questi pz morivano, ora, spesso,
sopravvivono e questo permette di vedere complicanze a lungo termine come lo
scompenso.
2. Ipertensione: è una delle principali cause dello scompenso a frazione di eiezione
ridotta e, anche se la causa fosse un’altra, comunque l’ipertensione va ad aumentare
il carico emodinamico del vs peggiorando l’emodinamica.
3. Danno tossico: sostanze, metalli pesanti, ct, antidepressivi, FANS, anestetici, anti-
aritmici, radiazioni.
4. Danno infiammatorio o immuno-mediato: conseguente a infezioni o a patologie
autoimmuni (AR, LES, Morbo di Graves).
5. Danno da infiltrazione: tumori, amiloidosi, sarcoidosi, emocromatosi, patologie da
accumulo.
6. Disturbi metabolici: disendocrinopatie, deficit nutrizionali (tiamina, carnitina, selenio,
ferro, fosfati e calcio) o obesità.
7. Anomalie genetiche
8. Valvulopatie e difetti strutturali: per quanto riguarda in particolare le valvulopatie,
esse, oltre ad essere una potenziale causa di scompenso, sono poi frequentemente
riscontrate anche in pz con scompenso con altra eziologia. La correzione chirurgica
delle malattie vascolari può portare ad un miglioramento della funzione cardiaca e
alla risoluzione dei sintomi.
9. Patologie pericardiche
10. Circolo ipercinetico (anemia, sepsi, tireotossicosi, Paget, fistola artero-venosa,
gravidanza)
11. Insufficienza renale con sovraccarico di volume. In generale, tra il rene e il cuore c’è
un rapporto molto stretto, così come tra il rene e la pressione. Pz con ipertensione
nefrovascolare possono avere scompensi non spiegabili ricorrenti o EPA ad esordio
improvviso.
12. Aritmie

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CLINICA
SINTOMI SEGNI
Tipici Più specifici
Dispnea, Ortopnea Aumentata pressione venosa giugulare
Dispnea parossistica notturna Reflusso epatogiugulare
Ridotta tolleranza allo sforzo Ritmo di galoppo
Affaticamento, stanchezza, aumento tempo di Impulso apicale dislocato lateralmente
recupero dopo esercizio fisico
Gonfiore caviglie
Meno tipici Meno specifici
Tosse notturna Aumento peso (> 2 kg/settimana)
Wheezing Perdita peso (fase avanzata)
Sensazione di gonfiore Cachessia
Perdita appetito Murmure cardiaco
Confusione (specialmente negli anziani) Edema periferico (caviglie,scroto…)
Depressione Rantoli crepitanti polmonari
Palpitazioni Effusione pleurica
Sincope Tachicardia e tachipnea
Bendopnea Polso irregolare
Respiro di Cheyne Stokes
Epatomegalia
Ascite
Estremità fredde
Oliguria

Lo scompenso cardiaco può poi portare ad una compromissione multi-organo. Il primo ad


essere interessato è il polmone: se si ha un aumento della pressione intraventricolare sx si
hanno ripercussioni dapprima sull’atrio e poi sulla vena polmonare. Si può poi parlare di
sindrome cardio-renale: nella forma anterograda la riduzione della portata tipica di HFrEF
porta a una ridotta perfusione renale; nella forma retrograda un aumento della pressione
venosa centrale causa congestione intrarenale. Per quanto riguarda il fegato, anch’esso
risente di un aumento della pressione venosa: ci può essere compromissione dei dotti biliari
con aumento della fosfatasi alcalina e delle gammaGT; se invece c’è ipoperfusione epatica si
ha ischemia centrolobulare con aumento delle transaminasi.

ESAMI EMATOCHIMICI
È importante richiedere:

1. Valutazione dell’assetto marziale e altri esami legati ad una possibile anemia. Un 30-
40% dei pz ha carenza marziale senza che vi sia anemia franca: si può somministrare
ferro carbossi-maltoso.

2. Valutazione dell’assetto elettrolitico:

a. Iposodiemia da diluizione: è un segno di scompenso severo e deve essere


considerato come fattore prognostico indipendente.
b. Ipokaliemia e ipomagnesemia: si associano a tp diuretica, possono dare
aritmie.
c. Iperkaliemia: si presenta in associazione all’insufficienza renale (8-10%)

160
d. Aumento azotemia: esprime alterazioni non solo della funzione renale ma
anche della presenza di catabolismo proteico, segno di scompenso avanzato. È
dunque da considerarsi un fattore prognostico negativo.
e. Aumento creatinina: indice della ridotta funzionalità renale, sia a causa
dell’ipoperfusione che dell’alterata attivazione neuro-ormonale. Possono poi
esserci anche aumenti transitori ad esempio a causa di una tp diuretica troppo
intensa. Dunque, per poterlo considerare un segno prognostico negativo, è
necessario che si associ a segni di congestione.
f. Aumento transaminasi e iperbilirubinemia: scompenso severo con
interessamento epatico.

3. Marcatori plasmatici:

a. Troponine: risultano aumentate e sono un fattore prognostico indipendente.


b. Peptidi natriuretici: vengono secreti a livello atriale e si misurano perché
indicano che c’è grande stiramento delle fibre (-> fattore prognostico
negativo). Si può dosare BNP, che non è però molto specifico perché viene
rilasciato ogni volta che c’è stiramento; NT-proBNP o, raramente ANP. I valori
ottenuti dovrebbero presentare un calo in seguito alla terapia.

ALTRI ESAMI
Si possono effettuare:

1. ECG: è aspecifico per diagnosticare l’insufficienza cardiaca ma permette di valutare


possibili alterazioni come i segni di un pregresso infarto, se sono presenti ipertrofie
ventricolari o dilatazioni atriali o se si hanno disturbi della conduzione.
2. Ecocardiografia: viene fatta o immediatamente nei grandi centri o quando si hanno
anomalie all’ECG o nei valori dei peptidi natriuretici. Permette di valutare la cinetica (-
> calcolo della FE), le camere cardiache e, grazie al color doppler, i flussi intracardiaci
di sangue. La più utilizzata è quella bidimensionale. Nel caso di HFrEF il ventricolo
apparirà dilatato e globoso, nel caso invece di HFpEF si potrà apprezzare l’ipertrofia
ventricolare. Se si fa un ecocardio speckle tracking si va a vedere il livello di
stiramento delle singole zone del miocardio.
3. Rx torace: un’opacità dei campi inferiori polmonari indica che è presente congestione
polmonare, un aspetto cotonoso dei campi polmonari ad ali di farfalla indica edema
alveolare. Possono poi essere indagate le dimensioni del cuore.
4. Nei pz con recente diagnosi di scompenso si può fare anche un’indagine delle
coronarie per capire se la patologia riconosce come causa precedenti episodi
ischemici.
5. La RMN cardiaca è l’esame con maggior riproducibilità e minore variabilità inter-
osservatore. Permette di calcolare i volumi ventricolari e la FE.
6. Il test da sforzo cardiopolmonare permette di registrare la VO2 di picco mentre il
soggetto pedala: questo parametro è indicativo del grado di compromissione
polmonare e ha importante valore prognostico. In base a questo esame la
classificazione di Weber divide i pazienti in quattro classi: a partire da quella C
ovvero, quando la VO2 di picco è <15 ml/Kg/min, comincia a esserci indicazione per
il trapianto cardiaco.

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TERAPIA INSUFFICIENZA CARDIACA
Si tratta delle forme ancora non evidenti dal punto di vista clinico. L’obiettivo del trattamento
sarà, dunque, quello di prevenire o ritardare lo sviluppo dello scompenso. Secondo le linee
guida ESC le raccomandazioni sono quelle di andare ad agire sugli fdr cv:

1. Trattare l’ipertensione (IA): gli ACE-ib sono raccomandati, specie se il pz ha una storia
di infarto del miocardio, così come i beta bloccanti.
2. Trattare la displipidemia con statine (IA)
3. Smettere di fumare e limitare il consumo di alcol (IC)
4. Trattare obesità e alterazioni glicemiche (IIa –> da prendere in considerazione)

Per prevenire la morte improvvisa, può essere indicato anche l’impianto di un ICD in caso di
disfunzione sistolica asintomatica con riduzione della FE al di sotto del 30% qualora la causa
sia ischemica, o nel caso in cui ci sia una cardiomiopatia dilatativa asintomatica, sempre con
riduzione della FE.

TERAPIA SCOMPENSO CARDIACO A FRAZIONE DI EIEZIONE RIDOTTA


L’obiettivo è quello di trattare le condizioni associate che contribuiscono a determinare o ad
aggravare lo scompenso, dunque in particolare l’ipertensione e le cardiopatie, sia
ischemiche che valvolari. I farmaci che si utilizzano sono:

1. Beta-bloccanti: all’inizio della tp si assiste ad un peggioramento del quadro


emodinamico, a distanza di una settimana, già, spesso, si comincia a vedere un
aumento della gittata e dopo tre mesi si può arrivare ad un netto miglioramento. Si è
fatto uno studio in cui si valutava il Carvedilolo contrapposto ad un placebo: il beta-
bloccante riduce la mortalità del 30-35% (i beta-bloccanti sono i farmaci più utili per
andare a ridurre la mortalità). Sono poi utili per fornire sollievo dall’angina nei pz con
cardiopatia ischemica e per controllare la frequenza in pz con FA che si decidere di
non cardiovertire. Non vengono dati in acuto e si devono prescrivere sempre alla
dose minima efficace.
2. ACE inibitori o Sartani: prevengono il rimodellamento; non si devono, però, usare
entrambi perché aumentano troppo gli effetti collaterali: ipotensione, insufficienza
renale, iperpotassiemia.
3. ARNI: sono farmaci che permettono di aumentare i livelli di peptidi vasodilatatori,
aumentano però allo stesso tempo anche l’angiotensina II quindi vanno dati in
associazione ai sartani. La modalità d’azione di questi farmaci è quella di bloccare
l’enzima neprilisina/endopeptidasi: esso catabolizza i peptidi vasodilatatori e, dunque,
bloccandolo questi ultimi permangono più a lungo, ma, essendo deputati a
catabolizzare anche l’angiotensina, anch’essa non verrà eliminata. Ad oggi si vende
dunque l’associazione tra sacubitril e valsartan (Entresto) in modo che vengano
migliorati solo i “sistemi buoni”.
4. Diuretici: vengono utilizzati per alleviare i sintomi dovuti alla congestione e per
migliorare la capacità di svolgere attività fisica, forse sono poi utili anche per ridurre
le ospedalizzazioni quindi dovrebbero essere considerati anche con questo scopo. Si
utilizzano in prima battuta i tiazidici, che possono essere associati agli anti-
aldosteronici come lo spinorolattone o l’eplerenone (più selettivo) o il canrenone; ciò
permette sia di ridurre il rischio di ipokaliemia che di avere benefici dovuti all’effetto
anti-fibrotico degli inibitori dei recettori dei mineralcorticoidi.esso oltre a bloccare la
pompa sodio-potassio ha anche un importante effetto anti-fibrotico.
162
Se l’associazione di questi farmaci non permette di controllare la PA, o se il pz non ne può
assumere alcuni di quelli che fanno parte della prima linea, si possono aggiungere:

1. Nitrati
2. Diuretici dell’ansa: sono farmaci utili, con gli stessi scopi di quelli detti prima, ma
bisogna ricordarsi di prestare attenzione alla kaliemia.
3. Calcio antagonisti vaso-selettivi (Amlodipina)
4. Idralazina: è un vasodilatatore diretto del quale non si conoscono ancora
perfettamente i meccanismi di azione. Riduce il postcarico ventricolare riducendo le
pressioni sia sistemiche che del circolo polmonare, pare che abbia poi un moderato
effetto inotropo diretto. È importante nei pz che hanno anche insufficienza renale
perché permette di aumentare il flusso in questo distretto. L’associazione di questo
farmaco e nitrati porta a buoni risultati in studi randomizzati, non sono però ancora
presenti meta analisi a causa della scarsità dei dati.
5. Digossina: è un farmaco poco maneggevole e poco sicuro che permette di aumentare
la capacità contrattile del cuore. Agisce a livello delle pompe Na/K dei cardiomiciti:
legandosi al sito del K è in grado di bloccarle e fare, dunque, in modo che per
estrudere Na si usino le pompe che al contempo internalizzano il Ca. Il risultato è una
maggiore concentrazione di Ca intracitoplasmatica, che permette anche un maggior
rilascio di Ca dal reticolo quando arriva l’impulso: ne consegue che la contrattilità
viene aumentata. Per la gestione di questo farmaco è importante monitorare le
concentrazione extra-cellulari di K: in condizioni di iperk si ha defosforilazione
dell’unità alfa della pompa con ridotta affinità per il farmaco e dunque riduzione della
sua azione mentre con ipok siamo nella situazione contraria, con rischio di tossicità.
Oltre all’effetto inotropo positivo, la digossina ha anche effetto cronotropo negativo
perché l’NSA diventa più sensibile agli stimoli vagali, mentre le fibre di conduzione
sono meno sensibili agli stimoli simpatici. Sulla muscolatura liscia dà vasocostrizione.
A dosi tossiche ci possono essere extrasistoli o gravi aritmie (la maggior
concentrazione di calcio rende il potenziale a riposo meno negativo); anche a dosi
terapeutiche comunque si hanno alterazioni dell’ECG: le onde T saranno appiattite o
invertite e il QT sarà accorciato, c’è poi una depressione del tratto ST a cucchiaio.
L’utilizzo della Digossina deve essere considerato in pz sintomatici, in ritmo sinusale,
nonostante trattamento con ACE-ib, beta-bloccante e diuretici antialdosteronici.

NON si devono utilizzare i calcio antagonisti non diidropiridinici perché hanno un


eccessivo effetto inotropo negativo e gli alfabloccanti perché portano a ritenzione idrica e
peggioramento dello scompenso (possono tuttavia essere dati a pz con IPB che non abbiano
sintomi manifesti di scompenso). Anche la Moxonidina è da scartare perché è stata associata
ad un incremento della mortalità, così come non si devono prescrivere Tiazolidinedioni
perché incrementano il rischio di un peggioramento dello scompenso e quello di
ospedalizzazione. FANS e COX2-ib incrementano il rischio di peggioramento dello
scompenso e di ospedalizzazione perché portano a ritenzione idro-salina. Infine, come
detto, non si devono associare Sartani e ACE-ib.

Se la FE, dopo tp ottimizzata, rimane al di sotto del 35% si deve valutare l’impianto di
defibrillatore (ICD: Implantable Cardioveter Defibrillator) con o senza risincronizzazione
ventricolare (pacing biventricolare). Dal punto di vista pratico, l’ICD è un device a batteria
posizionato sotto la pelle della regione toracica che, mediante un catetere, tiene traccia del
ritmo cardiaco; se dovesse diventare anormale il device stesso è in grado di rilasciare una
163
scarica defibrillante che riporta il cuore in ritmo. Esso è raccomandato per ridurre il rischio
di morte improvvisa e di morte per tutte le cause nei pz con aritmia ventricolare che
determina instabilità emodinamica e con un’aspettativa di vita superiore ad un anno in
buono stato funzionale. Per quanto riguarda, invece, la prevenzione primaria, ha indicazione
IA nei pz con scompenso sintomatico, FE<35% nonostante almeno 3 mesi di tp
farmacologica in presenza di cardiopatia ischemica (l’impianto non deve essere fatto prima
di 40 giorni); ha invece indicazione IB se sussistono le medesime condizioni ma, invece che
da cardiopatia ischemica, il pz è affetto da cardiomiopatia dilatativa. Per quanto riguarda la
risincronizzazione (CRT: Cardiac Resynchronization Therapy): il razionale dietro a
quest’ultima strategia terapeutica è che l’aumento delle dimensioni del VS può portare ad un
QRS slargato con morfologia a bdb sx, il che si traduce in una contrazione asincrona tra
setto e parete libera del vs e conseguente riduzione dell’efficacia dell’eiezione sistolica sx. I
pz che ne beneficeranno in misura maggiore saranno, dunque, quelli con un QRS>150ms
con bdbsx e con FE<35%, le evidenze sono invece meno univoche per coloro che non
hanno il bdbsx. Al contrario, deve essere preferito al pacing ventricolare nei pz che hanno
indicazione al pacing e BAV di alto grado, inclusi i pz con FA. Al contrario, il CRT è
controindicato se QRS<130msec. Per la zona grigia tra 150 e 130 potrebbe essere preso in
considerazione.

Altre opzioni che devono essere valutare nel caso in cui la tp medica ottimizzata non
risultasse sufficiente sono il rimodellamento ventricolare sx e il trapianto cardiaco.

Inoltre, in pz con scompenso cardiaco bisogna sempre considerare le comorbilità: esse


possono interferire con il processo diagnostico (ad esempio: pz con BPCO in cui la dispnea
viene imputata a questa patologia e non si prende in considerazione lo scompenso) o
possono aggravare i sintomi dello scompenso, compromettendo ulteriormente la qualità di
vita e aumentare ancor di più ospedalizzazioni e mortalità. Sono poi importanti da
considerare anche sul versante farmacologico: la tp per altre patologie potrebbe peggiorare
lo scompenso, ci possono essere interazioni farmacologiche con ridotta efficacia e sicurezza
e maggiore incidenza di effetti collaterali (ad esempio beta-agonisti per BPCO e asma) e
alcuni farmaci possono non essere utilizzabili a causa di altre patologie presenti nel
medesimo pz (per esempio, in pz con IR non posso prescrivere farmaci che agiscono sul
SRAA). Bisogna quindi sapere come gestire le comorbilità e quali farmaci vadano preferiti.
Ad esempio, in un pz con scompenso, il DM dovrebbe essere trattato preferibilmente con
Metformina, mentre non si dovrebbero prescrivere i Tiazolidinedioni. È poi importante
sapere che i FANS a questi pz non andrebbero prescritti, soprattutto in cronico, otivo per cui
anche se è presente artrite non sono raccomandati; così come è da evitare la ventilazione
servo-assistita in pz con apnee notturne perché aumenta la mortalità, sia cv che per altre
cause. È invece raccomandato il trattamento della carenza di ferro: la somministrazione di
ferro carbossimaltosio dovrebbe essere considerato per alleviare i sintomi dello scompenso,
incrementare la capacità di esercizio e migliorare la qualità di vita.

Al trattamento farmacologico si devono associare modifiche dello stile di vita tra cui:

1. Cessazione del fumo e dell’uso di droghe


2. Restrizione o ancor meglio astinenza dal consumo di alcol
3. Limitare l’assunzione di sodio a 3g/die e, se il pz ha una forma refrattaria o sintomi
importanti, limitare quella di liquidi a 1.5-2L/die.
4. Prevenzione e contrasto dell’obesità e monitoraggio giornaliero del peso (ritenzione)
164
165
Per pz con angina stabile e scompenso cardiaco i primi farmaci da prescrivere sono i beta
bloccanti. Se essi non dovessero essere sufficienti, o non fossero tollerati, si dovrebbe
considerare l’Ivabradina, nel caso in cui la FC sia >70bpm (agisce inibendo la correnti funny
e quindi è necessario che l’impulso parta dal NSA ed ha effetto cronotropo negativo). Altri
farmaci da poter prendere in considerazione sono la Trimetazidina, l’Amlodipina o il
Nicorandil. L’associazione principale per il controllo della sintomatologia anginosa
persistente comprende beta-bloccante, Ivabradina e un altro. La rivascolarizzazione è
raccomandata quando l’angina persiste nonostante una tp medica ottimizzata con farmaci
anti-anginosi.

Per pz con FA, alta FC e scompenso cardiaco le raccomandazioni sono:

1. Cardiovertire se si ritiene che la FA contribuisca alla compromissione emodinamica


(IC)
2. Per pz con scompenso di classe NYHA I-III il trattamento di prima linea
raccomandato, in condizioni di euvolemia, sono i beta bloccanti (IA); dovrebbe poi
essere considerata la somministrazione di Digossina se la frequenza rimane elevata
nonostante il beta-bloccante, o se quest’ultimo non è tollerato (IIa).
3. Per pz con scompenso di classe NYHA IV, in acuto dovrebbe essere presa in
considerazione la somministrazione di un bolo di amiodarone, o nei pz naive alla
digossina, un bolo di Digossina.
4. Può essere presa in considerazione l’ablazione del nodo AV, tenendo però presente
che questi pz diventeranno PM-dipendenti (IIb).

Per pz con FA, disfunzione ventricolare sx sintomatica ma senza evidenza di scompenso


acuto le linee guida dicono che:

1. L’ablazione può essere considerata per ripristinare il ritmo e alleviare la


sintomatologia se persistono segni e sintomi di scompenso nonostante tp
farmacologica che permetta il controllo della frequenza ventricolare (IIb).
2. Possono essere prese in considerazione la cardioversione elettrica o farmacologica
per migliorare la sintomatologia in pz con sintomi e/o segni persistenti di scompenso,
nonostante tp farmacologica e adeguato controllo della frequenza ventricolare (IIb).
3. La somministrazione di Amiodarone può essere considerata prima o dopo la
cardioversione per il mantenimento del ritmo. Sono invece da evitare il Dronedarone
perché aumenta le ospedalizzazione per cause cv e il rischio di morte (IIIA), e gli anti-
aritmici di classe I perché si associano ad un aumentato rischio di morte precoce (IIIA)

Per pz Con FA parossistica, persistente o permanente e scompenso cardiaco sintomatico si


deve pensare anche alla prevenzione del tromboembolismo:

1. Un anticoagulante orale è raccomandato se il CHADVASC è maggiore di 2 e non ci


sono controindicazioni, in maniera indipendente dall’utilizzo di altri farmaci per il
controllo del ritmo e della frequenza (IA). Se sulle base del CHADVASC c’è elevato
rischio emorragico sono da prendere in considerazione i NAO perché si associano ad
un minore rischio di stroke, emorragia intracranica e mortalità (IIa)
2. In pz con FA di durata superiore alle 48h o di durata sconosciuta, prima di
cardiovertrire, è raccomandato fare un trattamento con anticoagulante orale per
almeno 3 settimane (IB). Se, però, la cardioversione fosse urgente a causa di un
166
aritmie possibilmente fatali, si può dare eparina non frazionata o a basso peso
molecolare (IC)
3. Se i pz hanno una patologia coronarica cronica, a 12 mesi dall’evento acuto non è
raccomandata l’associazione di antiaggregante e anticoagulante per il troppo elevato
rischio emorragico (IIIC)
4. I NAO non sono raccomandati in pz con valvole meccaniche o con stenosi mitralica
moderata (IIIB)

Per pz con tachiaritmie ventricolari e scompenso cardiaco il trattamento prevede:

1. Impianto di ICD o CRT (IA)


2. Beta-bloccanti, anti aldosteronici, e Sacubitril/Valsartan riduco il rischio di morte
improvvisa (IA)
3. Cercare e correggere possibili fattori aggravanti o precipitanti come ipokaliemia,
ipomagnesemia o ischemia (IIa); possono poi essere considerati anche Amiodarone, o
ablazione transcatetere in pz con ICD o non candidabili allo stesso.
4. Non è raccomandato l’uso routinario di anti-aritmici perché si associa ad un
peggioramento dello scompenso, ad un effetto pro-aritmico e ad un aumentato rischio
di morte (IIIA)

Per pz con bradiaritmie e scompenso cardiaco le linee guida dicono:

1. Se c’è un BAV di alto grado la CRT è da preferire al pacing ventricolare (IA)


2. Se non c’è un BAV ma i pz richiedono pacing dovrebbero essere preferite strategie
che evitino l’induzione o l’esacerbazione di una disincronizzazione ventricolare (IIa)
3. Se all’ECG ci sono pause superiori a 3s, se il pz è sintomatico o se la FC a riposo è
<50bpm (o 60 in caso di FA), si deve considerare di ridurre le dosi di beta-bloccante o
di utilizzare altri farmaci (IIa); nel caso in cui la sintomatologia persista si può
considerare la sospensione dei beta bloccanti o l’impianto di un pacing (IIb)
4. Non è raccomandato impiantare un device di pacing solo per poter prescrivere
liberamente beta-bloccanti, ma in assenza di altre indicazioni (IIIC)

TERAPIA SCOMPENSO CARDIACO A FRAZIONE DI EIEZIONE CONSERVATA


Sono stati fatti degli studi che hanno dimostrato come tp molto utili nel caso di scompenso a
FE ridotta come beta-bloccanti, ACE-ib, Sartani o risincronizzazione cardiaca, non siano,
invece, efficaci in pz affetti da forme a FE conservata. L’unico intervento che permette di
migliorare la capacità di esercizio e la qualità di vita è l’allenamento fisico nell’ambito di un
programma di riabilitazione cardiaca. Si suggerisce (IIC) l’uso di un’antagonista dei
mineralcorticoidi sotto controllo delle variazioni del BNP e della funzionalità renale. I beta-
bloccanti, invece, non dovrebbero essere utilizzati in assenza di indicazione alternativa. Il pz
con disfunzione diastolica ventricolare ha una vs piccolo e rigido: esso sarà dunque
particolarmente sensibile alla riduzione eccessiva del precarico che porta a riempimento
insufficiente, diminuzione della gittata e ipotensione. Ne deriva che i diuretici, sebbene
raccomandati, devono essere gestiti con molta cautela. NON dovrebbero essere invece
prescritti Nitrati, Digossina e inibitori della fosfodiesterasi-5.

Se i pz hanno anche FA, per il ripristino e il mantenimento del ritmo sinusale sono da
preferire, se possibile, rispetto al controllo della frequenza.

167
INSUFFICIENZA CARDIACA ACUTA
Si intende una rapida insorgenza o un peggioramento improvviso di segni e sintomi tipici
dello scompenso cardiaco. L’insufficienza cardiaca acuta colpisce l’1-2% della popolazione
adulta e la prevalenza sale al 10% nelle persone con più di 70 anni. Gli uomini tipicamente
presentano in anamnesi una cardiopatia ischemica, al contrario delle donne che presentano
DM e ipertensione. La metà dei pazienti, inoltre, presenta una frazione di eiezione (FE)
ridotta. Una volta chi si presentava per scompenso acuto da aumento dei valori di PA
rappresentava il 40% dei casi; ora per un miglior controllo della pressione questa
percentuale è diminuita, ma sono aumentate altre forme, tra cui quelle ischemiche con
riduzione dei valori di pressione.

Avere un’insufficienza cardiaca acuta equivale a un rischio di morte del 4-7%, che
comunque, ad oggi, è in calo, e ad una permanenza di ricovero dai 4 ai 10 giorni a seconda
della gravità e della causa scatenante. L’EPA conseguente ad un aumento dei valori di
pressione arteriosa è associato a minor mortalità; al contrario, lo shock cardiogeno per una
sindrome coronarica acuta o per una compromissione di un ramo coronarico di ampie
dimensioni con perdita di contrattilità del ventricolo sinistro, è associato ad una maggiore
mortalità, che può arrivare fino al 40%. Quindi, fattori precipitanti come una SCA, o anche
un’infezione, aumentano la mortalità; al contrario, FA e mancata aderenza al trattamento
sono fattori precipitanti che migliorano il decorso clinico.

In un terzo dei casi l’insufficienza cardiaca acuta viene definita de novo, poiché insorge
improvvisamente, mentre nei rimanenti casi si tratta di riacutizzazioni di scompensi cardiaci
cronici. Esistono, dunque, diversi quadri clinici che però esitano tutti in un aumento della
pressione capillare polmonare e nello sviluppo di edema prima nell’interstizio polmonare e
poi all’interno degli alveoli. Alla base possiamo avere:

1. Scompenso cardiaco congestizio cronico che va incontro a riacutizzazione;


2. Scompenso cardiaco acuto da incremento acuto del postcarico, che rappresenta
un’emergenza ipertensiva;
3. Scompenso cardiaco da sindrome coronarica acuta o ischemia miocardica acuta: se si
rompe un muscolo papillare del ventricolo sinistro si sviluppa una insufficienza
mitralica acuta con brusco incremento della pressione atriale sinistra e quindi della
pressione capillare polmonare;
4. Scompenso cardiaco destro, ad esempio cuore polmonare acuto come conseguenza
di un’embolia polmonare: se c’è aumento pressorio a destra, ci sarà congestione
venosa sistemica, la quale può comportare una ridotta perfusione di diversi organi
come rene o fegato. Se una persona ha uno scompenso cardiaco destro e
contemporaneamente ha un’ipoperfusione renale, andrà incontro in concomitanza ad
una IRA (si parla di sindrome cardio-renale); la congestione venosa sistemica
determina altresì un’insufficienza epatica, con livelli molto elevati di INR, a causa del
fatto che il fegato non sarà più in grado di sintetizzare i fattori della coagulazione.
5. Shock cardiogeno

Tra le cause scatenanti di uno scompenso acuto, oltre alle cause già citate nell’elenco, si
possono avere anche tachiaritmie, infezioni con spesi, abuso di alcol e cocaina, eccessivo
sovraccarico di volume associato a FANS o a CS o farmaci come le Antracicline.

168
Per orientarsi fra le possibili cause dello scompenso cardiaco acuto si usa l’acronimo
CHAMP, dove:

• C sta per Sindrome Coronarica Acuta


• H sta per Emergenza ipertensiva
• A sta per Aritmia (solitamente Fibrillazione Atriale)
• M sta per Causa meccanica (come ad esempio uno shock cardiogeno per un’alterata
funzione di pompa o rottura di una valvola)
• P sta per Embolia Polmonare (EP)

Dal punto di vista clinico, i sintomi comprendono dispnea, ortopnea, intolleranza


all’esercizio, edema perimalleolare, astenia, affaticabilità, nicturia, sintomi cerebrali o
disturbi gi. Dal punto di vista dei segni potremo percepire: ritmo di galoppo, ipertensione
venosa giugulare e reflusso epato-giugulare, insorgenza di nuovi soffi che sono dovuti a
disfunzione valvolare e la presenza di rantoli crepitanti. Ciò detto, in caso di insufficienza
cardiaca acuta, la sensazione sarà quella di trovarsi di fronte ad un paziente a rischio di
morte imminente.

Innanzitutto bisogna escludere lo shock cardiogeno, che è la condizione più grave, poiché
necessita di un immediato supporto farmacologico o meccanico con contropulsatore aortico
per il mantenimento un’adeguata perfusione cardiaca, cerebrale e renale.

Se non è presente shock cardiogeno, ma il paziente è ipossiemico verosimilmente ha


un’insufficienza respiratoria. In tal caso può essere utile somministrare per prima cosa O2 e
capire se può richiedere un supporto ventilatorio con una ventilazione non invasiva (NIV),
utilizzando una C-PAP (continuous positive airways pressure), e poi eventualmente
ventilazione meccanica.

Se non siamo di fronte alle situazioni precedentemente citate, si individua la causa e si


agisce seguendo il trattamento più adeguato per ciascuna di queste circostanze.

Se l’eziologia non dovesse essere chiara o facilmente individuabile, si effettua il dosaggio dei
peptidi natriuretici BNP (Brain Natriuretic Peptide, in realtà, aumenta in presenza di diverse
condizioni tra cui l’ipertrofia miocardica, un ictus ischemico o emorragico o un’insufficienza
renale) e NT-proBNP. Nel caso di una difficile diagnosi differenziale con una pneumopatia,
si svolgono un elettrocardiogramma a 12 derivazioni (ECG 12-leads), un’RX torace, il
dosaggio delle troponine cardiache (nonostante non siano così utili: in alcuni soggetti sono
normalmente più elevate e poi sono molto poco specifiche; servono più che altro come
indice prognostico perché se rimangono elevate anche con la tp significa che il pz ha un
danno cardiaco importante che va ad incidere sulla sua sopravvivenza) e una valutazione
della funzionalità renale. Si può fare anche un esame emocromocitometrico completo, se si
suppone un’infezione sovrapposta; se ci sono segni di congestione venosa sistemica è utile
dosare le transaminasi e l’INR, che è uno dei parametri che si modificano di più nello
scompenso cardiaco acuto con congestione venosa sistemica e compromissione epatica.

169
Dopo aver stabilito la causa, devo considerare l’emodinamica, il grado di congestione
polmonare e il colore e la temperatura della cute come indice di perfusione dei tessuti
perché clinicamente lo scompenso cardiaco acuto può presentarsi in diversi modi:

Nel caso di un pz umido e caldo, può essere un quadro in cui prevalga l’ipertensione oppure
la congestione. Se prevale l’ipertensione, si procederà riducendo la PA, altrimenti si ridurrà il
sovraccarico di volume.
Se il paziente è non sudato, ma caldo, e quindi ha una perfusione adeguata, lo si può
considerare in una fase iniziale di scompenso ed è più facilmente trattabile anche con
farmaci per via orale senza ricorrere a quelli per via endovenosa.
Se è sudato ed è ipoperfuso bisogna essere cauti, poiché se la PA è bassa sarà necessario
somministrargli farmaci inotropi positivi per rialzarla, stando attenti però con i diuretici; se
invece i valori non sono così bassi si possono usare vasodilatatori.

TERAPIA SCOMPENSO CARDIACO ACUTO

170
Uno scompenso che si riacutizza è più facilmente correggibile tramite il trattamento della
causa precipitante, per poi riprendere la terapia che il soggetto assumeva precedentemente.

Uno scompenso acuto de novo, invece, è più complicato, poiché può trattarsi ad esempio di
una corda tendinea che si rompe oppure di un paziente ischemico in cui va ricercata la
sindrome coronarica acuta o l’ischemia miocardica.

Si possono utilizzare:

1. O2: è fondamentale somministrarlo al fine di avere una saturazione periferica (SaO2)


del 90-95%, utilizzando una maschera Venturi senza reservoir, perché altrimenti si
rischia di mandare il paziente in ipercapnia e, se ce l’ha già, di causarne il
peggioramento. Se necessario, si può usare la ventilazione meccanica non invasiva
(NIV), che inizialmente è mal tollerata dai pz, accentua l’effetto diuretico e apporta
importanti benefici. Il vantaggio è di accelerare la risoluzione del quadro ed è
indicata quando sono presenti segni di fatica respiratoria, dispnea in aggravamento,
tachipnea, esaurimento della muscolatura o dolore addominale e anche in caso di
ipopotassiemia. È poi utile se la pCO2 è elevata, se c’è acidosi con pH<7.35 e se c’è
ipopotassiemia (posso usare in questo caso solo poco diuretico). Al contrario, non
viene utilizzata se il pz è ipoteso perché tende a ridurre i valori pressori, se c’è arresto
cardiaco o respiratorio, se il pz ha una grave emorragia digestiva, se c’è ostruzione
delle vie respiratorie o se ci sono malformazioni facciali.

2. Diuretici: sono fondamentali nel paziente caldo con congestione venosa. Riducono il
sovraccarico di volume e la pressione capillare polmonare; la Furosemide ha poi un
effetto venodilatanto che riduce il precarico. Quest’ultimo effetto si vede prima
dell’effetto diuretico: si devono dare il più presto possibile due fiale di Furosemide
(20mgx2) EV e il paziente dopo 15-20min comincia a respirare meglio. Nel frattempo
si inserisce il catetere vescicale e, dopo circa 30min, il pz comincerà a urinare (viene
considerata accettabile una risposta di 100 mL di urina nella prima ora dalla
somministrazione di Furosemide, se l’effetto non si vede ripeto la somministrazione,
in alternativa si può decidere di dare una dose di Tiazidico per os; il quale deve
essere però usato solo in modo estemporaneo e non in associazione stabile per non
aumentare troppo la diuresi). Quindi il primo effetto è quello emodinamico, che
migliora la dispnea del paziente, poi subentra quello diuretico, che la migliora
ulteriormente. Se si è sicuri che la quota di congestione è elevata, dopo una prima
risposta bisogna proseguire con un’infusione continua. Un indice utile per dosare il
diuretico è il colore dell’urina: se è molto diluita, il paziente potrebbe aver bisogno
nelle ore successive di altre dosi di diuretico, se invece è concentrata il volume
circolante non è molto espanso, non può riassorbire molti liquidi e bisogna
intraprendere altre strategie.Bisogna monitorare la PA, la creatinina e gli elettroliti,
anche perché la quota di potassio eliminata è notevole.
In alternativa si può usare torasemide in bolo 10-20 mg, che sembra dare una minore
ipopotassiemia rispetto alla furosemide oppure bumetanide in bolo 1 mg. +

3. Oppioidi: secondo le linee guida l’uso routinario non è raccomandato e la decisione


di somministrarli deve essere individualizzata. In uno studio l’uso della morfina si
associava ad un’incidenza elevata di ventilazione meccanica, ricovero in terapia
intensiva e morte. In realtà, una piccola quantità di morfina può essere usata per il
171
suo effetto emodinamico: dà venodilatazione, riduce il precarico, migliora il lavoro
cardiaco, riduce lievemente la FC e la stimolazione simpatica. Il pz avverte meno la
dispnea e risponde meglio alla tp in atto, accettando di più la ventilazione
meccanica.

4. Vasodilatatori: vengono dati quando il paziente ha le estremità calde e valori PA


accettabili, sopra i 90mmHg di PAS. Possono essere dati:

a. Nitroglicerina
b. Isosorbide dinitrato (nome commerciale Carvasin)
c. Nitroprussiato: se i valori di PA sono molto elevati. Rispetto agli altri è più
difficile da somministrare, ma ha un effetto immediato. Da usare nel caso di
EPA.
d. Nesiritide

Questi farmaci vanno dosati in base alla risposta emodinamica, soprattutto il


nitroprussiato e possono dare tutti come effetto collaterale ipotensione, per cui se si è
data una dose sbagliata iniziale, si riduce la velocità di infusione e si mantengono i
valori di PA sui 110/120 mmHg.

Un altro farmaco con effetto vasodilatatore su cui si era investito molto era la
Serelaxina, un ormone prodotto dall’utero in gravidanza che fisiologicamente porta a
un rilassamento della muscolatura liscia; era stato molto promettente in un primo
studio chiamato RELAX AHF a cui ne è seguito un altro, RELAX AHF2, risultato però
negativo, poiché in realtà non si sono riscontrati dei risultati migliori rispetto ai
farmaci utilizzati in un trattamento standard. L’effetto emodinamico era immediato,
ma non sembrava migliore rispetto agli altri in termini di mortalità. C’era solamente
qualche piccola differenza nel guardare il peggioramento a 5 giorni nei pazienti.

5. Ultrafiltrazione: viene riservata a soggetti con scompenso refrattario che non risponde
a diuretico e vasodilatatori. È indicata in caso di oliguria non responsiva a
riempimento volemico, in caso di insufficienza renale grave e resistenza al diuretico.
Non sappiamo quanto incida sulla mortalità a lungo termine poiché generalmente
viene utilizzata in soggetti con condizioni scadenti.

6. Inotropi positivi: sono indicati per coloro che hanno valori bassi di PA con segni di
congestione o ipoperfusione. Si possono usare: Dopamina, Dobutamina o inibitori
delle fosfodiesterasi. Non sono ad effetto immediato immediato, ma devono essere
somministrati in terapia intensiva e devono essere attentamente valutati e monitorati.

NON si usano:

1. Beta-bloccanti: non devono essere somministrati in acuto e, se anche il pz li sta già


assumendo per uno scompenso cronico, la loro dose deve essere ridotta oppure si
possono sospendere. Se non li prendeva prima, si aspetta che finisca la fase acuta e
poi gli vengono dati. Le uniche opzioni in cui è possibile somministrarli è quando il
paziente ha una tachiaritmia o se ha un’ischemia, non se ha una disfunzione sistolica.
Se il paziente dovesse avere un’FA, una frequenza ventricolare di 140 bpm, quindi
una bassa portata dovuta ad un’elevata frequenza cardiaca, non è possibile usare
172
vasodilatatori e col diuretico bisogna andarci cauti, inoltre non è possibile
cardiovertirlo perché non si sa da quanto tempo abbia la FA, in questo caso si può
dare il beta-bloccante per rallentare la frequenza ventricolare, cosicché il ventricolo
abbia il tempo per riempirsi e una gittata migliore. Se con il beta bloccante non si
riesce a controllare la frequenza si può dare Digossina.

2. Gli ACE-inibitori non vengono utilizzati se il paziente ha un’insufficienza renale


acuta, ha ipotensione ed è in iperpotassiemia. Nel caso li prendesse già da prima, il
dosaggio viene ridotto o sospeso, altrimenti si attende la fine della fase acuta prima di
poterglieli dare.

Un paziente con scompenso cardiaco quando viene dimesso dovrà prendere un ACE-
inibitore, un beta-bloccante e un antagonista dei mineralcorticoidi. In questo modo la
mortalità diminuirà del 50% rispetto a chi non segue questo schema terapeutico.

173
EDEMA POLMONARE ACUTO – EPA
Si tratta di una gravissima sindrome clinica caratterizzata da un aumento dell’acqua
extravascolare del polmone per trasudazione o essudazione di liquido sieroematico
nell’interstizio, negli alveoli e nei bronchioli. Riconosciamo principalmente quattro
meccanismi fisiopatologici alla base:

1. Emodinamico (cardiogeno): c’è aumento della pressione di incuneamento polmonare


e normale permeabilità della barriera alveolo-capillare. La pompa ventricolare non
funzione quindi aumenta la pressione idrostatica a livello polmonare; ciò può
verificarsi nel contesto di IMA, di crisi ipertensive, di cardiomiopatie, FA, miocarditi,
valvulopatie, scompenso cardiaco e cardiopatie congenite.
2. Lesionale: la pressione di incuneamento polmonare è normale, aumenta la
permeabilità alveolo-capillare.
3. Da riduzione della pressione oncotica del plasma (ipoalbuminemia)
4. Misto (neurogeno)

Altre cause possono essere pneumotorace, polmonite, shock, carcinomi, overdose di droghe,
reazioni allergiche, pancreatite acuta, ipertensione arteriosa polmonare, respirazione di gas o
polveri irritanti e alta quota o apnea.

La sintomatologia insorge repentinamente ed è caratterizzata da dispnea ingravescente con


ortopnea e tachipnea, tachicardia, ansia, agitazione, irrequietezza per fame d’aria e tosse con
sputo ematico schiumoso. La cute è pallida, fredda e sudata con possibile cianosi delle
estremità. All’auscultazione del torace avremo rantoli crepitanti che dalle basi salgono verso
gli apici (marea montante).

La terapia è finalizzata a ripristinare nel più breve tempo possibile la funzione respiratoria
polmonare e l’emodinamica locale per ridurre l’aumento dei liquidi nell’interstizio. Uno dei
cardini della tp è poi quello di interrompere il meccanismo fisiopatologico alla base:

1. EPA cardiogeno: il pz deve essere messo seduto per favorire il ritorno venoso e
aumentare la capacità totale e vitale del polmone; poi si deve iniziare ventilazione
non invasiva con maschera di Venturi. A questo punto si agisce in maniera diversa in
base alla situazione emodinamica:

a. Pz emodinamicamente stabile (PAS>130mmHg): nitroderivati sublinguali


(o.4mg, ripetibile fino a 4 volte a distanza di 5min) o EV (400-800mcg in
bolo), bolo endovenoso di morfina (2.5-5mg), Furosemide EV in bolo (20mg o
il doppio della dose abituale, in entrambi i casi da ripetersi raddopiando le dosi
in caso di mancata risposta) e, se c’è SCA, procedere con la
rivascolarizzazione.
b. Pz emodinamicamente instabili, quindi con segni di ipoperfusione tissutale,
congestione o con PAS<85mmHg: si fa quanto detto precedentemente e, se la
situazione non miglioa, si possono aggiungere farmaci inotropi per migliorare
la sintomatologia da bassa portata.

174
- EPA non cardiogeno: il trattamento dipende dalla causa alla base; nel frattempo si
deve dare una tp di supporto per mantenere l’ossigenazione tissutale e un’adeguata
funzione emodinamica. Si può ricorrere a ventilazione non invasiva o a intubazione e
ventilazione meccanica se ci sono ipossiemia o ipercapnia persistenti.

Raccomandazioni particolari riguardano le forme dovute a:

- Crisi ipertensiva: utilizzare vasodilatatori, diuretici e calcio-antagonisti.


- FA: cardiovertire e, se necessario, dare Digossina per ridurre la frequenza ventricolare.
- Dispnea parossistica notturna: oltre alla tp per pz con EPA cardiogeno, aggiungere
Teofillina.

175
IPERTENSIONE POLMONARE
Con ipertensione polmonare si intende una condizione in cui, a livello delle arterie
polmonari, si raggiunga a riposo una pressione di 25 mmHg verificata con cateterismo
cardiaco destro.

La classificazione eziologica permette di distinguere tra:

1. Ipertensione arteriosa polmonare: può essere idiopatica, genetica (con mutazioni di BMPR2
che è un inibitore della proliferazione muscolare), dovuta a connettivopatie come la
sclerodermia, a farmaci o a HIV. In questo caso l’ipertensione è precapillare: la pressione
capillare è <15 mmHg e la resistenza vascolare è > 3 U di Wood.
2. Ipertensione polmonare da cause cardiache (95%): si ha un’ipertensione postcapillare
(pressione capillare >15 mmHg) dovuta ad aumento delle pressione in ventricolo e in atrio
sinistro. Alla base può esserci uno scompenso cardiaco, una stenosi mitralica o un ima. Se si
ha una situazione di aumento acuto delle pressioni polmonari si può andare incontro a epa
per accumulo di trasudato a livello interstiziale e alveolare.
3. Ipertensione polmonare da patologia polmonare: si può avere ad esempio fibrosi o BPCO.
Nel tempo dà cuore polmonare (–> v.di dopo)
4. Ipertensione polmonare da cause tromboemboliche croniche: ad esempio, in seguito ad un
embolia polmonare si possono avere trombi calcifici molto difficili da rimuovere. L’unica
strategia è la tromboendoarteriectomia polmonare che è però eseguita solo da un numero
esiguo di centri e si correla ad una mortalità piuttosto elevata (4,7%)
5. Ipertensione polmonare multifattoriale o a eziologia sconosciuta.

IPERTENSIONE ARTERIOSA POLMONARE


Inizialmente le alterazioni sono solo di tipo funzionale: si assiste ad una riduzione di fattori
vasodilatatori (NO, prostacicline), a fronte di un aumento dell’endotelina che porta
vasocostrizione. In questo modo si ottiene una riduzione del calibro capillare che porta ad
un aumento della pressione endoluminale. Nel tempo, si ha una risposta data da un
rimodellamento e dalla fibrosi: il danno diviene, pertanto, anche organico con restringimento
ed irrigidimento dei vasi.

Dal punto di vista funzionale i pz possono essere classificati in:

1. Pz asintomatici
2. Pz asintomatici a riposo con lievi limitazioni all’attività fisica
3. Pz asintomatici a riposo con marcate limitazioni dell’attività fisica
4. Pz sintomatici a riposo che presentano anche sintomi di scompenso dx (congenstione
venosa con epatomegalia, edemi, ascite, ipotensione…). Spesso purtroppo la diagnosi
avviene in questa fase.

Un paziente che presenta o riferisce una sintomatologia compatibile con una condizione di
ipertensione polmonare (dispnea, astenia, dolore toracico, edemi, sincope) deve essere
sottoposto ad un ecocardiografia di screening. Questo è importante perché permette di
misurare la pressione polmonare e di stabilire se essa sia o meno maggiore di 25 mmHg e, in
secondo luogo, talvolta può anche consentire di fare diagnosi (–> spesso causa cardiaca).
Nel caso in cui si abbia positività a questo esame, è necessario verificare con opportuni
esami se si tratti di una causa cardiaca (ECG) o polmonare (esami di funzionalità respiratoria,
rx torace, emogasanalisi). Nel caso le due cause precedenti vengano escluse, l’iter

176
diagnostico deve proseguire con l’esecuzione di una scintigrafia polmonare ventilo-
perfusioria che può dare diversi risultati:

a. Si può escludere la presenza di una malattia polmonare non riconosciuta in


precedenza
b. Se appaiono difetti di perfusione segmentari, bisogna sospettare una patologia
tromboembolica e si deve procedere con angiografia polmonare.

Se non emergono difetti di perfusione si procede con il cateterismo cardiaco dx che permette
di distinguere l’ipertensione precapillare da quella post capillare. A livello delle diramazione
secondarie si misurano i valori pressori: se la pressione è <15 mmHg si deve pensare a
un’ipertensione arteriosa polmonare e si devono fare dei test per ricercare le possibili cause.
Se essi risultano positivi si può anche procedere a fare test di vasoreattività: la loro funzione è
quella di capire se la patologia è allo stadio funzionale o a quello organico, in altre parole se
la vasocostrizione è reversibile o no. Se iniettando vasodilatatori si ha un aumento della
pressione superiore a 10 mmHg il test può essere considerato positivo.

Stratificazione del rischio annuo di mortalità:

a. Basso (<5%): i pz vengono inseriti in questa fascia se non hanno segni di scompenso
(non c’è sovraccarico venoso e quindi non c’è nemmeno un rialzo dei valori di BNP),
se hanno una buona capacità di svolgere attività fisica (camminano più di 440m in
6min) e se ottengono buoni risultati ai test strumentali (VO2 di picco > 15mL/min/Kg
e CI=GS/m2 > 2,5L/min/m2).
b. Medio (5-10%)
c. Alto (>10%): i pz sono francamente scompensati e hanno resistenze polmonari
elevate. Saranno in grado di camminare meno di 165m in 6min e avranno CI basso.

La terapia deve essere tipicamente di associazione:

i. Analoghi delle prostacicline (Epoprostenolo, Iloprost, Treprostinil): sono molto utili


perché sono in grado di indurre rilasciamento della muscolatura, ridurre l’ipertrofia e
inibire l’aggregazione piastrinica. Il problema è che la durata d’azione è molto breve e
le forme approvate in Italia devono essere somministrate EV o SC quindi o in sede
ospedaliera o tramite una pompa ad infusione.
ii. Antagonisti dell’endotelina (Ambrisentan, Bosentan, Macitentan). Possono essere
selettivi per il recettore A o non selettivi e in questo secondo caso risultano
maggiormente efficaci. Il Macitentan in particolare ha ridotto la mortalità e le
ospedalizzazioni del 20%.
iii. Inibitori della fosfodiesterasi 5 (Tadalafil, Sildenafil): sono vasodilatatori.
iv. Stimolatore della guanilato-ciclasi (Riociguat): è utile soprattutto nelle forme
tromboemboliche. Questo farmaco aumenta la sensibilità della guanilato-ciclasi al
poco NO presente e media un’attivazione della guanilato-ciclasi NO-indipendente.

Se i pz risultano positivi al test di vasoreattività è utile l’impiego di calcio-antagonisti.

Occorre, poi, fare una tp di supporto: ad esempio, se la pO2 è stabilmente <60mmHg o se la


saturazione è <91% si può prescrivere ossigenotp.

177
CUORE POLMONARE CRONICO
È una condizione caratterizzata da dilatazione ventricolare destra secondaria a patologia di
tipo strutturale o funzionale del parenchima e/o del sistema vascolare polmonare (!Non si
parla, invece, di cuore polmonare, quando si ha un interessamento del cuore di destra
secondario ad una problematica del cuore di sinistra). Rappresenta una manifestazione
tardiva di tutte quelle condizioni morbose che portano ad aumento del postcarico del
ventricolo destro. Tra le cause abbiamo:

1. BPCO, è la più comune e il meccanismo con cui si arriva al cuore polmonare cronico
riguarda l’ipertensione polmonare associata ad ipossia, distensione vascolare e perdita
della trama vascolare.
2. Tromboembolismo polmonare cronico: porta ad ipertensione polmonare secondaria
ad ostruzione vascolare.
3. Patologie restrittive intriseche come sarcoidosi o patologie reumatologiche causano
ipertensione polmonare secondaria a ipossia e perdita della trama vascolare.
4. Patologie restrittive estrinseche: obesità, altitudini elevate e cifoscoliosi provocano
ipertensione polmonare dovuta ad ipossa alveolare.

Il circolo polmonare presenta basse resistenze ed elevata capacità: è, dunque, in grado di


adattare la propria portata a quella del grande e circolo e può sopportare reggimi pressori
pari a un quinto di quelli della circolazione sistemica. In caso di notevole riduzione del letto
vascolare o di scoinvolgimento della struttura del parenchima polmonare, si può avere un
aumento della pressione polmonare, per cui anche modesti incrementi di flusso
provocheranno ipertensione polmonare severa. Il meccanismo cruciale che porta
all’ipertensione polmonare (pressione media nell’arteria polmonare a riposo >25mmHg) è
l’ipoventilazione alveolare che provoca, da una parte ipossia alveolare con conseguente
vasocostrizione delle arteriole e dei precapillari adiacenti e dall’altra porta a policitemia
secondaria con aumento della viscosità ematica, della resistenza al flusso e ulteriore
incremento delle resistenze polmonari. Infine, si ha ipercapnia con conseguente acidosi
respiratoria che, a sua volta, amplifica gli effetti vasocostrittori dell’ipossia. La vasocostrizione
ipossica consente la ridistribuzione del flusso ematico a favore di aree normoventilate. Alle
alterazioni funzionali del letto vascolare polmonare seguiranno quelle strutturali irreversibili,
che, insieme al peggioramento della malattia polmonare di base, porteranno ad un notevolo
sovraccarico di lavoro del ventricolo destro con successiva dilatazione.

Tra i segni caratteristici del cuore polmonare cronico abbiamo tosse, lipotimia, dispnea,
angina, emottisi, tachipnea, cianosi, tachicardia, ipercapnia, edemi e ipotensione. Se poi
questa situazione va a ripercuotersi sul fegato a causa del reflusso dal circolo destro a quello
venoso sinistro, si ha il cosiddetto fegato da stasi.

I cardini della terapia sono:

1. Trattamento della patologia di base che ha determinato il cuore polmonare


2. Ossigenotp a lungo termine: è indicata se la PaO2 è stabilmente <60mmHg o la sO2
è stabilmente <91% e, soprattutto nei pz affetti da BPCO, permette di ridurre le
resistenze vascolari polmonari, migliorare la policitemia e la tolleranza allo sforzo con
notevi benefici in termini di riduzione dei valori di pressione polmonare. È

178
consigliabile prescrivere un flusso di 1-3L7min per almeno 15h/die; bisogna
comunque assicurarsi che l’ossigeno non determini un aggravamento
dell’ipoventilazione alveolare con progressiva ipercapnia a causa della riduzione dello
stimolo ipossico sul centro del respiro.
3. Trattamento dell’ipertensione polmonare: sono utili gli antagonisti recettoriali
dell’endotelina, gli inibitori della fosfodiesterasi-5, gli analoghi e gli agonisti della
prostaciclina. In una piccola porzione di pz, nei quali ai test l’ipertensione polmonare
risulta reversibile, possono essere utili calcio-antagonisti ad alte dosi.
4. Trattamento dello scompenso cardiaco destro
5. Salassotp se ematocrito >55%
6. Diuretici, se c’è congestione epatica

179
STENOSI AORTICA
Si ha difficoltà nello svuotamento durante la fase sistolica. Possiamo avere:

- Forme sottovalvolari (congenite)


- Forme sopravalvolari (congenite)
- Forme valvolari: possono essere congenite, ovvero quei soggetti in cui alla nascita
sono presenti due cuspidi, o addirittura una, e non tre, per i quali lo stress esercitato
sui lembi valvolari risulta molto aumentato a causa del flusso non laminare e quindi si
va incontro a problemi molto in anticipo (20 anni prima). Le cause acquisite sono
invece quelle di origine reumatica o degenerativa con calcificazioni: quest’ultima si
presenta generalmente in pz con più di 70 anni ed è la più comune (8% negli over 75
e 10% negli over 80). I processi degenerativi si associano ad aterosclerosi, che nel
tempo porta ad un restringimento dell’ostio valvolare.

I parametri da tenere in considerazione per valutare l’entità del difetto sono:

1. L’area valvolare, meglio se indicizzata: La normale area valvolare aortica è di 3-4 cm2
e la si misura con un ecocardiogramma bidimensionale; se diventa 1-1,5 cm2 si parla
di stenosi lieve, se risulta compresa tra 0.75 e 1 cm2 si parla di stenosi moderata,
mentre nelle forme gravi si scende al di sotto degli 0.75 cm2. Per queste misurazioni è
meglio utilizzare un valore indicizzato che tenga conto della superficie corporea del
pz: si parla di stenosi severa quando è <0.6 cm2/m2.
2. Il gradiente pressorio medio (>40mmHg)
3. La velocità di flusso (>4 m/s).

Il problema è che non sempre questi parametri sono concordi: se la contrattilità diminuisce,
la portata crolla, quindi il gradiente medio e la velocità del flusso si abbassano. In questo
caso, dopo l’ecocardio, è fondamentale fare un’ecocardio sotto stress: si aumenta
artificialmente la portata cardiaca somministrando dopamina e si va a vedere se i parametri si
modificano, se non lo fanno probabilmente si tratta di un pz con con un’area valvolare che
sottostima l’orifizio reale; in caso contrario posso fare diagnosi di stenosi aortica.

Un restringimento dell’ostio porta diverse conseguenze, quasi tutte correlate al fatto che il vs
debba sviluppare una pressione molto maggiore per mantenere la portata. Si parla di
gradiente medio che non è influenzato dalla FC: è la forza che il vs deve generare solo per
poter vincere le resistenze valvolari e, se superiore a 40 mmHg, permette di classificare la
stenosi come severa. L’aumento delle richieste funzionali del vs provoca:

1. Aumento dello spessore della parete ventricolare (ipertrofia concentrica) e ridotta


compliance: si ha, dunque, un deficit diastolico, che, nel tempo, causa scompenso
cardiaco.
2. Aumento della pressione diastolica ventricolare: si ha un’ipertrofia atriale perché
diventa importante per il riempimento ventricolare l’apporto della sistole atriale:
questo da una parte comporta un aumento della pressione atriale che si può
ripercuotere sul circolo polmonare (dispnea) e, dall’altra, l’aumento delle dimensioni
dell’atrio può facilitare l’insorgenza di aritmie, a cui si possono associare trombosi ed
embolie. Ci può poi essere una compressione sui vasi coronarici.

180
3. L’aumento della massa muscolare in associazione all’ostacolo al flusso coronarico
(aumenta il volume telesistolico quindi c’è maggiore ostacolo al flusso coronarico
verso il cuore) può comportare la comparsa di una sintomatologia anginosa. Le
ripetute ischemie, insieme alla dilatazione ventricolare, portano ad un aumentato
rischio di insorgenza di aritmie ventricolari con possibile morte cardiaca improvvisa.
4. Aumento della pressione ventricolare sistolica: i barocettori la percepiscono e si
attivano portando a vasodilatazione, questo può portare a sincope. Questo riflesso è
fisiologicamente utile per abbassare le resistenze periferiche quando la pressione
sviluppata dal vs è troppo alta, ma, in questo caso, il problema non è dato dal circolo,
ma dalla stenosi che non si risolve vasodilatando e, quindi, quello che si ottiene è un
brusco abbassamento della PA sistemica.
5. Il flusso diventa turbolento favorendo il deposito di batteri che causano endocardite.

Le manifestazioni cliniche, comunque, tendono a comparire dopo molto tempo: ci sono,


infatti, pz con una stenosi, anche critica, che sono asintomatici. Questo è importante anche
dal punto di vista prognostico: pz asintomatici, generalmente, non hanno problemi, mentre,
quando compaiono insufficienza cardiaca, sincope e angina, la curva di sopravvivenza è
alterata e bisogna intervenire.

Per fare diagnosi: i segni più importanti sono la presenza di una PA differenziale ridotta (la
PAS è ridotta), il polso arterioso è piccolo e ritardato (passa poco sangue e con fatica) e il
polso carotideo avrà lenta salita con incisura anacrota e picco tardivo. All’ispezione e alla
palpazione si noterà un itto ampio e prolungato e ponendo la mano sul torace del pz si potrà
apprezzare un fremito sistolico trasmesso alle carotidi che è dato dal passaggio veloce di
sangue attraverso l’orifizio stenotico. All’auscultazione il primo tono (chiusura valvole AV)
sarà generalmente normale; il secondo tono (chiusura valvole tricuspidali) è + accentuato
con un click di eiezione. Per stenosi molto gravi il secondo tono potrebbe quasi non sentirsi
perché non essendoci apertura non si sentirà la chiusura, oppure si potrà avere lo
sdoppiamento del secondo tono. Quando c’è disfunzione ventricolare importante, si può
apprezzare anche il terzo tono; il quarto tono si sente fino a che il pz è in ritmo sinusale. Sul
focolaio aortico si può poi apprezzare un soffio eiettivo mesosistolico che viene accentuato
dal nitrato d’amile (vasodilatazione con maggiore velocità del flusso in uscita) e
dall’accovacciamento; viene, invece, ridotto praticando la manovra di Valsalva, in
ortostatismo e con uno sforzo isometrico.

All’ECG sarà apprezzabile una deviazione assiale sx per ipertrofia del vs. Le R saranno alte e
l’indice di Sokolow-Lion (RV5+SV1) sarà >35mm: questi due parametri sono indicativi
dell’ipertrofia ventricolare. Sempre per l’aumento delle dimensioni ventricolari, si può avere
un aspetto a bdb. L’ipoperfusione cronica, invece, può causate alterazioni del tratto ST e
dell’onda T. Infine, le anomalie atriali possono portare ad un quadro riferibile alla FA. Con RX
torace sono individuabili le calcificazioni polmonari e gli eventuali segni di congestione
polmonare (-> ipertensione post capillare). Inoltre, il primo e il terzo arco di sx avranno
profilo arrotondato. L’ecocardio con modalità M-mode permette di apprezzare la ridotta
apertura valvolare e la presenza di lembi calcifici; si può poi calcolare il diametro del vs che
può essere normale o aumentato. L’ecocardio con modalità 2D permette di vedere
chiaramente l’ipertrofia concentrica con volume del vs normale o aumentato e di calcolare la
FE e l’area valvolare che, se <1cm2, permette di classificare la stenosi come severa. Con il
Doppler si può valutare l’entità della stenosi perché c’è aumento della velocità del flusso

181
aortico e l’aumento del gradiente transvalvolare. Si parla di stenosi severa se la velocità del
flusso supera i 4 m/s.

Si deve intervenire chirurgicamente quando:

1. Il gradiente transvalvolare è >70 mmHg (>45 mmHg)


2. L’area valvolare è <0.7 cm2
3. Il rapporto tra massa e volume è >1
4. La pressione telediastolica del vs è >15mmHg
5. La FE è ai limiti inferiori di norma
6. C’è ridotta tolleranza allo sforzo (ecocardio da sforzo)
7. La funzione del vs è alterata (ecocardio, scintigrafia o cateterismo)

Ad oggi, è possibile sostituire la valvola con tecniche molto meno invasive che permettono di evitare
la sternotomia totale. Si pratica infatti la microsternotomia a J (AVR) che limita il trauma ma permette
comunque una buona esposizione del cuore, si mette poi il pz in CEC, si clampa l’aorta e si va a
lavorare sulla valvola malata impiantando la protesi. Se il pz ha insufficienza renale o respiratoria o
un’elevata mortalità predetta (7- 8%) si può optare per un approccio transcatetere
(TAVI=transcatheter aortic valve implantation): si accede dall’arteria femorale e viene portato un
device di dilatazione fino al cuore grazie ad una lunga guida rigida; una volta arrivato in posizione
esso permette di dilatare la valvola nativa senza rimuoverla. Viene poi fatta passare per via
transvascolare una valvola sostitutiva di pericardio bovino che viene aperta e posta sopra quella
fisiologica e che comprende anche uno stent autoespansibile. Questa procedura ha dei vantaggi,
ovvero riduce le complicanze post-operatorie e quelle correlate all’uso della CEC, ma ha anche degli
svantaggi importanti perché è meno precisa e non permette di eliminare il tessuto calcifico. Inoltre, i
rischi sono realmente ridotti solo per pz che sono ad alto rischio perché altrimenti il rischio di avere
embolizzazioni aterosclerotiche supera quello di avere complicanze relative ad una procedura
chirurgica open; si può parzialmente ovviare a questo problema entrando dall’ascellare, dall’apice
cardiaco o, raramente, dall’aorta. Anche l’impianto dello stent non è scevro da complicanze: esso
esercita un’importante forza radiale con compressione dell’anulus aortico, il problema è che a questo
livello passa il tessuto di conduzione quindi nel 50-60% si assiste alla comparsa di bdb sx e nel 20%
si hanno BAV. Tutto questo può portare alla necessità di impianto del PM (7-30%): si tratta però di
un cuore con un vs molto ipertrofico che ha bisogno di più tempo del dx per depolarizzarsi e il PM in
vd può portare ad un peggioramento della desincronizzazione. Se i due ventricoli non si contraggono
in modo sincrono il setto, che è importante per la dinamica di contrazione dei ventricoli e in
particolar modo di quello dx, ha un movimento paradosso a bandiera che facilita l’insorgenza di
insufficienza cardiaca. Il movimento a bandiera del setto, infatti, sottrae energia cinetica e mina la
corretta emodinamica biventricolare e la contrazione dx in modo particolare. In passato si faceva
anche la cosiddetta baloon aortic valvulotomy, ovvero si dilatava semplicemente la valvola con un
pallone che veniva gonfiato; il rischio era quello di passare da una stenosi aortica a un’insufficienza
aortica.

182
INSUFFICIENZA AORTICA
Le semilune non si chiudono correttamente e questo porta a reflusso di sangue dal vs all’as
durante la diastole. Alla base ci possono essere:

1. Patologie valvolari con danneggiamento diretto delle cuspidi: malattia reumatica,


endocardite, traumi, aterosclerosi, sifilide, malattie del connettivo o presenza di
valvola bicuspide.
2. Malattie della radice aortica: ipertensione arteriosa con ectasie o aneurismi dell’aorta
ascendente, varie forme di arterite (Horton, psoriasica, luetica), alterazioni
connettivali come nella sindrome di Marfan o in quella di Ehler-Danlos (si può avere
un distacco dell’intima dalla media che causa prolasso dei lembi verso l’interno).

Dal momento che la valvola è incontinente, in diastole si ha ingresso di sangue dall’aorta al


vs. Questo porta ad un aumento del volume ematico che il vs deve gestire: da una parte si
può avere un’iniziale compenso dato da una maggiore contrattilità da aumento dello
stiramento delle fibre, d’altra parte, però, è necessario che il ventricolo si dilati, perché
altrimenti le pressioni sarebbero troppo elevate. Si parla in questo caso di ipertrofia
eccentrica con sviluppo in serie dei sarcomeri e lo scopo è quello di normalizzare lo stress
per unità di superficie; il problema è che a lungo termine questa dilatazione fa venire meno il
compenso dato dalla contrattilità perché c’è disaccoppiamento dei ponti actino-miosinici,
quindi il pz avrà una riduzione della FE e un aumento del residue sistolico. In fase avanzata si
instaurerà un quadro di cardiomiopatia valvolare ipocinetico-dilatativa.

Il pz può rimanere a lungo asintomatico, i disturbi compaiono, infatti, solo quando si ha


aumento della pressione telediastolica, riduzione della FE e cardiomiopatia dilatativa. Si
possono avere disturbi elettrici con cardiopalmo e asistolia oppure angina perché il reflusso
causa una riduzione della perfusione coronarica. Il sintomo principale è, comunque, la
dispnea. Se si instaura lo scompenso, ci saranno poi tutti i sintomi correlati e si assiste ad un
netto peggioramento della prognosi con sopravvivenza media a 2 anni.

Per fare diagnosi, i segni più importanti sono la presenza di una PA differenziale aumentata
(la PAD è ridotta per il reflusso e la PAS è aumentata perché il cuore si trova a dover eiettare
una quantità di sangue molto maggiore): il polso arterioso è celere e scoccante e c’è
aumentata pulsatilità delle arterie periferiche. Si parla di polso bisferiens quando si ha una
pulsazione doppia; si possono poi riscontrare:

1. Segno di De Musset, ovvero oscillazioni sincrone del capo o della gamba accavallata.
2. Segno di Traube: c’è un doppio rumore secco udibile in fase sistolica a livello
femorale.
3. Segno di Duroziez: soffio sistolico o sisto-diastolico a livello femorale.
4. Segno di Quincke: pulsazione della linea di demarcazione tra zona pallida e rosea
del letto ungueale.
5. Segno di Hill: la PAS degli arti inferiori è >30 mmHg rispetto a quella degli
arti superiori.

Alla palpazione l’itto cardiaco è spostato in basso e a sx. All’auscultazione c’è un soffio
diastolico ad alta frequenza in decrescendo che inizia subito dopo il secondo tono, ovvero

183
quello di chiusura delle semilunari. Con insufficienza grave compare anche il soffio di Austin-
Fint: si tratta di un rullio (soffio a bassa frequenza) percepibile nella fase media e terminale
della diastole; esso è dovuto alla stenosi mitralica funzionale causata dall’aumento della
pressione ventricolare. Con l’ECG si può vedere la deviazione assiale sx. Con
l’ecocardiogramma si può stimare la severità del difetto valvolare: esso è, infatti,
proporzionale alla quantità di sangue che refluisce. Con FR si intende la frazione rigurgitante,
ovvero il rapporto tra il volume rigurgitante e il volume sistolico: se è 0.3-0.6 l’insufficienza è
moderata mentre se è >0.7 l’insufficienza è grave e il pz avrà difficoltà a svolgere le normali
attività, sia perché c’è una minor quantità di sangue per la perfusione sistemica, sia perché il
cuore è sottoposto ad un grande stress visto che deve gestire volumi molto aumentati. Si può
poi calcolare anche la FE, che è un indice dell’efficacia della funzione sistolica: è importante
ricordare che in un pz con insufficienza aortica anche una FE del 50-55% deve essere
considerata scarsa perché i volumi sono aumentati, quindi, se la contrattilità è riuscita ad
adeguarsi, la FE dovrebbe essere aumentata. Altro parametro importante è l’EROA (effective
regurgitant orifice area, ovvero la grandezza dell’area attraverso la quale si ha rigurgito): se è
>30% il rigurgito è classificato come severo. Con l’RX torace si può apprezzare l’aumento
delle dimensioni cardiache e una conformazione del miocardio a scarpa dovuta
all’ingrossamento ventricolare. Il Doppler permette di capire la velocità e la direzione del
flusso.

I pz devono essere operati se:

1. Sono sintomatici (classe 1)


2. Asintomatici ma con FE<70%
3. Presentano altre patologie associate

! Non si può utilizzare la TAVI perché non è possibile innestare la valvola protesica sopra a
quella nativa.

184
STENOSI MITRALICA
La valvola mitralica è più complessa rispetto a quella aortica perché presenta un importante apparato
valvolare che, se danneggiato, porta a valvulopatie anch’esso. I lembi valvolari dipendono da un
apparato tensore costituito dalle corde tendinee che sono connesse al vs tramite i muscoli papillari:
questi ultimi in presistole si contraggono e permettono la chiusura della valvola. Quando questa
valvola è chiusa assume una conformazione a V convessa: in questo modo le linee di forza generate
dalla pressione scivolano via mentre, se fosse concavo, sarebbero incanalate verso il centro e
danneggerebbero la valvola stessa.

Alla base della stenosi mitralica c’è, generalmente, un processo fibrotico che porta a
saldatura delle commissure. In passato ciò era spesso causato dalla malattia reumatica: ne
erano colpiti, dunque, anche pz giovani e, nel caso delle donne, la patologia si slatentizzava
in particolare al momento del parto a causa del sovraccarico pressorio. In effetti, la stenosi ad
eziologia reumatica esordisce circa 20aa dopo l’episodio infettivo che è tipicamente infantile,
dunque ad essere interessati erano soprattutto pz nella quarta decade. Altre cause possono
essere le endocarditi, la presenza di un mixoma dell’as o calcificazioni dell’anello valvolare.

Per valutare la gravità della stenosi si deve stabilire il gradiente transmitralico medio: se
supera i 10 mmHg (fisiologico 4-6 mmHg), e dunque la pressione in atrio è intorno ai 16
mmHg, si può parlare di stenosi severa. Questa valutazione non è particolarmente difficile,
sia perché la mitrale è più facile da vedere rispetto all’aorta, sia perché un pz con questi
valori pressori sarà sintomatico non appena tenterà di svolgere un minimo sforzo, fino anche
all’edema polmonare.

Si ha un’ostruzione durante la fase diastolica all’afflusso di sangue dall’atrio al ventricolo sx


con conseguente sviluppo di un gradiente pressorio transvalvolare. Ne consegue una
dilatazione dell’as con aumento del rischio di formazione di trombi e di aritmie come la FA.
Inoltre, l’aumento pressorio si ripercuote anche sulla circolazione polmonare con
ipertensione post-capillare che causa dispnea e aumentato rischio di edema polmonare.
Oltre che a dispnea, la congestione del circolo capillare, può portare anche ad insorgenza di
tosse o emoftoe. D’altra parte, l’ingrandimento dell’as può comprimere il nervo ricorrente
dando disfonia e raucedine, oppure addirittura l’esofago con disfagia. Inoltre, il fatto che il vs
si riempia meno, porta ad astenia generalizzata; non si ha comunque un sovraccarico o un
rimodellamento ventricolare. I sintomi e le complicanze associate alla patologia sono utili per
determinare la prognosi, in particolare si considerano: la classe funzionale NYHA, le
resistenze polmonari (!l’aumento pressorio cronico può essere talmente grave da determinare
la sindrome di Eisenmenger, ovvero questi vasi non rispondono neanche al miglioramento
dell’emodinamica ottenuto sostituendo la valvola) e la presenza di embolie sistemiche.

Per fare diagnosi, tra i segni tipici di questa patologia abbiamo la presenza di un polso ridotto
e la presenza di un polso giugulare. All’ispezione si potranno riscontrare pallore e cianosi: la
ridotta portata cardiaca comporta vasocostrizione periferica nel tentativo di salvaguardare gli
organi “nobili” e, dunque, la cute risulta essere ipoperfusa. La facies mitralica si caratterizza
per pallore associato a cianosi dei pomelli e delle labbra. Alla palpazione l’itto risulta normale
perché il vs non è ipertrofico. Si può percepire un fremito diastolico causato dal flusso
violento del sangue attraverso la valvola stenotica; l’aumento delle pressioni polmonari può
poi portare ad un sovraccarico di lavoro per il vd, fatto apprezzabile perché è presente una
pulsazione in sede epigastrica (segno di Herzer). Con l’auscultazione si percepirà una

185
variazione del primo tono che apparirà forte (fisiologicamente viene percepito come
maggiormente accentuato il secondo tono perché la chiusura delle semilunari avviene a
gradienti pressori maggiori), vibrato e di breve durata. Il secondo tono può essere normale o,
nel caso di importante ipertensione polmonare, potrà essere sdoppiato. Ci sono poi dei
rumori aggiunti: subito dopo il secondo tono ci sarà uno schiocco che indica l’apertura della
mitrale, il quale sarà seguito da un rullio diastolico accentuato in presistole (rinforzo
presistolico). L’ipertensione polmonare porta poi all’aggiunta di un click protosistolico e del
soffio di Graham-Steel (diastolico, facilmente apprezzabile dal focolaio polmonare). L’ECG
evidenzia la dilatazione dell’as grazie alla comparsa della cosiddetta onda P mitralica (ben
visibile in DII), in caso di stenosi severe si può avere anche una morfologia bifida. L’ipertrofia
del vd può portare a deviazione assiale dx e, nel caso ci siano anomalie elettriche, potranno
essere anch’esse individuate. L’RX torace non evidenzia alterazioni nelle dimensioni
miocardiche, ma può mostrare una prominenza del secondo arco sx e segni di congestione
polmonare. Se presente, si potrà notare anche la compressione esofagea. L’ecocardiografia
mono permette di vedere le calcificazione, la dilatazione di as e vd e la normalità del vs.
L’ecocardiografia 2D indaga, invece, l’area mitralica (se <1cm2 permette di dire che la
stenosi è severa) e i volumi presenti nelle varie camere. Con il Doppler si valuta il flusso.

La terapia è di natura chirurgica e si interviene quando l’area valvolare è inferiore a 1 cm2 o


quando la capacità funzionale del pz è drasticamente ridotta.

La valvola può essere sostituita oppure dilatata dal chirurgo: in chirurgia open con le dita il medico
può allargare l’orifizio e rompere la saldatura tra i lembi valvolari; c’è poi la normale dilatazione con
palloncino. In realtà queste alternative possono essere prese in considerazione solo per pz con una
patologia non particolarmente grave, mentre, se si hanno severe calcificazioni, interessamento
dell’apparato subvalvolare o insufficienza associata, è necessario intervenire sostituendo la valvola e
reimpiantando le corde tendinee. Grazie all’intervento chirurgico si ottengono miglioramenti
emodinamici: c’è minor gradiente transvalvolare quindi una maggiore quantità di sangue arriva nel vs
e poi in aorta quindi aumentano sia la gittata che la portata; si riduce poi la possibilità di avere
trombosi atriali e fenomeni embolici. La presenza di ipertensione polmonare non è una
controindicazione assoluta all’intervento ma va tenuta in considerazione perché comporta
un’aumentata mortalità intraoperatoria, maggior mortalità postoperatoria (10% dopo 42 mesi) e una
peggior resa dell’intervento se nel frattempo ha portato a disfunzione del vs.

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INSUFFICIENZA MITRALICA
L’imperfetta continenza mitralica provoca, durante la sistole ventricolare, un reflusso di
sangue dal vs all’as. Si possono avere forme acute (endocardite che può dare perforazione di
un lembo valvolare o rottura delle corde tendinee, traumi con rottura delle corde o dei
muscoli papillari o IMA con rottura dei muscoli papillari) o forme croniche: è il caso di
prolassi mitralici (i lembi dapprima risultano orizzontali poi si spostano all’indietro generando
una concavità e sono per questo sottoposti a maggior stress: la causa può essere
degenerativa su base familiare con degenerazioni di vario genere, tra le quali la più
pericolosa è quella mixomatosa), malattia reumatica, disfunzione dei muscoli papillari (ad
esempio a causa di ischemia), dilatazione del vs (aumento della superficie dell’ostio
mitralico), calcificazioni dell’anulus, collagenopatie o les. Le forme più comuni sono
comunque quelle post-ima: esso determina, infatti, un rimodellamento del vs con ipocinesia
e possibile sviluppo di aneurismi ventricolari i quali vanno ad alterare la struttura di supporto
valvolare causando insufficienza mitralica.

[Per prolasso mitralico si intende la fluttuazione o protrusione dei lembi valvolari mitralici nell’as
durante la sistle, questa situazione potrebbe poi evolvere in insufficienza mitralica, oppure potrebbe
associarsi allo sviluppo di endocardite o a rottura delle corde tendinee. Alla base si hanno
generalmente fenomeni degenerativi, di natura mixomatosa idiopatica, genetica o correlabili a
patologie come connetivopatie, LES o distrofie muscolari. Generalmente si tratta di una condizione
asintomatica, che può però rendersi evidente se si presenta insufficienza. L’unico segno
eventualmente presente è un click meso-telesistolico; la diagnosi richiede pertanto la positività
all’ecografia]

Nelle forme acute l’insorgenza improvvisa può portare quasi subito allo sviluppo di epa.

Nelle forme croniche si può arrivare anche ad una patologia severe senza che vi siano
sintomi perché c’è il tempo per mettere in essere meccanismi di compenso. Questi pz, infatti,
nonostante abbiano volumi atriali maggiori perché al sangue che arriva dalle vene polmonari
va sommato quello che torna indietro dal vs, compensano inizialmente grazie ad una
dilatazione atriale che permette di non avere un eccessivo aumento delle pressioni
interatriali, a fronte di un aumentato rischio di sviluppare aritmie e emboli. Anche il
ventricolo riceve, però, in questo modo, una maggiore quantità di sangue e, dunque, anche a
questo livello, si avrà una dilatazione, senza che però venga alterato il rapporto tra spessore
della parete e raggio della cavità. Per un certo periodo di tempo quindi la dilatazione del
cuore sx permette di mantenere un compenso che non evidenzia i sintomi. Anche il circolo
polmonare può poi essere coinvolto per via di un aumento retrogrado delle pressioni, ma,
anche in questo caso, si hanno dei meccanismi adattativi: i vasi diventano in grado di
sopportare una pressione anche di 35 mmHg (fisiologicamente al di sopra di 25-28 mmHg si
ha trasudato) perché si inspessiscono e diventano più resistenti rendendo più difficile
l’eventualità di andare in epa. Alla lunga, comunque, il sovraccarico pressorio polmonare si
ripercuote anche sul cuore dx. Più sangue ritorna al cuore, più sarà il volume che l’as deve
gestire, quindi questa valvulopatia è quella che maggiormente risente della posizione
clinostatica. L’ortopnea, comunque, è un sintomo che compare quando a essere coinvolto è
il solo cuore sx mentre se entrambe le porzioni sono colpite non sarà presente.

Per fare diagnosi: alla palpazione l’itto della punta sarà spostato a sx e in basso rispetto alla
sede abituale. Con l’auscultazione si riscontra un primo tono molto attutito (è coperto da un

187
soffio sistolico che aumenta progressivamente dato dal rigurgito che si irradia anche
all’ascella) e la comparsa del terzo tono dato dalla brusca messa in tensione delle corde
tendinee (-> insufficienza emodinamicamente rilevante). Se l’insufficienza è acuta, c’è anche
il quarto tono e un soffio diastolico legato all’aumento del sangue che passa attraverso la
valvola. All’ECG la componente sx dell’onda P è ritardata e aumentata di voltaggio a causa
delle aumentate dimensioni dell’as, nelle fasi tardive si può arrivare ad avere un’onda P
bifasica. L’ecocardiogramma permette di valutare l’EROA che valuta l’area di rigurgito. Con
RX torace si vedra l’aumento delle dimensioni dell’as e del vs.

Se i pz sono sintomatici e hanno stenosi severa l’intervento è di classe 1. Se invece i pz sono


asintomatici, ma la stenosi è severa, vanno operati se c’è un’iniziale dilatazione ventricolare
sx (>45mm) o se c’è una diminuzione della funzione contrattile del vs (FE<60%).

Generalmente si opta per interventi riparativi e non sostitutivi con una mini-incisione peri-areolare dx.
Si devono esporre i vasi femorali per individuarli e sfruttarli al fine di mettere il pz in cec senza dover
aprire il torace dopo di che si opera inserendo la telecamera e gli strumenti in piccoli buchi aprendo
lo spazio intercostale grazie a dei soft reactors. Una volta immobilizzato in cuore ed esposta la
valvola si posizionano tante corde tendinee e si fa a valutare la consistenza inserendo una sostanza
salina sotto pressione; se tutto va bene si stabilizza il tutto impiantando un anello che dia la giusta
conformazione.

188
CARDIOMIOPATIE
Sotto questa definizione vengono comprese diverse malattie intrinseche del muscolo
cardiaco che non sono causate da un sovraccarico emodinamico, da valvulopatie, da
ischemia, IMA o da problemi pericardici; se invece ci fosse una connessione con questi
fattori, si parlerebbe di cardiopatie. Generalmente, le cardiomiopatie sono imputabili a cause
sconosciute (idiopatiche), alcuni casi sono invece dovuti a mutazioni genetiche ereditarie
note situate su un gene specifico che può codificare ad esempio per proteine contrattili o per
componenti del sarcomero. Ci sono poi casi dovuti a patologie sistemiche di natura
infiammatoria, metabolica, tossica o infiltrativa e forme neuromuscolari. Le forme cosiddette
sistemiche possono talvolta avere una cura, mentre, per quelle genetiche, spesso l’unica
scelta terapeutica è il trapianto di cuore.

Il quadro clinico comprende generalmente forme di scompenso cardiaco o presenza di


aritmie, anche potenzialmente fatali. I sintomi comuni comprendono palpitazioni, dispnea,
dolore toracico e sincope o episodi pre-sincopali. L’iter diagnostico per queste patologie si
basa sia su metodiche invasive che non invasive, le quali devono comunque permettere di
escludere categoricamente un’eziologia ischemica:

1. Rx torace: si vede un aumento della massa miocardica, che è particolarmente


evidente nelle forme ipertrofiche.
2. ECG
3. Ecocardiogramma: si analizzano le dimensioni cavitarie (il vs è molto più grande nel
caso di patologia dilatativa), gli spessori parietali (aumentati in quella ipertrofica), la
funzione diastolica (ridotta nelle forme ipertrofiche e restrittive, si può misurare con
un doppler trans-mitralico) e quella sistolica (ridotta nelle forme dilatative, si misura la
FE).
4. Scintigrafia miocardica: permette di valutare la FE, i volumi e la cinetica ventricolare.
5. Cateterismo cardiaco di Swan-Ganz: si indagano parametri emodinamici e
morfologici.
6. Biopsia endomiocardica: viene generalmente riservata quadri recidivanti con decorso
complicato. Si vuole andare ad individuare il gene responsabile per poter applicare
una tp più mirata. È poi utile se c’è un sospetto di miocardite.
7. Tac coronarica o coronarografia per escludere l’eziologia ischemica.
8. RM: permette di valutare la struttura e la presenza di fibrosi.

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CARDIOMIOPATIA DILATATIVA
È una sindrome clinica ad eziopatogenesi multifattoriale ed è la più frequente tra le
cardiomiopatie. Nella maggior parte dei casi si tratta di forme idiopatiche o familiari, ci sono
però anche cause sistemiche:

1. Forme tossiche:

- Etanolo: se si riduce l’abuso si può avere un ripristino della funzione cardiaca.


- Antiblastici (Antracicline e inibitori delle tirosin-chinasi in particolar modo): hanno
un effetto tossico diretto che però non ha la stessa entità in tutti i pz. Sono a
maggior rischio i soggetti che hanno già un rischio cardiaco e quelli che hanno
polimorfismi genetici che portano ad avere maggiori livelli intracitoplasmatici di
farmaco. Se questo fatto è positivo nella cura del tumore, risulta d’altra parte
negativo per il cuore. Si deve cercare di capire il rischio prima di iniziare la ct in
modo da poter attuare, quando necessario, una tp protettiva con ACEib e beta-
bloccanti.
- Cocaina: favorisce la trombosi coronarica.

2. Forme dismetaboliche
3. Forme disendocrine
4. Forme infiammatorie: sono ben evidenziabili con una rmn (aree di edema) e possono
dare anche un rialzo delle troponine.
5. Forme virali:
6. Forme neuromuscolari
7. Radiazioni
8. Post-partum

Spesso si ha comunque un’interazione di più concause: ad esempio, su cuori già predisposti


da mutazioni, una miocardite può causare l’instaurarsi di una cardiomiopatia dilatativa
cronica, specie se la risposta immunitaria risulta deficitaria.

È caratterizzata da un deficit di contrattilità con disfunzione sistolica. Inizialmente, anche se


dilatata, la camera ventricolare manteiene un’adeguata portata cardiaca attraverso l’aumento
del volume e della pressione telediastolica; il pz dunque sarà asintomatico o, al più. Riferirà
dispnea e cardiopalmo sotto sforzo. Progressivamente di hapoi un deterioramento della
funzione sistolica con riduzione della portata efficace e comparsa di segni e sintomi tipici
dello scompenso cardiaco sinistro con dispnea e astenia. Se la FE scende al di sotto del 40%,
si parla di insufficienza sistolica vera e propria; al di sotto del 35% si rende necessario
l’impianto di un defibrillatore per l’aumentato rischio aritmico. Il ventricolo sx risulta molto
dilatato (cardiomegalia) e può instaurarsi un’insufficienza mitralica per dislocazione dei
muscoli papillari. Per valutare il livello di scompenso si possono dosare i peptidi atriali o fare
cateterismo dx di Swan-Ganz per misurare le pressioni polmonari e valutare il quadro
emodinamico. Quest'ultimo viene eseguito sia a riposo che da sforzo (indice di Wood per le
resistenze polmonari) ed è particolarmente importante quando si vuole trapiantare il pz.

La terapia è quella per lo scompenso cardiaco: si usano ACEib, sartani e beta-bloccanti. Non
andando però, spesso, ad agire sulla causa si può poi avere un declino, a meno che non
venga fatto il trapianto; nelle forme acquisite si può, invece, andare ad agire sulla causa

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La prognosi di questi pz dipende da:

1. Classa NYHA: si tratta però di un parametro soggettivo perchè non tutti rispondono
allo stesso modo alla sensazione di dispnea e dunque non deve essere ritenuto
affidabile in modo assoluto.
2. FE
3. Massima capacità funzionale valutata con test ergonometrico cardiopolmonare. Se la
VO2 di picco scende al di sotto dei 10 mL/min/Kg si ha un grande peggioramento
prognostico, tant'è vero che si pone indicazione al trapianto.
4. Parametri emodinamici valutati con cateterismo
5. Parametri ematochimici e neuro-ormonali.

CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA
Si tratta generalmente di forme genetiche a trasmissione AD che portano a comparsa dei
disturbi in giovane età (è importante fare screening genetico perchè le mutazioni alla base
possono essere varie e cambiare nelle diverse famiglie interessate).

È una forma di cardiomiopatia caratterizzata da ipertrofia ventricolare sx inappropriata: essa


non è, infatti, una risposta adattativa ad un aumento pressorio o volumetrico. Molto spesso
l’ipertrofia interessa il setto interventricolare o la punta: non è, quindi, uniforme e questo è
indicativo del fatto che non sia in risposta a qualcosa. È importante andare a distinguere
questa ipertrofia patologica da quella legata all'attività fisica; in alcuni casi, addirittura, la
seconda maschera la prima, quindi si deve chiedere al soggetto di sospendere gli allenamenti
per poter fare nuovamente una valutazione. Per fare diagnosi è importante guardare l'ECG:
esso presenterà complessi alti a causa dell'ipertrofia e, se il setto è coinvolto, le onde Q
appariranno alterate e molto vistose.

La funzione sistolica è conservata, mentre viene parzialmente persa quella diastolica a causa
della maggiore rigidità. Il problema maggiore è, però, dato da un’aumentata predisposizione
allo sviluppo di aritmie: l’ipossigenazione porta ad alterazioni della funzione delle pompe. In
effetti, il maggior contenuto di collagene tra le fibre le distanzia dai capillari e dunque rende
più difficile l'ossigenazione, si sovrappone poi il problema dato dal fatto che c'è un aumento
della massa cardiaca e anche quello dato da un aumento delle pressioni telediastoliche che
rende la perfusione cardiaca meno efficace.

Clinicamente il pz può essere completamente asintomatico, e dunque si farà diagnosi solo di


fronte ad un riscontro occasionale, oppure potrà presentare dispnea, dolore toracico da
ischemia, sincope da sforzo per riduzione della gittata (il canale di efflusso è ostruito
dall'ipertrofia) e aritmie di vario tipo con cardiopalmo.

Dal punto di vista della terapia, si può intervenire per cercare di controllare i sintomi e
prevenire le complicanze. I beta-bloccanti possono migliorare il dolore toracico e la dispnea;
in alternativa si possono usare calcio-antagonisti non diidropiridinici. Se insorge FA è
auspicabile prescrivere una tp anticoagulante. Se c’è ostruzione significativa all’efflusso si
può fare pacing atrioventricolare sequenziale, ablazione alcolica percutanea del setto e
mioectomia. Si deve poi valutare l’impianto di CID, anche in prevenzione primaria, in
considerazione dell’elevato rischio aritmico. Si deve consigliare di evitare esercizio fisico
intenso e di sottoporsi ad un counseling genetico familiare.

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La prognosi non è molto favorevole: la mortalità annua è del 6% nei soggetti giovani e del
2,5% negli adulti: in effetti, più precocemente si manifesta la malattia, più grave sarà il
quadro. Il fattore prognostico principale è, quindi, l’epoca della comparsa del primo evento.
Vengo considerati ad alto rischio di morte:

1. Soggetti che alla diagnosi hanno meno di 30 anni


2. Pz con familiarità per morte cardiaca improvvisa
3. Adulti che all'holter 48h presentino tachicardia ventricolare
4. Bambini con in anamnesi episodi sincopali in anamnesi

! Il grado di ipertrofia non è invece correlato con la prognosi.

CARDIOMIOPATIA RESTRITTIVA
Si tratta di una patologia che riconosce diverse eziologie:

1. Forme non infiltrative: idiopatiche, correlate alla sclerodermia, attiniche


2. Forme infiltrative: amiloidosi, sarcoidosi
3. Forme da malattie da accumulo: emocromatosi, glicogenosi.

Le camere cardiache hanno dimensioni normali, ma la maggiore rigidità (fibrosi) comporta


un aumento della pressione di riempimento. L'aumento delle pressioni di riempimento
ventricolare sx si ripercuotono sull'atrio, sui capillari polmonari e poi sul cuore di dx. La
funzione diastolica è compromessa e il quadro clinico è simile a quello della pericardite
costrittiva; la funzione contrattile che permette la sistole è, invece, conservata. Essendoci
difficoltà nella funzione diastolica, se questa fase del ciclo cardiaco viene accorciata, ad
esempio perchè il soggetto svolge un esercizio fisico, si ha un riempimento ventricolare non
sufficiente e questo porta ad avere sintomi come l'astenia.

Per fare diagnosi ci si avvale della clinica (segni e sintomi dello scompenso cardiaco
congestizio) che delle metodiche stumentali: all'ECG i QRS avranno voltaggio basso, all'rx
torace si può osservare una normale ombra cardiaca associata ad evidenza di stasi polmonari
mentre con un ecocardio si possono apprezzare le dimensioni delle cavità cardiache e la
funzione sistolica. Ad oggi, con TC e RMN si può anche capire se si tratti di forme da
accumulo o meno.

Il problema è che non abbiamo a disposizione terapie che possano migliore la funzione
diastolica, quindi non siamo in grado di andare a modificare la storia naturale della patologia.
Si può, invece, fare qualcosa nelle forme secondare, ad esempio ad amiloidosi, sarcoidosi o
alle malattie da accumulo.

DISPLASIA ARITMOGENA DEL VD


E' una patologia con trasmissione AD nella quale si ha sostituzione, generalmente nel vd, ma
non sempre, del tessuto miocardico con tessuto fibroadiposo (trabecolature
subendocardiche): quest’ultimo ha caratteristiche elettriche diverse e può predisporre
all’insorgenza di aritmie. Le mutazioni aumentano, infatti, la suscettibilità del miocardio agli
effetti dannossi dello stress meccanico, favorendo la morte del cardiocita, con attivazione dei
processi infiammatori e sostitutivi. In una fase più tardiva possono comparire alterazioni
strutturali.

192
Per fare diagnosi si può usare l'ecocardio, ma è difficile, mentre il gold standard è
rappresentato dalla RMN.

Per quanto riguarda la terapia, dal momento che le aritmie ventricolari e l’arresto cardiaco
sono favoriti dalla stimolazione adrenergica (dispersione della refrattarietà e comparsa di
post-potenziali), è importante prescrivere beta-bloccanti. Sempre in prevenzione delle
aritmie è poi utile l’Amiodarone, sul quale però non abbiamo evidenze circa la reale
possibilità di prevenzione della morte improvvisa. In fase più tardiva, se si manifestano segni
di scompenso, si possono aggiungere alla tp ACEib, sartani e diuretici. Questi pz necessitano
dell'impianto di un defibrillatore o di trapianto cardiaco per non andare incontro a morte
cardiaca improvvisa.

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CARDIOPATIE CONGENITE
[L’organogenesi cardiaca si sviluppa a partire dal tubo neurale cardiaco primitivo, ovvero un insieme
di quattro rigonfiamenti che nell’ordine dall’alto al basso prendono il nome di:

1. Bulbo arterioso: da qui origineranno aorta e arteria polmonare


2. Ventricolo primitivo: da qui si svilupperanno i ventricoli
3. Atrio primitivo: dà origine agli atri
4. Seno venoso: da qui si svilupperanno le vene polmonari e cave.

Durante lo sviluppo ci sarà una sorta di inflessione di ansa a dx e una settazione che permette la
divisione delle cavità cardiache, al termine si ha poi anche la formazione delle valvole cardiache.
Questi ultimi due step sono quelli che maggiormente vanno incontro ad errori]

Le cardiopatie congenite sono alterazioni strutturali del miocardio, ereditarie o meno, che
originano da un errore embrionale. Alla base potrebbero esserci ad esempio, oltre che
mutazioni, anche fattori di tipo tossico o farmacologico.

LESIONI OSTRUTTIVE ISOLATE


Il primo caso è quello delle lesioni ostruttive isolate ventricolo-arteriose. Le valvole più
frequentemente interessate sono quella polmonare e quella aortica: esse, a seconda del
ventricolo coinvolto, provocano un sovraccarico di tipo sistolico in uno dei due. La valvola
stretta porta, infatti, alla necessità di sviluppare una maggior pressione per vincere l’ostacolo:
ciò significa che questi cuori, oltre a dover superare la pressione del vaso in cui immettono il
sangue, devono superare anche l’ostruzione, quindi possono arrivare a dover sviluppare una
pressione di 220 mmHg (considerando, ad esempio, 120 la PA e 100 il gradiente di picco).
Per esserne in grado vanno incontro ad un’ipertrofia concentrica compensatoria in cui non si
ha dilatazione del ventricolo, in modo da distribuire maggiormente lo stress di parete, d’altro
canto, il prezzo è quello di avere un deficit diastolico perché si ha riduzione della
compliance. Il secondo problema correlato a questa risposta adattativa è che l’aumento
pressorio si ripercuote a monte, quindi prima a livello atriale (l’as potrebbe dover esercitare
una pressione di 20-22 mmHg al posto dei normali 5-6) e poi, nel caso del cuore sx, a livello
del circolo polmonare, determinando dispnea.
! La situazione è quindi sovrapponibile a quella che si ha in caso di stenosi aortica.

Un secondo caso è quello della coartazione istmica aortica. L’istmo dell’aorta è quella
porzione compresa tra l’origine della succlavia sx e il primo paio di arterie intercostali; a
questo livello, nella circolazione fetale, sbocca il dotto arterioso di Botallo. Esso è importante
perché, nel feto, i polmoni non sono ventilati, quindi sono collabiti e oppongono una
resistenza talmente elevata al flusso ematico da non essere perfusi: il dotto è importante
perché congiunge le arterie polmonari all’aorta in modo che venga garantito il normale flusso
ematico permettendo al sangue che esce dall’ad di rientrare nella circolazione sistemica. Al
momento della nascita, il bimbo respira e questo porta ad un brusco crollo delle resistenze
polmonari e ad inversione del flusso nel dotto: le cellule duttali all’interno registrano un
aumento della quantità di O2 presente e reagiscono con una metaplasia funzionale che porta
alla chiusura del dotto nelle prime ore o minuti dopo il parto. Se alcune di queste cellule
migrano nell’aorta istmica determinano uno strozzamento di questo tratto: la coartazione
istmica è infatti una stenosi aggressiva dell’aorta determinata da una migrazione anomala
delle cellule duttali. Il problema dato dalla coartazione è che la porzione a monte avrà una

194
PA elevatissima (anche in questo caso è infatti presente un ostacolo) mentre quella a valle
molto bassa: per questa ragione non si può cercare di abbassare la P perché essa sarebbe
troppo bassa nel resto del corpo, lasciandola così, però, questi soggetti a 20 anni hanno già
una severissima aterosclerosi. L’unica strada è quindi intervenire chirurgicamente per
rimuovere la stenosi. (! Se il bimbo nasce, ad esempio con un cuore univentricolare, è
importante somministrare PG che permettano al dotto di rimanere pervio perché, in questo
caso, esso salva la vita al bambino, lo stesso vale se c’è un’atresia della tricuspide)

MALFORMAZIONI A SHUNT SX-DX


È presente un difetto di settazione tra le cavità dx e sx (il più comune riguarda il setto
interatriale): esse non sono dunque completamente separate e il sangue tende ad andare da
una zona a pressione maggiore – il cuore sx – a una zona con pressione minore – il cuore dx
– con uno sbilanciamento delle portate cardiache. Fisiologicamente il rapporto tra la portata
dx e quella sx è pari a 1, mentre anche sono in presenza di uno shunt del 25% della portata
cardiaca si genera un unbalance superiore al 50%. Il problema è che diventa aumentato in
maniera sproporzionata il flusso del circolo polmonare: inizialmente i vasi si dilatano per
assorbire tutta la quantità di sangue ma dopo poco saranno i vasi stessi a opporsi a questa
situazione e dunque inizialmente si avrà un aumento di natura funzionale delle resistenze del
circolo polmonare mentre col tempo questa situazione diventerà anche organica con un
inspessimento della tonaca muscolare e fibrosi. Nel momento in cui, grazie a questi processi,
le resistenze polmonari superano quelle sistemiche, si ha inversione dello shunt (sindrome di
Eisenmerger) con presenza nel circolo arterioso sistemico di sangue non ossigenato.

Un secondo tipo di patologia è quello dato dalla pervietà del dotto arterioso di Botallo. A
parità di dimensioni questo è lo shunt di maggiore entità: le variabili sono infatti la grandezza
della comunicazione, il delta pressorio, ma anche dalla durata di sistole e diastole. In questo
caso quest’ultimo punto non incide perché la comunicazione tra aorta e polmonare è
perenne e dunque presente sia in sistole che in diastole, tant’è vero che il soffio causato da
questa patologia è detto a locomotiva perché sempre presente ma a volte risulta essere di
intensità > (in sistole perché l’aumento pressorio spinge più sangue dall’altra parte) e altre di
intensità <.

MALFORMAZIONI A SHUNT DX-SX


Fa parte di questo gruppo di patologie la tetralogia di Fallot, così chiamata perché il medico
che la descrisse per primo riscontrò quattro caratteristiche anatomiche tipiche:

1. La comunicazione fra i due ventricoli (difetto del setto ventricolare).


2. L'origine biventricolare dell'aorta, che si trova a cavallo fra i due ventricoli, sopra il
difetto interventricolare (Aorta a cavaliere).
3. Una stenosi (restringimento) sottovalvolare e valvolare polmonare.
4. Un'ipertrofia (cioè ingrossamento muscolare) del ventricolo destro, come
conseguenza degli altri difetti

La causa di tutto è un alterato settazione nella quale non si ha allineamento ma un setto che
cresce in maniera diagonale andando a restringere la polmonare e a causare il fatto che
l’aorta “peschi” in entrambi i ventricoli. Una volta in vita, a giocare un ruolo rilevante a
livello fisiopatologico sono la stenosi subvalvolare (= stenosi del tratto di uscita ventricolare
destro) ed il difetto del setto ventricolare. Il sangue, una volta giunto nel ventricolo destro,
può intraprendere due strade: può entrare nel tronco polmonare o nel ventricolo sinistro.

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Seguendo le regole della meccanica dei fluidi, esso verrà pompato nella via con meno
resistenza, che nel caso della ToF corrisponde al ventricolo sinistro, vista la stenosi
subpolmonare ed il restringimento delle grandi arterie polmonari. Si crea dunque uno shunt
destra-sinistra che causa la cianosi centrale e il clubbing digitale. La cianosi si sviluppa sia
perché del sangue non ossigenato arriva nella circolazione sistemica sia perché la quantità di
sangue che arriva ai polmoni per essere riossigenata è bassa: si ha allora una poliglobulia
compensatoria (ematocrito di 60-65) associata ad un aumento delle dimensioni dei gr che
non riesce comunque a compensare completamente. Questi bambini hanno dunque un
aumentato rischio trombotico: essendoci però uno shunt, i trombi possono non finire nel
circolo polmonare ma in quello sistemico dando origine al fenomeno noto come embolia
paradossa. Altra caratteristica propria di questi bimbi è quella di assumere inconsciamente
posizioni di squatting quando hanno crisi asfittiche: essa fa aumentare le resistenze
sistemiche e dunque fa diminuire la differenza pressoria tra cuore dx e sx riducendo la quota
di sangue che shunta.

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IPERTROFIA DEL VENTRICOLO SINISTRO
È un’anomalia del cuore caratterizzata da un ispessimento delle pareti muscolari che
costituiscono il ventricolo sinistro. Le principali cause comprendono:

1. Ipertensione
2. Stenosi aortica
3. Cardiomiopatia ipertrofica
4. Allenamento sportivo ad alto livello

Inizialmente si tratta di una condizione asintomatica, col tempo potranno poi comparire
dispnea, cardiopalmo, dolore toracico, sincopi… A lungo andare, poi, l’ipertrofia porta ad
alterazioni funzionali e può esitare in scompenso cardiaco, nell’insorgenza di aritmie o in
IMA.

In prima battuta, l’ipertrofia può essere sospetta se all’ECG si calcola la formula di Sokolow-
Lion (S V1+ R V5-6 >3.5mV). L’esame diagnostico di elezione è, tuttavia, l’ecocardiograma:
permette di calcolare l’indice di massa ventricolare sx che è da considerarsi patologico se
>115g/mg nell’uomo e se >95g/mg nella donna. Rispetto alla definizione tramite ECG, in
questo modo aumentano la sensibilità e la specificità ed è, inoltre, possibile quantificare
meglio il danno.

Se si imposta una terapia adeguata, appropriata a seconda della causa scatenante (–v.di
paragrafo dedicato) , l’ipertrofia si dovrebbe ridurre.

197
CARDIOPATIA ISCHEMICA CRONICA STABILE
[Dal punto di vista anatomico le coronarie sono due, quella di dx e quella di sx. Se si considera però
la questione da un punto di vista funzionale e di stratificazione diagnostica e terapeutica, le coronarie
sono tre: la coronaria dx, la discendente anteriore (o interventricolare anteriore) e la circonflessa. Le
ultime due originano entrambe dalla coronaria di sx dopo un breve tratto di 1-1,5cm che prende il
nome di tronco comune. La discendente anteriore vascolarizza la parete antero-laterale sx e il terzo
anteriore del setto (se occlusa si avrà un interessamento antero-settale o, se l’occlusione è prossimale,
anterolaterale); l’arteria circonflessa vascolarizza tutta la parete laterale e latero-posteriore del vs (se
interessata la zona colpita è quella laterale). La coronaria dx vascolarizza la porzione dx del cuore,
l’nsa, il nav e, se l’arteria interventricolare posteriore è un ramo di quest’ultima, anche il setto
interventricolare nella sua parte posteriore (si potrà avere un interessamento infero-postero-basale).
Non sempre però si ha questa situazione: l’anatomia appena descritta vale per quei soggetti che
hanno un circolo coronarico bilanciato; nel 20-30% dei pz si osserva una dominanza sx
(l’interventricolare posteriore è un ramo della circonflessa) o una dominanza dx (la coronaria dx
vascolarizza anche alcuni distretti di pertinenza della circonflessa). Ad ogni modo le coronarie sono
ampiamente anastomizzate tra loro.]

Si tratta di una ipoperfusione dovuta ad insufficienza del circolo. Alla base c’è uno
scompenso tra la domanda e l’offerta e ciò è causato dalla presenza di una placca
ateromasica (dislipidemie, fumo, ipertensione, età e familiarità) che riduce il lume vasale. Il
tutto inizia con il deposito di LDL nell’intima (stria lipidica): esse vengono poi ossidate dalle
cellule infiammatorie (la PCR pare infatti essere importante sia perché permette di
apprezzare l’inizio del processo sia come indice di progressione della patologia). Esistono in
realtà due tipi di placca: uno stabile, con un’importante componente fibrosa, e uno instabile
nella quale prevalgono i lipidi. La seconda causa principalmente le sindromi coronariche
acute perché, quando si rompe, alcune molecole vengono a contatto con il circolo e
possono portare alla formazione di un trombo che può occludere, totalmente o
parzialmente, una coronaria in maniera acuta. Nel primo caso, invece, si ha un
restringimento progressivo del lume coronarico: in un primo momento le aree che ricevono
poco ossigeno sono in grado di liberare fattori neoangiogenetici che portano alla formazione
di circoli collaterali che compensano; se però la stenosi raggiunge il 75% (!nel tronco
comune della coronaria sx basta il 50%), nel momento in cui viene aumentata la richiesta,
non si ha comunque un apporto di sangue sufficiente. Sostanzialmente, quindi, si tratta di
una patologia che si rende clinicamente manifesta quando c’è discrepanza tra domanda ed
offerta e la soglia può variare a seconda dell’entità della stenosi. Il sintomo principale di una
cardiopatia ischemica cronica è l’angina da sforzo. Oltre all’aterosclerosi, altre cause che
possono portare a ischemia miocardica cronica sono le alterazioni congenite delle coronarie,
le vasculiti, il vasospasmo o gli esiti di una tp radiante. Talvolta, poi, il problema è a carico
del microcircolo.

L’apporto di ossigeno al cuore dipende da diversi fattori:

1. Durata della diastole (un aumento della frequenza può essere un ostacolo)
2. Autoregolazione locale (prostaglandine, endoteline)
3. Pressione in aorta e nel ventricolo sinistro (un aumento dello spessore e
della contrattilità può essere un ostacolo)
4. Pressione di perfusione
5. Presenza di eventuali spasmi

198
6. Tensione di parete: è un parametro legato alla pressione sistolica e al volume del
ventricolo (più esso aumenta più aumenta il consumo di ossigeno perché c’è
maggiore stress di parete) ed è inversamente proporzionale allo spessore miocardico.

Il progredire del processo ischemico comporta alterazioni che si susseguono:

6. Cambiamento del metabolismo locale


7. Disfunzione diastolica per impossibilità di sganciare i ponti tra actina e miosina
8. Disfunzione sistolica
9. Fuoriuscita di k per disfunzione delle pompe e alterazioni dei dipoli visibili all’ecg
come sopra o sottoslivellamento.
10. Dolore: mediatori e k agiscono sui nocicettori (!diabetici)

Talvolta l’ipossia può anche generare aritmie.

La ripresa funzionale è possibile perché le cellule non vanno in necrosi: si parla di miocardio
stordito quando esso passa ad un metabolismo anaerobio e ha bisogno di un po’ di tempo
per riprendere le sue normali funzioni perché si ha accumulo di acido lattico; mentre il
miocardio ibernato, tipico delle ischemie croniche senza infarto, è una situazione nella quale
le cellule riducono il loro metabolismo basale andando in risparmio energetico.

L’anamnesi è importante per riconoscere la sintomatologia ed i fattori di rischio. Il pz


tipicamente riferirà un dolore oppressivo in sede retrosternale o epigastrica che può anche
essere irradiato ad esempio alla base del collo, alla mandibola, alla spalla o al lato ulnare del
braccio sx. Esso comparirà facendo un determinato tipo di attività, regredirà con assunzione
di nitrati e avrà durata limitata. A seconda dell’entità della stenosi, la patologia può limitare in
maniera differente la vita del pz: secondo le classi canadesi si possono dividere i pz in
quattro gruppi a seconda che essa compaia solo con sforzi molto intensi, con attività
moderata, con gesti quotidiani o anche a riposo. I fattori di rischio sono importanti per capire
il tipo di probabilità pre-test che il soggetto abbia una patologia coronarica (si guarda l’età, il
sesso e la tipologia del dolore) e questo guida l’iter terapeutico:

- Se la probabilità è alta (>85%) verrà inviato immediatamente a svolgere una


coronarografia e, se essa rivela la presenza di ostruzioni importanti, si può
contestualmente effettuare la procedura di angioplastica. Altro motivo per il quale il
pz può venire direttamente inviato a fare questo esame è la positività ad
un’ecocardiografia a riposo.

- Se la probabilità è intermedia si può effettuare un test da sforzo. Al paziente viene


chiesto di utilizzare una cyclette o un tapis roulant mentre viene monitorato con egc e
controllo pressorio. Ogni 3 minuti si ha un aumento dello sforzo e si va a vedere:

i. Se il test viene sospeso immediatamente non può essere considerato


diagnostico.
ii. Se il paziente arriva allo sforzo massimale (FC=220-età) senza avere problemi il
test viene considerato negativo.
iii. Se il paziente raggiunge almeno l’85% dello sforzo massimale e compaiono
angina/ischemia (valutabili rispettivamente dal paziente
e dall’elettrocardiografo), eccessiva dispnea, aritmie/cardiopalmo o una

199
riduzione della pressione arteriosa il test viene considerato positivo. Applicando
il duke treadmill score può poi avere anche valore prognostico: si considera di
quanto devia l’ST, i sintomi e la durata dell’esercizio.

È però importante considerare che, se da una parte la specificità è al 90%, quindi se il


test è positivo è molto probabile che il pz abbia davvero una coronaropatia, la
sensibilità è invece al 50% perché vi potrebbero essere molti falsi negativi, ad esempio
perché la patologia perdura da molto e quindi il paziente è abituato a lavorare con
quantità di ossigeno inferiori. Nei giovani e nelle donne soprattutto esiste comunque il
rischio di avere falsi positivi.

- Se invece il rischio è sempre in un range intermedio ma un po’ più alto si possono


utilizzare metodiche di imaging:

i. L’ecocardiogramma può essere effettuato sia a riposo (discrimina pazienti con


patologia importante da quelli con stenosi meno severe) sia da sforzo: il
paziente può ad esempio utilizzare una cyclette oppure può assumere
dobutamina (cronotropo e inotropo positivo) o dipiridamolo (vasodilatatore
endotelio dipendente: se le coronarie sono danneggiate non si vasodilatano).
Permette di rilevare anomalie morfologiche e della contrazione.
ii. La Scintigrafia può essere fatta con due tipi di tracciante. Il tecnezio entra nelle
cellule per diffusione passiva quindi l’accumulo dipende da quanto un’area è
irrorata: se durante lo sforzo (reale o provocato con dipiridamolo) si ha una
captazione ridotta, il test è positivo. Il tallio entra invece nelle cellule sfruttando
le pompe Na/K: nelle aree poco perfuse rimarrà più a lungo nelle cellule e
dunque rimarrà una captazione maggiore.
iii. La PET misura il metabolismo delle aree miocardiche grazie al glucosio marcato
che viene somministrato.

- Se la probabilità è bassa (<15%) si preferisce fare altre tipologie di esame per


escludere che si tratti di altre patologie con le quali i sintomi descritti del pz possono
portare a fare dd. Ci sono infatti altre patologie che possono dare un dolore simil-
anginoso: tra quelle extra-cardiache si possono annoverare il reflusso ge, la colica
biliare, la sindrome costo-sternale e la radicolite cervicale. Tra le cause cardiache
abbiamo invece l’ima, l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare e la pericardite
acuta. Ci sono poi altre forme anginose che riconoscono però una patogenesi
differente: l’angina di Prinzmetal è causata da spasmo dovuto a stimolazione con
cortisolo e catecolamine mentre l’angina x o microvascolare è causata da danni al
microcircolo e non alle coronarie. Infine, un dolore anginoso potrebbe essere anche
dovuto ad un circolo ipercinetico (anemia importante o ipertiroidismo) quindi sono
importanti anche gli esami ematochimici.

Altri esami specialistici che si possono fare sono l’ivus, ovvero un’eco transvascolare che
permette di vedere anche le placche eccentriche e l’analisi del flusso coronarico (FRR): si va
a valutare la pressione a valle e a monte della stenosi per capire il grado di compenso. Infine,
si può fare una tac coronarica ma ciò è possibile solo nei pz giovani perché in età avanzata
le arterie sono maggiormente calcifiche e questo non permette di vedere correttamente le
coronarie. L’ECG non è sempre significativo; talvolta si potrebbero comunque apprezzare un
sotto/sovraslivellamento del ST o l’insorgenza di aritmie dovute ad un’alterata conduzione
200
elettrica. La valutazione dell’ECG a 12 derivazioni ha poi permesso di definire il concetto di
ischemia silente, ovvero asintomatica, che si associa a condizione di diabete importante o a
episodi molto limitati nel tempo e nell’estensione. Gli esami ematochimici infine permettono
di valutare il paziente: è importante ad esempio andare a vedere la colesterolemia o una
eventuale iperglicemia.

Per decidere come procedere dal punto di vista terapeutico, si deve valutare il rischio di
morte del pz. Se esso è <1% si procede con una terapia medica ottimizzata, se esso è 1-3%
bisogna considerare la coronarografia mentre se è >3% è necessario intervenire
chirurgicamente. Si è in realtà visto che i risultati delle due strategie sono abbastanza
sovrapponibili e, in entrambi i casi, si può avere una persistenza dei sintomi dovuta a
progressione della malattia, ad associazione con angina X, a non perfetta esecuzione della
rivascolarizzazione e del posizionamento dello stent o a terapia medica subottimale per
intolleranza.

La tp medica deve essere volta sia a prevenire lo sviluppo della placca, specie in soggetti ad
alto rischio, che a curare il sintomo.

Per la prevenzione è importante che il pz attui una dieta ricca di pesce, frutta e verdura, che
smetta di fumare, che controlli la PA e che assuma statine (obbligatorie post
rivascolarizzazione o se si è già verificato un evento cardiovascolare a prescindere dai valori
basali), anche associate ad ezetimibe, nel caso in cui abbia una dislipidemia: la riduzione del
colesterolo può ridurre del 24% il rischio di eventi coronarici mentre l’insieme delle misure
preventive permette una riduzione totale del 44%. Si possono poi somministrare anti-
aggreganti per prevenire la trombosi su placca e ace-ib o sartani per prevenire il
rimodellamento cardiaco e migliorare la funzione endoteliale.

Per quanto riguarda invece la terapia sintomatica, quindi dell’angina, bisogna considerare
quale sia la causa dell’insorgenza:

201
Abbiamo a disposizione diversi farmaci:

1. Nitrati sono dei potenti vasodilatatori con effetto particolarmente importante sulle
coronarie. Tra quelli a breve durata d’azione abbiamo l’Isosorbide dinitrato (5mg SL);
tra quelli a lunga durata d’azione abbiamo l’Isosorbide dinitrato (50-120mg per os) e
la nitroglicerina transermica. Possono dare cefalea.
2. Beta-bloccanti (Bisoprololo 2.5-10mg/die, Carvedilolo 12.5-50mg/die) possono avere
un’azione maggiormente selettiva sul cuore andando a ridurre il consumo di ossigeno
per riduzione della contrattilità e della frequenza o possono avere anche effetto
vasodilatatorio e quindi ridurre il post-carico.
3. Calcio antagonisti si dividono in diidropiridinici (Amlodipina 2.5-10mg/die,
Nifedipina 20-60mg/die) con effetto vasodilatatorio, e non diidropiridinici (Veramil
120-240mg/die e Diltiazem 120-360mg/die) che agiscono riducendo la frequenza
cardiaca e non vanno quindi associati ai beta-bloccanti.
4. Ivabradina (10-15mg/die) è un farmaco che, inibendo la corrente funny, riduce la
frequenza delle depolarizzazioni del seno e dunque abbassa la frequenza cardiaca. È
l’unico ad avere solo effetto cronotropo negativo senza andare a modificare altri
parametri emodinamici, non può però essere somministrata a pazienti con una
frequenza inferiore a 70 bpm o a pz con fa perché in questi soggetti il ritmo non
dipende dal nodo del seno. Questo farmaco ha un’intensità di azione proporzionale
alla frequenza di apertura dei canali. Si sono visti effetti positivi in associazione ai
beta- bloccanti.
5. Ranolazina (750-1500mg/die): impedisce la corrente tardiva del sodio e questo è
importante per due ragioni. Da una parte infatti riduce l’utilizzo della pompa Na/K e
dunque abbassa il consumo energetico e dall’altra riduce anche quello della pompa
Ca/Na e in questo modo viene internalizzata una minore quantità di Ca e quindi si
abbassa la contrattilità. Può dare stipsi ma ha generalmente un buon profilo di
sicurezza e tollerabilità. Permette di ottenere un miglior controllo della sintomatologia
in associazione ad altri farmaci e di ridurre l’incidenza di endpoint primario e di
ischemia ricorrente.

È poi importante controllare gli fdr, anche al fine di ridurre la probailità di insorgenza di un
evento acuto. Si danno antiaggreganti, statine o altri farmaci ipolipemizzanti; si deve poi
abolire il fumo, correggere le abitudini alimentari e prescrivere attività fisica aerobica.

Dal punto di vista chirurgico si fa angioplastica (PTCA). Per via endovascolare (prima si usava come
accesso la femorale, ora si tende a preferire la radiale) si inseriscono dei cateteri e si porta un
palloncino a livello della stenosi, esso verrà gonfiato in modo da ampliare il lume e questa dilatazione
verrà poi mantenuta grazie all’impianto di stent. Essi possono essere metallici o medicati con farmaci
antiproliferativi (everolimus, sirolimus, paclitaxel). Nel primo caso verrà rapidamente ri-endotelizzato
e quindi da una parte il rischio trombotico è minore ma dall’altra si potrà avere nuovamente
occlusione in maniera più frequente. Nel secondo caso, invece, non venendo ricoperti da endotelio,
richiedono una terapia antiaggregante più prolungata ma il rischio di recidiva è inferiore. L’approccio
angioplastico va bene se c’è una singola lesione in una singola coronaria, ma, se la lesione è calcifica,
complessa o multipla, i risultati a distanza non sono buoni. Si dovrebbe quindi in questi casi preferire
un approccio con creazione di bypass: una volta essi erano definiti aorto-coronarici perché si
utilizzava una safena come ponte tra questi due vasi mentre ad oggi si preferisce sfruttare le
mammarie o le radiali mantenendone l’origine e facendo dei graft arteriosi sulla coronaria.

202
SINDROMI CORONARICHE ACUTE – SCA
La Sindrome Coronarica Acuta (SCA) si sviluppa in presenza di una serie di condizioni
cliniche diverse:

1. Angina instabile,
2. IMA in assenza di elevazione del tratto ST (NSTEMI –> 60-75% di tutti gli IMA),
3. IMA con elevazione del tratto ST (STEMI),
4. IMA transmurale con onda Q patologica (ad oggi è infrequente, perché la
rivascolarizzazione precoce impedisce la formazione di una cicatrice fibrotica ampia
che è responsabile del quadro elettrocardiografico dell’onda Q patologica).

La sindrome coronarica acuta è una patologia largamente diffusa, con un tasso di


ospedalizzazione e mortalità molto elevati: negli USA la mortalità ospedaliera è del 7% per
STEMI e 3-5% per NSTEMI con una mortalità a 6 mesi che del 12-13% per entrambi.

Il substrato che accomuna tutte queste condizioni cliniche è l’instabilità di una placca
aterosclerotica, che ha dunque elevata probabilità di rottura e fissurazione. Con la
fissurazione la placca espone materiale protrombotico che attiva le piastrine portando alla
formazione di un trombo che oblitera il lume vascolare. Se, invece, avviene la rottura
vengono liberati emboli che viaggiano nel circolo fino a raggiungere i vasi di calibro minore,
occludendoli, e determinando così la necrosi nei distretti a valle. Esiste anche una terza
possibilità: una placca che occlude in maniera incompleta il lume vasale; questa situazione
non determina alterazioni all’ECG sin quando il lume vascolare non è interamente occluso.

I fattori precipitanti sono molteplici, rendendo ragione dei diversi quadri clinici di sindrome
coronarica acuta:

1. Tachicardia inappropriata (come conseguenza di anemia, ipossia, tachiaritmia,


tireotossicosi),
2. Aumento del postcarico (ad es. per stenosi aortica: le linee guida sottolineano spesso
la necessità di ridurre la pressione arteriosa nei pazienti che sono affetti da stenosi
aortica),
3. Aumento del precarico (per elevata portata cardiaca, oppure per dilatazione del
ventricolo sinistro),
4. Alterazioni della contrattilità (per azione di sostanze simpaticomimetiche, o per
intossicazione da cocaina).

Quest’anno le linee guida hanno sottolineato l’importanza di distinguere tra due condizioni
cliniche:

- Il danno miocardico è una condizione in cui aumenta il valore circolante di troponina


a causa della necrosi miocardica: la cellula si rompe e la troponina fuoriuscita entra in
circolo.

- Anche nell’infarto del miocardio aumenta la troponina per la stessa ragione (necrosi
miocardica), ma in questo contesto è necessario che ci sia anche un’evidenza clinica
di ischemia miocardica acuta, assente invece nel danno miocardico.

203
Per questa ragione, condizioni di ipossia, di ipotensione grave, di scompenso cardiaco, di
anemizzazione, di aritmia ventricolare etc. possono essere associate a entrambi i quadri
descritti, ma solamente in presenza di evidenze cliniche di ischemia miocardica il quadro
potrà essere definito come infarto miocardico acuto.

TIPOLOGIE DI INFARTO MIOCARDICO


Sull base della presentazione e della fisiopatologia, è possibile suddividere l’infarto del
miocardio in diverse tipologie:

1. Tipo 1: è la forma classica. Una placca aterosclerotica adesa alle pareti di un’arteria si
rompe ostruendo il lume con un trombo e bloccando l’afflusso di sangue al cuore, che
di conseguenza è privato del necessario rifornimento di ossigeno. Viene definito come
un rialzo di troponina oltre il 99° percentile associato ad almeno uno dei criteri
seguenti:

a. Sintomi di ischemia acuta miocardica


b. Modificazioni ischemiche all’ECG
c. Sviluppo di onde Q patologiche
d. Perdita all’imaging di una certa quota di tessuto miocardico, o anormalità nella
motilità del miocardio
e. Evidenza all’angiografia o all’autopsia (nel caso di decesso) di un trombo nel
vaso coronarico.

2. Tipo 2: definito come un rialzo di troponina oltre il 99° percentile associato ad un


evidente squilibrio tra la domanda di ossigeno e l’apporto di ossigeno non correlato
alla trombosi coronarica. Tra le cause coronariche vi sono, per esempio, uno spasmo
coronarico o una disfunzione del microcircolo, la dissezione coronarica e,
probabilmente, la sindrome di Takotsubo; mentre, fra le cause non coronariche,
possono esserci malattie cardiovascolari non coronariche, come una poussée
ipertensiva, e anche malattie non cardiovascolari, come una grave sepsi, una grave
insufficienza respiratoria o una grave anemia. A questo quadro clinico si associa uno
almeno tra i seguenti criteri:
a. Sintomi di ischemia acuta miocardica
b. Modificazioni ischemiche all’ECG
c. Sviluppo di onde Q patologiche
d. Perdita all’imaging di una certa quota di tessuto miocardico, o anormalità nella
motilità del miocardio.

3. Tipo 3: pazienti con morte cardiaca improvvisa e sintomi suggestivi di ischemia


miocardica, presumibilmente accompagnati da alterazioni elettrocardiografiche o
fibrillazione ventricolare, ma deceduti prima del prelievo dei campioni di sangue per il
dosaggio delle troponine, o prima che l’aumento delle troponine nel sangue sia
rilevabile. Rientra in questa categoria anche il paziente in cui il sospetto di infarto del
miocardio venga confermato dal dato autoptico.

4. Tipo 4: è l’infarto periprocedurale, verificatosi durante l’intervento di angioplastica


percutanea. Può essere ulteriormente suddiviso in 3 sottotipi:

204
A: Evidenza angiografica di una complicanza procedurale come dissezione del
vaso coronarico oppure occlusione di un vaso principale o di un vaso
terminale. (N.B.: le procedure più a rischio di queste complicanze sono i
trattamenti sul tronco comune. È possibile che durante l’angioplastica si
sviluppino complicazioni perché l’emodinamista deve gonfiare un palloncino
nel vaso coronarico quindi il vaso coronarico può rompersi, chiudersi o
danneggiarsi).
B: Sviluppo di trombosi a livello dello stent appena posizionato.
C: Sviluppo di restenosi in seguito all’intervento di angioplastica.

È definito come un aumento di troponina superiore a 5 volte il valore del 99°


percentile, in pazienti che prima avevano troponina normale. Il valore elevato di
troponina periprocedurale si deve associare ad almeno uno dei criteri:

a. Modificazioni ischemiche all’ECG,


b. Sviluppo di onde Q patologiche,
c. Perdita di una quota di tessuto miocardico, o anormalità nella motilità del
miocardio.

5. Tipo 5: infarto associato all’intervento di bypass aortocoronarico. La definizione


prevede un aumento di troponina di almeno 10 volte il valore del 99° percentile
associato ad almeno uno di questi criteri:

a. Sviluppo di onde Q patologiche


b. Evidenza angiografica di una occlusione del graft appena posizionato oppure
occlusione di un ramo coronarico del paziente stesso
c. Evidenza all’imaging di perdita di materiale miocardico, o anormalità nella
motilità del miocardio.

VALUTAZIONE DEI QUADRI CLINICI DI CARDIOPATIA ISCHEMICA


Solo con anamnesi, esame obiettivo e ECG dovremmo essere in grado di inquadrare il
problema del pz come un dolore toracico non cardiaco, come un’angina instabile o NSTENI
o con infarto acuto STEMI. Nel sospetto di infarto del miocardio aggiungiamo il dosaggio
della troponine cardiache.

La presentazione clinica caratteristica è un dolore toracico di tipo costrittivo, spesso irradiato


agli arti superiori (soprattutto lungo il lato ulnare) e al giugulo; prolungato nel tempo (>20
min) e che tende a peggiorare rapidamente persistendo anche in condizioni di riposo. Il
dolore può insorgere in un soggetto che ha già avuto malattia coronarica (ad esempio un
soggetto con angina stabile che progressivamente peggiora), mentre in altri casi compare ex
novo; è possibile infatti diagnosticare una sindrome coronarica acuta ad un soggetto che
lamenta dolore toracico di tipo ischemico improvviso per la prima volta, senza
necessariamente doverlo comparare con una preesistente coronaropatia. Questa condizione
entra in diagnosi differenziale con moltissime condizioni cliniche:

- Cardiache: principalmente con la pericardite


- Polmonare: ad es. pneumotorace, embolia polmonare, bronchiti, polmoniti.
- Vascolari: ad es. dissezione dell’aorta, aneurisma sintomatico dell’aorta.

205
- Gastrointestinali: ad es. esofagite, reflusso gastro-esofageo (anche fisiologico), gastrite
acuta.
- Ortopediche: ad es. alterazioni della gabbia toracica, trauma al petto.
- Altro: disturbi d’ansia, herpes zoster, etc.

STEMI
Sicuramente la diagnosi di STEMI è la più semplice perché c’è una alterazione evidente
all’ECG con sovraslivellamento del tratto ST (oppure bdbsx di nuova insorgenza). La
probabilità che si tratti di STEMI è poi molto elevato se al dolore toracico si associa un
eventuale arresto cardiaco. In un quadro di STEMI non ha senso aspettare il rialzo delle
troponine che richiede alcune ore, si preferisce allora fare un ecocardio per valutare la
contrattilità, che risulterà ridotta a causa dell’ipoperfusione.

Quindi, in linea generale, il reperto ottenuto con ECG è di per sé indicativo e sufficiente a
fare diagnosi, ci sono però dei casi in cui la manifestazione è più atipica, ad esempio se
l’infarto è posteriore, in cui con le derivazioni tradizionali è più difficile da vedere. Altre
manifestazioni atipiche sono poi le alterazioni del tronco comune o la malattia multivascolare
che si manifestano di solito con un sottoslivelamento del tratto ST.

Una volta diagnosticato lo STEMI, è possibile somministrare una terapia per l’ipossiemia e il
dolore. L’ossigeno deve essere somministrato solo se la saturazione è <90% e facendo in
modo che non superi il 95% perché c’è un’elevata probabilità di formazione di radicali
liberi. Si danno poi oppioidi per lenire il dolore (3-5mg EV di Morfina ad intervalli di 15sec) e
Benzodiazepine per calmare il pz.

La cosa importante è poi permettere nel più breve tempo possibile la rivascolarizzazione. Per
decidere come agire è importante valutare il tempo trascorso tra l’insorgenza del dolore e la
diagnosi di sovraslivellamento (le tempistiche sono dunque fondamentali e la diagnosi deve
essere fatta il più tempestivamente possibile). Le linee guida ci dicono che:

- Se il tempo trascorso è < 120 min è necessario inviare tempestivamente il paziente in


emodinamica dove verrà riperfuso con intervento di angioplastica percutanea con
impianto di stent. L’indicazione al giorno d’oggi è quella di usare solo stent medicati
perché sono meno soggetti a complicanze di restenosi o trombosi,
- Se il tempo trascorso è > 120 min il paziente verrà sottoposto ad una terapia medica
con fibrinolitico. I farmaci utilizzati a questo scopo sono Streptochinasi, Alteplase,
Reteplase e Tenecteplase (gli ultimi tre sono somministrati prima in bolo e poi in
infusione. Solo se il fibrinolitico non ha l’effetto di riperfusione voluto si invia il
paziente in emodinamica per un intervento di angioplastica “rescue”.
- Se il paziente, indipendentemente dal tempo, è instabile emodinamicamente o ha
aritmie si esegue angioplastica primaria.

Se il paziente esegue l’angioplastica (PTCA) si deve sottoporre ad una terapia che


comprende antiaggreganti e anticoagulanti. Per quano riguarda gli antiaggreganti, i più
potenti e rapidi sono Prasugrel (dose di carico 60mg per os, dose di mantenimento 10
mg/die) e Ticagrelor (dose di carico 180mg per os, dose di mantenimento 90mg).
Clopidogrel e aspirina sono meno utilizzati; per quanto riguarda, invece, gli inibitori delle
glicoproteine IIb/IIIa e il Cangrelor, l’indicazione è meno certa. All’antiaggregante deve
essere associato un anticoagulante, il più utilizzato è sicuramente l’eparina non frazionata

206
(UFH) perché se si corre il rischio di sanguinamento si può decidere di fermare l’infusione di
eparina e di bloccare nell’immediato l’effetto anticoagulante. Nel caso si manifesti HIT,
l’eparina può essere sostituita con Bivalirudina. Non è raccomandato l’uso di Fondaparinux.

Dopo l’infarto, il pz dovrebbe assumere farmaci volti a garantire una prevenzione secondaria
cv.

ANGINA INSTABILE / NSTEMI


In questo caso la diagnosi è più complessa perché le manifestazioni sono meno evidenti: il
soggetto, infatti, si presenterà anche in questo caso con il caratteristico dolore toracico, ma
l’ECG può essere anche normale, specie se fatto a riposo e non durante il dolore. Se, invece,
si esegue durante il dolore, allora possiamo riscontrare evidenze di inversione dell’onda T o
sottoslivellamento del tratto ST, che però può presentarsi in molte altre condizioni cliniche. Il
sovraslivellamento del ST si associa sicuramente ad una mortalità maggiore rispetto ad una T
negativa o ad un transitorio sovraslivellamento dell’ST che regredisce con la
somministrazione di nitroglicerina sublinguale (evidenza tipica dello spasmo). Vista la non
specificità del quadro, in questi pz assume un ruolo fondamentale il dosaggio delle troponine
(I, c e Ultra). Se la troponina ripetuta dopo 3 h non aumenta oltre i livelli basali o aumenta
ma non da raggiungere il valore del 99° percentile allora non ci sarà diagnosi di sindrome
coronarica acuta; in caso contrario, se la troponina si innalza raggiungendo il valore del 99°
percentile, allora è opportuno pensare ad un trattamento invasivo perché significa che quel
paziente sta sviluppando un infarto acuto del miocardo senza sovraslivellamento del tratto
ST. In realtà, le cause che portano ad un rialzo delle troponine sono molteplici (terapia con
antracicline, malattie infiltrative come amiloidosi, infarto polmonare, dissecazione aortica,
embolia polmonare, FA, sepsi, IRA, IRC…), generalmente, però, in caso di infarto, il rialzo è
molto importante, quindi, se la troponina è aumentata oltre il 99° percentile si può
ragionevolmente pensare che questa sia la diagnosi e inviare il pz a fare una coronarografia.
Se il soggetto è instabile emodinamicamente la si esegue nell’immediato (entro 120min), se il

207
soggetto è stabile emodinamicamente o ha un rialzo lieve delle troponine o risponde bene a
farmaci vasodilatatori allora si può attendere per valutare l’evoluzione del quadro clinico
(entro 24-72h). Quando il paziente è a basso rischio ed è asintomatico si può sottoporre il pz
ad un test provocativo come un test da sforzo nell’arco delle 72 h successive all’evento
acuto. A scopo precauzionale i pazienti che attendono l’esecuzione del test proseguono la
terapia medica appropriata (ASA, NTG sl, e/o betabloccanti).

Stabilire una classe di rischio è importante sia per capire come agire che per decide la tp più
appropriata. La gravità, in termini di prognosi, delle le sindromi coronariche acute si stabilisce
attraverso lo score di GRACE che stratifica il rischio di morte sia ospedaliera che a distanza di
6 mesi dall’evento, i criteri che valuta sono:

1. Età,
2. Valori di pressione sistolica,
3. Classe funzionale,
4. Alterazioni dell’ECG,
5. Presentazione con arresto cardiaco,
6. Livello di creatinina,
7. Positività ai biomarkers cardiaci,
8. Frequenza cardiaca.

Se il rischio è basso la percentuale di morte intraospedaliera è <1% e quella a 6 mesi è <3%.


Se il rischio è intermedio la percentuale di morte intraospedaliera è 1-3% e quella a 6 mesi è
3-8%. Se il rischio è alto la percentuale di morte intraospedaliera è >3% e quella a 6 mesi è
>8%.

Il rischio in realtà va valutato anche tenendo in considerazione altri criteri che sono suddivisi
in base alla gravità:

• Very high risk criteria:

1. Shock cariogeno o instabilità emodinamica


2. Dolore refrattario al trattamento medico
3. Arresto cardiaco
4. Complicazioni meccaniche dell’infarto (come ischemia del muscolo papillare
con disfunzione mitralica)
5. Sviluppo di scompenso cardiaco
6. Variazioni dinamiche del tratto ST e dell’onda T ricorrenti

• High risk criteria:

1. Aumento e diminuzione delle troponine compatibili con infarto


2. Cambiamenti dinamici del tratto ST e dell’onda T
3. GRACE score>140

• Intermediate risk criteria

1. Diabete mellito
2. Insufficienza renale
208
3. LVEF<40%
4. Angina precoce post infarto
5. Precedente PCI
6. Precedente CABG
7. GRACE score >109 e <140

• Low risk criteria

1. Evidenze non citate sopra.

Come detto, queste stime del rischio sono importanti in caso di NSTEMI anche per decidere
come intervenire:

1. Se il rischio è basso si procede con la strategia medica,


2. Se il rischio è intermedio si ritarda l’intervento di angioplastica primaria fino a 72h,
3. Se il rischio è alto l’intervento di angioplastica è eseguito entro le 24h,
4. Se il rischio è molto alto l’intervento invasivo deve essere svolto entro 2h.

Il pz deve stare a letto, sotto monitoraggio con ECG e i primi farmaci che gli vengono
somministrati comprendono Nitroglicerina (sublinguale o in spray, viene assorbita
rapidamente e ha molteplici effetti: risolve il vasospasmo, riduce la PA e il dolore, previene
l’ischemia silente, migliora la funzione sistolica e riduce il ritorno venoso riducendo il lavoro
cardiaco) e 160-325mg di ASA. L’ossigeno, come detto, deve essere usato con cautela. La
morfina NON deve essere data perché può associarsi ad un aumento di eventi avversi
perché, riducendo il dolore, può essere confondente. I FANS NON devono essere usati
perché aumentano la mortalità, la probabilità di reinfarto e quella di scompenso cardiaco.

Per quanto riguarda la tp antiischemica, è possibile somministrare:

1. Nitrati EV: i due più utilizzati sono Nitroglicerina e Isosorbide dinittrato. NON
possono essere usati in pz con NSTEMI che siano ipotesi, bradi o tachicardici o che
abbiano assunto un inibitore delle fosfodiesterasi perché si ha un effetto additivo ed è
dunque necessario aspettare.
2. Betabloccanti (Metoprololo, Atenololo, Bisoprololo, Carvedilolo): vengono utilizzati
nelle prime 24h quando le condizioni del pz sono stabili perché permettono di ridurre
l’attivazione simpatica e la soglia ischemica e perché prevengono l’ischemia e la
morte post-infarto. NON vanno, invece, dati, a pz in shock cardiogeno, asmatici, con
broncostenosi o, secondo la Muiesan, a pz che abbiano fatto uso di cocaina. È poi
necessario esercitare cautela in caso di infarto inferiore perché c’è una spiccata
stimolazione vagale e il beta-bloccante potrebbe favorire l’insorgenza di BAV
completo. Se c’è controindicazione ai betabloccanti, si possono somministrare calcio
antagonisti non diidropiridinici, a patto che non ci sia un allungamento del PR, una
disfunzione del ventricolo sinistro o un BAV di secondo o terzo grado, a causa della
loro spiccata azione inotropa negativa.
3. ACE-ib: vengono somministrati nelle prime 24h dalla diagnosi e inizialmente si usano
dosi molto basse. Sono controindicate se il soggetto è ipoteso. Se c’è intolleranza di
possono usare gli antagonisti dell’Angiotensina II.
4. Fibrinolitici

209
C’è poi la riperfusione con angioplastica.

Per quanto riguarda la tp anti trombotica si usano antiaggreganti e anticoagulanti. L’ASA


rappresenta il gold standard: viene data inizialmente in boli da 150-300mg e poi con una tp
di mantenimento di 75-100mg ed è importante perché in pz con angina instabile riduce del
70% il rischio di evoluzione a infarto del miocardio. Per ottenere la doppia antiaggregazione
si associano prevalenemente Prasugrel e Ticagrelor e non gli inibitori della GP IIb/IIIa perché
si aumenta di molto il rischio emorragico. Prima dell’angioplastica è possibile dare anche un
anticoagulante e si deve preferire l’eparina non frazionata perché, dovendola sospendere
prima della procedura, è quella il cui effetto cessa immediatamente.

CARDIOMIOPATIA DI TAKOTSUBO
È una forma di sindrome coronarica acuta legata all’iperstimolazione adrenergica,
determinata da alcuni trigger: in primis condizioni di stress generale (es. lutti, eventi
traumatici) oppure condizioni cliniche che inducono stress come una sepsi, un intervento
chirurgico, un posizionamento di drenaggio o stress farmacologico. All’ecocardio si potrà
notare grave disfunzione sistolica del ventricolo di sinistra, acinesia apicale del ventricolo di
sinistra con aspetto ad “apical balloning” e congestione cavale.

210
COMPLICANZE DELL’IMA
1. Aritmiche: la più pericolosa è rappresentata dalla fibrillazione ventricolare che
rappresenta la prima causa di morte subito dopo l’ima (viene persa una contrazione
sistolica efficace). Si possono creare dei circuiti di rientro perché non c’è omogeneità
oppure si possono avere dei foci irritabili che scaricano autonomamente. Se l’infarto è
della coronaria dx, situazione comunque piuttosto rara, si può avere asistolia
dall’esordio poiché quest’ultima vascolarizza il nsa e il nav. Se il pz è in fibrillazione
deve essere defibrillato e gli deve venire fatta la rianimazione cardio-polmonare
mentre, in condizione di asistolia, bisogna intervenire con una procedura di
stimolazione meccanica denominata chest-up esercitando pressioni anche piccole
sopra il cuore.

2. Emodinamiche legate ad insufficienza cardiaca: se più del 40% del vs va incontro a


morte si può avere shock cardiogeno che è la principale causa di morte nei giorni
successivi all’ima. I pz avranno segni di ipoperfusione generale: essi saranno dunque
ipotesi (PAS<80 mmHg), con cute fredda, respiro affannato, sensorio obnubilato e
avranno acidosi metabolica (metabolismo anaerobio con accumulo di acido lattico).
Inoltre, aumentando i volumi telesistolici, aumenteranno anche quelli telediastolici e
ciò andrà a ridurre la perfusione coronarica: si instaura dunque un circolo vizioso.

3. Emodinamiche di natura meccanica:

a. Pseudoaneurisma: la parete del ventricolo si rompe ma si forma un coagulo


che tampona la perdita ematica.
b. Rottura della parete libera del vs: generalmente si può assistere a questo evento
in 3-5 giornata. La mortalità raggiunge il 90% perché si ha tamponamento
cardiaco.
c. Rottura del setto: è più rara rispetto alla complicanza precedente e,
generalmente, fa seguito ad un ima anteriore. Porta alla formazione di uno
shunt sx-dx e la mortalità è del 40-50%.
d. Rottura del muscolo papillare con insufficienza mitralica acuta grave dovuta ad
eversione del lembo corrispondente ed edema polmonare acuto. Spesso è
dovuta ad un infarto postero-laterale e porta all’insorgenza di un soffio
olosistolico. In effetti, il lembo papillare anteriore è generalmente servito da
numerose arterie, mentre, quello posteriore, solo da un ramo della coronaria
dx. L’insufficienza mitralica può essere determinata anche dal fatto che, in
seguito a fenomeni di rimodellamento del vs, la valvola non è più sufficiente a
chiudere completamente l’ostio atrio-ventricolare. In effetti, quando i
miocardiociti muoiono, essi verranno sostituiti da tessuto fibrotico che è meno
resistente e non è contrattile.

211
NITRATI
[Sono farmaci che hanno la capacità di donare NO, il quale è in grado di aumentare i livelli
intracellulari di cGMP promuovendo la defosforilazione della catena leggera della miosina e
riducendo la concentrazione di calcio. In questo modo si ottiene il rilassamento delle cellule
muscolari lisce in molti tessuti, tra cui quelle vasali, con vasodilatazione. A basse concentrazioni,
questi effetti sono maggiormente visibili sulle vene: dilatando le vene si ha una riduzione del
precarico e della pressione telediastolica, riducendo così il lavoro cardiaco. Non si hanno, invece,
grandi effetti sulle resistenze vascolari sistemiche. La PA sistemica può ridursi lievemente, la FC
rimane invariata o aumenta di poco in risposta alla lieve riduzione di PA, a livello polmonare si ha un
lieve abbassamento delle resistenza. Si ha, invece, vasodilatazione delle arteriole: ciò determina la
comparsa di effetti collaterali come rossore al viso e al collo, vampate o cefalea per la dilatazione
delle arterie meningee. I nitrati hanno poi un’azione antiaggregante].

Le molecole facenti parte di questa famiglia che abbiamo a disposizione comprendono:

- Nitroglicerina: se si usa la formulazione sublinguale, il picco plasmatico viene


raggiunto in 4 min, l’effetto è, dunque, molto rapido; gli spray sono ancora più veloci.
- Isososrbide dinitrato
- Isosorbide-5-mononitrato

Sono utilizzati per il controllo del dolore anginoso: i nitrati sono in grado di indurre
vasodilatazione coronarica e, quindi, un aumento del flusso al miocardio [ricordare che, nei
pz con ischemia cronica, la riserva funzionale coronarica è quasi interamente utilizzata già in
condizione di riposo, quindi il pz non sarà in grado di rispondere ad un aumento delle
richieste]. L’effetto principale è comunque quello di ridurre la richiesta miocardica di
ossigeno grazie alla loro azione sul distretto venoso: l’aumeno della capacitanza venosa
porta a riduzione del ritorno venoso, del volume telediastolico e, dunque, del consumo di
ossigeno. Una dose inziale di 0.3mg di nitroglicerina sublinguale è spesso in grado di
alleviare il dolore anginoso in 3 minuti e viene prescritta soprattutto in caso gli episodi siano
sporadici. Nel caso, invece, di forme più frequentemente manifeste, si preferisce una
profilassi con nitrati per os, da assumere a prescindere dagli eventuali attacchi. Bisogna,
comunque, considerare che, sul lungo termine, si possono instaurare fenomeni di tolleranza;
per ridurre l’incidenza dei quali appare funzionale l’associazione con Idralazina. Altre
applicazioni terapeutiche sono l’angina instabile, soprattutto per il controllo del dolore, e lo
scompenso, specie se sono presenti segni di congestione polmonare.

Le risposte indesiderate che insorgono sono quasi tutte conseguenti alle azioni sul sistema
CV. Il riscontro di cefalea, anche grave, è piuttosto comune; solitamente, comunque, questo
sintomo tende a ridursi dopo pochi giorni dall’inizio della tp. Ci possono poi essere episodi
transitori di vertigine, debolezza e altre manifestazioni associate a ipotensione posturale,
specie se il pz se il pz presenta disfunzioni autonomiche. Infine, i nitrati, in virtù del loro
effetto rilassante sulla muscolatura liscia, possono provocare diminuizione del tono esofageo,
del tratto gastro-intestinale, delle vie biliari e del tratto genitourinario.

NON devono essere associati agli inibitori selettivi della fosfodiesterasi-5 (usati sia nel
trattamento della disfunzione erettile che dell’ipertensione polmonare) perché si otterrebbe
una vasodilatazione eccessiva. Sono poi controindicati nei pz con cardiomiopatia ipertrofica
perché possono accentuare l’ostruzione all’efflusso.

212
RIEPILOGO
Meccanismi d’azione: i nitrati agiscono per venodilatazione e alleviando la vasocostrizione
coronarica (compresa quella indotta da esercizio fisico) per migliorare gli attacchi anginosi. Sono
anche dilatatori arteriosi e riducono la pressione aortica sistolica. I loro effetti di scarico recano
beneficio anche ai pazienti che soffrono di CHF con pressione di riempimento del ventricolo sinistro
elevata.
Assunzione intermittente di nitrati nell’angina da sforzo: la nitroglicerina sublinguale resta la terapia
base, generalmente combinata con un beta-bloccante, un BCC o entrambi i farmaci con un’attenta
valutazione di stile di vita,valori pressori e profilo lipidico. Poiché la durata d’azione è di alcuni
minuti, l’insorgenza della tolle- ranza ai nitrati è insolita per via degli intervalli liberi da nitrato rela-
tivamente lunghi tra gli attacchi.L’assunzione intermittente di isosor- bide dinitrato ha un’insorgenza
d’azione ritardata perché è necessario che l’agente sia trasformato dal fegato nei metaboliti at- tivi,
ma la durata d’azione è superiore a quella della nitroglicerina.
Per la profilassi dell’angina: gli autori sostengono le raccomandazioni dello Studio NICE per l’uso
iniziale di un nitrato ad azione rapida con un beta-bloccante o un BCC, aggiungendo in seguito sia il
beta-bloccante sia un BCC DHP, e successivamente un agente di terza linea, con una certa
autonomia nel poter usare l’agente di“terza linea”(ivabradina, nicorandil, ranolazina, trimetazidina; o
perexilina in Australia e Nuova Zelanda) quale associazione iniziale con nitrati ad azione breve.
Tolleranza ai nitrati: maggiore è la durata d’azione del nitrato, maggiori sono le probabilità che si
sviluppi tolleranza. Pertanto si deve effettivamente agire per trovare un equilibrio fra la durata
d’azione ed evitare la tolleranza. Declassare i nitrati ad azione pro- lungata a scelta di terza
linea,come raccomandato dal NICE, invece di usarli come scelta di prima linea come spesso accade,
dovrebbe ridurre il rischio di tolleranza.Una quantità crescente di dati mostra che la disfunzione
endoteliale, in cui ha un ruolo la formazione di aldeide, è responsabile della tolleranza ai nitrati. La
co-terapia con carvedilolo o possibilmente nebivololo quali beta-bloccanti d’elezione dovrebbe
aiutare a ostacolare o ritardare la tolleranza, ma per ora mancano studi clinici prospettici.
Per l’angina instabile a riposo: non è possibile realizzare un intervallo libero da nitrati e il trattamento
a breve termine per 24-48 ore con nitroglicerina per via endovenosa è spesso efficace; tuttavia, è
spesso necessario ricorre a dosi crescenti per superare la tolleranza.
IMA in fase iniziale: gli autori suggeriscono che i nitrati per via endovenosa siano specificamente
riservati ai pazienti più com- plicati.
Trattamento della CHF: la tolleranza si sviluppa anche durante il trattamento della CHF, così che i
nitrati sono spesso riservati per problemi specifici come l’insufficienza acuta del ventricolo si-
nistro,dispnea notturna o esercizio programmato.Tuttavia ora l’iso- sorbide dinitrato combinato con
idralazina è autorizzato per l’insuf- ficienza cardiaca nei soggetti di etnia nera.
Edema polmonare acuto: i nitrati sono una parte importante della terapia globale, poiché agiscono
principalmente riducendo il precarico.
Tolleranza ai nitrati: l’attuale comprensione del meccani- smo della tolleranza si concentra sulla
formazione di radicali liberi (superossido e perossinitrito) con compromissione della biocon- versione
del nitrato a NO attivo. Durante il trattamento dell’angina da sforzo con isosorbide dinitrato o
mononitrato, prove tangibili suggeriscono che dosi non standard con un intervallo libero da ni- trati
evitano ampiamente la tolleranza clinica, ma la disfunzione endoteliale rimane un rischio sul lungo
termine.Oltre all’aggiunta di idralazina (si veda discussione precedente) gli altri provvedimenti meno
testati comprendono la somministrazione di antiossidanti, statine,ACE-inibitori e acido folico.
Interazione grave con farmaci simili al sildenafil: I nitrati possono interagire in modo molto negativo
con tali farmaci, che ora sono spesso utilizzati per alleviare la disfunzione erettile. Quest’ultima
condizione è comune nei pazienti con malattie cardiovascolari, poiché si tratta di una manifestazione
di disfunzione endoteliale. La co-somministrazione di questi inibitori della PDE-5 con nitrati è quindi
controindicata.A ogni uomo che presenta SCA va chiesto se ha usato di recente tali farmaci (nomi dei
principi attivi: sildenafil, vardenafil e tadalafil). Se uno qualsiasi di questi far- maci è stato utilizzato,
deve trascorrere un intervallo di 24-48 ore (l’intervallo più lungo per il tadalafil) prima che si possa
procedere alla somministrazione terapeutica di nitrati con ragionevole sicurezza, ma sempre con
grande attenzione.

213
IPOTENSIONE ORTOSTATICA
L’ipotensione ortostatica è una riduzione della PA che si manifesta entro 3min
dall’assunzione della posizione ortostatica: si deve avere un abbassamento di almeno
40mmHg per la PAS e di almeno 20mmHg per la PAD. Mediante il tilt test si può poi
distinguere forme precoci o iniziali se si manifestano entro 15sec dall’assunzione
dell’ortostatismo passivo o di forme tardive o di intolleranza ortostatica se non vi è
adattamento alla posizione ortostatica con progressiva riduzione della PAS, fino anche a
raggiungere pre-sincope e sincope. L’ipotensione ortostatica è un segno, può essere
asintomatica o sintomatica (affaticamento, senso di instabilità, rallentamento ideomotorio,
offuscamento del visus, cefalea, nausea, dispnea, malessere generalizzato), acuta o cronica,
ed è risultante da un inadeguato adattamento alle variazioni di PA legati ai cambi posturali.
Immediatamente dopo l’assunzione della posizione ortostatica, il volume ematico si
ridistribuisce secondo la forza di gravità con ristagno di circa 400-900mL di liquido nel
circolo venoso splancnico e negli arti inferiori con calo del ritorno venoso. Fisiologicamente
ciò dà luogo ad una risposta adattativa mediata dal sistema nervoso autonomico: si attiva il
riflesso barorecettoriale con aumento del tono simpatico e riduzione di quello vagale. Ci
sono situazioni in cui non si ha questo compenso e le cause principali sono:

1. Disautonomia primaria (Parkinson)


2. Disautonomia secondaria (DM, tireopatie, malattie autoimmuni)
3. Disautonomia farmaco-indotta (alfa-litici, diuretici, diidropiridinici, SSRI, miorilassanti,
antipsicotici atipici, dopaminergici e nitrati)
4. Ipovolemia
5. Eccessiva riserva venosa

La terapia deve mirare ad aumentare la capacità di mantenere l’ortostatismo, a minimizzare i


sintomi associati e, ove possibile, ad incrementare i valori di PA in ortostatismo, pur
evitandone un eccessivo aumento in posizione supina. Come prima cosa si devono
individuare e, se appena possibile, sospendere i farmaci che possono causare o aggravare
questa condizione; nel caso non fosse possibile la sospensione, devono essere assunti la sera.
Il pz deve poi essere educato a cambiare posizione in maniera graduale e con cautela e a
mantenere un buono stato di idratazione. Occorre evitare pasti abbondanti e caldi o troppo
ricchi in carboidrati e minimizzare o sospendere l’assunzione di alcol. Le calze elastiche
possono favorire il ritorno venoso; sempre con questo scopo si possono insegnare al pz
manovre respiratorie che incrementino la pressione negativa intratoracica (per esempio
esempio chiudendo le mani a pugno). Dal punto di vista farmacologico, possono essere utili
0.1-0.5mg/die di Fludrocortisone, la Midodrina (è un agonista selettivo periferico dei
recettori alfa1adenergici che induce vasocostrizione a livello arteriolare e venoso; è da
maneggiare con cura perché può aggravare condizioni di ostruzione urinaria, vasculopatie
spastiche o ostruttive, glaucoma ad angolo chiuso o ipertirodismo. Se sovradosato dà
bradicardia ed eccessivo rialzo pressorio) o la caffeina (inibisce l’effetto vasodilatante indotto
dai recettori adenosinici). Se il pz è anche iperteso si preferisce utilizzare la Piridostagmina:
alla dose di 30-90mg fino a x3/die migliora la neurotrasmissione acetilcolinica del SNA e
sembra favorire il rilaschio di noradrenalina, ma, rispetto ai simpaticomimetici puri, non
induce ipertensione in posizione supina. Chiaramente si decide se attuare solo una tp
comportamentale o dare anche farmaci sulla base della ricorrenza e delle possibili
conseguenze.

214
SINCOPE
Si tratta di una perdita di coscienza transitoria dovuta ad ipoperfusione cerebrale globale. È
caratterizzata da rapida insorgenza, breve durata e recupero completo e spontaneo. Al
contrario, in caso di presincope abbiamo una transitoria perdita di forze dovuto ad una
ridotta perfusione cerebrale, ma non c’è perdita di coscienza.

Come prima cosa è importante distinguere la sincope da altre condizioni che potrebbero
mimare una sincope, ovvero:

1. Parziale o completa perdita di coscienza che si sviluppa a causa di epilessia, disordini


metabolici (ipoglicemia nel diabetico) o intossicazioni. Quello che cambia in questo
caso è la causa, che non è imputabile all'ipoperfusione.
2. Condizioni che mimano una perdita di coscienza, ma nella quali ciò non si verifica:
ad esempio, un anziano cade non perché abbia avuto una sincope ma perché perde
la posizione eretta (Parkinson, instabilità posturale...). Un altro esempio è quello dei
drop attacks e della pseudosincope psicogena.
3. Condizioni di apparente perdita di coscienza: è il caso delle POTs (postural
orthostatic tachicardia). Questi pz hanno una disautonomia a causa della quale
passando dal clino all'ortostatismo hanno un aumento rapido ed improvviso della
frequenza cardiaca che talvolta si associa anche all'insorgenza di aritmie. Anche i TIA
portano a uno stato confusionale, ma non ad una vera e propria perdita di coscienza
(tant’è vero che non c’è più indicazione a fare doppler TSA se si fa diagnosi di
sincope), così come le iperventilazioni con ipocapnia tipiche del neonato che piange
e diventa cianotico (Cyanotic breath holding spell).

In generale, non è sincope se lo stato confusionale perdura per più di cinque minuti, se ci
sono movimenti tonico-clonici prolungati x più d 15sec dall'inizio dell'attacco, se ci sono
attacchi frequenti, senza che ci sia una patologia cardiaca alla base e se ci sono disartrie,
vertigini o diplopia.

Le sincopi vere e proprie possono invece essere così divise:

1. Sincope riflessa/neuromediata

a. Vaso-vagale: è dovuta ad un ipertono vagale. Se il flusso cerebrale scende al di


sotto dei 30 mL/min/100g di massa, si ha sincope. Sono predisposte le persone
anemiche, febbricianti, disidratate o in cura con anti-ipertensivi, così come chi
sta molto in piedi. Può essere ulteriormente suddivisa in forme ortostaatiche o
emozionali. Si tratta, in ogni caso, di un fenomeno benigno con significato
prognostico non negativo. La pericolosità è data da eventuali traumi da caduta.
Generalmente questa sincope è preceduta da prodromi come pallore, nausea,
salivazione profusa, sudorazione, dilatazione pupillare e riduzione dell'acuità
visiva.
b. Situazionale: in una pz che ha ipertono vagale alcune situazioni possono
fungere da trigger perchè portano ad una riduzione del ritorno venoso. È il
caso ad esempio di emorragie acute, torchio addominale, minzione o esercizio
fisico isometrico: sono tutti casi in cui si ha una riduzione del ritorno venoso.

215
c. Ipersensibilità del seno carotideo: bastano lievissimi compressioni, ad esempio
date da una collana un po' stretta, per attivarlo ed avere un'iperattivazione del
sistema parasimpatico.

2. Sincope ortostatica: è secondaria ad ipertensione ortostatica. Generalmente alla basa


c'è una disautonomia che può essere primitiva, se ad esempio è dovuta a Parkinson
(questi pz perdono la capacità di adattare la pressione in base alla posizione), a
demenza a corpi di Lewy, ad atrofia multisistemica o a disfunzione autonomica
primaria; oppure secondaria ad esempio a diabete, tireopatie, amiloidosi, traumi
spinali, sindromi paraneoplastiche, insufficienza renale o malattie autoimmuni. Un
altro caso è quello dell'ipotensione ortostatica farmaco-indotta: possono, infatti
esserne causa, ad esempio, gli alfa litici come la Doxazosina, i calcio-antagonisti
diidropiridinici come l'amlodipina, i nitroderivati o i diuretici. Infine, ci sono anche
forme date da una deplezione di volume, ad esempio in seguito ad emorragia o
diarrea. A prescindere dalla causa, l’ipotensione può essere esacerbata dal sequestro
ematico esercizio-indotto o post-prandiale oppure da periodi prolungati di
allettamento per decondizionamento.

3. Sincope cardiogena:

a. Cause aritmiche: possono provocare sincope sia le bradiaritmie, date ad


esempio da una disfunzione del NSA o da disturbi della conduzione AV, sia le
tachiaritmie perché, se il cuore si contrae troppo velocemente (>150bpm), il
volume eiettato sarà troppo basso. In generale, tutte le forme aritmiche
possono portare a sincope, ivi compresi la fa, le tachiaritmie sovra e sotto
ventricolari o la fibrillazione ventricolare.
b. Cause strutturali come la cardiopatia ischemica in fase acuta, lo scompenso
acuto, le valvulopatie, e la senosi aortica in particolare o la miocardiopatia
ipertrofica.
!La sincope in un pz con patologia strutturale cardiaca non per forza è
correlata a questa, può essere anche puramente riflessa o da ipotensione
ortostatica. In altri invece la patologia cardiaca può avere un ruolo di
potenziamento dei meccanismi riflessi oppure può essere il substrato per
disturbi della conduzione e aritmie.
c. Cause cardiopolmonari e dei grossi vasi: l'embolia polmonare, ad esempio,
porta ad impossibilità nello svuotamento del circolo polmonare, arriva dunque
meno sangue al cuore sx e si ha un ipoperfusione sia globale che sistemica.
Abbiamo poi anche la dissezione aortica cuta. C'è poi il mixoma interatriale
che può ostruire l'ostio mitralico.

[Dal punto di vista fisiopatologico, il tono vasale e la pressione sono normalmente regolati da:

1. Barocettori dell'arco aortico e del seno carotideo: se aumenta la pressione arteriosa vengono
stirati, partono quindi impulsi inviati tramite il glossofaringeo che attivano il parasimpatico.
2. Recettori atriali: quando c'è distensione atriale aumenta la fc
3. Recettori ventricolari: sono sensibili allo stiramento
4. Recettori cardio-polmonari: sono localizzati in un distretto a bassa pressione, sono sensibili
alle variazioni di volume. Un aumento della volemia porta a ridurre l'attività simpatica e ad
abbassare i livello di adh.

216
Questi meccanismi mediati dal SNA sono rapidissimi e sono utili ad esempio quando si cambia
posizione; i sono poi meccanismi ormonali, endocrini e metabolici che garantiscono la regolazione
pressoria a lungo termine. I meccanismi rapidi hanno afferenze che si integrano a livello dei centri
bulbari e sovrabulbari, a livello di quest'ultimo partono le efferenze che permettono la regolzione
pressoria]

Per quanto riguarda la sincope neuromediata, essa può dipendere da tre tipi di risposte ad
una situazione di bassa pressione sistemica:

- Sincope neuromediata con risposta vasodepressiva: si ha un calo di pressione.


- Sincope neuromediata con risposta cardio-inibitoria: si abbassa la fc.
- Sincope neuromediata con risposta mista

Per quanto riguarda la sincope ortostatica, si ha una risposta errata: ad una situazione di
bassa pressione arteriosa sistemica il paziente risponderà con calo delle resistenze
periferiche e riduzione della portata cardiaca. L'ipotensione ortostatica viene definita
classica se passando dal clinostatismo all'ortostatismo, dopo 3 minuti, il pz ha una PAS
inferiore di 20 mmHg rispetto ai valori misurati in clinostatismo; si parla invece di
ipotensione ortostatica iniziale quando si ha un ripristino dei normali valori pressori in meno
di 30sec; mentre con ipertensione ortostatica progressiva si intende una situazione nella
quale dopo un periodo di valori pressori normali si ha un abbassamento (è generalmente
correlabile a patologie sistemiche).

Alla base della sincope cardiaca abbiamo sempre una riduzione della portata.

Per fare diagnosi, come prima cosa già l'età del pz può fornire un'indicazione. Negli anziani
avremo soprattutto cause cardiache, ma bisogna escludere anche, ad esempio, le sincopi
ortostatiche iatrogene. Nel giovane, invece, la sincope è generalmente neuromediata e
quindi benigna. Ci sono però alcuni condizioni genetiche pre-aritmogene che potrebbero
portare a sincopi cardiogene (ad esempio la displasia aritmogena del vd, le cosiddette
canalopatie – ovvero Brugada, QT lungo e QT breve – o la cardiomiopatia ipetrofica), quindi
non bisogna automaticamente pensare a qualcosa di benigno. Bisogna raccogliere
l'anamnesi in maniera accurata indagando cosa stesse facendo il pz al momento dell'evento
(ad esempio, una sincope durante uno sforzo deve sempre destare preoccupazione, mentre
dopo lo sforzo è generalmente un evento neuromediato), se ci sono stati fattori precipitanti,
se c'è una sintomatologia prodromica (un cardiopalmo deve far pensare ad una causa
cardiaca, mentre acufeni, offuscamente del visus e sensazione di gambe molli, ad una forma
neuromediata), se c'è familiarità per qualche patologia che potrebbe determinare sincopi e
che tp farmacologica segue. Grazie a questi elementi posso innanzitutto capire se si tratti di
una sincope vera e propria o di un evento simile. Se la diagnosi di sincope è sicura, si passa
alla stratificazione del rischio. Dal momento che si stima che quasi il 6% degli accessi in ps
sia dovuto ad una sincope, è, infatti, importante capire quali siano i soggetti ad alto rischio:

1. Sulla base dell’evento sincopale è considerato ad alto rischio una nuova insorgenza di
disconfort, mancanza di respiro, dolore addominale o cefalea; se la sincope avviene
durante l’esercizio fisico o in posizione supina o la sincope è stata preceduta da
palpitazioni. Se poi il soggetto ha una nota patologia cardiaca o ha anomalie all’ECG,
considero preoccupanti anche l’assenza di prodromi, il fatto che il pz abbia in

217
anamnesi familiare morti cardiache improvvise o il fatto che la sincope sia avvenuta
in posizione seduta.
2. Dal punto di vista dell’anamnesi patologica remota, sono ad alto rischio i soggetti con
patologie strutturali cardiache severe o con coronaropatia.
3. All’esame obiettivo, risultano preoccupanti una PAS<90mmHg non spiegabile, il fatto
che ci siano segni di sanguinamento gastrointestinale, una bradicardia con meno di
40bpm da sveglio e il fatto che sia presente un soffio sistolico non ancora
diagnosticato.
4. All’ECG è preoccupante riscontrare alterazioni di varia natura, che possano cioè far
pensare ad ischemia, BAV, bdb, tachicardia ventricolare, disfunzione del PM o
dell’ICD, sindrome di Brugada (elevazione di ST con morfologia di tipo 1 nelle
derivazioni V1-V3).

Sostanzialmente, tutto ciò che depone per una sincope cardiaca è considerato preoccupante.

I pz a basso rischio vengono dimessi; se gli episodi si ripetono frequentemente è però


indicata una rivalutazione ambulatoriale da parte del centro specialistico.

I pz a rischio intermedio vanno mantenuti in osservazione e ricoverati se necessario, oppure


dimessi con indicazione a ripresentarsi per controlli ambulatoriali.

I pz ad alto rischio devono essere ricoverati perché richiedono diagnosi e trattamento


immediato.

Alcuni tra i test che si possono eseguire in caso di sincope sono:

- Tilt test per valutare la suscettibilità all’ipotensione ortostatica: Al pz viene fatta


mantenere una posizione obliqua con inclinazione a 60° per 40 minuti e si va a
vedere che risposte spontanee vengono evocate.
- ECG prolungato: può durare 24h, 48h ma anche 2 anni. È utile se si sospetta che la
causa sia aritmica.
- Studio eletrofisiologico: quando si sa che un soggetto è aritmico, ma non si riesce a
fare diagnosi precisa questo esame permette di discriminare tra le varie forme di
aritmia.
- Test ergometrico: viene fatto quando la sincope si verifica durante o dopo uno sforzo
fisico perchè serve a registrare i vari parametri del paziente mentre fa esercizio.
- Massaggio del seno carotideo: permette di escludere l'ipersensibilità di quest'ultimo.
- Richiesta ai parenti di filmare eventuali episodi per poterli meglio comprendere: è
utile soprattutto quando non si è certi che si tratti effettivamente di sincope.

TERAPIA DELLA SINCOPE RIFLESSA


Se la sincope è poco frequente o prevedibile (es ci sono segni premonitori o il pz sviene ogni
volta che vede il sangue) il pz va rassicurato ed educato ad evitare i triggers. Il pz deve poi
imparare cosa fare nel momento in cui sente i prodromi: in caso di ortostatismo prolungato
può incrociare le gambe per aumentare le resistenze periferiche e dunque la diastolica
oppure può fare le mandovre di hand grip che permettono un sforzo isometrico per
permettere, anche in questo caso, un aumento delle resistenze periferiche. Se il pz è in tp
con ipotensivanti, essi andranno ridotti o sospesi, soprattutto se hanno effetto vasodilatante.

218
Se la sincope è frequente o imprevedibile vanno presi provvedimenti, soprattutto in caso di
persone che svolgono lavori che interessano terzi (es autisti di mezzo pubblico). I farmaci
che è possibile utilizzare sono:

- Fludrocortisone: aumenta la ritenzione di sodio e acqua. Indicato soprattutto in pz


giovani con sincope vasovagale in ortostatismo. Da utilizzare in pz senza patologia
cardiovascolare e con PA normale (il fludrocortisone aumenta la pressione) e in
assenza di altre controindicazioni. Ha evidenza IIB, quindi è da somministrare solo in
alcune situazioni.
- Midodrina (simpaticomimetico): evidenza IIB. Anch’esso suggerito nelle forme di
sincope vasovagale con intolleranza all’ortostatismo.

TERAPIA DELLA SINCOPE DA IPOTENSIONE ORTOSTATICA


Anche in questo caso bisogna educare il paziente. La diagnosi deve essere adeguatamente
spiegata, così come il rischio di ricorrenza e l’importanza di evitare i trigger (indicazione di
classe I), inoltre il pz va incoraggiato a mantenere un adeguato introito di sale e acqua
(indicazione di classe I). I pz con disautonomia, ad esempio, hanno spesso ipotensione
diurna e contemporaneamente una condizione di ipertensione notturna; di conseguenza,
nelle ore diurne devono bere, portare calze elastiche ed evitare l’ortostatismo prolungato;
nelle ore notturne dovrebbero invece dormire inclinati, utilizzare antiipertensivi a breve
durata d’azione prima di coricarsi (ad esempio, non si deve mai usare il Ramipril, ma si deve
preferire il Captopril che ha emivita di 8h) e dovrebbero fare un piccolo pasto di carboidrati
prima di coricarsi perché si induce deviazione del flusso verso il tratto gi con riduzione della
PA. Se i sintomi persistono si consigliano manovre di hand-grip, e si possono prescrivere i
farmaci per il controllo dell’ipotensione ortostatica; l’intervento principale deve, comunque,
restare quello sullo stile di vita.

TERAPIA DELLA SINCOPE CARDIACA DI TIPO ARITMICO


Bisogna fare un’ulteriore suddivisione:

1. Pz con bradicardia documentata: la prima cosa da fare è escludere la causa iatrogena,


come per esempio i beta-bloccanti. Se, infatti, il problema fosse un farmaco alla
sospensione il problema dovrebbe risolversi; se così non è bisogna prendere in
considerazione l’impianto di un PM. Il PM ha, invece, indicazione di classe I nel caso
in cui il pz abbia una disfunzione del nodo del seno sintomatica perché la relazione
tra bradicardia e sincope è certa, e nel caso in cui abbia un BAV di secondo o terzo
grado o una FA a bassa risposta ventricolare. Nel caso, invece, di disfunzione del
nodo del seno asintomatica, il PM ha indicazione IIa perché prima ci si dovrebbe
effettivamente accertare del rapporto causale.
2. Pz con bradicardia non documentata ma con blocco bifascicolare documentato: se
alla registrazione ECG continua si documentano pause sintomatiche >3sec o
asintomatiche >6sec c’è indicazione all’impianto di PM. Se il pz ha blocco
bifascicolare e in più una frazione di eiezione ridotta il tipo di dispositivo impiantato
dovrà anche avere la capacità di risincronizzare il pz quindi sarà un ICD con
l’obiettivo di risincronizzazione. Se invece la FE è più alta, molto dipende dallo studio
elettrofisiologico e dalla registrazione del ritmo che indichi o meno una sua
alterazione durante un nuovo episodio di sincope.

219
3. Pz con tachiaritmie sopraventricolari: l’indicazione prioritaria è quella di fare
ablazione tramite catetere, che ha potenzialmente significato risolutivo. Altra
possibilità è la somministrazione di farmaci antiaritmici.
4. Pz con tachiaritmie ventricolari: a seconda delle caratteristiche del pz si può pensare
all’ablazione tramite catetere, all’impianto di un defibrillatore con eventualmente
utilizzo di farmaci antiaritmici (es pz con sindrome di Brugada in cui non c’è
possibilità di fare ablazione), oppure alla somministrazione di farmaci antiaritmici da
soli con indicazione di classe IIa. L’ICD viene valutato se c’è tachiaritmia ventricolare
e FE <35% o se c’è stato infarto del miocardio precedente.

TERAPIA DA CAUSA STRUTTURALE CARDIACA, DA CAUSA CARDIOPOLMONARE E DEI


GROSSI VASI
In questi casi il trattamento è rivolto alla patologia di base allo scopo, non solo di ridurre la
ricorrenza delle sincopi, ma anche, ovviamente, allo scopo di ridurre la mortalità correlata
alla patologia di base.

SINCOPE NON SPIEGATA MA ASSOCIATA AD ALTO RISCHIO DI MORTE IMPROVVISA


1. Sindrome del QT lungo: va tratta con beta-bloccanti. L’impianto di ICD deve essere
considerato se il pz, nonostante questi farmaci, continui a presentare episodi
sincopali. Può essere inoltre considerata la denervazione simpatica del cuore di
sinistra nel caso in cui la terapia con beta bloccanti sia controindicata, non efficace o
non tollerata, nel caso in cui il pz rifiuti di mettere il defibrillatore o nel caso in cui un
pz con ICD e adeguata terapia con beta bloccanti sperimenti multiple scariche.
2. Sindrome di Brugada: deve essere considerato l’impianto di ICD in caso di presenza
anamnestica di sincopi non spiegabili.

220
ECG E PRINCIPALI ALTERAZIONI
L’ECG standard prevede l’utilizzo di 12 derivazioni:

- Sei periferieriche (aVR, aVL, aVF, DI, DII, DIII): gli elettrodi sono applicati alle
braccia e alle caviglie e registrano l’attività cardiaca sul piano frontale.
- Sei precordiali (V1-6): gli elettrodi sono posti sul torace e registrano l’attività
cardiaca sul piano trasversale, ci dicono dunque quale sia la direzione dell’impulso,
se verso dx, sx, l’alto o il basso.

Ognuno di questi osservatori spaziali segnala una deflessione tanto più positiva quanto più il
vettore risultante dell’impulso si sta dirigendo nella sua direzione; viceversa, se la direzione
è opposta, la deflessione sarà negativa.

ONDA P
Rappresenta la depolarizzazione atriale e il suo segno concorda con quello del QRS. L’onda
viene fisiologicamente generata dal NSA e viene condotta fino al NAV: fisiologicamente a
un’ampiezza di 0.5-2mm e una durata di 80-90msec. Viene, invece, considerata patologica
se:

1. Ampiezza>2.5mm e durata normale (onda P polmonare, visibile soprattutto in DII e


DIII): indica la presenza di anomalie dell’atrio destro.
2. Durata >120-130msec e ampiezza normale (onda P mitralica): riflette un’anomalia
dell’atrio sinistro, correlabile o ad un aumento del volume atriale, o a modifiche del
volme pressorio endocavitario con ostacolo alla conduzione atriale. Un allungamento
dell’onda P è un riscontro caratteristico in pz ipertrofia ventricolare sx, nel qual caso
si avrebbe anche una morfologia alterata con piega negativa.
3. Inversione: può essere dovuta ad elettrodi malposizionati o essere espressione di
destrocardia.
4. È precoce e di forma anomala: è tipica delle extrasistoli sopraventricolari.
5. È sostituita dalle onde F tipiche del flutter
6. È sostituita dalle onde f tipiche della FA

INTERVALLO PR
Va misurato dall’inzio dell’onda P, all’inizio di qualsiasi deflessione del complesso QRS.
Rappresenta il tempo richiesto perché l’impulso arrivi a livello ventricolare; fisiologicamente
si trova sull’isoelettrica ed ha durata di 120-200msec, considerando che si accorcia se la FC
è elevata e che sarà più lungo in caso di bradicardia. Uscendo da questo range, se abbiamo
un intervallo PR>200msec parliamo di BAV di 1° grado. Può poi essere allungato quando
aumentano le dimensioni del cuore.

INTERVALLO PQ
È indicativo del tempo che intercorre tra la sistole atriale e quella ventricolare ed è molto
importante per valutare l’efficienza del sistema cardiaco. Se il rapporto tra sistole atriale e
ventricolare viene disaccoppiato eccessivamente, si ha un impatto emodinamico
peggiorativo; quando l’intervallo si allunga eccessivamente, può accadere che l’impulso
elettrico non raggiunga affatto i ventricoli. È importante ricordare che molti farmaci di

221
comune utilizzo vanno ad interferire sulla conduzione AV, come calcio-antagonisti non
diidropiridinici, beta-bloccanti, digitale e Amiodarone.

COMPLESSO QRS
Riflette la depolarizzazione ventricolare e fisiologicamente ha una durata inferiore a 90
msec. Può essere ulteriormente suddiviso nelle varie onde che lo compongono:

- Onda Q (depolarizzazione del setto): è una deflessione negativa che, se alterata, può
essere espressione di un pregresso infarto, ovvero di una situazione necrotica con
riduzione dello spessore del miocardio. L’onda Q è da considerarsi anomala quando
dura pià di 40msec risultando svasata.
- Onda R: è la deflessione positiva; se manca si ha una sola deflessione negativa data
dall’unione dell’onda Q e dell’onda S che indica la presenza di necrosi transmurale.
- Onda R’: è un riscontro patologico che può essere riscontrato in caso di BDB (bunny)
- Onda S: è la seconda deflessione negativa e riflette la depolarizzazione della
porzione postero-basale dei ventricoli.

Fisiologicamente l’onda R ha una progressione nelle derivazioni precordiali per via della
rotazione sul piano frontale; se così non dovesse essere può significare che gli elettrodi non
siano stati posizionati correttamente o che vi sia una riduzione dell’attività elettrica del
miocardio. In caso di infarto, tuttavia, le modifiche del QRS non sono un reperto frequente,
compaiono, infatti, solo nel caso in cui ci sia l’insorgenza improvvisa e concomitante di un
BDB sx (in tutti gli altri casi i primi segni saranno riscontrabili a livello del tratto ST-T).

L’analisi del QRS permette di diagnosticare un BDB che ne comporta sempre un aumento
della durata (>90msec), in associazione ad altri reperti.

Un allungamento del QRS può essere indice di BDB, di extrasistole ventricolare (in questo
caso sarà associato all’assenza dell’onda P) o di ipetrofia ventricolare. Un QRS largo può
essere espressione del fatto che l’impulso nasca da una fibra muscolare che non conduce
bene, e in questo caso avrò anche una morfologia bizzarra perché l’impulso non segue
percorsi predefiniti, può indicare che il battito viene condotto con aberranza, facendosi,
dunque strada lentamente (ad esempio, se è presente un bdb), oppure può dipendere da
fenomeni di pre-eccitazione ventricolare. L’attitudine ad avere aberranza è tanto maggiore,
quanto più è lungo il ciclo precedente: si parla di fenomeno di Asherman quando si ha
conduzione aberrante di un impulso sopraventricolare che cade dopo un ciclo
particolarmente lungo: il ciclo lungo determina, infatti, un allungamento del periodo
refrattario.

Se, invece, ad aumentare fosse l’ampiezza dovremo pensare ad una situazione di ipertrofia
ventricolare (indice di Sokolow-Lion o prodotto di Cornell). Infine, una riduzione
dell’ampiezza del QRS può indicare la presenza di versamenti pericardici, enfisema o
pneumotorace.

INTERVALLO QT
Esprime il tempo necessario perché il ventricolo si depolarizzi e ripolarizzi; più
precisamente, la maggior parte della sua durata è occupata dalla ripolarizzazione (nei
soggetti con bdb, invece, sarà la depolarizzazione ad occupare la maggior parte
dell’intervallo QT, il quale perde, dunque, la sua importanza). Risente pesantemente della
222
FC, motivo per cui è meglio parlare di QTc perché viene corretto sulla base dell’intervallo
RR precedente. È bene evitare il QT superi certi livelli-soglia per scongiurare il rischio di
insorgenza di post-depolarizzazioni precoci foriere di instabilità elettrica tra varie aree del
ventricolo con possibile insorgenza della cosiddetta torsione di punta. Si tratta di una
tachicardia ventricolare polimorfa, frequenza-dipendente, con episodi di breve durata,
autolimitante, ma che ha la caratteristica di reiterarsi. Il problema principale è che può
sfociare in aritmia ventricolare, motivo per cui anche la torsione di punta deve essere
considerata come un’aritmia potenzialmente fatale.
In particolare, l’intervallo QT viene definita allungato se va oltre i 420-430ms e diventa
clinicamente preoccupante se superiore ai 440msec nell’uomo e ai 460msec nella donna;
specie se associato a bradicardia. Questo allungamento può essere ascrivibile ad alcuni
farmaci, come ad esempio antipsicotici, alcuni antibiotici come i macrolidi, l’Amiodarone o
i beta-bloccanti. In altri casi, ci sono soggetti che hanno varianti geniche che il portano ad
avere un QT lungo congenito. Il QT risente poi della calcemia: si accorcia in caso di
ipercalcemia e viceversa in condizioni di ipocalcemia.

Inoltre, il QT non è uguale in tutte le derivazioni: si parla del fenomeno di dispersione, il


quale comunque rimane nell’ambito di 40-50msec nel soggetto normale, ma può arrivare
anche a 100-120ms nel soggetto affetto da scompenso cardiaco o da cardiopatie strutturali. Il
QT andrebbe dunque calcolato nel maggior numero di derivazioni possibili, vanno tuttavia
tolte dal calcolo quelle derivazioni dove ci sia eventualmente un’onda T piatta o seguita da
altre onde come la U. In casi limiti, il QT non può essere calcolato in nessuna derivazione.

TRATTO ST
Rappresenta lo stato di attivazione che precede la ripolarizzazione ventricolare ed è
fondamentale per la diagnosi di ischemia miocardica, sindromi coronariche acute e infarto
miocardico. Ha inizio nel punto J ed è generalmente isoelettrico, anche se alterazioni fino a
0.5mV non sono da considerare patologiche. Sono invece da considerarsi patologici:

1. Sovraslivellamento (ad eccezione che nei giovani con ripolarizzazione precoce):

a. Con concavità verso il basso –> infarto STEMI (visibile nelle derivazioni
corrispondenti all’area interessata; nell’infarto esteso transmurale antero-
laterale, le alterazioni sono presenti in tutte le derivazioni).
b. Con concavità verso l’alto (+depressione T) –> pericardite, Brugada
c. Transitorio –> angina di Prinzmetal, sindrome di Tako Tsubo, fasi iniziali della
miocardite
d. Post infarto –> aneurisma ventricolare sx
e. Solo in V1, V2, V3 –> ipertrofia ventricolare sx

2. Sottoslivellamento:

a. Infarto NSTEMI
b. Transitorio con andamento down sloping o horizontal –> ischemia transitoria
c. Quadro di strain in V5,V6 –> ipertrofia ventricolare sx
d. A cucchiaio –> digitale

223
!La presenza di una certa sinuosità del tratto ST a concavità superiore, senza
sopraslivellamento, è riconducibile al pattern della ripolarizzazione precoce che è una
variante non patologica.

ONDA T
Rappresenta la ripolarizzazione ventricolare e fisiologicamente dovrebbe avere lunghezza di
5mm nelle frontali e di 10mm nelle precordiali con branche asimmetriche e punta
arrotondata . L’associazione di un QRS negativo e di una T negativa è sempre da considerare
patologico; è però un indice aspecifico. Ci sono poi alterazioni più specifiche dell’onda T:

- Alta e appuntita –> iperpotassiemia


- Bassa o appiattita e associata presenza di onda U –> ipopotassiemia
- Inversione permanente –> cicatrice ecografica di pregressa pericardite

ONDA U
Non è normalmente presente, in realtà, però, non si associa necessariamente ad una
condizione patologica perché talvolta è riscontrabile anche nella popolazione sana.
Potrebbe poi essere espressione di ipopotassiemia, associata all’appiattimento dell’onda T;
ma anche di ipertensione o di ischemia miocardica.

ASSE CARDIACO
Fisiologicamente l’asse del QRS dovrebbe essere 0/+5°-90°. Anche tutte le altre onde hanno
un loro asse: ad esempio, l’onda T ha generalmente un asse, e di conseguenza un
andamento, simile a quello del QRS, se la T si inverte bisogna chiedersi perché accade.

224
BLOCCHI DI BRANCA – BDB
Fisiologicamente, l’impulso elettrico, dopo aver superato il NAV, percorre il fascio di His che
si suddivide nelle branche dx e sx, quest’ultima pare poi ulteriormente suddividersi nel ramo
antero-superiore e in quello postero-inferiore. Quando attraverso uno di questi rami
l’impulso non passa correttamente si parla di BDB.

Quando è presente un bdb, i QRS saranno slargati in tutte le derivazioni perché l’impulso
non segue la via normale e, dunque, è più lento, motivo per cui la depolarizzazione
ventricolare richiederà un tempo maggiore. In rari casi, blocchi intermittenti, variabili,
alternanti o frequenza-dipendenti, l’allargamento sarà solo in alcune derivazioni, ma è una
situazione rara. I blocchi frequenza dipendenti si caratterizzano per una prognosi migliore
rispetto a quelli fissi che sottendono ad alterazioni più marcate alla base.

Il blocco della ramificazione antero-superiore è una condizione molto frequente e prende il


nome di emiblocco anteriore sinistro (EAS).

Per quanto riguarda il bdb dx, tra i segni caratteristici abbiamo che in V1 ci sarà un vettore
tardivo che arriva come onda positiva. In D1 e aVL avremo vettori difuga tardivi a ventricolo
bloccato con una S svasata e larga, in aVR c’è un’onda positiva molto svasata. Un reperto
incostante è, poi, la presenza di morfologia rSR in V1. In caso di bdb dx l’asse cardiaco
risulta spesso indeterminabile, fatto che si verifica quando almeno 2 complessi adiacenti da
valutare sono isodifasici; ciò non rappresenta un criterio diagnostico, ma è comunque una
situazione utile da conoscere perché spesso si presenta contestualmente e, dunque, può
aiutare a riconoscere un bdb dx.

Nei blocchi bifascicolari può essere interessata completamente la branca sinistra oppure una
delle due branche di sinistra (più spesso quella anteriore) in associazione a blocco di branca
dx. Talvolta ci può essere sia un blocco completo sx che un blocco dx, questa condizione è
però possibile solo in caso di forme alternati e si caratterizza per avere un valore prognostico
molto negativo.

Nel caso ci sia un blocco dell’intera branca di sx, sarà la sola branca dx a condurre l’impulso
ai ventricoli (è una situazione frequente in caso di ipertrofia ventricolare sx). Altri segni che
ci devono far pensare ad un bdb sx comprendono la negativizzazione in V1, V2 e V3 del
QRS e la presenza di deviazione assiale sinistra. Inoltre, in caso di bdb sx, anche la
ripolarizzazione sarà alterata, quindi avremo morfologie diverse anche nelle altre onde. Ad
esempio, in questi pz ci può essere un sovraslivellamento del tratto ST, che deve però essere
considerato come un’alterazione elettrocardiografica secondaria e non va confusa con uno
STEMI. Dal momento che il bdb sx altera così pesantemente l’ECG, ci impedisce di fare
diagnosi di qualsiasi altra condizione. Quello che possiamo fare è presupporre che alla base
ci sia una patologia strutturale cardiaca, che deve essere indagata (cardiopatia ischemica,
grave ipertrofia, cardiomiopatie…), e bisogna considerare la possibile presenza di blocchi di
conduzione severi. I pz che presentano questa condizione, infatti, saranno maggiormente a
rischio di sviluppare un BAV.

225
PAUSE ALL’ECG
PAUSE SINUSALI
Si intende una condizione in cui, a livello del NSA, non si sviluppi l’impulso elettrico. Una
delle patologie più comuni in grado di provocare insorgenza di pause sinusali è la malattia
del nodo del seno, che non è da considerarsi un’aritmia, ma una condizione di sofferenza
del NSA, che può dar luogo ad aritmie. Se il NSA non dà più impulsi alla contrazione,
potrebbe instaurarsi un ritmo gestito da un’altra area del cuore (ad esempio ci può essere un
ritmo giunzionale), se ciò non si verifica o non è efficace, si va incontro a morte del soggetto.
La malattia del nodo del seno viene anche definita sindrome bradi-tachi perché spesso
coesistono disfunzioni sinusali tachiaritmiche, le quali vengono favorite dal fatto che l’NSA
non funzioni correttamente. Oltre che a pause sinusali, la malattia del nodo del seno, può
dar luogo anche ad arresti sinusali, i quali non devono essere confusi con il concetto di
arresto cardiaco, che ne è la conseguenza. È poi pericolosa perché può portare a sincope, le
cui conseguenze, soprattutto di natura traumatica, possono essere molto pericolose. Dal
momento che la malattia del nodo del seno può anche portare a morte del pz, è opportuno
che, nel caso in cui siano presenti segni premonitori all’ECG, il pz venga posto sotto stretta
osservazione. Tra questi segni ricordiamo:

1. Bradicardia acuta di recente insorgenza non legata all’uso di farmaci


2. Aritmia sinusale con variazioni di oltre il 10-15% tra un ciclo e l’altro
3. Brusche variazione della FC immotivate
4. Incompetenza cronotropa, ovvero una condizione in cui, sotto sforzo, non si ha un
aumento della FC (è una delle più classiche manifestazioni della malattia del nodo
del seno).
5. Extrasistoli atriali seguite da una pausa post-extrasistolica atriale troppo prolungata
6. Pause/arresti sinusali: se la pausa è >3sec è praticamente diagnostica per malattia del
nodo del seno
7. BSA

! Molto spesso per togliere il cardiopalmo, magari semplicemente dovuto ad extrasistoli


atriali, anche in pz anziani prescriviamo farmaci bradicardizzanti che vanno ad agire sul
NSA; il problema è che in questo modo potremmo andare a minare ulteriormente la sua
funzionalità, che già con l’età si riduce. Motivo per cui, in presenza di uno dei riscontri
sopra detti, i farmaci bradicardizzanti dovrebbero essere evitati Per altro, come detto, spesso
in pz con malattia del nodo del seno, si avranno episodi di tachiaritmia, i quali aumentano il
rischio che vengano loro prescritti bradicardizzanti, senza prima verificare se ci sia al
contempo una disfunzione del NSA che potrebbe essere amplificata.

BLOCCO SENO-ATRIALE – BSA


In questo caso l’impulso si forma a livello del NSA, ma non riesce ad essere condotto agli
atri. Il BSA può essere diviso in diversi gradi:

- Primo grado: consiste in un semplice rallentamento della conduzione del segnalo,


cioè del tempo di uscita, tutti gli impulsi vengono trasmessi all’atrio. Non è visibile
all’ECG standard.

226
- Secondo grado: alcuni impulsi vengono bloccati, quello successivo viene però
sempre trasmesso. In base alla presenza o meno del periodismo di Luciani-
Wenckebach può essere distinto in:

o Mobitz 1: è presente periodismo per cui l’impulso viene condotto con ritardo
crescente, fino a che uno non viene bloccato. All’ECG, dunque, avremo un
allungamento del PP interessato e i PP precedenti progressivamente accorciati.
o Mobit 2: non si ha allungamento progressivo, semplicemente, alcuni impulsi
non vengono condotti quindi ad un certo punto si vedrà un raddoppiamento
del PP rispetto al basale. Si potrà avere anche un impulso non condotto ogni 2,
fatto che può essere pericoloso perché la FC del soggetto sarà dimezzato e, se
è gia bassa di suo, il soggetto potrebbe andare incontro a sincope o morte. In
quest’ultimo caso nella DD rientra una bradicardia sinusale spiccata.

- Terzo grado: è un blocco completo in uscita, all’ECG avremo dunque silenzio, il


quale va in DD con arresto sinusale prolungato. Un blocco di terzo grado può esitare
nella morte cardiaca elettrica del pz, oppure nell’instaurazione di un ritmo sostitutivo,
ad esempio nodale.

Il PP è, dunque, la variabile da valutare, bisogna comunque considerare che esiste


un’oscillazione fisiologica (heart rate variability), per analizzare la quale servono 5-10min di
registrazione. Esso potrebbe poi essere alterato anche nei pz con FA, nei quali, però, ha un
significato completamente diverso: significa, infatti, pausa asistolica secondaria alla
conduzione tra atri e ventricoli.

Il periodismo di Luciani-Wenckebach è un fenomeno che può presentarsi in tutte le vie di


conduzione e consiste in un singolare comportamento del fenomeno conduttivo fino al
blocco.

227
BLOCCHI ATRIOVENTRICOLARI – BAV
Interessano il passaggio dell’impulso dagli atri ai ventricoli, determinando un ritardo di
conduzione rappresentato da un intervallo PR della durata superiore a 180-210msec
(dipende dalla FC, se è bassa l’intervallo sarà, infatti più lungo). Il blocco generalmente è a
livello sottohissiano, ne deriva che i blocchi di branca siano antesignani di questo fenomeno
perché sono blocchi sotto-hissiani diffusi, che insorgono in pz con cardiopatie strutturali.
Possono essere divisi in diversi gradi:

- Primo grado: si ha un allungamento costante del PR. È una situazione da non


sottovalutare perché potrebbero preludere al rischio di battiti non condotti. Un caso
raro è rappresentato dal BAV intermittente in cui l’allungamento non è presente
sempre: ciò accade, ad esempio, in soggetti che presentano una doppia via nodale a
livello del NAV, per cui se l’impulso prende la via rapida, si avrà un PR normale, se
prende l’altra ci sarà un brusco rallentamento visibile come allungamento. Si parla,
invece, di pseudo-BAV quando c’è un’extrasistole nodale occulta che non determina
manifestazioni perché abortiva, ma ostacola parzialmente la conduzione dell’impulso
successivo.

- Secondo grado Mobitz 1: si assiste ad un progressivo allungamento del PR, fino a che
in un battito all’onda P non fa seguito il complesso QRS. Non è necessariamente una
condizione da considerarsi patologica: se c’è un ipertono vagale notturno può essere
riscontrata anche in giovani e sportivi. In alternativa può insorgere in seguito ad un
ima.

- Secondo grado Mobitz 2: non si ha allungamento del PR, ma, senza preavviso, salta
un complesso QRS. Ne esistono di tipo 2:1, 3:1 o anche 4:1 a seconda di ogni quanti
battiti corretti se ne ha uno che non viene condotto. La situazione più grave è quella
in cui si ha un rapporto 2:1 perché la FC risulta dimezzata (sincope, edema
polmonare acuto per stasi a monte…), essendo, comunque, un BAV di secondo
grado, non si hanno due impulsi di fila che vengono bloccati. Se così fosse,
parleremmo di BAV avanzato, che si differenzia da quello di terzo grado perché
comunque qualche impulso riesce ad arrivare ai ventricoli; bisogna quindi capire se il
QRS che compare dopo almeno 2 P non condotte sia frutto di un impulso a partenza
atriale oppure si sia di fronte ad una vera condizione di dissociazione che farebbe
porre diagnosi di blocco di terzo grado (in questi casi tipicamente il QRS sarà
slargato). Talvolta, in seguito ad una P non condotta, si può avere un QRS non
preceduto dalla P: ciò può verificarsi perché, specie se il pz è bradicardico, prima che
riprenda l’impulso del NSA, si ha uno scappamento idionodale sostitutivo con
attivazione degli atri retrograda. Tipicamente il BAV di secondo grado Mobitz 2 è una
patologica dovuta a degenerazione senile e caratterizzata da un blocco piuttosto
distale, il ritmo è dunque basso e i QRS risultano slargati perché la depolarizzazione
ventricolare non segue le vie fisiologiche, quindi è più lenta.

- Terzo grado: nessun impulso atriale raggiunge i ventricoli, quindi non c’è più alcuna
correlazione tra le onde P e i complessi QRS. I ventricoli sono, dunque, costretti ad
assumere una frequenza propria: si può instaurare un ritmo di escape ventricolare
sottonodale che tiene in vita il pz, ma essendo caratterizzato da bassa freuqenza è

228
inefficace sul piano emodinamico e, inoltre, è scarsamente resistente. Talvolta, questo
avviene con un certo ritardo e si verifica una situazione intermedia tra sincope e
arresto cardiaco che prende il nome di sindrome di Morgagni-Adam-Stokes (MAS), in
cui il soggetto perde coscienza. La terza opzione che può far seguito alla
dissociazione che si verifica tra gli atri e i ventricoli è la morte elettrica cardiaca.

229
ARTIMIE IPOCINETICHE
BRADICARDIA SINUSALE
Si è in una situazione in cui FC<60bpm. Non sempre è da ritenere patologica: specie nei
giovani o negli atleti, a causa di un ipertono vagale, durante la notte, i battiti cardiaci
possono risultare anche molto ridotti. Sempre per una causa autonomica si ha la forma
dovuta a ipersensibilità del seno carotideo. Può essere di diversa natura:

1. Estrinseca: ipotiroidismo, ipotermia, ipossia, ipertensione endocranica (riflesso di


Cushing), da farmaci.

2. Intrinseca:

a. Post IMA
b. Post patologie infiammatorie
c. Iatrogena (rt, chirurgia)

Se la FC è <40bpm in un pz vigile, si parla di bradicardia sinusale spiccata.

La tp prevede in primo luogo, di sospendere eventuali farmaci bradicardizzanti. Dal punto di


vista farmacologico si prescrive Atropina (vago-litico); nel caso in cui non risulti efficace si
deve fare pacing transcutaneo temporaneo ed, eventualmente, sostituirlo con PM
permanente. Altro farmaco che si può utilizzare è l’Aminofillina, sia per os che EV in caso di
emergenze.

230
TACHIARITMIE ATRIALI
EXTRASISTOLIA E TACHICARDIA ATRIALE
Con questo termine si intende un battito singolo più precoce del normale. Non sono da
considerarsi patologiche in assoluto. Se i battiti accelerati sono più di tre di fila si parla di
tachicardia. In caso di tachicardia sinsuale avremo tipicamente FC di 120-220bpm con
inizio e fine improvvisa, caratterizzata dalla necessità di urinare. Il PR è breve, possono
esserci alterazioni della ripolarizzazione. Gli episodi possono avere durata variabile, anche
molto prolungata (quest’ultima associata ad alterazioni del tratto ST).

Si può ricorrere a manovre vagali:

- Manovre di Valsalva: far ponzare il paziente, inspirazione profonda ed espirazione


forzata a glottide chiusa,
- Massaggio del seno carotideo: determina cardio-inibizione. Mai effettuare
bilateralmente. Attenzione soprattutto nell’anziano per pericolo di distacco di
frammenti da un’eventuale placca carotidea con rischio di ictus ischemico,
- Compressione dei bulbi oculari: da effettuare correttamente, quindi in maniera
energica, purtroppo provocando dolore al pz.

Dal punto di vista farmacologico può essere utile somministrare l’Adenosina che ha,
generalmente effetto immediato nel far regredire i sintomi. In alternativa possono essere presi
in considerazione Beta bloccante o calcio antagonista non diidropiridinico (in assenza di
scompenso cardiaco e FE ridotta).

FLUTTER ATRIALE
È una condizione piuttosto frequente, specie in età avanzata, in cui si ha contrazione degli
atri molto rapida e sincronizzata, a differenza della FA, con la quale può coesistere, in cui si
ha desincronizzazione. Per definire il flutter, si può aggiungere l’aggettivo istmico perché
quasi sempre il meccanismo alla base è un circuito di macrorientro atriale dx che vede come
elemento obbligatorio del circuito un tratto fibroso tra la cava superiore e l’anulus della
tricuspide (tratto definito istmo, appunto). Possiamo poi fare una suddivisione tra istmico di
tipo 1 comune o antiorario, che è la forma principale, e di tipo 1 non comune o orario che
rappresenta una minoranza e ha una presentazione leggermete differente.

La frequenza atriale può raggiungere anche i 250-350, ma non tutti i battiti raggiungono i
ventricoli grazie alla refrattarietà e al rallentamento dato dal nav. Generalmente dunque il
rapporto tra la frequenza atriale e ventricolare è 2:1, più raramente 3:1 o 3:2… Se tutti gli
impulsi raggiungessero il ventricolo, sarebbe una situazione insostenibile perché una
frequenza così elevata non permetterebbe di raggiungere un volume telediastolico adeguato
con conseguente aumento di sangue a monte ed edema polmonare e, dal punto di vista
elettrico, insorgerebbe dopo poco una fibrillazione ventricolare. Quindi, un flutter 1:1 può
essere sostenibile solo in caso di valori di frequenza ai limiti inferiori; in tutti gli altri casi il
pz non rimarrebbe vivo a lungo. Ciò detto, comunque, anche un rapporto di 2:1 è pericoloso
perché, anche considerando una frequenza ventricolare di circa 150 battiti, il pz potrebbe
sviluppare edema polmonare, avere problemi di natura emodinamica o si potrebbe avere
una degenerazione in fibrillazione ventricolare. Ci sono rari casi in cui il rapporto è molto
alto, si ha dunque una bradicardia tale da richiedere l’impianto di PM.

231
All’ECG si vedranno onde a dente di sega (F) multiple caratterizzate da discesa lenta, rapida
caduta e rapida risalita. Queste onde sono più frequentemente visibili nelle derivazioni
inferiori. A livello precordiale, in V1, avremo onde positive. Nel caso di forme non comuni,
le onde non avranno una forma così caratteristica di dicesa e salita, saranno più che altro
delle fluttuazioni.

Il flutter atriale ha poca o nulla sensibilità alla cardioversione, è recidivante e poco


responsivo ai farmaci. Una possibilità terapeutica è quella di fare ablazione dell’istmo cava-
tricuspide con radiofrequenza, ciò permette di ottenere ottimi risultati ed è dunque fatto
sempre più frequentemente. Sembre sull’istmo è possibile fare una stimolazione elettrica in
overdrive pacing, ossia erogando scariche di stimoli a frequenza maggiore rispetto a quelli
del flutter, in modo da interrompere il transito a livello istmico.

FIBRILLAZIONE ATRIALE
Si tratta di un’aritmia caratterizzata da una scoordinata attivazione atriale che porta ad avere
una sistole atriale non emodinamicamente efficace. V.di paragrafo dedicato.

232
TACHICARITMIE DELLA GIUNZIONE AV
TACHICARDIE DA RIENTRO
Possono essere dovute, ad esempio, ad un pregresso IMA o a patologie congenite. In ogni
caso si ha una situazione con zone adiacenti di miocardio che hanno caratteristiche
elettrofisiologiche differenti: variano dunque la durata del periodo refrattario e la velocità di
conduzione e questo potrebbe portare ad avere un fronte di depolarizzazione che non segue
la via fisiologica. Un esempio è la tachicardia parossistica sopraventricolare: si tratta di una
forma congenita che colpisce prevalentemente il sesso femminile. In questi soggetti ci sono
due vie di conduzione che passano entrambe per il nav, si hanno quindi due fasci
completamente dissociati. All’ECG a riposo non si noteranno anomalie mentre quando
aumenta la frequenza ci possono essere episodi di ricircolo a livello del nodo. I QRS sono
tipicamente stretti e la frequenza è elevata. I pz possono fermare questi episodi ricorrendo a
manovre che aumentano il tono vagale (ex. Compressione dei bulbi oculari) oppure possono
sottoporsi ad un’operazione che permettere di rimuovere tramite terapia elettrica uno dei
due fasci. Un’altra alternativa è rappresentata da farmaci come l’adenosina che interrompe
immediatamente l’aritmia. La sintomatologia tipica comprende cardiopalmo, vertigini,
lipotimia e talvolta anche angina pectoris.

SINDROMI DA PRE-ECCITAZIONE
Tipicamente si fa riferimento alla sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW). In realtà in
questa patologia si ha contemporaneamente sia la pre-eccitazione che la possibilità di avere
un’aritmia da rientro. Alla base c’è la presenza congenita di una via di conduzione accessoria
(fascio di Kent) che non passa per il nav: in questo modo l’impulso iniziale arriva più
rapidamente ai ventricoli e solo in un secondo momento arriva il grosso della stimolazione
che è quella che segue la fisiologica via di depolarizzazione. Tutto ciò si traduce all’ECG con
la presenza di un PR corto (<120 ms) e di un QRS slargato con la presenza di un’indentatura
(onda delta) che rappresenta la pre-eccitazione. Questa via accessoria può essere:

a. A lenta ripolarizzazione: la conduzione è più rapida ma il periodo refrattario è più


lungo. Nel caso ci fosse un’extrasistole sopraventricolare essa scenderebbe lungo la
via normale per poi rientrare attraverso il fascio accessorio una volta che esso ha
completato la ripolarizzazione. Si parla di tachicardia reciprocante ortodromica.

b. A rapida ripolarizzazione: si tratta di un caso raro associato a maggiore mortalità. Se,


infatti, ci fosse un’aritmia sovraventricolare ad elevata frequenza essa verrebbe
trasmessa direttamente ai ventricoli senza passare dal nav che funge da blocco. Il pz
in questo caso muore perché il ventricolo non può sopportare una frequenza di 300-
350 bpm.

La prognosi è ottima ma è necessario accorgersene ed eliminare il fascio accessorio


(ablazione tramite radiofrequenza) perché, specie nel secondo caso, può esserci il
rischio di andare incontro a morte improvvisa.

233
TACHIARITMIE VENTRICOLARI
Fattori che possono facilitare l’insorgenza di aritmie ventricolari sono la stimolazione
simpatica (beta-bloccanti), l’ischemia e l’IMA o la presenza di fibrosi, diffusa o focale. I beta
bloccanti, nonostante siano farmaci utili, possono, tuttavia, avere risultati pro-aritmogeni in
pz con bradicardia.

EXTRASISTOLI VENTRICOLARI
Extrasistolia ventricolare: generalmente si assiste a questo fenomeno in seguito a IMA, ma
può presentarsi anche in cuori dilatati o ipertrofici, in presenza di miocarditi o di anomalie
elettrolitiche con iperk o ipermg o in caso di assunzione di farmaci o di sostanze eccitanti.
Viene persa l’omogeneità di conduzione elettrica e si ha un battito prematuro che origina in
modo indipendente (!non se ne devono comunque avere più di 3 di fila altrimenti non siamo
più nell’ambito dell’extrasistolia). In rapporto alla cadenza degli impulsi sinusali, si può
operare una distinzione in bigemino, trigemino e quadrigemino. Possiamo avere:

1. Extrasistoli interpolate: la pausa compensatoria non è presente


2. Battiti di fusione: l’extrasistole e il battito sinusale si fondono
3. Bigemine, trigemine, quadrigemine: sono extrasistolie che si ripetono seguendo uno
schema preciso.
4. Coppia e tripletta: quando l’extrasistolia non è singola
5. Extrasistoli multifocali: hanno morfologie del QRS differenti.

Se non è presente una patologia organica sottostante non aumenta il rischio di morte, in caso
contrario è un segno prognostico negativo. In seguito a questo battito ectopico, l’impulso
fisiologico trova parte del miocardio in refrattarietà e, dunque, si ha una pausa
compensatoria che viene tipicamente avvertita dal pz.

All’ECG tutto questo si traduce in presenza di un QRS allargato non preceduto da un’onda P
e aumento della distanza tra l’onda P precedente e quella successiva. Ci può poi essere una
morfologia bizzarra tipo bdb e l’onda T ha polarità opposta.

Il problema è che la tp medica, con antiaritmici quindi, non sortisce effetti positivi perché gli
effetti indesiderati li sovrastano. L’unica alternativa sono i beta-bloccanti.

TACHICARDIA VENTRICOLARE
Si ha una successione di almeno tre extrasistoli ventricolari che deve sempre essere
considerata patologica (infarti, cardiomiopatie dilatative o ipertrofiche, prolasso valvolare
idiopatico e forme idiopatiche su base genetica). Quando questa condizione si instaura, gli
atri possono risultare dissociati oppure ci può essere una conduzione retrograda ventricolo-
atriale. Per quanto riguarda la retroconduzione retrograda,

All’ECG si vedranno complessi QRS slargati con una configurazione che ricorda il bdb
(assomiglierà ad un bdb dx se l’extrasistole origina da sx perché l’impulso raggiungerà più
lentamente il vd e viceversa) e l’onda P spesso non è visibile perché i ventricoli hanno
velocità di scarica maggiore, se lo è risulterà comunque indipendente dai QRS. In
particolare, potremmo vedere l’attivazione retrograda oppure la completa dissociazione tra P
e QRS.

234
Dal punto di vista clinico, l’aumento della frequenza può essere non tollerato perché porta a
desincronizzazione ventricolare e a calo della portata cardiaca; in ogni caso ci sono anche
dei soggetti in cui la frequenza rimane piuttosto bassa (il range è compreso tra 80 e 200
bpm). Si tratta di un ritmo instabile che spesso degenera in flutter o fibrillazione ventricolare.
Possiamo distinguere la tachicardia ventricolare sulla base di diverse caratteristiche:

6. Monomorfa/non monomorfa: la differenza è che nel primo caso il focus d’origine è


sempre lo stesso mentre nel secondo caso no. Questo è importante dal punto di vista
della scelta terapeutica perché, se nel primo caso è possibile un’ablazione elettrica
della porzione interessata, nel secondo ciò non è possibile.
7. Sostenuta/non sostenuta: in questo caso la variabile è la durata. Ne consegue che la
seconda forma è generalmente ben tollerata mentre la prima no.

Una forma di tachicardia ventricolare prende il nome di torsione di punta: essa si


caratterizza per la presenza di QRS che variano progressivamente in ampiezza e morfologia
dando l’impressione di oscillare intorno all’isoelettrica. Generalmente la causa è un ipok,
un’ischemia o l’utilizzo di alcuni farmaci (!antipsicotici); la bradicardia è una condizione
favorente. Spesso questi episodi sono autolimitanti.

FIBRILLAZIONE VENTRICOLARE
Viene persa la contrazione emodinamicamente efficace perché non si ha omogeneità.
Generalmente alla base c’è un evento ischemico, alterazioni elettrolitiche o iperattività
simpatica. Si tratta di una patologia non rara che si correla ad un tasso di sopravvivenza
inferiore al 10%: il tempo per intervenire è infatti molto breve perché dopo 4 min si ha un
danno all’encefalo e dopo 10 min sopraggiunge la morte, quindi chiamare i soccorsi non è
risolutivo ma è necessario utilizzare defibrillatori semi automatici e praticare il massaggio
cardiaco con compressioni effettuate a livello del terzo inferiore dello sterno a una frequenza
di 80-100 bpm. Se si interviene entro 1-2 minuti con la rianimazione cardio-polmonare la
probabilità di sopravvivenza sale al 40-50%.

235
MORTE IMPROVVISA
La morte improvvisa è una condizione in cui si ha morte del soggetto entro un’ora
dall’insorgenza dei sintomi e può essere aspettata o meno, ma in ogni caso, anche se si parla
ad esempio di soggetti con scompenso cardiaco avanzato, sappiamo che potrebbe
verificarsi, ma non abbiamo idea di quando. Tra le cause di morte improvvisa possiamo
avere:

1. Aritmie cardiache
2. Embolia polmonare
3. Rottura di aneurisma aortico
4. Ictus ischemico o emorragico acuto
5. Coronaropatie acute
6. Scompenso cardiaco
7. Cardiopatie strutturali

Spesso l’evento che porta a morte improvvisa è una fibrillazione ventricolare, la quale è
favorita da cardiopatia ischemica, ipertrofia ventricolare sinistra, insufficienza cardiaca,
valvulopatie (!stenosi aortica) e miocarditi. Ci sono poi anche malattie non cardiache che
possono predisporre come la BPCO. Nei soggetti più giovani possono invece esserci alla base
anomalie genetiche predisponenti.

236
ANOMALIE GENETICHE PRO-ARITMOGENE
SINDROME DEL QT LUNGO
Il fatto che il QT sia lungo, ovvero che superi i 480ms, indica che la ripolarizzazione delle
varie parti del ventricolo non è omogenea e, dunque, aumenta la possibilità che si sviluppino
aritmie. Il problema è che nelle forme congenite spesso l’ECG a riposo è normale e dunque
può risultare difficile fare diagnosi. Alla base possono esserci diverse mutazioni:

1. LQT1 (35%): si ha una mutazione della subunità alfa del canale del k a rettificazione
lenta ritardata e l’insorgenza di aritmie è legata a sforzo fisico o forti emozioni e la tp
con beta-bloccante risulta essere protettiva. La mutazione porta anche a sordità
congenita.
2. LQT2 (30%): si ha una mutazione della subunità alfa del canale a rettificazione
ritardata rapida e le aritmie possono insorgere in seguito a stimoli uditivi o post-partum
e i beta-bloccanti sono solo moderatamente protettivi.
3. LQT3 (10%): la mutazione è a carico del canale del sodio e le aritmie compaiono nel
sonno e può essere protettiva la Flecainide.

Oltre che dal genotipo (LQT3>LQT1/2), il rischio di morte improvvisa (in particolare dovuta
a torsioni di punta) dipende anche dalla lunghezza del QT (>500ms) e dal sesso (>maschi).

SINDROME DI BRUGADA
È una patologia caratterizzata dalla presenza di disturbi dell’attività elettrica del cuore in
assenza di anomalie strutturali macroscopiche. È causata in una buona percentuale di casi da
una mutazione dei canali del sodio ed è genetica con trasmissione AD; ad ogni modo non si
hanno ancora informazioni certe circa l’eziologia. All’ECG questi pazienti avranno un
sovraslivellamento del ST con convessità verso il basso nelle derivazioni precordiali di dx (V1,
V2, V3) con o senza aspetto di bdb dx: il problema è che questa presentazione caratteristica
è intermittente quindi non è sempre presente in tutti i tracciati. Se si sospetta che un soggetto
sia affetto da questa patologia si può somministrare della flecainide per smascherare questo
aspetto elettrocardiografico. In alternativa si può fare un test genetico: in questo caso però
ciò è utile per fare diagnosi ma non dal punto di vista prognostico quindi non è un dato
sufficiente per decidere se impiantare il defibrillatore o meno. La sintomatologia si presenta
per lo più a riposo e si hanno principalmente sincope e tachiaritmie ventricolari

TACHICARDIA VENTRICOLARE POLIMORFA CATECOLAMINERGICA


Si tratta di aritmie dovute alla stimolazione simpatica e la forma più frequente è la tachicardia
ventricolare bidirezionale con rotazione di 180° del complesso QRS. In realtà questa
alterazione elettrocardiografica non è visibile a riposo, proprio perché è un aumento del tono
simpatico a scatenarla, quindi in caso di sospetto è importante prescrivere un test da sforzo.
Nel caso compaiano aritmie il paziente deve essere trattato con beta bloccanti o deve essere
sottoposto a impianto di defibrillatore automatico; in caso contrario fino al 30% dei soggetti
va incontro a morte improvvisa. Alla base c’è una mutazione del gene che codifica per la
rianodina: questa proteina è importante affinchè il calcio, dopo essere stato liberato, venga
nuovamente immagazzinato nel reticolo sarcoplasmatico. Se mutata si ha una maggior
quantità di calcio libero nel citoplasma e questo porta a disturbi della contrazione. Meno
comunemente si può anche avere una mutazione del gene della calsequestrina.

237
GESTIONE DELLE TACHICARDIE
Di fronte ad una tachiaritmia, dal punto di vista clinico, la prima cosa da fare è cercare il
polso: se è assente saremo in una situazione di arresto cardiaco; se è presente devo capire se
il pz sia emodinamicamente stabile o meno. Nel caso siano presenti ipotensione, alterazione
della coscienza, dispnea, dolore toracico o shock franco siamo nella seconda casistica.

Successivamente bisogna valutare se il QRS è largo o stretto e se ha sempre la stessa


morfologia, se il ritmo è regolare o irregolare (FA o flutter) e se sono presenti sintomi. Nella
pratica clinica, se all’ECG si ha una tachiaritmia a complessi larghi, per definizione, la si
considera di origine ventricolare e, solo successivamente, se necessario, la diagnosi viene
corretta in tachiaritmia ad origine sopraventricolare ma a conduzione aberrante. Questo
perché, nel caso si tratti di una tachicardia ventricolare, la condizione è più grave e richiede
trattamento immediato, meglio dunque sopravvalutare che sottovalutare. Le forme associate
a complessi stretti comprendono tachicardia sinusale, tachicardia sopraventricolare da
rientro, flutter atriale e FA; se, invece, i complessi sono larghi devo pensare a tachicardia
ventricolare monomorfa o polimorfa.

Sulla base delle informazioni che ho mi comporto in maniere diverse:

1. Soggetto emodinamicamente instabile se si pensa che la forma sia sopraventricolare si


può dare Adenosina ev di solito in due somministrazioni successive (6+12mg).
Questo farmaco può dare vampate di calore e potrebbe spaventarsi, motivo per cui
andrebbe avvertito di questa possibilità. In alternativa, si può fare anche
cardioversione elettrica, con corrente a 200J in caso di forme sopraventricolari o a
100J in caso di forme ventricolari.

2. Soggetto emodinamicamente stabile e complessi larghi:

a. Garantire l'accesso venoso,


b. monitoraggio continuo ECG,
c. Prendere in considerazione la somministrazione di Adenosina solo se la
successione dei complessi larghi è regolare e se hanno tutti lo stesso aspetto
(quindi se sospetto una tachiaritmia sopraventricolare con conduzione
aberrante), altrimenti e va iniziata l’infusione con farmaco antiaritmico,
prevalentemente Amiodarone (più sicuro in presenza di patologia strutturale
cardiaca), oppure Procainamide. Può essere usato anche il Sotalolo, che però è
potenzialmente proaritmico (in persone anziane predispone alla torsione di
punta).

3. Soggetto emodinamicamente stabile senza complessi larghi: posso evitare di dare


subito l’Adenosina e posso provare a far regredire la tachiaritmia facendo manovre
vaso-vagali (compressione dei bulbi oculari, massaggio del seno carotideo) o
somministrando Betabloccante o Calcio antagonista non diidropiridinico.

! È importante chiedersi se l’instabilità emodinamica sia causa o conseguenza della


tachicardia. Ad esempio, un’embolia polmonare massiva può dare FA ad elevata risposta
ventricolare, la quale, a sua volta, aggrava l’instabilità.

238
FARMACI ANTI-ARITMICI
ANTI-ARITMICI DI CLASSE 1
Sono bloccanti del canale del sodio per la depolarizzazione. Possono essere ulteriormente
suddivisi in diverse sottoclassi:

- 1A: il prototipo è la Chinidina. Questo farmaco aumenta la durata del potenziale di


azione, ma può anche favorire l’insorgenza di aritmie in maniera più marcata rispetto
ad altri anti-aritmici, motivo per cui è stata messa progressivamente da parte.
- 1B: il prototipo è la Lidocaina, utile soprattutto EV nelle aritmie post-infarto perché ha
un meccanismo intelligente. Essa agisce, infatti, in modo diverso in presenza di acidosi
o di ischemia. Blocca l’ingresso di Na+ nella cellula, rallentando così la fase della
depolarizzazione e allungando quella della ripolarizzazione: si riesce, in questo
modo, ha ridurre la disomogeneità tra miocardio sano e ischemico. Non ha effetto
inotropo negativo, gli effetti collaterali che può dare comprendono, invece, vertigini,
confusione e parestesie. La Mexiletina è un farmaco analogo che può essere dato per
os, è però meno efficace e aumenta la mortalità in pz con insufficienza cardiaca.
- 1C: il Propafenone inibisce i canali di Na+ e ha debole attività beta-bloccante, la
Flecainide è un potente bloccante dei canali di Na+ e di quelli di Ca2+. Queste
molecole permettono di ottenere un rallentamento della velocità di conduzione e un
aumento del periodo refrattario. Hanno un effetto cronotropo e inotropo negativo, a
causa di questa seconda caratteristica non possono essere dati a pz con funzionalità
cardiaca non perfettamente conservata. La Flecainide viene usata per cardiovertire i
pz in FA, ma per poterla dare devo essere certa che non ci sia una patologia cardiaca.

ANTIARITMICI DI CLASSE 2
Sono i bloccanti dei recettori beta, quindi, sostanzialmente, si tratta dei beta-bloccanti.
Hanno effetto quando la causa dell’aritmia è un’iperstimolazione simpatica. Il Sotalolo è
leggermente diverso rispetto agli altri perché l’isomero L è un beta-bloccante, il D, invece,
prolunga il potenziale d’azione agendo sui canali del K+ come i farmaci di classe 3. L’azione
betabloccante permette un controllo della frequenza visibile come un allungamento del PQ,
l’azione sui canali, invece, permette un allungamento del QRS e del QT.

ANTARITMICI DI CLASSE 3
Sono bloccanti del canale del K che permettono di rallentare la ripolarizzazione. Rientra in
questa classe l’Amiodarone, ampiamente usato sia per cardiovertire che come tp di
mantenimento nei pz che abbiano FA e contenmporaneamente una cardiopatia strutturale.
In realtà, l’Amiodarone ha effetti sovrapponibili a quelli delle diverse classi ed è in grado di
aumentare il periodo refrattario inducendo una riduzione della frequenza sinusale, ma
anchedi agire sulla conduzione atrio-ventricolare. Ha poi un effetto inotropo negativo, ma
minore rispetto ad altre molecole. Il Dronedarone è un derivato che non presenta Iodio al
suo interno: è stato sviluppato per evitare le complicanze dovute alla presenza di questo
ione, in realtà, però, viene scarsamente utilizzato, specie se c’è scompenso cardiaco, perché
porta ad un aumento della mortalità.

ANTIARITMICI DI CLASSE 4
Sono i calcio-antagonisti non diidropiridinici, utili per rallentare la frequenza cardiaca, non
aiutano, però, il ripristino del ritmo sinusale.

239
METABOLISMO IDROELETTROLITICO
Gli elettroliti più importanti che troviamo disciolti nei liquidi corporei sono il sodio, che si
trova per il 98% a livello extracellulare per una concentrazione complessiva di 135-
145mEq/L, ed il potassio, che si trova per il 98% a livello intracellulare per una
concentrazione complessiva di 110-150mEq/L. Tra i due compartimenti si verifica un
continuo scambio ionico mediato dai gradienti pressori, a loro volta legati alle variazioni di
pressione oncotica ed idrostatica. Le formule che descrivono questi fenomeni sono tre:

- Osmolarità: 2(𝑁𝑎) + 𝑔𝑙𝑢𝑐𝑜𝑠𝑖𝑜 + 𝐵𝑈𝑁 (vn: 285 +/- 5 mOsm/L)


! Le tre concentrazioni vanno espresse in mEq/L. Nel caso del glucosio e dell’urea
(BUN, che a dire il vero può essere trascurata perché poco rilevante) è possibile
utilizzare le concentrazioni in mg/dL, ma solo in seguito ad una correzione che
prevede di dividere i valori rispettivamente per 18 e per 2,8. Questo perché il valore
normale di glicemia utilizzato in Italia, pari a 126 mg/dL, deriva dalla conversione del
valore di 7mEq/L utilizzato nel resto del mondo.

- Acqua totale (TBW): 𝑃𝑒𝑠𝑜 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜𝑟𝑒𝑜 𝑥 0,6 𝐿/𝐾𝑔)

(!" !""#!$%) ! !"#$! !"!#$% (!"# ! !")


- Acqua da integrare o in eccesso: (!" !""#$%&')
à Esempio: !""
= 48𝐿
(𝐶𝑜𝑟𝑟𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒: 48𝐿 − 42𝐿 = 6𝐿)
Il controllo che il nostro organismo esercita sulla volemia è mediato dai recettori che,
valutando la concentrazione di sodio, causano ritenzione o eliminazione di questo ione e, di
conseguenza, dell’acqua. Tra questi possiamo citare i recettori da stiramento, localizzati
negli atri a livello delle giunzioni coi grossi vasi venosi, ed i barocettori localizzati a livello
dell’arco aortico e del seno carotideo che attraverso il SNA regolano la FC e il tono vasale,
con ripercussioni sulla VFG. L’osmolarità viene controllata attraverso gli osmocettori
ipotalamici dei neuroni sopraottici preposti alla sensazione di sete ed i recettori renali che
funzionano sotto stimolo dell’ADH. Le due variabili sono regolate in maniera indipendente.

Gli squilibri idroelettrolitici sono di riscontro molto frequente e si caratterizzano per la


marcata tendenza a mascherare la presentazione clinica di altre patologie, rendendola
atipica. Nell’anziano, specialmente, sono di riscontro frequente: l’invecchiamento si associa
a variazioni dell’omeostasi del bilancio di acqua e ioni che si manifestano con una
diminuzione dell’acqua corporea totale (dal 60% del peso corporeo di un uomo adulto, 50%
se donna, al 45% circa), sia intra che extracellulare (2/3 e 1/3 rispettivamente), con
un’attenuazione delle differenze tra i due comparti e con una ridistribuzione del rapporto fra
massa magra e massa grassa a favore di quest’ultima. In sostanza, col passare degli anni,
indipendentemente dallo stato di salute, per il pz geriatrico c’è una marcata tendenza alla
disidratazione e alla sarcopenia, per cui egli apparirà generalmente freddo e secco. Questo
per diverse ragioni:

1. A livello del SNC l’invecchiamento si manifesta con una minore sensibilità degli
osmocettori ipotalamici per cui, a parità di osmolarità plasmatica, un anziano avrà
una sensazione di sete meno intensa rispetto ad un giovane. Calano, inoltre, i
recettori deputati al bilancio idrico localizzati a livello della lamina interna.

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2. A livello del rene si assiste ad una riduzione della massa dell’organo, del flusso
ematico e della VGF Quest’ultima è valutabile sia in maniera diretta e invasiva,
attraverso esami di medicina nucleare, che in maniera indiretta tramite formule che
tengono conto di parametri come età, peso, sesso e creatininemia. Si ha inoltre una
downregulation dei recettori dell’ADH con conseguente diminuzione delle capacità
di concentrazione delle urine e tendenza alla disidratazione.

3. A livello del sistema endocrino, infine, si assiste alle seguenti alterazioni:

a. ADH (vasopressina): a fronte di una secrezione basale stabile o, raramente,


aumentata, si assiste ad un aumento della risposta alla stimolazione osmotica e
ad una diminuzione della secrezione notturna (abolizione del picco e del
ritmo circadiano), con conseguente aumento del RV e nicturia.
b. ANP: aumentano sia la secrezione basale che la risposta agli stimoli
c. SRAA: diminuisce l’attività periferica della renina, quindi la produzione di
aldosterone. Di conseguenza, si avrà perdita della capacità di ritenzione di
sodio e acqua. Al contrario, nei soggetti affetti da iperaldosteronismo, sia
primitivo che secondario a cirrosi o scompenso cardiaco, si avrà accumulo di
liquidi con edema e ascite e contestuale ipokaliemia. Il trattamento prevede
quindi l’utilizzo di un diuretico con azione antialdosteronica come il
canrenoato di potassio, indicato peraltro nelle linee guida per il trattamento
dello scompenso cardiaco.

241
VOLEMIA
DISIDRATAZIONE – IPOVOLEMIA
Con disidratazione (o ipovolemia) si intende una condizione morbosa associata a bilancio
idrico negativo, ossia quando le perdite di liquidi superano gli introiti.

I fattori di rischio per lo sviluppo di questa condizione sono l’età > 80 anni, il sesso
femminile, farmaci come i diuretici e i lassativi (attenzione al periodo estivo), il litio e gli
ipnotici, infezioni acute come polmoniti o pielonefriti, malattie psichiatriche come disforie e
depressione, decadimento cognitivo, disabilità, l’esecuzione di procedure diagnostiche che
richiedono il digiuno e, in generale, l’ospedalizzazione.

Dal pdv eziopatogenetico, alla base della disidratazione vi sono diversi possibili meccanismi
e cause indipendenti dall’età del paziente:

- Riduzione del compartimento extracellulare a seguito di:

o Perdite renali di sodio e acqua, generalmente associate a terapia diuretica,


diuresi osmotica, ipoaldosteronismo o nefropatie con perdita di sali.
o Perdite renali di acqua: è il caso del diabete insipido, centrale o nefrogenico.
o Perdite extrarenali di sodio che possono verificarsi a livello gastrointestinale
(gastroenteriti con vomito e diarrea, fistole, drenaggi o aspirazione
nasogastrica), cutaneo (perdite insensibili, sudorazione, ustioni) o in seguito ad
emorragie

- Normale o aumentato compartimento extracellulare con riscontro di:

o Ridotta gittata cardiaca a seguito di malattie miocardiche, valvolari o


pericardiche
o Ridistribuzione proteica che si verifica in caso di ipoalbuminemia, specie nel
contesto di cirrosi e sindrome nefrosica, e in caso di fuoriuscita dai capillari,
tipica delle pancreatiti acute, della rabdomiolisi e dell’ischemia intestinale
o Stasi venosa, tipica della condizione di sepsi con shock (sulla tabella: aumento
della capacitanza venosa)
Per quanto riguarda la clinica, nel soggetto anziano il reperto più comune è lo sviluppo di
alterazioni dello stato di coscienza con letargia, tipicamente delirium, nel contesto di un
organismo che, con l’invecchiamento, diventa sempre meno vigile e sempre più tendente
all’addormentamento. Altri riscontri frequenti sono l’obnubilamento del sensorio con declino
cognitivo, l’ipotensione ortostatica, particolarmente accentuata se il pz assume una terapia
antipertensiva e predisponente alle cadute, l’aumento del rischio di trombosi venosa a causa
dell’aumento della viscosità ematica, di infezioni, di calcolosi renale per precipitazione di
sali di varia natura e di stipsi ostinata, a causa della formazione di fecalomi nel contesto di
un alvo già difficoltoso a causa dell’età.

Possibili complicanze sono l’insufficienza renale, quadri settici e le ulcerazioni cutanee a


causa della ridotta vitalità dell’epidermide.

242
Per fare diagnosi, può essere utile richiedere la natriuria delle 24h (se <15mEq/die è
indicativa di deplezione di volume), l’osmolarità urinaria e i bicarbonati, che risulteranno
aumentati, l’ematocrito e l’albuminemia.

Per fare terapia, si deve come prima cosa stimare il deficit volemico. Se l’ipovolemia è
moderata, può essere trattata solo con assunzione di liquidi per os. Nel caso, invece, in cui
siano presenti sintomi o instabilità emodinamica, oppure sia impossibile la reidratazione
orale, si deve passare alla somministrazione EV di liquidi. Le soluzioni possono essere
somministrate in bolo, specie se sono presenti gravi sintomi, oppure più lentamente. Si
utilizza la fisiologica (contiene all’incirca la stessa quantità di sodio che troviamo nel plasma,
motivo per cui i liquidi verranno trattenuti nel liquido extra-cellulare) oppure, se il problema
non è a livello del compartimento extra-cellulare, soluzione emisalina. Il pz deve essere
monitorato per evitare che insorga un sovraccarico di volume e, specie per pz già proni a
questa condizione, ad esempio a causa di scompenso cardiaco, i boli dovrebbero essere
evitati e le quantità ridotte.

IPERVOLEMIA - RITENZIONE
Le manifestazioni cliniche sono il risultato di un eccessivo contenuto corporeo di sodio, fatto
che può verificarsi o in seguito a ritenzione renale o in seguito a sequesto di fluidi con
riduzione del volume circolante effettivo (scompenso cardiaco, cirrosi, ipoalbuminemia…).
Se predomina l’espansione del volume interstiziale, saranno presenti edemi declivi, ascite e
versamento pleurico; se, invece, predomina l’espansione intravascolare, possono presentarsi
ipertensione arteriosa, reflusso epatogiuguale, rantoli polmonari, ritmo di galoppo e turgore
giugulare. Ciò detto, segni e sintomi non saranno visibili fino a quando non si raggiungono 3-
4L di ritenzione, l’unico indicatore precoce è l’aumento di peso, motivo per cui questa
variabile dovrebbe essere monitorata in soggetti a rischio.

La terapia deve essere indirizzata al controllo della patologia di base e al ripristino


dell’euvolemia. L’eccesso di sodio deve essere trattato con diuretici e con la restrizione di
sodio e liquidi con la dieta. I diuretici stimolano l’escrezione di sodio antagonizzando diversi
siti di riassorbimento:

1. I Tiazidici sono utili in caso di stati moderati di ritenzione sodica cronica.


2. I diuretici dell’ansa vengono prescritti in caso di ipervolemia acuta o cronica che
richieda trattamento rapido o potente
3. I diuretici risparmiatori di potassio sono utili soprattutto in associazione per evitare
l’insorgenza di ipokaliemia.

Durante il trattamento con diuretici, oltre al monitoraggio del peso, è raccomandato valutare
giornalmente la volemia, calcolare il bilancio di input e output, misurare gli elettroliti e
valutare la sodiuria in caso di resistenza ai diuretici.

243
NATRIEMIA
Dal pdv dell’inquadramento diagnostico di queste condizioni, i parametri importanti da
valutare sono la volemia e l’osmolarità, sia plasmatica che urinaria. In particolare, sulla base
dell’osmolarità urinaria siamo in grado di ipotizzare l’origine del problema: se la
concentrazione di sodio urinario è maggiore di 20 mEq/L l’origine sarà verosimilmente
renale, mentre se minore di 10 mEq/L la causa sarà extrarenale.

IPONATRIEMIA
È una diselettrolitemia caratterizzata da una concentrazione plasmatica di sodio inferiore a
135 mEq/L (Valori normali: 135-145 mEq/L). Attenzione: il limite di 130 mEq/L, sebbene
utilizzato da alcuni autori, non rientra nella definizione, ma corrisponde alla soglia per l’inizio
del trattamento. È una condizione che si stima interessi circa il 10-15% dei pz ospedalizzati.

Dal pdv eziopatogenetico è necessario fare un distinguo sulla base della volemia e
dell’osmolarità urinaria:

- In pz ipovolemici ci sono due possibili situazioni:

o Se l’osmolarità urinaria è maggiore di 20 mEq/L il danno è a livello renale e


può derivare da una tp diuretica troppo aggressiva, da una nefropatia con
perdita di sali, da una diuresi osmotica, tipicamente diabetica, o da
insufficienza surrenalica, ad esempio in caso di brusca sospensione di una tp
cortisonica protratta (Addison iatrogeno). Si ricordi che il quadro di
insufficienza surrenalica deve essere sempre sospettato in presenza di
iperkaliemia, iposodiemia e ipovolemia.
o Se l’osmolarità urinaria è inferiore a 10 mEq/L le cause sono extrarenali e
includono vomito, diarrea, ustioni estese e pancreatite.

- In pz euvolemici c’è una sola possibilità, ossia che l’osmolarità urinaria sia maggiore
20 mEq/L. Le possibili cause, in questo caso, sono patologie polmonari infettive,
patologie del SNC (soprattutto meningoencefaliti ed emorragie), neoplasie (polmonari
o gastrointestinali), deficit di glucocorticoidi, ipotiroidismo, stress emozionale o fisico,
sindrome da inappropriata secrezione di ADH e farmaci. Tra questi ultimi, che nel
paziente anziano rappresentano la causa più frequente di iposodiemia, troviamo
antipsicotici come la carbamazepina gli antidepressivi SSRI, fans, morfina, antibiotici
e clofibrati.

- In pz ipervolemici si hanno due possibilità:


o Se l’osmolarità urinaria è maggiore di 20 mEq/L la causa è un mancato
riassorbimento di sodio secondario ad insufficienza renale, acuta o cronica,
con danno tubulare
o Se l’osmolarità urinaria è minore di 10 mEq/L le possibili cause sono la cirrosi
epatica, la sindrome nefrosica e l’insufficienza cardiaca.
Il quadro clinico è caratterizzato da reperto costanti, come il respiro di Cheyne Stokes,
l’ipotermia e la comparsa di riflessi patologici con iperreflessia, e da sintomi e segni
dipendenti dalla concentrazione assoluta del sodio e dalla velocità con cui essa si è ridotta:
244
- Lievi riduzioni della sodiemia (130-135 mEq/L) si associano ad una riduzione del
gusto;
- Con riduzioni moderate (125-135 mEq/L) compaiono sensazione di sete, nausea,
vomito, anoressia e crampi muscolari;
- Con riduzioni importanti (120-125 mEq/L) si sommano astenia, sonnolenza,
agitazione, confusione e delirio;
- Con valori inferiori ai 120 mEq/L il paziente presenta crisi epilettiche e alterazioni
dello stato di coscienza fino al coma.
Inoltre, a seconda della volemia si potranno osservare ipotensione grave e secchezza delle
mucose (disidratazione) o edemi con ascite (ipervolemia). Questi ultimi reperti sono assenti
in caso di iposodiema euvolemica.

Essendo l’iposodiemia un’urgenza differibile, il trattamento va rimandato in seguito ad


un’attenta valutazione di tutti gli aspetti del quadro clinico. Nei casi in cui la sodiemia si
attesti su valori inferiori ai 120 mEq/L e vi sia compromissione del SNC è opportuno ricorrere
alle soluzioni ipertoniche. In caso di forme ipovolemiche si procede infondendo SF 10-
15ml/Kg/h monitorando costantemente la sodiemia, mentre, nelle forme ipervolemiche ed
euvolemiche è prevista la restrizione idrica. Quando possibile, si procede al trattamento
della causa sottostante, che spesso nelle forme euvolemiche è rappresentata da una terapia
inappropriata. Attenzione: una correzione eccessivamente rapida della natriemia è
responsabile della sindrome demielinizzante osmotica con mielinolisi pontina centrale, un
quadro molto grave caratterizzato da paralisi acuta, disfagia, disartria e alterazione dello
stato di coscienza. Ciò si verifica a causa della disidratazione neuronale, a sua volta frutto
dell’eccessiva osmolarità di plasma e LEC nel SNC.

Sono disponibili varie soluzioni, caratterizzate da diverse concentrazioni di sodio:

Sodio cloruro 5% 833 Meq/L


Sodio cloruro 3% 513 Meq/L
Sodio cloruro 0,9% 154 Meq/L
Ringer lattato 130 Meq/L
Sodio cloruro 0,45% 77 Meq/L
Sodio cloruro 0,2% 34 Meq/L
Glucosata 5% 0 Meq/L

IPERNATRIEMIA
È una diselettrolitemia caratterizzata da una concentrazione plasmatica di sodio superiore a
145 mEq/L. Come nel caso dell’iponatriemia, il confine tra fisiologia e patologia è netto, ma
ciò non vuol dire che tutti i soggetti ipernatriemici debbano essere trattati.

Dal pdv dell’eziopatogenesi si distinguono due fenomeni principali:

1. Diminuzione dell’acqua corporea: la causa più frequente in assoluto è rappresentata


dal fatto che gli anziani non bevano, sia per ridotta sensibilità ipotalamica dei neuroni
responsabili della sensazione di sete, che per difficoltà nella deglutizione. Altre cause
sono l’aumento delle perdite per vomito, diarrea, sudorazione, febbre,

245
iperventilazione, diabete insipido, diuresi osmotica da diabete, tireotossicosi, ustioni,
terapia diuretica inappropriata, sindrome nefrosica e nefropatia diabetica.

2. Aumento del sodio: apporto eccessivo, come in caso di somministrazione di SF,


compresse suppletive di NaCl o di bicarbonato (spesso usato dagli anziani per
disinfettare), o a ritenzione su base renale per ipoperfusione.

Anche in questo caso è cruciale la suddivisione delle varie forme sulla base della volemia
e dell’osmolarità urinaria:

- In pz ipovolemici si hanno due possibili situazioni:

o Se l’osmolarità urinaria è maggiore di 20 mEq/L il danno è a livello renale e


può essere dovuto a patologie organiche (sia parenchimali che ostruttive) o a
terapia diuretica inappropriata;
o Se l’osmolarità urinaria è inferiore a 10 mEq/L il problema è extrarenale:
sudorazione profusa, ustioni estese o diarrea.

- In pz euvolemici si hanno due possibili situazioni:

o Se l’osmolarità urinaria è maggiore di 20 mEq/L il danno è a livello renale,


tipicamente il diabete insipido, oppure da riduzione del senso di sete;
o Se l’osmolarità urinaria è inferiore a 10 mEq/L la causa è extrarenale: perdite
insensibili della cute, respirazione

- In pz ipervolemici l’unica situazione possibile è il riscontro di una osmolarità urinaria


maggiore di 20 mEq/L e può essere dovuta a iperaldosteronismo primario, sindrome
di Cushing o assunzione di supplementi di NaCl o bicarbonato di sodio.
Clinicamente questa forma di diselettrolitemia si manifesta soprattutto con segni e sintomi di
tipo neurologico, in funzione dei valori assoluti di sodiemia e della velocità con cui questi si
sono instaurati. In particolare, si riscontrano obnubilamento del sensorio, confusione
mentale, depressione improvvisa e inspiegabile. Inoltre, il paziente presenterà astenia,
ipotensione, tachicardia e secchezza delle mucose.

Il trattamento cardine è la reidratazione e si effettua previa stima del deficit di acqua del
paziente e dell’ipotetica correzione, mediante le formule apposite, oltre che delle perdite
gastrointestinali, cutanee e respiratorie (sommate fra loro, corrispondono a circa 30 ml/h
nell’anziano). Per trattare la natriemia si procede somministrando soluzioni di sodio cloruro,
mentre per correggere la volemia si somministra acqua per os o soluzione glucosata, ev o
tramite sondino nasogastrico (utile soprattutto in pazienti affetti da deficit cognitivi).
Quest’ultimo presidio può essere utilizzato anche in pazienti privi di coscienza senza esser
considerato accanimento terapeutico: in tal caso è opportuno somministrare almeno 1L di
liquidi. È importante che la correzione del sodio non sia troppo rapida, pena lo sviluppo di
edema cerebrale e l’insorgenza di crisi epilettiche: a tal proposito si procede correggendo
non più di 10 mEq al giorno.

246
KALIEMIA
IPERKALIEMIA
È una diselettrolitemia caratterizzata da un valore di potassio ematico maggiore di 5,5
mEq/L. Trattandosi di uno ione localizzato prevalentemente a livello intracellulare, la
concentrazione plasmatica è molto inferiore a quella del sodio ed eventuali variazioni della
stessa sono più comuni, oltre che più pericolose.

Dal pdv eziopatogenetico, i fattori chiamati in causa sono:

- Una ridotta escrezione renale, secondaria ad insufficienza d’organo acuta o cronica,


ad uropatia ostruttiva, ad ipoaldosteronismo primitivo e, infine, a terapia diuretica con
risparmiatori di potassio o con ace inibitori.

- Da passaggio transcellulare, secondario ad acidosi, rabdomiolisi, ustioni e terapia con


FANS, antialdosteronici o Trimetoprim (componente del Bactrim insieme al
Sulfametossazolo).
- Raramente da eccessiva assunzione
Attenzione: è cruciale riconoscere la condizione di pseudo-iperkaliemia, ossia il riscontro di
valori elevati di potassio che non risultano veritieri. Essa è generalmente secondaria a quadri
di emolisi, sia da piastrinosi che da prelievo. In quest’ultimo caso, in particolare, possiamo
riconoscere diverse condizioni associate: un’agitazione troppo veemente della provetta, la
mancata rimozione del laccio emostatico, l’eccessiva sottigliezza dell’ago utilizzato e
l’eccessivo tempo trascorso tra prelievo e dosaggio, che rappresenta la causa più frequente in
assoluto. È cruciale, a tal proposito, che il potassio venga dosato non oltre l’ora dal prelievo,
dal momento che gli eritrociti, una volta esaurito il glucosio, vanno incontro a lisi con
rilascio degli ioni nel plasma e conseguente alterazione dei risultati.

Per quanto riguarda la clinica, i segni e sintomi più comuni coinvolgono 3 diversi apparati:

- Gastroenterico: nausea, vomito ed anoressia;


- Neuromuscolare: parestesie e debolezza fino alla paralisi flaccida;
- Cardiovascolare: si possono avere una serie di alterazioni asintomatiche dipendenti
dai valori di kaliemia. Da ricordare che oltre i 7 mEq/L si ha un importante rischio di
aritmie e che non c’è l’onda U, reperto tipico dell’ipokaliemia. In generale, all’ECG i
segni tipici sono dipendenti dall’entità della variazione della concentrazione di
potassio:
o 5,5 - 6 mEq/L: onde T a tenda;
o 6 - 7 mEq/L: aumento del PR con allargamento QR;
o 7 - 7,5 mEq/L: appiattimento onde P con ulteriore allargamento del complesso
QRS;
o > 8 mEq/L: le onde P scompaiono; il QRS slargato si unisce all’onda T
originando un’onda sinusoidale]
Dal pdv diagnostico è importante seguire una flow chart ben precisa per risalire all’eziologia
e per impostare un trattamento corretto, quando possibile. Si inizia, a tal proposito, col la
stima del GFR, con cut off impostato a 20 mL/min: se inferiore a questo valore, non servono

247
ulteriori esami per stabilire con certezza che la causa sia l’insufficienza renale; viceversa, si
prosegue dosando l’aldosterone: se normale (0,9 e 4,7 mcg/ml o 26-130 pmol/l in
clinostatismo, con aumento di 4-5 volte in ortostatismo) si sospettano forme da uropatia (?),
da alterata secrezione del paratormone o iatrogene da farmaci, mentre se ridotto si prosegue
l’iter dosando la renina (vn 4.4 – 46.1 µIU/mL in ortostatismo e 2.8 – 39.9 µIU/mL)
Quest’ultima, se ridotta, pone il sospetto di uropatia ostruttiva, nefrite interstiziale, AIDS o
diabete mellito, mentre se normale impone di proseguire ulteriormente l’iter col dosaggio del
cortisolo (vn di un adulto alle ore 8: 100-200 microgrammi/L o 250-550 nmol/L). Se ridotto,
si sospetta il morbo di Addison, mentre se aumentato si sospetta un deficit isolato di
aldosterone e si procede valutando i livelli di angiotensina II (vn: 12 – 36 ng/L). La riduzione
di quest’ultima potrebbe essere dovuta alla terapia con ACE inibitori, mentre se normale le
possibili cause sono l’AIDS o la terapia con eparina o sartani.

Per quanto riguarda il trattamento, esso si articola in diversi passaggi.

- Innanzitutto, è bene antagonizzare gli effetti dell’iperkaliemia sulla membrana


infondendo 10-20 mL di Calcio gluconato 10% in 5 minuti.

- È necessario poi ridistribuire il potassio, in modo che torni a livello intracellulare. Si


hanno diverse strategie a disposizione:

248
o Bicarbonato di sodio 1 mEq/Kg (infusione?) al fine di aumentare il pH ematico
e indurre così l’ingresso di potassio nelle cellule;
o Infusione con 500 mL di Glucosata al 10% + Insulina R (che insieme
prendono il nome di glucosata tamponata)
o β2 – stimolanti come il Salbutamolo: si somministrano 10 – 20 mg in 4 mL di
SF per via inalatoria, che sono in grado di ridurre la potassiemia di 0,5 – 1
mEq/L in 15 – 30 minuti. Vengono utilizzati come misura temporanea e hanno
effetto additivo a quello della combinazione Glucosio + Insulina.

- Si stimola poi l’escrezione di potassio a livello renale tramite diuretici dell’ansa in


caso di funzionalità renale adeguata. Si possono utilizzare, ad esempio, 20 – 40 mg di
Furosemide. Attenzione: questa molecola potrebbe essere utilizzata anche nei
pazienti con insufficienza renale, ma, sia il dosaggio, che il numero di
somministrazioni andrebbero aumentati eccessivamente (infatti, la Marengoni durante
il tirocinio ha sottolineato come la Furosemide sia l’unico diuretico che possa essere
utilizzato nei pazienti con IR).

- Infine, si agisce sullo scambio del potassio a livello intestinale, in particolare se il


valore di kaliemia supera i 7 mEq/L, tramite resine a scambio ionico come il
Kayexalate (5 – 25 g) o il Sorbitolo (50mL di soluzione al 20%). Quest’ultimo è
ripetibile ogni 4 – 6 ore e può essere utilizzato in cronico.
Di seguito, alcuni esempi di schemi utilizzabili e diversificati sulla base dei valori di
kaliemia:

- Se K+ > 7 mEq/L il rischio di aritmia è importante e si procede trattando con:

o Calcio gluconato
o Bicarbonato di sodio
o Glucosata tamponata
o Terapia diuretica dell’ansa
o Emodialisi, che non è una terapia medica e risulta invasiva

- Se K+ = 5,5 – 7 mEq/L si procede in base alla rapidità con cui il quadro si è instaurato:

o Iperkaliemia acuta, ad esempio in concomitanza di acidosi:


§ Bicarbonato di sodio
§ Glucosata tamponata
§ Terapia diuretica
o Iperkaliemia cronica:
§ Terapia diuretica
§ Resine a scambio ionico

IPOKALIEMIA
È una diselettrolitemia caratterizzata dal riscontro di valori ematici di potassio inferiori a 3,4
mEq/L.

Dal pdv eziopatogenetico, le principali cause di ipokaliemia sono rappresentate da:

249
- Apporto insufficiente correlato o meno a disturbi del comportamento alimentare
come anoressia nervosa, malnutrizione, alcolismo cronico.
- Passaggio transcellulare che si verifica in seguito ad ipotermia, alcalosi e
somministrazione di glucosata tamponata come trattamento per diabetici in corso di
disidratazione o di β2 agonisti.
- Deplezione renale associata a:
o Iperaldosteronismo, sia primario che secondario. A tal proposito, è importante
sottolineare che, nel caso in cui si sospetti questa condizione, come in giovani
sani e robusti con riscontro di astenia, crampi e ipertensione, è bene procedere
coi dosaggi di potassio ematico ed urinario e, solo in un secondo momento,
valutando i livelli di aldosterone e renina. I riscontri saranno ipokaliemia e
iperpotassiuria.
o Terapia diuretica
o Terapia steroidea
o Sindrome di Cushing

- Deplezione gastrointestinale, che rappresenta la causa principale nell’anziano ed è


dovuta a:

o Vomito, diarrea e in generale i quadri infettivi GI: in tal caso è consigliata


l’assunzione di cloruro di potassio, in sostituzione dell’aspartato di potassio, in
quanto il potere di assorbimento intestinale è del 100% vs 10%.
o Lassativi
o Sondino nasogastrico non clampato
o Sindrome di Ogilvie: quadro di pseudo – ostruzione colica acuta caratterizzata
da dilatazione massiva del colon dx in assenza di ostruzione meccanica. Si
tratta di una condizione frequentemente associata ad altre comorbidità e tipica
di pazienti ospedalizzati ed allettati. Dal pdv fisiopatologico è spiegata da uno
squilibrio reversibile del SNA a favore del simpatico con conseguente
alterazione e incoordinazione della contrattilità muscolare. Clinicamente si
manifesta con ipokaliemia persistente, dovuta sia alla secrezione attiva di
potassio secondaria alla distensione colica e alla disfunzione autonomica che
al sequestro endoluminale di liquidi ed elettroliti. Altri reperti sono:
occlusione, distensione addominale, addominalgie lievi e diffuse, peristalsi
variabile e febbre in caso di complicanze (perforazione, ischemia). Va in DD
con megacolon tossico da C.Difficile, occlusione meccanica, colite ischemica
e perforazione.

- Altri: sudorazione, dialisi, plasmaferesi.


Per quanto riguarda la clinica, sono coinvolti soprattutto:

- Il sistema neuromuscolare, con debolezza e crampi muscolari fino alla rabdomiolisi;


- Il sistema cardiovascolare, proporzionalmente alla velocità di instaurazione
dell’ipokaliemia e perlopiù in modo asintomatico o con palpitazioni. In caso
contrario, si tratta di vere e proprie emergenze come aritmie e BAV. Nello specifico,
in base ai valori ematici, distinguiamo:

250
o K+ < 3 mEq/L: comparsa dell’onda U, allungamento del QT, onda T piatta e
tratto ST depresso;
o K+ < 2.5-2.0 mEq/L: allungamento PR, extrasistoli atriali e ventricolari e, in
casi estremi, blocco AV, tachicardia ventricolare e fibrillazione ventricolare.
Dal pdv diagnostico si segue, come per l’iperkaliemia, un percorso preciso.

Riscontrati bassi valori di potassiemia, si procede col dosaggio della potassiuria, con cut off
posto a 20 mEq/L, in parallelo al pH ematico (a tal proposito, si ricordi inoltre che una
modificazione di 0,1 a carico del pH si associa ad una variazione proporzionalmente inversa
della kaliemia pari a 0,6 mEq/L):

- Se inferiore, è verosimile un’origine extrarenale del problema e, in base al pH


ematico, si pongono diverse ipotesi: in caso di acidosi la causa sono probabilmente la
diarrea o la tp lassativa; in caso di alcalosi è da escludere la presenza di un adenoma
villoso (in questo caso, si verifica un’alterazione dell’espressione delle pompe ioniche
a livello enterocitario tale per cui aumenta l’escrezione di ioni H+ con conseguente
alcalosi, tamponata tramite l’internalizzazione di potassio in scambio con l’idrogeno);
se il pH non risulta alterato probabilmente vi è un ridotto intake o un aumento delle
perdite GI.

- Se superiore, l’origine del problema è probabilmente renale e, sulla base del pH


ematico si pongono diverse ipotesi: in caso di acidosi le possibili case sono l’acidosi
tubulare renale e la chetoacidosi diabetica; in caso di pH variabile si ipotizzano la
necrosi tubulare acuta e la terapia con platino o aminoglicosidi come possibili cause
scatenanti; in caso di alcalosi l’iter procede col dosaggio dei cloruri urinari, con cut
off di 20 mEq/L:

251
o Se inferiori, si ipotizzano una terapia diuretica inappropriata, il vomito e lo
stato post ipercapnico;
o Se superiori, si prosegue l’iter con la valutazione della pressione arteriosa: se
normale o ridotta, le possibili cause sono la terapia diuretica inappropriata,
una grave deplezione di potassio o di magnesio; in caso di ipertensione l’iter
prosegue col dosaggio dell’aldosterone (0,9 e 4,7 mcg/ml o 26-130 pmol/l in
clinostatismo, con aumento di 4-5 volte in ortostatismo):
§ Se aumentato, si pone diagnosi di iperaldosteronismo, primario o
secondario;
§ Se ridotto, l’iter prosegue col dosaggio del cortisolo (valori normali di
un adulto alle ore 8: 100-200 microgrammi/L o 250-550 nmol/L):

• Se aumentato, si sospetta sindrome di Cushing


• Se normale, si sospetta sindrome di Liddle
Per quanto riguarda la terapia, si inizia dalla rimozione delle cause e dalla promozione di
un’alimentazione adeguata. Nella maggior parte dei casi si ricorre al KCl (cloruro di
potassio), in particolare nei deficit cronici e in caso di alcalosi, sotto forma di fiale da diluire
o di formulazioni retard in compresse. In caso di acidosi, invece, si preferiscono l’aspartato
o il citrato. La terapia parenterale si utilizza in casi particolarmente gravi, sotto forma di KCl
10 – 15 mEq/h ev in SF. Attenzione: servono circa 40 mEq per alzare la potassiemia di 1
Meq/L ed è importante che non si superi questa quantità per litro di soluzione somministrata
(infatti KCl è usato infatti per le iniezioni letali). Inoltre, è un farmaco che richiede uno stretto
monitoraggio elettrocardiografico, in particolare del QRS e del QTc, ed un’attenzione
particolare a non confonderlo col cloruro di sodio, stoccato in fiale identiche. Dal pdv
operativo, si procede somministrando ev il potassio insieme alla glucosata, in modo da
stimolare il rilascio di insulina: in questo modo si riduce transitoriamente la kaliemia di 0,2 –
1,4 mEq/L.

252
MAGNESEMIA

Il magnesio è uno ione presente in una quantità totale nell’organismo umano pari a circa
25g, suddivisi tra la forma mineralizzata (65%), importante componente dell’idrossiapatite,
la forma legata a proteine (32-35%) e la forma plasmatica (2%), responsabile degli effetti
biologici. I valori ematici normali sono compresi tra 0,7 e 0,9 mmol/L (oppure 1,8-2,4
mEq/L) e il fabbisogno giornaliero, pari a circa 400mg, è coperto grazie all’assunzione di
verdura, legumi, semi oleosi ed amidacei. Dal punto di vista biologico, il magnesio ha una
stretta interazione coi fosfati ed è essenziale nella sintesi degli acidi nucleici e delle
molecole di ATP.

IPOMAGNESEMIA
È una diselettrolitemia caratterizzata dal riscontro di livelli ematici di magnesio inferiori a 0,7
mmol/L. Si parla di ipomagnesemia grave con valori inferiori a 0,4 mmol/L, sebbene ciò non
correli necessariamente ad una sintomatologia spiccata.

Dal pdv eziopatogenetico le possibili cause sono:

- Apporto dietetico insufficiente spesso concomitante ad alcolismo;


- Deplezione intestinale per diarrea, malassorbimento, pancreatite con steatorrea,
trattamento con PPI e malattie genetiche;
- Deplezione renale causata da alcolismo, terapia con diuretici e farmaci nefrotossici
(antibiotici, cisplatino o ciclosporina), espansione del volume extracellulare, diabete
mellito scompensato con chetoacidosi, ipercalcemia e tubulopatie genetiche o
acquisite.
Per poter inquadrare eziologicamente i pazienti, è stata elaborata una formula, peraltro
utilizzabile con qualsiasi elettrolita (le concentrazioni vanno espresse in mmol/L).

𝑀𝑔 𝑢𝑟𝑖𝑛𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑥 (𝐶𝑟𝑒𝑎𝑡𝑖𝑛𝑖𝑛𝑎 𝑃𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎)


𝐹𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑒𝑠𝑐𝑟𝑒𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑀𝑔 = 𝑥 100
0,7 𝑥 𝑀𝑔 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑜 𝑥 (𝐶𝑟𝑒𝑎𝑡𝑖𝑛𝑖𝑛𝑎 𝑈𝑟𝑖𝑛𝑎𝑟𝑖𝑎)

Se il risultato è superiore al 2% il problema è a livello renale, altrimenti la causa è


extrarenale.

Per quanto riguarda la clinica, l’ipomagnesemia si manifesta a livello dei seguenti sistemi,
indipendentemente dalla calcemia:

- Neuromuscolare: ipereccitabilità con spasmi muscolari, segni di Chvostek (spasmo


periorale in seguito a percussione del nervo faciale) e di Trousseau (comparsa della
mano ad ostetrico in seguito a compressione del braccio) fino alla tetania,
convulsioni, movimenti involontari coreo-atetosici, apatia, coma e morte per paralisi
respiratoria;
- Cardiaco: alterazioni dell’ECG come allargamento del QRS, allungamento del QTc,
onde T appuntite, progressivo accorciamento del PR e appiattimento delle onde P. Ne
consegue un aumento del rischio dii tachiaritmie ventricolari.
Il trattamento è indicato quando la magnesemia è persistentemente inferiore a 0,5 mmol/L,
quando sintomatica e in caso di ipocalcemia concomitante. Nei pazienti con funzionalità
253
renale conservata si somministra una quantità pari a circa il doppio del deficit calcolato,
poiché circa il 50% del Mg introdotto viene escreto con le urine. Si ricorre al magnesio
gluconato orale 500-1000 mg per 3-4 giorni, gravato però dalla frequente comparsa di
diarrea. In alternativa, nei casi più gravi, si può ricorrere alla somministrazione parenterale.
Nei pazienti instabili (aritmie ventricolari o convulsioni) si somministrano 1-2 g di solfato di
magnesio diluiti in 100cc di SF in massimo 15 secondi, mentre nei pazienti stabili la stessa
dose può essere spalmata in 60 secondi. Le infusioni possono essere ripetute ogni 12-24h nei
4-8 giorni successivi. Esiste anche una formulazione in soluzione al 50% (1 g/2 mL) per la
somministrazione IM. Questi presidi possono essere utilizzati nei pazienti incapaci di
tollerare farmaci orali o scarsamente collaboranti. La magnesemia deve essere controllata di
frequente durante la terapia, in particolare nei pazienti con insufficienza renale (ClCr
inferiore 30ml/min), nei quali peraltro i dosaggi vanno dimezzati.

! Ipokaliemia o ipocalcemia concomitanti devono essere specificamente inquadrate in


aggiunta all'ipomagnesiemia. Questi disturbi elettrolitici sono difficili da correggere fino a
quando il magnesio non è stato reintegrato. Inoltre, l'ipocalcemia può peggiorare durante il
trattamento isolato dell'ipomagnesiemia con solfato di magnesio endovena perché questo
lega il calcio ionizzato.

254
CALCEMIA
Il calcio è uno ione bivalente, presente nel nostro organismo in una quantità totale di circa
1100g di cui il 99% si trova a livello osseo e l’1% nel torrente ematico. Quest’ultima quota si
divide in 3 forme distinte: la forma legata all’albumina (vn 4 – 4,5 mg/dL), la forma ionizzata
(vn 4,2 – 4,8 mg/dL oppure 4,8 – 5,2 mg/dL secondo Castellano), responsabile degli effetti
fisiologici e patologici sull’organismo, e la forma complessata (0,5 – 1 mg/dL), non legata
alle proteine né ionizzata. A tal proposito è importante che nella valutazione complessiva
della calcemia si dosino anche i livelli di albumina (vn: 4 – 4,4 g/dL) e che si usi la seguente
formula di correzione:

𝐶𝑎𝑙𝑐𝑖𝑜 𝑠𝑖𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑡𝑡𝑜


= 𝐶𝑎𝑙𝑐𝑒𝑚𝑖𝑎 + 0,8 𝑥 𝐴𝑙𝑏𝑢𝑚𝑖𝑛𝑎 𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎𝑙𝑒 − 𝐴𝑙𝑏𝑢𝑚𝑖𝑛𝑎 𝑚𝑖𝑠𝑢𝑟𝑎𝑡𝑎 𝑚𝑔/𝑑𝐿

In sostanza, si aggiunge 0,8 al calcio per ogni unità di albumina in meno. In caso di livelli
normali di albumina, i due valori di calcio coincideranno; in caso contrario, saranno
evidenti delle differenze. In particolare, all’aumentare dei valori di albumina diminuisce la
quota di calcio libera; al calare dei valori di albumina la quota di calcio libera aumenta. Si
ricordi, inoltre, che la quota di calcio che si lega all’albumina aumenta all’aumentare del
pH. Ai fini della diagnosi, dunque, sono utilizzabili sia la calcemia corretta per l’albumina
che il calcio ionizzato (Romanelli parla solo di calcemia).

! Attenzione all’unità di misura: lo si può trovare espresso in mEq/L (valori pari alla metà di
quelli espressi in mg/dl) e in mmol/L (valori pari alla metà di quelli espressi in mEq/L, quindi
un quarto di quelli espressi in mg/dL).

IPERCALCEMIA
È una diselettrolitemia caratterizzata dal riscontro di valori di calcio elevati, a fronte di vn di
8,5 – 10,5 mg/dL secondo Romanelli e di 8,2 – 10,2 mg/dL secondo Castellano. Viene
ulteriormente distinta nelle forme lieve (10,5 – 12 mg/dL), moderata (12 – 14 mg/dL) e grave
(> 14 mg/dL).

Dal pdv eziopatogenetico le principali cause di ipercalcemia nell’anziano sono:

- Alterazione del turnover osseo con aumentato riassorbimento, conseguente a


iperparatiroidismo primario, secondario o terziario, immobilizzazione e allettamento,
neoplasie maligne metastatiche come il cancro alla mammella o ematologiche come
il mieloma multiplo; malattia di Paget
- Aumento dell’assorbimento intestinale per intossicazione da vitamina D, a seguito di
eccessiva assunzione o di malattie granulomatose come la sarcoidosi, in cui si ha
aumento del tasso di conversione in forma attiva (1,25 OH2 – VitD)
- Eccessiva assunzione di latte che si configura nella sindrome latte – alcali
- Morbo di Addison
- Ripresa della diuresi a seguito di IRA in fase di risoluzione
Esiste poi una forma fittizia di ipercalcemia, dovuta ad aumento delle proteine o degli anioni
leganti il calcio o da emoconcentrazione.

255
Dal pdv clinico i principali sistemi coinvolti sono:

- Cardiovascolare: alterazioni dell’ECG come l’accorciamento del QTc con fusione


delle onde S e T e vari gradi di blocco, esaltata tossicità digitalica e, raramente, crisi
ipertensive;
- Nervoso: cefalea, letargia, ipostenia, alterazioni del comportamento, allucinazioni e
confusione.
- Gastrointestinale: ulcera peptica per aumentata produzione di HCl, anoressia, ileo
paralitico, nausea, vomito, pancreatite da calcolosi.
- Urogenitale: poliuria marcata con urine ad alto peso specifico, calcolosi renale
- Osteomuscolare: osteolisi ed ipostenia
Per quanto concerne il trattamento, esso è generalmente previsto per pazienti sintomatici
con valori di calcemia superiori a 12 mg/dL e prevede:

- Reidratazione con SF anche se il paziente beve già e concomitante terapia diuretica


con Furosemide 20 – 100 mg per forzare la diuresi ed aumentare l’escrezione di
calcio;
- Bifosfonati come il Pamindronato 60 – 90 mg disciolti in 1L di SF;
- Calcitonina im 0,4 – 5 U/Kg ogni 12 ore per inibire l’attività osteoclastica
- Glucocorticoidi, in particolare idrocortisone 25 – 100 mg ev ogni 6 – 8 ore,
soprattutto nelle forme neoplastiche o da intossicazione da VitD
- Mitramicina 25 mcg/Kg solo nelle forme neoplastiche
IPOCALCEMIA
È una diselettrolitemia caratterizzata dal riscontro di valori di calcio ridotti, a fronte di vn di
8,5 – 10,5 mg/dL secondo Romanelli e di 8,2 – 10,2 mg/dL secondo Castellano. Dal
momento che il prodotto calcio fosforo nel sangue è costante, una riduzione del calcio si

256
associa ad un aumento della fosforemia (vn 2,5-4.5 mg/dL), che è anch’essa alla base dei
disturbi correlati all’ipocalcemia.

Dal pdv eziopatogenetico le cause principali sono:

- Ridotti livelli di Vitamina D: può essere introdotta con gli alimenti oppure venire
prodotta con un pathway che necessita l’esposizione solare e una funzionalità epatica
e renale adeguata. Qualora venisse meno o l’introito o l’assorbimento, oppure uno
dei punti fondamentali per la sintesi endogena, avremo un deficit di questa vitamina
che si riflette nell’assorbimento del calcio. Il fabbisogno giornaliero di VitD è di 600 –
800 UI al giorno.

- Ridotto assorbimento di calcio, ad esempio d malassorbimento o eventuali bypass


intestinali.
- Endocrinopatie:
o Ipoparatiroidismo primitivo o secondario, come nel caso della chirurgia
tiroidea o dell’ipomagnesemia, condizione responsabile sia del calo della
secrezione di PTH che dell’aumento della resistenza recettoriale periferica.
o Pseudoipoparatiroidismo, caratterizzato dall’aumento dei livelli di PTH in
risposta alla resistenza recettoriale intrinseca;
o Carcinoma tiroideo midollare secernente calcitonina, con azione opposta
rispetto al PTH.

- Stati ipercatabolici, come la rabdomiolisi post traumatica o la sindrome da citolisi


tumorale (post ct), caratterizzati da incrementi della fosforemia talmente marcati che
nel trattamento assumono la precedenza rispetto alla correzione della calcemia;

- Aumentata escrezione da terapia diuretica protratta;


- Alcalosi: dal momento che il calcio legato alle proteine è direttamente proporzionale
al pH, si ha che in acidosi aumenta la quota di calcio libero, mentre in alcalosi si
riduce. Attenzione: non cambia la quantità totale di calcio, ma la sua distribuzione.
- Genetica: esistono due forme con ereditarietà autosomica dominante

o ADH-1: mutazione gain-of-function di CaSR, gene deputato al controllo della


secrezione del PTH e dell’escrezione urinaria di calcio in risposta ai livelli
ematici di questo ione. Di conseguenza, la maggior sensibilità delle cellule
paratiroidee e tubulari al calcio stesso fa sì che livelli fisiologici di calcemia
siano percepiti come eccessivi e, quindi, che CaSR risulti attivato fino al
raggiungimento del set point di spegnimento. Fortunatamente nella maggior
parte dei casi non si associa a sintomatologia. La terapia canonica con
carbonato di calcio e VitD causa ipercalciuria (vn: 100 – 250 mg/24h),
calcolosi e insufficienza renale, per cui si ricorre a PTH ricombinante
(teriparatide) per aumentare il riassorbimento renale. Sono in via di sviluppo gli
inibitori di CaSR, detti anche calciolitici.
o ADH-2: mutazione di G-α-11

257
- Altre: alcalosi, ipoprotidemia, pancreatite acuta, terapia antibiotica con
aminoglicosidi, shock e sepsi.
Per quanto riguarda la clinica, non vi sono particolari rilievi finchè la calcemia non scende
al di sotto di 7 mg/dL o qualora vi siano brusche riduzioni. In tal caso, si manifesta:

- A livello neuromuscolare con i segni di Chvostek (spasmo periorale in seguito a


percussione del n.faciale) e di Trousseau (comparsa della mano ad ostetrico in
seguito a compressione del braccio), tetania, spasmofilia anche laringea, convulsioni
e sindromi psicotiche con aspetti maniaco – depressivi
- A livello cardiovascolare con ridotta contrattilità miocardica e conseguente calo della
gittata ed allungamento del QTc.
La diagnosi si pone tramite il riscontro di valori ematici di calcio totale ridotti, ma da
rapportare all’albuminemia: se si riscontra pseudoipocalcemia questa non va trattata come
ipocalcemia vera e propria.

Dal pdv terapeutico, si sceglie tra vari approcci sulla base del valore di calcemia e del
quadro clinico. Nella maggior parte dei casi, comunque, siamo di fronte ad urgenze
differibili che non richiedono trattamenti tempestivi.

Nei pz asintomatici con riscontro occasionale di ipocalcemia acuta ma superiore a 7,5


mg/dL o ipocalcemia cronica si procede somministrando 1-2 g/die di carbonato di calcio,
preferibile ad altre formulazioni vista la maggior quantità di calcio elementare, e vitamina D
per os, tenendo conto sia della funzione epatorenale che dei livelli assoluti. Per quanto
riguarda la prima, si ricorre al calcidiolo (25-OH-VitD) in caso di insufficienza epatica ed al
calcitriolo (1,25-OH2-VitD) in caso di insufficienza renale. Se invece fosse la carenza di
questa vitamina ad essere grave, si dovrebbe procedere attraverso una dose di attacco, pari a
50.000 UI/settimana per 3 – 12 settimane, ed una dose di mantenimento di circa 800 UI/die.
È importante, inoltre, informare il paziente su quali alimenti possa assumere per migliorare la
calcemia (a titolo informativo, 1L di latte contiene circa 1g di calcio).

In caso di pz con quadri acuti e sintomatici, di mancato miglioramento con la sola tp per os
o di scarsa compliance, si procede per via parenterale infondendo 10 ml di una soluzione di
CaCl2 (calcio cloruro) 10% e 10-20 ml di Calcio gluconato 10% (solo quest’ultimo secondo
Castellano), entrambe spalmate in 10–20min per evitare sia fenomeni di flebite che
complicanze sistemiche gravi. È fondamentale monitorare il paziente con ECG, in quanto
variazioni repentine dei valori ematici di calcio possono manifestarsi coi segni
elettrocardiografici dell’ipercalcemia, oltre che prestare particolare attenzione ai pazienti in
trattamento con la digitale, particolarmente proni a sviluppare aritmie ventricolari. In
alternativa si può ricorrere al calcio citrato ma questo ha maggiore tendenza a dare necrosi
tissutale in caso di extravasazione.

Altro aspetto da considerare è che i fosfati tendono a precipitare assieme al calcio. Dal
momento che il trattamento, specie se aggressivo e in concomitanza di stati ipercatabolici,
può associarsi a ipercalciuria (vn: 100 – 250 mg/24h) la calcolosi renale è dietro l’angolo. A
tal proposito si procede monitorando questi parametri settimanalmente, consigliando di
ridurre l’assunzione dietetica di fosfati e, in extremis, prescrivendo chelanti orali che ne
riducano l’assorbimento intestinale e diuretici tiazidici per controllare la calciuria (esempio:

258
25 – 100 mg/die di idroclorotiazide). L’ipercalciuria è un’evenienza più rara nello
pseudoipoparatiroidismo, per cui si può puntare a dei valori target di calcemia mediamente
più alti.

In caso di ipoparatiroidismo resistente alla tp con calcio e vitamina D o di forme genetiche si


può ricorrere al PTH ricombinante (teriparatide) che, se somministrato in maniera
intermittente, ha azione positiva sugli osteoblasti oltre ad aumentare il riassorbimento renale
di calcio.

In caso di concomitante ipomagnesemia, va trattata prima questa condizione attraverso


infusioni di magnesio solfato 2g in soluzione al 10% spalmata in 10 – 20 minuti, seguita da
1g in 100mL/h fino al raggiungimento di un valore ematico di almeno 1 mg/dL (vn 1,7 – 2,2
mg/dL). Se non fosse sufficiente, si può ricorrere ad un supplemento orale di 300 – 400 mg al
giorno, diviso in tre somministrazioni. In ogni caso, se non c’è urgenza di correggere il
calcio, il magnesio può essere somministrato solamente per os.

IMPIEGO CLINICO DELLA VITAMINA D


Gli effetti della vitamina D sono molteplici: aumenta l’assorbimento intestinale di calcio e
fosfati, la mineralizzazione ossea e induce la differenziazione delle cellule immunitarie.
Sembra inoltre essere protettiva nei confronti delle neoplasie, in quanto si ipotizza un’azione
inibitoria su proliferazione e angiogenesi. La produzione di VitD è regolata grazie al
composto 24,25-OH2-vit.D3 che si forma in parallelo alla forma biologicamente attiva e
agisce secondo un meccanismo di fb negativo.

I livelli di VitD dosati nel sangue corrispondono alle concentrazioni della forma 25-OH e
sono fisiologici se compresi tra 20 e 40 ng/mL secondo alcuni, 30 – 50 ng/mL secondo altri.
È desiderabile un livello superiore ai 30 ng/mL dal momento che, in questo modo, sono
assicurati livelli ottimali di calcemia senza che venga stressata la produzione di
paratormone. Viceversa, si avrebbero comunque livelli normali di calcemia a spese del
paratormone, che aumenta. Tra 20 e 30 ng/mL si parla di “zona grigia” ed è tuttora discusso
se sia opportuno trattare. Una concentrazione tra i 10 ed i 20 ng/ml è considerata un livello
subottimale per la salute dell’osso, con conseguente aumento del rischio di fratture, ma non
per il resto dell’organismo. Al di sotto dei 10 ng/mL l’assorbimento di calcio a livello
intestinale si riduce drammaticamente e, nonostante il compenso mediato dal paratormone, i
livelli ematici di questo ione rimangono bassi. Esiste anche la possibilità di dosare la 1,25-
OH2-VitD ma ciò è utile solo per verificare se a livello renale la funzionalità di attivazione
sia adeguata, in quanto si tratta di un esame costoso e laborioso.

A livello mondiale, vi sono nazioni che han ritenuto utile supplementare diversi alimenti con
la vitD, soprattutto USA e Svezia, mentre altre no. Ciò si riflette nelle diverse concentrazioni
di vitD medie delle popolazioni. Nonostante ciò, non vi sono evidenze sull’utilità
dell’impostare un programma di screening in tal senso, se non per i soggetti a rischio.

I fattori di rischio che predispongono ad una riduzione dei livelli di VitD sono: la ridotta
assunzione, specie in caso di dieta vegana spinta; la malnutrizione tipica degli anziani;
l’esposizione solare limitata sia per cause stagionali che per lo stile di vita sedentario; avere
la pelle scura; l’obesità; il malassorbimento intestinale secondario a malattia celiaca, malattia
dell’intestino corto, pancreatiti, IBDs o storia di chirurgia bariatrica; l’ospedalizzazione,
specie presso RSA; la terapia antiepilettica, come la fentoina, che aumenta l’attività della 24-
259
idrossilasi e in tal senso può essere utile il dosaggio della 24,25-OH2-VitD; insufficienza
renale (con VFG < 60%) ed epatica con diminuzione dell’attività delle rispettive idrossilasi;
età ed invecchiamento, associati al calo dell’attività della 1α-idrossilasi; sindrome nefrosica a
causa della riduzione dei livelli ematici della proteina legante la VitD.

Dal pdv diagnostico, vi sono elementi suggestivi di una diminuzione della vitamina D che
necessitano di approfondimento: ad esempio, tra gli esami di laboratorio, possiamo
riscontrare ipocalciuria nelle 24h in pazienti che non seguono una tp diuretica tiazidica;
elevati livelli ematici di paratormone e fosfatasi alcalina (totale o ossea); ipocalcemia ed
ipofosforemia. Per quanto riguarda l’imaging, sono rilievi caratteristici la ridotta densità ossea
e la comparsa di fratture senza traumi significativi.

A seguito del riscontro di bassi livelli di vitD nel contesto di un’inadeguata esposizione
solare è raccomandata l’assunzione di colecalciferolo (Dibase), disponibile in numerose
formulazioni sia capsulari che iniettabili. In caso di insufficienza epatica si ricorre al
calcidiolo (Dydrogil), mentre se ad essere compromesso fosse il rene si dovrebbe utilizzare il
calcitriolo (Rocaltrol). Non vi è tuttavia evidenza di beneficio o di effetto protettivo per tutta
una serie di patologie, tra cui lo scompenso cardiaco, asma, BPCO, diabete e malattie
neuropsichiatriche.

Per quanto riguarda il dosaggio, in caso di carenze particolarmente gravi (< 10 ng/mL) si
procede somministrando 50 000 UI/settimana per 6-8 settimane per poi proseguire con 800
UI/die. Se però questa situazione dovesse essere secondaria a malassorbimento, la terapia
andrebbe proseguita con dosaggi stabilmente elevati ma senza esagerare (10 000 – 50 000
UI/die), al fine da scongiurare un quadro di ipervitaminosi. Per valori tra i 10 ed i 20 ng/mL
si prescrive una supplementazione con 800-1000 UI/die con rivalutazione a 3 mesi e, in
caso di ulteriore riscontro di valori non ottimali, aumento del dosaggio. In caso, invece, di
concentrazioni comprese tra 20 e 30 ng/mL, laddove si ritenga opportuno farlo, si prescrive
una supplementazione di 600-800 UI/die.

L’ipervitaminosi è una condizione esclusivamente associata a sovradosaggio farmacologico.


Il quadro clinico si manifesta generalmente per valori molto elevati, superiori ai 100 ng/mL,
tipici di supplementazioni inappropriatamente protratte e/o dosate. I riscontri clinici tipici di
questa condizione sono nausea, vomito, diarrea e poliuria, mentre dal pdv laboratoristico si
osservano ipercalcemia e ipercalciuria. Queste condizioni aumentano il rischio di calcolosi
e calcificazioni tissutali, quindi di scompenso cardiaco ed insufficienza renale.

260
ESAME DELLE URINE
È utile sia per verificare le condizioni funzionali del rene e delle vie urinarie, sia per ricercare
alterazioni sistemiche o metaboliche. Le varianti che devono essere considerate sono diverse:

1. Volume urinario (vn 1-1.8L/die) e frequenza minzionale:

a. Oliguria (<500mL): può dipendere da cause renali come GN acute,


insufficienza tubulare acuta, fase terminale dell’IRC o da ostruzione delle vie
urinarie, anche ab estrinseco. Ci sono poi cause extrarenali, principalmente
favorenti una situazione di ipoperfusione, come la disidratazione, la perdita di
liquidi o il sequestro di liquidi (cirrosi, scompenso cardiaco).
b. Anuria (<100mL): può essere dovuta ad un’ostruzione completa del tratto
urinario (globo vescicale), a occlusione bilaterale delle arterie o delle vene
renali, a shock o alla presenza di necrosi tubulare o corticale acuta.
c. Poliuria (>3000mL): per ipotizzare possibili cause devo fare un’ulteriore
distinzione sulla base dell’osmolarità:
i. >300mOsm/L: poliuria osmotica associata a DM, diuretici osmotici o
necrosi tubulare in risoluzione
ii. <300mOsm/L: poliuria psicogena, diabete insipido, diuretici, patologie
ipotalamiche.
d. Nicturia (più di 5 minzioni notturne e aumento del volume urinario totale): si
associa alla presenza di IVU, ad ostruzioni parziali della vescica, a scompenso
cardiaco, a DM, a diabete insipido, a cirrosi con ascite, ad insufficienza
cortico-surrenalica o alle prime fasi dell’IRC.
e. Pollachiuria (aumento numero delle minzioni, senza alterazioni del volume
urinario): è indicativa si IVU o di compressione prostatica.

2. Colorazione:

a. Urine giallo paglierino (=urine diluite): possono essere riscontrate in caso di


diabete insipido o di diuretico EV.
b. Urine giallo scuro (=urine concentrate): sono tipiche di stati di disidratazione o
febbrili.
c. Urine marroni (=urine ipercromiche): si associano a iperbilirubinemia.
d. Urine rosse: possono essere riscontrate in quadri diversi:
i. Macroematuria
ii. Farmaci come la Rifampicina
iii. Mioglobinuria (farmaci, ustioni, infezioni, sforzi intensi, problemi
vascolari)

3. Sedimento: l’analisi di questa componente permette di individuare eventuali emazie,


leucociti, cellule epiteliali, cilidri ialini o cellulari o di cristalli.

4. PH:
a. Risulterà aumentato in caso di farmaci alcalinizzanti o di dieta ricca in frutta e
verdura

261
b. Risulterà ridotto in seguito a digiuno, esercizio fisico prolungato o a dieta ricca
di grassi.

5. Proteinuria: può essere transitoria (attività fisica o febbre), persistente (sindrome


nefrosica, ipertensione, DM, danno renale) o ortostatica. Sulla base del meccanismo
fisiopatologico possiamo suddividerla in:

a. Proteinuria glomerulare non selettiva


b. Proteinuria glomerulare selettiva: vengono escrete prevalentemente proteine di
40-100kDa, range nel quale troviamo l’albumina, si parlerà, dunque, di
albuminuria, la quale è frequentemente associata a condizioni come il DM o
l’ipertensione. Più specificamente, se è 30-300mg/die parliamo di
microalbuminuria, che è da considerarsi un indice prognostico negativo perché
aumenta la probabilità di avere problemi CV o renali; tra 300mg e 2000mg si
parla, invece, di macroalbuminuria. Per valutare la microalbuminuria, il GS è la
raccolta urinaria delle 24h, se non si può avere si può calcolare il rapporto tra
albumina e creatinina urinaria su urine spot del mattino (si parla di
microalbuminuria se il rapporto è >31mg/g nell’uomo o di 22mg/g nella
donna).
c. Proteinuria tubulare: è dovuta a mancato riassorbimento o ad aumentata
secrezione, ad esempio di IgG, catene leggere, beta2-microglobulina…
d. Proteinuria da overflow: arrivano troppe proteine, le quali vengono filtrate, ma
non riescono ad essere completamente riassorbite a livello tubulare. È quello
che succede, ad esempio, nel mieloma.

6. Glicosuria: si manifesta quando la glicemia è >180mg/dL, quindi in pz diabetici che


non hanno un buon controllo, oppure nel contesto di patologie tubulari che ne
alterano il riassorbimento.

7. Chetonuria: si associa, oltre che alla chetoacidosi diabetica, anche a condizioni in cui
si ricorre soprattutto ai grassi per ottenere energia.

8. Ematuria: si può presentare in caso di malattie della coagulazione o di alterazioni


iatrogene della stessa, in seguito a patologie urinarie come calcolosi, infezioni, traumi
o neoplasie, oppure può comparire in seguito ad episodi febbrili (microematuria). Se
compare all’inizio della minzione devo sospettare un probblema basso, se compare
alla fine devo pensare al trigono e, infine, se è presente durante tutta la minzione il
problema sarà genericamente a carico delle alte vie urinarie.

9. Emoglobinuria: si riscontra in corso di emolisi intravascolare massiccia.

262
SINDROME NEFROSICA
[Gli edemi possono essere dovuti a diverse cause:

1. Edemi simmetrici: sindrome nefrosica, cirrosi scompensata e scompenso cardiaco


2. Edemi localizzati solo agli arti inferiori in maniera simmetrica: trombosi o compressione della
cava inferiore.
3. Edemi localizzati: ustioni, rt, orticaria, esiti chirurgici, filariosi, mx.]

È una sindrome clinica causata da malattie che danneggiano il glomerulo renale facendogli
perdere la capacità di trattenere le proteine. Alla base possiamo avere nefrosi congenita, GN
a lesioni minime, glomerulosclerosi focale e segmentaria, GN membranosa, Nefropatia
diabetica e amiloidosi. Può poi insorgere in conseguenza di una neoplasia, al consumo di
farmaci come FANS o litio, ad infezioni, ad una condizione di ipertensione maligna o di
iperemia gravidica, oppure in corso di patologie autoimmuni.

Si caratterizza per la presenza di proteinuria, cui consegue:

1. Ipodisprotidemia con edemi e, talvolta, versamenti sierosi. In particolare, vedremo


una riduzione dell’albuminemia e delle gamma-globuline (aumento dell’incidenza di
infezioni) e un aumento, solo percentuale, delle alfa-globuline che, essendo di peso
più elevato, vengono perse in misura minore.

2. Iperlipidemia con aumento di Colesterolo, LDL, VLDL e TG secondaria a:


a. Aumentata produzione epatica di lipoproteine: l’ipoalbuminemia costituisce
uno stimolo alla sintesi proteica epatica, vengono poi persi per via urinaria
fattori regolanti il metabolismo lipidico (LCAT).
b. Ridotto catabolismo delle lipoproteine: le lipasi vengono perse con le urine.

Vengono poi perse anche diverse proteine con quadri clinici correlati: si potrebbe infatti
avere fenomeni trombotici dovuti alla perdita di fattori anticoagulanti (in particolar modo si
riduce la concentrazione di antitrombina III), perdita di VitD con ipocalcemia, perdita di
ormoni tiroidei con conseguente ipotiroidismo e perdita di transferrina con possibile anemia
ipocromica e microcitica.

263
Per quanto riguarda la tp, come prima cosa, se possibile, è importante correggere la causa. Si
devono poi trattare gli edemi: si riduce il consumo di sodio e si cerca di aumentarne
l’escrezione. A tale scopo, possono essere prescritti diuretici, ma senza eccedere perché si
potrebbe avere ipovolemia con ipoperfusione renale e peggioramento della funzionalità
renale. Infine, è necessario correggere i deficit che possono essersi instaurati, dando, ad
esempio, antidislipidemici, anticoagulanti, VitD o ormone tiroideo.

264
NEFROPATIE DA FARMACI
Sono condizioni sempre più diffuse a causa dell’invecchiamento della popolazione che
risulta maggiormente suscettibile allo sviluppo di queste patologie: da un lato con l’età c’è
un calo parafisiologico del filtrato e dall’altro bisogna considerare che spesso gli anziani
assumono molti farmaci diversi, la cui azione lesiva nei confronti del rene può andare a
sommarsi e i quali possono andare a sovraccaricare il rene.

NECROSI TUBULARE ACUTA


Si caratterizza per lesioni documentabili istopatologicamente, che determinano calo del
filtrato e della funzione renale con conseguente impossibilità dell’organismo di eliminare i
cataboliti proteici e i farmaci. È causata da un’ischemia del parenchima renale per
alterazione dell’emodinamica renale, sia a livello dell’arteriola afferente che efferente;
concorre, poi, al danno l’azione tossica diretta sull’epitelio tubulare causata dalle
nefrotossine esogene. Tra queste molecole che possono danneggiare il rene e dare necrosi
tubulare acuta abbiamo i mdc, alcuni antibiotici (aminoglicosidi, cefalosporine, suldamidici),
anestetici fluorati, antiulcerosi e quasi tutti i chemioterapici.

Clinicamente il pz si presenta con oliguria (<300 ml/die) o anuria (<100ml/die) e


manifestazione della ritenzione idrosalina come aumento del peso corporeo, segni di stasi
soprattutto a livello della circolazione polmonare (rantoli bibasilari e dispnea) e insufficienza
ventricolare sinistra fino all’edema polmonare acuto. C’è poi accumulo dei cataboliti proteici
aumenta il numero di H+ circolanti, determinando acidosi metabolica che si correla ad
iperpotassiemia (per lo scambio con gli H+ a livello intracellulare), peggiorando
ulteriormente il quadro. A livello laboratoristico si possono riscontrare: incremento della
creatinina, iperuremia, iperpotassiemia, iperazotemia, ipocalcemia, iperfosforemia e
ipermagnesemia (gli ultimi tre dati sono indicativi di iperparatiroidismo iatrogeno). Nel
sedimento urinario si trovano cellule epiteliali di sfaldamento e cilindri granulari, globuli
bianchi e cilindri che contengono eosinofili. Infine, a livello anatomopatologico si
evidenziano: interstizio edematoso, infiltrato linfomonocitario, necrosi dell’epitelio tubulare
e materiale in disfacimento nel lume tubulare.

Le complicanze della necrosi tubulare acuta comprendono:

1. Segni di interessamento sistemico come vomito, nausea, diarrea, stasi polmonare per
la ritenzione idroelettrolitica e aumento dell’urea.
2. Anemia per deficit dell’EPO (fasi tardive). ma soprattutto nelle fasi tardive.
3. Infezioni soprattutto batteriche e
4. Encefalopatia uremica (sonnolenza, sopore, iperreflessia, tremori e convulsioni); da
aumento dei cataboliti, motivo per cui se si fa dialisi per prevenirlo, non si vede.

Il decorso clinico prevede una fase oligurica, che dura in media 10 gg, con riduzione
progressiva del filtrato e della diuresi; ci può essere anuria per un paio di giorni seguita da
ripresa della funzionalità renale (fase di ripresa) per pochi giorni, a cui segue una fase
poliurica, della durata di circa due settimane, in cui si producono anche 5-10 L/die di urine.
Quest’ultima fase è determinata da una diuresi osmotica attiva. Infine c’è la convalescenza
che dura di 2-3 mesi.

265
La terapia può essere conservativa: si sospendono i farmaci nefrotossici e si monitora il pz,
specie per quanto riguarda la sintomatologia, la potassiemia e il pH (EAB). Qualora venga
riscontrata un’iperpotassiemia grave (>7 mEq/L) associata a grave acidosi (pH <7.31),
iperazotemia marcata (>2g/l), stato di iperidratazione con rischio di EPA, c’è indicazione
all’esecuzione di dialisi peritoneale o emodialisi, che va proseguita fino alla ripresa
funzionale del rene.

Necrosi tubulare acuta da Aminoglicosidi: può colpire fino al 36% dei pazienti trattati con
aminoglicosidi, rappresenta il 10-15% di tutte le IRA e il 90% dei danni acuti da antibiotici.
La Neomicina è l’amnoglicoside più prono a dare effetti collaterali sul rene, la Gentamicina
ha un rischio intermedio e la Tobramicina un rischio ridotto rispetto agli altri. Il danno da
aminoglicosidi è, poi, più frequente in pz anziani, di sesso femminile, obesi, con patologie
cardiache o renali o con sepsi. Specie nei soggetti a rischio, dunque, è importante attuare
misure preventive: in particolare, si deve porre attenzione alla dose, all’intervallo tra le
somministrazioni e alla durata della tp. La dose deve rimanere nel range terapeutico, motivo
per cui questi farmaci richiedono somministrazione ospedaliera per poter monitorare la
concentrazione. Il pz deve poi essere adeguatamente idratato e si devono togliere, per
quanto possibile, altri farmaci che potrebbero dare danno sinergico.

Se insorge, dopo 7-10 giorni di tp il pz può presentarsi anurico e con disfunzioni tubulari
con proteinuria, enzimuria, glicosuria, aminoaciduria e alterato riassorbimento degli ioni
(ipomagnesemia e ipokaliemia).

Necrosi tubulare acuta da Tetracicline: è più probabile in pz con IRC o in tp con diuretico.

Necrosi tubulare acuta da antineoplastici: per prevenirla tutti i chemioterapici vengono dati
in associazione ad idratazione parenterale e, possibilmente, si danno in infusione lenta;
secondo alcuni può essere utile anche dare Mannitolo, soluzioni ipertoniche, calcio-antagon
isti, ASA o ACE-ib, ma sono soluzioni di dubbi efficacia. La nefrotossicità da antineoplastici è
sia da cause prerenali (ipoalbuminemia, deplezione del volume circolante per vomito e
difficoltà di idratazione), che cause parenchimali (tumore renale o terapia del tumore) e post
renali (ostruzione da lisi tumorale).

Necrosi tubulare acuta da mdc: rappresenta la causa del 30% delle forme di IRA nei pz
ricoverati. Tipicamente il danno si verifica entro 24h e si associa a condizioni predisponenti
come età > 75 anni, IRC al terzo stadio, diabete, deplezione del volume, instabilità
emodinamica preprocedurale, altri farmaci nefrotossici, comorbidità (anemia, insufficienza
cardiaca, ipoalbuminemia, cirrosi), dosi elevate di mezzo di contrasto. Si ha una contrazione
acuta della funzionalità renale dopo la somministrzione che si manifesta come un aumento
di almeno il 25% dei valori di Cre o come un aumento della Crea di 0.5-1mg/dL. Il filtrato si
può ridurre a 15-60 ml/min. La NTA da mdc si correla ad aumento dei tempi di
ospedalizzazione, aumento di eventi avversi cardiovascolari per ritenzione idrica acuta e
aumento della mortalità sia ospedaliera che a lungo termine. Inoltre, si tratta di una
condizione difficile da gestire, per la quale non esiste tp, ma si può solo fare prevenzione. In
particolare, nei soggetti a rischio, in primo luogo, si devono prendere in considerazione
metodiche che non prevedano il mdc, se non si ha alternativa va quantomeno ridotto il
dosaggio del mdc stesso e se ne deve scegliere uno con meno possibilità di danno renale
possibile, si devono sospendare i farmaci nefrotossici (compresi FANS e Metformina), si deve
idratare il pz e, eventualmente, si possono dare Aminofillina, Teofillina o Ac.Ascorbico
266
prima della procedura (non ci sono grandi evidenze). Nel momento in cui insorge, è
possibile ricorrere a dialisi.

INTEREFERENZA CON L’EMODINAMICA RENALE SENZA LESIONI ORGANICHE


Tra i farmaci che possono interferire con l’emodinamica renale abbiamo:

1. FANS: bloccando la produzione di PG, non permettono la regolazione


dell’emodinamica renale normalmente permessa da questi mediatori. I fattori
favorenti per un’interferenza rilevante con l’emodinamica renale comprendono:
ipovolemia, emorragia, shock settico, sindrome nefrosica, cirrosi, pre-eclampsia,
sodio deplezione, post operatorio, stenosi arteria renale, glomerulonefriti, ostruzione
vie urinarie, danni tossici, IVU, età avanzata, IRC. I FANS, comunque, possono
rendersi responsabili anche di danni organici con necrosi tubulare, necrosi papillare
che esita in IRC, e sindrome nefrosica (Diclofenac).
2. ACE-ib e Sartani: non permettono una correta perfusione renale nel momento in cui
quest’ultima dipende dal SRAA. Possono causare IRA su base funzionale, specie in pz
con stenosi arteria renale bilaterale, stenosi arteria renale in rene unico, stenosi arteria
renale in rene funzionalmente unico, patologie microvascolari intrarenali diffuse,
cirrosi, insufficienza cardiaca, disidratazione. Possono dare ritenzione idrica e
iperkaliema, ma, fortunatamente, si tratta di situazioni transitorie che tendono a
risolversi in circa un mese.

NEFROPATIE INTERSTIZIALI
Le nefropatie interstiziali sono provocate da un’infiammazione in cui la lesione si colloca
nell’interstizio e risparmia glomeruli e vasi. È rilevabile un infiltrato linfomonocitario che si
accompagna a edema in situazioni acute e fibrosi nelle forme croniche. La causa è nei ⅔ dei
casi rappresentata dai farmaci; esistono forme da infezioni batteriche, da malattie
immunologiche e idiopatiche. Tra i farmaci che possono provocare nefriti interstiziali
ricordiamo: FANS, diuretici, antibiotici e Allopurinolo.

Le forme acute non sono dose dipendenti e possono presentarsi in seguito alla seconda
esposizione allo stesso farmaco o ad altri appartenenti alla stessa classe. Probabilmente alla
base c’è una reazione infiammatoria cellulo-mediata; ci può poi essere produzione di ab da
parte dell’immunità umorale.

Dal punto di vista clinico, si verifica un improvviso e inaspettato deterioramento della


funzione renale con sintomi molto aspecifici: febbre, rash, artralgie, ipereosinofilia, talvolta
dolore lombare da distensione della capsula per edema intestiziale. Nelle urine potremo
riscontrare microematuria, leucocituria sterile, modesta proteinuria, raramente
macroematuria.

La diagnosi si basa sulla correlazione temporale tra assunzione del farmaco e comparsa delle
alterazioni e dati di laboratorio (in alcuni casi si può ricorrere alla scintigrafia renale con il
gallio). La certezza si ha solo con la biopsia, che, però, viene fatta raramente.

La terapia si basa sulla rimozione dell’agente causale e sulla cura dei sintomi, nei casi più
gravi si fa dialisi. Alcuni utilizzano anche i CS, non ci sono però studi che ne confermino
l’efficacia.

267
La prognosi è favorevole una volta rimosso l’agente causale

Tra le varie forme, ricordiamo:

1. Nefrite interstiziale acuta da Rifampicina: insorge generalmente dopo un mese di tp a


distanza di circa 1h dall’ultima assunzione. Si manifesta con brividi, mialgie e
artalgie, dolori lombari e addominali, vomito e oliguria.

2. Nefrite interstiziale acuta da FANS (++selettivi per COX2): l’aumento della sintesi dei
leucotrieni secondario all’inibizione della COX porta ad attivazione dei LynT Helper
che portano ad infiammazione. Generalmente si ha guarigione spontanea alla
sospensione, se così non avviene e l’IRA permane per 1-2 settimane, si dà Prednisone.

3. Nefrite interstiziale acuta da Allopurinolo: è rara e generalmente reversibile. La causa


è un metabolita eliminato per via renale, fatto che avviene in misura ridotta nei pz
con IRC, che, dunque, sono a maggior rischio. Non si sa, però, se questo metabolita
sia in grado di indurre una reazione di ipersensibilità di tipo 3 o porti alla deposizione
di IC

4. Nefrite interstiziale acuta da IPP

Le forme croniche sono imputabili ai farmaci fino a 1/3 dei casi (++FANS). Si configurano
come una fibrosi interstiziale con infiltrazione di cellule mononucleate, accompagnata da
fenomeni degenerativi fino all’atrofia renale, che porta alla dialisi un quinto dei pazienti. Dal
momento che, in fase iniziale, il danno interessa prevalentemente la funzione tubulare,
avremo deficit di concentrazione con poliuria e proteinuria a basso peso molecolare. Nelle
fasi successive si associano l’interessamento glomerulare e vascolare, con riduzione del
filtrato glomerulare, ipertensione e anemia.

Il trattamento prevede la rimozione dell’agente eziologico e la dialisi nei casi più gravi.

NEFROPATIA OSTRUTTIVA ASSOCIATA A DANNO TOSSICO


Si ha precipitazione endotubulare di cristalli contenenti il farmaco o un suo metabolita con
acido urico, possibile danno tossico diretto. I farmaci responsabili sono Methtrexate,
Acetazolamide, Ciprofloxacina, Sulfonamidi, Rifampicina e Aciclovir.

268
INSUFFICIENZA RENALE ACUTA - IRA
È una condizione caratterizzata da rapido deterioramento della funzione renale (secondo la
definizione KDIGO può essere definita come aumento della creatinina sierica di più di 0,3
mg/dl entro 48h, come aumento della creatinina sierica di più di 1,5 volte rispetto al livello
basale o come un output urinario minore di 0,5 ml/kg/h per 6h) con accumulo di cataboliti
azotati e difficoltà del controllo idro-elettrolitico e dell’equilibrio acido-base.

! Nonostante per comodità si utilizzi, la creatinina è un cattivo predittore della funzione


renale del pz e anche le formule calcolate utilizzando i valori di creatinina sono state
sviluppate per pz cronici e non funzionano, invece, in acuto [anche in cronico, la CKD-EPI è
più accurata rispetto alla Cockroft, il problema è che nei trial viene usata quest’ultima, alla
cui dunque ci si deve attenere. C’è poi la MDRD che è a metà strada come affidabilità]

Specie nei pz ospedalizzati, l’IRA è una condizione piuttosto comune, in particolare se


sussistono fdr come:

- IRC preesistente, infatti spesso è un’acuta su cronica in quanto questa predispone a un


danno renale acuto
- Malattia Renale Cronica
- Scompenso cardiaco
- Ipertensione
- Malattia coronarica
- Agenti nefrotossici: oggi uno molto comune è il mezzo di contrasto
- Infezione/Sepsi severa: quasi sempre i paziente septici avranno un’IRA di qualche
grado
- Pazienti in terapia intensiva con ventilazione meccanica

Dal punto di vista clinico, l’insorgenza di IRA si associa alla comparsa di:

- Iperazotemia
- Ipervolemia: spesso, non sempre; quando non presente bisogna evitare che si
sviluppi.
- Alterazioni elettrolitiche: spesso c’è iperkaliemia, nei casi più preoccupanti, poi,
possono aggiungersi iposodiemia o ipocalcemia.
- Acidosi metabolica
- Ipertensione o ipotensione
- Oliguria-anuria frequente (è importante controllare la diuresi posizionando un
urinometro; spesso per altro questo è utile a prescindere dal rischio di comparsa di
IRA, specie se il pz è affetto da shock settico, scompenso cardiaco, EPA o infezioni
gravi). La diuresi dà informazioni importanti anche per ipotizzare una causa: se il pz è
anurico si può pensare ad un’occlusione vascolare acuta, a necrosi corticale
bilaterale, GN acuta necrotizzante o a occlusione completa. Se il pz si presenta
oligurico posso orientarmi principalmente su forma pre-renali o sulla necrosi tubulare
acuta. Infine, se non c’è oliguria, posso pensare a necrosi tubulare acuta o ad
un’ostruzione parziale.

269
Oltre all’anamnesi e all’esame obiettivo, per la diagnosi si devono dunque richiedere gli
esami di laboratorio urgenti per poter verificare la presenza delle alterazioni dette prima, in
associazione all’emocromo con formula e all’esame delle urine.

Sostanzialmente, quindi, la diagnosi richiede esami di laboratorio, misurazione della diuresi,


esame delle urine, valutazione della funzione tubulare, studio dell’anatomia dei reni e del
flusso ematico renale e, talvolta, biopsia renale. Gli esami strumentali da richiedere con
urgenza comprendono ECG, RX torace e addome e eco addome. Sono, invece, considerati
di secondo livello la TC addome, il doppler dei vasi renali, l’urografia discendente e la
pielografia ascendente.

Si può poi decidere di calcolare altri indici come la frazione di escrezione del sodio (FENa),
utile per stimare la tipologia di IRA. Un indice un po’ grossolano è il rapporto tra azotemia e
la creatinina perché se la prima è molto più elevata della seconda, tipicamente si tratterà di
forme pre-renali. Un altro aspetto utile può essere la valutazione dei diametri della cava con
l’eco bedside, la quale è un ausilio importante, ma non deve sostituire la clinica.

IRA PRE-RENALE (30-60%)


Si associa a:

- Ipovolemia: perdite renali, gi, emorragie, diuretici non correttamente dosati…


- Riduzione della GC: scompenso cardiaco, tamponamento cardiaco
- Vasodilatazione sistemica: sepsi, anafilassi, anestetici
- Vasocostrizione dell’arteriola afferente: FANS, inibitori della calcineurina, mdc,
ipercalcemia, sindrome epato-renale.
- Vasodilatazione dell’arteriola efferente: sartani, ACE-ib.
- Insufficienza circolatoria: shock settico, SCA

! I cirrotici posso avere una fase evolutiva nella quale si instaura un circolo vizioso: la
cosiddetta “sindrome epatorenale” che ha una fisiopatologia complessa (e nemmeno
chiarita), in cui vi è un peggioramento reciproco tra funzione epatica e renale. Spesso è
difficile risolverla, di fatto non vi è una terapia eziologica ma è più che altro di supporto.
Probabilmente il problema è la “falsa” ipovolemia che instaura meccanismi che permettono
il recupero di sodio e acqua e la vasocostrizione, la quale riduce, però, la quantità di sangue
che arriva al glomerulo.

Fisiologicamente, grazie ai meccanismi di autoregolazione, per variazioni di PA comprese


tra 70 e 170mmHg, la VFG non si modifica; sotto i 70mmHg, però, si ha ischemia renale e
riduzione della VFG. Si hanno diverse fasi:

1. Ipoperfusione corticale: si ha calo della VFG e della ClUrea e aumento del


riassorbimento di Na+ e acqua.
2. Ipoperfusione midollare: diminuisce l’osmolarità urinria ed è indice di necrosi
tubulare incipiente.
3. Ischemia midollare (non oligurica)
4. Necrosi tubulare acuta (IRA oligurica –> passaggio a forma renale per
danneggiamento renale dovuto all’ipoperfusione)

270
5. Ischemia corticale con necrosi completa o incompleta: c’è uremia acuta con oligo
anuria.

IRA RENALE (40%)


Le cause possono essere:

- Microvascolari: malattia atero-embolica, SEU, PTT, ipertensione maligna…


- Macrovascolari: trombosi/embolia bilaterale delle arterie renali, aumento della
pressione delle vene renali per aumentata pressione intraddominale.
- GN acute
- Ostruzione intratubulare correlata a paraproteinemia, sindrome da lisi tumorale a o
deposizione di cristalli.
- Rigetto di tx renale
- Nefrite interstiziale acuta:
o Da farmaci: Penicilline, cefalosporine, FANS, PPI, Allopurinolo, Tiazidici
o Infezioni
o Malattie autoimmuni
o Neoplasie: linfomi e leucemie.
- Danno tubulare acuto:
o Da farmaci: Aminoglicosidi (4°-6° giorno; nonostante causino comunemente
IRA, si usano perché sono farmaci efficaci, ad ampio spettro e molto potenti),
litio, Amfotericina, Cisplatino, mdc (se compare, generalmente, avremo IRA
immeditamente dopo la somministrazione, specie in pz con CKD, mieloma o
DM. Si discute su come prevenire l’IRA da mdc; pare utile espandere il
volume, alcuni poi danno bicarbonato o N-Acetilcisteina anche se non sono
presenti molte evidenze).
o Da tossine endogene: rabdomiolisi, emolisi intravascolare.

IRA POST RENALE (5-10%)


Può essere dovuta a:

- Cause intrinseche: calcoli uretrali bilaterali, vescica neurologica, coaguli.


- Cause estrinseche: fibrosi retroperitoneale, neoplasie, ipertrofia prostatica.

GESTIONE DEL PZ CON IRA


La rapidità della diagnosi è fondamentale per migliorare la prognosi.

La terapia è indirizzata alla risoluzione delle cause specifiche di IRA, si deve poi tentare di
ristabilire la diuresi (in caso di oliguria, si danno SF o Ringer. Inoltre, un approccio
conservativo consta di dieta ipercalorica ma ipoproteica, controllo giornaliero del peso
corporeo e controllare l’apporto idrico (che deve essere limitato, ad eccezione delle forme
pre-renali). Si devono poi sospendere ACE-ib e sartani.

Bisogna, poi, tenere conto che, con la progressione dell’insufficienza renale, possono
comparire altre alterazioni che devono essere corrette:

- Iperkaliemia: se moderata (<6mEq/L), può essere tratta con la restrizione dell’apporto


di potassio e con l’utilizzo di resine; se diventa importante o se ci sono alterazioni

271
all’ECG, invece, si possono somministrare calcio gluconato, glucosio e insulina (fa
entrare il potassio nelle cellule), beta2-agonisti e bicarbonato in caso di acidosi.
L’iperkaliemia grave refrattaria al trattamento medico è un’indicazione alla dialisi
urgente.
- Acidosi metabolica, se moderata, può essere tattata con 650-1500mg/x3die di
bicarbonato; se è grave il bicarbonato va dato EV e bisogna monitorare attentamente
la correzione dei parametri all’EAB. L’acidosi refrattaria alla tp medica è indicazione
alla dialisi urgente.
- Sovraccarico di volume: dal momento che una situazione di questo tipo può
aggravare l’IRA, è necessario equilibrare l’input e l’output di liquidi. Se, come spesso
accade, c’è oliguria, si somministrano generalmente diuretici dell’ansa EV. Se
compare edema polmonare refrattario si fa dialisi.
- Anemia: la causa è principalmente una diminuita produzione eritrocitaria. Si fanno
trasfusioni se sono presenti sintomi riferibili all’anemia stessa.

Bisogna monitorare strettamente il pz per essere pronti a sottoporlo a dialisi in caso si


verifichi uno dei casi sopra riportati o in caso si assista ad un aumento dell’uremia,
preferibilmente prima che sia talmente grave da poter mettere in pericolo la vita del pz.

Nei pz con IRA pre-renale bisogna considerare che, almeno fino a che non insorge la necrosi
tubulare, si è in una situazione reversibile con riempimento volemico adeguato. Se però, alla
base c’è la sepsi, il riempimento volemico non sarà sufficiente e la prognosi sarà
notevolmente peggiore. In generale, tanto prima si rimuove la causa, maggiore sarà la
possibilità di recupero completo della funzione renale. Sempre per evitare un danno non
reversibile della funzione renale, è importante prevenire la necrosi tubulare acuta cercando
di ripristinare il prima possibile la perfusione renale e limitando l’esposizione ad agenti
nefrotossici come mdc o antibiotici, a meno che non siano strettamente necessari. Per
sostenere il circolo è possibilire usare noradrenalina, la quale viene preferita alla Dopamina,
perché sembra avere il miglior effetto pressorio a fronte di minori effetti pro-aritmici.

Nei pz con IRA post-renale è fondamentale rimuovere l’ostruzione perché, in questo modo,
spesso si ripristina la diuresi e si ha il recupero.

272
MALATTIA RENALE CRONICA – CKD
È una condizione caratterizzata da riduzione nefronica per distruzione anatomica
irreversibile degli stessi. Si tratta del punto di arrivo di diverse nefropatie ed è un importante
fdr per morbilità e mortalità cv. Sostanzialmente si va ad instaurare un circolo vizioso tale
per cui un iniziale insulto porta al peggioramento funzionale e al calo del numero dei
nefroni, quelli residui aumenteranno dunque il loro filtrato e andranno anch’essi incontro a
danneggiamento. Alla base possono esserci nefropatia vascolare (22%), nefropatia diabetica
(20%), glomerulonefriti (10%), cause congenite ed ereditarie (7%) o cause sconosciute
perché il pz è arrivato all’attenzione del medico quando ormai il rene era grinzo e non si
riesce a fare diagnosi eziologica. In alcuni, rari, casi è possibile che le cause che portano a
CKD siano reversibili.

La classificazione delle malattie renali croniche viene fatta seguendo le linee guida KDOQI
sulla base del calcolo della ClCr:

- Stadio 1 (ClCr>90): danno renale con funzionalità renale normale o aumentata


- Stadio 2 (ClCr 60-89): danno renale con compromissione funzionale lieve

- Stadio 3a (ClCr 45-59): danno renale con compromissione funzionale modesta


- Stadio 3b (ClCr 30-45): danno renale con compromissione funzionale modesta
- Stadio 4 (ClCr 15-29): danno renale con compromissione funzionale grave
- Stadio 5 (ClCr<15): insufficienza renale terminale

A partire dallo stadio 3 cominciano le complicanze e si parla di malattia renale cronica. In


realtà, per applicare quest’ultima definizione, non è necessario avere un calo della VFG (se
particolarmente ridotta, per stimarla è utile sostituire la formula di Cockroft-Gault con quella
MDRD; se, invece, il pz assume farmaci come la Cimetidina o il Trimetoprim che alterano il
dosaggio della creatinina è utile dosare l’urea), il danno renale può, infatti, anche
manifestarsi con albuminuria >30mg/die, alterazioni istopatologiche alla biopsia o
alterazioniall’imaging. Fondamentale è che la condizione perduri da almeno tre mesi
perché, in caso contrario, siamo nell’ambito di danni acuti.

In generale, per definire la prognosi del pz ci si può rifare alle linee guida KDIGO del 2012.
La progressione è generalmente lenta, ma dipende dalla patologia di base, dai trattamenti,
dalle comorbidità, dallo stato socioeconomico, da fattori generici o polimorfismi non meglio
precisati. I soggetti con VFG tra 15 e 60 progrediscono allo stadio terminale con un tasso
dell’1% circa annuo.

I pz devono essere seguiti ambulatorialmente. La frequenza dei controlli dipende da una


stratificazione del rischio fatta attraverso una tabella che mette in relazione diversi parametri,
come VFG, elettroliti ecc.

Nella gestione di un pz con malattia renale cronica devo:

1. Trattare le eventuali cause reversibili di danno renale:

273
a. Ridotta perfusione renale (ipovolemia, diarrea, vomito, ipotensione,
sanguinamento, farmaci che riducono la VFG come i FANS, gli ACE-ib ed i
sartani). L’ipovolemia può essere corretta con somministrazione di liquidi e
può essere utile per capire se vi sia una quota di danno “funzionale” e, quindi,
reversibile.
b. Farmaci nefrotossici, come gli antibiotici aminoglicosidici. Sarebbero da
evitare, ma in caso fosse necessario, andrebbe adeguata la posologia. Altri
farmaci: FANS, mdc…
c. Ostruzione delle vie urinarie: da tenere in considerazione di fronte a
peggioramenti inspiegabili della funzione renale, anche in assenza di patologia
prostatica. Utile in tal senso l’ecografia.

2. Prevenire o rallentare la progressione della malattie renale: alcuni fattori determinano


un peggioramento della funzione renale pur essendo indipendenti dalla causa
scatenante; si tratta dell’ipertensione (può essere sia causa che conseguenza della
malattia renale) e dell’ipertrofia intraglomerulare, entrambe funzionali all’aumento
della filtrazione che alla lunga sfianca il glomerulo portandolo a sclerosi. Su questi è
possibile agire tramite ACE-ib e sartani, che vanno comunque sospesi quando la VFG
è troppo bassa. Questi farmaci permettono di agire su due dei target della tp:
l’abbassamento della PA al di sotto di 140/90mmHg e la riduzione della proteinuria
fino a 500-1000mg/g di creatinina urinaria, o almeno al di sotto del range nefrosico.
Essi hanno poi un effetto renoprotettore, che risulta particolarmente evidente nel caso
di proteinuria in range nefrosico. Oltre a ciò, essendo che l’ipertensione è spesso
volume dipendente, è opportuno ricorrere anche ai diuretici: nelle prime fasi si
preferiscono i tiazidici, in fasi più tardive si passa a quelli dell’ansa. Andrebbero
evitati i diuretici risparmiatori di potassio perché ACE-ib e sartani si associano a
iperpotassiemia e si rischierebbe di esasperare questa situazione. Infine, per il
controllo della pressione si possono associa calcio-antagonisti e alfa-litici. Altre cause
potenzialmente controllabili per rallentare la progressione sono acidosi metabolica,
malattie tubulointestiziali e dislipidemie. Anche la dieta ha un ruolo nel rallentare la
progressione: i fattori da prendere in considerazione sono molteplici, ma, nella
maggior parte dei casi, l’approccio migliore sarebbe quello rappresentata dalla dieta
DASH (Dietary Approach to Stop Hypertension), caratterizzata da abbondanti
quantità di frutta, verdura, cereali e proteine sane. Se la VFG è superiore a 60, non vi
sono indicazioni particolari. In caso contrario, ma sempre in assenza di sindrome
nefrosica e trattamento dialitico, sarebbe opportuno restringere l’apporto di proteine a
meno di 0,8 g/kg di peso corporeo, con predilezione per le varianti vegetali. Altro
aspetto importante è l’apporto di sale: se VFG < 60 si dovrebbe ridurlo a meno di
5g/die, altrimenti potrebbe arrivare a 5,7-6 g/die. L’assunzione di potassio andrebbe
individualizzata sulla base del potassio sierico, e la restrizione non è necessaria fino a
valori di VFG inferiori a 30. Consigliare ai pz di limitare l’assunzione di frutta e
verdura ricche di potassio, in tal caso. Il calcio è un elettrolita dal controllo delicato:
l’assunzione non dovrebbe superare i 1500 mg complessivi (dieta + integrazione) al
giorno -alcuni dicono addirittura 1000mg/die-, pena il rischio di calcificazione se
concomitante ad iperfosfatemia. Come sempre, fosforo e calcio vanno valutati sempre
in contemporanea, dando la precedenza al primo nel trattamento. Per quanto
riguarda l’apporto calorico, in caso di VFG < 60, dovrebbe essere ristretto a 30-35
kcal/die; si consideri a tal proposito che l’obesità si correla di per sé a nefropatia e
spesso si associa a diabete.
274
3. Regolare le dosi dei farmaci che il passente assume sulla base della funzionalità
renale.

4. Trattare le complicanze (v.di dopo)

5. Identificare e prepare adeguatamente i pz in cui sarà richiesta una sostituzione renale:


il rinvio allo specialista nefrologo è indicato nel momento in cui VFG<30mL/min.
Diversi studi hanno dimostrato che, se un pz viene inviato troppo tardi al nefrologo
per il trattamento sostitutivo (dialisi, trapianto), la prognosi non è buona. La differenza
è che la dialisi si limita a svolgere parzialmente la funzione filtrante del glomerulo, non
riesce però a vicariare altre funzioni importanti che il rene svolge abitualmente,
motivo per cui i pz dializzati necessitano di molte tp di supporto e, nonostante questo
hanno un’aspettativa di vita molto ridotta. Al contrario, il tx è l’unica tp che permette
una vera sostituzione della funzione renale, intesa come un insieme di compiti
complessi che l’organo riesce a svolgere.

COMPLICANZE CDK
Il peggioramento della funzione renale si associa a diverse problematiche:

1. Alterazioni idro-elettrolitiche:

a. Ritenzione idro-sodica: precocemente si manifesterà nicturia perché il tubulo


non risponde più correttamente all’ADH; poi si ha una fase poliurica da
mancata concentrazione per aumento del carico osmotico nei nefroni
funzionanti; in fase tardiva c’è, invece, ritenzione perché il numero di nefroni
rimasto è troppo basso. Si arriverà dunque ad una situazione di ipertensione
correlata all’aumento di volume con possibile formazione di edemi. Il
sovraccarico di volume si gestisce con i diuretici: fino ad una VFG di
30mL/min si usano i diuretici tiazidici, al di sotto sono da preferire quelli
dell’ansa.
b. Iperkaliemia: l’insulina e l’aldosterone controllano fisiologicamente la kaliemia,
in IRC terminale il K+ non viene più espulso dal rene e viene anche estromesso
dalle cellule in scambio con H+ per tamponare l’acidosi metabolica; diventa
allora importante che il colon riesca ad espellere la maggior parte del K+
ingerito, motio per cui bisogna evitare la stipsi. Per il controllo della
potassiemia è poi utile somministrare bicarbonati che tamponino l’acidità
metabolica, insulina, eventualmente associata al glucosio se il pz non è
diabetico, diuretici e resine a scambio ionico che intrappolino K+ nell’intestino.

2. Alterazioni dell’equilibrio acido-base: un individuo con una dieta varia assume 60-
70mEq/L/die di acidi fissi (solfati e fosfati), i quali vengono fisiologicamente tamponati
dal bicarbonato ed espulsi dal rene, il quale ha anche la funzione di reintegrare le
scorte di bicarbonato. In IRC questi meccanismi tampone non risultano funzionanti,
c’è quindi un aumento degli acidi che, oltre a portare alla già citata iperkaliemia, si
associa anche ad un aumentato catabolismo proteico e a decalcificazione ossea. È
utile somministrare 1-2g di bicarbonato al giorno in modo da mantenere il livello di
bicarbonati ematici tra 23 e 29mEq/L.

3. Complicanze neuromuscolari e cutanee:


275
a. A livello di SNC e SNP si potrebbero avere ipersonnia, convulsioni, psicosi,
burning foot e restless leg syndrome dovuti ad accumulo di tossine uremiche, il
cui primo segno è la comparsa di pallestesia.
b. A livello muscolare ci potrà essere astenia
c. A livello cutaneo potremo avere colorito terreo, brina uremica, porpora da
ridotta funzionalità piastrinica e pruriro secondario a ipercalcemia e
iperkaliemia.

4. Complicanze CV:

a. L’aumento dell’attività del simpatico e del SRAA porta l’85% dei pz affetti da
IRC ad avere ipertensione; la quale è comunque da preferire all’ipotensione
poiché esso è indicativa di scompenso sx che può instaurarsi in seguito
all’aumento pressorio e alla ritenzione idrica.
b. Pericardite uremica
c. Aritmie da alterazioni elettrolitiche

5. Complicanze ematologiche:

a. Anemia: è dovuta al deficit di EPO e alla ridotta sopravvivenza dei globuli rossi
a causa della presenza di tossine uremiche e per lo stress ossidativo. Dopo
aver escluso altre cause di anemia e verificato che i livelli di Hb siano inferiori
a 10, si comincia una tp con 4 000-10 000U di EPO alla settimana (Se il pz
assume ACE-ib o Sartani la dose necessaria sarà maggiore). Dopo circa 2 mesi
generalmente si raggiunge il target, che deve essere quello di ottenere valori di
Hb di circa 11-12g/dL, o leggermente più elevati in caso di pz giovani o di pz
cardiopatici, non si devono mai, però, superare i 13g/dL. Non bisogna avere
fretta per evitare bruschi cambiamenti dell’ematocrito, né portare Hb a valori
più alti per il rischio di ictus e infarti a causa dell’azione vasocostrittrice
dell’EPO che va ad associarsi al fenomeno di ispissatio sanguinis. Gli effetti
collaterali dell’EPO comprendono aumento dell’appetito, peggioramento
dell’ipertensione e aplasia isolata della serie rossa per sviluppo di ab anti-EPO.
b. Riduzione della funzionalità piastrinica

6. Alterazioni ormonali:

a. é: PTH, gastrina, PRL, RAA, FSH, LH, insulina (!abbassare il dosaggio nel
diabetico)
b. ê: testosterone, estrogeni, fT3, fT4 (il TSH sarà invece nella norma: si pensa ci
sia un deficit di risposta ipofisaria dovuta ad un’azione differente delle deiodasi
periferiche rispetto a quelle ipofisarie)

7. Effetti metabolici:

a. Alterata tolleranza ai carboidrati


b. Decremento ponderale
c. Aumento del catabolismo proteico e riduzione dell’anabolismo

276
d. Dislipidemia, specie in caso di proteinuria in range nefrosico. Si possono dare
statine a piccole dosi o 1g/die di omega3. Bisogna, invece, prestare attenzione
ai fibrati perché, in questi pz, danno più frequentemente effetti collaterali
come la pancreatite (non vengono, infatti, metabolizzati correttamente dal
rene.

8. Effetti digestivi: ci possono essere nausea, vomito e mancanza del senso di fame,
motivo per cui il pz mangerà poco, ciò potra aggravare la situazione degli edemi
perché con la malnutrizione si riduce ulteriormente l’albumina.

9. Effetti polmonari: si può avere il cosiddetto polmone uremico che è un quadro


pressochè sovrapponibile a quello di edema polmonare.

10. Complicanze ossee: il nostro organismo tende a mantenere costante il prodotto Ca2+
x P a livello ematico. In IRC avremo un aumento della fosforemia, al quale dunque
corrisponde un aumento della deposizione di fosfati di calcio a livello osseo come
meccanismo di compenso; allo stesso tempo le pratiroidi produrranno quantità
maggiori di PTH per mobilizzare una maggior quantità di calcio dall’osso e ridurre il
riassorbimento di fosforo. Alla lunga questa situazione si traduce in iperparatiroidismo
secondario, aggravato dal fatto che, a causa dellla patologia renale, una minor quota
di VitD viene attivata e dunque c’è meno VitD che ha un effetto downregolante sulle
paratiroidi. Nel tempo, inoltre, il meccanismo di compenso non risulterà più
funzionante perché, anche se stimolato, il rene non riuscirà ad eliminare quantità
sufficienti di fosforo che quindi si accumulerà sempre di più.

Si parla di mineral bone disease perché coesistono alterazioni biochimiche, lesioni


ossee e calcificazioni. È importante ridurre l’apporto dietetico di fosfati per
mantenerne il valore ematico al di sotto dei 4-5mg/dL ed, eventualmente, utilizzare
chelanti intestinali per il fosforo. Il danno osseo viene trattato con i bicarbonati. Per
quanto riguarda, invece, l’iperparatiroidismo, si interviene per valori di PTH
persistentemente al di sopra di 150-200 pg/ml in seguito a correzione di calcio e
fosforo. Si tratta con calcitriolo 0,25 µg 3 volte a settimana, a meno che calcio e
fosfati siano elevati. Infine, per intervenire sull’attivazione incontrollata delle
paratiroidi possono essere utili calcio-mimetici.

277
EQUILIBRIO ACIDO-BASE
La concentrazione normale degli ioni H+ nei liquidi corporei è estremamente bassa, di circa 40nEq/L.
Tuttavia, poiché gli idrogenioni sono chimicamente molto reattivi, per garantire la normale funzione
cellulare, è necessario che detta concentrazione (espressa per convenzione come pH), venga
mantenuta stabile. Il range entro cui la concentrazione extracellulare degli ioni H+ risulta compatibile
con la vita è, infatti, piuttosto ristretto e varia tra 16 e 160nEq/L, corrispondente a un pH compreso
tra 7.80 e 6.80. Le variazioni del pH avvengono in seguito a variazioni del rapporto tra la
concentrazione dei bicarbonati (HCO3) e la pCO2, come descritto dall’equazione di Henderson-
Hasselbach.

pH H+ pCO2 HCO3
Vn sangue arterioso 7.37-7.43 37-43nEq/L 36-44mmHg 22-26mEq/L
Vn sangue venoso 7.32-7.38 42-48nEq/L 42-50mmHg 23-27mEq/L

Tamponi chimici, extracellulari e intracellulari, insieme a meccanismi compensatori respiratori e renali


sono deputati a mantenere il pH nello stretto range di normalità.

Il sistema HCO3/CO2 è il principale tampone dei liquidi extracellulari, sia per l’elevata
concentrazione di HCO3, sia perché le due variabili possono essere controllate in maniera
indipendente dai reni e dai polmoni.

In particolare, i livelli di bicarbonato vengono regolati dai reni attraverso tre meccanismi principali:

1. Riassorbimento di HCO3 filtrato


2. Produzione di acidità titolabile
3. Escrezione urinaria di NH4+

Il rene filtra ogni giorno circa 4000mmol di HCO3 e i tubuli renali per riassorbire questo carico
devono secernere circa 4000mmol di H+. Circa l’80-90% di HCO3 viene riassorbito a livello del
tubulo prossimale, mentre il nefrone distale è deputato a riassorbirne la parte restante e a secernere
H+ al fine di mantenere costante il pH sistemico. Acidosi extracellulare, volemia efficace, sistema
renina-angiotensina e kaliemia sono i fattori in grado di controllare il riassorbimento prossimale di
bicarbonati e l’escrezione di idrogenioni nel tubulo distale. Per un adeguato mantenimento
dell’equilibrio acido-base, il riassorbimento degli HCO3 filtrati è fondamentale in quanto una perdita
di HCO3 con le urine equivale a una ritenzione di ioni H+, entrambi derivati dalla dissociazione di
H2CO3. Una parte degli ioni H+ secreti si combina con HPO4 e con NH3 e viene eliminata
nell’urina come acidità titolabile o come NH4+ portando alla concomitante rigenerazione di HCO3
e, di conseguenza, a un aumento della loro concentrazione plasmatica.

La CO2 nell’organismo agisce come un acido combinandosi con l’acqua a formare H2CO3 e la sua
concentrazione viene regolata dal livello di ventilazione alveolare perché viene eliminata attraverso i
polmoni. Ogni giorno attraverso i processi metabolici vengono prodotte circa 15 000 mmol di CO2.
A ciò va ad aggiungersi il fatto che, con una dieta normale, si ha quotidianamente la formazione di
50-100mEq di H+ per lo più derivanti dal metabolismo aminoacidico. Questi vengono dapprima
tamponati da HCO3 e dai tamponi cellulari e ossei; successivamente l’escrezione urinaria di H+
come acidità titolabile o NH4+ permette la rigenerazione degli HCO3 che vengono consumati in fase
iniziale di tamponamento.

Di fronte ad alterazioni dell’equilibrio acido-base, la funzionalità renale e quella respiratoria


si modificano per riportare il pH nel range di normalità. Infatti, quando la concentrazione di
ioni H aumenta, indipendentemente dalla causa, aumenta la ventilazione polmonare e, di

278
conseguenza, la pCO2, e/o aumenta la secrezione renale di idrogenioni con il risultato di
aumentare la concentrazione plasmatica di bicarbonati. Al contrario, quando la
concentrazione degli ioni H+ diminuisce, si riduce la ventilazione alveolare e/o la secrezione
renale di idrogenioni. Una variazione di pH extracellulare si può verificare, pertanto, in
presenza di alterazioni della funzionalità renale o respiratoria o quando un carico acido o
alcalino supera la capacità escretoria dell’organismo.

Si definiscono acidemia e alcalemia la presenza di un pH inferiore o superiore alla norma. I


termini alcalosi e acidosi si riferiscono ai processi patologici che portano alla riduzione o
all’aumento del pH. Di solito un processo che porta ad acidosi porta ad acidemia e uno che
causa alcalosi determina alcalemia; tuttavia, nei disturbi misti, il valore finale del pH deriva
dal bilancio delle varie patologie concomitanti. Le variazioni della concentrazione degli H+, e
dunque del pH, possono essere indotte primitivamente da alterazioni della concentrazione
plasmatica di HCO3 o della PCO2. Le alterazioni primitive della pCO2, poiché essa è
regolata dalla respirazione, sono chiamate acidosi respiratoria e alcalosi respiratoria; le
alterazioni primitive della concentrazione di HCO3 conferiscono invece l’aggettivo
metabolica. In ciascuno di questi disordini, le risposte compensatorie renali e respiratorie
sono finalizzate a minimizzare le variazioni della concentrazione di H+. I disturbi misti sono
condizioni in cui due o più disturbi semplici coesistono, il pH risultante può anche essere
normale e spesso sono osservati in pz critici.

Una corretta interpretazione dell’equilibrio acido-base richiede un’analisi sistematica in


modo da identificare il difetto e provvedere alle misure terapeutiche più appropriate. Uno
squilibrio acido-base deve essere sospettato nel caso in cui:

1. Dal punto di vista anamnestico vengono riportati insufficienza respiratoria,


insufficienza renale, DM scompensato o ingestione di farmaci o tossici
2. Il pz si presenti cianotico: è espressione di ipossiemia, alla quale, negli stadi più
avanzati di insufficienza respiratoria, si aggiunge l’ipercapnia con acidosi perchè non
si riesce ad eliminare abbastanza CO2.
3. Il pz iperventila: se l’iperventilazione è secondaria significa che sta avvenendo come
risposta all’ipossia; nelle forme primarie, invece, ad esempio in caso di attacco di
panico, può portare il pz ad alcalosi per eccessiva eliminazione della CO2.
4. Il pz presenta parestesie e tetania: in alcalosi c’è ipocalcemia apparente perché si
riduce il calcio libero che viene internalizzato nelle cellule in scambio con ioni H+ nel
tentativo di acidificare.
5. Il pz presenta diarrea: porta a perdere bicarbonati e, dunque, ad acidosi.
6. Il pz sia in stato soporoso o in coma.
7. Il pz abbia alitosi acetonemica: i corpi chetonici hanno valenza acida, dunque un loro
eccesso porta ad un abbassamento del pH.

Dapprima occore valutare il pH per classificare il disturbo come acidosi o alcalosi e,


successivamente, la concentrazione di HCO3 e pCO2 per identificare se si tratta di un
disturbo metabolico o respiratorio. Infine, per verificare se il disturbo acido-base sia semplice
o misto, è necessario confrontare i parametri osservati con il compenso atteso.

In caso di sospetto, per fare diagnosi, oltre al dosaggio degli elettroliti, è fondamentale un
EAB. Per essere sicuri che il prelievo sia stato arterioso possono guardare la pO2, ma, se
voglio escludere che possano esserci stati inquinamenti o diluizioni posso calcolare la [H+]

279
con l’equazione di Henderson (H+=24xPaCO2/HCO3]. Il risultato ottenuto con questa
formula va sottratto ad 80 e, in questo modo, si ottengono 2 cifre decimali da aggiungere a
7: per esempio, se la [H+] fosse 43, sottraendolo ad 80 otterrei 37, il pH sarà dunque 7.37. il
valore così ottenuto può essere confrontato con i risultati dell’EAB: se i due valori differiscono
per più di 0.04 c’è un errore procedurale o del laboratorio. I dati dell’EAB permettono di
definire l’alterazione presente e definire se l’alterazione sia compensata o meno.

[L’EAB consiste in un prelievo arterioso effettuato a livello radiale o femorale. La sede radiale è
generalmente quella preferenziale, a meno che non ci siano deficit dei circoli collaterali (si potrebbe
fare il test di Allen per verificarlo, la Muiesan dice però che non si fa quasi mai). Il sangue viene
prelevato servendosi di una siringa eparinata, all’interno della quale non devono esserci bolle d’aria,
viene poi messo in ghiaccio e deve essere rapidamente analizzato per scogiurare la formazione di
coaguli o la sofferenza cellulare che altererebbe i valori. Tramite questo esame si valute la Pa02 (vn
80-100mmHg), PaC02 (vn 35-45mmHg) e il pH arterioso (vn 7.35-7.45); possono poi essere ricavati
anche valori di bicarbonati (vn 22-26mmol/L), gli elettroliti, i lattati (vn <4mEq/L) e l’eccesso di basi
(-2;+2)].

ACIDOSI RESPIRATORIA
Viene eliminata meno CO2 a livello polmonare e di riflesso aumenta sia la concentrazione di
HCO3 che quella della ioni H+. Dal momento che il pH si abbassa, ma al contempo i
bicarbonati salgono (andamento discordante) potrò dedurre che l’alterazione sia respiratoria.
Siamo nell’ ambito, ad esempio, di un’insufficienza respiratoria, acuta o cronica, che,
caratterizzandosi per ipoventilazione alveolare, comporta l’impossibilità che la CO2 diffonda
correttamente. Potrebbe correlarsi, ad esempio, a BPCO avanzata o a overdose di oppiacei.
Il meccanismo di compenso è rappresentato dai sistemi tamponi e dal compenso renale con
un aumento dell’escrezione di NH4+. Nonostante questo, in acuto è possibile che il pz abbia
cefalea, confusione mentale o sonnolenza; le forme croniche sono, invece, meglio tollerate
proprio in virtù del compenso.

Acidosi respiratoria acuta: ê pH; é PaCO2; é /= [HCO3-]


Acidosi respiratoria cronica (compenso): ê pH; é PaCO2; éé [HCO3-]

280
In acuto si avrà compenso quando per ogni rialzo di 10mmHg di PaCO2 si ha un aumento di
HCO3 di 1mmol. In cronico, la stessa variazione di PaCO2 si assocerà invece ad un aumento
di HCO3 di 4mmol.

La terapia dell’acidosi respiratoria dipende dalla sua gravità e dalla rapidità d’esordio:
l’acidosi respiratoria acuta è un evento grave e può risultare mortale. L’obiettivo deve essere
quello di correggere la patologia di base e di ristabilire un’adeguata ventilazione alveolare.
Infatti, l’ipercapnia è sempre associata a ipossiemia nei pz che respirano in aria ambiente e,
pertanto, la somministrazione di O2 assume un ruolo centrale nella gestione dell’acidosi
respiratoria. L’ossigenotp va graduata con attenzione perché la ventilazione può essere
sostenuta dall’ipossiemia e la sua correzione può portare ad un rapido peggioramento
dell’ipercapnia. Inoltre, una correzione energica e rapida dell’ipercapnia deve essere evitata,
in quanto una caduta rapida della PaCO2 può provocare aritmie cardiache, ridotta
perfusione cerebrale e crisi epilettiche.

[Sindromi da ipoventilazione: la riduzione della ventilazione causa ipercapnia con acidosi


respiratoria. Interverrà allora un compenso metabolico dato dal fatto che il rene trattiene il
bicarbonato alzando così il pH. Con ipoventilazione, però, si ha anche una riduzione della PaO2 in
modo simmetrico rispetto all’aumento della PaCO2. Spesso si ha dunque anche una policitemia
compensatoria perché cala la saturazione dell’emoglobina, ci può poi essere un aumento delle
resistenze arteriolari che, se la condizione perdura a lungo, può diventare anche anatomica, oltre che
funzionale, per la produzione di fattori mitotici.

1. Ipoventilazione centrale: il problema è o a carico dei chemocettori centrali o dei centri


respiratori primari. Possono essere dovuti a cause primarie, quindi essere idiopatici (o meglio
ancora dovuti a mutazioni che portano a problemi respiratori durante la notte), oppure
possono essere secondari a traumi, encefaliti, tumori, emorragie, SM o farmaci come gli
oppioidi che possono sopprimere i centri respiratori (nucleo pre-Botzinger). Ci sono poi pz in
cui c’è una predisposizione perché i chemocettori sono poco sensibili: se essi sviluppano
patologie come la BPCO diventeranno ipercapnici. In generale, comunque, nelle cause
centrali, la ventilazione è ridotta sia a livello alveolare che della bocca.
2. Ipoventilazione periferica: i problemi possono essere patologie neuromuscolari, patologie
della gabbia toracica o della colonna vertebrale o patologie polmonari (BPCO, fibrosi cistica,
stenosi laringo-tracheali). Nel primo caso la bassa forza che sono in grado di sviluppare i
muscoli respiratori porterà a lavorare con volumi ridotti; nel secondo caso ciò che è ridotto è
invece la compliance]

ALCALOSI RESPIRATORIA
Quando un soggetto iperventila, espelle più CO2 e dunque va in ipercapnia; essendo però
una forma respiratoria, gli andamenti saranno discordanti, quindi se il pH sale, i bicarbonati
si ridurranno. Questa condizione può verificarsi, ad esempio, in caso di embolia polmonare,
cerebropatie (tumori, encefalopatie) e in presenza di forme psicogene. Il pz presenterà
disturbi neuromuscolari, formicolii, parestesie e sensazione di “testa leggera”.

Alcalosi respiratoria acuta: é pH; ê PaCO2; ê /= [HCO3-]


Alcalosi respiratoria cronica (compenso): é pH; ê PaCO2; êê [HCO3-]

In acuto si può cominciare a parlare di compenso quando ad una riduzione di 10mmHg


della PaCO2 corrisponde una riduzione di 2mmol di HCO3; in cronico invece la riduzione di
HCO3 deve essere di 4mmol.

281
Di per sé, l’alcalosi respiratoria è raramente una condizione a rischio per la vita e, di
conseguenza, il trattamento in emergenza non è di solito indicato, a meno che il pH non sia
superiore a 7.5. Nei pz sottoposti a ventilazione meccanica che la sviluppano si devono
ridurre il volume corrente e/o la frequenza respiratoria. Una sedazione o un controllo del
dolore inadeguati possono contribuire all’alcalosi. Quando l’iperventilazione è dovuta ad
ipossiemia, sono indicati la somministrazione di O2.

[Sindromi da iperventilazione: sono legate ad un’eccessiva stimolazione da parte dei centri di


comando e la conseguenza è un alcalosi respiratoria dovuta all’iperventilazione, essa sarà
inizialmente acuta e poi compensata grazie all’eliminazione di bicarbonato da parte dei reni e grazie
allo scambio idrogeno-calcio da parte di pompe cellulari con riduzione del calcio ionizzato (per
abbassare il pH si internalizza calcio per buttare fuori ioni idrogeno) fino anche ad arrivare a tetania
normocalcemica o a sintomi da ipereccitabilità muscolare. Non si arriva, invece, generalmente, ad
una situazione di apnea perché la soglia correlata alla PaCO2 è molto bassa (10-15 mmHg) quindi
anche in condizioni di iperventilazione è difficile raggiungerla. L’alcalosi dipende da una riduzione
della PaCO2, quindi, anche quando interviene il compenso, che è di natura metabolica, persisterà
comunque una riduzione della PaCO2. Questa condizione può essere causata da:

1. Situazioni parafisiologiche che stimolano l’iperventilazione: parlare, febbre, sentire dolore e


un iperproduzione di progesterone nell’ultimo trimestre di gravidanza. Se il pz è molto
sensibile può mal sopportare questa situazione.
2. Problematiche neuropsichiche o psichiatriche: c’è iperventilazione correlata ad ansia o ad
attacchi di panico.
3. Situazioni in cui si ha ipossiemia e che dunque inducono l’attivazione dei sensori: ci possono
essere alla base patologie cardiache, polmonari o condizioni in cui i chemocettori sono molto
sensibili]

ACIDOSI METABOLICA
C’è riduzione di HCO3- con riduzione del pH. La causa può essere l’incapacità di eliminare il
carico di H+ della dieta, una ridotta produzione di NH4+, una ridotta secrezione di H+, un
aumentato carcio di H+ o una perdita di HCO3.

Acidosi metabolica acuta: ê pH; ê PaCO2; ê [HCO3-]

Il compenso avviene quando ad una riduzione di 10mmol di HCO3 corrisponde una


riduzione della PaCO2 di 12.5mmHg.

In acuto il pz avrà tipicamente disturbi gi, respiro frequente, profondo e relativamente rapido
(Kussmaul) e progressiva compromissione dello stato di coscienza. L’acidosi severa
(pH<7.10) determina riduzione della contrattilità del miocardio, vasodilatazione arteriosa
periferica e venocostrizione centrale, resistenza alle catecolamine e shock. Spesso l’acidosi si
accompagna ad iperkaliemia per fuoriuscita di potassio in scambio con gli H+. In cronico,
l’acidosi metabolica induce alterazioni dell’omeostasi cv, del metabolismo osseo, del
turnover proteico e di sistemi ormonali. Tale condizione favorisce, dunque, lo sviluppo di
scompenso cardiaco, osteopenia/osteoporosi, catabolismo proteico muscolare, insulino-
resistenza, ipertrigliceridemia e infiammazione sistemica.

L’acidosi metabolica può essere con gap anionico aumentato o meno: normalmente
l’organismo si trova in una condizione di neutralità in cui

282
[Cl-] + [HCO3-] + anioni non misurati = [Na+] + cationi non misurati

Anion Gap = [Na+] – [Cl-] – [HCO3-] = 10 ± 2 mEq/L.

L’anion gap aumenta in caso ci sia un’aumentata generazione di acidi o una loro ridotta
secrezione:

- Chetoacidosi (digiuno, alcol, diabete)


- Acidosi lattica (ipossia, shock, sepsi, crisi convulsive, biguanidi)
- Tossine: salicilati, metanolo, glicole etilenico
- IR avanzata

L’anion gap è inalterato nel caso in cui aumenti la concentrazione di H+, la perdita di
bicarbonati e parallelamente aumenti la concentrazione di cloro (acidosi ipercloremiche):

- Diarrea o fistole pancreatiche


- Acidosi tubulare o ureteroenterostomia
- Agenti acidificanti (HCl, cloruro di ammonio, cloridrato di arginina)
- Ipoaldosteronismo

Guardare l’anion gap è importante perché una sua alterazione potrebbe essere l’unico segno
di acidosi metabolica se il pz assume bicarbonati, se la causa è il vomito o se ci sono altre
alterazioni dell’equilibrio acido-base.

Il tratttamento consiste in primis nell’identificazione e nella correzione della patologia di


base. Per correggere l’acidemia, poi, si somministra bicarbonato di sodio, a meno che il pz
non abbia acidosi lattica o chetoacidosi diabetica, poiché queste ultime sono condizioni
nelle quali il metabolismo degli anioni organici provvederà da solo a rigenerare HCO3. In
caso di acidosi gravi si dovrevve riportare rapidamente il pH al di sopra di 7.2, poiché in
questo modo si riduce il rischio di aritmie e si recupera la contrattilità cardiaca e la risposta
alle catecolamine. Nel caso, invece, di forme più blande non è necessaria una correzione
rapida, la quale, al contrario, potrebbe portare ad una riduzione importante del pH del liquor
e dell’ossigenazione tissutale. Infatti, la somministrazione di NaHCO3 tende a ridurre la
risposta di compenso iperventilatoria e ad aumentare la pCO2: ciò comporta le alterazioni
vise prima; inoltre, l’aumento del pH ematico può spostare a sx la curva di dissociazione di
hb riducendo l’ossigenazione tissutale.

ALCALOSI METABOLICA
È dovuta ad un’aumentata produzione di bicarbonati o ad una perdita di acidi:

- Vomito: perdita di cloruri


- Diuretici
- Iperaldosteronismo e Cushing
- Grave perdita di K+
- Alcalosi postipercapnica

Alcalosi metabolica acuta: é pH; é PaCO2

283
Il compenso avviene quando ad un aumento di 10mmol di HCO3 corrisponde un aumento
della PaCO2 di 6mmHg.

Il riconoscimento delle cause che generano e mantengono l’alcalosi non è fondamentale solo
per l’inquadramento diagnostico e fisiopatologico, ma lo è soprattutto per le ricadute in
ambito terapeutico. Con l’eccezione della somministrazione di alcali in presenza di funzione
renale severamente compromessa, l’alcalosi metabolica persistente è sempre il risultato di
un’alterata regolazione dei trasporti che controllano il riassorbimento dei bicarbonati e
l’eliminazione degli acidi da parte del rene. In questo ambito, un ruolo fondamentale è svolto
dai meccanismi di trasporto ionico del tubulo collettore, la cui stimolazione è, di solito,
secondaria ad alterazioni del riassorbimento di ioni Na+ e Cl- che avvengono prima che le
urine giungano nella porzione distale del nefrone.

L’obiettivo della tp è primariamente quello di neutralizzare la causa dell’eccessiva


produzione di HCO3. La severità dell’alterazione e, pertanto, l’urgenza del trattamento
dipendono dal pH raggiunto: la correzione diviene assolutamente necessaria quando il pH
supera 7.55 perché c’è un aumento del rischio di morte. Le forme di alcalosi metabolica
cloro responsive associate ad ipovolemia si trattano efficacemente con SF che permette di
correggere sia l’alcalosi che la deplezione di volume: il raggiungimento di uno stato di
euvolemia costante consente, infatti, la ripresa della risposta bicarbonaturica del rene. I pz
con scompenso, cirrosi o sindrome nefrosica spesso sviluppano alcalosi metabolica in
risposta alla tp diuretica, sia per la presenza di ipovolemia efficace che si accompagna ad
aumento dell’avidità per il sodio, sia per l’insufficienza renale spesso associata che riduce la
capacità di eliminare i bicarbonati. Per questi pz si preferisce usare un diuretico inibitore
dell’anidrasi carbonica. Le forme non responsive al cloro si associano, invece, ad una volemia
normale o aumentata e la causa più comune è un eccesso di mineralcorticoidi: in questo
caso possono essere utilizzati diuretici risparmiatori di potassio. Una severa alcalemia con
espansione di volume o con nefropatia può essere trattata con soluzioni diluite di HCl
attraverso accesso venoso centrale per ridurre il rischio di emolisi.

ALTERAZIONI MISTE
Se le variazioni compensatorie non risultano appropriate devo pensare a forme miste.
Alterazioni diverse potrebbero poi in alcuni casi compensarsi quindi un pH nella norma non
esclude la presenza di alterazioni nell’equilibrio acido-base.

284
ESAMI DI LABORATORIO IN REUMATOLOGIA
Il 90% delle malattie autoimmuni sistemiche sono caratterizzate da infiammazione cronica e
incontrollata causata da un sistema immunitario che si attiva in maniera impropria e non
riesce a spegnere la propria risposta. Ne deriva che avremo generalmente un aumento degli
indici di flogosi, quindi VES e PCR (specie in pz con forme che attivano IL6); ci saranno poi
alterazioni dell’elettroforesi proteica perché un rialzo delle globuline alfa2 indica
infiammazione, a cui si associa un aumento delle gamma globuline. In questi pz, inoltre, è
sempre opportuno valutare anche l’emocromo, perché molte patologie possono comportare
anche citopenie, la funzione renale e quella epatica (perché la malattia stessa può
danneggiare questi organi o perché potrebbero farlo le tp).

L’autoimmunità è la cifra distintiva delle malattie reumatologiche e può caratterizzarsi per la


produzione di diversi anticorpi:

1. FR: è un autoab, che può essere di classe G, A o M, rivolto contro il frammento


cristallizzabile delle IgG. La sua presenza può essere studiata con metodiche di
agglutinazione o con ELISA e la positività non deve fare pensare solo all’AR (IgM),
nella quale per altro abbiamo un 20% di pz, anche 50% all’esordio, che risulta
negativa, ma devo sempre considerare che questo indice potrebbe alzarsi anche in
caso di connettiviti, sindrome di Sjogren, LES, di molte malattie infettive o
semplicemente con l’età. Il FR è importante perché ha valore diagnostico, ma anche
perché, generalmente, se presente e elevato, tanto più la malattia sarà aggressiva e,
dunque, ha anche valore prognostico. Non è invece un marker di attività di malattia
perché il pz può essere in remissione, ma avere comunque valori elevati.

2. Anticorpi anti-peptidi citrullinati (antiCCP o APCA): vengono ricercati con metodica


ELISA e sono importanti perché hanno valore sia diagnostico associati al FR per
diagnosticare una AR, che prognostico perché indicano una forma severa con
interessamenti extra-articolari. L’ag bersaglio è la pro-filaggrina.

3. Crioglobuline: sono autoab che causano una vasculite da IC dei piccoli vasi. In
particolare, esse hanno la capacità intrinseca di formare degli IC e precipitare a
freddo, ovvero a temperature inferiori a 37°C, e possono essere monoclonali (MM),
miste (HCV, malattie linfoproliferative) o policlonali (si ha un eccesso di ab che
possono comportarsi da crioglobulina). La sintomatologia principale correlata alla
presenza di questi autoab comprende porpora dolente necrotizzante, artralgia,
astenia, febbre, GN e, talvolta, artrite.

4. Anticorpi anti-nucleo (ANA): possono appartenere a diverse classe e sono rivolti


verso strutture self del nucleo come DNA, istoni, proteine del nucleo non istoniche,
centromero o membrana cellulare. La loro presenza si testa al microscopio trattando il
campione con antisiero che fa diventare fluorescenti le zone in cui sono presenti, ne
deriva che i pattern di positività possono essere diversi a seconda di quale struttura sia
il target.

a. Anti-dsDNA: hanno valore diagnostico per il LES, predittivo perché


cominciano ad alzarsi prima che la malattia sia evidente e prognostico perché

285
un incremento di questo indice anticipa una riaccensione di malattia. Il pattern
di fluorescenza sarà omogeneo.

b. Anti-ENA (ag estraibili del nucleo): i target possono essere complessi di


proteine o proteine attaccate al DNA o al RNA e il pattern di fluorescenza sarà
punteggiato e nucleolare.

i. AntiRO/SSa: sono caratteristici della sindrome di Sjogren, ma possono


positivizzarsi anche nel LES.
ii. AntiLA/SSb: sono caratteristici della sindrome di Sjogren, ma possono
positivizzarsi anche nel LES.
iii. AntiSM: sono presenti in 1/3 dei pz affetti da LES.
iv. Anti-proteina P ribosomiale: possono essere presenti nel LES, nella
sclerodermia e nell’AR.
v. AntiJo1: sono presenti nella polimiosite.

5. Anticorpi antifosfolipidi: oltre alla sindrome omonima, possono essere presenti anche
in altre patologie come il LES. Essi sono in grado di attivare l’endotelio portando ad
uno stato pro-trombotico: ne deriva che chi li presenta avrà un rischio aumentato di
trombosi, sia venose che arteriose, ripetute, e di aborti ricorrenti. Questo è ciò che
succede in vivo, in vitro, invece, questi pz risultano avere un aPTT lunghissimo perché
in queste condizioni agiscono all’opposto alterando il processo coagulativo.

a. Anti-cardiolipina:
b. Anti-beta2-glicoproteina1

Oltre a dosare questi due ab, è importante anche fare il lupus anticoagulant: se un pz
risulta avere aPTT lungo serve per capire se sia effettivamente scoagulato o se abbia
questi ab. Questa metodica prevede di aggiungere plasma fresco con fattori
coagulativi a quello prelevato dal pz: se esso è in grado di correggere l’aPTT il pz sarà
emofiliaco, se ciò non avviene significa che ad interferire è qualcosa d’altro, ovvero,
ad esempio, nei 2/3 dei casi, che questi ab leghino i fosfolipidi importanti per il
processo coagulativo

6. Anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA): sono anticorpi responsabili di gravi


forme di vasculite dei piccoli vasi e possono essere suddivisi in:

a. C-ANCA: sono tipicamente degli ab rivolti contro l’anti-proteinasi 3 e hanno un


pattern citoplasmatico granulare.
b. P-ANCA: sono ab rivolti contro la mieloperossidasi con pattern tipicamente
perinucleare.

Il problema è che se il pz ha un’infezione che richiama e attiva i pmn, i loro enzimi


verranno esposti sulla superficie della cellula, vengono riconosciuti dagli ANCA, che a
loro volta provocano un massivo rilascio di enzimi catalitici da parte dei pmn stessi
che distruggono il tessuto circostante. Gli ANCA dovrebbero essere ricercati, ad
esempio, in pz con GN rapidamente progressiva, ira, emorragia polmonare, noduli
polmonari escavati, sinusiti e otiti croniche e mononeuriti primarie.

286
FARMACI IN REUMATOLOGIA
Dal momento che, nella maggior parte dei casi, l’eziologia delle malattie reumatiche è ignota,
la tp si propone principalmente di controllare i sintomi: si useranno, dunque,
antiinfiammatori, immomodulatori e immunosoppressori; a volte è poi possibile andare ad
agire sui meccanismi patogenetici in maniera più mirata.

1. FANS: inibiendo la COX hanno azione antidolorifica e anti-infiammatoria. L’effetto


compare rapidamente e aumenta con il passare dei giorni, fino a raggiungere un
plateau dopo circa 2 settimane. Le COX, però, sono presenti in tessuti diversi con
variabilità interindividuale, motivo per cui gli effetti sono piuttosto imprevedibili; sia
per quanto riguarda quelli benefici che per quanto riguarda quelli collaterali. Talora,
cambiare tipologia permette di ovviare a questi problemi.

Effetti collaterali: i più temuti sono quelli gi. A questo livello, infatti, possono verificarsi
emorragie o perforazioni, specie se vengono dati in associazione ad antiaggreganti,
anticoagulanti o steroidi, se il pz ha più di 70 anni o se ha un’anamnesi positiva per
ulcera complicata, è poi pericoloso somministrare diversi antiinfiammatori. In caso di
trattamenti prolungati, c’è dunque indicazione alla prescrizione di IPP. Altri problemi
correlati ai FANS sono quelli che possono verificarsi a livello renale (prima di iniziare
la tp si deve dosare la creatinina): essi riducono la ClCr, determinano ritenzione
idrica, incrementano i valori pressori e peggiorano la funzione renale in soggetti con
disfunzione renale pre-esistente. Sono stati poi descritti episodi di insufficienza renale
acuta per nefrite interstiziale o necrosi papillare. L’uso prolungato è stato associato ad
un aumentato rischio di eventi avversi CV, ad eccezione del Naprossene, che però è
da usare con cautela perché si associa a maggiore gastrolesività. Ci sono poi episodi di
ipersensibilità cutanea e respiratoria, elevazione delle transaminasi ed epatite acuta di
tipo idiosincrasico, anemia aplastica, tossicità a carico del nervo acustico (salicilati) e
sintomi neurologici come vertigine e confusione.

Controindicazioni: CKD di grado moderato o severo, ipertensione scarsamente


controllata, scompenso cardiaco di classe NYHA 2 o superiore, asma severo o non
controllato, pregresse reazioni di ipersensibilità a FANS, ulcera peptica in atto.

Precauzioni: se la tp viene prolungata per più di 3 giorni si devono associare gli IPP.
Quelli a breve emivita, come l’ibuprofene, sono da preferire in soggetti che abbiano
un rischio più alto di eventi avversi renali (ad esempio per la presenza di lieve CKD) o
gi. A prescindere dai rischi, nei pz con più di 75 anni la dose andrebbe dimezzata.

2. Paracetamolo: è largamente impiegato per il controllo del dolore muscolo-scheletrico


di grado lieve e moderato alle dosi di 2-4g/die (!Nei pz con insufficienza renale o
cirrosi non si devono superare i 2gdie).

Effetti collaterali: nonostante si sia sempre pensato che fosse privo di effetti avversi
gastrolesivi e renali, il Paracetamolo è stato recentemente implicato in casi di ulcera
peptica complicata e di peggioramento della funzione renale. Pertanto, quando viene
somministrato ad alte dosi e in pz con fdr (età>75 anni, concomitante assunzione di
FANS, ASA o dosi elevate), si deve associare alle stesse precauzioni dei FANS. Se si

287
superano i 4g/die compare anche un rischio epatico da non sottovalutare; motivo per
cui, se il pz ha epatopatia, le dosi andranno ridotte per evitare un aumento
dell’incidenza di effetti avversi a questo livello.

3. COX2-ib: hanno efficacia sovrapponibile ai FANS per il controllo dei sintomi, ma sono
meno gastrolesivi rispetto a questi ultimi. Nonostante ciò, nei soggetti a rischio di
sviluppare ulcere, vanno comunque associati a un IPP.

Controindicazioni: asma severo o non controllato, pregresse reazioni di iperesenbilità,


ulcera peptica in atto, scompenso cardiaco severo, ipertensione arteriosa non
controllata, CKD di grado moderato o severo.

4. Corticosteroidi: inibiscono la trascrizione di molti mediatori della flogosi e della


risposta immunitaria innata e adattativa, a ciò si aggiunge, in caso di utilizzo ad alte
dosi, un effetto pro-apoptotico per il linfociti. La potenza antiinfiammatoria e la
capacità di ridurre l’immunocompetenza dipendono dal tipo e dalla dose di steroide
utilizzato. Prendendo come esempio il Prednisone, dosi inferiori a 7.5mg/die hanno
un basso o nullo potenziale immunosoppressivo, ma buona efficacia
antiinfiammatoria; superando, invece i 15mg/die comincia ad emergere
progressivamente la capacità di inibire le difese, fatto che, se da una parte è positivo,
dall’altra aumenta il rischio di avere infezioni, tra cui le più frequenti sono la
riattivazione dell’HZV e quelle che colpiscono le vie respiratorie, ci possono poi
essere le infezioni opportunistiche (lo screening per HBV e tbc è consigliato). Il
problema è che, nel caso in cui insorgano delle infezioni, esse potranno essere
paucisintomatiche e nascoste dal farmaco stesso. Il massimo effetto
immunosoppressivo sembra essere permesso dalla somministrazione EV di alte dosi di
steroidi (a partire da circa 10mg/kg). In generale, i diversi corticosteroidi, che si
differenziano per varie caratteristiche come la potenza relativa o l’emivita, devono
essere usati alla dose minima efficacia. Nel caso in cui il Predinisone venga
somministrato per più di tre settimane a dosi di almeno 20mg/die, si ha soppressione
dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, fatto che, al momento della cessazione della tp,
rende necessario esercitare cautela. Al contrario, al di sotto dei 5mg/die non si ha
generalmente soppressione dell’asse.

Effetti collaterali: anche la somministrazione di basse dosi non ne è priva. Si ha


un’accelerazione della perdita della massa ossea con aumentato rischio di fratture
(richiesti supplementi di calcio e VitD, nelle donne in menopausa potrebbe essere
necessario usare anche antiriassorbitivi), si riducono il trofismo e il tono muscolare e
c’è fragilità cutanea. Prima di iniziare a trattare è opportuno anche fare uno screening
della glicemia: i cs, infatti, sono in grado di alzarla in maniera dose-dipendente. Una
possibile complicanza acuta è la necrosi asettica della testa del femore, dell’omero o
del piatto tibiale. Irsutismo, ritenzione idrica e aspetto cushingoide compaiono
quando si superano i 15mg/die. Per dosi alte, inoltre, si potrà avere sudorazione
notturna, irregolarità mestruali, irritabilità, insonnia, cataratta precoce, peggioramento
del glaucoma, agitazione e psicosi. L’incidenza di complicanze è ridotta se la
somministrazione avviene a giorni alterni.

Controindicazioni: infezione severa in atto (per dosi >7.5mg/die), glaucoma non


controllato.

288
5. Immunomodulatori e immunosoppressori: questi farmaci si pongono generalmente
l’obiettivo, non solo di alleviare i sintomi, ma anche di incidere sulla storia naturale
della malattia, proteggendo dallo sviluppo del danno articolare e d’organo,
rallentando o impedendo la progressione verso gradi crescenti di disabilità, riducendo
il rischio di complicanze e prolungando la sopravvivenza. Possono essere suddivisi nei
seguenti gruppi:

a. DMARD di sintesi chimica ad azione pleiotropica: esercitano prevalentemente


un’azione antiinfiammatoria di lunga durata. Fanno parte di questa categoria:

i. Methotrexato: questo farmaco in particolare, ha la capacità di


modificare la storia maturale della malattia, soprattutto per quanto
riguarda la AR.

Effetti collaterali sono imputabili alla tossicità della molecola, piuttosto


che all’immunosoppressione. Può causare severe reazione da
ipersensibilità nella prima settimana di trattamento con pancitopenia,
polmonite interstiziale acuta o lesioni cutanee e mucose. Nell’uso
cronico è frequente la comparsa di ipertransaminasemia e macrocitosi.
Nel giorno della somministrazione alcuni pz lamenteranno: nausea,
malessere generale, astenia.

Controindicazioni assolute: ClCr>45.

Precauzioni: dimezzare la dose se età>75 anni o se funzione renale


ridotta. Non si devono associare altri farmaci nefrotossici. Pare che la
folina ad alte dosi aiuti a controllare gli effetti indesiderati: deve,
dunque, essere somministrata in rapporto 1:1 in concomitanza della
dose settimanale di Methotrexato.

ii. Leflunomide: può determinare epatotossicità anche severa, disturbi gi,


come la diarrea cronica, e pancitopenia.

iii. Salazopirina: si associa a disturbi gi, a severa neutropenia e a


ipertransaminasemia

iv. Idrossiclorochinina: è un farmaco generalmente ben tollerato. Talvolta


può, però, accumularsi a livello oculare o nel miocardio. I depositi
intraoculari, visibili con esame con lampada con fessura, portano
all’insorgenza di fenomeni infiammatori, che possono essere prevenuti
sospendendo tempestivamente il farmaco.

b. DMARD di sintesi biotecnologica ad azione immunomodulante selettiva: si


tratta di anticorpi monoclonali, recettori o piccoli peptidi in grado di interferire
specificatamente e selettivamente con determinate citochine solubili o recettori
di membrana. Tutti questi farmaci si associano ad un’aumentata incidenza di
infezioni. Ne fanno parte:

289
i. Anti-TNFalfa: può portare a neutropenia e peggioramento della
funzione cardiaca in pz con grave scompenso cardiaco.
ii. Rituximab (anti-CD20)
iii. Abatacept: si tratta di una proteina di fusione che, modulando un
segnale chiave di costimolazione necessario per la completa attivazione
dei LynT, ne riduce la proliferazione e abbassa la produzione di
citochine infiammatorie.
iv. Tocilizumab (anti-IL6R)
v. Ustekinumab (anti-IL12 e IL23)
vi. Belimumab

c. DMARD di sintesi chimica ad azione diretta su target specifici: in Italia


verranno a breve approvati e hanno la peculiarità di agire su bersagli
intracellulari specifici.Ne fanno parte gli inibitori di JAK e della fosfodiesterasi 4.
d. Altri immunosoppressori:

i. Ciclosporina A: è in grado di determinare un danno renale, nella


maggior parte dei casi reversibile, con aumento di creatinina, uricemia e
potassiemia. Può poi portare ad aumento dei valori pressori, a ipertrofia
gengivale e a ipertricosi.

ii. Micofenolato: si associa a disturbi gi come dispepsia e alterazioni


dell’alvo. Nelle prime settimane di tp è opportuno fare frequenti
controlli dell’emocromo perché si può verificare neutropenia severa,
anche fino all’agranulocitosi.

iii. Ciclofosfamide: il principale effetto collaterale è la depressione


midollare dose-dipendente. Può poi portare a caduta dei capelli,
mucosite, ipertransaminasemia, cistite emorragica. Nei pz con
insufficienza renale la dose deve essere ridotta. È descritto un
aumentato rischio di neoplasie, in particolari di tumori vescicali e di
linfomi.

iv. Azatioprina: può dare depressione midollare, epatite acuta e


pancreatite.

290
LES
È una malattia diffusa del connettivo che colpisce prevalentemente il sesso femminile (9:1)
nella fascia di età 15-40 anni. L’eziologia è sconosciuta, c’è però un’alterata risposta
immunitaria con aumento degli ab che forse viene slatentizzata da un problema di natura
infettiva. Pare che siano coinvolti fattori genetici, ormonali e scatenanti. Gli ab caratteristici,
la cui produzione porta a formazione di IC e ad attivazione del complemento,
comprendono:

- ANA: sono positivi nel 98% per cento e si tratta di un test molto sensibile ma poco
specifico. Troveremo un aumento degli anti ds-DNA.
- Anti-fosfolipidi (LAC, Beta2-Cardiolipina): sono responsabili dell’insorgenza di
trombofilia e problemi ostetrici
- Ab anti emazie e leucociti
- Ab anti-istoni
- ENA: la positività per quelli rivolti contro la proteina P ribosomiale è caratteristica
delle forme di neurolupus, quella degli anti SSA/RO si associa a forme cutanee
subacute, il problema è che possono passare la placenta e determinare blocco
cardiaco nel feto e manifestazioni cutanee che però scompariranno quando il neonato
sostituirà gli ab materni con i propri. Infine, nel caso in cui ci sia positività agli anti-SM,
generalmente si tratterà di forme aggressive.
- FR: si tratta di una positività spuria e confondente.

DIAGNOSI
Viene post con specificità del 95% e sensibilità del 75% in presenza di almeno 4 tra i
seguenti criteri:

1. Eritema malare a livello del dorso del naso e delle guance. Talvolta può essere
pleomorfo e dunque avremo papule, macule e vescicole; può poi associarsi alla
presenza di edema.
2. Rash discoide con lesioni circolari e cute cheratosica
3. Fotosensibilità
4. Ulcere orali o naso-faringee
5. Artrite non erosiva, transitoria, à poussées, migrante e che dà tumefazione.
6. Sierosite pleurica (sfregamenti) o pericardica
7. Danno renale: il LES è la prima causa di S.nefrosica nell’adulto con proteinuria
>5g/die. Istologicamente il danno è visibile nel 90%, mentre clinicamente lo è nel
50%. La causa è una GN membranosa o membrano-proliferativa: avremo
ispessimento della membrana basale, anse rigide a fil di ferro e anse necrotiche.
8. Disordini neurologici: schematicamente possono essere divisi in focali (ictus, TIA,
patologia demielinizzante, mielopatia trasversa, corea, neuropatie), diffuse
(manifestazioni cognitive, demenza, stato confusionale, delirio) e crisi epilettiche. Con
psicosi lupica si parla di una situazione in cui il pz si presenti aggressivo, psicotico e
con convulsioni.
9. Disordini ematologici su 3 versanti con anemia emolitica autoimmune, piastrinopenia
e leucopenia.
10. Disordini immunologici con positività a vari autoab
11. Positività punteggiata agli ANA

291
Altri sintomi che possono essere presenti comprendono:

- Febbricola con malessere fino alla cachessia


- Fenomeno di Raynaud
- Alopecia, capelli secchi e ruvidi (hair lupus)
- Mialgie
- Endocardite verrucosa di Libman-Sacks
- Interstiziopatia polmonare o polmonite lupica
- Disturbi dispeptici con dimagrimento
- Alterazioni vascolari a livello splenico
- Atrofia dell’epidermide
- Osteonecrosi asettica

TERAPIA E PROGNOSI
Si tratta di una patologia ad andamento ricorrente. Introducendo i CS, la mortalità, dovuta
principalmente a nefropatia, si è molto ridotta: da una sopravvivenza del 50% a 2 anni si è
passati al 63-75% a 20 anni.

Come prima cosa devono essere presi provvedimenti generali: i pz non dovrebbero esporsi al
sole senza adeguata protezione e devono smettere di fumare. È poi utile fare una tp volta al
controllo degli fdr cv e prescrivere, se necessario, un’integrazione di calcio e VitD (sono utili
per contrastare l’azione dannosa dei cs a livello osseo).

Dal punto di vista farmacologico, si usano immunomodulatori come CS, Idrossiclorochinina,


immunosoppressori e i FANS per il controllo dei sintomi: per scegliere per quale optare si
devono guardare i sintomi del pz, ad esempio se c’è un interessamento articolare saranno
utili i FANS, se invece c’è interessamento solo dermatologico si usa l’Idrossiclorochinina in
associazione a cs topici. Nel caso in cui il pz non risponda affatto si possono usare le Ig EV
oppure i farmaci biotecnologici, tra cui il Belimumab. Ovviamente, nel caso in cui i pz
abbiano manifestazioni severe come le citopenie o le forme articolari severe si utilizza una tp
più aggressiva con Ciclosporina, Ig, Methotrexate o Micofenolato. Per il neurolupus si usano
alti dosaggi di CS EV; per la nefrite si utilizza uno schema che comprende CS, Ciclofosfamide
e Micofenolato.

La prognosi peggiora nel caso in cui già all’esordio sia presente nefropatia con creatinina
>1.4mg/dL, se ci sono anemia o ipoalbuminemia, se c’è consumo del complemento o se si
ha positività per gli anticorpi anti-fosfolipidi. Attualmente l’exitus è causato nel 35% da IR e
nel 20% da lesioni del SNC.

292
ARTRITE REUMATOIDE – AR
È una malattia infiammatoria cronica che colpisce prevalentemente le membrane sinoviali
delle articolazioni diartrosiche, ma anche altri organi e sistemi. La prevalenza è del’1% con
un rapporto M:F di 1:3 e si riconoscono forme giovanili, dell’adulto e senile. L’eziologia è
multifattoriale e pare siano coinvolti fattori genetici (HLA DR4 e DR1), immunitari e infettivi
(EBV può essere considerato un fattore scatenante). Quindi, sostanzialmente, c’è una
predisposizione che viene slatentizzata in particolari condizioni con formazione e deposito di
IC che innescano il danno. In particolare, avremo alla base il FR che è una IgM rivolta contro
il FC delle IgG. A livello articolare, inizialmente, si ha una sinovite edematosa, vengono poi
richiamati dal torrente ematico monociti e pmn che danneggiano progressivamente la
sinovia. La malattia passa dunque ad una fase distruttiva con fibrosi progressiva della sinovia
e formazione di tessuto di granulazione (panno sinoviale). Quest’ultimo erode le
terminazioni cartilaginee con dolori cronici e difficoltà di affondamento dei capi articolari.
Dal punto di vista immunologico, inizialmente si ha un’infiammazione non specifica, cui fa
seguito l’attivazione dei LynT con produzione di citochine. Può essere colpita da questo
quadro qualsiasi articolazione diartrosica in maniera tipicamente simmetrica e additiva, non
migrante ed erosiva. Più frequentemente sono interessate il polso, la metacarpo-falangea e
l’interfalangea prossimale (quella distale è più caratteristicamente interessata da processi
artrosici); rare sono invece le localizzazioni a livello coxo-femorale, del cingolo scapolare,
della scapolo-omerale e della atm (più frequentemente nelle forme giovanili). Nelle
articolazioni colpite ci sono tipicamente tutti i segni dell’infiammazione (tumor, rubor, dolor,
calor e functio lesa). La limitazione funzionale si presenta inizialmente come rigidità
mattutina, ma, se non trattata, progredisce; così come progrediscono i danni infiammatori
fino a dare deformità caratteristiche dovute alla proteolisi con degradazione della sinovia.
Deformazioni tipiche dei soggetti affetti da AR comprendono:

- Mano a colpo di vento: lussazione in direzione ulnare delle metacarpo-falangee


- Deformità à bouttonière: flessione della interfalangea prossimale e iperestensione della
distale
- Deformità a collo di cigno: iperestensione prossimale e flessione metacarpofalangea e
distale

Oltre ai problemi a livello articolare, questa patologia può anche dare altre manifestazioni:

- Cutanee (25%): noduli reumatoidi, eruzioni cutanee purpuree, eritema palmare,


infarti della piega ungueale (vasculiti).
- Oculari (1%): cheratocongiuntivite secca, episclerite.
- Neurologiche (0.5%): neuriti periferiche, s. del tunnel carpale/tarsale
- Pleuropolmonari (0.1%): noduli polmonari reumatoidi, pleurite, fibrosi interstiziale
- Cardiache (0.1%): carditi

Spesso, poi, possono comparire sintomi simil-influenzali con astenia, anoressia, mialgia e
febbricola. Nel 15% dei casi, invece, l’esordio sarà acuto con febbre, linfoadenopatia e
splenomegalia.

DIAGNOSI
È necessario riscontrare almeno 4 tra i seguenti criteri:

293
1. Rigidità mattutina >1h da almeno 6 settimane
2. Artrite di almeno 3 articolazioni
3. Artrite di un’articolazione della mano
4. Interessamento articolare bilaterale
5. Noduli reumatoidi periarticolari
6. FR IgM+ (!nel 20% si hanno però forme dette sieronegative, e può essere + anche in
soggetti sani; ci può poi essere positività anche agli ab anti peptidi citrullinati)
7. Alterazioni radiologiche: si può vedere l’edema dei tessuti molli, la riduzione dello
spazio articolare, le erosi, la sclerosi e le calcificazioni.

Può poi essere utile approfondire con:

- Esami di laboratorio:

o VES, PCR e Alfa2Ig aumentate


o Anemia normocromica normocitica da infiammazione cronica
o Piastrinosi, leucocitosi
o Attività complementare nella norma (il consumo è locale)
o Positiviità aspecifica ad altri autoanticorpi come gli ANA (20%)

- Analisi del liquido sinoviale: apparirà torbido, giallo e poco viscoso. Si vedrà poi un
aumento dei pmn che arrivano a rappresentare l’80% dei leucociti riscontrati.

Tra le DD rientrano altre patologie che danno interessamento articolare, come forme virali,
reumatismo articolare acuto, artriti psoriasiche, polimialgia reumatica, gotta ma anche
sarcoidosi o sindromi paraneoplastiche.

TERAPIA
L’AR si associa ad aumentata mortalità e a riduzione dell’aspettativa di vita. Dopo il primo
anno di malattia il 75% dei pz presenta già erosioni ossee: appare dunque evidente
l’importanza di iniziare una tp il prima possibile per evitare che vi sia compromissione
funzionale irreversibile. La tp deve essere volta a ridurre i sintomi, specie il dolore, e a
rallentare la progressione della patologia. Il razionale è quello di avere una progressione: si
parte con la tp di fondo e poi, se non funziona, si aggiungono man mano altri farmaci, fino
ad arrivare a quelli biologici. Secondo le nuove linee guida, in particolare, se non si raggiunge
una remissione in 3-6 mesi si è autorizzati a passare a farmaci target perché la remissione è
l’unico modo per proteggere le ossa dalle future disabilità possibili. Abbiamo a disposizione
FANS, CS, farmaci di fondo, o desease-modifying. A tal proposito, ricordiamo il Methotrexate
e la Leflunomide che sono antimetaboliti; specie con il primo, però, molti pz lamentano
nausea, malessere e cefalea anche ad un livello così importante da impattare sulla qualità di
vita. Altro farmaco a cui si può ricorrere è l’Idrossiclorochinina che può dare effetti collaterali
a livello visivo, teoricamente reversibili alla sospensione. Questi farmaci hanno bisogno di un
tempo piuttosto lungo per agire e il pz deve esserne informato (i cs vengono usati come tp
ponte). Inoltre, il pz deve essere istruito anche circa l’importanza di tp fisiche o
occupazionali, che, però, purtroppo, in Italia sono ancora poco sviluppate.

Altri farmaci a disposizione sono Sulfasalazina, Etanercept, Infliximab e anti IL6.

294
REUMATISMO ARTICOLARE ACUTO – RAA
È una malattia multi-infiammatoria sistemica che insorge 2-4 settimane dopo una
faringotonsillite (FT) da SBEGA. Si tratta di una forma reattiva perché il microrganismo non è
fisicamente presente, ma c’è un meccanismo autoimmune innescato dall’infezione stessa. Si
stima che il 2% dei pz con questa FT sviluppi RAA; nel caso poi in cui un pz l’abbia già
avuto in precedenza, la probabilità sale all’80%. Ne deriva che, in presenza di una FT da
SBEGA, è necessario trattarla con antibiotici, 50mg/kg x3/die di Amoxicillina per 10 giorni o
Cefalosporine di terza generazione per 3-5 giorni, proprio per prevenire questa patologia; il
problema sono però le forme subcliniche. Inoltre, un secondo problema è quello di
riconoscere una FT da SBEGA come tale: possono aiutarci la presenza di un esantema
petecchiale sul palato duro, la presenza di un dolore intenso, la linfadenite e l’esordio
brusco. Si tratta, infatti, di caratteristiche tipiche della forma da streptococco; la presenza di
rinite o congiuntivite deve invece farci propendere per una forma virale. Inoltre, anche
riscontrando la tipica sintomatologia non è sufficiente: è necessario confermare la diagnosi
con tampone faringeo: la presenza di placche, infatti, non è costante ed è caratteristica
anche di altre patologie come la mononucleosi infettiva.

Il quadro clinico del RAA comprende diverse manifestazioni:

1. Artrite (75%): è una forma che colpisce le grandi articolazioni, particolarmente


dolente e che ha le caratteristiche di essere migrante e additiva.

2. Coinvolgimento cardiaco (50%): tipicamente si ha endocardite, alla quale fa seguito


una valvolite acuta che residua in una steno-insufficienza valvolare o aortica per
l’evoluzione cicatriziale. Più raramente ci può essere una pancardite e nel 5% dei casi
si arriva allo scompenso cardiaco. NB: il RAA lambisce le articolazioni e morde il
cuore: il coinvolgimento cardiaco è la più frequente causa di mortalità e morbilità.

3. Corea di Sydenham, nota anche come corea minor o ballo di San Vito (10-15%).
L’infiammazione dei gangli della base e del nucleo caudato è responsabile di una
sintomatologia caratterizzata da movimenti coreo-atetosici, a scatto e incoordinati.
Compare anche a distanza di mesi e questi bambini si presentano tipicamente con
parlata esplosiva e positività ai segni del pronatore, del cucchiaio e del mungitore;
riporteranno inoltre di non riuscire più a scrivere. Va incontro generalmente a
risoluzione spontanea in 2- 3 settimane, ma può durare anche per mesi o anni.

4. Manifestazioni cutanee: molto raramente possono comparire noduli sottocutanei a


livello della superficie estensoria del polso o del gomito, nel 15% dei casi si può avere
un eritema marginato con alone centrale chiaro e contorno più marcato, non
pruriginoso e localizzato principalmente a livello del tronco o della radice degli arti.

DIAGNOSI
Per fare diagnosi è necessario come prima cosa dimostrare la precedente infezione da
SBEGA (a meno che non ci sia l’associazione unica di corea+cardite). Il problema è che
dopo 2-4 settimane è difficile trovare un tampone faringeo positivo; si usa allora il TAS. Con
questo esame sappiamo che il pz è venuto a contatto con gli streptococchi, ma non
possiamo dire quando; devo dunque ripetere il prelievo dopo 2-3 settimane per vedere

295
l’andamento dell’anticorpo, se è in aumento si può dedurre che l’infezione sia stata recente.
Si usano poi i criteri di Jones, è necessario che il pz ne abbia almeno 2 maggiori oppure 1
maggiore e 2 minori, a patto che i secondi non siano sovrapponibili ai primi (ovvero: se ho
considerato la cardite non posso considerare il PR o se ho considerato l’artrite non valgono le
artralgie):

Criteri maggiori (specifici) Criteri minori (sensibili)

1. Cardite 1. Artralgie
2. Poliartrite 2. Febbre
3. Corea 3. Aumento VES, PCR
4. Eritema marginato 4. Allungamento intervallo PR all’ecg
5. Noduli sottocutanei

TERAPIA
Oltre al trattamento profilattico, si danno farmaci in base alla sintomatologia riscontrata. Se
c’è cardite si dà ASA a dosaggio anti-infiammatorio per 4-8 settimane o, nei casi gravi,
2mg/kg/die di Prednisone per 2 settimane per poi sostituirlo gradualmente con ASA. Se il pz
presenta artrite si danno FANS per 3-4 settimane e generalmente si ottiene una buona
risposta entro 5 giorni; al punto che, se così non fosse, devo mettere in dubbio la diagnosi. In
caso di corea, si usano neurofarmaci come l’Alloperidolo, il Fenobarbital o la
Carbamazepina.

Dopo il primo episodio di RAA, come detto, la probabilità che si ripresenti è molto alta: si
somministrano allora 600 000 UI (<6 anni) o 1 200 000UI (>6 anni) di Benzatil-penicillina
im ogni 21 giorni per 5 anni o fino al raggiungimento del 21esimo anno di età, ovvero
quando si stima che il rischio di avere FT da SBEGA si riduca notevolmente. In caso di
cardite severa, questa profilassi deve essere fatta per tutta la vita, soprattutto dopo riparo
valvolare.

296
SINDROME DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI
La presenza di autoab che si legano ai fosfolipidi e alle proteine poste sulla membrana
cellulare ha azione protrombotica. In particolare, la b2 glicoproteina 1 è l’antigene centrale
della sindrome ed è adesa all’endotelio vascolare, motivo per cui gli ab vanno a danneggiare
i vasi. La sindrome può essere primaria o associata a LES. Secondo la teoria del doppio
stimolo, pare che la sindrome sia un quadro di trombofilia acquisita sulla quale si instaura
una concausa trigger per la trombosi: pillola, gravidanza, chirurgia, immobilizzazione…

I criteri classificativi biochimici comprendono:

- Lupus anticoagulant nel plasma in due occasioni a 12 settimane di distanza


- Anticorpi anticardiolipina di tipo IgM o IgG a medio o ad alto titolo in due occasioni a
12 settimane di distanza
- Anticorpi anti b2 glicoproteina I in due occasioni a 12 settimane di distanza

I triplici positivi sono i soggetti a maggior rischio.

Dal punto di vista clinico, invece, i criteri diagnostici comprendono:

- Trombosi vascolari arteriose o venose confermate da esami doppler o istopatologici


(con documentazione dell’assenza di infiammazione che farebbe, invece, deporre per
vasculite).
- Patologia ostetrica: almeno una morte fetale documentata ecograficamente o con
esame diretto dopo un periodo gestazionale di almeno 10 settimane, tre o più aborti
consecutivi prima della decima settimana, oppure manifestazione di eclampsia o pre-
eclampsia

Tra i due ne basterebbe uno, ma spesso saranno presenti entrambi.

Vi possono poi essere altri sintomi, sempre dovuti alla patologia, ma meno caratteristici e
dunque non inclusi nei criteri classificativi: possiamo avere valvulopatia, livedo reticularis
(microangiopatia), piastrinopenia o nefropatia. Si tratta di sintomi scarsamente specifici e
poco frequenti. Nella forma acuta si ha microangiopatia trombotica, nella cronica si hanno
aterosclerosi, iperplasia fibrosa dell’intima, occlusione arteriolare, atrofia corticale.

Si parla di sindrome da anticorpi antifosfolipidi catastrofica quando c’è l’interessamento di


almeno 3 organi/apparati in pochi giorni/settimane con occlusione vascolare dei piccoli vasi
che porta nel 25% dei casi a CID. La mortalità è del 50% e può essere determinata da fattori
precipitanti come manovre chirurgiche o la sospensione degli anticoagulanti.

Per trattare la sindrome ostetrica si prescrivano ASA ed eparina, se non c’è la gravidanza si
può prescrivere il Warfarin. Bisogna poi educare il soggetto a rimuovere gli fdr acquisiti che
andrebbero a peggiorare il quadro protrombotico: obesità, fumo, ipertensione…

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SINDROME DI SJOGREN
È un’infiammazione cronica autoimmunitaria delle ghiandole esocrine, primaria o secondaria
se si presenta in corso di LES (HLA DR3) o AR (HLA DR4), associata a segni clinici e umorali
di interessamento sistemico. Colpisce prevalentemente le donne (9:1). Viene chiamata anche
malattia della secchezza perché tra i sintomi caratteristici possiamo avere secchezza di naso,
bocca, occhio o vagina. I pz potranno presentare difficoltà nella deglutizione dei cibi secchi,
necessità di bere durante la notte, sensazione di corpo estraneo nell’occhio, o dispareunia. A
ciò possono aggiungersi anche sintomi costituzionali come: milagia, astenia, vasculite o
febbre. Sul versante dei sintomi extraghiandolari si può avere un interessamento vascolare
sotto forme di vasculite cutanea che porta a porpora palpabile agli arti inferiori, artrite
migrande sostitutiva, mononeurite multipla, nefrite interstiziale, interstiziopatia polmonare o
cirrosi biliare primitiva. Questi pz hanno infine un rischio aumentato di 40 volte di sviluppare
linfomi NH. Dal punto di vista biochimico avremo anomalie sierologiche:
ipergammaglobulinemia, ANA, FR, antiRO/SSa, antiLA/SSb e ab anti-mitocondrio. In
particolare, se c’è positività per gli anti RO bisogna considerare che si tratta di IgG in grado
di passare la placenta: a livello fetale può ledere il tessuto di conduzione cardiaco e portare a
BAV congenito (2% –> necessità di fare ecocardiofetale per fare diagnosi prenatale e sapere
se il nascituro necessiterà o meno di un PM) , meno frequentemente potrebbe causare
fibroelastosi miocardica.

Per fare diagnosi è necessaria la presenza di almeno 4 criteri diagnostici che comprendono:

1. Sintomi oculari (soggettivi)


2. Sintomi orali (soggettivi)
3. Segni oculari: test di Schirmer e test al rosa bengala.
4. Segni salivari: scintigrafia salivare e scialografia parotidea
5. Biopsia patologica delle ghiandole salivari
6. Presenza di anti-RO/SSa, anti-LA/SSb, ANA o FR

Non si fa tp immunosoppressiva perché non si è dimostrata efficace, si preferisce gestire


questi pz con sostituti lacrimali e salivari e raccomandando un’igiene orale adeguata poiché
sono predisposti a sviluppare mughetto e carie. Nelle forme aggressive si può prescrivere
anche il Rituximab.

298
SCLEROSI SISTEMICA
È una connettivite sistemica a patogenesi autoimmune, chiamata sclerodermia per
l’interessamento della cute dove si ha un indurimento molto marcato. La malattia colpisce
prevalentemente le donne (9:1) e generalmente si manifesta dopo i 40 anni. Pare che ci sia
un trigger ambientale che va ad attivare il sistema immunitario (che abbia una
predisposizione genetica), il quale a sua volta va a causare un danno vascolare. Le
manifestazioni cliniche derivano, infatti, da una vasculopatia e da un processo fibrotico
incontrollato su base autoimmune. C’è attivazione endoteliale, con infiammazione che porta
a disfunzione del microcircolo e ad un’esagerata risposta proliferativa dei fibroblasti, sia per
effetto dell’ischemia tissutale, sia per attivazione diretta dei fibroblasti. Oltre, alla cute, ci può
essere un interessamento dell’apparato muscolo-articolare o viscerale; in particolare, ciò che
detta la prognosi è l’interessamento cardiovascolare, polmonare, renale, digerente. Tra le
caratteristiche che questi pz possono presentare abbiamo:

- Pitting Scars: esiti cicatriziali di pregresse ulcere sui polpastrelli di pazienti.


- Calcificazioni delle parti molli: possono essere anche masse consistenti fino a rendere
impossibile l’utilizzo delle mani, oltre ad essere a forte rischio di sovrainfezione.
- Facies sclerodermica: restringimento della labbra, naso a becco d’uccello,
microstomia.
- Il tronco tende ad assomigliare ad una corazza.
- Artralgie o artrite (rara), borsiti, tendiniti.
- Interessamento polmonare: molto frequente, fino al 90% in riscontri autoptici.
Interstiziopatia/fibrosi polmonare e ipertensione polmonare sono i quadri più rilevanti
e spesso sono proprio queste le cause di morte di questi pz. L’evoluzione finale di
questi pazienti è l’insufficienza respiratoria e, quindi, ossigenoterapia oppure trapianto
cuore-polmone.
o Interstiziopatia: clinicamente il paziente si presenterà con dispnea, anche a
riposo, tosse secca. All’esame obiettivo si notano Crepitii bibasilari (“rantoli
cigolanti”, “velcre rales”) inspiratori ed espiratori prove di funzionalità
respiratoria: in particolare si notano riduzione della Capacità Vitale Forzata
(FVC) e riduzione della Diffusione alveolocapillare del CO (DLCO).
o Ipertensione Polmonare: pressione arteriosa polmonare > 25mmHg a riposo, >
30mmHg in esercizio. La metodica diagnostica è l’ecocardiodoppler
transtoracico, la conferma si fa con cateterismo del cuore destro. Si possono
anche somministrare farmaci vasodilatatori e vedere se i vasi reagiscono. In
particolare si utilizzano farmaci contro l’Endotelina-1, molto espressa in questa
regione (Ambrisentan e Bosentan ndr).
- Cardiopatia sclerodermica: le aritmie sono causate dal tessuto fibrotico che va a
sostituirsi al tessuto di conduzione, aumentando il rischio di morte improvvisa. Si
possono avere anche pericarditi e scompenso.
- Interessamento renale: ipertensione nefrovascolare, data da vasculopatia fibrotica con
riduzione del lume dellearterie che porta a sclerosi glomerulare per sofferenza
ischemica.
- Interessamento del tubo digerente: disfagia, malattia da reflusso, stenosi, overgrowth
batterico con rischio di malassorbimento.

299
Dal punto di vista sierologico, gli ab specifici sono quelli anti-centromero, anti-Topoisomerasi
(Scl-70), anti-fibrillarina (U3-RNP) e anti-RNA polimerasi I e III.

PRESCLERODERMIA (nuova denominazione Early Scleroderma)


Si cerca di fare diagnosi precoce in questa fase che è caratterizzata da:

1. Fenomeno di Raynaud
2. Tumefazione diffusa delle mani (Puffy Hands) e della faccia.
3. Patologia dell’esofago (ipotonia distale, alterata peristalsi)

Il fenomeno di Raynaud è quel fenomeno vasospastico per cui le dita delle mani cambiano
colore, in cui si hanno ricorrenti episodi di ischemia acrale scatenati dal freddo o stress
emotivi. Si distingue una prima fase bianca, o del pallore, per spasmo delle arteriole e degli
sfinteri precapillari. Segue la fase blu, o cianotica, per desaturazione emoglobinica del sangue
presente nel letto microvascolare dilatato. Infine avremo la fase rossa, o eritematosa, quando
il vasospasmo si risolve, le arteriole si riaprono e c’è rivascolarizzazione. Il fenomeno di
Raynaud può essere primitivo (assenza di ulcere, capillaroscopia normale, Anticorpi Anti
Nucleo (ANA) negativi, VES e Proteina C reattiva normali) o secondario (a malattie
autoimmuni (Sclerodermia, Lupus, Malattia mista del Connettivo e connettiviti in generale), a
traumi occupazionali (es: martello pneumatico, le vibrazioni danneggiano il microcircolo e il
SNA che deve controllarne il tono), a neoplasie, a infezioni croniche, a disturbi metabolici
(ipotiroidismo). Il fenomeno di Raynaud secondario presenta iperplasia intimale e fibrosi
avventiziale. Il primario invece ha integrità vasale e il test degli Anticorpi Anti-Nucleo è
negativo, poiché non c’è una patologia autoimmune sottostante.

SCLERODERMIA CONCLAMATA
Compare l’interessamento cutaneo e può essere limitata, intermedia o diffusa. La prima
interessa viso, mani, avambraccio e, in generale, la porzione distale degli arti; mentre il
tronco è risparmiato. Nella diffusa si ha, invece, un interessamento globale della cute. La
presenza di autoab tipici e di fenomeno di Raynaud, comunque, non porta sempre ad
interessamento cutaneo, talvolta si può avere sclerodermia senza scleroderma.

SCLEROSI SISTEMICA CONCLAMATA


Dopo un periodo variabile di fenomeno di Raynaud, si comincia ad avere la cute ispessita,
con epidermide sottile e atrofica e si riducono gli annessi cutanei. Le sedi tipiche sono: dita
(sclerodattilia), faccia, avambracci, tronco. Ci sono poi calcificazioni nelle zone articolari che
vanno a compromettere l’articolarità stessa, anche al punto di compromettere la quotidianità
e richiedere chirurgia. Importante è poi l’interessamento viscerale:

- Polmone: pleurite, fibrosi interstiziale, alveolite.


- Rene: ipertensione maligna con insufficienza renale da patologia delle arterie
intralobulari e arteriole afferenti (ipertensione nefro-vascolare).
- Esofago: alterata peristalsi, dilatazione, transito lento, esofagite da reflusso. Si possono
instaurare anche metaplasie.
- Stomaco, Duodeno, Digiuno: rigidità contorni, ipomotilità, dilatazione, crescita
batterica che causa malassorbimento.
- Colon: rigido, dilatato, pseudo diverticoli.
- Cuore: Cardiomegalia (fibrosi miocardica) e Ipertensione Polmonare, associata ad una
mortalità elevatissima.
300
A seconda della quantità di tempo che intercorre tra il manifestarsi del fenomeno di Raynaud
e la comparsa di sclerodermia possiamo parlare di:

1. Sclerosi sistemica limitata: è la forma benigna perché l’intervallo tra la comparsa del
fenomeno di Raynaud e quella della sclerodermia è molto lungo. Si associa alla
presenza di ab anti-centromero. È caratterizzata da sclerosi cutanea limitata alla
porzione distale degli arti, disfagie e da qualche piccola ulcera periferica. Solo
tardivamente si può avere ipertensione polmonare isolata.
2. Sclerosi sistemica diffusa: gli eventi tendono a manifestarsi molto più velocemente (tra
il fenomeno di Raynaud e la sclerodermia possono passare solo pochi mesi). Si ha
Sclerodermia di arti, tronco e faccia e in parallelo si hanno le manifestazioni a livello
d’organo, anche severe. È associata agli autoanticorpi Anti-Topoisomerasi (anti SCL-
70) e Anti-RNA Polimerasi.

TERAPIA
Viene tipicamente modulata in relazione al tipo e alla gravità del coinvolgimento d’organo. In
generale, la sclerosi sistemica risponde poco alla tp immunosoppressiva, si utilizzano, invece,
calcio antagonisti, donatori di NO, inibitori della fosfodiesterasi (Sildenafil) o inibitori del
recettore dell’endotelina (Bosentan).

301
SPONDILITI SIERONEGATIVE
Si tratta di patologie non caratterizzate dalla presenza di anticorpi circolanti e che coliscono
prevalentemente individui con HLA B27. Questa definizione comprende diverse forme
accomunate dall’interessamento assiale, e in particolare delle sacro-iliache e da quello
periferico, ma con articolazioni più grandi rispetto a quelle che generalmente fanno pensare
ad una AR: a seconda delle differenti tipologie, poi, un aspetto prevarrà sull’altro.

Se è interessato il rachide, avremo un progressivo irrigidimento con perdita delle fisiologiche


curvature della colonna. L’infiammazione prolungata dei tendini e dei legamenti tra i corpi
vertebrali porta ad una squadratura degli angoli, possono poi formarsi dei ponti ossei che
prendono il nome di sindesmofiti [sottili prolungamenti verticali del margine antero-laterale
dei corpi vertebrali, più frequentemente lombari, connessi alla giunzione disco-vertebrale che
si riconcorrono con tendenza a congiungersi]. I Sindesmofiti sono differenti dagli osteofii
artrosici: i primi sono dati dall’infiammazione e dalla calcificazione dell’anulus del disco
intervertebrale (la deposizione di matrice eccede la richiesta e può essere parzialmente
arrestata dall’utilizzo di farmaci biotecnologici come il TNFalfa); i secondi, invece, sono
dovuti ad alterazioni ossee degli angoli verebrali stirati dal carico.

Se l’articolazione sacro-iliaca è interessata da un processo infiammatorio, ciò potrà essere


facilmente visto in RM: il primo segno sarà la presenza di edema, il quale poi si organizzerà
in sclerosi subcondrale con restringimento della rima articolare e, a volte, porterà fino alla
fusione dei margini articolari. In questo caso clinicamente i pz potranno presentare la
cosiddetta sciatica mozza con sintomatologia che non interessa tutto l’arto inferiore ma che
si arresta a livello del ginocchio e che alterna i due emilati, a differenza della sciatica vera e
propria, dovuta a una compressione del nervo a livello della sua emergenza (L5), la quale è
monolaterale.

A livello periferico possono esserci artriti ed entesiti (infiammazione del punto in cui il
tendine si inserisce sull’articolazione), specie a livello della fascia plantare e del tendine
d’Achille. Anche nella AR ci può essere interessamento delle entesi, ma in questo caso il
punto di partenza sarà la sinovia, a differenza di queste patologie in cui l’infiammazione
comincia proprio a questo livello. Le citochine prodotte a livello delle entesi possono poi
spostarsi verso altri distretti causando infiammazione anche delle borse articolari, del tendine
e dell’articolazione stessa.

Altro punto importante sono i sintomi extra-articolari:

1. Oculari: comprendono uveite e congiuntivite.


2. Cutanei: vescicole, che poi possono evolvere in pustole o placche crostose.
3. Ungueali: possiamo avere onicolisi con ipercheratosi ma anche pitting ungueale.
4. Mucosi: a livello orale e/o orogenitale si possono formare aftosi ed erosioni.

Possiamo distinguerle in:

1. Spondilite anchilosante: ha un interessamento prevalentemente assiale e il dolore


lombare è caratteristico perché migliora con il movimento e peggiora a riposo,
impedendo anche al pz di dormire. L’irrigidimento articolare può essere verificato

302
chiedendo al pz di toccare terra con le dita o con il test di Schober (in flessione non
vengono distanziati i due punti precedentemente misurati che sono l’apofisi spinosa di
L5 e 10 cm sopra). Questi pz possono poi avere anche un’insufficienza aortica per
dilatazione dell’anulus o un interessamento polmonare di tipo restrittivo.
2. Artrite psoriasica: ha un interessamento prevalentemente periferico. In particolare,
nella variante classica avremo un interessamento prevalentemente a carico delle
falangi distali: si parla di una oligoartrite asimmetrica; spesso ci sarà poi una dattilite
(dito a salsicciotto). Se nell’AR il problema è la perdita ossea, qui lo è invece
l’eccessiva deposizione che può rendersi responsabile della comparsa di deformità.
3. Artrite reattiva post-infettiva: ha un interessamento prevalentemente periferico. In
seguito ad infezioni genito-urinarie o intestinali può comparire una triade di sintomi
che interessano gli occhi, la cute e le mucose. In alcuni casi può trattarsi di forme
autolimitanti, in altri può essere necessario ricorrere a immunosoppressori o farmaci
biotecnologici.
4. Artrite in corso di MICI: ha un interessamento prevalentemente periferico.
5. Spondiloartrite indifferenziata

DIAGNOSI
Ci si avvale principalmente dei sintomi clinici (in particolare lombalgia infiammatoria, ma
tenendo presente che il quadro clinico può essere molto variegato e comprendere entesiti,
dattiliti, artriti periferiche e sintomi extraarticolari), dell’imaging e della presenza di indici
infiammatori a conferma. È inoltre importante verificare la presenza dell’HLA B27.

TERAPIA
La spondilite anchilosante viene trattata in prima linea con i FANS, che vanno presi
continuativamente e a dosaggio pieno, e la fkt. In caso di fallimento è possibile passare ai
farmaci anti-TNFalfa; se c’è interessamento periferico si può optare per il Methotrexate.
Questi pz devono poi sforzarsi di mantenere uno stile di vita attivo e un peso corporeo nei
limiti di norma. In letteratura sono presenti documentazioni di efficacia dello stretching e
degli esercizi di allungamento del rachide.

303
POLIMIALGIA REUMATICA
È una malattia infiammatoria delle borse e delle fasce che spesso si presenta in associazione
all’arterite di Horton: nel 10% chi ha polimialgia ha anche la vasculite e il 40% di chi ha
l’arterite avrà anche polimialgia. Colpisce esclusivamente persone con più di 50 anni e l’età
media alla diagnosi è di 72 anni.

Si manifesta con dolore intenso bilaterale associato a rigidità prima a livello del cingolo
scapolare e poi anche di quello pelvico. Il pz non sarà in grado di compiere movimenti attivi
con la spalla, ma, visitandolo, è possibile mobilizzare l’articolazione con movimento passivo
senza provocare dolore. Inoltre, gli autoab saranno negativi, così come lo sono gli enzimi
muscolari.

Risponde molto bene ai CS a dosi medie mentre i FANS hanno scarsa efficacia.

304
FIBROMIALGIA REUMATICA
È un reumatismo non infiammatorio caratterizzato da dolore cronico diffuso ad entrambi gli
emisomi localizzato alle fasce muscolari ed evocabile stimolando precisi punti algogeni. Tutti
gli esami risultano negativi perché la sintomatologia è dovuta ad una disfunzione nervosa
della percezione del dolore, forse relata ad uno squilibrio dei recettori della serotonina. Oltre
alle forme primarie, la fibromialgia può instaurarsi anche nel contesto di altre malattie
reumatiche o di altre condizioni morbose come patologie endocrine o psichiatriche.

Dal momento che non vi è infiammazione, i FANS saranno completamente inutili. È


importante educare al pz su quali eventi siano peggiorativi, come lo stress, l’ansia o la
depressione e sull’importanza di dormire, di fare moderata attività fisica e, talvolta, di
applicare calore. Sono state applicate anche tp farmacoloiche come ansiolitici, antidepressivi
o miorilassanti.

305
MIOSITI IDIOPATICHE
Sono un gruppo eterogeneo di patologie caratterizzate da debolezza della muscolatura
prossimale (è un concetto diverso dall’affaticabilità che è comune a molto malattie
reumatologiche, qui i pz non riescono proprio a compiere un movimento volontario perché
non hanno la forza necessaria) e da infiammazione non suppurativa della muscolatura
scheletrica che viene infiltrata da linfociti. Se è presente solo l’interessamento muscolare si
parla di polimiosite, se ad esso si aggiunge quello cutaneo con rash eliotropo, invece, di
dermatomiosite. Possono poi manifestarsi altri sintomi, che per lo più interessano l’apparato
muscolo-scheletrico: artralgie, fenomeno di Raynaud, calcinosi, fibrosi polmonare,
cardiomiopatia o anomalie della conduzione. Infine, sul versante dei sintomi costituzionali,
ricordiamo la possibile presenza di febbre e calo ponderale. La caratteristica principale è
comunque la debolezza, che inizialmente interessa il cingolo pelvico in modo simmetrico (il
pz farà fatica a passare dalla posizione seduta a quella eretta senza aiutarsi con le mani),
successivamente viene colpito anche il cingolo scapolo-omerale, alla muscolatura prossimale
degli arti superiori e a quella del collo. Nel caso di dermatomiosite potremo poi vedere le
cosiddette mani da meccanico perché ci saranno dei taglietti con solco bianco dovuto a
problemi del circolo superficiale e le papule di Gottron che sono delle macchie simili alle
cera localizzate sulla superficie estensoria delle articolazioni delle mani, del ginocchio o del
gomito. Dal punto di vista degli esami di laboratorio avremo un aumento della VES e degli
enzimi muscolari, la sierologia può poi essere positiva per ANA e anti-ENA (anti-JO1, anti-
Mi2.

Per la diagnosi si utilizzano sei criteri diagnostici: se solo 2 sono positivi la patologia è
possibile, se se ne hanno 3 è probabile, con 4 è invece certa. I criteri comprendono:

1. Debolezza muscolare prossimale simmetrica


2. Aumento di CK, AST, aldolasi, LDH
3. Elettromiografia con un mix di quadri miopatici, prevalenti, e di denervazione
4. Biopsia muscolare: infiltrato linfocitico e fenomeni di degenerazione e rigenerazione
5. Positività per anti-JO1, anti-Mi2 o anti-SRP
6. Tipiche manifestazioni cutanee (rash eliotropo o papule di Gottron)

! Una miosite può essere provocata anche da sostanza tossiche, da farmaci (statine), da
disturbi elettrolitici o da corpi inclusi. Inoltre, dal momento che la miosite infiammatoria
potrebbe essere una sindrome neoplastica, è necessario escludere la presenza di una lesione
tumorale.

306
CONNETTIVITI SISTEMICHE
MALATTIA MISTA DEL CONNETTIVO – MCTD
La Malattia Mista è chiamata così perché ha caratteristiche miste tra le varie connettiviti; è
chiamata anche sindrome di Sharp. Tutti i pazienti presentano anticorpi anti-U1 RNP ad alto
titolo. La complicanza più grave è l’ipertensione polmonare, che diventa la principale causa
di morte di questi pazienti.

CONNETTIVITE INDIFFERENZIATA – UCTD


Capita di vedere soggetti con segni e sintomi che conducono al sospetto di autoimmunità,
ma non sono etichettabili in modo chiaro in nessuna delle connettiviti sistemiche classiche
(LES, Dermatomiosite, Sclerosi Sistemica): queste sono le connettiviti indifferenziate. Si tratta
di una condizione clinica che, pur presentando sintomi e segni obiettivi fortemente suggestivi
di una malattia autoimmune sistemica, non soddisfa completamente i criteri classificativi che
consentono di porre diagnosi di una particolare connettivite. Per poter parlare di UCTD le
manifestazioni devono durare almeno 3 anni e gli ANA devono essere riscontrati e
confermati in almeno due differenti occasioni. I sintomi sono artralgie, fenomeno di Raynaud,
artriti, manifestazioni mucocutanee, sindrome sicca, sierositi, manifestazioni ematologiche
come leucopenia o piastrinopenia. Queste forme possono evolversi in una connettivite
definita (65%), rimanere stabili o andare in remissione (circa il 10% dei soggetti nell’arco di
5 anni).

307
URICEMIA
L’acido urico è il prodotto terminale del catabolismo delle purine: i batteri possono, infatti,
ulteriormente catabolizzarlo ad allantoina grazie all’uricasi, enzima che, invece, è stato perso
dai primati che dunque non riescono a rendere l’acido urico maggiormente solubile.
Nell’uomo viene eliminato per 2/3 per via renale e per 1/3 per via gastroeneterica grazie alla
flora che possiede l’uricasi.

Si parla di iperuricemia se i valori di acido urico superano i 7mg/dL nell’uomo e i 6.5mg/dL


nelle donne: questa è, infatti, più o meno la soglia a livello della quale diventa insolubile.
Nell’uomo è più frequente perché pare che gli estrogeni abbiano un ruolo protettivo.

Le cause comprendono:

1. Iperuricemia metabolica primitiva:


a. Forme idiopatiche
b. Aumento dell’attività della P-Ribosio-PP-sintetasi: aumenta la sintesi delle
purine, e quindi anche il loro catabolismo.
c. Deficit eterozigote dell’enzima ipoxantina-guanina-fosforibosil-transferasi: esso
serve a rimettere ipozantina e guanina nella vie biosintetiche evitando che
vengano catabolizzate; un deficit a questo livello si associa dunque ad un
aumento del catabolismo delle stesse.

2. Iperuricemia metabolica secondaria:


a. Glicogenosi di tipo 1: c’è una ridotta azione della glucosio-6P-fosfatasi, alla
quale si associa un aumento del glucosio-6P che può entrare nella via
biosintetica delle purine e conseguente aumentato catabolismo delle stesse
dovuto ad aumento della produzione. Questi pz hanno ipoglicemia a digiuno,
epatomegalia, crescita ritardata, iperlipidemia e aumento della chetonemia per
impossibilità di fare glicogenolisi.
b. Deficit omozigote dell’enzima ipoxantina-guanina-fosforibosil-trasferasi.
c. Aumentata sintesi ex novo delle purine
d. Aumento del ricambio di acidi nucleici
e. Malattie mielo/linfoproliferative
f. Policitemie secondarie
g. Anemia perniciosa e anemie emolitiche
h. Mononucleosi infettiva
i. Tumori solidi e rt/ct
j. Sarcoidosi
k. Psoriasi

3. Iperuricemia renale primaria: i sistemi di trasporto sono alterati e questo può associarsi
sia ad un aumento del riassorbimento che ad una riduzione della secrezione.

4. Iperuricemia renale secondaria:


a. IRC
b. Rene policistico
c. Nefropatia da Pb

308
d. Tp diuretica
e. ASA, etanolo, acido nicotinico
f. Acidi organici che entrano in competizione per i trasportatori come nel caso di
chetoacidosi.
g. Ipotiroidismo, iperparatiroidismo.

L’iperuricemia provoca:

1. Deposizione di cristalli:

a. Artrite gottosa
b. Urolitiasi
c. Nefropatia da acido urico

2. Sintomi non dipendenti dai cristalli:

a. Ipertensione: il Framingham heart study ha individuato una correlazione, ma


non è stato possibile stabilire se l’iperuricemia sia effettivamente un fdr cv. In
particolare, bisogna ancora stabilire se sia causa o conseguenza: nei modelli
animali pare che sia l’iperuricemia a comparire per prima. Pare, inoltre, che
l’iperuricemia possa favorire danni cv perché può provocare disfunzione
endoteliale con riduzione della produzione di NO, vasocostrizione renale per
proliferazione delle cellule muscolari lisce, attivazione del SRAA e aumento dei
ROS. Il ruolo, comunque, non è evidente quindi, a oggi, non è pensabile
trattare l’ipertensione primaria abbassando l’uricemia.
b. Insulino-resistenza/sindrome metabolica: da una parte l’iperinsulinemia riduce
l’escrezione di acido urico, dall’altra spesso l’iperuricemia precede
l’iperinsulinemia.
c. IRC
d. Malattie CV

Ciò detto, nei 2/3 dei casi, i soggetti con iperuricemia sono asintomatici e le manifestazioni
cliniche richiedono generalmente 20-30 anni prima di comparire.

GOTTA
È una malattia metabolica per il cui sviluppo l’iperuricemia è una condizione necessaria ma
non sufficiente. La manifestazione clinica è un’artrite acuta o cronica dovuta alla deposizione
di urato monosodico con formazione di tofi a livello connettivale nel caso delle forme
croniche. Rientrano tra gli fdr tutti quei fenomeni che concorrono ad aumentare l’uricemia,
tra cui abbiamo un’aumentata sintesi purinica e un aumentato catabolismo, una riduzione
dell’escrezione renale o una riduzione del recupero delle purine per riutilizzarle. Ci sono poi
fattori alimentari, tra cui carne e alimenti di origine marina hanno visto un ridimensionato del
proprio ruolo nella patogenesi, l’obesità in generale e il consumo di alcol. Infine, concorrono
allo sviluppo di gotta anche l’ipertensione e l’utilizzo di diuretici dell’ansa. Dal punto di vista
patogenetico il primum movens è la deposizione di cristalli, fatto che è tanto più probabile
tanto più è elevata l’uricemia, ma la cui probabilità si correla anche ad altri fattori come la
presenza di determinati polimorfismi genici, la bassa temperatura (periferia), traumi e
alterazioni del microcircolo e pH basso (di notte fisiologicamente scende, motivo per cui gli
attacchi sono prevalentemente notturni). In secondo luogo abbiamo la risposta

309
infiammatoria: sono implicate le cellule endoteliali, quelle sinoviali e i monociti. A questo
punto si possono avere due opzioni, ovvero la risoluzione o la cronicizzazione del quadro.
Nella prima eventualità, non è ancora chiaro perché dopo pochi giorni la sintomatologia
scompaia, probabilmente c’è un feedback autolimitante e forse ha un ruolo l’aumento di
temperatura tipico dell’infiammazione che aiuta ad aumentare la solubilità dell’acido urico.
Nel caso, invece, in cui cronicizzi si ha la formazione di granulomi.

Un attacco acuto di gotta si esprime tipicamente come una monoartrite (DD forme infettive
–> fino a prova contraria, viste le implicazioni, una monoartrite deve essere considerata
settica) ad esordio improvviso e rapidamente ingravescente, spesso a carico
dell’articolazione metatarso-falangea. La cute sarà arrossata, tesa e lucida, il pz avrà
iperestesia e lamenterà un dolore insopportabile, il quale si risolverà spontaneamente dopo
poche ore.

Nelle forme croniche, invece, avremo generalmente un artrite persistente, spesso


poliarticolare, con la formazione di tofi e talvolta associata a nefrolitiasi o a nefropatia.

Per fare diagnosi ci si avvale della clinica, supportata da una rapida risoluzione con
Colchicina, degli esami di laboratorio (aumento non costante dell’acido urico, uricuria, rialzo
enzimi di fase acuta) e degli esami radiologici (con l’rx nelle forme croniche si vedono
alterazioni cistiche, erosioni a margini sclerotici e masse nei tessuti molli). Infine, è anche
possibile valutare direttamente il liquido sinoviale con un prelievo dello stesso: al
microscopio ottico con luce polarizzata si vedranno i cristalli con la caratteristica
birifrangenza negativa, ci sarà poi leucocitosi neutrofila. L’esame del liquido è importante per
distinguere la gotta dalla pseudogotta, alla cui base c’è la deposizione di pirofosfato di calcio
che ha, invece, una birifrangenza positiva in luce polarizzata. Altre DD comprendono il
reumatismo articolare acuto, l’AR, l’artrite settica, gli ascessi sinoviali e i traumi.

Secondo le linee guida, gli obiettivi del trattamento della gotta sono il controllo
sintomatologico durante gli attacchi acuti, la modificazione degli fdr e la prevenzione delle
recidive e delle sequele croniche.

In acuto si deve ricorrere a antinfiammatori, steroidei o meno: Indometacina, Naprossene,


Colchicina, Prednisone per os o Metilprednisolone im (I CS devo essere usati solo nel caso in
cui i FANS siano non tollerati o controindicati). Il pz deve poi essere idratato e deve
sospendere i diuretici.

In cronico si devono trattare gli fdr cv e poi si deve trattare l’iperuricemia: da una parte è
importante una dieta corretta, evitando alcolici e cibi con alto contenuto purinico, e
un’idratazione adeguata; dall’altra si devono aggiungere farmaci ipouricemizzanti: come
prima cosa si prescrivono 150-300mg/die di Allopurinolo (solo quando l’attacco acuto si è
risolto), se non tollerato può essere sostituito con Febuxostat o, se la funzionalità renale è
normale ma il pz ha escrezione ridotta Probenecid. Per quanto riguarda l’Allopurinolo, la
dose è infulenzaata dalla funzione renale e da quella eptica, negli anziani deve essere ridotta
anche a 100mg. Gli effetti collaterali associati all’Allopurinolo comprendono disturbi gi
(nausea, vomito, dolori addominali), malessere, sonnolenza, alterazioni del visus e del gusto,
aumento della PA, parestesia, neuropatie e disturbi ematologici. Si possono poi manifestare
epatotossicità e reazioni da ipersensibilità. Viene assunto dopo i pasti per aumentarne la

310
tollerabilità GI e, se la dose supera i 300mg/die, è opportuno suddividere le
somministrazioni.

NEFROPATIA DA ACIDO URICO


È una forma di IR acute e reversibile causata dalla precipitazione di acido urico nei tubuli e
nei dotti. Spesso alla base c’è una tp antitumorale che porta alla lisi di un numero molto
elevato di cellule neoplastiche. La diagnosi si fa quando acido urico urinario/cratinina
urinaria>1/24h. I cristalli nelle urine non sono, invece, sempre presenti.

NEFROPATIA DA URATI
È dovuta al deposito di cristalli nella midollare che diventa clinicamente evidente solo in fase
tardiva. Intorno ai cristalli si ha importante reazione infiammatoria con fibrosi; i tubuli
appaiono dilatati e con epitelio atrofico, talora si arriva a sclerosi glomerulare. Le
manifestazioni comprendono proteinuria non nefrosica, ipertensione, IRC con anemia
precoce e ipostenuria.

311
ARTROSI
È un processo di natura degenerativa che determina una perdita dell’equilibrio tra i fenomeni
catabolici e i fenomeni riparativi a sfavore dei secondi a livello della cartilagine articolare. In
seguito arrivano a essere interessati anche l’osso subcondrale e la membrana sinoviale:
questo porta alla fine alla presenza di dolore, deformità e disabilità del soggetto. I condrociti
e proteoglicani sono gli attori principali a livello della cartilagine perché sono quelli che
mantengono l’omeostasi tramite la regolazione dei processi anabolici e catabolici. In caso di
sollecitazioni biomeccaniche eccessive su una cartilagine normale abbiamo un condrocita
troppo stimolato e quindi indirizzato verso la degradazione cartilaginea: questo accade di
solito in persone che fanno attività sportive/lavorative o persone che hanno un eccesso
ponderale o che hanno problemi articolari che portano ad avere un carico eccessivo a livello
della cartilagine. In questo caso si parla di artrosi secondaria, in cui c’è una causa che porta
allo sviluppo dell’artrosi. Mentre nell’artrosi primaria le sollecitazioni meccaniche sono di
entità normale, è la cartilagine ad essere anomala (è il caso dell’artrosi a livello della mano
nel sesso femminile a 40-50 anni). È un circolo vizioso perché la lesione cartilaginea non fa
altro che andare a sollecitare l’infiammazione locale quindi la sinovite, con conseguente
liberazione di cellule infiammatorie e sostanze flogogene aggravanti lo stato della cartilagine
stessa.

Dal punto di vista morfologico avremo:

1. Rimodellamento e addensamento irregolare dell’osso subcondrale con sclerosi e


presenza di cisti;
2. distensione della capsula articolare;
3. Sinovite cronica, versamento cronico;
4. Osteofitosi marginale, che causa sintomatologia fastidiosa (per la presenza di osso
reattivo che va a collocarsi in una zona anomala.

Clinicamente la più frequente è l’artrosi primaria. Si osservano in questo caso la presenza di


noduli artrosici a livello delle interfalangee prossimali e distali, la rizoartrosi del pollice
(pollice che tende a nascondersi sotto la mano perché l’articolazione metacarpo-falangea
non tiene più). Poi c’è la versione erosiva dell’artrosi (importante saper distinguere tra queste
caratteristiche e quelle dell’artrite reumatoide, si distinguono bene perché l’artrosi tende a
colpire l’interfalangea distale). L’artrosi erosiva è un po’ difficile da trattare perché poco
responsiva ai farmaci. I noduli che si trovano a livello distale vengono chiamati noduli di
Heberden, invece quelli a livello prossimale vengono chiamati noduli di Bouchard. Questi
noduli hanno le caratteristiche di essere duri, possono essere di grosse dimensioni e
infiammarsi.

312
VASCULITI
È un gruppo eterogeneo di malattie con distruzione della parete vasale. Possono essere
primarie o secondarie se insorgono nell’ambito di altre patologie come LES o AR. Ci possono
essere diversi meccanismi patogenetici:

- Tipo 2: ab anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA)


- Tipo 3: deposizione di complessi ab-ag con attivazione del complemento
- Tipo 4: attivazione dei LynT con formazione di granulomi

Le vasculiti possono poi essere suddivise secondo la classificazione di Chapell Ill che tiene
conto del diametro dei vasi interessati.

ARTERIE DI GROSSO CALIBRO


1. Arterite di Takayasu (tipo 4): è una patologia che colpisce principalmente donne di
15-25 anni che colpisce l’aorta e i suoi rami, in special modo la succlavia e l’anonima,
determinando stenosi serrata, al punto da essere chiamata malattia senza polso. Nella
metà dei casi può poi essere colpito il circolo polmonare, più rari sono interessamenti
del circolo retinico (retinopatia proliferativa per superare l’ischemia con
neoangiogenesi) o renale (ipertensione nefrovascolare). L’albero vascolare stenotico
sovraccarica il cuore con possibile esito in insufficienza cardiaca.

2. S. di Cogan: c’è un’infiammazione auricolare e oculare accompagnata nel 15% da


vasculite. A livello oculare la lesione tipica è a livello corneale (cheratite interstiziale),
mentre, a livello auricolare, c’è perdita uditiva neurosensoriale. L’esordio può essere
con l’una o l’altra manifestazione, ma poi compare quasi sempre anche l’altra. La
vasculite è invece simile a quella di Takayasu e può interessare diversi vasi tra cui
l’aorta, con talvolta insufficienza aortica correlata, le coronaria, i vasi mesenterici o
quelli degli arti inferiori con claudicatio. Si differenzia dall’aterosclerosi perché i
soggetti sono giovani e perché progredisce rapidamente.

3. Malattia di Behcet: le manifestazioni tipiche sono ulcere orali, o ad altri livelli del
tratto gi, ulcere genitali e infiammazioni oculari (uveite). Si possono poi associare la
presenza di eritema polimorfo, di lesioni papulo-pustolose, di pseudofollicolite o di
artrite non deformante. Il Pathergy test è importante perché in questa patologia risulta
sempre positivo: esso serve per slatentizzare una reazione. Sostanzialmente si scarifica
la cute e dopo 2-3gg compare un flittene o una pustola; assomiglia al
dermatografismo che scatena però una reazione immediata. Le complicanze sono
aneurismi e trombosi. Il trattamento varia a seconda degli organi e dei tessuti
coinvolti. Se abbiamo solo un interessamento mucocutaneo, ad esempio, si utilizzano
cs topici e Colchicina se ci sono ulcere genitali femminili.

4. Arterite a cellule giganti/di Horton (tipo 4): è una forma piuttosto frequente (15:100
000) che colpisce dopo i 50 anni. I soggetti con HLA DR4 sono predisposti. I LynT
colonizzano l’avventizia della temporale e producono IFNgamma che richiama i
macrofagi, questi ultimi formano sincizi e distruggono il connettivo. Oltre alla
temporale, possono essere colpite anche la carotide o l’oftalmica con calo del visus.
Nella forma tipica, il pz avrà febbricola e cefalea temporale. L’arteria, spesso

313
individuata dal pz stesso come fonte di dolore, appare ispessita, ci saranno poi
anemia e trombocitosi. Per la diagnosi risulta dirimente la biopsia perché permette di
vedere il granuloma, può poi essere utile eseguire un doppler. Bisogna poi
approfondire anche se sia presente una contestuale polimialgia reumatica poiché
questo evento si verifica nel 40% dei casi. La tp, che è sovrapponibile a quella della
arterite di Takayasu, prevede, nel caso di sospetta diagnosi di iniziare una tp con 0.75-
1mg/kg/die di Prednisone+ASA+gastro e osteoprotezione. Se la diagnosi viene
confermata, questa tp deve essere proseguita per 4 settimane: se a questo punto c’è
evidenza di remissione ottenuta, si deve cominciare a scalare gradualmente lo
steroide. Nel caso in cui i CS non siano tollerati dal pz si può usare il Methotrexate.
Infine, nel caso in cui siano presenti sintomi visivi o danno d’organo si fa 0.5-1g/die di
Metilprendisolone in boli EV per 3 giorni.

ARTERIE DI MEDIO CALIBRO


1. Panarterite nodosa (tipo 3): è un’infiammazione necrotizzante che colpisce le arterie
di calibro medio-medio/piccolo. In particolare, sono interessati i vasi della cute, del
tratto gi e del rene. L’infiammazione è transmurale e può arrivare ad interessare i nervi
ed ha la caratteristica di essere segmentaria. Inizialmente la sintomatologia è
aspecifica (astenia, malessere, febbricola, mialgie e artralgie); più tardivamente
possono comparire livedo reticularis, noduli sottocutanei, ulcere e gangrene,
claudicatio abdominis e angina pectoris. Nell’80% avremo nefropatia associata che
porta rapidamente a IR e si correla ad ipertensione. La diagnosi è posta generalmente
su biopsia renale, con arteriografia si possono poi vedere microaneurismi. Si associa
ad HBV e HCV.

2. Vasculite reumatoide: nell’ambito di una AR può comparire questa manifestazione,


che risulta essere maggiormente frequente nel caso di individui di sesso maschile, nel
caso in cui il FR sia presente ad alto titolo e la malattia sia aggressiva, nel caso siano
presenti importanti manifestazioni extra-articolari e se il soggetto ha HLA DRB1.

3. Morbo di Buerger: è una patologia esclusivamente del fumatore che colpisce le arterie
di medio calibro dell’arto inferiore. È nota anche come tromboangioite obliterante e si
distingue dal danno aterosclerotico perché i pz sono più giovani e perché l’ischemia
procede da distale a prossimale. Questi pz avranno stenosi segmentarie ma molto
serrate e generalmente ciò porta alla formazione di circoli collaterali che
all’arteriografia hanno forma a cavatappo. Nonostante questa forma di tamponamento
del problema, con il tempo potrebbe essere necessaria l’amputazione. Non vengono
colpiti, invece, gli organi interni.

4. Malattia di Kawasaki: si tratta di una vasculite sistemica che colpisce i vasi di medio
calibro e che viene chiamata anche sindrome mucocutanea linfonodale. Negli asiatici
l’incidenza è abbastanza alta, mentre, nei bambini caucasici, abbiamo 3-100 casi:100
000, per lo più in bambini piccoli (1/2<2 anni, 3/4<5 anni) con un lieve aumento
dell’incidenza nel sesso maschile. Questa patologia è più pericolosa nei bambini con
meno di 6 mesi e in quelli sopra gli 8-10 anni: questo è probabilmente dovuto al fatto
che, essendo meno tipica di queste fasce d’età, la diagnosi può spesso sfuggire o
essere fatta in ritardo; a maggior ragione nei bimbi molto piccoli in cui può essere
oligosintomatica. La patogenesi non è ancora completamente chiarita: ad oggi si
pensa che ci sia un meccanismo da superantigene o tossico. Inoltre, dal momento che

314
si è notata una certa correlazione nei gemelli omozigoti, si pensa ci possa essere
anche una predisposizione genetica.
Nel decorso di questa malattia possiamo riconoscere 3 fasi:

a. Fase acuta (1-2 settimane): i bambini appaiono sofferenti e irritabili ed è


caratterizzata da un discreto numero di sintomi che, ad esclusione della febbre
che troviamo sempre, possono essere o meno presenti: congiuntivite (80-90%)
tipicamente bilaterale, eritematosa e non essudativa che può associarsi anche
ad uveite anteriore, faringite non essudativa eritematosa con lingua a fragola e
cheilite (80-90%), eritema palmo-plantare con edema duro a livello del dorso
delle mani e dei piedi (80%), rash polimorfo e linfoadenite laterocervicale, più
tipicamente monolaterale. Meno frequentemente ci possono essere dolori
articolari, sintomi a carico delle vie respiratorie o del tratto gi,. Inoltre possiamo
avere endocarditi, miocarditi e idrope acuta della colecisti che, quando
presente, è da considerarsi patognomonica. Dal punto di vista laboratoristico, i
segni più caratteristici sono anemia normocitica, innalzamento di ALT,
ipoalbuminemia e leucocituria; possiamo poi trovare ipertrigliceridemia e
iperbilirubinemia.
b. Fase subacuta (1-2 settimane): anche in assenza di trattamento dopo circa due
settimane dall’esordio dei sintomi si ha defervescenza. Il segno più tipico di
questa fase è la desquamazione delle estremità a larghe lamelle. Compare poi
in questa fase una piastrinosi importante. Il problema è che accorgersene in
questa fase è troppo tardi. È proprio in questo periodo, infatti, che compare un
eventuale interessamento coronarico che dunque, se non si è fatta diagnosi per
tempo, non potrà essere prevenuto.
c. Fase di convalescenza (5-8 settimane): come unico segno abbiamo le linee di
Beah sulle unghie, ovvero solchi trasversali che rappresentano un
rallentamento della maturazione e della crescita dell’unghia. Non sono sempre
presenti.

La diagnosi è clinica: si pone diagnosi di Kawasaki classica quando si riscontra febbre


per almeno 5 giorni in associazione ad almeno quattro tra:

- Congiuntivite eritematosa non essudativa,


- Alterazioni della mucosa orale (faringite, cheilite, lingua a fragola),
- Alterazioni periferiche cutanee,
- Rash,
- Linfoadenopatia cervicale.

Nel caso in cui non si raggiungano almeno 4 criteri in associazione alla febbre, ma ci
siano alterazioni coronariche, si parla di Kawasaki incompleta. Il problema però è che
è vitale fare diagnosi prima che compaiano alterazioni coronariche quindi, anche in
loro assenza posso fare diagnosi di Kawasaki incompleta se ho anche tre criteri minori,
ovvero aumento degli indici infiammatori, piuria, neutrofili<1500, ipoalbuminemia,
ipertransaminasemia. Infine, nella Kawasaki atipica avremo, oltre alla febbre che dura
da almeno 5 giorni, a prescindere dalla presenza o meno dei criteri detti prima, un
quadro atipico con idrope della colecisti, meningismo, dolore addominale eccetera
associato alle alterazioni coronariche. Bisogna comunque tenere presente che un
quadro simile, quindi con febbre, linfoadenite e rash, può essere dovuto anche a

315
infezioni virali (adenovirus, cocksakievirus...); manifestazioni simili possono poi essere
riscontrate anche in caso di infezioni batteriche (Streptococchi, Stafilococchi),
reazioni da siero o AIG nella variante sistemica. La prognosi dipende principalmente
dall’entità dell’interessamento coronarico: è importante fare un ecocardio per stabilire
se ci sia dilatazione delle coronarie. Fino ad un quarto dei bambini presenta una
dilatazione tale da essere considerata aneurismatica (ovvero avrà un diametro
coronarico con Z-score>4). Gli aneurismi sono più frequenti sotto l’anno, nel sesso
maschile, quando c’è un rialzo della PCR e quando alla diagnosi si riscontrano
piastrinopenia o iponatriemia. Gli aneurismi possono risolversi spontaneamente,
lasciando magari una cicatrice, dare trombi o ispessirsi; la rottura delle coronarie è
super rara, specie nei trattati. L’infarto miocardio acuto, che può causare il decesso,
non farà dunque generalmente seguito ad una rottura coronarica, quanto piuttosto
alla formazione di trombi dovuta alle alterazioni del flusso. La Kawasaki è la prima
causa di cardiopatia acquisita nei paesi industrializzati, subito dopo abbiamo il
reumatismo articolare acuto. La tp si basa sulla somministrazione di ig in vena: si
danno 2g/kg in un’unica somministrazione tra i 7 e i 10 giorni dall’esordio; passata
questa soglia l’efficacia nella prevenzione degli aneurismi diminuisce enormemente;
se si danno troppo presto, invece, spesso c’è solo una risposta parziale che richiede
una seconda somministrazione. Dal momento che i bambini piccolo sono spesso
paucisintomatici, è importante dare questa tp a tutti i bambini sotto l’anno che
abbiano febbre da più di 7 giorni di ndd. Inoltre, la tp deve essere somministrata
anche ai soggetti con Kawasaki incompleta se hanno i criteri minori. Si somministra
inoltre ASA a dosaggio anti-infiammatorio (secondo alcune linee guida 30-
50mg/kg/die, secondo altre 80-100) fino alla scomparsa della febbre, dopo di che la
somministrazione va proseguita per almeno 6-8 settimane ma a dosaggio
antiaggregante (3-5mg/kg/die). Passato questo periodo si può decidere di proseguirla
o meno sulla base della presenza o meno di aneurismi e delle loro dimensioni: l’entità
del coinvolgimento cardiaco permette infatti di stratificare il rischio e dunque di
decidere la tp più appropriata e la tipologia di follow-up richiesta. Se la prima dose di
Ig, anche all’interno della finestra temporale corretta, non dovesse fare effetto se ne
somministra una seconda; in caso di ulteriore fallimento è opportuno riconsiderare la
diagnosi e fare 3 boli di Metilprednisolone al dosaggio di 600mg/m2/die per 3 giorni
consecutivi. Recentemente si sta considerando, in caso di mancata risposta alla prima
somministrazione di Ig, di dare immediatamente farmaci biologici contro il TNF e IL1.
In ogni caso, in presenza di aneurismi di medie dimensioni regrediti a piccole
dimensioni o di un aneurisma persistente il bambino deve essere sotto controllo
cardiologico con anche l’esecuzione di test da sforzo. Se invece la patologia si risolve
senza che vi sia un coinvolgimento coronarico non è necessario fare altro. Con la tp la
frequenza degli aneurismi è passata dal 25% al 7% e la mortalità di questa patologia
dall’1% allo 0.02-0.09%.

ARTERIE DI PICCOLO CALIBRO


1. Vasculiti ANCA-associate:

a. Granulomatosi di Wegener/Granulomatosi con poliangioite (tipo 2): i 3


elementi caratteristici sono infiammazione granulomatosa delle vie aeree,
vasculite necrotizzante del piccolo circolo e GN segmentale che si presenta
come rapidamente progressiva e la cui severità incide sulla prognosi. In
particolare, le lesioni delle vie aeree sono la presentazione d’esordio: ci può

316
essere epistassi crostosa con fenomeni ostruttivi e talvolta si arriva anche a
perforazione del setto e collasso del naso. Anche i seni sono coinvolti (sinusite
erosiva), così come la trachea con fenomeni stenotici. Talvolta possiamo avere
pseudotumori orbitari con cecità e riduzione della soglia uditiva. Altre
manifestazioni sono artrite, artralgia, ischemia delle dita, porpora (la conta
piastrinica è normale ma è difettosa l’interazione con l’endotelio) e
infiammazione dei nervi. La diagnosi di basa su clinica e istologia, gli ANCA
sono sempre +.

b. Poliangioite microscopica: è una vasculite necrotizzante non granulomatosa,


associata nel 90% dei casi a glomerulonefrite necrotizzante. I sintomi della
vasculite sono spesso sfumati, spesso la diagnosi viene posta, dunque, quando
si riscontrano i sintomi tipici della GN.

Il cardine della tp è il Prednisolone, inizialmente da somministrare alla dose di


1mg/kg/die. Si deve poi associare anche un farmaco di fondo per migliorare la
percentuale di remissione clinica e ridurre la dose di steroide. Methotrexato o
Micofenolato vanno preferiti in caso di presentazioni più blande, nelle forme severe si
usano, invece, Ciclofosfamide o Rituximab. In caso di fallimento si possono
prescrivere Ig EV. Una volta ottenuta la remissione, possono essere impiegati
azatioprina o Methotrexato per prevenire la recidiva a 18 mesi; la tp di mantenimento
deve essere proseguita per almeno 2 anni.

2. S. di Churg-Strauss: è un’infiammazione granulomatosa con componente eosinofila


che colpisce le vie respiratorie e altri organi. Nella fase prodromica il soggetto avrà
asma allergico o rinite allergica, c’è poi una fase caratterizzata da eosinofilia con
infiltrazione tissutale che interessa soprattutto polmone e tratto gi, infine avremo la
fase con vasculite necrotizzante che può colpire cuore, polmoni, cute, nervi
periferici… Spesso la malattia viene slatentizzata da vaccini, sospensione brusca della
tp contro l’asma o da farmaci. A 5 anni la sopravvivenza era del 25%, con la tp è
salita al 72%.

3. Porpora di Henoch-Schnlein: è una vasculite leucocitoclasica con deposito di IgA che


si caratterizza per la presenza di porpora agli arti inferiori e ai glutei, presenza di
artrite o artralgia che interessa le grandi articolazioni e ha carattere migrante, dolore
addominale crampiforme che peggiora dopo i pasti, febbre e GN con proteinuria ed
ematuria. La diagnosi si basa sul riscontro istologico (biopsia renale o cutanea) di IgA
intorno e dentro i vasi. Sono colpiti i bambini e generalmente ha carattere
autolimitante, nel 20-25% esita in GN cronica.

4. Crioglobulinemie: sono Ig che precipitano a freddo e si risolubilizzano a caldo.


Possono essere di diverso tipo:

a. Tipo 1: Ig monoclonali associate ad iperviscosità (linfomi, MM, Waldenstrom,


LLC)
b. Tipo 2: Ig monoclonale che funge da FR
c. Tipo 3: Ig monoclonale policlonale che funge da FR

317
I tipi 2 e 3 danno vasculite dei vasi di piccolo/medio calibro perché gli IC che si
formano si raccolgono a livello della parete vasale e attivano il complemento: agli
esami lo vedremo dunque consumato. Sono tipiche di pz con HCV. Nelle forme lievi
avremo porpora, petecchie e ulcere cutanee, in quelle più gravi può aggiungersi un
interessamento renale o neurologico. Per fare diagnosi ci si avvale di biopsie cutanee
o renali. Il trattamento deve essere, quando possibile, mirato alla causa sottostante.
Manifestazioni moderate o severe di vasculite crioglobulinemica (ulcere cutanee,
neuropatia, GN) possono essere trattate con cs (prima metilprednisolone EV e poi
prednisone per os); in casi gravi si usa la Ciclofosfamide. La plasmaferesi rappresenta
un’opzione terapeutica valida nelle manifestazioni che mettono a rischio immediato la
sopravvivenza e nella sindrome da iperviscosità.

318
SARCOIDOSI
È una malattia che colpisce i tessuti connettivi con interessamento potenzialmente sistemico,
caratterizzata dalla presenza di tipici granulomi non caseificanti a livello degli organi coinvolti
o, più frequentemente, dei linfonodi intratoracici e del parenchima polmonare. Si manifesta
prevalentemente in giovani adulti e rappresenta un fdr per l’insorgenza di neoplasie, sia
emolinfopoietiche che solide. L’eziologia non è nota, l’ipotesi più plausibile è che possa
essere espressione di una risposa infiammatoria ad un agente infettivo non identificato da
parte di individui geneticamente predisposti: pare, pertanto, che alla base ci sia una
complessa interazione tra fattori ambientali e genetici. Nella quasi totalità dei casi i polmoni
sono colpiti, ma ciò non significa che ciò avvenga sempre in maniera sintomatica. In
generale, i sintomi più comuni della malattia comprendono stanchezza, astenia, perdita di
peso, dolori articolari, artrite, secchezza degli occhi, gonfiore delle ginocchia, visione sfocata,
fotofobia, mancanza di respiro, tosse e lesioni cutanee. In particolare, l’interessamento dei
vari organi può dare:

- A livello polmonare le alterazioni possono essere permanenti con fibrosi progressiva.


In cronico, l’interessamento polmonare può portare ad insufficienza ventricolare dx,
secondaria ad ipertensione polmonare.
- A livello cutaneo ci possono essere eritema nodoso, placche, erosioni maculopapulari
e noduli sottocutanei.
- A livello cardiaco le manifestazioni più comuni sono anomalie della conduzione.
- A livello oculare i pz possono sviluppare uveite e danni retinici con perdita dell’acuità
visiva e cecità.
- A livello del sistema nervoso la componente più colpita sono i nervi cranici, e in
particolare lo è la paralisi del nervo faciale.
- A livello ematologico la linfopenia è il riscontro più frequente.

La diagnosi si basa sull’integrazione dei dati clinico-strumentali e sul riscontro dei tipici
granulomi non caseificanti, previa esclusione di eventuali cause infettive responsabili di
flogosi granulomatosa (micobatteri o funghi).

È una malattia benigna, la cui prognosi dipene dal tipo di interessamento d’organo. La
prognosi è favorevole nelle forme ad esordio acuto e nei casi di malattia limitata con
esclusivo interessamento linfonodale.

Nei pz asintomatici e con quadri radiologici non preoccupanti, la decisione di iniziare il


trattamento può essere differita. Al contrario, specie se è presente un interessamento
cardiaco o del SNC, si deve fare qualcosa. La terapia si avvale principalmente di farmaci
antiinfiammatori e immunosoppressori: si possono usare cs e, in caso di mancata risposta, si
possono associare immunosoppressori. Anche in caso di remissione, sono possibili recidive
anche a distanza di anni e anche a carico di organi diversi.

319
TIROIDE
ANATOMIA
La tiroide è una ghiandola sita a livello del collo in posizione mediana. Ha una forma a farfalla e
tipicamente presenta due lobi; in una percentuale rilevante di casi è poi presente un terzo lobo,
denominato piramidale, la cui origine è da ricercare nei fenomeni embriogenetici. Ha un peso di 15-
20g, è lunga 6cm e alta 3cm. A livello del collo troviamo vari strati: cute, sottocute, platisma, fascia
cervicale superficiale, muscoli pretiroidei (sternoioideo, omoioideo, sternotiroideo, tiroioideo: si
trovano nel secondo spazio e hanno un ruolo importante nella fonazione e nella deglutizione) e
fascia cervicale media, la quale a livello mediano si unisce alla superficiale nel rafe mediano del collo.
La fascia cervicale media delimita il terzo spazio all’interno del quale troviamo gli organi, ivi compresa
la tiroide. Questa ghiandola è in rapporto con gli altri organi presenti a questo livello grazie alla
presenza di legamenti: il legamento tiroideo mediano la mette in rapporto con la trachea mentre i
legamenti laterali di Berry con la laringe; ne deriva che quando il paziente deglutisce anche la tiroide
si muove in modo consensuale. Altri rapporti anatomici sono con l’esofago, le paratiroidi, il fascio
vascolo nervoso e diversi nervi, tra cui il laringeo inferiore/ricorrente. Bisogna stare molto attenti
quando si interviene chirurgicamente sulla tiroide a non lesionare questo nervo che è fondamentale
per far muovere la corda vocale corrispondente. Il laringeo ricorrente origina dal vago e ha decorso
differente nei due emisomi: a sinistra circonda l’arco dell’arto mentre a destra circonda l’arteria
anonima. A sinistra si usa come punto di repere il solco tra esofago e trachea. Talora è poi presente,
soprattutto a destra, il tubercolo di Zuckerland che è una protuberanza dietro alla quale troviamo
questo nervo L’anatomia non è comunque costante. La vascolarizzazione è a carico della tiroidea
superiore che è il primo ramo della carotide comune; le vene tiroidee sono tributarie della giugulare
interna e della brachiocefalica. Per quanto riguarda, invece, il drenaggio linfatico la parte superiore
drena nei linfonodi prelaringei, quella laterale in quelli laterocervicali e quella inferiore nei
pretracheali.

EMBRIOGENESI
La tiroide è il primo organo endocrino a svilupparsi e produrre ormoni. Ha origine dal foglietto
endodermico, più precisamente si sviluppa a partire dall’epitelio dell’intestino faringeo in un punto
che nell’adulto corrisponde al forame cieco della lingua. Progressivamente la tiroide si sposta poi
verso il basso, rimanendo però adesa al punto di origine grazie alla presenza del dotto tireoglosso che
fisiologicamente si oblitera a partire dal secondo mese di vita, se così non accade e la parte terminale
del dotto rimane presente si avrà il lobo piramidale. Se persiste il dotto nella sua interezza è poi
possibile che al suo interno si formi una cisti, il cui epitelio potrebbe andare incontro a metaplasia ma
raramente degenera in tumore. Queste formazioni possono poi andare a comprimere altre strutture,
hanno un’elevata probabilità di infettarsi e possono formarsi fistole cutanee. Durante la sua discesa la
tiroide dovrebbe fermarsi davanti al laringe e ai primi anelli tracheali, si possono però avere tiroidi
ectopiche o residui di tessuto tiroideo lungo il percorso. Le cellule C parafollicolari derivano invece
dalla cresta neurale e vanno ad incunearsi durante lo sviluppo all’interno della ghiandola.

FISIOLOGIA
La tiroide presenta due componenti distinte:

1. I tireociti producono tiroxina (T3) e tri-iodio-tironina (T4). La colloide è la forma di accumulo


di questi ormoni, mentre la tireoglobulina ne è il precursore. Il T4 rappresenta il 95% degli
ormoni prodotti ed è la forma inattiva: in periferia grazie alle deiodasi di tipo 2 viene
trasformato in T3, il quale viene invece prodotto direttamente dalla tiroide solo in maniera
molto ridotta. Affinché gli ormoni possano essere prodotti, è necessario che lo iodio entri
all’interno delle cellule: la pompa NIS trasporta due ioni sodio e uno ione iodio con simporto
all’interno della cellula; questo meccanismo è garantito dalla pompa sodio/potassio che
mantiene il gradiente e viene velocizzato grazie all’azione del TSH. Quando lo iodio è
all’interno della cellule viene perossidato da un enzima specifico e legato insieme a formare

320
delle catene di mono/diiodiotiroisina. A partire da queste catene le deiodasi di tipo 1
permettono di ottenere gli ormoni veri e propri. Lo iodio è, dunque, fondamentale per la
produzione degli ormoni tiroidei: mediamente è necessario che ne vengano assunti 150 mcg,
ma, in corso di gravidanza o allattamento, i valori si alzano fino intorno ai 250. Nei bambini,
invece, il fabbisogno è leggermente inferiore: 90 microgrammi fino ai 6 anni e 120 tra i 6 e i
12 anni. Lo iodio deve essere assunto con l’alimentazione, ci sono però alcuni alimenti che
impediscono la sintesi degli ormoni tiroidei come le rape, le patate dolci, il bamboo o l’erba
da campo. Per valutare la funzionalità tiroidea è necessario dosare gli ormoni, ma anch,e e
soprattutto, lo stimolo a produrli, ovvero il TSH che viene rilasciato dall’ipofisi su stimolazione
ipotalamica. Generalmente si chiede un esame con metodica reflex: si dosa solo il TSH e, se
esso risulta essere superiore ai limiti di norma, allora viene automaticamente dosato anche
fT4, non si dosa invece T3. In generale, T3 non si dosa frequentemente perché, specie se sono
presenti eventi acuti, si ha un rialzo transitorio di questo ormone. I valori del TSH sono
fondamentali perché in base a questi ultimi si può decidere come proseguire: se sono bassi si
fa una scintigrafia, mentre, se sono elevati o normali, si procede generalmente con ecografia e
NON si fa mai scintigrafia.

2. Le cellule C producono calcitonina: sono coinvolte nei meccanismi di mantenimento


della calcemia, in particolare la funzione di questo ormone è quella di abbassare la calcemia.
Un effetto simile, ed ancora più veloce, si ha anche sul metabolismo del fosfato, con una
conseguente ipofosfatemia. Il meccanismo di regolazione è di tipo a feedback negativo e il
principale organo bersaglio è il tessuto osseo, in cui viene ridotto il rilascio degli ioni calcio e
fosfato da parte degli osteociti, ed inibito il processo di riassorbimento da parte
degli osteoclasti. Altri organi bersaglio sono i reni e l'apparato gastrointestinale.

TIREOTOSSICOSI
Sindrome clinica conseguente all’esposizione dei tessuti ad eccessivi livelli di ormoni tiroidei
circolanti. Possiamo distinguere le cause in due gruppi:

1. Tireotossicosi con ipertiroidismo (c’è iperfunzionalità tiroidea):

a. Mordo di Basedow: si tratta di una malattia autoimmune caratterizzata dalla


presenza di ab rivolti contro il recettore del TSH. È tipica di donne in età fertile.
Gli autoab si legano al recettore NIS e determinano uno stato di costante
iperattivazione della ghiandola nel suo complesso. In conseguenza a ciò, le
manifestazioni tipiche di questa patologia, oltre all’ipertiroidismo,
comprendono anche la presenza di gozzo, esoftalmo bilaterale per
l’infiltrazione di leucociti all’interno del tessuto connettivale orbitale con
deposizione di collagene e GAG nei pressi dei muscoli estrinseci, spostamento
dell’asse dell’occhio dovuto al legame con i recettori presenti a livello della
muscolatura estrinseca dell’occhio e, raramente, mixedema pretibiale. La
presenza di questa sintomatologia permette di fare diagnosi, si associano
comunque, generalmente, esami ematici per dosare il TSH e FT4 (reflex) e
soprattutto la scintigrafia (gold standard) che evidenzierà l’intera ghiandola
come ipercaptante. Ci sono poi anche alcuni segni clinici caratteristici:

i. Segno di Graefe: si abbassa un dito davanti all’occhio del pz e si nota


che la palpebra superiore non segue lasciando scoperto un tratto di
sclera.

321
ii. Segno di Moebius: si avvicina lentamente un dito agli occhi del pz e si
può notare che uno o entrambi perdono la convergenza e deviano
verso l’esterno.

Una volta fatta la diagnosi si instaura la tp medica o si procede con intervento


chirurgico. In prima istanza si usano farmaci antitiroidei di sintesi: si può
scegliere tra il Metimazolo e il Propil-tio-uracile. In realtà, il secondo è stato
tolto dal commercio, ma era utile perché meno teratogeno in gravidanza
rispetto all’altro. In generale, comunque, si ottiene un effetto in circa 2 mesi,
non c’è rischio di ipotiroidismo permanente, ma si possono avere reazioni
cutanee, aplasia midollare transitoria o, raramente, definitiva, artralgie e disturbi
gastro-intestinali. Bisogna considerare che c’è un rischio di recidiva del 50-
80%; ad ogni modo il 50-60% dei pz va, almeno inizialmente, in remissione.
Per coloro che non sono sensibili agli effetti di questa tp si può prospettare la
distruzione della tiroide con radio-iodio 131 (è un isotopo diverso da quelli
usati per fare la scintigrafia perché in questo caso il decadimento è di tipo beta
e dunque porta all’immissione di particella ad alta energia) o l’intervento
chirurgico di tiroidectomia totale. Per decidere quale delle due metodiche
utilizzare bisogna considerare diversi fattori: in primo luogo ci sono pz per i
quali il radioiodio non è assolutamente utilizzabile (tiroidi molto grandi che
richiederebbero dosaggi troppo elevati, minori, donne che vogliono avere
bambini perché lo iodio si accumula a livello di gonadi e mammella e pz che
presentano oftalmopatia poiché quest’ultima tenderebbe a peggiorare). In
secondo luogo devo anche considerare che, se la chirurgia ha un costo iniziale
più elevato, sul lungo termine ha costi molto ridotti nel follow up. La chirurgia è
però gravata da complicanze maggiori; c’è poi un’importante preparazione da
fare ai pazienti che devono essere sottoposti all’intervento perché operando
non in condizioni di eutiroidismo c’è il rischio di avere una crisi tireotossica che
è letale nel 70%. Si usa Metimazolo, Propanololo (inibisce la trasformazione
periferica del T4 in T3 e riduce la frequenza cardiaca), ioduro di potassio a
partire da 15 gg prima (per l’effetto di Wolff-Chaikoff se lo iodio presente è in
quantità troppo elevate non riuscirà ad entrare nei tireociti) e glucocorticoidi in
caso di grave oftalmopatia.

b. Gozzo tossico multinodulare: nelle aree a carenza iodica dopo 15 anni di


gozzo non trattato il 50-60% dei pz va incontro a questa patologia che viene
trattata con tiroidectomia totale. Anche in questo caso devo prima raggiungere
l’eutiroidismo e uso i medesimi farmaci elencati in precedenza ad eccezione
dello ioduro di potassio. Non si usa il radioiodio.

c. Adenoma tossico (morbo di Plummer): si ha un nodulo che produce ormoni in


grande quantità e il resto della tiroide non funzionante, alla scintigrafia
vedremo, pertanto, un nodulo caldo. All’ecografia questo nodulo apparirà
solido e al doppler si vedrà vascolarizzazione periferica e anche vasi
all’interno. Fare diagnosi con l’ecografia è comunque difficile e bisogna
correlare i dati così ottenuti alla clinica e ai valori di laboratorio. L’ecografia
non è la metodica di scelta perché, essendoci TSH basso, l’esame da fare è la
scintigrafia. Ad ogni modo, una volta che viene diagnosticata questa patologia
si procede con emitiroidectomia.

322
DD con Basedow: qui è solo un nodulo a essere iperfunzionante e non tutta la
tiroide, FT4 risulta aumentato in maniera meno marcata, non ci sono autoab e
non sono presenti sintomi oculari, mentre, palpando la tiroide, si potrebbe
riuscire ad apprezzare il nodulo.

d. Adenoma ipofisario con iperproduzione di TSH.

e. Resistenza ipofisaria agli ormoni tiroidei con assenza del feed-back negativo.

f. Tumori secernenti gonadotropina corionica (corioncarcinoma) che è una


molecola simile al TSH e, dunque, è in grado di stimolare la tiroide. Lo stesso
problema si può avere durante la gravidanza se si ha un quadro di mola
idatiforme.

2. Tireotossicosi senza ipertiroidismo:

a. Tiroidite di De Quervain ( -> vedi patologia infiammatoria)

b. Hashitossicosi (-> vedi patologia infiammatoria)

c. Tireotossicosi da struma ovarico: è una rara forma di teratoma che produce


ormoni tiroidei.

d. Tireotossicosi iatrogena: farmaci legati a questa problematica, oltre


ovviamente ai sostituti degli ormoni tiroidei, sono l’Amiodarone (contiene
iodio), il litio, l’interferone e i mezzi di contrasto iodati. All’Amiodarone
bisogna prestare particolare attenzione: sia perché può portare sia ad ipo- che
a ipertiroidismo, sia perché non sempre è evidente che il farmaco sia la causa
della patologia, in quanto quest’ultima può manifestarsi anche a distanza di
anni dalla sospensione perché lo iodio contenuto all’interno viene
immagazzinato a livello del grasso bruno. Per quanto riguarda gli ormoni
tiroidei presi da soggetti sani, ad esempio perché vogliono dimagrire, si potrà
vedere una scintigrafia negativa perché la tiroide non deve lavorare e la
conferma si ottiene perché non si avrà tireoglobulina circolante, sempre per il
fatto che i tireociti non lavorano e questi ultimi sono gli unici in grado di
produrre questa molecola.

e. Tireotossicosi factitia: si hanno i sintomi tipici della tireotossicosi senza che ci


sia gozzo o oftalmopatia. Generalmente è tipica di pz che hanno perso molto
peso o con malattie psichiatriche

f. Mx da carcinoma tiroideo differenziato.

g. Hamburger tireotossicosi: teoricamente è vietato per legge, ma, se si mangia


una tiroide animale, si va incontro a questo quadro.

Si parla di crisi tireotossica quando pz con ipertiroidismo noto vanno incontro ad uno
scompenso sistemico, generalmente in seguito a brusca interruzione della tp, chirurgia senza
aver fatto la tp precedente che consente di arrivare ad una condizione di eutiroidismo, a
323
patologie acute o, raramente, a tp con radioiodio. In alternativa si va incontro a questo
quadro anche in assenza di ipertiroidismo se si ha un rilascio massivo degli ormoni
immagazzinati o se un altro tessuto li produce in maniera patologica. Questi pz si
presenteranno con ipertermia, tachicardia, fibrillazione atriale, edema polmonare legato allo
scompenso cardiaco, agitazione, delirio e talora anche coma. È importante intervenire
idratando, somministrando farmaci antitiroidei e ioduro di potassio, beta bloccanti e
glucocorticoidi (profilassi per evitare insufficienza surrenalica); si dovrebbe poi fare
l’intervento chirurgico. Nonostante tutti i presidi, la crisi tireotossica ha una mortalità elevata.

IPERTIROIDISMO
Sindrome clinica conseguente ad un eccesso di ormoni tiroidei circolanti dovuto ad
iperfunzione tiroidea. È una sottoclasse della tireotossicosi: è, infatti, un gruppo di patologie
in cui la tiroide funziona più del normale fino anche a portare a tireotossicosi. È più frequente
nel sesso femminile e tende a manifestarsi in due modi diversi: nelle zone con normale
apporto di iodio generalmente si ha un gozzo diffuso tossico; al contrario, nelle zone a
carenza di iodio, dove l’ipertiroidismo è più frequente, si ha tipicamente un gozzo nodulare
tossico. In generale, per le forme che possono portare a ipertiroidismo vedere il punto
precedente (tireotossicosi da cause tiroidee). Si parla di forme subcliniche quando il TSH è
soppresso ma FT4 è nella norma, mentre è un ipertiroidismo manifesto quando anche FT4
non rientra nel range fisiologico. Le forme subcliniche aumentano il rischio di sviluppare FA,
quindi vanno trattate alla stessa maniera di quelle manifeste. Spesso le forme che
comprendono il gozzo si presentano inizialmente come subcliniche. Per quanto riguarda la
sintomatologia presente nelle forme cliniche, essa è molto varia:

- Tachicardia/cardiopalmo: si possono avere sia una tachicardia sinusale che


tachiaritmie sovraventricolari.
- Aumento della gittata e riduzione del tempo di circolo: si ha un aumento della PA
differenziale con polso ampio e celere, si può poi avere dispnea da sforzo sempre a
causa del circolo ipercinetico e angina pectoris perché si riduce la riserva coronarica.
Tutta questa situazione può degenerare in un franco scompenso cardiaco ad alta
gittata.
- Prolasso mitralico
- Aumento del metabolismo basale con aumento della produzione di calore (febbricola
e sudorazione) e calo ponderale.
- Cambiamenti metabolici: ci sarò ipocolesterolemia e aumento del catabolismo
proteico.
- Diarrea e/o aumento della frequenza dell’alvo.
- Iperemesi (tendenza particolarmente accentuata al vomito)
- Nervosismo, insonnia, agitazione psico-motoria fino alla psicosi e fini tremori.
- Astenia, facile stancabilità.
- Retrazione palpebra superiore.

In gravidanza questa patologia è molto problematica perché il radioiodio è assolutamente


controindicato, così come lo è la chirurgia perché l’anestesia potrebbe danneggiare il feto.
Fortunatamente in circa il 90% dei casi la causa è il morbo di Basedow: essendo una
patologia auto-immune in gravidanza la sintomatologia si riduce perché l’immunità in toto
risulta essere soppressa per poter tollerare il feto. Spesso, dunque, non serve nemmeno
trattare la pz, anche perché in caso di Basedow, non posso usare nemmeno i farmaci
antitiroidei in quanto teratogeni, in realtà, comunque, se dovessero esserci problemi

324
importanti si usano a basse dosi. Generalmente il pericolo più importante è al momento del
parto perché si potrebbe avere un rimbalzo della malattia; ci potrebbero essere problemi
anche durante la gravidanza perché è più frequente che il bambino nasca con peso basso
e/o pretermine, che presenti anomalie congenite (3-5%) o che vada incontro a morte fetale
o perinatale (5-6%); per quanto riguarda la madre infine aumenta il rischio di sviluppare pre-
eclampsia [sindrome caratterizzata dalla presenza di edema, proteinuria o ipertensione nella
donna gravida].

IPOTIROIDISMO
Si tratta di una sindrome da deficit degli ormoni tiroidei: è una patologia molto frequente
(prevalenza dello 0.4-2%, che sale al 5% della popolazione al di sopra dei 65 anni, specie
nel sesso femminile). Porta a rallentamento generalizzato dei processi metabolici: il soggetto,
infatti, tipicamente si presenta con assenza di vitalità, mancata crescita delle unghie, perdita
di capelli, aumento di peso, assenza del ciclo mestruale, freddo, ritenzione idrica, senso di
fatica e spesso gozzo. Ci sono poi le manifestazione neurologiche che comprendono
sonnolenza, perdita della memoria, iporiflessia o, nel caso di soggetti anziani, peggioramento
del decadimento cognitivo. Nei bambini è poi responsabile di nanismo disarmonico con
deficit di accrescimento delle ossa lunghe, rallentamento della crescita e dello sviluppo
intellettivo. Infine, nel feto si potrà avere deficit del QI fino al cretinismo, ittero prolungato,
macroglossia (c’è ritenzione idrica e i liquidi si accumulano soprattutto a livello peri-orbitale
e linguale), addome gonfio e faccia grande.

Possiamo avere:

1. Forme primitive: è la ghiandola tiroidea a non essere funzionante. Sono quelle


nettamente più frequenti, quindi, dal momento che il TSH è normalmente alto per
cercare di stimolare la tiroide, l’esame di scelta non è la scintigrafia, ma l’ecografia;
altro esame opportuno è il dosaggio delle anti-perossidasi tiroidee che indicano che il
soggetto soffre di tiroidite di Hashimoto, ovvero una delle cause più comuni di
ipotiroidismo. Oltre a quest’ultima ci possono essere anche cause iatrogene, una
tiroidite subacuta aggressiva, farmaci o un deficit di iodio (il minimo indispensabile è
100 microgrammi). Possiamo suddividerle in due forme:

a. Si parla di ipotiroidismo primitivo congenito quando presente alla nascita: può


essere endemico, e dunque legato ad una carenza iodica, o sporadico nel
quale abbiamo un difetto genetico o un processo malformativo a carico della
ghiandola tiroidea (disgenesia tiroidea, sindrome di Pendred…). Le forme
endemiche sono più gravi rispetto a quelle congenite: nelle prime, infatti,
essendoci carenza di iodio, neanche la madre è in grado di produrre ormoni
tiroidei che possano sopperire alle carenze del feto, e a risentirne è soprattutto
lo sviluppo neurologico. Alla nascita viene fatto in Italia un esame di screening:
si misura il TSH da un prelievo fatto su sangue capillare prelevato dal tallone
del bambino. Bisogna considerare che fisiologicamente i valori di TSH nel
neonato sono più alti per ragioni di cambio di temperatura al momento del
parto; se, nonostante questo, i valori vengono considerati alti (>6,5 mU/L),
dopo 30 giorni bisogna ripetere l’esame per poter iniziare, nei casi in cui fosse
necessaria, la tp il prima possibile (!Per ogni mese di ritardo il bambino perde
da 3 a 5 punti del QI). In seguito alla diagnosi si inizia la tp sostitutiva con
ormoni esogeni, i quali vanno somminstrati a dosaggi pro chilo più alti rispetto

325
agli adulti (10-15 mcg/Kg). Lo screening è fondamentale perché la
sintomatologia è raramente evidente e non è comunque specifica per la
patologia, per queste ragioni si avrebbe un 90% di mancate diagnosi. Ecografia
e scintigrafia possono essere utili per ricercare tiroidi in sedi ectopiche.

b. L’ipotiroidismo nell’adulto, ovvero tutte quelle forme che insorgono dopo la


nascita, può essere dovuto a diverse ragioni. La causa più frequente è quella
iatrogena (tiroidectomia totale o tp con radioiodio), in secondo luogo abbiamo
la tiroidite di Hashimoto. Nei pz affetti da quest’ultima patologia, la tiroide
viene progressivamente distrutta dagli autoab; più precisamente ci sono tre fasi
di malattia. Inizialmente è presente una reazione anticorpale, c’è infiltrato
linfociario, ma la funzione tiroidea è normale, il secondo step è un
ipotiroidismo subclinico (TSH>4,5 mU/L ma ormoni tiroidei nella norma,
ovvero FT3 2,5-5 pg/mL e FT4 0,8-1,8 pg/mL), infine abbiamo le forme
conclamate (ovvero quelle in cui all’aumento di TSH si associa anche una
riduzione degli ormoni tiroidei). La progessione non è obbligatoria perché ci
sono pz che rimangono al primo stadio per tutta la vita. Ad essere colpite dalla
tiroidite di Hashimoto sono soprattuto donne in età pre-puberale o dopo la
menopausa.

2. Forme secondarie o terziarie/centrali: dipendono da un deficit ipofisario o


ipotalamico.

3. Forme da resistenza recettoriale: è una forma rara nella quale l’asse ipotalamo-ipofisi-
tiroide funziona ma i recettori no.

La diagnosi può talvolta essere problematica e generalmente è comunque più tardiva rispetto
a quella di ipertiroidismo perché i sintomi sono meno eclatanti e meno specifici. Come prima
cosa si fa il dosaggio degli ormoni tiroidei e del TSH, si può poi fare il dosaggio di ab anti-
tiroide e della colesterolemia, che in questi pz è tipicamente aumentata. Dal punto di vista
delle metodiche di imaging, l’ecografia è molto importante: nel caso, ad esempio, di tiroidite
di Hashimoto, si vedrà un infiltrato linfomonocitario con aree ipoecogene. Infine, nel caso in
cui ci sia motivo di sospettarlo, si può fare anche uno screening per vedere se questo deficit
si inserisca nell’ambito di una sindrome polighiandolare autoimmune.

Nel caso si faccia diagnosi di forma secondaria, quindi con TSH basso, si devono fare esami
per verficare la funzione ipofisaria.

Una volta, se il TSH era <10 e la pz non voleva avere figli, si metteva solo in FU
(l’ipotiroidismo in gravidanza è pericoloso non solo per i deficit che potrebbe comportare
allo sviluppo del nascituro, specie nei primi tre mesi di gestazione, ma anche
perché aumenta l’incidenza di ipertensione gravidica, con o senza preeclampsia, di distacco
placentare, di basso peso alla nascita, di avere nascita di un feto morto o con malformazioni
congenite e di avere emorragia post-partum), ad oggi le linee guida raccomandano, invece,
di trattare con tp ormonale tutti coloro che hanno disturbi correlati all’ipotiroidismo. Studi
recenti sostengono che nei pz anziani sia bene lasciare un TSH leggermente alto perché si
crede che possa essere protettivo e anche che si associ a longevità.

326
Il trattamento consiste nella somministrazione di analoghi di T4 (Levotiroxina) dosati in base
al peso. Per quanto riguarda il dosaggio, se il pz ha subito una tiroidectomia si calcolano
1.6mcg/kg/die, che, in un soggetto di 70kg, corrisponde a circa 112mcg. All’inizio si tende
comunque a stare a dosi più basse perché riattivare la tiroide bruscamente può portare a
consumo significativamente superiore di O2 rispetto a quanto era abituato l’organismo con
iperattivazione adrenergica. La Levotiroxina deve essere assunta a diugno, a meno che non si
usino le formulazioni liquide che possono essere prese contestualmente alla colazione. Oltre
alla presenza di cibo nello stomaco, ci sono anche altri fattori in grado di ridurre
l’assorbimento del farmaco: rientrano in questa categoria il solfato di ferro e i PPI. Quando si
inizia una tp sostitutiva, anche in assenza di chirurgia, generalmente i sintomi si attenuano
rapidamente, per avere una stabilizzazione sono però richieste 4-6 settimane; ne deriva che
gli esami per verificare la correttezza del dosaggio non debbano essere fatti prima di questa
scadenza. L’obiettivo è quello di far rientrare il TSH nel range di normalità (0.4-5mU/L); a
seconda poi delle condizioni del soggetto si può decidere di puntare ad abbassarlo di più o
di meno. Se, ad esempio, il soggetto ha cardiopatia ischemica o aritmie, conviene che il TSH
sia nella parte alta del range di normalità per evitare eccessiva stimolazione metabolica; se,
invece, si vuole inibire il TSH perché il soggetto ha un carcinoma midollare già trattato, il
TSH deve essere mantenuto il più basso possibile. Nei pz con forme centrali, non è possibile
affidarsi al TSH per valutare la tp, si deve quindi dosare l’fT4, che dovrebbe essere nella metà
superiore del range di normalità.

Dopo aver impostato la tp si ricontrollano dunque i valori a 6 settimane di distanza, se


necessari si fanno i dovuti aggiustamenti, e poi, una volta raggiunto il range terapeutico
desiderato, si imposta un controllo a 6 mesi e poi annuale come FU, o sempre a 6 mesi se c’è
una tiroidite autoimmune. Saranno poi da adoperare variazione del dosaggio nei seguenti
casi:

1. Invecchiamento: basteranno quantità inferiori (se la tp viene iniziata in età senile, la


dose deve già partire più bassa di circa il 50%)
2. Variazioni di almeno il 10% del peso corporeo
3. Gravidanza
4. Patologie GI che riducono l’assorbimento
5. Sindrome nefrosica
6. Farmaci che danno interazioni
7. Androgeni: potenziano l’effetto quindi la dose andrà ridotta.

Gli effetti collaterali insorgono o in caso di sovradosaggio oppure in caso di allergia ad


eccipienti.

Se a fronte di una tp sostitutiva già impostata, non si ha normlizzazione dei valori, è


necessario in prima battuta chiedersi se il pz assuma realmente la Levotiroxina. Bisogna poi
verificare se siano presenti alterazioni farmacologiche. Se non si trova una spiegazione si fa il
test di assorbimento della Tiroxina. Ci sono poi dei casi in cui, nonostante il TSH venga
normalizzato, il pz continua a lamentare i sintomi: probabilmente si avranno in questo caso
difficoltà dell’ormone esogeno ad arrivare nei tessuti e esplicare la propria funzione, oppure
si può pensare ad una forma di eretismo psichico.

In caso di mancata risposta, si può pensare di somministrare direttamente T3 3 volte al


giorno: si tratta dell’ormone già attivato, il quale ha dunque effetto più rapido.

327
In pz con concomitante ipocorticosurrenalismo, prima bisogna aggiustare questo problema
perché altrimenti si rischia di provocare una crisi acuta.

In gravidanza la tiroide è fisiologicamente spinta a produrre una quantità maggiore di ormoni


poiché, specie nella prima fase, essi vengono utilizzati anche dal feto. Talvolta, però, la
madre non riesce a sopperire a questo fabbisogno aumentato, e ciò può avvenire per diverse
ragioni: in primo luogo si hanno aumentate perdite di iodio, aumenta poi la produzione della
TBG, che è la proteina che trasporta lo iodio, e dunque servono maggiori quantità di ormone
per saturarla, infine la placenta inattiva l’ormone tiroideo. Fare diagnosi di ipotiroidismo in
gravidanza deve tenere conto di alcune cose: il TSH è fisiologicamente più basso, e questo
non vuol dire che tutte le donne diventino ipotiroidee, ma è dovuto al fatto che la beta-HCG
è simile al TSH e, dunque, stimola essa stessa la tiroide al posto del TSH. Per le donne
gravide bastano valori di TSH superiori a 2.5mU/L per fare diagnosi. In questo caso è
fondamentale iniziare immediatamente la tp, se invece la donna è già a conoscenza della
patologia, deve aumentare del 30-50% la dose prochilo.

Nei pz operati per carcinoma tiroideo, è necessario fare una tp per sopperire a questa
carenza ormonale iatrogena. In alcuni casi non si punta però solo a raggiungere un
eutiroidismo, quanto piuttosto ad una tireotossicosi sublicina iatrogena. Il razionale è che se
dovessero essere rimaste alcune cellule tiroidee, esse non verranno in alcun modo stimolate
dal TSH (che sarà azzerato per i fenomeni di feedback) e dunque sarà meno facile che diano
inizio a una recidiva. Dal momento che i valori tiroidei elevati possono comportare problemi
per il pz (problemi cardiovascolari, osteoporosi…), questo obiettivo viene posto solo qualora
il rischio di recidiva sia alto. Se il rischio è intermedio, il TSH va mantenuto tra 0.1 e
0.5mU/L; infine, in caso di basso rischio e tireoglobulina azzerata si punta ad avere un TSH
di 0.5-2mU/L.

PATOLOGIA INFIAMMATORIA
Ci sono varie patologie ascrivibili a questo gruppo:

1. Tiroidite subacuta/di De Quervain: è un forma virale (Rotavirus, Echovirus,


Coxsackievirus, Virus influenzali, EBV, Virus della parotite) che si manifesta con vivo
dolore al collo, indici di flogosi elevati, febbre e sintomi della tireotossicosi. In effetti, i
virus fanno scoppiare le cellule determinando un massivo rilascio di ormoni. Per
quanto riguarda l’outcome, se il virus è poco virulento si avrà restitutio ad integrum,
mentre, se è molto aggressivo, ci potrà essere un ipotiroidismo residuo causato dalla
fibrosi dovuta all’imponente processo infiammatorio. La diagnosi è semplice e viene
fatta tramite palpazione e misurazione degli indici di flogosi (!Occhio che la
scintigrafia apparirà non captante perché la tiroide viene distrutta). Si deve impostare
una tp con alte dosi di cortisone.

2. Tiroidite acuta: si tratta di una patologia rara ad eziologia batterica che si presenta
come tumefazione suppurativa a livello del collo che può fistolizzare con la cute. La
mortalità è superiore al 50% perché la tiroide è un organo molto vascolarizzato e
dunque è molto frequente che il batterio dia sepsi. Va trattata con antibiotici ad ampio
spettro e posizionamento di un drenaggio, talvolta richiede la rimozione della
ghiandola stessa.

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3. Tiroidite cronica: può essere trattata assumendo integratori di Selenio che consentono
al pz di non dover fare una tp sostitutiva per tutta la vita. [Lui le cita come un gruppo a
parte solo per citare il selenio: in realta anche quella di Hashimoto è cronica]

4. Tiroidite di Hashimoto: è una forma cronica ad eziologica autoimmune. Inizialmente


si ha rottura dei follicoli con ipertiroidismo transitorio (hashitossicosi), dopodiché c’è
una situazione di ipotiroidismo. All’ecografia la ghiandola apparirà fibrotica con
struttura sovvertita e sarà ipoecogena. Talvolta può essere associata ad altre malattie
come il diabete, la celiachia, l’anemia perniciosa o la vitiligo.

5. Tiroidite di Riedel: (progressione della tiroidite di Hashimoto? Lo dice lui ma non


saprei) è una patologia caratterizzata dalla sostituzione del normale parenchima
tiroideo con tessuto fibrotico denso che tende anche a fuoriuscire dalla capsula e
invadere le strutture adiacenti.

GOZZO
Si tratta di un aumento di volume della tiroide indipendente dal suo stato funzionale.
Possiamo avere:

1. Forme endemiche tipiche di zone in cui c’è carenza di iodio. Per valutare se lo iodio
assunto con l’alimentazione è sufficiente calcolare la ioduria, si indaga la
tireoglobulina e il valore sierico del TSH. Nel caso in cui ci sia una carenza di iodio, la
tiroide non riesce a lavorare correttamente, ma, nonostante questo, viene
continuamente stimolata dall’ipofisi e, dunque, i valori degli ormoni tiroidei saranno
bassi mentre il TSH sarà aumentato. In questo quadro si ha ipertrofia ed iperplasia
delle cellule follicolari: pare che ciò sia imputabile non solo all’aumento della
stimolazione, ma anche al fatto che lo iodio permette di aumentare la produzione di
molecole come i lipidi iodati che sembrerebbero inibire l’ipertrofia e l’iperplasia.
Nell’età infantile, la presenza di gozzo dovuto ad insufficiente apporto di iodio può
accompagnarsi anche ad un ritardo nello sviluppo. Nel feto e nel neonato si correla
invece a aborto, mortalità perinatale, cretinismo e difetti psico-motori. [Per maggiori
info sullo iodio -> fisiologia]

2. Forme sporadiche: alla base potrebbero esserci farmaci o alterazioni nel processo di
formazione degli ormoni tiroidei. Tra i farmaci rientra l’Amiodarone, mentre al
secondo gruppo appartiene la sindrome di Pendred (autosomica recessiva) che porta
a ipotiroidismo associato a sordità. La presenza di gozzo può poi essere
compensatoria, nel caso in cui venga asportato un lobo, oppure può essere iatrogena:
quando si deve operare un pz con mordo di Basedow si somministrano grandi
quantità di iodio per ridurre la produzione di ormoni grazie alla competitività
recettoriale.

Oltre a questa distinzione, bisogna considerare che i diversi gozzi possono essere distinti
anche in base alla funzionalità, all’interessamento totale o parziale della ghiandola, oppure si
può utilizzare anche una suddivisione anatomo-patologica (follicolare, colloideo, cistico e
fibroso).

Per quanto riguarda la sintomatologia, essa dipende sia dalla quantità di ormoni prodotti che
dalle dimensioni della ghiandola. Il pz potrà avere fastidio alla regione cervicale, disfagia,

329
dispnea per compressione tracheale, disfonia da compressione del nervo laringeo oppure, se
il gozzo arriva ad avere dimensioni molto importanti, si può avere la sindrome di Bernard-
Horner (ptosi palpebrale, enoftalmo e miosi per compressione del simpatico). Nel caso dei
gozzi tossici, uninodulari o diffusi, ci sarà tutta la sintomatologia all’ipertiroidismo.

La diagnosi si fa grazie a:

1. Esami di funzionalità tiroidea (importante non solo la componente tireocitaria, ma


anche la produzione di calcitonina)
2. Ecografia del collo
3. Radiografia se si sospetta una deviazione tracheale e per vedere se il gozzo si è
espanso anche a livello mediastinico.
4. TC: permette anch’essa di valutare l’estensione del gozzo in modo da poter
pianificare l’intervento nel modo più preciso possibile e permette di capire anche se
siano state interessate per compressione o infiltrazione altre strutture.
5. Agobiopsia: viene effettuata solo per noduli con caratteristiche sospette.

Il gozzo cervico-mediastinico viene identificato come una condizione in cui il collo del pz sia
iperesteso e il polo inferiore del gozzo arrivi 3cm sotto il giugulo. Spesso si associa alla
presenza di una patologia neoplastica; si ha comunque la discesa della ghiandola a causa del
peso, del volume, del cedimento muscoli cervicali e della pressione negativa del mediastino.

Per quanto riguarda la terapia, l’intervento chirurgico è riservato solo a casi selezionati:

- Presenza di sintomi ostruttivi


- Gozzo cervico-mediastinico
- Gozzo nodulare con noduli >4cm che potrebbero nascondere neoplasie
- Storia familiare di cancro tiroideo o presenza di fattori di rischio per lo sviluppo dello
stesso come una pregressa rt a livello del collo.
- Problemi estetici importanti

Quando si decide di operare si può fare un incisione a cravatta oppure sfruttare metodiche di
chirurgia video-assistita che consentono di fare una piccola incisione di soli 1-2cm.
Ovviamente la seconda tipologia di intervento non può essere utilizzata in tutti i casi: si
applica quando si vuole asportare un nodulo o una porzione di dimensioni non superiori ai 3
cm e ai 20-30 cc di volume. Per quanto riguarda la procedura classica: il paziente viene
messo su un lettino inclinato con le spalle sollevate per estendere il più possibile la regione
cervicale. In questo modo infatti il nervo ricorrente viene messo in tensione ed è più facile
individuarlo. Nonostante questo, il danneggiamento di questo nervo rientra tra le
complicanze di questo intervento, altre sono poi emorragie, infezioni e tetania. Per
scongiurare il danneggiamento del laringeo ricorrente si usano sonde sterili che permettono
un monitoraggio intraoperatorio: viene stimolato il laringeo e si vede se si ha il normale
effetto sulla motilità della corda vocale corrispondente. Le emorragie sono pericolose perché
quando si accumulano ingenti quantità di sangue a livello del collo, esso può andare a
comprimere la trachea: per ovviare a questo problema si utilizzano dei drenaggi. La tetania si
correla, infine, alla rimozione accidentale delle paratiroidi: una volta si dosava il paratormone
che ha un’emivita breve, ma, ad oggi, non si fa più a causa dei costi elevati e della poca
specificità, si preferisce invece utilizzare occhialini ingrandenti che permettono di identificare
le paratiroidi per evitare di rimuoverle.

330
Nel caso di gozzo cervico-mediastinico l’operazione è nettamente più complicata. Si
interviene se il gozzo persiste da più di 160 mesi, specie se il soggetto è di sesso femminile,
se il volume della tiroide è molto elevato e se ci sono ab anti-tiroide o anti-perossidasi. Si
devono fare sia cervicotomia che sternotomia per accedere al mediastino; la prima si deve
fare nonostante la tiroide sia spostata inferiormente perché i vasi sono comunque a partenza
da questo livello. La percentuale dell’incidenza delle complicanze intra e post-operatorie in
questo caso è più elevata; in particolare c’è un rischio importante di lesioni a carico della
trachea e/o dell’esofago.

NODULI TIROIDEI
Con la definizione di nodulo tiroideo si intende solamente che è presente una neoformazione
a livello tiroideo, la quale può essere identificata sia visitando il pz (alla palpazione si
possono rinvenire noduli che siano di almeno 2cm), sia con metodiche strumentali. Si tratta
di una condizione molto diffusa: a seconda delle zone la prevalenza varia dal 5 al 50% e
risultano essere maggiormente interessati i soggetti anziani e quelli di sesso femminile.
Fortunatamente, comunque, solo nel 5-10% si tratta di un nodulo maligno, quindi tumorale,
condizioni più frequenti sono invece i gozzi multinodulari, le cisti, gli adenomi o gli
pseudonoduli.

Quando sospettare una possibile condizione di malignità? Devo considerare:

- Dimensioni
- Margini
- Fissità
- Consistenza
- Presenza concomitante di linfoadenopatie
- Presenza concomitante di disfonia o disfagia

L’iter diagnostico prevede diversi step:

- Dal punto di vista delle indagini di laboratorio si devono dosare TSH, fT4 e la
calcitonina. Come accennato nella fisiologia, i valori del TSH (fisiologici 0.3-5 mUI/L),
servono ad orientare i passi successivi:

o Valori bassi –> è l’unico caso in cui si deve procedere chiedendo una
scintigrafia tiroidea. Se il nodulo è caldo significa che produce verosimilmente
molti ormoni e questo potrebbe spiegare i bassi valori di TSH e generalmente
siamo in una situazione benigna (!occhio all’adenoma di Plummer); se invece
il nodulo è freddo si procede con un ago aspirato e un’ecografia. Il primo serve
a capirne la natura anatomo-patologica, il secondo ad escludere una cisti che,
essendo ripiena di liquido, risulta ipocaptante, ma non è assolutamente da
considerarsi maligna.
o Valori normali –> si fa un’ecografia e in base ai risultati di quest’ultima si decide
se fare un agoaspirato o meno.
o Valori alti –> Si procede come nel caso precedente.

- L’ecografia viene fatta con sonde lineari, non convex e ad alte frequenze (7-13 MHz).
Permette di indagare in maniera preliminare molti di quei criteri che abbiamo detto
essere maggiormente collegati a noduli maligni:

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o Dimensione e numero dei noduli: è importante valutare e riportare tutte le
dimensioni del nodulo perché in questo modo può essere monitorato con
esami seriati. Se, infatti, si è di fronte ad un nodulo che cresce rapidamente si
può sospettare una forma neoplastica. È poi importante valutare il diametro
antero-posteriore e quello trasverso poiché se il primo è maggiore del secondo
è legittimo sospettare una forma maligna.
o Ecostruttura: ci sono noduli che appaiono come buchi neri con un rinforzo
posteriore, ovvero con dietro un’area bianca e che vanno identificati come
cisti, ci possono poi essere noduli ipoecogeni o con caratteristiche miste.
Questi ultimi presenteranno sia una componente liquida che una solida
(gettone): sono proprio questi ultimi a essere particolarmente preoccupanti,
specie se il gettone cresce rapidamente. In generale comunque i noduli
ipoecogeni devono essere considerati preoccupanti.
o Margini: qualora non siano ben delimitati bisogna sospettare malignità.
o Presenza di calcificazioni: possono essere macro, e in questo caso non mi devo
preoccupare, o micro. Le prime presentano un cono d’ombra al di sotto
dovuto al fatto che la calcificazione blocca il passaggio delle radiazioni e
generalmente sono colloide solidificata; in alcuni casi ci può poi essere un
guscio calcifico intorno al nodulo, altro indice di benignità. Al contrario, le
microcalcificazioni, ovvero quelle prive di cono d’ombra e generalmente al di
sotto dei 5mm, devono insospettire.
o Vascolarizzazione: quella più pericolosa è quella intranodulare.
o Stiffness (durezza): se l’ecografo è dotato di un particolare software con
un’elastografia si può definire la durezza del tessuto.
o Analisi dei linfonodi: una prima indicazione la dà la forma poiché quelli
patologici generalmente non sono ovali come dovrebbero ma tondi. Si può poi
analizzare l’ilo: se si evidenzia bene generalmente il linfonodo è reattivo e non
metastatico. Anche la vascolarizzazione è importante: se essa è anarchica
depone per un interessamento linfonodale.

- Agoaspirato: se all’ecografia ci sono forti motivi per sospettare malignità e se ci sono


fattori di rischio allora si procede con l’analisi anatomo-patologica. Generalmente si
effettua questa procedura se si ha il diametro antero-posteriore maggiore del trasverso
associato ad un’altra caratteristica potenzialmente maligna.

TUMORI DELLA TIROIDE


In senso generale sono poco frequenti (1% di tutte le neoplasie), mentre, considerando solo
le ghiandole endocrine, sono quelli più frequenti (90%) e quelli a cui si associa il maggior
numero di decessi: ciò non significa che le neoplasie tiroidee si correlino ad elevata mortalità,
è esattamente il contrario, ma, essendo nettamente prevalenti dal punto di vista
dell’incidenza, anche lo scarso numero di morti rapportato al grande numero di casi diventa
elevato. Si sta assistendo ad un aumento importante dell’incidenza: questo è dovuto in parte
ad un aumento dei fattori di rischio per il suo sviluppo e dall’altra al fatto che le metodiche
diagnostiche migliorano sempre di più. Nonostante l’aumento delle diagnosi, la mortalità
resta invariata e molto bassa rispetto ad altri tipi di tumore, tenendo comunque conto che,
anche a questo livello, si possono avere forme aggressive, che però sono fortunatamente più
rare rispetto alle altre.

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I carcinomi tiroidei sono leggermente più frequenti nel genere femminile, probabilmente a
causa del fatto che gli estrogeni possono stimolare la proliferazione del tessuto tiroideo; nel
maschio tendono ad essere più aggressivi. Altri fattori di rischio non sono ancora
completamente noti, sicuramente oltre alla familiarità o ad una franca ereditarietà, possiamo
annoverare le radiazioni: esse possono provocare neoplasie, che generalmente sono
comunque di natura benigna, in un lasso di tempo compreso tra i 5 e i 40 anni
dall’esposizione. Ad ogni modo è importante considerare l’età al momento dell’esposizione:
per i giovani è sicuramente maggiore il rischio di sviluppare una patologia neoplastica.

Per quanto riguarda i fattori prognostici, sono rilevanti l’età (molto giovane o molto anziana),
il sesso maschile, carcinomi tiroidei pregressi, la tipologia del tumore e l’eventuale bilateralità.

Le neoplasie tiroidee possono presentarsi come un gozzo uni/multinodulare, oppure può non
esserci alcuna evidenza obiettiva. Per quanto riguarda la sintomatologia bisogna considerare
che tumori di piccole dimensioni sono spesso asintomatici, in generale comunque possiamo
avere presenza di tumefazioni, sia centrali che laterali, sensazione di costrizione cervicale,
disfonia, dispnea, disfagia e problemi nella deglutizione, emottisi e dolore. Nel caso in cui si
sospetti un tumore tiroideo e se all’ecografia si nota un nodulo >1cm si può procedere
all’agobiopsia che può dare come risultato:

- TIR1: il materiale è inadeguato o non sufficiente quindi l’esame non è diagnostico e va


ripetuto.

- TIR2: diagnostico per patologia benigna (formazione cistica, iperplasia, tiroidite).


L’esame potrebbe essere ripetuto se si volesse valutare l’effetto della tp.

- TIR3: c’è proliferazione follicolare ma non è nota la causa.


o A: la probabilità che si tratti di una neoplasia maligna è del 10-15% quindi il
pz deve essere seguito dal punto di vista clinico, ecografico e scintigrafico ma il
cancro non è la diagnosi più probabile sulla base del campione analizzato.
o B: c’è proliferazione più importante e dunque c’è una probabilità che il tumore
sia maligno del 15-30%. Si può decidere di fare lobectomia.

- TIR4: c’è sospetto di malignità, generalmente la diagnosi più probabile è carcinoma


papillare. Si può ripetere la FNAC o analizzare il pezzo operatorio.

- TIR5: la formazione è sicuramente maligna e dunque si fa tiroidectomia.

Esistono diverse forme di tumore tiroideo:

1. Carcinoma midollare (5-10%): è l’unico ad originare dalle cellule C, si tratta dunque


di un tumore neuroendocrino. In un numero di casi non trascurabile (30%) c’è una
componente ereditaria inquadrabile nell’ambito delle malattie endocrine multiple e,
dunque, dopo una diagnosi di questo tipo, è opportuno screenare i familiari, anche
perché si tratta di una forma altamente aggressiva per la quale abbiamo a disposizione
solo la chirurgia e, dunque, si può decidere di fare tiroidectomia anche solo sulla base
della presenza documentata della predisposizione. La forma geneticamente
determinata più frequente è quella correlata alla mutazione del gene RET: possono
essere interessati diversi esoni e da questo dipende l’aggressività e la precocità di

333
manifestazione della neoplasia; generalmente le forme genetiche sono bilaterali. Si ha
un andamento progressivo: si passa da ipertrofia, iperplasia, iperplasia nodulare e
infine a carcinoma vero e proprio, spesso con associate mx linfonodali. Dal punto di
vista terapeutico, si fa svuotamento del comparto centrale e del sesto livello, nel FU
verranno poi dosate la calcitonina e l’antigene carcino-embrionario (CEA). Se la
diagnosi è molto tardiva, si può tentare un approccio chemioterapico, che però risulta
poco efficace, ci sono poi gli inibitori delle tirosin-chinasi che possono essere utilizzati,
ma hanno importanti effetti collaterali tra i quali si annoverano quelli cardiaci.
Sostanzialmente l’unico approccio davvero utile è fare diagnosi precoce e poi
intervenire chirurgicamente rimuovendo completamente il tumore.

2. Carcinoma papillifero/papillare (80% circa): ne esistono diverse varianti istologiche,


alcune con prognosi più favorevole (microcarcinoma con diametro <10mm, forma
follicolare, macrofollicolare o incapsulata) e forme invece più aggressive (a cellule
alte, a cellule colonnari, ossifile o forma sclerosante diffusa). La prognosi è poi
influenzata anche da altri fattori che possono peggiorarla: età alla diagnosi (>45 anni),
sesso maschile, forme multicentriche (!Nel 60% è multicentrico e/o bilaterale), scarsa
differenziazione, invasione della capsula tiroidea o dei vasi. In una percentuale di casi
compresa tra il 37 e il 65% si hanno interessamenti linfonodali e fino al 17% mx a
distanza.

3. Carcinoma follicolare (20% circa): può presentarsi in forma minimamente invasiva o


estesamente invasiva, in questo secondo caso le mx a distanza sono frequenti, specie
a livello di polmone, ossa e surrene che vengono raggiunti per via ematogena. La
prognosi è peggiore rispetto al precedente, ma può comunque essere trattato con
radio-iodio-tp che è efficace sia sulla localizzazione primitiva che su eventuali mx. [!
Da ap: esiste anche l’adenoma follicolare che è una proliferazione benigna capsulata – la
capsula deve essere integra –, con indice di proliferazione cellulare più basso e assenza di
invasione vascolare. Il problema è che per indagare l’integrità della capsula ho bisogno del
nodulo nella sua interezza]

4. Carcinoma a cellule di Hurtle: è una forma di carcinoma follicolare con spiccata


tendenza a recidivare e a dare mx.

5. Carcinoma anaplastico (1%): è la forma più indifferenziata e dunque più aggressiva e


si caratterizza per una prognosi pessima. È tipico soprattutto di soggetti con più di 60
anni e di sesso femminile (3:1). Spesso si correla ad una mutazione di p53. È
fondamentale intervenire molto rapidamente e in modo aggressivo perché, talvolta, in
soli 15 giorni, può espandersi a tal punto da invadere le strutture peritiroidee e anche
organi a distanza. Nel caso in cui vada ad interessare il fascio vascolo-nervoso può
rendersi necessaria una tracheotomia d’urgenza perché il pz non riesce più a
respirare.

6. Carcinoma occulto: l’unica manifestazione clinica in questo caso è l’ingrossamento


dei linfonodi laterocervicali. Quando però essi vengono studiati in ap si scopre che
sono infiltrati da tessuto neoplastico di derivazione tiroidea, generalmente di natura
papillare. Il problema è che all’ecografia la neoformazione tiroidea non è visibile; si fa
comunque tiroidectomia associata ad asportazione linfonodale; nonostante questo la
prognosi non è buonissima.

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7. Carcinoma insulare

Nella stadiazione dei tumori tiroidei non si considera più di tanto il TNM, quanto piuttosto la
stadiazione delle linee guida ATA (American Thyroid Association). Il TNM indica come T1a
tumori più piccoli di 1cm e come 1b quelli al di sotto dei 2cm, i T2 sono invece forme <4cm
e i T3 al di sopra dei 4cm; infine, i T4 sono tumori di qualsiasi dimensione, ma che, a
differenza dei precedenti, non siano limitati alla sola tiroide: nel T4a invadono tessuti molli,
laringe, trachea, esofago mentre nel T4b la fascia prevertebrale, la carotide o i vasi
mediastinici. Mettendo insieme i valori dei 3 punti del TNM (ovvero T, N e M) e l’età si
ottiene la classificazione prognostica AJCC: quest’ultima considera come fattore importante
l’età perché presuppone che tumori in persone giovani tendenzialmente non avranno avuto il
tempo di de-differenziare quindi vanno considerati di stadio 1 o massimo di stadio 2 se ci
sono mx a distanza. Per confronto, in un soggetto al di sopra dei 45 anni la presenza di M1
porta il tumore ad essere di stadio 4C, mentre viene considerato di stadio 1 solo se il T è pari
a 1 e se al contempo non sono presenti mx né linfonodali né a distanza. Il problema è che
questa classificazione non tiene conto né delle varianti istologiche, né della mutazione
presente a livello tumorale e dunque non è completamente corretta perché, ad esempio,
neoplasie in cui si abbia mutazione di TERT o di BRAF sono più aggressive così come ci sono
alcuni istotipi come il papillare variante follicolare che per definizione non lo sono
particolarmente. Se si considera il rischio di recidiva si possono dividere i pz in 3 gruppi:

1. Basso rischio: carcinomi papillari follicolari, anche se presentano fino a 5 micromx o


una mx franca a livello linfonodale.
2. Rischio intermedio.
3. Alto rischio: mx a distanza visibili perché la tireoglobulina è molto elevata subito dopo
l’intervento., invasione macroscopica dei tessuti molli.

I pz possono poi essere divisi anche in base alla risposta al trattamento:

1. Risposta eccellente con assenza di malattia, ovvero non la posso rilevare né dal punto
di vista clinico, né biochimico né strumentale.
2. Risposta incompleta: può essere biochimica o strutturale. Nel primo caso non ci sono
evidenze di malattie con metodiche di imaging ma i livelli della tireoglobulina sono alti
in assenza di ab che la leghino; nel secondo caso si dimostra la presenza di mx con
metodiche di imaging.
3. Risposta indeterminata

Per quanto concerne la terapia quella di scelta è l’intervento chirurgico. Si può optare per
una lobectomia o per una tiroidectomia totale: la prima è associata a minor rischio di
complicanze e prognosi eccellente, ma non è sempre adeguata in caso di forme papillari che
nel 60% sono multifocali. La tiroidectomia è vantaggiosa perché permette di rimuovere con
certezza l’intero tumore, perché facilita il FU in quanto permette di dosare la tireoglobulina,
e permette anche di fare tp con radio-iodio; ovviamente abbiamo, però, un maggior rischio
di ledere il nervo ricorrente e di asportare accidentalmente le paratiroidi. Secondo le attuali
linee guida, la lobectomia si può fare se il tumore è <4cm e se non ci sono lesioni linfonodali
o altri fdr come familiarità o pregressa rt. Bisogna poi capire come comportarsi nei confronti
dei linfonodi: in quelli centrali è frequente trovare micromx, le quali non hanno però un reale

335
significato sulla sopravvivenza quindi asporto questi linfonodi centrali solo nel caso in cui ci
siano mx franche. Si possono poi asportare anche quelli laterocervicali.

Per tumori piccoli si può anche procedere con ablazione con laser, radiofrequenza o
iniezione di alcol puro.

Si può, in alternativa, decidere di fare radioterapia metabolica con iodio 131: essa risulta
molto efficace ad alte dosi anche per curare le mx, ad eccezione di quelle ossee che
assorbono molto meno l’isotopo. In generale, questa metodica permette anche di andare ad
eliminare eventuali residui chirurgici (ci può essere ad esempio una piccola quota di cellule
adese al ricorrente che non viene asportata): per capire se questi ultimi sono presenti dopo
tiroidectomia si va a dosare la tireoglobulina, i cui valori dovrebbero essere zero, in caso
contrario devo pensare che sia rimasto del tessuto o che ci sia una mx che la produce. In
realtà, la faccenda è più complicata: non basta dosare la tireoglubina, specie se si trovano
dei valori non azzerati e non molto alti, perché potrebbero esserci ab rivolti contro questa
molecola che la legano e la mantengono in circolo. Eliminare i microfocolai eventualmente
presenti è importante sia per prevenire le recidive, che per ridurre la mortalità tumore-
specifica. Qualunque sia l’obiettivo per il quale si fa questa tp, è necessario, prima di
iniziarla, che il pz venga mandato in ipertiroidismo perché il questo modo si aumenta la
quantità di iodio assorbito dalle cellule. Dopo la procedura, invece, il pz deve essere
mantenuto in una stanza di degenza protetta perché continua ad emettere radiazioni.

Lo iodio può essere sfruttato anche per fare una scintigrafia, utile soprattutto per la ricerca di
possibili mx. Altri esami che si possono fare con questo scopo sono la TC (potere di
risoluzione 2mm) o la PET che però risulta utile solo per tumori particolarmente aggressivi e
dunque con una elevata attività metabolica.

Un altro approccio è la terapia soppressiva con L-tiroxina. Il razionale dietro quest’ultimo


approccio è che, somministrando ormoni tiroidei, si può andare a ridurre il tessuto tiroideo e
dunque poi è più facile intervenire chirurgicamente. Una volta guarito, il pz dovrà continuare
a prendere questo farmaco, non più a scopo soppressivo, ma sostitutivo.

336
PARATIROIDI
ANATOMIA
Le paratiroidi sono ghiandole endocrine di piccola dimensione e forma variabile (sferoidale, ovoidale,
lenticolare…). Sono localizzate due per lato sul margine mediale posteriore dei lobi tiroidei.
Mediamente misurano 4x3mm e pesano 15-17mg e sono di colore ocra: grazie al colore possiamo
distinguerle sia dal tessuto adiposo che dai linfonodi. La consistenza è molle. Nell’85% dei soggetti
sono 4, in determinati pz possono essere fino a 12 mentre in altri possono essere in numero inferiore.
Le paratiroidi inferiori si trovano generalmente al di sopra di un piano passante per il laringeo inferiore
mentre le superiori sono al di sotto dello stesso piano (?non ha senso). Dal punto di vista istologico
abbiamo cellule principali, piccole ed eosinofile, che producono PTH; cellule chiare con glicogeno
nel citoplasma e cellule ossifile che tendono ad aumentare di numero con l’invecchiamento. Sono
vascolarizzate da rami della tiroidea superiore e inferiore rispettivamente: si tratta di una
vascolarizzazione terminale quindi quando si interviene chirurgicamente sulla tiroide bisogna fare
attenzione perché legando i vasi si potrebbero danneggiare le paratiroidi.

EMBRIOLOGIA
Originano dal foglietto endodermico, più precisamente dalla terza e quarta tasca branchiale. Durante
lo sviluppo migrano: quelle che originano dalla terza si portano al polo inferiore della tiroide mentre
le altre arrivano vicino al polo superiore. Se non portano a termine la migrazione si potrebbero avere
paratiroidi ectopiche (sede cervicale alta, sottomandibolare, intratiroidea, a livello della biforcazione
carotidea…), fatto che avviene con una certa frequenza (20-25%).

FISIOLOGIA
La funzione di queste ghiandole è quella di produrre paratormone, un ormone codificato da un gene
sito sul cromosoma 11. La sintesi di PTH dipende dalla concentrazione di calcio nei fluidi
extracellulari: quando essa si riduce si ha liberazione dell’ormone. Le paratiroidi sono in grado di
monitorare questo parametro grazie a recettori presenti sulla superficie delle cellule che riconoscono
il calcio ionizzato come loro ligando. In generale, comunque, la secrezione di PTH avviene in
maniera pulsatile con picchi nelle prime ore del mattino e aumenta con l’invecchiamento. Il PTH ha
emivita di 3-4min: questo permette di monitorare durante l’intervento se le paratiroidi sono state
rimosse in modo corretto perché dopo pochissimo tempo non si dovrebbe più avere questo ormone
in circolo.

Il PTH è importante perché:

- A livello renale favorisce in modo rapido il passaggio della VitD nella sua forma attiva
- A livello renale aumenta il riassorbimento di calcio e la secrezione di fosfato. In realtà a livello
del tubulo prossimale esiste un sistema di riassorbimento con meccanismo passivo, a livello
dell’ansa di Henle abbiamo un trasportatore controllato dai livelli ematici di calcio; ciò che
viene controllato dal PTH è un canale presente a livello distale, più precisamente uno
scambiatore sodio/calcio responsabile del 10% circa del riassorbimento totale. I tiazidici
vanno ad agire proprio a questo livello: per aumentare l’escrezione di sodio portano ad un
aumentato riassorbimento di calcio.
- A livello osseo favorisce la mobilizzazione del calcio inibendo gli osteoblasti e favorendo gli
osteoclasti, questo effetto è comunque piuttosto lento.
- A livello intestinale aumenta l’assorbimento di calcio: a questo livello c’è infatti un canale
dedicato controllato dalla VitD, ce n’è poi un altro che funziona ad assorbimento passivo con
meccanismo non saturabile, esso contribuisce in maniera molto meno importante
all’assorbimento totale. In totale l’assorbimento giornaliero è di circa 200-400 mg.

Oltre al PTH, la calcemia è regolata anche dalla calcitonina e della VitD, quest’ultima è importante
perché aumenta gli effetti del PTH ma allo stesso tempo ne inibisce la secrezione. La VitD è

337
importante perché se presente a bassi livelli potrebbe portare ad una mancata diagnosi perché a
causa di questo deficit la calcemia può non essere elevata nonostante l’iperparatiroidismo. Nel nostro
organismo ci sono circa 1100g di calcio, quasi tutto all’interno delle ossa mentre l’1% è nel torrente
ematico: metà inattivo perché legato all’albumina e l’altra metà libero e ionizzato (!Il dosaggio del
calcio va dunque sempre normalizzato per i valori di albumina). La quantità di calcio libero è
influenzata dal pH: in acidosi si riduce la porzione legata alle proteine, viceversa in caso di alcalosi.
Nel citoplasma la concentrazione di questo ione è circa 10 000 volte inferiore rispetto a quella del
sangue o del LEC; c’è dunque un forte gradiente che, quando si aprono i canali dedicati, spinge il
calcio all’interno delle cellule.

IPERPARATIROIDISMO PRIMITIVO
C’è iperfunzione delle paratiroidi causata da una patologia delle stesse (adenoma, iperplasia,
carcinoma) che porta ad ipercalcemia. È il terzo disordine endocrinologico dal punto di vista
della frequenza ed interessa maggiormente le donne e soggetti con più di 60 anni.

Può essere:

1. Sporadico (80-90%) dovuto ad adenoma singolo o, molto raramente, doppio.


2. Determinato da iperplasia (10%), che può essere anch’essa sporadica oppure
associarsi a sindromi genetiche rare. Una delle cause di iperplasia può essere una
mutazione a carico del recettore del calcio (si avrà in questo caso una ipercalcemia
ipocalciurica familiare).
3. Correlato a carcinoma (rarissimo): devo sospettare questa causa il caso di valori di
calcemia e di PTH sierico molto elevati.

La patologia può essere asintomatica/paucisintomatica (70-80%, generalmente si associa a


livelli di calcemia di 11-11,5 mg/dL) o, più raramente, sintomatica (calcemia>13 mg/dL). Nel
caso in cui siano presenti i sintomi, si potranno avere:

- Sindrome urologica: l’aumento della calcemia porta a formazione di calcoli a livello


renale e a nefrocalcinosi (diffusione di calcio nel parenchima che può portare a
insufficienza renale).
- Sindrome scheletrica: il pz può avere dolori ossei vaghi, artralgie, cranio a sale e pepe,
deformità della colonna vertebrale e ossa lunga con fratture. Si potranno notare cisti di
riassorbimento del calcio che vengono definiti tumori bruni. È raro che si abbia questa
manifestazione ma è possibile dunque le deformazione scheletriche vanno indagate.
- Sindrome gastro-intestinale: l’aumento di calcio porta ad un aumento della secrezione
di acido cloridrico dunque si possono avere ulcere peptiche. Si può avere anche
pancreatite perché il calcio interviene nella formazione degli ormoni pancreatici e nel
clivaggio che permette l’attivazione del tripsinogeno.
- Sindrome neurologica: adinamia muscolare, stato ansioso-depressivo, perdita della
memoria, perdita della capacità di concentrazione, confusione mentale e psicosi.
Secondo alcuni la causa è data dal fatto che il PTH superi la bee e alteri direttamente
le cellule neuronali (attività neurotossica); secondo altri il problema sarebbe un
aumento della calcemia e del PTH nel liquor. Generalmente gli effetti neurologici si
verificano quando si hanno rialzi importanti ma acuti.
- Sindrome cardiovascolare: ci possono essere ipertensione o aritmie.
- Sindrome ipercalcemica: si parla di crisi paratireotossica. Si ha un grande e rapido
rialzo della calcemia fino a sopra 14mg/dL che porta a nausea, vomito, confusione

338
mentale e talvolta coma. Questi pz devono essere ricoverati e operati ma prima
bisogna sottoporli a dialisi per ridurre la calcemia in modo da abbassare il rischio di
avere complicanze cardiovascolari.

La diagnosi può essere fatta o grazie al riscontro dei sintomi o in maniera occasionale grazie
ad esami routinari. Gli esami biochimici ci permettono di dosare il calcio, che deve essere
alto in almeno 3 prelievi (>10,5mg/dL) a fronte di una fosfatemia ridotta, o comunque ai
limiti inferiori di normalità. Si devono richiedere la calcemia totale e l’albumina: dal
momento che generalmente il calcio ionizzato è circa il 50% si può così ottenere questo
valore a partire dai due precedenti. Bisogna normalizzare il valore nel caso in cui ci sia
ipoalbuminemia: se i valori sono al disotto dei 4,1 g/dL si aggiungono 0,8 mg/dL ai valori del
calcio libero per ogni riduzione di 1g/dL dell’albumina (quindi se l’albumina è 3,1 e il calcio
è 9, in realtà il calcio è 9,8). Si possono poi analizzare le urine: ci saranno ipocalciuria e
iperfosfaturia. Dosare il PTH è importante per capire se l’ipercalcemia è dovuta a problemi
paratiroidei o meno: se sì, i valori saranno aumentati, in caso contrario devo cominciare ad
orientarmi verso la presenza di una neoplasia. Se il riscontro di malattia avviene durante la
gravidanza, è necessario monitorare strettamente la pz perché potrebbe avere osteoporosi,
nefrolitiasi o addirittura crisi, ma anche perché ci potrebbero essere aborti o morte intra-
uterina. Inoltre, il calcio supera la barriera placentare e impedisce lo sviluppo delle paratiroidi
del feto, quindi, alla nascita, si potrebbero avere importanti crisi tetaniche e ritardo dello
sviluppo. Per queste ragioni, nel secondo trimestre la donna deve essere sottoposta a
paratiroidectomia (non prima perché l’anestesia danneggia il feto).

Per quanto riguarda la terapia, se il pz è sintomatico, deve sempre essere operato perché non
intervenendo aumenta considerevolmente la mortalità, ma anche la morbilità. Per gli altri pz
si può optare per una tp farmacologica con calcio-mimetici. Prima di operare il pz è
importante sfruttare le metodiche di imaging: esse non servono per fare diagnosi ma per
localizzare le paratiroidi patologiche. Si può fare:

- Ecografia: ha buona sensibilità e specificità ma ha anche dei limiti.


- Scintigrafia: non esiste un mezzo di contrasto per le paratiroidi, si introduce allora
Sestamibi per via endovenosa. Esso si localizza prima nella tiroide, poi raggiunge le
paratiroidi. La scintigrafia può essere associata all’eco: se sono concordi il valore
predittivo della localizzazione è intorno al 100%.
- TC: viene usata se si è di fronte ad una recidiva, se il collo del pz ha già subito
operazioni, se c’è il sospetto di una localizzazione ectopica o se i risultati di eco e
scinti sono discordanti. Si può fare in 4D: si acquisiscono delle immagini a 10, 15 e 20
minuti dopo l’immissione del mezzo di contrasto. La si tiene per quelle condizioni in
cui tutte le altre metodiche non riescono a dare indicazioni.
- La RMN si fa come la TC quando ci sono interventi pregressi, se scinti ed eco non
sono concordanti o se c’è recidiva.
- C’è poi la SPEC-TC ovvero una scinti associata alla TC che è ottima per determinare i
rapporti con le strutture circostanti.

Si può decidere, se tutti gli esami di imaging sono negativi, di fare agobiopsia. Si introduce
una piccola quantità di soluzione fisiologica nella sospetta paratiroide, si aspira e si dosa il
PTH. Se dopo tutto questo non si sono ancora trovate le paratiroidi si può portare il pz in sala
e somministrargli blu di metilene: le ghiandole dovrebbero così colorarsi con intensità diversa
a seconda che si abbia un adenoma o un’iperplasia diffusa. In sala si può poi usare la mini

339
gamma-camera (una sorta di scintigrafia portatile). Prima di fare l’operazione, inoltre, se
l’ipercalcemia è severa bisogna ridurla con idratazione forzata e dialisi.

Se l’adenoma è singolo o doppio, esso viene asportato; se c’è iperplasia con interessamento
di tutte le paratiroidi vanno tolte tutte e si lascia un frammento paratiroideo a livello del collo
o dell’avambraccio, in entrambi i casi l’innesto può essere fatto nel sottocute o all’interno di
un muscolo. Infine, se siamo di fronte ad un carcinoma, bisogna fare un intervento molto
aggressivo: si toglie la paratiroide e si asporta anche il lobo tiroideo omolaterale, talvolta poi
si rimuovono anche i linfonodi. Dopo tutto questo si va a dosare il PTH per essere certi di
aver rimosso tutto: deve ridursi di almeno il 50%. Le complicanze associate a questi
interventi sono principalmente infezioni, emorragie e lesioni al laringeo ricorrente. In alcune
situazioni si può poi avere un iperparatiroidismo persistente, ovvero che rimane inalterato o
che ricompare entro 6 mesi o recidivo se compare dopo 6 mesi. La paratireomatosi è una
condizione in cui durante la frammentazione per rimuoverle si ha attecchimento di tessuto
paratiroideo ad altre strutture cervicali: questo può portare a iperparatiroidismo persistente.
Al contrario, si può avere anche ipoparatiroidismo dovuto al fatto che legando i vasi per
intervenire mando in ischemia anche le paratiroidi sane. Dopo l’intervento si fanno infusioni
continue di calcio per la paura di avere crisi tetaniche. Bisogna comunque tenere sotto
controllo il pH: se esso è alto si ha un aumento del legame tra calcio e albumina e dunque la
quota attiva di calcio tende a ridursi e c’è un aumentato rischio di ipocalcemia. Potremmo
poi avere la sindrome dell’osso affamato: l’osso è avido di calcio e lo ingloba a causa del
fatto che non ci sia più PTH a contrastarlo.

! Esiste una forma rara di ipt primario normocalcemico: il PTH è elevato, ma il calcio
ionizzato è normale in assenza di cause che possano portare a pensare ad un ipt secondario.

! Altre forme di ipercalcemia con cui si deve fare DD:

- Ipercalcemia da neoplasie (dopo le forme primitive, i tumori sono la seconda causa di


ipercalcemia):

o Perché viene secreto un peptide simile al PTH (in questo caso i livello di PTH
saranno molto bassi),
o Perché si ha una malattia linfoproliferativa (linfoma) che porta alla produzione
di un peptide simile alla VitD,
o Perché si hanno lesioni metastatiche osteolitiche, tipiche soprattutto di
carcinomi della mammella e mielomi
o Perché malattie ematologiche producono sostanze che aumentano il
riassorbimento osseo.

- Ipertiroidismo: porta ad un aumento del riassorbimento osseo


- Ipotiroidismo
- Sarcoidosi
- Diuretici tiazidici: aumentano il riassorbimento tubulare del calcio.
- Assunzione eccessiva di latte, VitD o litio o nutrizione parenterale.
- Allettamento: il turnover osseo è accelerato.

340
IPERPARATIROIDISMO SECONDARIO
C’è iperfunzione delle paratiroidi che diventano iperplastiche a causa di una costante
condizione di ipocalcemia. L’esempio più frequente è l’insufficienza renale (95%), possono
poi esserci anche un’ipovitaminosi D, malassorbimento, diuretici tiazidici, litio o estrogeni.
Considerando il primo caso, dal punto di vista fisiopatologico, si ha una situazione
caratterizzata da costante ipocalcemia, ridotta produzione di calcitriolo (il parenchima renale
non produce correttamente la VitD attiva, ovvero il calcitriolo, che è fondamentale per
assorbire il calcio) e iperfosfatemia. Le paratiroidi rispondono quindi aumentando la
produzione di PTH e sviluppando progressivamente iperplasia fino ad avere perdita del
feedback di controllo e produzione indipendente di PTH. Peraltro, nonostante il PTH sia
aumentato, i suoi effetti sul rene, ormai non più funzionante, sono assai modeste mentre le
problematiche principali si hanno a livello osseo: si parla di osteodistrofia uremica, si ha poi
cranio sale e pepe, calcifilassi (calcificazione delle arterie, specie dell’arto inferiore, con
necrosi dei tessuti a valle) e prurito (idrossiapatite che precipita a livello cutaneo).

La diagnosi è biochimica: il PTH è aumentato, la calcemia è normale o lievemente ridotta


mentre la fosfatemia è elevata.

Per quanto riguarda la terapia, si devono somministrare calcio e VitD. Se il PTH è superiore a
600 pg/mL (fisiologico circa 70) o se la sintomatologia è molto importante, ci può essere
indicazione alla chirurgia, la quale serve solo a migliorare la qualità di vita, mentre, per avere
un reale miglioramento delle condizioni del pz, l’unica cosa realmente utile è il trapianto di
rene. Si fa paratiroidectomia totale senza lasciare tessuto paratiroideo, in alternativa si può
fare subtotale se se ne asportano 3 e ¾ oppure si può optare per paratiroidectomia totale
con autotrapianto e crioconservazione. Quando si reimpianta un frammento di tessuto
paratiroideo è meglio farlo nel sottocute perché, se un domani dovesse essere asportato
anch’esso, è più comodo che neanche se fosse stato innestato nel muscolo. La
crioconservazione serve perché se il frammento non attecchisce si ha un’alternativa.

IPERPARATIROIDISMO TERZIARIO
C’è iperfunzione delle paratiroidi che si sviluppa in seguito a prolungate condizioni di
iperparatiroidismo secondario associato a insufficienza renale corretta con trapianto. C’è
ipercalcemia: nonostante il trapianto, infatti, non si riduce l’iperplasia e l’ipertrofia delle
paratiroidi che nel frattempo sono andate incontro ad un’autonomizzazione irreversibile.
Non si sa se la causa sia il fatto che l’ipertrofia/iperplasia non può regredire o perché è
avvenuta un’alterazione a livello dei recettori.

[L’Ipocalcemia può essere dovuta a due cause opposte: se i valori di PTH sono bassi devo pensare ad
una forma di ipoparatiroidismo, se invece sono alti si tratta di iperparatiroismo secondario. In
generale, le cause di ipocalcemia possono essere:

1. Ipoparatiroidismo con bassi valori di PTH


2. Deficit di magnesio con ridotta secrezione di PTH
3. Deficit dei canali del calcio con ridotta secrezione di PTH
4. Mutazioni a carico dei canali del calcio con soppressione della produzione di PTH
5. Deficit di VitD, alterata conversione della stessa nella forma attiva o resistenza alla sua azione
(in questo caso sono forme lievi perché, se le paratiroidi funzionano, aumentano la
produzione di PTH e dunque i livelli di calcio non si abbassano in maniera importante)
6. Grave danno tissutale (ustioni, rabdomiolisi, lisi tumorale, pancreatite)

341
Se l’ipocalcemia è moderata i pz possono anche essere asintomatici, se si hanno riduzioni di grado
moderato/grave ci possono essere parestesie a livello di mani, piedi e regione periorale e positività al
segno di Chvostek (spasmo periorale in seguito a percussione del faciale). Nelle forme gravi avremo
convulsioni, spasmo carpo-pediale, broncospasmo, laringospasmo e prolungamento del QT. In acuto
la tp dell’ipocalcemia è l’infusione EV di calcio gluconato; in cronico si deve invece somministrare
calcitriolo se la causa è a livello delle paratiroidi o colecalciferolo se il problema è un deficit di
produzione di VitD a livello cutaneo]

IPOPARATIROIDISMO
È una patologia che può essere ereditaria o acquisita. Nel primo caso spesso si associa a
deficit dello sviluppo del timo (sindrome di De George) o di altri organi neuroendocrini e
spesso ci sono anche calcificazione dei nuclei della base e sindromi extrapiramidali; nel
secondo invece la causa più comune è quella iatrogena: con un intervento chirurgico o in
seguito a radiotp si può perdere la funzione di questo organo e quindi la produzione di PTH.
Quando si opera la tiroide, è necessario legare le arterie tiroidee e questo può precludere
anche il flusso alla paratiroidi: si determina così un danno ischemico che può essere
transitorio, e dunque il pz dopo meno di sei mesi riprenderà a produrre PTH, o permanente.
Ci sono poi anche delle forme ad eziologia autoimmune. Infine, esistono le forme secondarie
dovute a un deficit nell’asse della VitD.

Dal punto di vista biochimico questi pz avranno ipocalcemia associata a iperfosforemia,


mentre, clinicamente, ci potranno essere sintomi legati all’ipereccitabilità neuromuscolare
(tetania). L’ipocalcemia cronica determina sofferenza del SNC ed alterazioni
elettrocardiografiche con allungamento del QT. In generale, comunque, la gravità dei sintomi
dipende dalla severità e dalla cronicità dell’ipocalcemia. Le crisi tetaniche sono tipiche di
riduzioni rapide e generalmente sono precedute da parestesie intorno alla bocca e alle mani:
tipicamente portano alla comparsa della mano ad ostetrico (segno di Trousseau che compare
dopo pochi minuti di compressione sul braccio) o, nei casi gravi, specie nei bambini, a
spasmo laringeo.

PSEUDOIPOPARATIROIDISMO
Il termine di pseudoipoparatiroidismo (PHP) fa riferimento ad un gruppo eterogeneo di
malattie ereditarie che hanno in comune caratteristiche cliniche e biologiche di resistenza al
paratormone, il cui meccanismo di azione è mediato dalla proteina Gs-alfa. L’interazione
PTH-recettore attiva la Gs-alfa, proteina che per molti ormoni proteici (ormone tireotropo
TSH, gonadotropine, ecc.) è vettore di informazione del messaggio dal recettore cellulare al
cAMP intracellulare. La Gs-alfa stimola l’adenilciclasi, che a sua volta catalizza la formazione
di cAMP dall’ATP. Il cAMP è degradato da diverse fosfodiesterasi e stimola la fosfochinasi
che determina reazioni di fosforilazioni fino a produrre l’effetto ormonale. In alcuni di questi
pazienti sono state anche riportate manifestazioni legate a resistenza ad altri ormoni proteici,
quali l'ormone tireotropo e gonadotropine, in associazione a quadri dismorfici definiti come
osteodistrofia di Albright. [L’osteodistrofia di Albright – AHO – è rappresentata da bassa
statura, obesità, facies rotonda, ritardo mentale, ossificazioni sottocutanee e brachidattilia
(abnorme brevità e allargamento delle ossa lunghe della mano e dei piedi). La brachidattilia
diventa clinicamente evidente nella prima decade di vita ed è più frequentemente
rappresentata dall’accorciamento e allargamento della falange distale del pollice e dalla
brevità del IV e V osso metacarpale].

342
In relazione alla sede delle alterazioni che sono causa di resistenza al PTH, lo PHP è
classificato nel tipo I e tipo II. I soggetti di tipo I hanno un difetto di sintesi di cAMP e sono
caratterizzati da una ridotta escrezione urinaria di cAMP e di fosfati in risposta all'infusione di
PTH di origine bovina o umana; vengono peraltro distinti in PHP di tipo Ia, Ib, Ic in relazione
al quadro clinico, ormonale, al test in vitro dell'attività della proteina Gs-alfa e alla causa
genetica. I soggetti di tipo II hanno un difetto localizzato a valle della produzione di cAMP e
pertanto presentano una normale risposta del cAMP urinario e una ridotta risposta fosfaturica
dopo infusione di PTH.

1. La resistenza al PTH è l'alterazione ormonale di più frequente osservazione nei


soggetti con PHP Ia. E' caratterizzata classicamente da ipocalcemia, iperfosforemia,
livelli elevati di PTH, ridotti valori di fosfaturia e di cAMP urinario, non responsivi al
carico di PTH, in presenza di una normale funzione renale. Le alterazioni
generalmente compaiono dopo il primo anno di vita ed appaiono condizionate dalla
progressiva riduzione della attività Gs-alfa nel tubulo renale durante i primi mesi di
vita. L’ipocalcemia ed i segni e sintomi ad essa collegati (tetania, cute arida, capelli
fragili, unghie fragili con solchi) sono tardivi e non sempre costanti. Tale reperto è
stato messo in relazione alla presenza di differenti concentrazioni di calcitriolo
(1,25OHD3) che condizionano un ridotto assorbimento di calcio intestinale e un
rilasciamento di calcio a livello osseo molto variabile. Nei pazienti con PHP Ia è anche
frequente osservare un quadro clinico di resistenza tiroidea al TSH. Questa si presenta
con livelli elevati o moderatamente elevati di TSH ed ormoni tiroidei bassi o ai limiti
inferiori della normalità e talora con segni e sintomi di ipofunzione tiroidea, in assenza
di struma. Sono state descritte, soprattutto in soggetti di sesso femminile,
manifestazioni legate a resistenza gonadica alle gonadotropine. Sono stati riportati
ritardi puberali, amenorree primarie e secondarie, oligomenorree o infertilità spesso in
presenza di un assetto ormonale caratterizzato da gonadotropine elevate e valori
ridotti di 17 beta estradiolo. Recentemente sono stati segnalati in soggetti con PHP Ia
deficit di ormone della crescita e sono state documentate resistenze al glucagone e
agli stimoli sensoriali (riduzione del gusto e dell’olfatto) che utilizzano la proteina Gs-
alfa nella trasduzione del messaggio.
2. I pazienti con PHP Ib presentano soltanto le manifestazioni cliniche della resistenza al
PTH ed hanno una ridotta risposta di cAMP urinario dopo stimolo con PTH.
3. Come PHP Ic sono stati descritti pochi casi che hanno caratteristiche di resistenza
ormonale multipla, segni di AHO e normale attività di Gs-alfa.
4. Lo PHP II fa riferimento a pazienti con sola resistenza al PTH e con ridotta risposta
fosfaturica alla somministrazione di PTH, ma con normale risposta di cAMP urinario.

Generalmente la diagnosi di PHP è definita quando si è in presenza di ipocalcemia, di


iperfosforemia con riassorbimento tubulare di fosfati aumentato e di elevati livelli di PTH in
soggetti con normale funzione renale. I pazienti occasionalmente possono essere anche
normocalcemici. Quando il quadro clinico non è chiaro o per escludere forme cliniche legate
alla presenza di PTH bio-inattivo, la diagnosi, in passato, veniva confermata dalla mancata
risposta del cAMP urinario e/o della fosfaturia alla somministrazione di PTH bovino o di
sintesi. Questa prova è stata anche utilizzata per discriminare i pazienti con PHP tipo I dal
tipo II. In questi ultimi anni però non è stato più disponibile in commercio l'ormone PTH da
utilizzare per il test diagnostico, per cui la definizione dei vari tipi di PHP si è avvalsa del
reperto clinico e recentemente delle indagini di genetica molecolare. La presenza di AHO e
di segni di resistenza ormonale multipla sono indicative di PHP Ia ed Ic, mentre i pz che

343
presentano soltanto manifestazioni conseguenti ad un difetto di azione di PTH sono
soprattutto casi con PHP Ib e PHP II. L'analisi di genetica molecolare, sebbene sia da ritenersi
ancora non del tutto discriminativa, può essere di supporto per il riconoscimento di alcune
forme di PHP. Molte sue manifestazioni, quali la bassa statura, l’obesità, il ritardo mentale,
sono presenti anche in altri numerosi disordini. La brachidattilia non è specifica dello
pseudoPHP ed è riportata come manifestazione clinica anche in pz con sindrome di
Turner.La diagnosi di pseudoPHP è più probativa quando coesistono brachidattilia e
ossificazioni sottocutanee e va indubbiamente posta in quei pazienti con caratteristiche di
AHO che hanno forme familiari di PHP Ia e pseudoPHP ed in quei casi in cui l'analisi
molecolare abbia riconosciuto la mutazione del gene GNAS1 o quando sia stato dimostrato
biochimicamente un deficit di attività Gs-alfa.

La terapia è diretta alla correzione dell’ipocalcemia, dell’iperfosforemia, e di altre carenze


ormonali conseguenti alla resistenza ormonale multipla di questi soggetti. Si ricorre alla
somministrazione dei metaboliti attivi della VitD (alfacalcidolo e calcitriolo) che non
necessitano di idrossilazione a livello renale (attività enzimatica molto ridotta in questi
pazienti) ed alla supplementazione di calcio a dosi inferiori a quelle utilizzate nel trattamento
dei soggetti con ipoparatirodismo e variabili, da caso a caso, in relazione al grado
dell'ipocalcemia e alla risposta individuale. Se l'ipocalcemia è francamente sintomatica si
rende necessaria la somministrazione endovenosa di 1-2 cc/Kg di calcio elementare in 10
minuti; nei pazienti con patologia convulsiva si possono associare farmaci anticonvulsivanti.
Dopo aver raggiunto valori di calcemia vicino ai livelli di normalità, si potrà passare alla
somministrazione orale di calcio (0.5 - 1 gr. di calcio elemento) in combinazione con
metaboliti attivi della vitamina D (25-50 ng/kg/die di alfacalcidolo o calcitriolo). Il calcio è
disponibile in preparazioni, somministrabili per via orale o endovenosa. E' importante
ricordare che la principale complicanza del trattamento con vitamina D e dei suoi metaboliti
attivi è la nefrocalcinosi da superdosaggio del farmaco, condizione solitamente
preannunciata, in una fase iniziale, dalla ipercalciuria e successivamente dall'ipercalcemia.
Lo sviluppo dell'ipercalciuria è favorita, da una parte, dall'aumentato assorbimento intestinale
di calcio e conseguentemente da un maggiore carico renale di calcio e, dall'altra, da una
maggiore escrezione di calcio presente nei soggetti con deficit di PTH, ormone che in
condizioni normali favorisce il riassorbimento del calcio filtrato. Con l'obiettivo di prevenire
l'ipercalciuria cronica ed il rischio di nefrocalcinosi, le dosi di calcio e di alfacalcidolo o di
calcitriolo vanno regolate in modo che la concentrazione del calcio sierico sia tra 4 e 4.5
mEq/l (nella parte bassa del range di normalità). Sono necessari, pertanto, controlli,
inizialmente ogni settimana e poi ogni 2-3 mesi, non solo della calcemia e della fosforemia
ma anche della calciuria. Il ripristino del bilancio calcico tende, da una parte, a portare alla
norma l'iperfosforemia, correggendo direttamente l'abnorme riassorbimento tubulare dei
fosfati di questi pazienti, e, dall'altra, normalizza il PTH plasmatico che, se costantemente
elevato, è in grado di produrre effetti indesiderati sull'osso. Nei casi in cui i livelli di fosforo
rimangano elevati si possono somministrare preparati, quali l'idrossido di alluminio, che
attraverso la riduzione dell'assorbimento intestinale dei fosfati sono in grado di correggere
l'iperfosforemia e prevenire le calcificazioni metastatiche. Si fa ricorso a terapia ormonale
sostitutiva per la correzione dell'ipotiroidismo e dell'ipogonadismo. Per le varie
manifestazioni dell’AHO non vi sono specifici trattamenti; raramente si ricorre alla chirurgia
per la rimozione delle calcificazioni sottocutanee.

344
IPOFISI
ANATOMIA
Si tratta di una struttura posta al centro del basicranio in vicinanza del chiasma ottico. In prossimità
c’è poi il seno cavernoso formato da lobuli venosi e con all’interno la carotide e il sesto nervo cranico,
lateralmente ad esso decorrono poi il terzo, il quarto e le branche oftalmica e mascellare del
trigemino. Presenta una porzione anteriore – adenoipofisi – e una posteriore – neuroipofisi –, c’è poi
una pars intermedia a livello della quale potrebbero formarsi cisti.

ADENOMA IPOFISARIO
È una patologia relativamente rara con un incidenza di 4 casi su 100 000 e prevalenza di 1
su 1000. Spesse volte le lesioni sono asintomatiche e vengono riscontrate in maniera
accidentale o in sede autoptica: in realtà dunque la prevalenza è molto più alta (10%)
mentre l’1 per mille fa riferimento solo a quei soggetti che hanno avuto bisogno di un
trattamento. Nonostante nella stragrande maggioranza dei casi si abbiamo forme isolate non
familiari, talora questi adenomi potrebbero essere presenti nell’ambito di una MEN.

Si tratta di una patologia benigna che deve però essere diagnosticata molto precocemente
per evitare le complicanze associate: in effetti, ci possono essere problemi sia relativi al fatto
che masse di dimensioni importanti potrebbero comprimere altre strutture, sia manifestazioni
dovute a squilibri ormonali. Inoltre, una diagnosi tardiva comporta la necessità di essere
molto più invasivi nel trattamento.

In base al diametro massimo dell’adenoma li possiamo distinguere in:

- Microadenoma <1cm
- Macroadenoma >1cm
- Adenoma gigante >4cm

L’immunoistochimica permette di dividere gli adenomi in tipici, con un indice proliferativo


<3%, e atipici con indice proliferativo maggiore. I secondi hanno maggiore probabilità di
recidiva.

Dal punto di vista funzionale possiamo invece distinguere gli adenomi in funzionanti e non
(25%). Tra i non funzionanti spesso ne abbiamo che risultano positivi alla colorazione
immunoistochimica per la produzione di ormoni, in particolare LH e FSH: ciò significa che
questi adenomi sono in realtà secernenti ma non danno alcun segno clinico di questa loro
attività perché la quantità di ormoni prodotta è comunque bassa. Tendenzialmente la
diagnosi di quelli funzionanti è più precoce e dunque saranno ancora di dimensioni ridotte;
al contrario, nel caso dei non funzionanti, possono essere scoperti accidentalmente o a causa
dell’effetto massa dato dalle grandi dimensioni raggiunte.

I prolattinomi (40-50%) sono adenomi secernenti PRL e sono i più frequenti. Per parlare di
iperprolattinemia si devono avere valori superiori a 20 ng/mL nell’uomo e a 25 ng/mL nella
donna. Per misurare la prolattinemia si usa la curva della PRL: si preleva un campione di
sangue a tempo zero, uno dopo 10-15 minuti e uno dopo 20-30 minuti. Infatti, lo stress è in
grado di far aumentare i valori di PRL e, dunque, in un pz agitato si potrebbero avere
rilevazioni errate. Il rilascio di questo ormone è controllato dalla dopamina, quindi, nel caso
di un aumento del tono adrenergico, ci sono disregolazioni nel sistema di controllo. Sempre

345
per minimizzare lo stress, i prelievi devono avvenire dopo una notte con sonno riposante e
non ci devono essere rapporti sessuali immediatamente precedenti, specie per le donne
perché lo sfregamento del capezzolo comporta un rialzo dei valori di PRL.

L’iperprolattinemia può essere dovuta a cause fisiologiche, iatrogene o patologiche. Nel


primo caso si hanno rialzi dovuti alla gravidanza e al parto perché questo ormone porta a
proliferazione delle cellule mammarie con produzione lattea e sospensione del ciclo
mestruale. Tra le cause iatrogene rientrano gli antipsicotici e gli antidepressivi che agiscono
sulla dopamina, c’è poi l’uso frequente di oppiacei. Infine, tra le cause patologiche, abbiamo
l’ipotiroidismo (alcune cellule prolattino-secernenti possono essere stimolate da alti valori di
TSH), l’IRC avanzata con ridotta clearance e la sindrome dell’ovaio policistico. Ovviamente
ci sono poi gli adenomi prolattino-secernenti o, come vedremo, tumori che vanno a ridurre il
controllo ipotalamico sulla produzione di PRL grazie alla compressione sul peduncolo.
Qualora una donna presenti questo tipo di adenoma, avrà amenorrea preceduta da
oligomenorrea (!Nel 35% dei casi il prolattinoma è la causa dei disturbi mestruali) e la
diagnosi sarà rapida, anche grazie alla concomitante presenza di galattorea bilaterale. Anche
nell’uomo ci potrebbe essere galattorea con ginecomastia talvolta dolorosa, ma è raro, più
frequenti sono invece il calo della libido e l’impotenza con deficit di erezione
progressivamente ingravescente. La sintomatologia, comunque, si presenta in maniera più
tardiva perché l’uomo è fisiologicamente meno sensibile all’azione di questo ormone e
dunque la diagnosi non sarà precoce e l’adenoma avrà già raggiunto dimensioni notevoli
quindi ci saranno sintomi da compressione. Altri sintomi tipici del sesso femminile sono una
riduzione della fertilità, un ipogonadismo ipogonadotropo dovuto ad una riduzione degli
estrogeni che porta anche ad un aumentato rischio di osteoporosi, ci può poi essere
raramente irsutismo. Talvolta un adenoma può secernere sia PRL che GH.

Per fare diagnosi, una volta verificata l’iperprolattinemia, bisogna escludere che sia per cause
fisiologiche o iatrogene, dopodiché è opportuno procedere con una RMN.

Si tratta dell’unico adenoma con chiara indicazione alla tp medica alla quale risulta molto
responsivo. Si usa la Cabergolina: deve essere assunta due volte a settimana, generalmente
prima di andare a dormire perché potrebbe dare ipotensione. I problemi si presentano
quando si hanno adenomi giganti che, proprio perché rispondono molto ai farmaci, portano
ad avere rinoliquorrea che deve essere risolta chirurgicamente.

Gli adenomi secernenti GH (20-25%) portano ad una continua stimolazione del fegato
affinché produca IGF cosa che ha effetti diversi a seconda dell’età in cui compare il disturbo.
Se insorge prima della fine del processo di crescita, si avrà gigantismo, mentre si parlerà di
acromegalia se sviluppatosi in età adulta. L’acromegalia si presenta nel 95% dei casi in
seguito alla presenza di un adenoma ipofisario, nella restante percentuale alla base ci sono
invece patologie ad eziologica genetica sindromica. Rientrano nella seconda casistica la MEN
oppure la sindrome della testa di leone (S. di McCune Albright).

Gli acromegalici hanno una facies tipica: avranno ipertrofia delle labbra, prognatismo
mascellare, frontal bossing (fronte prominente) e diastasi degli incisivi (spazio tra gli incisivi).
Essi avranno poi spesso sleep apnea dovuta a macroglossia e mani e piedi tipici: la
consistenza sarà simile a quella di una spugna e le dimensioni molto aumentate, spesso c’è
poi la sindrome del tunnel carpale perché cresce l’osso ma non l’aponeurosi palmare. Ci
sono anche altri problemi come l’ipertensione, artropatie, insufficienza respiratoria,

346
cardiomegalia che può nel tempo evolvere a scompenso cardiaco franco e valvulopatie
anche severe perché il cuore cresce ma le valvole no. IGF ha poi un importante potere
stimolante la proliferazione cellulare: c’è dunque un maggior rischio di sviluppare neoplasie e
spesso sono presenti polipi a livello colico. Infine, sempre IGF, è dotato di un’azione
controinsulare e dunque, nel tempo, potrà dare insulino-resistenza o diabete franco.

Nonostante un quadro apparentemente dirimente, spesso si ha un ritardo nella diagnosi di


circa 20 anni dalla comparsa dei primi sintomi. Ciò è anche imputabile al fatto che i
cambiamenti avvengono in maniera molto lenta e dunque è meno facile accorgersene. La
diagnosi viene posta associando la clinica ad un rialzo dei valori di GH e di IGF (non basta
avere solo rialzo di GH). Per completare l’inquadramento del pz, dopo la diagnosi, si fanno
anche ecografia addominale, colonscopia, gastroscopia, ecocardio e TC polmonare. Si può
poi cercare se si sono sviluppate neoplasie.

Con l’intervento si può migliorare la situazione ma il pz riferirà di sentirsi più stanco: questo
avviene perché il soggetto si era abituato ad avere una GC maggiore (!Il GH è un dopante) e
dunque riportandola a valori normali il soggetto avvertirà stanchezza. Dopo l’operazione si fa
il test dell’OGGT per verificare la guarigione: essendo il GH un ormone controinsulare, esso
dovrebbe abbassarsi in seguito all’assunzione di glucosio per un meccanismo di feedback
negativo. Il soggetto può essere dichiarato guarito se il GH scende sotto 1 microgrammi/L.
L’intervento è l’unica tp risolutiva, talvolta comunque permangono livelli elevati di ormone.
In questo caso si può fare una tp a base di analoghi della somatostatina e antagonisti del GH
(Pegvisomant), se neanche così si ottiene la guarigione si può fare rt. Al giorno d’oggi, se
diagnosticata in tempo, è possibile guarire dall’acromegalia e addirittura il pz potrà
riassumere il suo aspetto originario.

Gli adenomi secernenti ACTH (8-10%) portano alla malattia di Cushing: questo ormone
stimola infatti la produzione di cortisolo a livello surrenalico. Questi pz avranno un insieme di
sintomi, tra i quali rientrano quelli psichiatrici, il gibbo di bufalo, le strisce rubre e la facies
lunare. Si stima che l’1% dei diabetici e l’1% degli ipertesi abbiano il Cushing. (à per il
cushing vedere nel surrene).

Gli adenomi secernenti TSH (<1%) sono molto rari e rappresentano una causa rara di
ipertiroidismo, motivo per il quale vengono diagnosticati in maniera relativamente semplice.

Quando gli adenomi sono di dimensioni notevoli, quindi generalmente siamo nell’ambito dei
non secernenti, possiamo avere:

1. Compressione delle vie ottiche e oftalmopatie: il pz svilupperà emianopsia


bitemporale per compressione del chiasma. A questo livello decussano infatti le fibre
originanti dalla porzione mediale della retina che sono quelle che vedono per
l’appunto la porzione temporale. L’evoluzione è lenta: inizialmente è la porzione
superiore del campo temporale a essere alterata (le prime ad essere compresse sono
quelle inferiori del chiasma che originano dalla parte inferiore della retina e
permettono la visione della porzione superiore del campo visivo). Ci può poi essere
diplopia per compressione degli abducenti con paralisi dei muscoli abducenti laterali.
Se ad essere compresso è il terzo nervo si hanno deficit a livello del muscolo elevatore
della palpebra con ptosi. Se ai disturbi della vista o a problemi ai nervi cranici si
associa cefalea improvvisa e intensa bisogna fare DD tra emicrania con aura o

347
apoplessia ipofisaria. La seconda è una condizione in cui si verifica un’emorragia
interna ad un adenoma con deficit ormonale acuto, fatto più frequente se ci sono
macroadenomi o se si hanno prolattinomi che vengono trattati. Per distinguere le due
condizioni è necessario fare un esame obiettivo approfondito e una TC. Le due
condizioni devono essere distinte bene perché, in caso di apoplessia, non risulta
sufficiente tenere il pz sotto osservazione in quanto svilupperà in tempi rapidi un
ipocortisolismo potenzialmente mortale, specie se sottoposto a eventi stressanti.

2. Compressione strutture del seno cavernoso: in questo spazio decorrono una porzione
della carotide interna, il terzo e il quarto nervo cranico (la compressione dà le
problematiche viste prima nel punto dedicato ai problemi dell’occhio) e le branche
V1 e V2 del trigemino.

3. Compressione cerebrale

4. Stalk effect (effetto peduncolo): la secrezione di PRL è fisiologicamente inibita


dall’ipotalamo; se il peduncolo, che rappresenta il collegamento tra ipotalamo e
ipofisi, è compresso non si avrà inibizione e dunque si innalzeranno i livelli di questo
ormone. Una iperprolattinemia lieve (<200 ng/mL) mi deve far pensare a questo
quadro che deve essere distinto da un prolattinoma, specie nel caso di donne che
vogliano rimanere incinte (!Occhio che questo è quanto dice Doglietto, Cappelli dice
che basta un valore superiore a 100 per pensare ad un adenoma). In effetti, se in
presenza di un adenoma non secernente dò una tp per ridurre la prolattinemia e
permettere la gravidanza, durante la gestazione l’adenoma si accrescerà tantissimo, a
tal punto da richiedere l’intervento, cosa che dovrebbe essere assolutamente evitata.

5. Ipopituitarismo con calo dei livelli ormonali: questa patologia può essere dovuta non
solo alla presenza di un adenoma che esercita un effetto compressivo ma anche a
cause iatrogene (rimozione chirurgica dell’ipofisi), a patologie ipotalamiche o a rottura
del peduncolo ipofisario, tipicamente a causa di traumi (generalmente abbiamo deficit
di tutti gli ormoni ipofisari ad eccezione della PRL). Altre cause sono apoplessia,
infezione, malattie infiltrative infiammatorie come la sarcoidosi, tumori o
problematiche vascolari. Nel bambino, infine, la causa più comune è il
craniofaringioma.

I deficit ormonali progrediscono in un ordine ben preciso: i primi a calare sono il GH, l’LH e
l’FSH, si abbasseranno poi gli ormoni tiroidei e il cortisolo in conseguenza di un calo di TSH
e ACTH. Se si arriva al secondo step è probabile che anche in seguito ad intervento la
ghiandola non riprenderà la sua funzionalità. Le conseguenze sono:

- La riduzione di FSH e LH porta a ipopituitarismo ipogonadotropo con carenza di


estrogeni e testosterone. Nella donne le conseguenze sono sovrapponibili a quelle
dell’iperprolattinemia mentre nell’uomo vedere l’ultima parte. In entrambi i sessi se la
patologia si verifica durante o prima dell’età dello sviluppo sessuale si avrà deficit di
maturazione dei genitali e della mammella nella femmina: nel maschio si parla di
enucoidismo.
- La carenza di GH sin dalla nascita si correla con nanismo. [Se c’è un blocco della
curva della crescita il pediatra deve prescrivere tre esami: per la celiachia, per il TSH
nel sospetto di ipotiroidismo, e per GH e IGF1 nel sospetto di carenza di ormone della

348
crescita). Nell’adulto invece ci possono essere deficit di forza muscolare, astenia,
disfunzioni cardiache, insulino-resistenza, alterazione della composizione corporea
con aumento della massa grassa rispetto a quella magra, osteopenia e osteoporosi
accelerata. Se nei bambini si somministra immediatamente l’ormone in forma
esogena, negli adulti questa tp non è condivisa da tutti perché si tratta di doping
quindi lo si fa solo per pz con sintomatologia importante e solo a dosi molto piccole.
- Il TSH basso porta ad ipotiroidismo con tutte le conseguenze.
- Se l’ACTH è ridotto si ha iposurrenalismo secondario, il quale, pur essendo meno
grave del primario (morbo di Addison), è comunque problematico perché si riduce la
quantità di cortisolo prodotto. Rimangono invece normali i valori di aldosterone e
adrenalina. Si parla di Addison bianco: non c’è iperpigmentazione correlata alla
propiomelanocortina.
- L’assenza di PRL non dà condizioni particolari, a meno che non si abbia davanti una
donna incinta. La sindrome di Sheehan è uno dei possibili esiti a distanza di uno shock
ostetrico non adeguatamente trattato. Si ha la necrosi dell’ipofisi che, a sua volta, è
provocata dallo shock o da un’emorragia intervenuta durante o dopo il parto. La
situazione viene generalmente diagnosticata rapidamente poiché in seguito alla
necrosi ipofisaria la donna non avrà la montata lattea poiché non c’è stimolazione da
parte della PRL.

Il percorso diagnostico comincia con gli esami ematici: essi evidenzieranno anemia
normocitica, ipoglicemia a digiuno, iponatriemia. Gli esami ormonali evidenzieranno livelli
bassi o inappropriatamente normali delle tropine ipofisarie con riduzione anche degli ormoni
circolanti. Occhio che per l’ACTH non sempre i risultati sono specifici, bisogna fare test
particolari: in day hospital si danno al pz 250 microgrammi di ACTH o 1microgrammo
diluito sempre di ACTH, nel frattempo si dosa il cortisolo a tempo 0, dopo 30 minuti e poi
ancora dopo 60. Se il cortisolo sale il deficit è ipofisario, se ciò non accade probabilmente il
problema è a livello surrenalico. Questo serve perché non sempre i livello di ACTH e
cortisolo danno risultati così netti: se, ad esempio, il cortisolo è 3 e l’ACTH è 8 serve questo
test per approfondire. Esistono test simili anche per il TRH, il gnRH che stimola FS e LH, il
ghRH.
La prima cosa da correggere tempestivamente è l’insufficienza surrenalica con cortisone
acetato e idrocortisone, si devono poi dare gli ormoni tiroidei. L’ipogonadismo si corregge
assumendo testosterone o estroprogestinici, si possono poi dare gonadotropine stimolanti la
gametogenesi. Se la patologia ha portato a sterilità e la donna vuole avere la gravidanza si
devono stimolare il ciclo mestruale e l’ovulazione con gnRH. Il deficit di GH, come detto, va
sempre corretto durante la crescita con ormone ricombinante mentre nell’età adulta si
preferisce usarlo solo in casi selezionati (su 100 pz se ne trattano 2-3).

Nella terapia degli adenomi ipofisari una delle opzioni è il trattamento chirurgico volto a
rimuovere l’adenoma: porta nell’85% a miglioramento dei deficit neurologici e, almeno
parzialmente, riduce le problematiche endocrinologiche. A Brescia gli adenomi non
funzionanti rappresentano 1/3 delle cause per cui il pz si sottopone a intervento, ci sono poi
gli adenomi secernenti GH e quelli secernenti ACTH. L’accesso chirurgico è rappresentato
dal seno sfenoidale: in questo modo si è meno invasivi che procedendo in maniera
transcranica. Si procede dal basso verso l’alto. Quando si interviene chirurgicamente si può
vedere se l’adenoma interessa il seno cavernoso e questo ha valore prognostico. In realtà è
complesso andare a stabilire se c’è invasione o compressione: si può dire con sicurezza che
l’adenoma sia invasivo solo se la carotide è completamente circondata completamente

349
dall’adenoma. Gli adenomi invasivi hanno la capacità di erodere osso, collagene e
connettivo e la chirurgia può in questo caso non essere risolutiva.

DIABETE INSIPIDO
Il diabete insipido è una rara sindrome caratterizzata dalla cospicua emissione di urina,
accompagnata da un'insaziabile sete con preferenza per le bevande fredde. Possiamo parlare
di:

1. Diabete insipido centrale o neurogenico: si ha mancata o insufficiente secrezione di


ADH da parte dell’ipotalamo (essa viene infatti prodotta dall’ipotalamo e poi secreta a
livello della neuroipofisi). Il problema può essere dovuto a rare malattie genetiche o a
malattie congenite che interessano l’ipotalamo, in alternativa ci possono essere alla
base traumi, interventi neurochirurgici, processi infettivi o tumorali. Una buona
percentuale di casi viene a tutt’oggi considerata idiopatica. [L’ADH è un ormone
peptidico che agisce a livello del dotto collettore: qui, grazie al legame con i recettori
V2, promuove l’inserimento a livello della membrana apicale della cellule tubulari di
acquaporine che aumentano il riassorbimento di acqua dunque aumentano la densità
delle urine perché ne riducono il volume. La sua funzione è quindi quella di
concentrare le urine. La vasopressina è poi in grado di stimolare il riassorbimento di
sodio a livello della porzione ascendente dell’ansa di Henle. A livello vascolare
aumenta le resistenze periferiche portando ad un aumento della pressione arteriosa:
questo meccanismo è particolarmente importante nel caso in cui un soggetto vada in
shock ipovolemico.]

2. Diabete insipido nefrogenico o ADH insensibile: l’ADH è presente ma non riesce ad


agire a livello renale. Rispetto a quello centrale, il diabete insipido nefrogenico è una
malattia assai rara, sostenuta dall'incapacità dei recettori renali di rispondere in
maniera adeguata all'ADH, di per sé prodotto in quantità normali; anche in questo
caso esistono forme congenite ed acquisite, tra cui ricordiamo l'insufficienza renale
cronica, l'ipercalcemia e l'ipopotassemia. Infine, possono esservi anche delle forme
transitorie, ad esempio per l'azione di sostanze che interferiscono con l'azione
dell'ormone antidiuretico.

Alcuni pazienti colpiti dalla malattia arrivano ad eliminare fino a 18 litri di urine al giorno. In
presenza di un deficit assoluto o relativo di vasopressina la poliuria è un sintomo inevitabile,
così come la nicturia e la polidipsia. Il diabete insipido è ben tollerato fintanto che il paziente
ha a disposizione sufficienti quantità di acqua; qualora ciò non accadesse o il malato fosse
impossibilitato a bere, si assiste ad una rapida disidratazione, con perdita di peso,
emoconcentrazione fino al collasso e alla morte.

Gli esami di laboratorio evidenziano concentrazioni di glucosio nelle urine e nel sangue del
tutto normali, il che differenzia il diabete insipido da quello mellito. Si registra, per contro
ipernatremia ed elevazione dell'osmolarità plasmatica, le urine, abbondanti, mostrano basso
peso specifico ed osmolarità. La diagnosi differenziale tra diabete insipido centrale e
nefrogenico si basa sull'osservazione degli effetti associati a somministrazione di ADH
esogeno, che risolve positivamente la prima ma non la seconda forma.

Il trattamento del diabete insipido centrale consiste nella somministrazione di vasopressina


per via nasale, orale o sottocutanea, che consente la regressione delle manifestazioni

350
sintomatologiche. In alcuni e selezionati casi, la cura può essere eziologica e come tale
basarsi sulla rimozione della causa promuovente (ad es. asportazione di una massa
tumorale). In presenza di diabete nefrogenico non esiste una terapia medica e la malattia
viene controllata tramite assunzione di forti quantità di acqua, restrizione del sodio nella
dieta ed uso di diuretici tiazidici.

AUMENTO DELLA SECREZIONE E DELL’AZIONE DELLA VASOPRESSINA


Si ha una riduzione del flusso urinario associata ad urine molto concentrate. Ci sarà poi
iponatriemia che, se insorge rapidamente, può portare a cefalea, confusione, anoressia,
nausea, vomito, convulsioni e coma.

1. Le forme primitive, note anche come sindrome da inappropriata antidiuresi, possono


essere ectopiche, tipicamente correlate a carcinomi polmonari, o eutopiche,
tendenzialmente dovute a infezioni acute o ictus, nel qual caso si risolvono dopo
qualche settimane. Ci possono poi essere forme dovute a farmaci, tra i quali figura la
somministrazione esogena di ADH. Il difetto della regolazione osmotica può
assumere forme distinte:

a. Spesso abbiamo una secrezione di ADH che rimane sensibile alle variazioni
dell’osmolarità ma che vede una riduzione del set point: ciò significa che
questo ormone viene secreto anche a livelli di osmolarità più bassi di quanto
avvenga normalmente. In questi soggetti dunque si ha soppressione
dell’ormone solo quando la quantità di liquidi è molto elevata.
b. Ci può poi essere un difetto nei recettori di questo ormone.
c. Più raramente non c’è un difetto dimostrabile nell’osmoregolazione.

2. Le forme secondarie possono essere divise in tre gruppi:

a. Nel tipo 1 siamo davanti ad una condizione in cui ci siano edemi come lo
scompenso, la cirrosi o la sindrome nefrosica. In questi soggetti c’è una
marcata ritenzione di acqua e sodio dovuta probabilmente al fatto che il
volume ematico risulta ridotto perché i liquidi vanno all’esterno del circolo.
b. Nel tipo 2 i soggetti hanno tipicamente gravi gastroenteriti con deplezione
importante di sodio, oppure abusano di diuretici o hanno deficit di
mineralcorticoidi. Siamo dunque in un quadro di riduzione della pressione e
del volume e quindi aumenta l’ADH.
c. Nel tipo 3 la secrezione di ADH viene stimolata da nausea o da un deficit
isolato di glucocorticoidi quindi c’è iponatriemia in condizioni di euvolemia.

Quando la soppressione osmotica dell’antidiuresi è alterata per qualsiasi ragione, la


ritenzione di acqua e la diluizione dei liquidi corporei si verificano solo se l’assunzione di
acqua supera le perdite urinarie.

Nella SIAD l’eccessiva ritenzione di acqua espande il volume extracellulare e intracellulare. Si


ha un aumento della VFG e si alzano i livelli di ormone natriuretico atriale: si ha dunque un
aumento dell’escrezione di sodio, ciò va a sovrapporsi ad una condizione in cui c’è gia
iponatriemia dovuta alla diluizione. La diagnosi di questa patologia è generalmente fatta per
esclusione a partire dalla storia clinica, dai riscontri all’esame obiettivo e dagli esami di
laboratorio.

351
SURRENI
ANATOMIA
Si tratta di due ghiandole pari e simmetriche localizzate sopra il polo superiore del rene in posizione
antero-mediale. Sono di forma piramidale, misurano circa 5x3x1cm e pesano 4-5g. la loro colorazione
giallo ocra permette di differenziarle dal tessuto adiposo. Sono di consistenza friabile e dotati di una
capsula propria che li separa dal rene, con il quale condividono però la fascia del Gerota. Sono in
rapporto con il diaframma, il fegato e con la vena cava grazie a legamenti propri: questi ultimi sono
importanti dal punto di vista chirurgico perché in caso di interventi in quella sede anatomica che non
interessano direttamente il surrene, permettono alla ghiandola di rimanere nella sua posizione. Oltre
che con le strutture precedentemente citate sono in rapporto anche con il duodeno, lo stomaco, la
coda del pancreas, la milza, la flessura splenica del colon, l’aorta e, ovviamente, con il rene. La
vascolarizzazione è piuttosto modesta ed è garantita da vasi che derivano dall’arteria frenica (a.
surrenale superiore), dall’aorta (a. surrenale media) e, talvolta, dalla renale (a. surrenale inferiore). Le
vene surrenaliche hanno decorso diverso: a destra sboccano nella cava mentre a sx nella vena renale:
a dx la vena è dunque molto corta e legarla durante un intervento può essere difficoltoso anche
perché c’è il rischio di danneggiare la cava.

EMBRIOLOGIA
La porzione corticale ha origine mesodermica (à l’origine è comune a quella delle gonadi e questo
spiega perché a questo livello vengano prodotti ormoni sessuali, viceversa ci sono alcuni soggetti che
producono sostanze simili a quelle surrenaliche a livello gonadico) mentre la midollare ha origine
neuroectodermica. Lo sviluppo di queste ghiandole prosegue dopo la nascita ed è completo solo al
terzo anno di vita: nella vita extra-uterina si delinea soprattutto la suddivisione nelle diverse zone
corticali.

FISIOLOGIA
Il surrene presenta due componenti distinte:

1. Corticale: a sua volta suddivisa in tre porzioni che producono diversi ormoni, tutti a partenza
dal colesterolo che è il substrato comune:

a. Glomerulare: produce aldosterone e mineralcorticoidi in maniera dipendente dalla


stimolazione del SRAA. Il rene produce renina quando c’è riduzione del volume
circolante, riduzione dei fluidi extracellulari e riduzione della PA o grazie a
stimolazione data dal sistema simpatico: questa molecola è in grado di clivare
l’angiotensinogeno di derivazione epatica in modo da ottenere l’angiotensina 1.
Quest’ultima trova a livello di molti organi, ivi compresi rene e polmoni, l’enzima di
conversione ACE che permette di avere l’angiotensina 2 grazie al taglio di ulteriori due
aa. L’angiotensina 2 è un potentissimo vasocostrittore, potenzia il sistema simpatico,
aumenta la secrezione di ADH e interferisce con il riassorbimento renale del sodio in
due modi: in primo luogo la vasocostrizione differenziale permette un maggior
riassorbimento di sodio, in secondo luogo c’è un effetto mediato dall’attivazione
dell’aldosterone che a livello del dotto collettore distale porta a ritenzione di sodio e,
conseguentemente, di acqua. In particolare: le cellule del tubulo collettore corticale
presentano dei recettori intracellulari per i mineralcorticoidi con trascrizione di diversi
geni, tra cui quello per il canale epiteliale del sodio. Perché questo meccanismo
funzioni, è fondamentale che la pompa sodio/potassio continui ad estrudere il sodio
dalla cellula per portarlo al sangue perché in questo modo viene mantenuto un certo
gradiente e d’altra parte, perché non si accumuli neanche il potassio nella cellula, ci
sono canali che lo immettono nel lume tubulare. C’è poi una quota minore di ioni
sodio che viene scambiata con ioni idrogeno. In generale quindi questa catena di

352
enzimi permette di fronteggiare situazioni in cui ci siano importanti riduzioni di
volume.
! Il cortisolo ha struttura simile a quella dell’aldosterone: quindi, nonostante abbia
affinità minore per i recettori dei mineralcorticoidi, se presente in grande quantità, può
comunque legarvisi attivando lo stesso meccanismo (à nel Cushing c’è infatti
ipertensione). Il problema è che in questo caso non c’è feedback negativo perché
l’ipofisi non è in grado di leggere il volume circolante e dunque di ridurre di
conseguenza la produzione di ACTH. Quindi, per evitare che ciò si verifichi esiste un
meccanismo fisiologico che evita che il cortisolo agisca in questo modo: a livello del
tubulo collettore è presente un enzima preposto ad ottenere cortisone (che non lega i
recettori dei mineralcorticoidi pur mantenendo la sua attività da glucocorticoide) a
partire dal cortisolo: si tratta dell’11beta-idrossisteroide-deidrogenasi.

b. Fascicolata (80% della corticale): produce glucocorticoidi sotto il controllo


dell’ACTH, il cui rilascio è a sua volta controllato dall’ipotalamo. L’ipotalamo è infatti
in grado di avvertire lo stress e di produrre di conseguenza il CRF che andrà ad agire
sull’adenoipofisi. La secrezione di ACTH dipende, oltre che dallo stress, anche dal
bioritmo giornaliero, con picchi al mattino e dai fenomeni di feedback negativo. Il
rilascio di questa tropina segue un pattern pulsatile. Per produrre il cortisolo, il
colesterolo viene convertito in pregnenolone , dal quale si ottiene il 17OH-
pregnenolone, dal quale deriva il desossicortisolo e infine il cortisolo. Il problema è
che alcune tappe sono in comune con le vie biosintetiche che portano alla produzione
degli altri ormoni surrenalici, quindi, produrre cortisolo in eccesso porta, in misura
minore, anche a produrre una maggior quantità di androgeni. Fisiologicamente i
glucocorticoidi hanno numerosi effetti sull’organismo: sono mediatori dell’immunità
umorale, regolano l’omeostasi dei fluidi, sono eccitanti, inducono poi l’aumento della
lipolisi, della glicogenolisi, della gluconeogenesi e in generale aumentano l’utilizzo del
glucosio.

c. Reticolare: produce androgeni in maniera dipendente dalla stimolazione ipofisaria.

2. Midollare: è composta da cellule originanti dalla cresta neurale cromaffini la cui funzione è
quella di produrre dopamina, adrenalina e noradrenalina sotto il controllo del sistema
simpatico. La medesima struttura istologica, ovvero la presenza delle cellule menzionate sopra
e di quelle sustentacolari, si trova anche a livello dei paragangli, la cui funzione è simile ma
sono in grado di produrre solo noradrenalina. La produzione di catecolamine parte dalla
tirosina: un’idrossilasi permette di ottenere DOPA (questo è il passaggio che limita la velocità
del processo di sintesi), quest’ultima viene decarbossilata a dopamina, dalla quale con
un’idrossilasi si ottiene la noradrenalina, infine attraverso una metiltrasferasi (PNMT, assente
nei paragangli) a livello surrenalico solamente il 75% della noradrenalina viene tramutata in
adrenalina.

IPERFUNZIONE CORTICALE
Se ne riconoscono diverse forme a seconda di quale sia la porzione coinvolta:

Ipercortisolismo
Viene chiamato anche Cushing ed è una patologia con una frequenza di 8-10 casi per
milione, riscontrabili prevalentemente nel sesso femminile. In realtà, questi dati si riferiscono
solo ai casi conclamati quindi è verosimile che la patologia sia più frequente. Si ha un
aumento dei livelli ematici di colesterolo, fatto che può dipendere da diverse cause:

1. Forme ACTH dipendenti:

353
a. Presenza di un adenoma che produce ACTH (70% di questo gruppo)
b. Produzione ectopica di CRF, ad esempio se è presente un carcinoma del
polmone a piccole cellule
c. Produzione ectopica di ACTH
d. Somministrazione esogena di ACTH

2. Forme non ACTH dipendenti:

a. Tumori surrenalici: adenomi singoli o multipli e carcinomi


b. Displasia nodulare primitiva (autoimmune)
c. Somministrazione esogena di steroidi (!Oltre al cortisone devo tenere in
considerazione che anche gli antiretrovirali possono far aumentare il cortisolo,
così come i farmaci utilizzati per trattare l’asma). È la causa più frequente tra
quelle del secondo gruppo.

Per discriminare tra le due forme bisogna dosare l’ACTH e il cortisolo, tenendo presente che
il prelievo deve essere fatto al mattino dopo una dormita tranquilla. Ovviamente se entrambi
i valori saranno alti saremo nell’ambito del primo gruppo, viceversa, se solo il cortisolo risulta
alto, la causa è verosimilmente imputabile al surrene stesso.
In entrambi i casi comunque, essendo alti i valori di cortisolo, si avrà un aumento di tutti quei
meccanismi che vengono amplificati dal cortisolo stesso:

- Funzione catabolica sulla muscolatura à braccia e gambe ipotrofiche e sensazione


astenica. A questo livello viene inibito l’uptake di glucosio.
- Funzione anabolica sull’addome con aumentata deposizione di grasso à obesità
centripeta. Il grasso tende poi ad accumularsi anche nella zona sovraclaveare con la
caratteristica gibba di bufalo e a livello del volto con la tipica facies a luna piena.
- Funzione catabolica sull’osso con osteoporosi: gli osteoclasti sono stimolati e gli
osteoblasti inibiti. C’è poi anche una riduzione dell’assorbimento intestinale di calcio e
un aumento della sua escrezione urinaria (ipercalciuria) con riduzione della
mineralizzazione.
- Riduzione della produzione di fattori coagulanti con facilità all’ecchimosi,
- Aumento delle concentrazioni del fattore 8, del fibrinogeno e del fattore di Von
Willebrand con possibili fenomeni tromboembolici.
- Aumento della sintesi angiotensinogeno.
- Accumulo epatico di glicogeno e aumento della liberazione di glucosio fino ad
arrivare ad insulino-resistenza e DM.
- Aumento della sensibilità ai vaso-costrittori a livello vasale (AT2 e catecolamine) e
riduzione della funzione dell’ossido nitrico. Ci può essere ipertensione arteriosa.
- A livello renale aumenta il riassorbimento di sodio e la perdita di potassio: c’è
aumento del volume circolante con ripercussioni anche a livello cardiaco (ipertrofia).
- A livello ipofisario viene inibita la pulsatilità di FSH e LH à alterazioni del ciclo
sindrome dell’ovaio policistico-like e ipogonadismo ipogonadotropo nell’uomo.
- A livello psichico porta aggressività, irrequietezza e difficoltà nell’addormentamento.

Come detto, aumentano poi anche gli androgeni e gli ormoni sessuali con irsutismo, acne,
alterazione mestruali e seborrea nella donna e impotenza nell’uomo. I pz tenderanno poi a
presentare strie rubre e talvolta iperpigmentazione cutanea.

354
Il Cushing non deve essere sospettato solo quando si vede obesità addominale ma anche nei
casi di osteoporosi giovanile, diabete, ipertensione, se ci sono segni di iperandrogenismo e in
alcuni pz psichiatrici.

Per effettuare la valutazione del ritmo circadiano di ACTH e cortisolo è utile fare un prelievo
di sangue intorno alle ore 8 e alle 18: il picco è al mattino e dal periodo postprandiale si ha
un calo fino a raggiungere i livelli minimi che sono notturni. Se l’ACTH è prodotto in eccesso,
sia in modo ectopico che dall’ipofisi stessa, si perde la pulsatilità dell’escrezione, così come
se c’è un tumore surrenalico con aumento della produzione di cortisolo indipendente. È poi
importante valutare il cortisolo libero urinario nell’arco delle 24h: agli inizi si potrebbero
avere delle oscillazioni ma la produzione giornaliera può essere comunque eccessiva. Infine,
si può anche fare un test di soppressione con 1 mg di Desametasone: per i meccanismi di
feedback esso dovrebbe andare ad inibire completamente la produzione di cortisolo. Si parla
di test di Nugent (test breve a basse dosi) ed è fondamentale per determinare il successivo
iter a cui sottoporre il pz. Per svolgere questo esame si deve dare 1mg di Desametasone alle
23, il mattino dopo tra le 8 e le 9 bisogna fare il prelievo per dosare il cortisolo: se l’asse
funziona correttamente non dovrei avere cortisolo perché l’ACTH è bloccato dal feedback
negativo. Se il cortisolo invece che essere indosabile o inferiore a 1.8 microgrammi/dL fosse a
valori elevati (>5 microgrammi/dL) è indice del fatto che non c’è soppressione. Se si è in una
zona grigia intermedia di valori il pz deve essere sottoposto ai test a basse dosi prolungate di
cortisone (Liddle 1) o ad alte dosi prolungate (Liddle 2). Il test di Liddle 1 prevede la
somministrazione di 1 compressa di Desametasone da 0.5 ogni sei ore fino ad arrivare ad
averne assunte 8: dopo l’ultima compressa presa a mezzanotte si fa la mattina dopo un
prelievo venoso: se c’è soppressione il pz non ha il Cushing, mentre, se è positivo, si passa al
test di Liddle 2. Questo esame serve per capire se l’ipercortisolismo è causato da un
microcitoma polmonare o da un problema ipofisario. La differenza sta nel fatto che nel
secondo caso viene sempre mantenuto un certo grado di feedback, quindi, dando al pz alte
dosi di cortisolo per lungo tempo, si hanno delle riduzioni. Nello specifico: dopo 16
compresse di Desametasone da 0,5 mg si deve avere una riduzione della cortisolemia
maggiore del 50%.

Iperaldosteronismo
Ne esistono diverse forme a seconda di quale parte del processo non funzioni correttamente.

1. Iperaldosteronismo primario: si definisce come una condizione in cui la produzione


di aldosterone è inappropriatamente elevata, relativamente o totalmente in modo
autonomo dal sistema renina-angiotensina (la renina in questo caso è ridotta) e NON
sopprimibile da un carico di sodio. Questo aumento dell’aldosterone non si riflette
però in un aumento marcato della sodiemia in quanto i sistemi preposti al controllo
della concentrazione di questo ione sono molteplici, risulta invece caratteristica una
situazione di ipokaliemia. Si parla di sindrome da eccesso di mineralcorticoidi (la
riscontro anche nello pseudoiperaldosteronismo), caratterizzata da:

a. Ipertensione arteriosa: la causa è data dall’aumento del volume circolante dato


dalla ritenzione di sodio e d’acqua di conseguenza. Può dare cefalea, anche se
in realtà il rapporto è bilaterale e non così chiaro: si verifica in modo certo solo
quando l’aumento di pressione è estremamente marcato.

355
b. Ipokaliemia: può dare debolezza e astenia. Ci possono anche essere poliuria e
polidipsia per progressiva perdita della sensibilità all’ADH e alterazioni
ECGgrafiche tra cui le extrasistoli fino anche alla FV. Più in particolare
possiamo avere sottoslivellamento del ST, comparsa dell’onda U con possibili
onde T bifasiche. Infine ci sono talora anche spasmofilia e tendenza alla tetania
che però si correlano maggiormente all’alcalosi metabolica.
c. Alcalosi metabolica: il sodio viene continuamente riassorbito e una quota di
esso entra nella cellula in scambio con ioni idrogeno. Il risultato è una perdita
degli stessi con alcalosi. Essendo in alcalosi, il calcio libero si riduce perché
aumenta la quota legata all’albumina quindi, nonostante la calcemia sia
normale, c’è spasmofilia, la quale non è comunque così frequente. La
spasmofilia può essere verificata grazie alla presenza di due segni: il segno di
Chvostek viene verificato percuotendo all’emergenza di un nervo cranico e
viene considerato positivo se c’è contrazione della muscolatura omolaterale del
volto; il segno di Trousseau prevede di applicare al braccio un manicotto che
viene insufflato in modo da determinare una temporanea ischemia che, in
questi soggetti, si correlerà al classico reperto della mano ad ostetrico. Un’altra
condizione clinica correlata alla spasmofilia è lo stress o il panico perché c’è
iperventilazione con alcalosi respiratoria: appare dunque evidente l’importanza
di far respirare questi soggetti ad esempio all’interno di un sacchetto per poter
ridurre la quantità di anidride carbonica che viene persa.

L’iperaldosteronismo primario può manifestarsi in modi diversi e può avere diverse


cause. La presentazione caratterizzata da elevato rapporto aldosterone/renina, da
ipopotassiemia, ipertensione, presenza di una massa surrenalica e lateralizzazione del
contenuto di aldosterone di una sola vena surrenalica, prende il nome di Sindrome di
Conn. La causa, in questo caso, è l’adenoma surrenalico (35% dei casi di
iperaldosteronismo primario). Di fronte a questa diagnosi si può decidere di operare il
pz, dopo l’operazione si noteranno delle modifiche nella sintomatologia e nelle
condizioni cliniche: si avrà una riduzione graduale del pH, un aumento del K, una
normalizzazione della PA e un aumento del contenuto di sodio presente nel sudore.
In realtà però, ci possono essere molte altre cause che portano allo sviluppo di
iperaldosteronismo primario: ci possono essere situazioni con elevato rapporto
aldosterone/renina, come nel caso precedente, ma con i restanti segni che non
risultano costanti, ovvero possono essere presenti o meno. Nella maggior parte dei
casi non rientranti nel prototipo di Conn alla base c’è un’iperplasia surrenalica
bilaterale o idiopatica (60% dei casi): non esistono criteri dimensionali che
permettano di porre questa diagnosi, la quale è solo data dall’insieme dei sintomi dati
dall’alterata funzionalità associati al fatto che non è possibile decretare che sia
presente un adenoma. Cause meno frequenti che possono portare a questa patologia
sono l’iperplasia monolaterale, l’iperplasia unilaterale nodulare e la presenza di tumori
ovarici che producono aldosterone. Infine, ci sono forme in cui è presente un
adenoma ma nelle quali l’intervento non porta a miglioramento dei sintomi e forme
genetiche. A queste ultime appartengono sostanzialmente tre forme, tutte a
trasmissione autosomica dominante. In primo luogo si può avere iperaldosteronismo
glucocorticoido-sopprimibile (di tipo 1): si tratta di una forma nella quale a livello del
cromosoma 8 si ha la formazione di un gene chimerico formato dalla porzione
regolatrice del gene che codifica per l’11beta-idrossilasi (enzima che porta alla sintesi
del cortisolo) e la porzione codificante dell’aldosterone-sintasi. Il risultato è che questo

356
gene non risponde all’AT2 ma all’ACTH. In secondo luogo c’è l’iperaldosteronismo da
mutazione del canale del potassio KCNJ5 (di tipo 3): a causa della mutazione questo
canale diventa permeabile anche al sodio che dunque entra in misura maggiore nella
cellula e la depolarizza portando all’apertura del canale del calcio con aumento della
produzione e del rilascio di aldosterone. Si tratta di una forma grave, sia perché la
manifestazione è molto precoce sia perché i sintomi sono gravi (ipertensione grave,
ipopotassiemia importante); si accompagna a marcata iperplasia bilaterale. Questa
mutazione è talvolta riscontrata anche come somatica all’interno degli adenomi. Infine
c’è un’altra forma, detta di tipo 2, per la quale non sono ancora stati identificati i geni
coinvolti.
Tra tutte le forme possibili è bene tenere presente che non tutti i pz beneficeranno
dell’intervento perché non avranno tutti quei miglioramenti illustrati prima. È dunque
fondamentale discriminare tra coloro che necessitano di un’operazione chirurgica e
coloro che invece devono solo fare tp medica.

La diagnosi deve partire dal sospetto clinico: le spie possono essere ipertensione
associata a ipopotassiemia non iatrogena (!occhio perché potrebbe essere da
diuretico), ipertensione arteriosa resistente (ovvero non sensibile nemmeno a
combinazioni di almeno tre farmaci, di cui almeno uno deve essere un diuretico),
anamnesi familiare positiva per ipertensione o ictus (àiperaldosteronismi
geneticamente determinati), ipertensione arteriosa moderata/severa o giovanile. È
infatti vero che tra gli ipertesi, la prevalenza di iperaldosteronismo primario è di circa il
6%; se l’ipertensione è resistente è del 17%. Se si sospetta che il soggetto possa
essere affetto da questa patologia, è importante effettuare uno screening: si vanno a
misurare il rapporto tra aldosterone (AP in ng/dL) e renina. È importante per
identificare un’eventuale forma di aldosteronismo come primaria: in passato si
verificava solo che i livelli di renina fossero prossimi allo zero e che l’aldosterone fosse
elevato, in realtà però era troppo stringente quindi ad oggi si valuta il rapporto tra le
due. Per dosare la renina, esistono due metodiche: la prima è il PRA (attività reninica
plasmatica in ng/mLh) che prevede di aggiungere un eccesso di angiotensinogeno al
sangue del pz per vedere la quantità di angiotensina che si forma in un determinato
lasso di tempo; la seconda è il DRCA (concentrazione renina diretta attiva), si tratta
del metodo più utilizzato perché è maggiormente standardizzato, si va a cercare la
renina con degli ab. In soggetti con valori pressori normali il rapporto è generalmente
inferiore a 15, se c’è ipertensione sarà compreso tra 15 e 25 mentre nei soggetti con
iperaldosteronismo primitivo – a prescindere dalla causa – i valori saranno nettamente
superiori. Il cutoff viene considerato 30, è comunque un test molto sensibile ma poco
specifico. Perché i valori ottenuti siano affidabili è bene che prima di fare l’esame
vengano sospesi farmaci che possano modificare questi parametri, normalizzare la
potassiemia e verificare che il soggetto assuma una dieta libera affinchè la quantità di
renina non venga influenzata dallo scarso sodio assunto. Qualora la tp non possa
essere interrotta si scelgono i farmaci che meno interagiscono con l’SRAA, ovvero i
calcio antagonisti non diidropiridinici (Verapamil a lento rilascio) e gli alfa-1 bloccante
(zosine).
Proseguendo nell’iter troviamo i test di conferma:

a. Infusione salina: dò 2L di SF a velocità di 500ml/h, se l’aldosterone rimane


comunque sopra i 10 ng/dL il test è considerato positivo, sotto i 5 ng/dL il test è
invece negativo perché c’è soppressione.

357
b. Carico salino orale: a differenza del precedente non è un esame che dura
alcune ora ma tre giorni, il pz non è però obbligato a stare a letto con la flebo.
c. Test al Captopril: non si va ad aumentare il volume ma si bloccano comunque i
meccanismi AT2-dipendenti.
d. Test al fludrocortisone (Florinef): somministro un analogo sintetico
dell’aldosterone che si lega ai medesimi recettori. Se il sistema funziona
l’aldosterone si riduce perché il farmaco porta ad un aumento del volume. Il
Florinef può essere usato come farmaco nel caso in cui ci sia un danno
surrenalico, sia nella componente mineralcorticoide che glucocorticoide o per
pz con ipotensione ortostatica.

Fatti questi test sappiamo di avere davanti un pz affetto da iperaldosteronismo


primario, ma in che casistica ci troviamo? Come detto prima non è detto che tutti
abbiano tutta la sintomatologia descritta e non tutti beneficeranno dell’intervento. A
questo proposito bisogna fare una TC surrenalica che permette di individuare
un’ipotetica massa e il sampling delle vene surrenaliche che permette di capire se
entrambi i surreni overproducono l’aldosterone o se è solo uno. Le indicazioni alla
chirurgia infatti ci sono solo qualora si individui una massa che da una sintomatologia
molto importante. Questo perché generalmente le forme con iperplasia bilaterale,
ovvero quelle che non ha senso operare, si correlano ad una sintomatologia più
ridotta. Se siamo in una zona grigia in cui la sintomatologia non è né particolarmente
grave né sfumata per stabilirne la causa bisogna dimostrare che effettivamente
l’aldosterone viene prodotto da un solo surrene, e lo si fa con il sampling, altrimenti
non si può procedere con la chirurgia. La TC infatti non sempre è accurata nel
distinguere tra queste due forme e prima di operare un pz è sempre meglio essere
sicuri. Il problema è che il sampling venoso non è una metodica banale: richiede che
le vene surrenaliche vengono cateterizzate e c’è sempre il rischio di provocare una
rottura con conseguente perdita del surrene corrispondente. A causa dell’anatomia
delle vene, questa procedura risulta più complessa a dx che a sx è il rischio è avere
una sottostima dei valori a dx. Il cateterismo può essere fatto in modo simultaneo o
sequenziale; in condizioni basali o stimolando con ACTH il surrene (il razionale è che
in questo modo posso vedere se effettivamente sono nella vena surrenalica, cosa non
immediata da capire specie a dx, perché troverò nelle vene anche il cortisolo prodotto
in seguito alla stimolazione). Tenendo conto anche della correzione del cortisolo c’è
una formula che permette di stabilire il coefficiente di lateralizzazione: se è pari o
superiore a 2 si può affermare che ci sia effettivamente lateralizzazione, ovvero che
l’aldosterone in eccesso sia prodotto da uno dei due surreni.

In base al responso degli esami precedenti, se un pz non è candidabile alla chirurgia si


usano farmaci che bloccano i recettori per i mineralcorticoidi: Spinorolattone,
Eplerenone, Canreonato di potassio e Canrenone. Ad oggi non si hanno dati
conclusivi circa la superiorità dell’intervento chirurgico rispetto alla tp medica. Si
ritengono invece generalmente idonei all’operazione quei soggetti che abbiano
un’ipertensione di breve durata e in assenza di una storia familiare positiva, in coloro
per i quali è sufficiente una tp con massimo due farmaci ipertensivi e per coloro che
hanno i rapporti aldosterone/renina più elevati. Oggettivando queste caratteristiche è
presente un punteggio che può essere assegnato ai pz che considera diversi punti:

a. Se il soggetto assume due o meno farmaci ipertensivi à 2 punti

358
b. Indice di massa corporea <25 à 1 punto
c. Ipertensione che perdura da meno di sei anni à 1 punto
d. Sesso femminile à 1 punto

Maggiore è il punteggio, più è alta la probabilità che l’intervento sia risolutivo: si va da


un 75% per chi totalizza 4-5 al 27% per chi ha un punteggio di 0-1.

Per quanto riguarda, invece, le forme genetiche, nel caso della forma di tipo 1 si può
somministrare Desametasone perché in questo modo si sopprime l’ACTH che dunque
non stimolerà più la produzione di aldosterone; nelle forme di tipo 2 invece si può
intervenire con surrenalectomia bilaterale.

2. Iperaldosteronismo secondario: si ha un aumento dei livelli di aldosterone, ma ciò è


secondario ad un’aumentata attivazione del SRAA. Alcune condizioni che possono
determinarlo sono:

a. Ipertensione nefrovascolare: quando c’è una stenosi a livello dell’arteria renale


arriva meno sangue al rene e questo viene interpretato come una riduzione di
volume.
b. Reninoma (raro)
c. (Ab)uso di diuretici o lassativi: si abbassa la pressione e c’è una riduzione di
volume e questo determina un aumento della produzione di renina.
d. Disidratazione
e. Cirrosi epatica con ascite: la riduzione della pressione oncotica determina un
sequestro di liquido al di fuori del sistema vascolare, si ha quindi ipovolemia
relativa.
f. Scompenso cardiaco: c’è ipoperfusione periferica e attivazione del sistema
simpatico, entrambi stimolano l’SRAA.
g. Sindrome di Bartter: si tratta di una tubulopatia autosomica recessiva con
alcalosi ipocaliemica, perdita di sali, ipotensione e ipercalciuria.
h. Sindrome di Gitelman: è nota anche come ipokaliemia e ipomagnesemia
familiare. Altre caratteristiche tipiche sono l’alcalosi metabolica e l’ipcalciuria.
Si tratta di una patologia autosomica recessiva generalmente causata da una
mutazione del gene che codifica per il cotrasportatore di Na-Cl.

Non siamo di fronte ad una sindrome ma ad una condizione fisiopatologica in cui c’è
un’iperattivazione del SRAA. C’è tendenza all’ipopotassiemia mentre i valori pressori
risultano variabili.

3. Pseudoiperaldosteronismo: la renina è soppressa ma non c’è un aumento


dell’aldosterone, a differenza di quanto si riscontra nelle forme primarie. Il quadro
fenotipico assomiglia a quello che si ha con un eccesso di aldosterone: anche qui
avremo ipokaliemia e ipertensione. Le cause possono essere:

a. Adenoma secernente deossicortisone: questa molecola nella via biosintetica


dei mineralcorticoidi precede l’aldosterone. Alcune volte si ha
un’iperproduzione di deossicortisone invece che di aldosterone, quest’ultimo,
seppur meno potente, è comunque un mineralcorticoide: il quadro sarà

359
sovrapponibile a quello dell’iperaldosteronismo primario ma i valori di
aldosterone saranno molto bassi.

b. Somministrazione di mineralcorticoidi esogeni: un esempio è il fludrocortisone


che si usa per curare l’ipocorticosurrenalismo o nel caso di ipotensione
ortostatica.

c. Deficit di 17alfa-idrossilasi: è una condizione molto rara in cui questo enzima


preposto a idrossilare il delta5-pregnenolone in 17alfa-OH-delta5-
pregnenolone non funziona e dunque non vengono sintetizzati ne cortisolo ne
ormoni sessuali. Ne risulta che si ha un forte aumento della via biosintetica dei
mineralcorticoidi poiché è l’unica funzionante e tutto il colesterolo viene usato
per quest’ultima. In realtà, però, la grande espansione dei volumi che ne
consegue arresta la produzione di aldosterone mentre non si riduce la
produzione delle molecole precedenti, dunque, anche in questo caso, si ha un
aumento del deossicortisone. Questi pz avranno dunque un aumento
dell’attività mineralcorticoide accompagnata da alterazioni dello sviluppo
sessuale, sia maschile che femminile (pseudoermafroditismo e infantilismo
sessuale per assenza dei caratteri sessuali primari femminili).

d. Deficit di 11beta-idrossilasi: questo enzima si trova più a valle del precedente


nei processi di sintesi ormonale corticale. È infatti preposto alla trasformazione
di deossicortisone in corticosterone per quanto riguarda la via dei
mineralcorticoidi e all’ottenimento di cortisolo a partire dal deossicortisolo.
Risulteranno dunque aumentati sia gli ormoni sessuali, la cui via non è
compromessa, che i livelli di deossicortisone. In questo caso, dunque, ai
sintomi tipici dell’iperaldosteronismo, ovvero ipertensione eccetera si associa
pubertà precoce nel maschio e acquisizione di caratteri ambigui nella femmina.

e. Sindrome da resistenza primaria al cortisolo

f. Sindrome di Liddle: questi pz hanno una mutazione delle subunità beta e


gamma nel gene del canale epiteliale del sodio. Esso manca dunque della sua
porzione carbossi-terminale e, per questo, viene meno facilmente rimosso dalla
superficie della cellula e vi permane più a lungo permettendo un maggiore
riassorbimento di sodio. La soluzione è somministrare farmaci come l’Amiloride
che vadano a bloccare proprio questi canali presenti a livello del tubulo renale
distale. In assenza di tp, questi pz avranno un quadro con renina e aldosterone
bassi ma con ipertensione grave, ipokaliemia e alcalosi metabolica.

g. Mutazione attivatrice del recettore per i mineralcorticoidi: la presenza di una


leucina al posto di una serina a livello di questo recettore è causa del fatto che
esso non venga attivato solo dai mineralcorticoidi, dal deossicortisone e dal
cortisolo ma anche dal progesterone. Questo rende ragione del fatto che la
sintomatologia, sovrapponibile a quella della sindrome di Liddle, venga
esacerbata in gravidanza a causa dell’aumento dei livelli ormonali.

h. Sindrome da apparente eccesso di mineralcorticoidi: la causa è una mutazione


del gene della 11beta-idrossisteroide-deidrogenasi di tipo 2. Questo gene è

360
importante perché la proteina che viene prodotta porta a trasformare a livello
renale il cortisolo in cortisone rendendolo inattivo e dunque non
permettendogli di interagire con i recettori dei mineralcorticoidi; coloro che
presentano questa mutazione avranno una ridotta attività di questo enzima con
conseguente aumento dell’attività mineralcorticoide, mediata però dal cortisolo
e non dall’aldosterone. La liquirizia è in grado di dare lo stesso problema anche
in persone che non presentano questa mutazione perché l’acido glicirretinico
contenuto al suo interno inibisce l’attività di questo enzima. I pz avranno
ipertensione grave, ipokaliemia e alcolosi, spesso ci sono poi accidenti cerebro-
vascolari in età piuttosto giovanile. Nelle urine ci sarà un elevato rapporto
cortisolo/cortisone, segno che il secondo è presente in quantità molto ridotto. Il
trattamente per questi pz è lo Spinorolattone che è un antagonista dei recettori
per i mineralcorticoidi.

IPOFUNZIONE CORTICALE
L’iposurrenalismo viene definito come l’incapacità da parte della corticale del surrene di
produrre sufficienti quantità di glucocorticoidi e/o mineralcorticoidi. Ciò significa che si
avranno ripercussioni sull’omeostasi del metabolismo energetico e del bilancio idro-salino.
Possiamo avere:

1. Iposurrenalismo primitivo o morbo di Addison: il deficit è del surrene stesso quindi


l’ipofisi reagirà aumentando molto il rilascio delle tropine per cercare di stimolarlo ma
senza successo. Ha un tasso di mortalità maggiore rispetto a quello secondario perché
qui spesso la produzione di ormoni da parte del surrene è completamente abolita. Si
tratta di una malattia rara (in Italia ci sono 6000-7000 casi e l’incidenza è di 500
casi/anno, i dati sono comunque sottostimati) ma che, a causa del suo esordio
subdolo, progredisce anche a causa del fatto della mancata diagnosi. In effetti, è
sufficiente il 3% della porzione corticale funzionante per non avere sintomi franchi.
Il morbo di Addison può essere determinato da:

a. Cause autoimmuni: possono esserci autoab che colpiscono solo il surrene o il


problema può interessare anche altre ghiandole (DM1, patologie tiroidee…), in
questo secondo caso generalmente c’è un’alterazione del sistema HLA che
risulta essere fortemente predisponente. Le cause autoimmuni sono le più
frequenti.
b. Cause infettive: la sindrome di Waterhouse-Friderichsen è una forma di
iposurrenalismo causata da emorragia del surrene che avviene nell’ambito di
setticemie gravi con shock vascolare emorragico e cid. Batteri che possono
rendersi responsabili di questo quadro sono lo S.Aureus, H.Influenzae,
P.Aeruginosa o M.Tubercolosis. Nel caso in cui ci siano alterazioni
dell’immunità si può anche avere infiltrazione del parenchima surrenalico da
parte dei leucociti.
c. Cause emorragiche: oltre che dalle cause infettive viste prima, un’emorragia
surrenalica può dipendere anche da una tp con anticoagulanti o dalla presenza
di adenomi che possono divenire necrotici.
d. Presenza di mx
e. Farmaci: ne rappresentano un esempio gli antiretrovirali.

361
La sintomatologia tipica comprende astenia, anoressia, mialgie, artralgie, turbe
neuropsichiche, preferenza per i cibi salati. Ci sarà poi dimagrimento, ipotensione
arteriosa, alterazioni della pigmentazione spesso associate a vitiligo (àl’ACTH ha
origine da una macromolecola che contiene anche la propiomelanocortina, la quale è
in grado di stimolare i melanociti ed è responsabile della colorazione anomala
bronzea di cute, gengive, pieghe cutanee, capezzoli e cicatrici). Se c’è una
compromissione anche nella produzione degli ormoni sessuali ci potrà poi essere, ad
esempio, irsutismo. La renina è generalmente aumentata per cercare di stimolare il
surrene e il monitoraggio dei livelli di questo ormone sono utili nel FU per capire se la
tp è efficace. Dolori addominali, vomito e diarrea tipicamente precedono la crisi acuta
addisoniana. Generalmente la malattia è cronica e lentamente progressiva, nel 5-10%
dei casi invece la malattia viene diagnosticata solo in seguito a crisi addisoniana: avrà
shock ipotensivo, febbre, nausea, stato confusionale e, in certi casi, coma.
Generalmente le manifestazioni acute si hanno in corrispondenza di eventi stressanti,
sia che si tratti di carichi emotivi, stress per interventi o eventi infettivi: è proprio infatti
in queste situazioni che c’è una maggior richiesta di glucocorticoidi e se il soggetto
non li produce andrà in crisi, la quale è gravata da importante mortalità. Si deve
intervenire immediatamente somministrando ormoni esogeni.

Dal punto di vista biochimico ci saranno iponatriemia, ipoglicemia, iperpotassiemia,


anemia normocitica, linfocitosi e eosinofilia.

2. Iposurrenalismo secondario: ipofisi e/o ipotalamo non sono in grado di stimolare


adeguatamente il surrene. Nonostante l’assenza di stimolazione ipofisaria una piccola
quota di ormoni viene comunque prodotta, anche grazie alla stimolazione indotta dal
SNA. L’iposurrenalismo secondario può dipendere da:

a. Adenomi che comprimono l’ipofisi


b. Danni da rt
c. Quadri infettivi (meningiti o meningoencefaliti)
d. Emorragie post traumatiche da commozione cerebrale
e. Ictus massivi
f. Apoplessia ipofisaria: si ha un adenoma che va incontro o necrosi.
g. Rimozione chirurgica dell’ipofisi o danneggiamento della stessa durante un
intervento.

La presentazione clinica è ancora più sfumata rispetto al precedente caso e i sintomi


diventano severi solo quando il surrene non riesce più a produrre autonomamente
nemmeno piccole quantità. Avremo anche qui ipotensione, iponatriemia e
iperkaliemia ma, a differenza delle forme primarie, il pz non ricercherà cibi salati e
non avrà l’iperpigmentazione. La renina sarà normale perché in questo caso abbiamo
ancora il funzionamento del SRAA, nella forma primaria al contrario i valori saranno
molto aumentati. Se anche altre porzioni dell’ipofisi sono compromesse avremo anche
altri sintomi relativi, se poi c’è anche un problema a livello della neuroipofisi si può
ridurre anche l’ADH con diabete insipido.

3. Iposurrenalismo secondario da cause iatrogene (terziario per Cappelli): questa


condizione si verifica quando si sospende in modo brusco la tp con corticosteroidi. Se
si procede in questo modo, infatti, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene non ha tempo di

362
riadattarsi al lavoro normale e quindi c’è un blocco temporaneo. La stessa situazione
può instaurarsi anche se dopo chirurgia per correggere la sindrome di Cushing non si
instaura una tp steroidea.

Per quanto riguarda la funzione dei mineralcorticoidi, una delle cause è il deficit di 21alfa-
idrossilasi: la mutazione di questo enzima non permette infatti nemmeno la sintesi del
deossicortisone che è la prima molecola con attività mineralcorticoide nella via biosintetica. I
pz avranno dunque tipicamente ipotensione. Il medesimo deficit porta poi anche a
ipocortisolismo e a iperproduzione degli ormoni sessuali. Si somministra fludrocortisone.

Per fare diagnosi certa di iposurrenalismo è necessario che i valori di cortisolo sierico siano al
di sotto di 3 microgrammi/dL. Se si è sotto i 10 ma la situazione non è così chiara è
necessario fare altri esami di approfondimento: si ricorre al test di Synacthen
(corticotropina). Come prima cosa si dosa il cortisolo al tempo zero, si somministra poi una
fiala di 0.25mg di Synachten endovena e poi si testano nuovamente i valori di cortisolo dopo
30 e 60 minuti. Se dopo il farmaco il cortisolo è al di sotto di 18 microgrammi/dL si fa
diagnosi di insufficienza surrenalica primaria. Nella sindrome di Addison si avranno poi
ACTH e renina alti; nelle forme secondarie invece l’ACTH sarà basso, la renina normale e gli
androgeni sono bassi, sarà poi necessario valutare se anche la produzione delle altre tropine
è alterata. Se l’iperaldosteronismo è primitivo si possono fare eco, TC e RMN per indagare
meglio la causa, l’imaging cui si fa ricorso in caso di forme secondarie si fa RMN cerebrale.
Il cortisolo nel sangue è legato alla CBP (cortisol binding protein): devo tenere presente che
se, ad esempio, un pz soffre di sindrome nefrosica o di epatopatie gravi, i suoi livelli di
cortisolo sierico potrebbero risultare ridotti ma non per un problema di produzione ma
perché è carente la proteina di trasporto.

La tp è di tipo sostitutivo: si usano corticosterioidi per os o intramuscolo. Si usa idrocortisone


(15-25 mg/die) o cortone acetato (20-35 mg/die da somministrare 2/3 volte nell’arco della
giornata). Nei pazienti poco complianti si può optare per prednisone (3/5 mg/die in mono-
somministrazione al mattino così come il cortone a lento rilascio). Il cortone è il preferito
perché dà meno effetti collaterali cushingoidi. In caso di stress (febbre, interventi chirurgici,
lutti) la dose deve essere duplicata o triplicata per evitare una crisi. Nel paziente addisoniano
talvolta è necessario sopperire alla mancanza dei mineralcorticoidi con fluoridrocortisone
(Florinef). La crisi richiede dosi molto elevati di cortisonici, anche 100mg/8h.

Si tratta di pz cronici che dunque devono essere seguiti sia dal punto di vista clinico, che
biochimico. Bisogna poi valutare se sono presenti eventuali effetti collaterali della tp.

PATOLOGIA MIDOLLARE
Si possono avere feocromocitomi o paragangliomi: sono patologie rare (1 caso all’anno ogni
300 000) che originano rispettivamente dai surreni (cellule cromaffini) e dai paragangli.
Sebbene queste due strutture siano distinte, condividono un’embriogenesi comune e dunque
la patologia tumorale sviluppata nei due casi presenta forti analogie. Gli organi di
Zuckerkandl sono situati a lato dell’aorta a livello dell’origine dell’arteria mesenterica
inferiore, sono paragangli. I paragangli sono piccole ghiandole dal diametro di pochi mm che
si trovano associati ai plessi e ai gangli nervosi simpatici addominali o a quelli parasimpatici
ma in questo caso non saranno secernenti. La loro struttura è simile a quella della midollare
del surrene, quelli simpatici presentano cellule ad attività endocrina che producono
catecolamine, in questo caso però si avrà solo sintesi di noradrenalina e NON adrenalina. Il

363
loro massimo sviluppo è nella vita prenatale (in questo periodo è qui che viene prodotta la
maggior parte delle catecolamine) e immediatamente postnatale, in seguito, dopo i 3 anni,
subiscono una graduale involuzione. In alcuni casi vi sono soggetti predisposti a mantenere
in vita tali residui e da essi possono partire processi tumorali. Questi paragangli possono
essere localizzati a livello del distretto testa e collo (corpo carotideo, giugulare, timpano,
decorso del vago; NON producono catecolamine), e i tumori corrispondenti verranno
definiti paragangliomi, o a livello toraco-addominale, nel qual caso, oltre al termine di
paragangliomi, si può usare anche feocromocitomi extra-surrenalici poiché questi paragangli
producono catecolamine come la midollare surrenalica.

Sia i feocromocitomi extrasurrenalici/paragangliomi che i feocromocitomi si caratterizzano


per essere formazioni neoplastiche che producono catecolamine, la cui principale
manifestazione clinica è l’ipertensione. Sono patologie che a lungo tempo sono state
sottodiagnosticate, ad oggi alcuni centri di terzo livello sostengono che lo 0.1-0.5%
sarebbero portatori di un feocromocitoma. In realtà la verità sta nel mezzo perché anche nel
secondo caso c’è un bias perché in questi centri si vedono pz con ipertensione aggressiva e
resistente alla tp. Talvolta comunque potrebbero essere assenti sintomi particolari: uno studio
sostiene che il 4% degli incidentalomi surrenalici sia in realtà un feocromocitoma e, inoltre, a
suffragio di questa ipotesi, ci sono molteplici rilievi di malattia che vengono fatti solo in sede
autoptica.

Generalmente i feocromocitomi surrenalici producono sia A che NA, alcuni producono solo
NA mentre è raro che producano solo A. Per quanto riguarda quelli extrasurrenalici, invece,
c’è solo la produzione di NA: a questo livello manca infatti l’enzima fenil-etanolamina-metil-
trasferasi e dunque non è possibile la produzione di A. Quei tumori surrenalici che
producono solo NA sono particolarmente indifferenziati e hanno perso l’enzima PNMT;
un’ulteriore de-differenziazione porta anche alla perdita dell’enzima adibito al passaggio da
dopamina a noradrenalina e dunque il tumore produce dopamina e questo porta ad avere
una sintomatologia peculiare perché si tratta di una sostanza vasodilatante e natriuretica che
dunque porterà ipotensione nel pz (decorso clinico maligno). Sostanzialmente, più il tumore
è poco differenziato, più enzimi perde e prima si arresta il processo biosintetico delle
catecolamine. Le cellule cromaffini possono poi cominciare a produrre ormoni non propri
come ad esempio l’ACTH o l’EPO.

A seconda della catecolamina prodotta dal tumore si avranno effetti sistemici differenti:

1. A è inotropa positiva mentre NA è inotropa negativa


2. A aumenta la GC mentre con NA si hanno effetti variabili
3. A riduce le resistenze periferiche mentre NA le aumenta
4. A dà vasodilatazione a livello muscolare mentre NA vasocostrizione

Ci sono poi effetti sovrapponibili: ad esempio, entrambe le molecole danno ipertensione,


anche se la NA lo fa in maniera maggiore, vasocostrizione splancnica, cutanea e renale e
entrambe stimolano la respirazione. Anche il metabolismo e il consumo di ossigeno
aumentano con entrambe e poi si ha broncodilatazione.

Si parla dunque di una sindrome pleomorfa perché ci possono essere presentazioni diverse,
dipendenti sia dalla catecolamina prodotta, che dalla sede del tumore. Bisogna poi
distinguere forme in cui la produzione di catecolamine è continua, da quelle con produzione

364
discontinua perché, nel secondo caso, la presentazione sarà prevalentemente per crisi, le
quali possono comunque sovrapporsi anche ad un quadro di sintomatologia cronica. Le crisi
possono essere occasionali o presenti più volte al giorno: generalmente più il tumore è
avanzato più frequenti saranno le crisi. Ci possono essere fattori scatenanti come la manovra
di Valsava o altri modi per comprimere la massa (talvolta palpabile), l’ingestione di alimenti
contenti tiramina (grano, vino rosso) o sinefrina (succo d’arancia o di pompelmo), o
l’assunzione di oppiacei, antidepressivi triciclici o steroidi. Prima della crisi possono
comparire sintomi tra cui figurano dolore addominale o toracico e tremori (i recettori beta, se
stimolati eccessivamente, danno tremore), parestesie.

La triade sintomatologica caratteristica del feocromocitoma è data da cefalea,


cardiopalmo/tachicardia e sudorazione (importante specie nei bambini, nei quali andare a
determinare altra sintomatologia può essere difficile). La cefalea è dovuta all’aumento
pressorio, il cardiopalmo, così come la sudorazione, ad un’eccessiva stimolazione
catecolaminergica. Altri segni e sintomi possibili sono: pallore (da vasocostrizione cutanea),
nausea, flushing (rossore), calo ponderale per aumentata attività metabolica, ansia o attacchi
di panico, ipotensione ortostatica, iperglicemia al di sotto del range diabetico, ipertensione
arteriosa sostenuta (50-60%), parossistica (25%) o parossistica su sostenuta (25%). In
alcuni casi ci possono essere presentazioni drammatiche come l’infarto, la dissecazione
aortica, ictus o aritmie fatali. Spesso, data la moltitudine di sintomi possibili e a causa del
fatto che la presentazione non è sempre netta, ci può essere un ritardo/assenza della
diagnosi. Alcune forme potrebbero poi simulare un ipertiroidismo.

I paragangliomi di testa e collo, ovvero quelli non secernenti catecolamine, si caratterizzano


invece per una sintomatologia completamente diversa:

a. Dolore neuropatico
b. Disfagia
c. Raucedine
d. Nei tumori del glomo timpanico: acufeni intermittenti, ipoacusia, sordità,
vertigini, tinniti pulsanti
e. Nei paragangliomi carotidei masse pulsanti
f. Nei tumori del glomo vagale bradicardia
g. Se c’è interessamento dei nervi cranici si può avere alterata motilità di capo e
collo o dei mm mimici.
h. Se c’è compressione dei nervi laringei disfonia
i. Se c’è compressione del sistema nervoso simpatico cervicale si ha la sindrome
di Bernard-Horner con ptosi, enoftalmo e miosi.

Nei pz esposti ad ipossia cronica i paragangliomi sono più frequenti (a livello del corpo
carotideo ci sono infatti chemocettori sensibili proprio a ciò): è il caso di pz che hanno
soggiorni lunghi in montagna o malattie croniche cardio-polmonari. In generale comunque, si
ritiene che il 50% di questi paragangliomi sia familiare.

Quando si sospetta un feocromocitoma?

1. In presenza di lesioni sindromiche associate al feocromocitoma: un caso è la MEN2,


ci sono poi la sindrome di Von-Hippel-Lindau e la neurofibromatosi. Questi pz devono
essere tenuti sotto controllo sia per quanto riguarda possibili lesioni tiroidee che per

365
l’insorgenza di feocromocitoma, motivo per il quale si dosano le metanefrine urinarie.
Si parla di forme sindromiche familiari.

2. Esami effettuati perché c’è una storia familiare positiva: ci sono infatti diverse
mutazioni genetiche che possono predisporre l’insorgenza di questo tumore senza
che vi sia un vero e proprio quadro sindromico, si parla di forme non sindromiche
familiari. L’incidenza di queste ultime è compresa tra 0.1 e 1 su 100 000 all’anno. È
una forma autosomica dominante nella quale possiamo avere in variabile
associazione: tumori del sistema parasimpatico di testa e collo e tumori del sistema
nervoso simpatico addominale o toracico. Quelli di testa-collo sono, come detto,
prevalentemente non secernenti e crescono lentamente: per queste ragioni la diagnosi
è spesso tardiva perché viene fatta solo quando interferiscono con la deglutizione,
quando danno bradicardia perché in prossimità del vago o quando danno
compromissione dell’udito con tinniti.

3. In presenza di segni e sintomi ipercatecolaminergici

4. Accidentalmente (incidentaloma)

La familiarità è l’unico fdr noto. Un 10% dei casi è rapportabile a forme familiari strettamente
dette, tra le sporadiche ci sono poi comunque forme geneticamente determinate. Questo
potrebbe dipendere dal fatto che la mutazione è avvenuta per la prima volta nel gamete, che
il padre non sia il padre biologico o che la penetranza della mutazione sia incompleta.
Quindi: sommando le forme familiari a quelle sporadiche ma geneticamente determinate,
l’origine genetica rende conto del 30% dei paragangliomi/feocromocitomi: lo screening
genetico viene dunque fatto sia se c’è già familiarità acclarata che in caso di forme
apparentemente sporadiche. Se lo screening per mutazioni risulta positivo è necessario farlo
anche a tutti i familiari: la penetranza può infatti essere molto alta, anche se non è sempre
vero.

Partendo dal sospetto clinico, il primo test che si deve effettuare è il dosaggio delle
metanefrine urinarie su raccolta nelle 24h. Si tratta di un test di screening che va a dosare i
metaboliti delle catecolamine: normetanefrina (NA) e acido omovanilico (DA) e metanefrina
(A). Questa metodica è preferita rispetto al dosaggio su plasma perché è difficile con questo
campione dosare le catecolamine, così come ad oggi non si cercano più direttamente le
catecolamine ma i loro metaboliti perché in questo modo c’è un minor numero di falsi
negativi e dunque si ha maggior sensibilità. Il test della metanefrine urinarie può anche dare
un risultato dubbio nel caso in cui i valori siano meno del doppio del limite superiore di
normalità. In questo caso si può fare un test di inibizione: si va a bloccare la funzionalità del
sistema simpatico con la Clonidina per escludere che la causa dell’aumento delle metanefrine
sia data da stress. Si usa il Catapresan che viene somministrato per os: è un agonista dei
recettori pre-sinaptici alfa2adrenergici che passa la bee e riduce il tono simpatico in generale;
oppure si può far ricorso anche a cerotti di Clonidina transdermici il cui rilascio dura una
settimana. La differenza è che nel primo caso devo fare un prelievo mentre nel secondo dopo
tre giorni ripeto la raccolta delle urine delle 24h. Se il test è positivo, quindi se non si ottiene
una riduzione, bisogna capire dove si localizzi il tumore che le produce.

Dopo aver fatto la diagnosi si può decidere di operare il pz: in questo caso è fondamentale
somministrare prima alfa e beta bloccanti per 2-3 settimane per evitare le crisi che altrimenti

366
si avrebbero manipolando il surrene. Il pre-trattamento è anche importante per disabituare il
soggetto a livelli troppo elevati di catecolamine; in caso contrario togliendo la massa ci
sarebbe un crollo di pressione perché la differenza tra la stimolazione catecolaminergica
prima e dopo sarebbe troppo marcata. Ct e rt risultano poco efficaci, altri approcci possono
essere un trattamento ad ultrasuoni ad alta insensità o un’embolizzazione selettiva. Se il
tumore è captante si può poi fare trattamento con meta-iodo-benzil-guanidina.

INCIDENTALOMI
Sono masse clinicamente silenti dal diametro superiore a 1cm che vengono scoperte grazie
ad esami svolti con altri scopi (!Nel 9% degli esami eseguiti). Possono essere entità anche
molto diverse:

1. A carico del corticosurrene si può avere iperplasia nodulare, adenomi o carcinomi


2. A livello midollare posso sospettare un feocromocitoma, un ganglioneuroma o un
ganglio-neuroblastoma.
3. Localizzazioni metastatiche
4. Masse di altra natura: mielolipomi, cisti, neurofibromi, amartromi, teratomi,
granulomatosi…

Sono più colpite le donne di età avanzata e generalmente c’è interessamento del surrene dx.
generalmente si tratta di neoformazioni benigne: il riscontro più frequente è un adenoma non
funzionante, sono invece meno frequenti i carcinomi (1-12%).

Data la grande varietà di possibilità è necessario come prima cosa definire a che tipo di
massa ci troviamo davanti, in secondo luogo bisogna capire se essa sia funzionante (10-
15%) o meno, se sia benigna o maligna e se necessita di intervento.

1. Per capire se la massa sia funzionante ricorro a diversi esami:

a. Controllo i valori di PA e di catecolamine e metanefrine urinarie nelle 24h.


Questi accertamenti servono per escludere che si tratti di un feocromocitoma,
il quale rappresenta l’11% di tutte le masse funzionanti.
b. Dosare il cortisolo plasmatico basale e quello libero urinario mi permette di
fare diagnosi di ipercortisolismo.
c. Misurare la PA e dosare gli elettroliti serve per capire se il soggetto abbia una
forma di iperaldesteronismo, la quale si accompagna generalmente a
ipopotassiemia.
d. Dosare progesterone, beta-estradiolo, DHEA e guardare l’aspetto del pz mi
aiuta a valutare l’ipotesi che possa trattarsi di iperandrogenismo o di
iperestrogenismo.

Capire se una massa è funzionante è importante perché, qualora lo fosse, deve essere
asportata.

2. Per capire se una massa è benigna o maligna possiamo fare TC, scintigrafia, PET e
l’esame citologico eco/TC guidato. La TC è importante anche per definire le reali
dimensioni (masse con diametro >5cm hanno elevata probabilità di essere maligne: se
il diametro è >4 si asporta la massa, mentre, se è più piccola si fanno controlli, ogni 6
mesi per valutare la velocità di crescita), per valutare i margini e la presenza di

367
calcificazioni o infiltrazioni e per studiare i rapporti tra il tessuto adiposo attorno alla
ghiandola e il tessuto adiposo intracitoplasmatico (se è maligna i grassi intracellulari
sono molto ridotti). Bisogna indagare anche la densità: con un’accuratezza del 90% si
può affermare che se la massa risulta essere pù densa del grasso circostante, siamo di
fronte a qualcosa di maligno. La scintigrafia fatta con colesterolo marcato per la
corticale o con iodo-benzil-guanidina per la midollare è poco usata perché costosa e
con scarsi risultati diagnostici però permette di identificare ad esempio un
feocromocitoma. La PET è particolarmente utile nel caso di pz già sottoposti ad
intervento per neoplasie in altra sede. La biopsia è gravata da molti rischi come
emorragia e infezione e non riesce a discriminare con certezza tra adenoma e
carcinoma perché non valuta la capsula, quindi non è molto usata. Può essere utile
per capire la causa di un’eventuale insufficienza surrenalica. In ogni caso, prima di
pungere, devo avere già escluso in maniera certa che la massa sia funzionante, e in
particolare che si tratti di un feocromocitoma, perché, in caso contrario, il massivo
rilascio di catecolamine potrebbe mettere a rischio la vita del pz. In generale
all’imaging gli adenomi appariranno piccoli, regolari e omogenei con forma rotonda o
ovale. La presa di contrasto sarà limitata e la densità paragonabile a quella del fegato.
I carcinomi saranno generalmente più grandi, con margini irregolari e sfumati, aree
necrotiche, emorragiche e calcifiche. La densità alla TC sarà >10 HU e ci sarà più
importante presa del contrasto. Le mx (5% delle masse maligne) hanno caratteristiche
simili ai carcinomi ma sono generalmente più piccole e spesso bilaterali.

3. Le indicazioni chirurgiche comprendono dunque:

a. Masse funzionanti
b. Masse per cui si sospetti o si sia accertata la malignità
c. Masse >4cm

Si può passare anteriormente (transperitoneale), e in questo modo si tiene sott’occhio


la vena cava, ma il GS è rappresentato dalla surrenalectomia laparoscopica. Con
questa metodica infatti si riducono le perdite ematiche, le possibili infezioni e il tempo
di ricovero, è poi più difficile che si formino ernie. Due metodi innovativi sono la
chirurgia robotica e il SILS (single incision laparoscopic surgery), ad oggi sono però
ancora scarsamente utilizzati.

368
SINDROMI POLIGHIANDOLARI AUTOIMMUNI
Si tratta di una condizione clinica rara caratterizzata dalla coesistenza di più patologie
ghiandolari autoimmuni e/o di patologie autoimmni nello stesso individuo. Sono purtroppo
ad oggi ancora poco conosciute e, probabilmente, sottodiagnosticate; in realtà identificare
questi pz è fondamentale in modo da poterli monitorare in modo appropriato perché avendo
questa chiara predisposizione è possibile che in un futuro possano sviluppare nuovi disordini.
Alla base ci sono generalmente mutazioni genetiche o polimorfismi che interessano il
complesso maggiore di istocompatibilità (HLA-B8, DR3 e DR4) o i geni che regolano la
trascrizione o la regolazione dei linfociti T.

1. APS1/Sindrome di Whitaker: i pz avranno almeno due tra morbo di Addison,


ipoparatiroidismo e candidiasi cronica. Si tratta di una forma a trasmissione
autosomica recessiva maggiormente frequente nel sesso femminile nella quale si
riscontra una mutazione del gene AIRE (cromosoma 21) con conseguente
disregolazione della funzione dei linfociti T.

2. APS2/Sindrome di Schimdt: c’è sempre il morbo di Addison associato a tiropatia


autoimmune e/o DM1.

3. APS3/Sindrome tireogastrica: si ha una tireopatia associata a varie malattie


autoimmuni (celiachia, vasculiti…) ma NON al morbo di Addison.

4. APS4: tutte quelle combinazioni che non rientrano nelle categorie precedenti.

Gli esami di primo livello comprendono:

- Emocromo: permette di valutare se c’è anemia, la quale può correlarsi a gastrite


atrofica autoimmune o a celiachia.
- Elettroliti e cortisolo sierico per verificare la funzionalità surrenalica.
- Glicemia ed eventuale OGTT con i quali fare diagni di DM.
- Calcio, fosfato, magnesio e PTH per escludere l’ipoparatiroidismo.
- TSH reflex per la funzionalità tiroidea.

Tra gli esami di secondo livello abbiamo il dosaggio degli autoab se c’è un forte dubbio che
possa trattarsi di forme autoimmuni.

Gli esami di terzo livello comprendono invece esami strumentali e visite specialistiche.

369
NEOPLASIE ENDOCRINE MULTIPLE – MEN
Sono delle forme neoplastiche, in genere a carattere benigno, che hanno come caratteristica
la predisposizione di alcune ghiandole e cellule endocrine alla trasformazione neoplastica
con conseguenze increzione di ormoni di vario tipo. Con questo non si intende che la
predisposizione sia limitata alle ghiandole in senso stretto: bisogna infatti sempre considerare
che in molti organi e tessuti, come ad esempio i polmoni o il tratto gastro-enterico, ci sono
cellule endocrine che fanno parte del cosiddetto sistema endocrino diffuse e anch’esse
presentano questa predisposizione. Questo ha permesso di confutare parzialmente l’ipotesi
secondo la quale la radice comune del problema potesse essere fatta risalire alla cresta
neurale: il sistema neuroendocrino diffuso è infatti di derivazione epiteliale e dunque questa
teoria non basterebbe a spiegare la predisposizione generale. Le principali sedi coinvolte
sono l’ipofisi, le paratiroidi, la tiroide (sia i tireociti che le cellule C) e il sistema endocrino
diffuso polmonare e gastro-entero-pancreatico.

MEN1/SINDROME DI WERMER
È una patologia rara, la prevalenza è infatti bassa ma bisogna tener conto che ci potrebbero
essere molte mancate diagnosi (!Bisogna raccogliere l’anamnesi con attenzione per non
rischiare di considerare solo il problema attuale del pz magari trascurando altre cose che ha
avuto nel passato perché altrimenti non si riesce a porre la situazione in un quadro completo
che permette di accorgersi della MEN). Si hanno almeno due neoplasie endocrine che
interessano principalmente:

- Paratiroidi -> in quasi la totalità dei soggetti si avrà iperparatiroidismo dovuto a


adenoma (il 95% lo presenta prima dei 50 anni, rappresenta l’1-3% di tutti i casi di
iperparatiroidismo primitivo).
- Regioni gastro-entero-pancreatica (gastrinomi nel 40% dei soggetti affetti, carcinoidi,
insulinoma nel 10% dei soggetti affetti)
- Ipofisi: nel 20-25% si ha prolattinoma, meno frequentemente si possono avere forme
secernenti l’ormone della crescita, da solo o associato a PRL. Ci sono poi le forme non
secernenti.

Altre neoplasie tipiche sono i carcinoidi del tratto respiratorio o del timo, gli adenomi tiroidei
e surrenalici (generalmente non secernenti, interessano il 25% degli affetti; i feocromocitomi
sono invece molto rari). Ci possono essere anche tumori non endocrini come i lipomi, gli
angiofibromi (85%), tipicamente a livello del volto, collagenomi e leiomiomi. Ad oggi non è
chiaro se ci sia o meno un’associazione anche col melanoma. L’insorgenza delle diverse
neoplasie è spesso asincrona e a volte anche a distanza di anni; ad ogni modo entro la quinta
decade di vita l’80% dei soggetti ha avuto manifestazioni cliniche e in quasi il 100% dei
soggetti ci sono almeno evidenze biochimiche (ad esempio se ci fosse qualcosa al surrene si
avrebbe calcemia e paratormone elevati).
Alla base si hanno mutazioni germinali con inattivazione di un oncosoppressore:
generalmente ad essere mutata è la menina. È codificata da un gene lungo 610 bp (10
esoni), la cui assenza facilita la replicazione cellulare fino ad innescare i processi neoplastici.
Si tratta di una scaffhold-protein che attiva molte altre proteine e vie di trasmissione del
segnale: riesce ad interagire ed influenzare diversi meccanismi intracellulari volti a regolare la
trascrizione di altri fattori. Sono state identificate più di 600 mutazioni diverse, quelle che

370
hanno una frequenza superiore all’1,5% sono però 9; ad ogni modo lo screening genetico le
verifica tutte.

La diagnosi deve partire dal sospetto clinico: quando esso è presente si deve inviare il pz a
fare screening genetico. Se poi ci sono familiari di primo grado con diagnosi di MEN1 o che
hanno avuto una delle neoplasie viste precedentemente il sospetto deve aumentare e, anche
in assenza di neoplasie nel soggetto stesso, si può decidere di prescrivere lo screening
genetico. Più in generale, lo screening viene proposto a:

- Coloro che hanno almeno due delle neoplasie dette prime e ai loro familiari di primo
grado,
- Coloro che hanno adenomi paratiroidei prima dei 30 anni,
- Coloro che a qualsiasi età presentano gastrinomi o neoplasie multiple delle isole
pancreatiche.

Bisogna comunque tener presente che non in tutti i pz affetti da MEN1 si riscontrano
effettivamente mutazioni della menina. Questo può essere dovuto al fatto che nello screening
non siamo incluse alcune mutazioni rarissime o al fatto che ci potrebbero essere fenocopie
che interessano però altri geni (ad esempio mutazione delle chinasi-ciclino dipendenti).Una
volta fatto il test, se risulta positivo bisogna, fare tutti gli accertamenti biochimici e di imaging
volti ad indagare almeno la presenza delle neoplasie più frequenti. Se i risultati di questi
esami sono normali andranno rifatti dopo circa 1 anno, se i risultati sono positivi si deve
invece procedere con l’iter diagnostico più appropriato e, qualora fosse necessario, con la tp.

MEN2
A partire dal 1974 questo gruppo è stato ulteriormente suddiviso. Avremo dunque la MEN2A
caratterizzata da:

1. Iperplasia e adenoma delle paratiroidi (NON presente nella forma B)


2. Iperplasia della midollare surrenalica e feocromocitoma (50%, spesso bilaterale in
maniera sincrona o metacrona ma raramente maligno)
3. Iperplasia e carcinoma midollare della tiroide (95-99%)

Nella MEN2B (in generale più precoce e più aggressiva) troveremo invece:

1. Neoplasie tiroidee: nel 100% si ha gozzo. (Talvolta c’è solo un’ereditarietà per
quanto riguarda il carcinoma midollare della tiroide, senza che vi siano associati
anche i punti successivi: si parla di forma familiare detta FMTC)
2. Neuromi muco-cutanei
3. Neoplasie surrenaliche
4. Habitus marfanoide

In entrambi i casi la mutazione interessa il gene RET (protoncogene): esso si trova sul
cromosoma 10 ed è costituito da 21 esoni. Si tratta di un gene che codifica per un recettore
di membrana tirosinchinasico che viene attivato da GDNF: in seguito al legame si ha
dimerizzazione tra due recettori e attivazione del RAS GTP-mediato, quest’ultimo si lega a
RAF e si ha attivazione di una cascata che coinvolge MEK ed ERK. Quest’ultimo è
responsabile dell’effetto che si ottiene a partire da RET: a livello nucleare regola infatti
differenziazione, proliferazione e sopravvivenza della cellula. Se a causa di una mutazione

371
RET è costitutivamente attivo si hanno stimoli proliferativi in assenza di fattori di crescita.
Probabilmente queste mutazioni sono correlabili all’effetto del fondatore: nella zona del
bresciano nel 50-60% dei casi si è osservata la medesima mutazione (serina al posto di
un’alanina in posizione 891), la quale è invece rara altrove.

COMPLESSO DI CARNEY
È una sindrome a ereditarietà autosomica dominante che si caratterizza per mutazioni a
livello del gene PRKAR1alfa (Type 1 a regulatory subunit of protein kinase A). Questi pz
potranno avere:

1. Neoplasia micronodulare surrenalica con Cushing


2. Neoplasie ipofisarie
3. Neoplasie tiroidee
4. Neoplasie testicolari
5. Nevi blu
6. Mixoma atriale
7. Tumori cutanei

NEUROFIBROMATOSI DI TIPO 1
È una sindrome neoplastica multipla ereditaria a trasmissione autosomica dominante causata
dalla mutazione del gene NF1. Non può essere considerata rara perché l’incidenza è 1 su
3000. Predispone a:

1. Pigmentazione cutanea (macchie lentigginose ascellari o macchie color caffèlatte),


2. Noduli di Lisch (neurofibromi) nell’iride,
3. Amartromi,
4. Tumori del SNP,
5. Neurofibromi cutanei: possono interessare anche i plessi nervosi o eventualmente
evolvere a neurofibrosarcomi,
6. Glioma del nervo ottico – raro –,
7. Feocromocitoma (0,1-5,6%).

Per fare diagnosi è necessario notare due o più tra le caratteristiche tipiche, considerando
anche l’eventuale presenza di un parente di primo grado che abbia già avuto questa
diagnosi.

SINDROME DI VON-HIPPEL-LINDAU
Si tratta di una sindrome neoplastica multisistemica ereditaria a trasmissione autosomica
dominante causata da un difetto del gene VHL. Può dare:

1. Tumori renali a cellule chiare,


2. Emangioblastomi cerebellari, midollari e/o retinici,
3. Cisti e neoplasie neuroendocrine pancreatiche,
4. tumore del sacco endolinfatico dell’orecchio,
5. Feocromocitoma (20-25%, spesso multifocale e/o bilaterale ma con rischio di
malignità inferiore al 5%).

Il 100% dei portatori della mutazione a carico del gene VHL sviluppa almeno una delle
manifestazioni correlate entro i 65 anni.

372
EMERGENZE ENDOCRINE
Le emergenze endocrinologiche sono condizioni molto rare. Nonostante ciò, è necessario
saperle riconoscere o, comunque, avere l’idea che possano esistere, in modo tale da poter
avanzare un corretto sospetto diagnostico ed eventualmente approfondire, in seguito, la
terapia più aggiornata. Le emergenze endocrinologiche sono quasi interamente costituite da
emergenze diabetologiche. Esiste un’altra quota di emergenze correlate alle altre funzioni
endocrine, principalmente alla funzionalità tiroidea, fondamentali da conoscere, in quanto
devono essere trattate rapidamente:

1. Crisi tireotossica:
2. Coma ipotiroideo o mixedematoso, ossia l’esasperazione dell’ipotiroidismo in seguito
3. Ipocalcemia acuta (20-30%)
4. Ipercalcemia grave (2-10%)
5. Insufficienza surrenalica acuta (2-10%)
6. Apoplessia ipofisaria (<1%)

CRISI TIREOTOSSICA – TEMPESTA TIREOTOSSICA


Può insorgere in pz affetti da Basedow, gozzo multinodulare, adenoma tossico oppure a
causa della presenza di mx secernenti. Bisogna poi considerare che talvolta il pz assume
ormoni tiroidei senza averne bisogno o in quantità superiori a quelle che sarebbero
necessarie. Generalmente, pur insorgendo su condizioni di base, si manifestano in seguito
all’instaurarsi di una causa scatenante come infezioni, interventi chirurgici, assunzione di
sostanze iodate o sospensione della tp tireostatica. I test di funzione tiroidea non permettono
mai di differenziare la crisi tireotossica dalla tireotossicosi non complicata, in quanto non
esiste un valore soglia di TSH, fT3 o fT4 che corrisponde alla crisi tireotossica.La diagnosi è
pertanto clinica, effettuata tramite un punteggio/score:

Se <25 → non è possibile


parlare di tireotossicosi.

Se 25-44 → è facile aspettarsi,


a breve, una tireotossicosi: si
parla di “crisi incipiente”

Se >45 → la diagnosi di
tireotossicosi è molto probabile
(bisogna considerare che, in
questo caso, la mortalità è del
10%)

373
I sintomi sono gli stessi dell’ipertiroidismo, ma esasperati. Si possono presentare:

1. Aumento della temperatura corporea (anche oltre i 40°C; si tratta di un fattore


confondente, perché potrebbe indirizzare verso la ricerca di una eventuale infezione);
2. Sudorazione profusa;
3. Cute molto calda non asciutta (umidità da intensa vasodilatazione periferica);
4. Disidratazione;
5. Nausea e vomito;
6. Dolori addominali (che possono, erroneamente, far pensare ad un problema
chirurgico, indirizzando l’iter diagnostico sull’addome, tralasciando l’aspetto tiroideo);
7. Manifestazioni cardiocircolatorie: aumento della frequenza cardiaca, scompenso ad
alta gittata, aritmie e PA differenziale elevata;
8. Alterazioni neurologiche e psichiche: agitazione psico-motoria, tremori fini
generalizzati, perdita di attenzione e abbassamento del livello di coscienza fino al
coma.

Gli obiettivi della terapia sono:

1. Antagonizzare gli effetti degli ormoni tiroidei sul sistema simpatico: per bloccare l’effetto
dell’ormone tiroideo a livello cardiaco (principalmente ridurre la frequenza cardiaca e
ridurre lo stato di attivazione adrenergica, quindi lo scompenso ad alta gittata), sono da
utilizzare i β-bloccanti. Se il paziente ha anamnesi di asma, si utilizzano, invece, i calcio
antagonisti non diidropiridinici, come il Verapamil.

• Propranololo (Inderal): è il più utilizzato, antagonista dei recettori β1 e β2. Si


preferisce utilizzare un antagonista di entrambi i recettori, al contrario della maggior
parte delle altre circostanze, perché agendo sui β1 si ottiene un controllo della
frequenza e della contrattilità cardiaca e agendo sui β2 si blocca la vasodilatazione
(bloccando la circolazione iperdinamica che si è verificata nel soggetto).Se si
utilizzasse un antagonista solo dei β1, si potrebbe determinare una stimolazione in
eccesso dei β2 e determinare vasodilatazione. L’ideale è posizionare un sondino
nasogastrico, tramite il quale somministrare il farmaco. In alternativa si può
somministrare una dose di 40-80mg x4/die per os, se il soggetto è in grado di
deglutire, monitorando sempre le modificazioni della frequenza cardiaca.
• Labetalolo (Trandate): è un antagonista dei recettori β1 e β2. Si possono
somministrare 200mg per os fino a 3volte/die. In alternativa, si può somministrare per
via endovenosa, come avviene nelle emergenze ipertensive: si valuta prima la risposta
a boli piccoli di 10-20mg (le fiale contengono 100mg), controllando la risposta della
frequenza cardiaca e la risposta emodinamica.
• Esmololo: è il βbloccante in assoluto più rapido nell’azione. In caso di vera
tireotossicosi, se c’è la possibilità monitorare il paziente in terapia intensiva, si può
utilizzare in infusione continua in pompa al dosaggio di 50-100mcg/kg/min ev.

2) Inibire la sintesi degli ormoni tiroidei:

• Metimazolo (Tapazolo): inibisce l’utilizzo dello iodio agendo sulla perossidasi


intratiroidea. Può essere somministrato per os o per SNG o, in casi estremi, tramite
una sonda rettale.

374
• Propiltiouracile: Ha il vantaggio di avere non solo azione simile al Metimazolo (cioè
inibire l’utilizzo dello iodio per la sintesi degli ormoni tiroidei), ma ha anche effetto
sulla conversione periferica, impedendo la trasformazione di T4 in T3. Non inizia ad
agire immediatamente, ma necessita di alcune ore. Non si raggiungerà, comunque,
l’obiettivo di riduzione dei livelli ormonali in modo significativo fino a quando non
saranno passati 10-15 giorni. L’evidenza della riduzione degli ormoni tiroidei avverrà
quindi, a distanza di qualche settimana.Anche in questo caso si raccomanda la
somministrazione per via rettale, come per il Metimazolo. Si consiglia, inoltre, di
bloccare l’evacuazione per impedire l’espulsione e per favorire l’assorbimento del
farmaco da parte della mucosa rettale. Per ottenere un effetto rapido, l’alternativa è il
sondino nasogastrico, che può essere però maggiormente complicato in un paziente
non collaborante. Come con il Metimazolo, va controllata, mediante prelievi ripetuti
nel tempo, l’eventuale insorgenza di agranulocitosi ed epatotossicità. Va ricordato
che possono dare anche allergie.
• Ioduro di Potassio (soluzione di Lugol): questo farmaco sfrutta il meccanismo di
Wolff-Chaikoff e inibisce in maniera acuta la sintesi ormonale. Aumentando
moltissimo il livello di iodio, questo fa sì che la secrezione dell’ormone non possa
avvenire.La somministrazione di iodio andrebbe effettuata dopo aver somministrato la
terapia con Metimazolo e Propiltiouracile.

3) Inibire la conversione periferica da T4 a T3

• Idrocortisone: è il cortisonico di scelta poiché è quello che funziona più


rapidamente. Si possono somministrare 100 mg di idrocortisone 2-3 volte al giorno
(ogni 8 h) per via endovenosa. Agisce bloccando le deiodasi.

! È bene ricordare di non somministrare aspirina per ridurre la temperatura corporea in


quanto ha l’effetto opposto, cioè aumenta la conversione di T4 in T3.

4) Instaurare terapia di supporto

• Reidratazione: si consiglia, se il soggetto non ha scompenso, di somministrare 2 lt/die


—> si dà glucosata al 5% oppure fisiologica 500 ml ev x 4 volte/die (2 litri). Se il
paziente ha scompenso cardiaco, è necessario essere più cauti e magari
somministrare liquidi in una fase successiva.
• Paracetamolo: per ridurre la temperatura corporea (mai ASA!). Se è presente grande
vasodilatazione periferica, è indicato tenere il paziente scoperto e mettere dei
“panetti” di ghiaccio per raffreddare l’ambiente esterno.
• Se FA: bisogna somministrare βbloccante per ridurre la frequenza. Se il paziente ha
fibrillazione atriale da tempo, potrebbe essere opportuno un trattamento
anticoagulante con Warfarin.
• Sedazione: nel paziente con agitazione psicomotoria, può essere opportuna una
modesta sedazione, che aiuta a ridurre anche la frequenza cardiaca, la sudorazione e
la temperatura corporea.
• Ventilazione (più o meno invasiva): se il paziente presenta ipossiemia, può essere
utile, soprattutto anche in presenza di scompenso cardiaco, un trattamento con
ventilazione.

375
Le linee guida americane per la tempesta tireotossica consigliano:

1. Un carico di Propiltiouracile, con una dose più bassa somministrata ogni 4h


2. Metimazolo, in assenza di Propiltiouracile
3. Propanololo 40-60mg ogni 4-6h, controllando la funzione cardiaca
4. Soluzione di Lugol
5. Idrocortisone, 100mg 3 volte al giorno

COMA MIXEDEMATOSO
Interessa soggetti quasi esclusivamente sopra i 60 anni di età e prevalentemente di sesso
femminile. Si tratta di un’espasperazione dell’ipotiroidismo che può verificarsi in seguito a
fattori scatenanti come infezioni, ictus, interventi chirurgici, anestesia, traumi, ustioni o
emorragie. È poi importante considerare i farmaci: Amiodarone, barbiturici, betabloccanti,
diuretici, narcotici, fenotiazine, Rifampicina e Benzodiazepine sono altri fattori scatenanti.
La mortalità è del 15-20%, quindi non è trascurabile.

Le manifestazioni cliniche sono quelle tipiche dell’ipotiroidismo, terribilmente esacerbate. La


peggior alterazione dei parametri vitali individuabile è l’ipotermia: più bassa è la
temperatura corporea e peggiore sarà la prognosi del soggetto. Altre alterazioni
comprendono bradicardia, cute secca, fredda e disidratata, macroglossia, ptosi palpebrale,
anemia, CPK elevate, iperlipidemia, ipoglicemia, ipossia, acidosi respiratoria, iposodiemia.

Non ci sono linee guida ufficiali, al momento, per il trattamento del coma mixedematoso. Si
suggerisce di somministrare EV una dose di T4, che possa essere rapidamente trasformata in
T3 e, in aggiunta, il T3. In alternativa, potrebbe essere utile somministrare,
contemporaneamente, sia T3 che T4, poiché il primo agisce immediatamente, mentre il
secondo viene trasformato in tempi abbastanza rapidi in T3. Se c’è una grave patologia, una
ridotta introduzione di alimenti e calorie, converrebbe avere un approccio più lento, quindi
aspettare la fisiologica conversione del T4 in T3. La somministrazione diretta di T3 potrebbe,
infatti, essere causa scatenante di aritmie ventricolari o di sindrome coronarica acuta,
nonostante dia la garanzia di risolvere la situazione più rapidamente. Sono, per questo
motivo, da valutare le condizioni cliniche e le eventuali patologie di cui il soggetto è affetto,
prima di prendere una decisione terapeutica. Appena possibile, solitamente, si passa ad un
trattamento con Levotiroxina per os, la cui dose viene stabilita moltiplicando per 3/4 la dose
impiegata per via endovenosa.

Bisogna poi trattare le condizioni associate:

- Se c’è ipocortisolemia, bisogna somministrare idrocortisone.


- Se il paziente ha insufficienza respiratoria e tende ad ipoventilare, non bisogna
attendere prima di doverlo intubare e fare ventilazione meccanica.
- Se c’è grave ipotermia, considerata la sua importanza dal punto di vista prognostico,
non bisogna attendere e si deve ricorrere a coperte che trattengono il calore. Non è
suggerito il “riscaldamento attivo”, (ossia infondere nel paziente liquidi
preventivamente riscaldati), come invece accade nel caso dell’assideramento.
- Se è presente iposodiemia, si può pensare ad una restrizione di fluidi moderata.
- Se c’è ipotensione, si provvede alla somministrazione di liquidi ed eventualmente di
colloidi.
- Se c’è ipoglicemia, si somministra glucosata.
376
- Se si sospetta un’infezione, bisogna somministrare antibiotici.

INSUFFICIENZA SURRENALICA ACUTA


La crisi addisoniana rimane una importante causa di morte nei pazienti con insufficienza
surrenalica cronica, i quali devono dunque essere a conoscenza della necessità di adeguare
la tp sostitutiva in caso di situazioni stressanti. Questo è importante perché, talvolta, il
peggioramento clinico può essere talmente rapido da poter portare a morte il pz prima che si
riesca a ricoverarlo.

Può presentarsi in pazienti con insufficienza surrenalica primaria, secondaria o da


glucocorticoidi, sulla quale va ad instaurarsi un fattore precipitante come patologie gi,
interventi chirurgici, gravidanza, tp con antimicotici o anticoagulanti e, in generale, tutte le
situazioni stressanti. La prima cosa da sapere è se il paziente ha già insufficienza surrenalica
cronica e/o se ha già avuto episodi di insufficienza surrenalica acuta. La seconda cosa è
l’anamnesi farmacologica da indagare e la terza cosa è la clinica. La clinica di una crisi
addisoniana (assomiglia molto alla chetoacidosi diabetica) può prevedere:

1. Estrema astenia;
2. Mucose asciutte;
3. Ipotensione;
4. Disidratazione;
5. Nausea e vomito;
6. Dolore addominale.

Si hanno poi anche alterazioni agli esami di laboratorio: iponatriemia, iperkaliemia,


ipoglicemia, ipercalcemia. L’aumento del potassio è ciò che spesso può determinare la
comparsa di aritmie, come il blocco atrio-ventricolare completo o il ritmo giunzionale.

La conferma diagnostica avviene con il dosaggio del cortisolo (<5mg/dL), dell’aldosterone,


dell’ACTH e della renina. Questi risultati arrivano però lentamente, quindi la tp va impostata
prima dell’arrivo della conferma. Come prima cosa si effettua reidratazione con soluzione
fisiologica a dosi elevate, 1lt nella prima ora, poi proseguire con 3-4 lt in 24h (125 ml/h). È
importante fare attenzione alla correzione della sodiemia, in quanto non va mai modificata
con una velocità superiore ai 10 mEq di Na+/L in 24h e all’eventuale correzione della
glicemia che richiede soluzione glucosata. Altra cosa fondamentale è la terapia steroidea,
effettuata con Idrocortisone: si effettua una prima somministrazione di 100 mg im o ev in
bolo, seguita poi da 100 mg 4volte/die (ogni 6 h). Dopo 24h, si può proseguire riducendo la
dose a 50 mg 4volte/die per le 24h successive. Se il paziente poi ha raggiunto uno stato di
coscienza adeguato, può proseguire con dosi triplicate rispetto alla sua dose abituale, nei
giorni successivi, con somministrazione per os.

È poi necessario correggere la tp in cronico: il cortisone acetato prevede due


somministrazioni quotidiane: 25 mg la mattina e 12,5 mg la sera.Se è in una condizione di
stress o se deve andare incontro ad un intervento chirurgico, il paziente deve raddoppiare (o
addirittura triplicare) la posologia.

IPERCALCEMIA
Le cause di ipercalcemia sono principalmente: iperparatiroidismo primitivo, metastasi ossee,
iperparatiroidismo da sindrome paraneoplastica e, meno frequentemente, intossicazione da
377
vitamina D. Quando la calcemia supera i 15 mg/dl compaiono invariabilmente gravi
manifestazioni cliniche, in relazione con la compromissione funzionale di SNC, cuore e reni.
Le manifestazioni a carico del SNC sono aspecifiche e consistono in uno stato di sonnolenza
invincibile che passa progressivamente ad uno stato stuporoso e infine al coma. La
compromissione renale è provocata dalla deposizione di sali di calcio all’interno delle cellule
tubulari, con necrosi di queste ultime e IRA. Di conseguenza il paziente diviene bruscamente
oligurico e infine anurico. Le manifestazioni cardiache, riconducibili all’elevata
concentrazione di ioni calcio nel LEC delle fibre miocardiche, sono rappresentate da
bradicardia ingravescente e, nelle situazioni estreme, da arresto cardiaco. Da Rugarli,
Medicina interna sistematica.]

Si deve intervenire per ripristinare i liquidi, per aumentare l’escrezione di calcio, per inibire
il riassorbimento osseo e per ridurre l’assorbimento intestinale.

Si ripristina il deficit idrico, somministrando fluidi in infusione e, contemporaneamente, si


favorisce l’escrezione di calcio dalle urine con Furosemide. In questo modo si espande il
volume plasmatico e si induce diuresi calcica, per aumento del carico di sodio (600 mEq). È
da monitorare la diuresi. Si può anche somministrare calcitonina, la quale inibisce il
riassorbimento di calcio dall’osso e promuove l’eliminazione di calcio con le urine. Sempre
con azione a livello osseo, abbiamo a disposizione anche il Denosumab, il quale però è
molto costoso e andrebbe utilizzato solo qualora le altre tp non risultino efficaci. Il
Desametasone è utile perché inibisce l’assorbimento intestinale di calcio, così come si
possono dare resine per ottenere il medesimo scopo. In alcuni casi è indispensabile ricorrere
alla dialisi.

Nell’ipercalcemia secondaria a metastasi ossee si utilizza l’acido zoledronico o il


pamidronato.

378
TESTICOLO
ANATOMIA
Il testicolo presenta, a partire dall’esterno, una struttura interstiziale, la mb e il tubulo germinale.
Fisiologicamente il testicolo ha un volume compreso tra 15 e 25 mL e la porzione germinale ne deve
rappresentare la stragrande maggioranza: è infatti proprio a questo livello che avviene la maturazione
degli spermatozoi. Essi cominciano il processo nella zona vicino alla mb per poi sposarsi
progressivamente verso la zona centrale.

FISIOLOGIA
Il testicolo risente della stimolazione ormonale data da LH e FSH. Il primo agisce sulle cellule di
Leydig che sono a livello interstiziale e condiziona la produzione di testosterone, il secondo influenza
invece le cellule del Sertoli, la cui funzione è quella di permettere la maturazione degli spermatozoi. Il
testosterone è fondamentale per la maturazione degli spermatozoi: esso è, infatti, a questo livello, 10
volte più concentrato. Le cellule di Leydig, comunque, oltre a produrre questo fondamentale ormone,
servono anche, ad esempio, per produrre l’ormone insulin-like 3 che permette la conversione della
VitD nella sua forma attiva. Il testosterone stesso poi è alla base della produzione di diidrotestosterone
e degli estrogeni (aromatasi).

IPOGONADISMO
È una sindrome caratterizzata da riduzione della produzione di testosterone e da riduzione
della quantità di sperma prodotto; talvolta comunque nella pratica clinica non è detto che le
due problematiche dette coesistano. Il calo del testosterone influenza la sfera sessuale con
una riduzione del desiderio, delle erezioni in generale e di quelle del mattino in particolare,
ci sarà riduzione del volume testicolare e prostatico e ipoposia, ovvero riduzione del liquido
seminale; ci sono poi però anche una serie di effetti sistemici. Questi pz avranno infatti
anemia, riduzione della densità ossea, obesità e sindrome metabolica (è un fdr indipendente)
e anche sintomi psichici come stanchezza e alterazione dell’umore.
Il problema può essere a livello testicolare, ipotalamico o ipofisario:

1. Ipogonadismo primitivo: il testosterone basso nonostante le gonadotropine aumentate


riflette un problema a livello testicolare, si parla di ipogonadismo ipergonadotropo.
Può essere determinato da:

a. Cause congenite

i. Sindrome di Klinefelter: è dovuta ad una condizione di aneuplodia con


cariotipo 47 XXY o con mosaicismo. È la più frequente causa di infertilità
maschile; nonostante questo è molto sottodiagnosticato perché solo il
10% dei casi viene identificato nel neonato e il 25% nell’adulto che si
sottopone ad esami perché non riesce ad avere figli, tutti gli altri non
sono diagnosticati. Il problema è che molte persone hanno difficoltà a
parlare di problemi della sfera sessuale e, inoltre, la sintomatologia non
è sempre chiara. Le caratteristiche ricorrenti sono che nel 95% si hanno
testicoli molto piccoli, azoospermia (assenza di spermatozoi
nell’eiaculato) e gonadotropine elevate, questi pz sono poi infertili. Altre
caratteristiche che possono essere osservate sono un ritardo
nell’apprendimento in alcuni campi cognitivi, sindrome metabolica,
ginecomastia, arti sproporzionatamente lunghi e osteoporosi. Il
testosterone non è sempre francamente patologico: in alcuni casi è

379
superiore a 3,3 ng/mL. Vista la sintomatologia che può dare è
importante che questi pz vengano screenati anche per tutti i fattori di
rischio cardiovascolari: pressione, glicemia, colesterolo, peso…
Nonostante tutti i problemi legati alla fertilità non è detto che questi pz
non possano assolutamente avere figli: si usano tecniche come la TESE o
la microTESE che, similmente ad una biopsia, permettono di estrarre gli
spermatozoi dal testicolo. In questo modo in circa la metà delle volte si
riescono a recuperare spermatozoi.
ii. Criptorchidismo

b. Cause acquisite

i. HIV
ii. Infezioni testicolari
iii. Insufficienza renale

2. Ipogonadismo secondario: in questo caso il testosterone è basso perché lo sono le


gonadotropine, si parla infatti di ipogonadismo ipogonadotropo. I pz con un deficit
grave avranno completa assenza di sviluppo puberale, se invece il deficit è parziale ci
sarà ritardo o arresto nello sviluppo. Alla base possiamo avere:

a. Cause congenite

i. Sindrome di Kallmann: si ha una mutazione del gene KAL1 sul


cromosoma X, il quale codifica per l’anosmina. Si tratta di una proteina
che media la migrazione dei progenitori neuronali dei bulbi olfattivi e
dei neuroni che producono GnRH (ormone ipotalamico che stimola la
produzione di gonadotropine). Il risultato è che il soggetto, oltre ad
essere ipogonadico, avrà anche una riduzione parziale o totale
dell’olfatto. La mancata stimolazione in epoca fetale e neonatale può
portare a criptorhidismo o ad alterazioni delle dimensioni del pene. In
questi pz, se stimolati con la tp adatta, la fertilità non è comunque
pregiudicata.

b. Cause acquisite

i. DM
ii. Obesità: si ha una riduzione delle globine leganti gli ormoni sessuali
correlata all’aumento di insulina. Il tessuto adiposo poi, grazie
all’aromatasi, converte il testosterone in estrogeni abbassandone i livelli.
Infine, l’aumento della produzione di leptina e di citochine da parte del
tessuto adiposo peggiora il quadro.
iii. Tumori
iv. BPCO
v. Stress, malnutrizione ed esercizio fisico possono causare una forma di
ipogonadismo reversibile ma che interessa soprattutto le donne.
vi. Oppioidi, Marijuana.

380
vii. Iperprolattinemia: questo ormone inibisce la secrezione di GnRH, se poi
siamo di fronte ad un adenoma esso può comprimere e distruggere le
cellule attigue e/o comprimere il peduncolo ipotalamico.

Bisogna comunque ricordare che fisiologicamente il testosterone comincia a declinare a


partire dai 40 anni: a partire da questa età ci saranno dunque soggetti con valori bassi ma ciò
non deve essere necessariamente considerato patologico, anche perché tra i 60 e gli 80 anni
altrimenti il 30-35% della popolazione andrebbe considerata malata. Se oltre al punto di
vista biochimico si considera anche la clinica, la percentuale di soggetti da considerare è di
circa il 2%. Secondo alcuni sarebbe dunque opportuno correlare i livelli considerati
fisiologici di testosterone con le varie fasce d’età. Ad oggi, la tesi maggiormente sostenuta, è
quella che sostiene che per capire se siamo nell’ambito patologico o meno è necessario
guardare l’osso: esso infatti risente dello stimolo dato dal testosterone e della VitD che
dipende anche da INSL3; d’altra parte esso influenza il tesitcolo grazie all’osteocalcina.

Per far diagnosi si devono associare sintomi e segni a una riduzione dei livelli del
testosterone: si considera fisiologico se >3,5ng/mL, ovvero a 12nmol/L. Questo parametro
deve essere dosato con un prelievo effettuato al mattino e, se il valore è basso ma non al di
sotto di 2,3ng/mL (8nmol/L), si deve ripetere l’esame associandolo allo studio del
testosterone libero, ovvero di quello non legato alla sua proteina di trasporto (SHBG), il
quale deve essere superiore a 65 pg/mL. Questo viene fatto perché SHBG può aumentare o
ridursi in seguito a numerose condizioni e dunque ci potrebbero essere errori diagnostici. Se
anche con il secondo campione i valori sono bassi allora bisogna valutare i livelli di
gonadotropine per discriminare tra forme primitive e secondarie. Il problema è che non tutti
sono concordi sui cut-off da considerare per le gonadotropine. Generalmente per LH si
considerano fisiologici valori compresi tra 1,5 e 9,4: se si va sopra questo valore, anche in
assenza di alterazioni nei livelli di testosterone, si è comunque in una condizione patologica
definita ipogonadismo subclinico. Per l’FSH si considera normale il range 1,5-8: il limite
superiore è dato dal fatto che al di sotto di 8 nel 95% la quota di spermatozoi presente nel
liquido seminale non è ridotta.

Una volta fatta la diagnosi si deve somministrare testosterone: si può usare una formulazione
intramuscolo con emivita di 2-3 settimane o una con emivita di 12 settimane; ci sono poi
anche preparati transdermici a gel che però devono essere applicati sulla cute glabra ogni
giorno. Non si usano invece frequentemente delle compresse perché l’assorbimento è
inadeguato e perché l’effetto è difficile da monitorare. Questa tp ha effetti collaterali che
possono essere più o meno gravi a seconda che il pz sia trattato bene o meno: si assiste
frequentemente ad un aumento dell’ematocrito e a quello del PSA, se questa situazione è
esasperata si possono avere problemi cardiovascolari. La relazione con questi ultimi è
comunque bilaterale: il pene ha un funzionamento basato sull’idraulica quindi problematiche
cardiovascolari possono andare a disturbare la sfera sessuale. Altro problema che si può
avere è dato dal picco di testosterone dopo la somministrazione: alcuni soggetti possono
diventare aggressivi ed avere un importante aumento del desiderio.

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OSTEOPOROSI
Si tratta di una malattia metabolica del tessuto osseo che determina una riduzione della
massa ossea e un deterioramento della microachitettura ossea con associato un aumentato
rischio di frattura. Possiamo avere:

1. Osteoporosi idiopatica o primitiva che comprende le forme post-menopausali e quelle


senili;

2. Osteoporosi secondaria: può dipendere da ipertiroidismo, iperparatiroidismo


primitivo, acromegalia, malattia di Cushing o ipopituitarismo. Ci possono poi essere
alla base anche malattie non endocrine come i malassorbimenti, dovuti ad esempio al
morbo celiaco, o all’uso di farmaci come il cortisone.

L’osso è un tessuto con un elevato metabolismo: c’è infatti un continuo turn over osseo
mediato dall’attività bilanciata di osteoblasti e osteoclasti. Dopo la fase cellulare c’è anche
una fase minerale nella quale viene mineralizzato l’osso neoformato: per questo secondo
passaggio è fondamentale la VitD, la quale interviene sia nella regolazione dell’assorbimento
intestinale di calcio che nella deposizione di calcio appunto. Questa vitamina può essere
assunta con l’alimentazione (al massimo si può arrivare al 20% del fabbisogno perché è
contenuta solo in pochi cibi, tra i quali figura il pesce grasso) oppure può essere sintetizzata
a partire da processi che avvengono a livello cutaneo in seguito all’esposizione solare. Il
deidrocolesterolo, infatti, si trova a livello cutaneo e, per effetto delle radiazioni solari, grazie
ad un processo di fotolisi, viene trasformato in colecalciferolo. Questa molecola arriva poi a
livello epatico dove viene idrossilata in posizione 25 e infine a livello renale dove si aggiunge
un’idrossilazione in posizione 1 grazie alla quale si ottiene la forma attiva dell’ormone,
ovvero il calcitriolo.

Per valutare i livelli della VitD quello che si dosa è il 25-idrossi-colecalciferolo (ovvero la
forma ottenuta dopo l’idrossilazione epatica): questa molecola rappresenta infatti il grosso
della VitD circolante e permette di dividere i pz in due gruppi principali:

- VitD sufficiente: 25-idrossi-VitD>30 ng/mL

- VitD insufficiente: 25-idrossi-VitD>30 ng/mL

o Insufficienza: 20-30
o Carenza: 20-10
o Grave carenza: <10. In questi pz non si parla di osteoporosi ma di
osteomalacia: essi avranno infatti l’osso non mineralizzato.

Per non avere valori insufficienti è necessario esporsi al sole per almeno 15-20 minuti al
giorno. In realtà, nei soggetti con una sufficiente massa grassa, questo ormone lipofilo viene
immagazzinato e rilasciato nei periodi in cui si prende meno sole, quindi generalmente
d’inverno. Essere magri è dunque una condizione sfavorevole per quanto riguarda
l’osteoporosi.
Altra causa di insufficienza è quella di un deficit di PTH: nei soggetti ipoparatiroidei, infatti,
non si riesce ad ottenere la seconda idrossilazione e quindi non si ha VitD. In questo quadro,

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le due cause più comuni di ipoparatiroidismo sono principalmente le operazioni chirurgiche
e la cause autoimmuni. Per quanto riguarda la causa iatrogena: quando si opera la tiroide si
chiudono le arterie tiroidee, le quali sono però anche responsabili della vascolarizzazione
delle paratiroidi, e dunque si può avere ischemia delle paratiroidi. Se il danno è transitorio
dopo 6 mesi si ha un recupero funzionale, se invece il danno è permanente, fatto che
avviene circa nel 5% il pz avrà sempre dei deficit che devono essere corretti. Altra causa
meno frequente è la rimozione accidentale delle paratiroidi. Per quanto riguarda, invece, le
cause autoimmuni, siamo nell’ambito delle malattie autoimmuni polighiandolari.
Nelle forme dovute a ridotta sintesi di colecalciferolo, ovvero quelle legate all’esposizione
solare, i soggetti non saranno tendenzialmente ipocalcemici perché l’osso compensa
decalcificandosi; al contrario, se la causa è un ipoparatiroidismo, si avrà ipocalcemia anche
importante con sintomi crampiformi e parestesici. Quando c’è un deficit di VitD non è
sufficiente implementare il calcio per os perché comunque non verrebbe riassorbito: devo
quindi aggiungere calcitriolo se il problema è a livello delle paratiroidi o colecalciferolo se
l’esposizione solare insufficiente non permette di produrne abbastanza. Non va data la forma
attiva se il problema è a monte perché si rischia di determinare ipercalcemia e
un’intossicazione da VitD.

Nell’arco della vita di un soggetto la massa ossea non è costante. Fino ai 20 essa è in
aumento, fino a raggiungere il picco di massa ossea. La prevenzione dell’osteoporosi inizia
proprio da qui (prevenzione primaria): più è alto questo picco, maggiori saranno i livelli di
massa ossea anche dopo la perdita che può essere considerata parafisiologica (menopausa e
invecchiamento). Ad esempio, donne alte e magre avranno tendenzialmente valori di picco
osseo meno elevati, così come donne con ipomenorrea, amenorrea o durata ridotta del
periodo fertile (c’è una stimolazione estrogenica meno prolungata). È poi importante
l’alimentazione: 1g di calcio è contenuto in 1L di latte al giorno e questo è circa il nostro
fabbisogno. Anche Yoghurt, acqua minerale e formaggi lo contengono. Ragazze con diete
molto strette potrebbero avere intake molto ridotto. Tra i 20 e i 40 anni c’è una sorta di
plateau in cui non si hanno ne aumenti ne riduzioni. La riduzione vera e propria della massa
ossea avviene in modo diverso nei due sessi: per le donne essa coincide con la menopausa
mentre per gli uomini è progressiva e lenta. La riduzione degli estrogeni porta ad un aumento
dell’attività osteoclastica: specie nei primi 2-5 anni dalla perdita del ciclo mestruale si assiste
ad una importante riduzione (c’è comunque una variabilità intersoggettiva perché non tutte
le donne perdono la stessa quantità di massa ossea e con la stessa velocità); nell’uomo
invece ciò che conta è il testosterone che decresce in maniera molto più lenta. Verso i 70
anni i livelli di massa ossea nei due sessi tornano a essere sovrapponibili.

Nella visita di un soggetto potenzialmente osteoporotico sono importanti l’anamnesi


familiare, fisiologica e farmacologica (immunosoppressori ad esempio). Bisogna indagare
anche eventuali fratture passate: tendenzialmente le prime ossa a cedere sono le vertebre. Si
tratta infatti di osso trabecolare: nonostante quest’ultimo rappresenti solo il 20% della nostra
massa ossea totale è qui che ha sede l’80% del turn-over osseo totale. Con la menopausa
aumenta l’attività osteoclastica quindi aumenta il turn-over e il primo a risentirne è l’osso
trabecolare. Il problema è che spesso questo fenomeno può passare inosservato perché il pz
potrebbe avere mal di schiena (generalmente lombalgia) per un certo periodo di tempo, fino
a 60 giorni, e poi nessuna ulteriore sintomatologia. La vertebra in effetti non si spezza ma si
schiaccia: se perde densità e resistenza può essere schiacciata dalla forza di gravità (à ne
deriva che raramente sono interessate le vertebre cervicali sono interessate perché la
pressione esercitata è minore, sono invece maggiormente a rischio le vertebre in

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corrispondenza della curve dorsali e lombari). Pare che circa il 50% delle fratture vertebrali
non venga diagnosticato, è però importante farlo perché significa che non siamo più in una
situazione di rischio ma in un ambito in cui già ci sono stati eventi correlati all’osteoporosi. In
secondo luogo si può avere anche un interessamento delle ossa corticali: oltre alla frattura
del femore, per altro gravata da alta mortalità se avviene nei soggetti anziani, abbiamo anche
la frattura del polso di Colles (frattura dell’epifisi distale del radio spesso associata a frattura
dell’apofisi stilare dell’ulna).

Dal punto di vista strumentale si fa mineralometria ossea computerizzata (MOC) fatta con
dual energy X-Ray absorpiometry. È una densiometria ossea – generalmente di femore e
vertebre – che permette di ottenere il T score. Si paragona infatti la densità del soggetto in
esame a quella di altre persone dello stesso sesso al picco di massa ossea e in base alle
deviazioni standard si dividono i pz. Se ci si discosta fino a 1 deviazione standard non c’è
osteoporosi, da 1 a 2.5 si parla di osteopenia mentre a partire da 2.5 è osteoporosi franca. Se
c’è positività si può fare anche un esame radiografico.
Un altro esame che può essere utile è la morfometria vertebrale che ne misura l’altezza e non
la densità. Se l’altezza è ridotta di almeno il 20% la vertebra è da considerarsi fratturata.

Se il pz ha solo un rischio aumentata si parla di prevenzione secondaria, se invece ha già


avuto fratture correlate all’osteoporosi si può solo fare prevenzione terziaria.

Alle donne che vanno in menopausa si possono somministrare estrogeni (terapia ormonale
sostitutiva): essi riducono le vampate e riducono la perdita di massa ossea. In realtà, è solo
un posticipare perché, a causa dell’aumentato rischio tumorale, non si possono
somministrare molto a lungo quindi, nel momento in cui li sospendo, ovvero al massimo
dopo 5 anni, si ha comunque il calo della massa ossea. Inoltre, le donne che già abbiano
avuto un carcinoma mammario o che hanno forte familiarità per lo stesso, non possono
assumere estrogeni. Secondo alcuni studi gli estrogeni aumentano poi il rischio cv (ictus,
TVP, embolia polmonare…), nonostante ciò possa apparire paradossale perché in età fertile
pare che siano proprio questi ultimi a ridurlo. In menopausa, poi, alle donne viene spesso
prescritta la VitD. Ci sono poi tp anti-riassorbitive che riducono l’attività osteoclastica: sono
sostanze che agiscono solo sull’osso in maniera simile a quella degli estrogeni. Tra gli anti-
riassorbitivi abbiamo i bifosfonati. Infine, abbiamo a disposizione tp anaboliche che
stimolano gli osteoblasti. Il Denosumab è un ab monoclonale che bloccando Rank-L fa in
modo che l’attività osteoblastica sia prevalente.

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INIBITORI DI POMPA PROTONICA – IPP
Si tratta di farmaci molto utilizzati nella pratica clinica, anche a sproposito, che gravano in
maniera importante sulla spesa sanitaria nazionale; motivo per cui è opportuno conoscere
quali siano le condizioni che ne consentano la prescrizione.

FARMACOLOGIA
I principi attivi facenti parte di questa classe che abbiamo a disposizione sono:

1. Omeprazolo o Esomeprazolo (enantiomero attivo): 10, 20 e 40mg


2. Lansoprazolo (e Dexlansoprazolo): 15 e 30mg
3. Raberprazolo
4. Pantoprazolo: 20 e 40mg

Tutti i principi sono sovrapponibili per efficacia, farmacodinamica e farmacocinetica. Sul


versante delle differenze, ce ne sono di lieve entità per quanto riguarda la biodisponibilità e i
legame con le proteine (comunque molto elevato, >95%); ma soprattutto ci sono variazioni
per quanto riguarda l’emivita: quella dell’omeprazolo è di circa 1h, con il Dexlansoprazolo
si è arrivati a 3h. Vista la sostanziale interscambiabilità dei differenti principi, la scelta è a
carico del curante, non è tuttavia raccomandato cambiare, a meno che non vi siano reazioni
particolari, perché, specie nel pz anziano, ciò potrebbe portare a riduzione dell’aderenza
alla tp.

Vengono somministrati per via orale in capsule gastroprotette, a livello intestinale il farmaco
viene riassorbito in forma inattiva (profarmaci), entra nella circolazione sistemica e raggiunge
la parete gastrica. A questo livello si attiva con un processo di protonazione e si lega
covalentemente alle pompe inibendole, quindi, in maniera irreversibile (per questa ragione
l’emivita non rappresenta dunque una variabile particolarmente importante, e sempre per
questo motivo, nonostante la breve emivita, sono sufficienti 1-2 somministrazioni/die).
Dovrebbero essere somministrati circa 30min prima di un pasto perché l’assunzione di cibo
stimola l’acificazione necessaria per l’attivazione del farmaco stesso e perché l’esposizione
delle pompe è massima nel periodo di digiuno. Gli IPP vengono poi metabolizzati a livello
epatico da parte dei CYP2C19 e CYP3A4. Ne deriva che bisogna prestare attenzione ad
eventuali interazioni farmacologiche: viene ridotto il metabolismo di Warfarin, Diazepam,
Fenitoina e Carbamazepina; Teofillina, contraccetivi orali e inibitori delle proteasi si
associano ad induzione. Altre interazioni sono determinate dall’alterazione del pH gastrico:
Digossina, Macrolidi e Penicilline sono maggiormente assorbiti; al contrario Ketoconazolo,
Clopidogrel e Levotiroxina sono assorbiti meno. Infine, in alcuni casi, come con il
Methotrexate, si possono avere interazioni a livello dell’escrezione renale con aumento della
concentrazione. Ciò detto, gli unici due farmaci che hanno un’interazione tale da richiedere
un cambiamento della tp sono Ketoconazolo e Clopidogrel; negli altri casi c’è indicazione al
monitoraggio della tp. Pare che il Pantoprazolo abbia minori interazioni a livello dei
citocromi rispetto agli altri.

Quando la tp deve essere sospesa, va fatto gradualmente per evitare un possibile effetto
rebound con iperproduzione di acido. In particolare, in pz che prendono una sola dose al
giorno ogni settimana la dose deve essere ridotta del 50%; in pz che ne prendono due al

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giorno si inizia riducendo a una al massimo dosaggio possibile e poi si comincia la de-
escalation.

Ad eccezione del Raberprazolo e del Dexlansoprazolo, esistono poi anche in formulazioni


EV, sfruttata essenzialmente in caso di manovre endoscopiche in presenza di ulcere
sanguinanti.

Tra gli effetti collaterali dimostrati con alta evidenza abbiamo:

1. Diarrea: aumentando il pH, si riduce l’effetto battericida a livello gastrico e si possono


avere enteriti o coliti sostenute da Campylobacter, Salmonelle, Clostridium Difficile…
Risulta tuttavia difficile discriminare quali forme siano effettivamente causate dagli
IPP: ad esempio, ci sono studi che hanno dimostrato come, in pz che li assumono, si
avrebbe diarrea da C.Difficile anche senza che il soggetto prenda antibiotici. In realtà,
ciò potrebbe dipendere anche da una variazione dell’alimentazione, da una
condizione di immunodepressione…

2. Malassorbimento di:

a. Magnesio: pare che i PPI inibiscano alcuni trasportatori intestinali per questo
ione e sembra che l’effetto sia più spiccato in pz geneticamente predisposti, in
pz anziani o in pz che assumano contemporaneamente un diuretico. È un
effetto collaterale che, comunque, prima di manifestarsi, richiede diversi anni
di tp.
b. Calcio (in particolar modo del carbonato di calcio)
c. VitB12
d. Ferro, anche tale da richiedere supplementazione

3. Gastrite atrofica (?)

4. Nefrite interstiziale: è una forma di nefrite acuta da farmaco dose indipendente che
può verificarsi per solo determinati tipi di IPP o anche a somministrazioni successive
alla prima.

5. Malattia renale cronica (?)

6. Lupus farmaco-indotto

Ci sono poi altri possibili effetti collaterali, dimostrati però solo da studi deboli, per lo più
osservazionali e retrospettivi, o da case report. Tra di essi abbiamo:

1. Demenza (secondo alcuni autori il problema sarebbe l’aumento della concentrazione


della beta-amiloide, secondo altri, invece, avremmo alla base il ridotto assorbimento
di VitB12)
2. Osteoporosi e fratture ossee
3. Malattia CV
4. Peritonite batterica spontanea
5. Polmonite
6. Ipergastrinemia
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7. Agranulocitosi/pancitopenia

INDICAZIONI (NOTA 1 E NOTA 48 DELL’AIFA)


Vengono utilizzati in caso di:

1. Ulcere: gli IPP sono utili per ridurre l’effetto lesivo dell’acido e favorire la guarigione.
Nella patogenesi delle ulcere, infatti, si ha uno squilibrio tra fattori protettivi per la
mucosa e fattori lesivi: tra i primi ci sono il muco, i bicarbonati e una circolazione
adeguata a permettere il turnover tissutale; tra i secondi acido cloridrico, pepsina e
tutte le sostanza che acidificano ulteriormente l’ambiente. La presenza di un’ulcera
dovrebbe essere dimostrata endoscopicamente. Allo stesso modo, un esame
endoscopico è teoricamente importante per confermare la guarigione dall’ulcera: in
realtà occorre fare una distinzione: le ulcere duodenali sono a basso potenziale di
malignità quindi basta la clinica; al contrario, quelle gastriche, hanno frequente
evoluzione maligna e, dunque, dovrebbero essere ricontrollate dopo 12 settimane
dalla conclusione del trattamento, che generalmente dura 4-6 settimane.
L’endoscopia di controllo deve essere prescritta in caso di ulcera gastrica e
contemporanea presenza di uno dei seguenti criteri: sintomi nonostante la tp,
eziologia poco chiara, dimensioni >2cm, biopsie non eseguite, ad esempio perché
l’ulcera era sanguinante al momento del primo esame, fdr per cancro gastrico. Al
contrario, anche in caso di ulcera gastrica, non si ripetere il controllo endoscopico in
caso di piccole ulcere antrali benigne, di ulcere da FANS, di ulcere già
adeguatamente biopsiate con esito negativo e in assenza di fdr per cancro gastrico. Se
l’ulcera è recidivante o la sua presenza è nuovamente dimostrata all’endoscopia di
controllo, il trattamento può essere prolungato e si fissa una rivalutazione a 1 anno. Si
parla di ulcera refrattaria in presenza di un’ulcera endoscopicamente dimostrata, con
diametro >5mm, che non guarisce dopo 12 settimane di IPP. Nei pz con ulcera gli
IPP vengono prescritti per affrettare i tempi della guarigione, che comunque
avverrebbe spontaneamente, ma richiederebbe periodi più lunghi.

a. Ulcera da FANS: questi farmaci inibiscono la produzione di prostaglandine


che favoriscono la secrezione di muco e bicarbonati, viene dunque meno un
importante fattore protettivo per la mucosa gastrica. Come prima cosa si
devono sospendere i FANS, oppure si deve sistemare la tp in modo che il pz
sia protetto, e poi si prescrivono IPP.

b. Ulcera da H.Pylori: l’utilizzo di PPI è raccomandato per eradicare l’infezione.


Quando si riscontra la presenza di un’ulcera bisogna sempre escludere
l’infezione da HP: il test di screening è l’urea breath test, che prevede di
somministrare al pz per os una soluzione con urea marcata radioattivamente.
Essendo HP provvisto dell’enzima uricasi, se è presente, dopo 30min-1h il pz
espirerà CO2 marcata. La positività all’infezione pone indicazione all’inizio di
una triplice tp con Amoxicillina, Claritromicina e IPP per 14 giorni; oppure di
una quadruplice con Bismuto, Metronidazolo, Ampicillina e IPP sempre per 14
giorni.

c. Sindrome di Zollinger-Ellison: è una patologia caratterizzata da numerose


ulcere peptiche con diversa localizzazione, da complicanze dovute
all’ipersecrezione di acido cloridrico come esofagite, emorragie o
387
malassorbimento e dalla presenza di dolore addominale e diarrea. Tale quadro
è dovuto alla presenza di un gastrinoma, ovvero un tumore che produce
gastrina, un ormone che stimola la proliferazione di cellule parietali gastriche
e, di conseguenza, la secrezione di HCl. L’unica tp eziologica per risolvere il
problema delle ulcere è la gastrectomia, tuttavia, l’utilizzo di IPP ad alte dosi
può rallentare l’evoluzione del problema e posticipare la necessità di un
intervento chirurgico. Gli IPP trovano dunque indicazione a dosaggio massimo
per una tp prolungata, prevedendo comunque rivalutazioni annuali.

2. Malattia da reflusso gastro-esofageo: in questo caso non sempre si riesce a fare


diagnosi endoscopica, se non si riesce,si può fare il test degli IPP: si prescrivono 20-
40mg di Omeprazolo 1-2/die e si vede se la sintomatologia regredisce o scompare. Se
c’è beneficio si prosegue per un mese.

[Nota 48: “la prescrizione a carico del SSN è limitata ai seguenti periodi di trattamento e alle seguenti
condizioni:

• Durata di trattamento 4 settimane (occasionalmente 6 settimane)


o ulcera duodenale o gastrica positive per Helicobacter pylori (H. pylori)
o per la prima o le prime due settimane in associazione con farmaci eradicanti
l’infezione
o ulcera duodenale o gastrica H. pylori-negativa (primo episodio)
o malattia da reflusso gastroesofageo con o senza esofagite(primo episodio)
• Durata di trattamento prolungata, da rivalutare dopo un anno
o sindrome di Zollinger-Ellison
o ulcera duodenale o gastrica H. pylori-negativa recidivante
o malattia da reflusso gastroesofageo con o senza esofagite(recidivante)

Background: l’ulcera duodenale è associata a infezione da H. pylori nel 90-95% dei casi e l’ulcera
gastrica nel 75-85%. È stato dimostrato da numerosi trial randomizzati e da metanalisi che
l’eradicazione dell’infezione previene le recidive dell’ulcera, riducendole al 5-10% o meno.
L’eradicazione è efficace nei linfomi gastrici H. pylori-positivi a basso grado di malignità. Il
trattamento eradicante è fortemente raccomandato nell’ulcera duodenale e nell’ulcera gastrica, e lo è
con particolare enfasi nei soggetti che hanno sofferto un’emorragia da ulcera, per la prevenzione di
risanguinamenti.
Evidenze disponibili: non ci sono prove convincenti di efficacia del trattamento eradicante nella
dispepsia non ulcerosa. Dopo gli iniziali risultati contrastanti, infatti, almeno quattro trial pubblicati
negli ultimi due anni hanno dato risultati concordanti che dimostrano l’inefficacia della terapia
eradicante. La malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE), con o senza esofagite, ha tendenza alle
recidive, che possono accentuare il danno esofageo ed esitare in metaplasia dell’epitelio a rischio di
evoluzione neoplastica (esofago di Barrett). Nei soggetti oltre 45 anni, se la sintomatologia da reflusso
è grave, o continua, o recidivante, è fortemente raccomandata l’endoscopia. Per il trattamento della
malattia da reflusso, particolarmente se associata ad esofagite, i farmaci più efficaci sono gli inibitori di
pompa protonica, che nella maggior parte dei casi sono sufficienti per somministrazione discontinua
e/o a dosi ridotte. I dati disponibili sono in prevalenza negativi rispetto a un vantaggio terapeutico
dell’eradicazione dell’H. pylori su frequenza e intensità dei disturbi da MRGE. Un piccolo trial, che
dimostrerebbe un vantaggio dall’eradicazione nella MRGE senza esofagite grave, presenta manifeste
improprietà metodologiche (per es.: valutazione non secondo intention to treat; ogni evidenza di
vantaggio è azzerata se i dati sono reinterpretati correttamente). Nella 8a edizione di Clinical
Evidence l’eradicazione dell’H. pylori viene giudicata inefficace nel ridurre la frequenza di recidive
della MRGE. Infine, anche il Consensus Report di Maastricht 2-2000 cita come consigliabile
(“advisable”) l’eradicazione dell’H. pylori nella MRGE, solo nei soggetti che richiedano “profonda

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soppressione long-term della secrezione gastrica”. Questa posizione sembra dettata dal timore che
l’infezione da H. pylori associata ad acido-soppressione da inibitori di pompa protonica possa
determinare gastrite atrofica, potenziale causa di carcinoma. Tuttavia, questa eventualità è stata
rilevata dopo esposizione inusualmente intensa e protratta ad acido-soppressione (trattamento
ininterrotto con 20-40 mg di omeprazolo/die per una durata media di 5 anni) ed è contraddetta da
altri studi che impiegavano le stesse dosi di omeprazolo in soggetti con MRGE H. pylori-positivi e non
rilevavano né atrofia gastrica né metaplasia.
Particolari avvertenze: rimane da considerare il teorico vantaggio dell’eradicazione per prevenire
l’insorgenza di carcinoma gastrico, per il quale l’infezione da H. pylori è solo uno dei fattori di rischio,
insieme alla dieta, all’atrofia della mucosa, all’acquisizione dell’infezione nella prima infanzia, a fattori
genetici e ad altri sconosciuti; e non c’è alcun indizio che indichi una riduzione di incidenza dopo
eradicazione dell’H. pylori. Se la MRGE è associata a infezione da H. pylori, l’eradicazione del
batterio può essere indicata se il reflusso è associato a ulcera peptica o a gastrite cronica grave
istologicamente documentata o se il controllo dei disturbi richiede trattamento ininterrotto con dosi
elevate di inibitori di pompa protonica (per es. omeprazolo, dosi pari o superiori a 20 mg/die). Il
trattamento eradicante va effettuato solo nei casi di dispepsia associata a presenza di ulcera gastrica o
duodenale”]

3. Pz in trattamento cronico con FANS

[Nota 1: “La prescrizione a carico del SSN è limitata alla prevenzione delle complicanze gravi del
tratto gastrointestinale superiore

o in trattamento cronico con farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS)


o in terapia antiaggregante con ASA a basse dosi

purché sussista una delle seguenti condizioni di rischio

o storia di pregresse emorragie digestive o di ulcera peptica non guarita con terapia
eradicante
o concomitante terapia con anticoagulanti o cortisonici
o età avanzata.

Background: è noto come il trattamento cronico con i FANS possa determinare un aumentato rischio
di ulcera peptica e delle sue complicanze gravi (emorragia, perforazione, ostruzione). Il rischio di
ospedalizzazione per una complicanza grave è stimato fra l’1 e il 2% per anno, ed aumenta fino a 4-
5 volte nelle categorie a rischio specificate nella nota limitativa. Sulla base di studi clinici randomizzati
e osservazionali anche l’uso di anticoagulanti e l’età avanzata (65-75 anni) sono risultate essere
condizioni predisponenti al rischio di complicanze gravi del tratto gastrointestinale superiore. Pertanto
tali condizioni devono essere considerate fattori suggestivi di popolazioni a maggior rischio ma non
raccomandazioni tassative per trattare, ad esempio, tutti gli anziani o tutti coloro che assumono
anticoagulanti. Data la rilevanza clinica della tossicità gastroduodenale indotta dai FANS, numerosi
sono stati gli studi che hanno valutato l’efficacia di una “gastroprotezione” utilizzando accanto agli
inibitori di pompa anche gli analoghi delle prostaglandine (misoprostolo) e gli anti secretivi (H2
antagonisti). I pazienti in trattamento combinato, ASA e clopidogrel, per i quali è sconsigliata la
somministrazione di un inibitore della pompa protonica, possono effettuare la prevenzione delle
complicanze gravi del tratto intestinale superiore con l’assunzione di misoprostolo. In ogni caso
debbono essere rispettate le condizioni di rischio nel box sopra riportato.
Evidenze disponibili:

- Misoprostolo risulta ancor oggi l’unico farmaco per il quale esistono dati convincenti che ne
dimostrano l’efficacia nel ridurre l’incidenza delle complicanze gravi (emorragie, perforazioni
e ostruzione pilorica) della gastropatia da FANS. Lo studio (MUCOSA) di grandi dimensioni

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(8853 pazienti) ha infatti documentato una riduzione del 40% di dette complicanze rispetto
al placebo. Una metanalisi di 24 studi che ha valutato l’efficacia del misoprostolo, non in base
alla riduzione delle complicanze ma solo in base alla riduzione dell’incidenza di ulcere
gastriche o duodenali diagnosticate endoscopicamente, ha confermato detta efficacia: (NNT
= 8) per prevenire un’ulcera gastrica e (NNT = 30) per prevenire un’ulcera duodenale. Il
misoprostolo somministrato alla dose di 800 mg ha però una tollerabilità scarsa (dispepsia,
dolore addominale, diarrea) e nello studio mucosa i pazienti che sospendevano il trattamento
per disturbi gastrointestinali erano più numerosi fra quelli trattati con misoprostolo più FANS
(27,4%) che fra quelli trattati con FANS più placebo (20,1% p<0,001).
- Inibitori della pompa protonica: numerosi studi hanno dimostrato che, nei soggetti trattati con
FANS, dosi standard di inibitori della pompa protonica riducono significativamente
l’incidenza di ulcere gastriche e duodenali diagnosticate all’endoscopia rispetto al placebo.
Due di essi meritano particolare attenzione. Nel primo, l’omeprazolo è stato confrontato con
ranitidina e, nel secondo, con misoprostolo in due trial con uguale disegno sperimentale. In
tutti e due gli studi (ASTRONAUT e OMNIUM) venivano valutati soggetti che, a seguito della
terapia con FANS, presentavano un’ulcera peptica o almeno 10 erosioni gastriche o
duodenali. Ciascuno dei due trial esaminava due fasi: a) la guarigione delle lesioni da FANS
già presenti; e b) la prevenzione della ricomparsa delle lesioni durante ritrattamento con i
FANS. In entrambe le fasi la terapia con omeprazolo si è dimostrata più efficace del farmaco
di confronto (rispettivamente, ranitidina e misoprostolo) sia nel guarire le ulcere sia nel
prevenire le recidive. Detti risultati vanno però valutati con prudenza in quanto entrambi gli
studi presentano limiti metodologici rilevanti quali: 1) la dimostrazione di maggiore efficacia è
basata su parametri surrogati, infatti gli studi hanno utilizzato come “end-point” terapeutico la
riduzione del numero di ulcere endoscopiche e dei sintomi dispeptici e non delle
complicanze gravi che sono il parametro clinico più rilevante cui mira la profilassi
farmacologica: non è cioè la stessa cosa prevenire un’ulcera visibile all’endoscopia routinaria
in uno studio clinico e prevenire una complicanza grave (emorragia, perforazione,
ostruzione); 2) le dosi utilizzate con i farmaci di riferimento (400 mg/d per il misoprostolo e
300 mg/d per la ranitidina) sono probabilmente inadeguate; infine, 3) è mancata soprattutto
un’attenta considerazione alla presenza o meno nei pazienti trattati di un’infezione
da Helicobacter pylori (H.pylori). Lo stato di portatore o meno di una tale infezione può,
infatti, avere grande rilevanza. Una recente metanalisi condotta su 16 studi dimostra, infatti, in
modo convincente come sia l’infezione da H.pylori sia l’impiego di FANS tradizionali possano
aumentare il rischio di causare un’ulcera peptica o un sanguinamento gastrico in modo
indipendente, avendo un effetto sinergico nell’aggravare il rischio di ulcera peptica e
sanguinamento quando entrambi i fattori di rischio sono presenti nello stesso paziente. La
superiore efficacia dell’inibitore di pompa rispetto a misoprostolo e a dosi usuali di H2
bloccanti nel prevenire le ulcere da FANS potrebbe cioè essere in parte solo apparente e
dovuta a una diversa distribuzione dei pazienti con infezione nella popolazione studiata.
Particolari avvertenze: l’importanza dell’infezione da H.pylori nella strategia di prevenzione del
sanguinamento gastrico causato dai Fans tradizionali e dall’ASA a basso dosaggio è dimostrato da
uno studio recente che ha rilevato come nei pazienti con infezione da H.pylori e una storia di
sanguinamento gastrico, l’eradicazione dell’infezione da H.pylori risulti equivalente all’omeprazolo
nel prevenire una recidiva del sanguinamento gastrico nei pazienti che assumono ASA a basse dosi
(probabilità di recidiva del sanguinamento a sei mesi 1,9% con eradicazione e 0,9% con
omeprazolo). Mentre nei pazienti che assumono naprossene al posto dell’ASA a basse dosi l’inibitore
di pompa risulta più efficace della semplice eradicazione (probabilità di recidiva del sanguinamento a
6 mesi 18,8% con l’eradicazione e 4,4% con omeprazolo). Nei pazienti con storia di sanguinamento
gastrico, e che devono continuare una profilassi secondaria con ASA a basse dosi, l’eradicazione
dell’infezione probabilmente si pone perciò come strategia profilattica più conveniente della
somministrazione di un inibitore di pompa. Non è chiaro se l’eradicazione vada comunque eseguita
in tutti i pazienti infetti che fanno uso cronico di FANS tradizionali. Una metanalisi recente ha
dimostrato che il rischio emorragico da ASA impiegato come antiaggregante è assai basso (una

390
emorragia ogni 117 pazienti trattati con 50-162 mg/die di ASA per una durata media di 28 mesi).
Pertanto, una gastroprotezione farmacologica generalizzata non è giustificata. I trial considerati nella
metanalisi escludevano però i pazienti ad alto rischio emorragico. In mancanza di dati relativi a questi
pazienti, se si estrapola ad essi l’aumento di emorragie o ulcere da FANS nei soggetti a rischio (4-5
volte quello di base), la gastroprotezione nei soggetti a rischio emorragico trattati “long-term” con
ASA potrebbe essere giustificata specie in presenza dei fattori di rischio più rilevanti (emorragia
pregressa e pazienti in trattamento con anticoagulanti e cortisonici). Nei pazienti con infezione
da H.pylori risulta indicata l’eradicazione. Non è invece appropriato l’uso di preparazioni
“gastroprotette” o tamponate di ASA, che hanno un rischio emorragico non differente da quello
dell’ASA standard. Gli H2-inibitori non sono stati inclusi tra i farmaci indicati per la prevenzione e il
trattamento del danno gastrointestinale da FANS perché in dosi standard non riducono
significativamente l’incidenza delle ulcere gastriche, che sono le più frequenti fra quelle da FANS
anche se hanno efficacia pressoché uguale a quella del misoprostolo sulle ulcere duodenali. Una
revisione non sistematica del danno gastrointestinale da FANS non raccomanda gli H2 – inibitori per
la prevenzione dei danni gastrointestinali da FANS; li ammette per la terapia delle ulcere previa
sospensione dei FANS, ma non se si seguitano i FANS. I dati clinici citati non possono essere applicati
ai COXIB. Va segnalato come in uno studio in pazienti con storia di sanguinamento gastrico recente, il
trattamento per sei mesi con omeprazolo più diclofenac si sia dimostrato egualmente efficace rispetto
al celecoxib nel prevenire la ricorrenza del sanguinamento gastrico. Al momento vi sono dati
preliminari derivati da un solo RCT di modeste dimensioni che documenta l’efficacia di un inibitore di
pompa nel ridurre il danno gastrico da COXIB”]

La gastropatia da FANS è una realtà in costante aumento, ed è più frequente nel sesso
femminile, nell’anziano, nei soggetti con comorbilità o che abbiano infezione da HP.
Incidono poi anche il tipo di farmaco (L’Ibuprofene è quello con il rischio minore, così come
è basso in caso di ASA o Diclofenac; quelli più a rischio sono, invece, Indometacina,
Piroxicam e Ketoprofene), la durata della tp, il dosaggio, l’assunzione concomitante di altri
farmaci gastrolesivi come i bifosfonati o i cs e le abitudini di vita scorrette. I sintomi sono di
tipo dispeptico, con prevalenza di dolore in epigastrio, nausea e vomito. La severità dei
sintomi, tuttavia, non si correla con la gravità della lesione.

! Una gastrite cronica quiescente non rappresenta un motivo per proseguire indefinitamente
una tp con PPI.

ALTRI FARMACI UTILI PER CONTRASTARE L’ACIDITÀ


1. Anti H2: l’istamina esercita fisiologicamente un ruolo stimolante l’acidificazione
gastrica da parte delle cellule parietali; questi farmaci sono, dunque, in grado di
ridurre l’acidità inibendo questo meccanismo. Si tratta di antagonisti competitivi e
reversibili tra cui ricordiamo la Cimetidina e la Ranitidina. Dal momento che
l’ambiente gastrico diventa meno acido, è possibile che questi farmaci provochino
gonfiore, rallentamento della digestione e colonizzazioni fungine. Raramente si
asociano ad alterazioni ematologiche e a riduzione dell’assorbimento della B12 per
carenza di fattore intrinseco.
2. Analoghi delle prostaglandine (Misoprostolo): le prostaglandine inibiscono
l’acidificazione e aumentano la produzione di muco; si è dunque pensato di
utilizzare dei farmaci che ne mimassero l’azione. In realtà, vengono scarsamente
usati perché richiedono 4 somministrazioni giornaliere e perché causano crampi
addominali, diarrea e stimolazione della muscolatura uterina.
3. Antiacidi: si tratta di farmaci sintomatici costituiti da una base addizionata ad un
catione metallico. Spesso si coniugano idrossido di alluminio e carbonato di calcio

391
perché hanno effetti opposti sulla motilità intestinale che si equilibriano. Bisogna
considerare che possono alterare l’assorbimento di altri farmaci, sia perché alterano il
pH gastrico che perché potrebbero favorire la formazione di sali.
4. Citoprotettivi: il Sucralfato, a pH<4 polimerizza e forma un gel con le stesse funzioni
protettive del muco gastrico. Anche i sali di Bismuto hanno funzione simile: legando
le proteine presenti sulla superficie gastrica, proteggono la mucosa dall’erosione,
stimolano poi la produzione di PG.

TERAPIA PER ERADICARE HP


HP è un batterio Gram– che è in grado di produrre ureasi e, dunque, di sopravvivere
nell’ambiente acido gastrico. L’aggressività è determinata dalla produzione di due tossine:
CagA, altamente immunogena e necrotizzante, e VacA, vacuolizzante e con tossicità cepp-
specifica. La prevalenza media dell’infezione nei paesi industrializzati è del 30% e il contagio
avviene tramite contatti interpersonali. L’infezione è generalmente asintomatica; talvolta si
correla, invece, a sindrome dispeptica con sintomi simil-ulcerosi e dismotori. La diagnosi può
essere fatta tramite biopsia o con test non invasivi come la ricerca nelle feci o l’urea breath
test; una volta fatta diagnosi si deve iniziare la tp perché HP si associa a gastrite, ulcere
gastriche o duodenali e cancro gastrico. L’eradicazione di HP migliora i sintomi dispeptici
correlati all’infezione, promuove la cicatrizzazione delle lesioni gastroduodenali e riduce la
ricorrenza e il rischio di complicanze. Il trattamento di prima linea va stabilito sulla base della
prevalenza della resistenza alla Claritromicina e al Metronidazolo.

- OCA: 20mg Omeprazolo x2+500mg Claritromicina x2+1g Amoxicillina x2 per 7-14gg


(è quella maggiormente utilizzata perché meglio tollerata).
- OCM: 20mg Omeprazolo x2+500mg Claritromicina x2+500mg Metronidazolo x2 per
7-14gg.
- OMA: 20mg Omeprazolo x2+500mg Metronidazolo x2+1g Amoxicillina x2 per 7-
14gg.
- OLA: 20mg Omeprazolo x2+500mg Levofloxacina x2+1g Amoxicillina x2 per 10gg
- Quadruplice con Bismuto: 20mg Omeprazolo x2+125g Metronidazolo x4+500mg
Tetraciclina x4+ 160mg Bismuto x4 per 10 gg.

Ci sono poi schemi terapeutici nei quali i vari antibiotici vengono alternati.
392
TERAPIA MRGE
La malattia da reflusso gastroesofageo è caratterizzata da sintomi secondari alla risalita del
contenuto gastrico in esofago ed ha una prevalenta del 10-20% nella popolazione adulta. Il
reflusso gastroesofageo sporadico è un evento fisiologico; si parla, dunque, di malattia da
reflusso, solo in presenza di sintomi rilevanti e/o frequenti. I meccanismi responsabili del
reflusso patologico sono principalmente rappresentati da alterazioni motorie a carico dello
sfintere esofageo inferiore, ovvero da aumenti del numero e della durata dei suoi
rilasciamenti transitori. Alla base possiamo avere difetosa regolazione da parte del SNA,
quadri di flogosi cronica, infiammazione autoimmune, ernia jatale…

La MRGE può presentarsi con una sindrome esofagea o con sintomi extraesofagei. La
sindrome extraesofagea è caratterizzata da sintomi laringei (disfonia, odinofagia, raucedine),
tosse secca, asma, erosioni dentali. Nel primo caso, invece, possiamo avere pirosi (sintomo
sensibile, ma poco specifico), rigurgito (ovvero risalita del contenuto gastrico nel cavo orale,
alta specificità, ma bassa sensibilità) e, talvolta, da dolore toracico non cardiaco. Quando un
soggetto presenta pirosi e rigurgito, una volte esclusa la genesi cardiaca dei sintomi, è
possibile fare diagnosi clinica di MRGE e iniziare una tp con IPP su base empirica: se il
soggetto risponde la diagnosi viene confermata.

L’esofago può risultare danneggiato a seguito del costante contatto con materiale acido:
possono comparire esofagite, stenosi del lume, metaplasia di Barrett e adenocarcinoma del
terzo distale dell’esofago; motivo per cui, nei pz con storia di malattia lunga, a causa del
maggior rischio di complicanze, sono previsti controlli endoscopici o con pH-
impedenzometria delle 24h. Ciò detto, nei 2/3 dei pz con MRGE non c’è evidenza
endoscopica di lesioni esofagee; nel caso, invece, esse siano presenti, sarà possibile applicare
la classificazione di Los Angeles:

- A: una o più lesioni erosive di lunghezza <5mm non confluenti.


- B: una o più lesioni erosive di lunghezza >5mm non confluenti.
- C: presenza di almeno una lesione che coinvolge due pliche contigue, ma non estesa
in senso circonferenziale.
- D: erosioni confluenti a erosione circonferenziale

! Non vi è correlazione tra la severità dei sintomi e la gravità vista all’endoscopia.

Dal punto di vista terapeutico, nonostante alla base della malattia ci siano principalmente
difetti della motilità esofagea, ciò che andiamo a fare è contrastare la componente acida del
reflusso; non si fa, dunque, tp eziologica. Gli IPP, in particolare, sono i farmaci più efficaci sia
nel controllo dei sintomi, che delle lesioni esofagee eventualmente presenti. Vanno
somministrati a dosaggio pieno per un periodo di 8 settimane. Se il pz non risponde, si
prolunga la tp fino alle 12 settimane, dopodichè, se si seguita a non ottenere risultati, il pz è
classificato come non responder e si può pensare di cambiare molecola o di raddoppiare le
dosi, per eventualmente ridurle di nuovo in seguito come mantenimento. Se non si ottiene
nemmeno così una risposta si possono dare SSRI, da soli o associati agli IPP. Si possono poi
usare antiacidi, alginati o farmaci per proteggere la mucosa, i quali si sono dimostrati efficaci
solo in associazione ai PPI. In caso siano presenti sintomi dispeptici da alterata motilità, si
utilizzano anche procinetici.

393
La tp medica deve essere associata ad opportune modifiche dello stile di vita: il pz deve
smettere di fumare, deve preferire l’assunzione di pasti piccoli e frequenti, si deve evitare il
sovrappeso, e, al momento di coricarsi, è preferibile sollevare la testiera del letto e, in
generale, si deve evitare il clinostatismo per almeno 2h dopo il pasto. Dovrebbero poi essere
aboliti superalcolici, caffè, bevande fredde e gassate, spezie, menta, grassi animali e
cioccolato.

Dopo la tp di attacco, in caso sia presente esofagite, la tp con IPP va proseguita per sei mesi
dimezzando la dose iniziale; nel caso di stenosi, invece, si prosegue indefinitamente a
dosaggio pieno. Quest’ultima strategia è applicata anche in pz con esofago di Barrett, i quali
richiedono anche un monitoraggio endoscopico.

In alternativa, è possibile agire chirurgicamente facendo una fundoplicatio laparoscopica, la


quale si è dimostrata ugualmente efficace rispetto agli IPP nel controllo della pirosi ed
probabilmente superiore rispetto a questi ultimi per quanto concerne il controllo del rigurgito
e di un’eventuale sindrome extraesofagea. Sostanzialmente si va ad aumentare il tono dello
sfintere grazie ad un anello magnetico e l’operazione trova particolare indicazione in pz
giovani, con lunga storia di malattia, non responder o non complianti alla tp farmacologica.

394
ALCOL
L’uso di alcolici è molto diffuso, quello che spesso le persone ignorano è che la quantità
giornaliera di alcol etilico potenzialmente in grado di evocare in chiunque gravi danni è
esigua: si potrebbe parlare di 20g, in realtà, però, non esiste nessuna soglia. Ovviamente
entrano in gioco anche fattori che portano alla predisposizione individuale, ma il concetto è
che le alterazioni alcol-indotte non sono esclusive dei forti bevitori. Altra cosa non
trascurabile è l’elevato apporto calorico associato all’alcol: 1g di alcol etilico corrisponde a
7kcal.

EFFETTI ACUTI
Dipendono sostanzialmente dal tasso di alcol presente nel sangue. A tal proposito, è
importante considerare che ci sono differenze importanti a seconda che si beva a stomaco
vuoto o durante il pasto: nel primo caso, infatti, il tasso alcolemico aumenta molto più
rapidamente e in misura maggiore (a titolo d’esempio: due bicchieri di vino a stomaco vuoto
si associano ad un alcolemia di 57-74mg/dL; gli stessi assunti a pasto portano ad avere 32-
41mg/dL di alcol nel sangue). La distribuzione ai tessuti e ai fluidi avviene molto
rapidamente, in particolare in quei distretti che sono molto irrorati come fegato, reni ed
encefalo. In quest’ultimo caso, già dopo 10-15min, la concentrazione è maggiore a questo
livello rispetto al sangue. Parallalemente alla distribuzione, a livello epatico, comincia il
metabolimo di questa sostanza: l’etanolo viene degradato attraverso l’alcol deidrogenasi, più
raramente dal sistema delle catalasi e dal microsomal ethanol oxydizing system (MEOS).
L’alcol deidrogenasi è presente sia a livello epatico che gastrico (il pasto è importante
porprio perché prolunga il contatto con questo enzima che, dunque, può degradare l’alcol
prima che entri in circolo) ed esistono variabilità tra le persone a diverse latitutidini e tra i
due sessi. L’alcol deidrogenasi converte l’etanolo ad acetaldeide, che è comunque una
molecola potenzialmente tossica, se si accumula. Questo principio è stato sfruttato per
creare il farmaco noto come Disulfrinam o Antiabuse: esso impedisce il metabolismo
dell’acetaldeide, quindi, se il pz beve, si sente molto male. Il passaggio successivo è, infatti,
quello bloccato da questo farmaco: si tratta della conversione dell’acetaldeide ad acetato
mediata dall’acetaldeide deidrogenasi; a questo punto l’acetato può entrare nel ciclo di
Krebs.

Gli effetti acuti dell’alcol comprendono:

1. Effetti sullo stato nutrizionale a causa del grande introito calorico portato dalle
bevande alcoliche. Possono inoltre ridursi l’assorbimento di B12, tiamina, folati, ferro
e altre vitamine.
2. Inibizione della gluconeogenesi e rischio di ipoglicemia
3. Alterazioni dell’equilibrio acido-base: favorisce l’acidosi metabolica, che può essere
aggravata da DM1 non correttamente compensato.
4. Alterazioni dell’equilibrio idro-elettrolitico: calcio, sodio, potassio, zinco, magnesio…
5. Fenomeni motori e secretivi a livello dei processi digestivi
6. Effetti sul sistema nervoso: per concenttrazioni crescenti si potranno osservare
oscillazioni incontrollate dell’umore, esplosioni emotive, graduale riduzione del
visus, del gusto e dell’olfatto, aumento della soglia del dolore, incordinazione
motoria, diplopia, ipotermina, nausea, vomito, perdita di coscienza, fino a sonno

395
intermittente, stupore e morta per insufficienza respiratoria (400-500mg/dL). In
particolare, l’etanolemia è direttamente correlabile ad una sintomatologia:

a. <0,3 g/L: sobrietà, possibile aumento della loquacità


b. 0,3–0,8 g/L: euforia, diminuzione dei freni inibitori, ridotta concentrazione e
acuità sensoriale, difficoltà ad eseguire movimenti coordinati e precisi
c. 0,8–1,2 g/L: eccitazione, con instabilità emotiva, perdita di giudizio e
allungamento dei tempi di reazione
d. 1–2 g/L: frastornamento, con peggioramento dei problemi precedenti, andatura
oscillante e tremori
e. 1,6–2,7 g/L: confusione, con disorientamento, tristezza e perdita percettiva
f. 2,5–3,7 g/L: stordimento, con apatia, amnesia e assenza di risposte agli stimoli
g. 3,5–4,9 g/L: incapacità di parlare con perdita di coscienza e possibile coma
con riduzione della temperatura corporea e respirazione difficoltosa
h. >5 g/L: morte per paralisi respiratoria

7. Effetti soglia, intesi come diminuzione del controllo motorio fine, aumento del tempo
di reazione e compromissione delle facoltà critiche (!Nei soggetti poco abituati a
consumare alcol ciò si verifica anche a quantità modeste, pari a 20-30mg/dL, e questo
può costituire un problema sia per il soggetto stesso che per la sicurezza altrui se la
persona guida)

EFFETTI CRONICI
L’alcolismo, nelle sue fasi stabili ed evolute, è una vera e propria dipendenza e causa
problemi a diversi livelli:

1. Sul sistema nervoso si ha una sommatoria di effetti neurologici acuti ripetuti molte
volte e si ha anche un danno morfofunzionale alle fibre nervose dovuto
all’esposizione cronica all’etanolo. C’è una correlazione tra alcol e demenza,
parliamo di Alzheimer, forme vascolari e forme associate al Parkinson.
2. Sul fegato i possibili effetti sono molteplici: l’aumento dei livelli di trigliceridi
favorisce la steatosi, l’alcol stesso, poi, favorisce l’instaurarsi di un’epatite attiva che
può sfociare in cirrosi. L’epatite alcolica, condizione che interessa solo il 15-20% dei
consumatori, si caratterizza per necrosi e flogosi parcellare epatocitaria e poi vede
una cronicizzazione dei processi.
3. Sullo stomaco si può assistere ad accentuazione del reflusso, discinesia, sindromi
dispeptiche e alterazioni della motilità e della secrezione.
4. Sul pancrea sono state dimostrate associazioni sia con la pancreatite acuta che
cronica; ma, dal momento che non tutti la sviluppano, pare che anche in questo caso
sia necessario un substrato di predisposizione individuale.
5. Sul SI l’alcol porta ad un aumento delle molecole infiammatorie che, associato ai
problemi nutrizionali, può portare alla sindrome cachettica. Allo stesso tempo, però,
favorisce una condizione di soppressione immunitaria che potrebbe aumentare lo
sviluppo di infezioni e di forme neoplastiche.
6. Sull’apparato CV l’alcol ha un effetto piuttosto dibattuto. Alcuni sostengono che basse
dosi abbiano un effetto positivo, in realtà, però, ciò che è da considerare sono i
problemi legati al consumo di alcol, che superano abbondantemente i possibili
benefici. In soggetti che abusano di alcol si può instaurare una cardiomiopatia
etanolica dilatativa che può sfociare in scompenso severe e, sempre su base
396
predispositiva, può portare anche ad un aumento della PA. In acuto, l’alcol è uno dei
trigger scatenanti più frequenti della FA parossistica, alla quale possono fare seguiti
fenomeni trombo-embolici. Una connessione più rara e meno certa è poi quella tra
alcol e ictus.
7. Sulle fibre nervose periferiche ci può essere un’interferenza che porta il soggetto ad
avere ipotensione ortostatica.
8. Su diversi distretti (faringe, esofago, fegato) l’alcol ha un dimostrato effetto
cancerogeno, dovuto sia alla condizione di infiammazione cronica che favorisce, sia
agli aspetti ossidativi legati al metabolismo dell’acetaldeide.

Esiste poi un rapporto bivalente con la depressione: molte persone depresse sviluppano
questa dipendenza e, viceversa, molti alcolisti diventano depressi.

SINDROME DA ASTINENZA
Quando un pz viene ricoverato è molto importante fare un’anamnesi attenta cercando di
stabilire le quantità e le abitudini correlate all’assunzione di alcol perché, se si dovesse
verificare una sindrome da astinenza, si sarebbe in una condizione clinica molto grave. A tal
proposito, bisogna considerare che in un soggetto che abbia problemi clinici e una
predisposizione, la sindrome da astinenza potrebbe insorgere anche se l’abitudine è quella
di assumere solo quantità modeste. In generale, se si sospetta che possa comparire, a scopo
preventivo è opportuno idratare il pz e dare delle benzodiazepine. Se dovesse manifestarsi, il
pz avrà febbre, agitazione psicomotoria, insonnia, alluncinazioni o delirio, tremori o sintomi
da iperreattività neurovegetativa (delirium tremens) e può risultare mortale per IRA.

397
PANCREATITE ACUTA
È un processo infiammatorio acuto del pancreas che ha un incidenza di 13-45/100 000
persone/anno. Si tratta di una condizione poco favorevole da trattare: i ricoveri sono
generalmente molto lunghi e, spesso, insorgono complicanze, anche indipendenti dalla
patologia di base, che possono andare ad aggravare la prognosi del pz.

Le cause possono essere:

- Alcol: porta alla depolarizzazione dei mitocondri a livello delle cellule acinari, la
quale stimola la liberazione di calcio che facilita la distruzione dei lisosomi; allo
stesso tempo l’alcol porta ad accumulare ROS con attivazione infiammatoria.
- Litiasi biliare: l’ostruzione determina un blocco dell’escrezione degli enzimi
pancreatici dai granuli, e questi ultimi, in associazione agli enzimi lisosomiali,
mediano la distruzione del pancreas stesso.
- Farmaci: anti-H2, diuretici, Paracetamolo, ACE-ib e, più raramente, Sinvastatina e
steroidi.
- CPRE: la manovra può generare un aumento di pressione nei dotti pancreatici con
conseguenzte infiammazione acuta. Pare che sia più frequente l’insorgenza di
pancreatite in soggetti che ne hanno già sofferto, che abbiano disfunzione dello
sfintere di Oddi o che siano di sesso femminile. Ci sono poi fattori dipendenti
dall’esecuzione in sé, come il numero di tentativi per incannulare il dotto pancreatico
o se si sia ftta o meno sfinterotomia.
- Fumo di sigaretta, che viene ad oggi indicato come fattore indipendente dall’alcol
- Tumore pancreatico (lo sospetto in un anziano con anamnesi negativa per pancreatite
che la sviluppa per la prima volta).

In generale, questi fattori sono più che altro possibili cause: in effetti, non tutti i bevitori
piuttosto che tutti coloro che hanno calcoli biliari, sviluppano pancreatite acuta: si sta allora
aprendo la strada della predisposizione genetica, che però non è ancora stata approfondita
del tutto.

Talvolta si ripresenta più volte e si hanno pancreatiti ricorrenti: esse sono generalmente
dovute a microlitiasi, a pancreas divisum o a disfunzioni dello sfintere di Oddi.

Sostanzialmente, si ha un danno a livello degli acini pancreatici con rilascio degli enzimi e
loro attivazione in sede ectopica: ciò porta edema, infiammazione e danno vascolare,
possono poi associarsi emorragia e necrosi coagulativa. La gravità è varia: nelle forme blande
il problema è localizzato a livello del pancreas, mentre, talvolta, ci può essere un
coinvolgimento dei tessuti peripancreatici o addirittura di quelli a distanza. Si possono infatti
avere due tipi di pancreatite:

1. Forma lieve edematosa interstiziale (80%): il pancreas aumenta di dimensioni e vede


una minima riduzione delle sue funzioni, la quale è tipicamente temporanea. Si risolve
con tp medica.
2. Forma grave necrotico-emorragica (20%): si formano raccolte fluide all’interno e
all’esterno del parenchima con all’interno gli enzimi fuoriusciti. Talvolta può portare a
insufficienza multiorgano con versamento ascitico e pleurico. La mortalità è tutt’oggi

398
elevata, specie nei casi in cui si ha infezione delle raccolte peripancreatiche: con le
metodiche di imaging bisognerà dunque vagliare questa possibilità con molta
attenzione.

La pancreatite acuta si presenta con un dolore acuto a sbarra in associazione all’aumento di


lipasi (>1.5UI/L, la Muiesan non le cita) e amilasi (entro 24h aumentano di almeno tre volte
–> 800-1000U/L). Altri segni e sintomi frequenti comprendono nausea, vomito, meteorismo,
ileo paralitico, febbre, leucocitosi, tachicardia, ipotensione, shock e, se il processo è a carico
della testa, ittero. I segni di Cullen (ecchimosi intorno all’ombelico) e di Gray-Turner
(ecchimosi ai lati dell’addome) sono indici di gravità: sono rari e sono causati dalla
digestione da parte degli enzimi pancreatici del grasso sottocutaneo.

Per la diagnosi un ruolo di primaria importanza è rivestito dalla clinica e dalle analisi del
sangue; le indagine radiologiche permettono di confermare la diagnosi, di identificare le
cause che hanno portato alla pancreatite e di dare una valutazione prognostica valutando la
gravità e l’eventuale presenza di complicazioni. Si possono fare:

1. Rx: non si vede la pancreatite ma si possono vedere delle complicanze come l’ileo
paralitico.
2. Ecografia: il problema è che, se si sospetta una forma grave, bisogna tener conto del
fatto che questa metodica sottostima molto la necrosi e dunque è meglio prescrivere
una tc.
3. Tc con mdc: va fatta dopo 48-72 perché prima si rischia di avere falsi negativi, o
quantomeno si rischia di avere una sottostima del problema. Viene richiesta
specialmente nei casi in cui si sospetti una forma severa: pz che non migliorano entro
72 ore, pz con punteggi alti nelle scale di valutazione come l’apache oppure se c’è un
improvviso peggioramento delle condizioni cliniche. Nella forma edematosa non è
indicata perché spesso si hanno falsi negativi, l’aspetto tipico è comunque un
parenchima ingrandito ed ipodenso. Ciò che invece va valutato attentamente alla tc è
la forma necrotica: in questo caso si potrà spesso notare, oltre all’ingrandimento,
anche la presenza di aree emorragiche (iperdense) e necrotiche (prendono poco
contrasto e sono ipodense), vedo poi raccolte fluide peripancreatiche. L’indice di
Balthazar è espressione diretta del danno pancreatico: valuta l’ingrandimento del
parenchima, l’infiammazione del pancreas o del grasso circostante, la presenza di
raccolte fluide e a parte si valuta la percentuale di necrosi. Si ottiene in questo modo il
ct severity index che correla molto bene con la morbilità e la mortalità del pz. Si
possono poi ricercare altre complicanze come l’ascessualizzazione delle raccolte, la
formazione di pseudoaneurismi o di trombi vascolari o la fistolizzazione.
4. CPRE: non viene generalmente fatta per non peggiorare il quadro di flogosi. Assume
un ruolo solo se la colangite è la causa scatenante: in generale quindi la faccio
quando ho ittero.

I parametri utili per definire una pancreatite come grave sono la necrosi e la presenza o
meno di insufficienza d’organo. Per valutare quest’ultimo punto ci si basa sullo score di
Marshall che prende in considerazione 3 elementi:

- Rapporto tra la PaO2 all’EGA arteriosa e la FiO2 con cui viene ossigenato il pz: se
<100 il pz viene definito molto grave. L’emogas è dunque un esame molto importante
perché, sebbene la lesione sia a carico del pancreas, potrebbe comparire insufficienza
399
respiratoria: si deve dunque eseguire sia in condizioni basali sia in corrispondenza di
eventuali peggioramenti della situazione del pz.
- Aumento della creatinina (indice di IRA)
- Riduzione della PA con riduzione del PH

Ad ognuno di questi punti viene attribuito un punteggio da 0 a 4, se maggiore di 2 significa


che è presente insufficienza d’organo.

Possibili complicanze comprendono:

1. Fistolizzazione
2. Pseudocisti e ascessi: spesso in associazione alla pancreatite, specie nelle forme gravi,
sono presenti raccolte liquide: esse sono molto difficili da vedere in eco perché non
hanno contenuto liquido ma corpuscolato che appare simile al grasso, serve dunque
una tc. Nel 50% si risolvono spontaneamente mentre, in altri casi, persistono per più
di 4-6 settimane, si circoscrivono e prendono il nome di pseudocisti. Se il pz è
asintomatico e se sono <6cm si può semplicemente monitorare la situazione, in caso
contrario è necessario fare un drenaggio eco-guidato. Fondamentale è poi intervenire
se compaiono delle complicanze, in particolare se si ha un’ascessualizzazione della
raccolta per infezione della stessa. Bisogna comunque valutare bene queste
pseudocisti poiché esse entrano in dd con le neoplasie cistiche.

TERAPIA
Come prima discriminante si deve vedere se sia presente o meno il vomito perché, in caso
affermativo, sarà necessario posizionare un sondino naso-gastrico che permette di iniziare
subito la tp enterale adeguata e perché tutti i dati di letteratura indicano che sia opportuno
nutrire il pz attraverso questa via. In effetti, appene possibile si dovrebbe ripristinare
l’alimentazione per bocca, nel frattempo va fatta attraverso sondino ed è importante che
contenga la minor quantità di lipidi possibili. Si è visto che la nutrizione enterale precoce è
in grado di ridurre le infezioni su necrosi pancreatica o addirittura la morte del pz rispetto
alla nutrizione parenterale o a quella enterale ritardata.

Farmaci utili comprendono:

- Ranitidina e IPP servono per prevenire un’ulcera da stress.


- La somministrazione di circa 3L di liquidi (SF o glucosata)
- Antidolorifici: si consiglia di cominciare con il Paracetamolo, poi di passare al
Tramadolo e, se necessario, somministrare oppiacei (sugli animali pare peggiorino il
quadro istologico della pancreatite ma, nell’uomo, ciò non è mai stato dimostrato).
Alcuni suggeriscono che si potrebbe usare l’analgesia epidurale con Ropivacaina e
Sulfentanil.
- Tp antibiotica: questo punto è controverso poiché, in effetti, si tratta di un evento
infiammatorio e non infettivo; alcuni studi hanno adirittura dimostrato come
l’insorgenza di complicanze e addirittura la morta fossero aumentati in coloro a cui
venivano somministrati antibiotici. Ad oggi la posizione è quella di darli se c’è
evidenza di infezione a localizzazione extra-pancreatica, saranno da preferire
chinolonici o Imipenem.

400
Bisogna poi considerare che la patologia può portare ad allettamento, anche prolungato,
quindi per prevenire la TVP è importante dare EBPM, tenendo comunque conto che richiede
un monitoraggio della creatinina. La possibile insorgenza di insufficienza renale rende
ragione anche della necessità, in pz gravi o critici, di mettere un catetere vescicale perché in
questo modo è possibile mantenere la diuresi sotto controllo.

Storicamente si tende a dare anche analoghi della Somatostatina: in realtà, in letteratura non
sono presenti particolari dati a favore del loro impiego, a parte forse in caso di pancreatiti
post-CPRE, nelle quali si assocerebbero ad una riduzione delle fistolizzazioni.

401
PANCREATITE CRONICA
Si tratta di un’infiammazione cronica che porta, nel tempo, ad alterazioni morfologiche
irreversibili del parenchima che determinano una perdita permanente della funzionalità sia
endocrina che esocrina e la presenza di dolore. Dal punto di vista epidemiologico, si tratta
di una patologia il cui esordio è tipicamente nella quarta decade e che interessa soprattutto
individui di sesso maschile con una storia di abuso di alcol e di tabagismo. Possiamo avere
forme calcifiche, ostruttive o responsive alla tp steroidea. Nella maggior parte dei casi
l’eziologia è tossica o metabolica; multipli episodi di pancreatite acuta possono sfociare
nella forma cronica, così come le forme autoimmuni. In particolare, le cause possono essere:

1. Alcol (prevalentemente forma calcifica, più raramente ostruttiva): se una persona beve
3-4 drinks al giorno, il suo rischio aumenterà di 2-3 volte. In realtà, qualcuno dice
che il consumo di alcol, per dare pancreatite cronica, dovrebbe essere associato ad
una predisposizione genetica dovuta ad una mutazione che è più frequente nel sesso
maschile, fatto che potrebbe spiegare la maggiore incidenza negli uomini rispetto alle
donne.
2. Fumo: il meccanismo patogenetico coinvolge la nicotina. Pare, infatti, che essa generi
stress ossidativo con danno alle cellule immunitarie. Il rischio è tanto maggiore tanto
aumenta il numero di sigarette/die.
3. Fattori genetici: c’è una forma di pancreatite ereditaria cronica che sia associa ad una
mutazione del gene PRSS1 che sembrerebbe predisporre anche allo sviluppo di
carcinoma del pancreas. Abbiamo poi altre mutazioni, come quella del gene SPINK1
che codifica per la sintesi dell’inibitore delle proteasi durante la risposta
infiammatoria, possono agire in modo tale da impedire l’inattivazione della tripsina,
fatto che è protettivo e, dunque, questi soggetti sono privi di questo fattore protettivo.
4. Calcoli (forma ostruttiva)
5. Neoplasie (forma ostruttiva): ad esempio, una neoplasia mucinosa intraduttale può
andare a restringere il dotto, appunto, provocando una forma ostruttiva.
6. Fibrosi cistica
7. Forme autoimmuni:
a. Tipo 1 (senza lesioni epiteliali dovute ai granulociti): è tipica dei soggetti
anziani, prevalentemente di sesso maschile. C’è un aumento delle IgG4 nel
siero e spesso recidiva.
b. Tipo 2 (con lesioni epiteliali dovute ai granulociti): interessa soggetti più
giovani di entrambi i sessi. Si correla nel 30% alla presenza di MICI e le
recidive sono meno frequenti.
8. Forme idiopatiche

Il pz tipico è magro, fatica a mangiare perché l’assunzione di cibo esacerba il dolore, che è
comune a tutte le forme, può poi avere steatorrea (10%) e altri problemi legati al
malassorbimento. Con steatorrea si intende una presenza eccessiva di grassi nelle feci, a
causa del fatto che non possono essere assorbiti, i quali conferiscono un aspetto untuoso e
un colore marrone chiaro/arancione. Non si tratta di una condizione che compare
esclusivamente in caso di pancreatite cronica ma può essere dovuta anche a
malassorbimento: per discriminare si può ar assumere al pz per tre giorni un pasto che
contenga 100g di lipidi, se nelle feci aumenta il grasso si potrà parlare di steatorrea. Si
propenderà per un malassorbimento nel caso in cui il pz non sia dimagrito, malnutrito,

402
itterico o dolorante. Tipicamente, nella pancreatite cronica, la steatorrea non compare molto
precocemente perché il pz compensa, anche grazie agli enzimi esogeni, fino a quando la
produzione di lipasi non cala fino a rimanere del 10-20% rispetto al fisiologico. Il dolore, in
zona epigastrica e irradiato bilateralmente e al dorso, non ha una patogenesi ad oggi ben
definita. Si pensa che il motivo sia un aumento della pressione a livello dei dotti: il dolore
sarebbe dovuto all’aumento della pressione a monte ed avrebbe dunque una spiegazione
meccanica. Più recentemente si è inserito un altro filone di pensiero secondo il quale il
dolore sarebbe dovuto ad un’attivazione dei nocicettori mediato dalla tripsina e quindi
sarebbe a base neurogenica. Altri problemi che questi pz hanno comprendono l’ittero se c’è
compressione delle vie biliari e, quando poi è compromessa anche la porzione endocrina,
insorgerà DM, che verrà in questo caso definito di tipo 3C. Pare differenziarsi leggermente
dal DM1 perché hanno meno episodi di chetoacidosi e perché necessitano tipicamente di
quantitativi inferiori di insulina.

Generalmente il pz si presenterà solo in corrispondenza delle riacutizzazioni, ignorando i


sintomi che comunque sono sempre presenti. Con il tempo, le riacutizzazioni divengono
meno frequenti e cominciano a prevalere i problemi dovuti alla calcificazione, quindi i
deficit funzionali sia della porzione esocrina con steatorrea, che endocrina con DM. Dopo
diversi anni aumenta il rischio di cancro del pancreas: il rischio è dell’1% a 5 anni dalla
diagnosi e poi aumenta progressivamente. Pare che si associ maggiormente alle forme
calcifiche.

Per la diagnosi vanno valutate elastasi, amilasi e lipasi. Si va poi a valutare la funzionalità
endocrina con la glicemia a digiuno e l’OGTT e quella esocrina facendo, o come detto
prima il test con pasti con 100g di lipidi o misurando l’elastasi fecale. Il problema del
secondo metodo è che non è particolarmente sensibile o specifico; viene però ancora fatto
perché, se vogliamo iniziare subito la tp con enzimi pancreatici sostitutivi, ciò non andrà a
falsare il test. L’imaging serve per confermare la diagnosi e, nel caso di forme ricorrenti, per
individuarne le cause scatenanti. L’eco è il primo esame da fare per ricercare i calcoli ed
eventuali lesioni della porzione della testa. Può essere indicata la tc: essa permette di vedere
la presenza di calcificazioni e di calcoli, la dilatazione dei dotti e l’atrofia ghiandolare. La tc
è particolarmente importante se si sospetta che la causa possa essere un’ostruzione
neoplastica del dotto, può poi essere utile fare dd con neoplasie solide. Per fare ciò può
essere utile somministrare secretina e vedere come reagisce il dotto: se c’è una neoplasia
non c’è dilatazione; in realtà però si tratta di un test che si usa poco perché molto costoso. Il
MDC che si usa per valutare i dotti pancreatici è il succo d’ananas, anche se sarebbe meglio
quello di mirtillo che però è più costoso.

TERAPIA
Come prima cosa, ove possibile, è necessario che cessino il consumo di alcol e l’abitudine al
fumo. Talvolta ciò può causare depressione e potrebbe essere necessario l’impiego di
antidepressivi, i quali al contempo consentono un miglioramento della sintomatologia
dolorosa. Inoltre, sempre per quanto riguarda gli stili di vita, il pz dovrebbe seguire una dieta
con un contenuto di lipidi basso, carboidrati complessi e molte fibre. Secondo alcuni il
lattosio potrebbe favorire le riacutizzazioni.

Si deve poi prevenire o curare o l’insufficienza pancreatica con enzimi sostitutivi (Creon). In
questo modo è anche possibile ridurre la sintomatologia dolorosa, la steatorrea se presente e
la malnutrizione. Il contenuto di lipasi può essere variabile e, se il pz non risponde, si
403
consiglia di aumentarne il dosaggio, previa verifica che il pz assuma veramente la tp. Se poi
non si ha ancora risposta si può aggiungere un inibitore della proteasi acide (un pH più alto
permette una minore inattivazione degli enzimi pancreatici) o cambiare formulazione
sfruttando le microsfere che hanno assorbimento più rapido. È possibile prescrivere anche
vitamine liposolubili. Sul versante endocrino si usano i classici farmaci per il DM.

Per il controllo del dolore, oltre agli enzimi sovra citati che contribuiscono a ridurre lo stato
infiammatorio, abbiamo a disposizione FANS, Tramadolo o altri anti-ossidanti. Alcuni
sostengono che anche l’Allopurinolo abbia un effetto benefico. Nelle forme ostruttive si può
fare un trattamento endoscopico con eventuale litrotripsia e posizionamento di stent.

404
EMOCROMATOSI
È una patologia caratterizzata dall’accumulo di ferro negli organi parenchimatosi. Parliamo di
emocromatosi secondaria quando fa seguito a patologie come anemie sideroblastiche,
talassemie, epatopatia alcolica o all’eccessiva assunzione di ferro e VitC; oppure, più
frequentemente, possiamo avere forme genetiche nelle quali si ha un aumentato
assorbimento di ferro. Tra i cinque geni fino ad oggi associati all’emocromatosi, il più
comune è HFE. Si possono distinguere forme genetiche ad insorgenza giovanile e forme
dell’adulto, tra cui quella relata a HFE: le prime sono più gravi e hanno prevalenti
manifestazioni cardiache ed endocrinologiche, le seconde, invece, causano problemi
soprattutto a livello epatico. Si ritiene, comunque, che il fenotipo di malattia possa essere
modificato da altri fattori come le perdite mestruali, l’età della menopausa, gli ormoni
sessuali, il consumo di alcol e da geni modificatori. Le diverse forme, comunque, sono
accomunate dallo stesso meccanismo fisiopatologico: c’è un aumento dell’assorbimento di
ferro associato anche ad un aumento del rilascio dello stesso dal sistema reticoloendoteliale
con un risultante aumento del ferro circolante. Alla base di tutto questo abbiamo una
quantità ridotta di Epcidina che permette un’attività incontrollata della ferroportina, la quale
è primariamente responsabile sia dell’aumento dell’assorbimento intestinale che del rilascio
dal sistema reticoloendoteliale. Il danno parenchimale è dovuto al fatto che, una volta
saturata la capacità legante della transferrina, compaiono, prima nel torrente circolatorio poi
nei tessuti, forme di ferro altamente reattive che, attraverso lo stress ossidativo, danneggiano
membrane cellulare e subcellulari, organuli e DNA. Ne conseguono citotossicità,
fibrogenicità e genotossicità.

L’emocromatosi ereditaria si presenta con patologie d’organo (fibrosi, cirrosi e cancro


epatico, DM, ipogonadismo e altre endocrinopatie, cardiopatie, artropatie,
iperpigmentazione cutanea) e con un classico pattern biochimico caratterizzato dal
contemporaneo aumento della saturazione della transferrina e dei livelli di ferritina sierica.
Questi pz devono essere monitorati per valutare la comparsa e la progressione di danno
d’organo: si devono controllare il fegato, il cuore, la tiroide e il DM.

Ad oggi, per quanto riguarda le forme ereditarie, non abbiamo a disposizione una tp
eziologica sostitutiva del deficit di epcidina; il trattamente si basa, dunque, sulla rimozione
del ferro in eccesso per prevenire l’accumulo. Sostanzialmente, si applicano salassi a partire
da quando i valori di ferritina superano il limite superiore di norma (200ng/mL per le donne
in età fertile; 300ng/mL per gli altri). La tp di attacco prevede un salasso di 450-500mL 1-2
volte a settimana, fino al raggiungimento di una ferritinemia<50ng/mL, regolando nel tempo
la cadenza delle sedute sulla base dei livelli di emoglobina. Successivamente, si imposta una
tp di mantenimento con salassi ogni 3-4 mesi per mantenere la ferritina intorno a 50-
100ng/mL. Se i salassi sono controindicati o impraticabili, ad esempio perché il pz è anemico
o cardiopatico, si possono utilizzare i chelanti del ferro (Desferoxamina). La riduzione dei
livelli di ferro permette di ridurre la fibrosi epatica lieve-moderata e di risolvere astenia,
ipertransaminasemia e iperpigmentazione cutanea; al contrario, purtroppo, atropatia, DM,
cirrosi e ipogonadismo sono generalmente irreversibili. Per la cirrosi epatica e l’HCC l’unica
tp possibile è il tx di fegato, gravato però da complicanze infettive e cardiologiche. Le
endocrinopatie vanno trattate con tp ormonale sostitutiva. La cardiomiopatia trae beneficio
sia dalla ferro deplezione che da tp specifiche per le forme dilatative. Infine, per le artalgie
sono utili i FANS.

405
CIRROSI EPATICA
La cirrosi epatica è una malattia cronica ed evolutiva caratterizzata dal progressivo sviluppo
di fibrosi e rigenerazione epatocitaria.

In Italia l’incidenza è di 50:100 000 persone/anno ed è il punto di arrivo di diverse patologie


croniche che causano un’infiammazione cronica del parenchima epatico:

- HBV (cronicizzazione nel 5% e cirrosi nell’1%), HCV (cronicizzazione nell’80% e


cirrosi nel 15-20%), HDV
- Etanolo
- Steatopatia non alcolica (NASH)
- Malattie metaboliche: emocromatosi, malattia di Wilson, deficit di alfa1-antitripsina,
glicogenosi di tipo IV.
- Malattie autoimmuni: epatite autoimmune, colangite biliare primitiva, colangite
sclerosante (dà un quadro colestatico e spesso si associa a RCU).
- Cause vascolari: cuore polmonare (cirrosi cardiaca: un aumento delle pressioni a
livello del cuore di destra si ripercuote sul sistema venoso e sul fegato in particolare),
malattie veno-occlusiva.
- Farmaci o tossici: Methotrexato, Isoniazide, Metildopa.
- Esiti stenosanti di patologie infiammatorie o di chirurgia sulle vie biliari
- Bypass intestinale per forme di obesità grave
- Forme criptogenetiche

Alla base abbiamo, quindi, un danno epatico cronico persistente (più frequentemente i primi
tre dell’elenco), il quale porta a morte cellulare; gli epatociti rispondono a questa condizione
con fibrosi e noduli di rigenerazione (macro nelle forme infettive, micro nelle forme
alcoliche). In particolare, la progressiva deposizione di tessuto connettivo interessa dapprima
gli spazi interlobulari e, successivamente, si estende a formare setti fibrosi porto-portali e
porto-centrali; per quanto riguarda la rigenerazione, si ha poi modifica della struttura del
lobo epatico. Il problema è che tali eventi sovvertono l’architettura del fegato e causano
alterazioni circolatorie dovute all’aumento delle resistenze intraepatiche che portano a
ipertensione portale. Negli stadi più avanzati, la continua necrosi non viene più compensata
dai noduli rigenerativi e si ha una progressiva perdita di massa funzionante fino
all’insufficienza d’organo. Infine, una condizione di cirrosi epatica predispone anche alla
cancerizzazione.

Il punteggio di Child-Pugh-Turcotte distingue sulla base di parametri clinici e di laboratorio la


malattia in tre stadi (valutazione riserva funzionale epatica):

406
Il punteggio MELD, invece, è quello più usato per valutare la gravità della malattia in
relazione all’inserimento nelle liste per il trapianto di fegato.

Attualmente non esistono trattamenti di comprovata efficacia per il trattamento della cirrosi
epatica in quanto tale; in altre parole, una volta instauratosi, non siamo in grado di far
regredire il processo di fibrosi. Possiamo solo cercare di ridurre la velocità di evoluzione, ad
esempio sospendendo, quando possibile, la causa scatenante, e poi possiamo cercare di
tenere sotto controllo i sintomi.

IPERTENSIONE PORTALE E CONSEGUENZE


L’ipertensione portale rappresenta la principale complicanza della cirrosi epatica ed è il
risultato sia dell’aumento delle resistenze intraepatiche portali (dovuto alla vasocostrizione
funzionale e al sovvertimento strutturale) che all’aumento del flusso portale conseguente alla
vasodilatazione del circolo splancnico. [Oltre alla cirrosi epatica, altre possibili cause di
ipertensione portale sono schistosomiasi, sarcoidosi, fibrosi cistica e alterazioni vascolari; ci sono poi
le forme vascolari]. L’ipertensione portale si manifesta con:

1. Splenomegalia con ipersplenismo che porta a piastrinopenia e anemia

2. Circoli collaterali per bypassare la porta:

a. Varici gastriche/esofagee che possono rompersi e sanguinare e/o portare allo


sviluppo di gastropatia congestizia. L’80% dei pz con cirrosi epatica le sviluppa
nel corso dell’evoluzione della malattia; tra questi in 1/3 dei casi si ha almeno
un sanguinamento, fatto prognosticamente sfavorevole se si tiene conto che è
gravato da una mortalità del 20-30%.
b. Caput medusae per aumento del flusso nel circolo superficiale addominale in
coloro in cui persiste l’ombelicale media.
c. Ipertrofia del plesso emorroidario

3. Aumento della pressione idrostatica con ascite. Con ascite si intende l’accumulo di
liquido a livello della cavità addominale e nel 75% dei casi è dovuta a cirrosi epatica
[altre possibili cause sono poi una patologia infiammatoria o neoplastica estesa al peritoneo,
uno scompenso cardiaco congestizio, ipotiroidismo grave, tubercolosi, patologie
pancreatiche, sindrome nefrosica, interventi chirurgici sull’addoma o patologie ostruttive a
carico del sistema linfatico] e, viceversa, è presente nel 50% dei pz affetti da cirrosi
entro 10 anni dall’esordio. Si tratta di una condizione gravata da elevata mortalità,
nello specifico il 40% dei pz che la presentano muore dopo 1 anno e il 50% entro 2
anni. Lo sviluppo di ascite è dovuto principalmente alla vasodilatazione del circolo

407
splancnico: dal punto di vista fisiopatologico, ciò porta, infatti, ad aumento della
pressione capillare e a ipovolemia relativa. Ciò significa che si ha un aumento della
pressione idrostatica dovuta alla riduzione della capacità di drenaggio e alla
produzione di fattori che dovrebbero sostenere il circolo in caso di ipovolemia, che
qui, però, non è presente. Una possibile complicanza dell’ascite è l’insorgenza di
peritonite batterica spontanea dovuta alla traslocazione di batteri dal lume intestinale,
ai linfonodi al liquido ascitico. La diagnosi richiede l’esame colturale del liquido
ascitico con la conta cellulare dei neutrofili (se maggiore di 250 mm3 si fa diagnosi) e
l’esame colturale, sulla base del quale verrà poi elaborato l’antibiogramma. Un‘altra
complicanza dell’ascite è la sindrome epatorenale, ovvero una forma particolare di
insufficienza renale su base funzionale che si manifesta nel 10-20% dei pz con cirrosi
epatica complicata da ascite. In particolare, si verifica per effetto dell’estrema
riduzione della volemia efficace arteriosa che si associa a ipoperfusione renale e la
diagnosi è posta per esclusione. Possiamo suddividere la sindrome epatorenale in due
tipi diversi sulla base dei quadri clinici:

a. Tipo 1: abbiamo una progressiva contrazione della diuresi e rapido incremento


dei valori di creatinina con sodiuria marcata. Spesso fa seguito a rimozioni di
liquido troppo abbondanti con paracentesi senza espansione volemica
successiva e la prognosi è severa.
b. Tipo 2: gli aumenti di creatinina sono più lievi e la progressione è più lenta.
Spesso si presenta in pz con ascite refrattaria.

Dal punto di vista terapeutico la prima cosa da fare è rallentare la progressione della cirrosi.
Poi bisogna trattare le conseguenze dell’ipertensione portale.

Per quanto riguarda le varici: i soggetti devono essere monitorati con EGDS ogni due anni;
nel momento in cui le varici vengono riscontrate ci si comporta in modo diverso sulla base
dello stadio di Child. Se il pz è in stadio Child 1 e le varici sono di piccole dimensioni si può
semplicemente proseguire il monitoraggio; in tutti gli altri casi è necessario calcolare il
gradiente pressorio venoso epatico prima di dare i betabloccanti, che devono essere
considerati la tp di prima linea, in modo da poterne valutare l’efficacia. Se i beta bloccanti
non sono efficaci o se il pz non li può assumere perché non tollerati o controindicati, si passa
alla legatura endoscopica. I beta bloccanti non selettivi rappresentano, dunque, la principale
tp profilattica e il razionale è quello di contrastare la vasodilatazione splancnica e ridurre il
flusso a questo distretto. Pare che il più efficace sia il Carvedilolo e, in generale, i beta
bloccanti permettono di ridurre del 12-22% il rischio di sanguinamento; hanno poi buon
rapporto costo-efficacia. Purtroppo, però, il loro impiego è limitato dagli effetti collaterali che
possono andare ad aggravare altre condizioni patologiche presentate dal pz (possono, infatti,
dare bradicardia, ipotensione, disturbi del sonno e broncospasmo). Nel caso in cui la
profilassi primaria non risulti efficace, si fronteggia un eventuale sanguinamento con farmaci
in grado di dare vasocostrizione splancnica come Somatostatina, Octreotide e Terlipressina.

Per quanto riguarda l’ascite, è necessario andare ad interrompere i meccanismi che la


automantengono. In particolare, si deve andare a limitare la ritenzione di sodio ed acqua
dovuta alla produzione di agenti antinatriuretici e vasocostrittori. In particolare, la tendenza
alla ritenzione idrosalina viene contrastata con l’assunzione di diuretici e con la restrizione
dietetica di acqua e sodio. Si utilizzano gli antialdosteronici perché sono i più efficaci nei
confronti dell’iperaldosteronismo secondario all’ipovolemia efficace e, dunque, permettono

408
di spezzare il circolo vizioso che porta ad ascite; spesso poi li si associa ai diuretici dell’ansa
che sono maggiormente efficaci nell’aumentare la natriuresi. Si usano principalmente il
Canreonato di potassio a dosi di 50-400mg/die associato a Furosemide in rapporto di 40mg
di Furosemide per ogni 100mg di antialdosteronico per permettere al pz di avere un corretto
bilancio del potassio. Per verificare l’efficacia della tp diuretica, è indicato un monitoraggio
del peso e della diuresi. Nelle fasi avanzate di malattia è possibile somministrare albumina
per aumentare la pressione oncotica. Infine, la rimozione diretta del liquido ascitico tramite
paracentesi evacuativa, si rende necessaria nelle forme non responsive a dosaggi diuretici
massimali nel caso in cui il liquido comprometta la vita del pz protando, ad esempio, a
problemi respiratori o tensione addominale.

Per quanto riguarda la peritonite batterica spontanea, si deve impostare in prima battuta una
tp antibiotica empirica, dopodichè la si deve aggiustare sulla base delle informazioni date
dall’antibiogramma. La prima scelta sono le cefalosporine di terza generazione (Cefotaxime
o Ceftriaxone con dosaggi da regolare sulla base della funzionalità renale) o i chinolonici
(Ciprofloxacina).

Nei pz con sindrome epatorenale si devono andare a contrastare le alterazioni


emodinamiche che portano alla vasocostrizione riflessa del circolo renale. Circa 2/3 dei pz
rispondono ad una tp combinata con vasocostrittori come la Terlipressina (analogo della
vasopressina) e albumina per ottenere espansione volemica. Si possono poi usare Octreotide
(analogo della somatostatina), che però pare dare risultati solo se associato alla Midodrina
(alfa-agonista). Il problema è che il tasso di recidiva è molto elevato; l’unica tp definita è,
pertanto, il trapianto di fegato.

INSUFFICIENZA EPATICA E CONSEGUENZE


Quando la necrosi non compensata porta a deplezione di epatociti si ha un’alterazione della
funzione epatica, sia per quanto riguarda le sue funzioni metaboliche che sintetiche. In
particolare,

1. Non vengono sintetizzati correttamente:

a. Albumina con riduzione della pressione oncotica e comparsa/peggioramento


dell’ascite, edemi periferici e striature sul letto ungueale.
b. Fattori della coagulazione: si hanno ecchimosi e sanguinamenti e, anche
somministrando VitK, non si hanno miglioramenti.
c. Acidi biliari: si ha malassorbimento dei grassi con steatorrea e malassorbimento
di vitamine liposolubili come VitA, VitD (no apporto esogeno), VitE e VitK.

2. Non vengono metabolizzate correttamente:

a. VitD (no apporto endogeno perché manca la prima idrossilazione) con


osteodistrofia epatica.
b. Farmaci: ciò significa che, i profarmaci non vengono attivati e quindi non
hanno effetto; al contrario, gli altri non vengono inattivati.
c. Zuccheri: si hanno alterazioni della glicemia.
d. Bilirubina: captazione e metabolizzazione sono alterate, avrò, dunque, un
aumento sia della forma diretta, che di quella indiretta.

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e. Sostanze azotate: c’è aumentata concentrazione di ioni ammonio con
produzione di gaba e/o falsi neutrotrasmettitori in associazione ad
un’alterazione della permeabilità della BEE e questo porta ad encefalopatia
porto-sistemica/epatica [v.di anche insufficienza epatica acuta: qui è trattata dal
SIMI, nel capitolo successivo ci sono, invece, le cose dette a lezione]. Oltre che per
mancato metabolismo, questa situazione si verifica anche in seguito alla
formazione di shunt porto-sistemici. Talvolta i sintomi possono comparire
spontaneamente, in altri casi, invece, avremo fattori precipitanti, tra cui l’uso di
sedativi o ipnotici (oppiacei e benzodiazepine), infezioni, emorragie digestive,
diselettrolitemie, stipsi, dieta a ricca componente proteica e la presenza di
shunts porto-sistemici iatrogeni.

(Con asterixis si intende un tremore fine, a battito d’ali, a carico delle estremità
che rappresenta una forma negativa di mioclono da perdita del tono posturale).
f. Folati: ci sarà anemia macrocitica.
g. Fattori vasodilatanti: pare che la clearence alterata di questi ultimi possa
portare a sindrome epatopolmonare perché l’aumento della perfusione porta
ad uno squilibrio con la ventilazione e ad insufficienza respiratoria (dispnea e
ipossiemia)
h. Ormoni steroidei (estrogeni): si ha la comparsa di spider nevi e di shunts;
nell’uomo, poi, si può avere ginecomastia, calo della libido, atrofia testicolare e
riduzione dei peli.

Per quanto riguarda l’encefalopatia epatica, si deve cercare di rimuovere e modulare l’effetto
delle neurotossine e, nel caso siano presenti, di eliminare fattori precipitanti. A volte, la
reidratazione del pz e la correzione di eventuali diselettrolitemie è sufficiente a risolvere il
quadro clinico. Si deve evitare il più possibile evitare la stasi fecale e a tale proposito si
utilizzano disaccaridi non assorbibili come Lattulosio e Lattitolo che determinano anche
acificazione del colon e contrastano l’accumulo di ammonio plasmatico. Questo è
importante non solo durante l’encefalopatia, ma anche come mantenimento. Così come è

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opportuno consigliare una dieta con proteine di origine prevalentemente vegetale e arrichita
con aminoacidi ramificati. Tornando alla condizione acuta, questi disaccaridi possono essere
dati per più vie di somministrazione, che variano a seconda della gravità fino all’utilizzo con
enteroclismi se c’è coma. Si danno poi spesso antibiotici (Metronidazolo, Paramomicina,
Rifaximina) perché modificano la flora batterica residente a favori di forme con ridotta
tendenzaa alla sintesi dei composti azotati. Altri approcci terapeutici possibili comprendono
le miscele arricchite di aminoacidi ramificati, gli scavenger dell’ammonio, gli inbitori del
glutammato e l’antagonista del recettore delle benzodiazepine, che sembra upregolato in
corso di encefalopatia epatica.

ALTRI SINTOMI DELLA CIRROSI


Si potranno avere:

1. Malattia di Dupuytren (alcolica)


2. Glossite atrofica
3. Ipertrofia parotidi (alcolica)
4. Xantomi da dislipidemia (biliare)
5. Eritema palmare

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INSUFFICIENZA EPATICA ACUTA
Con insufficienza epatica si intendono alterazioni metaboliche a carico delle cellule
epatiche con conseguente compromissione funzionale. Oltre alla forma cronica che, come
detto, è l’endpoint di molte epatopatie croniche; abbiamo anche una forma acuta (<26
settimane) che è più rara, ma deve essere conosciuta perché si configura come un quadro
spesso drammatico, per il quale, per altro, non abbiamo a disposizione molte risorse
terapeutiche. Nell’ambito dell’insufficienza epatica acuta si possono distinguere:

1. Una forma acuta su cronica, causata dalla sovrapposizione di fattori precipitanti.


Questi pz, pertanto, avranno già sintomi tipici di epatopatia, come quelli dovuti ad un
alterato metabolismo degli estrogeni.
2. Una vera e propria forma acuta, ovvero una situazione di rapido declino della
funzionalità epatica in un pz che non abbia una nota patologia epatica preesistente.

In entrambi i casi, i fattori che possono portare all’insorgenza di una forma acuta (ovvero i
fattori precipitanti in caso di preesistente forma cronica o di fattori causali nel caso di
integrità del fegato) comprendono:

- Farmaci: si parla di insufficienza epatica acuta idiosincrasica se provocata da farmaci


che danno epatite acuta indipendentemente dalla dose (es. Isoniazide) o di epatite-
dose correlata se causata da farmaci che danno insufficienza epatica solo se superata
una certa dose (es. paracetamolo). In realtà, potenzialmente tutti i farmaci possono
dare danno epatico, tra quelli più frequentemente associati, oltre a quelli già citati,
abbiamo alcuni antibiotici come l’Amoxicillina e l’Azitromicina. Con le statine è raro
che si verifichi un danno a questo livello, visto però l’enorme uso che se ne fa è
importante tenerle in considerazione.
- Alcol
- Scompenso cardiaco che interessa il cuore di dx e si ripercuote sul sistema venoso
- Disidratazione con ipoperfusione splancnica
- Ipertermia
- Infezioni (compresa un’infezione epatitica che va a sovrapporsi e può dare una forma
acuta su cronica)
- Flare-up (riacutizzazione) dell’epatopatia di base
- Sanguinamento gastrointestinale
- Interventi chirurgici
- Traumi
- Ustioni
- Mancata adesione o inadeguatezza della terapia
- Dieta troppo ricca in proteine
- Intossicazione da Amanitina: si tratta di polipeptidi contenuti in alcuni funghi del
genere Amanita che, se ingeriti, portano alla comparsa di sintomi dopo poche ora
dall’ingestione. Inizialmente si ha una forma gastroenterica che può trarre in inganno
perché tende a migliorare dopo pochi giorni; il vero problema è il danno epatico che
compare dopo 3-4 giorni.
- Eventi vascolari: epatite ischemica, Sindrome di Budd-Chiari (ostruzione delle vene
sovra epatiche), fegato da shock, ipoperfusione splancnica
- Forme autoimmuni

412
- Altro: morbo di Wilson (età giovane/adulta, caratterizzato dalla presenza dell’anello
di Kayser-Fleischer), epatite gravidica (HELLP), linfoma

All’esame obiettivo si riscontrano:

1. Ittero (non sempre presente)


2. Dolorabilità del quadrante addominale superiore destro, dovuta a distensione della
glissoniana
3. Epatomegalia (soprattutto nelle epatiti virali)
4. Impossibilità a palpare il margine epatico, per riduzione del volume epatico a causa
di una perdita massiva di epatociti
5. Ipotensione
6. Cirrosi e altri sintomi di epatopatie croniche che devono far pensare ad una forma
acuta su cronica

Per quanto riguarda le manifestazioni cliniche, a livello cerebrale si può avere encefalopatia
classica porto-sistemica e, nelle forme iperacute, può esservi anche edema cerebrale ed
ipertensione endocranica. A livello polmonare può comparire ARDS. Si hanno inoltre
manifestazioni epatiche, soppressione midollare, possibile sindrome epato-renale con una
simultanea disfunzione renale e possibile coinvolgimento pancreatico (soprattutto nelle
forme legate a tossicità da paracetamolo). Avremo anche alterazione della coagulazione
(aumento INR), ipoglicemia, acidosi metabolica e, nelle forme molto gravi, insufficienza
multi-organo che frequentemente porta ad exitus. Questi pazienti inoltre, anche se non le
hanno all’inizio, possono spesso sviluppare infezioni, sepsi e schock settico.

I pz con insufficienza epatica acuta vengono ricoverati in tp intensiva per il monitoraggio e,


se si tratta di forme gravi, si deve contattare precocemente il centro trapianti (il modello
prognostico più utilizzato per capire se ce n’è necessità è quello del King’s College. È poi
utile capire rapidamente l’eziologia perché può indirizzare la tp.

È fondamentale la somministrazione di N-acetilcisteina, utile nell’insufficienza epatica acuta


da funghi e da Paracetamolo. Se la uso entro le prime 4 ore, o meglio ancora entro la prima
ora, di solito la prognosi è molto buona. Nelle forme acute che non abbiano un’epatopatia
sottostante si può dunque cercare di ottenere la restitutio ad integrum, al contrario, per le
forme acute su croniche, l’unica cosa che si può fare è controllare i sintomi e le
complicanze, ma il danno epatico rimane quello pre-esistente, motivo per cui questo
farmaco non è utile.

L’encefalopatia porto-sistemica si caratterizza per sintomi che compaiono a seconda del


grado di encefalopatia presentato:

1. Alterazione della personalità (eccitazione maniacale, deterioramento intellettivo,


amnesia, sopore, coma)
2. Disturbi della parola e della scrittura
3. Obnubilamento del sensorio sino a coma
4. Scosse e tremori muscolari, flapping tremor (è un tremore lento, “a battito d’ala”, non
come quello nell’iperitoidismo)
5. Alterazione riflessi (tossicità ammonica)
6. Foetor hepaticus
413
! Ci sono pazienti che presentano un quadro di encefalopatia senza grandissime alterazioni
dell’ammoniemia (si ipotizza, quindi, l’esistenza di altri meccanismi patogenetici come la
presenza di falsi neurotrasmettitori); altri che hanno livelli alti di ammonio, senza
encefalopatia. Nonostante l’ammonio sia comunque un marcatore di tale patologia, non è
propriamente corretto continuare a dosare l’ammoniemia con lo scopo di vedere come sta
andando il paziente, c’è la clinica a darci informazioni su questo. Quindi, il pz deve essere
monitorato dal punto di vista clinico perché, fino al grado 3, il pz può assumere farmaci per
os e si è visto che, in questo modo, si ottengono risultati migliori: si deve, dunque, mettersi
nelle condizioni di agire il prima possibile. Inoltre, sapere che un pz ha encefalopatia, mi
consente anche di comportarmi di conseguenza: ad esempio, le benzodiazepine devono
assolutamente essere evitate perché possono dare sedazione, a maggior ragione
considerando che, avendo metabolismo epatico, sono metabolizzate in misura inferiore.

L’approccio terapeutico varia in base al grado: il grado I consente una gestione


ambulatoriale, il grado II pone indicazione all’osservazione breve in ospedale per vedere se
con la tp si riesce a risolvere la situazione, mentre, a partire dai gradi III e IV il pz deve
essere ricoverato.

Quando ci si approccia ad un paziente affetto da encefalopatia bisogna:

1. Come prima cosa di devono rimuovere o correggere le cause precipitanti più comuni;
nel cirrotico tra di esse abbia un sanguinamento da rottura delle varici, facilitato per
altro dall’alterata produzione dei fattori della coagulazione. La presenza di sangue nel
tratto digestivo, dovuto appunto al sanguinamento in atto, infatti, porta all’arrivo al
fegato di materiale proteico, il quale, non venendo correttamente metabolizzato, può
determinare la comparsa di encefalopatia. In generale, quindi, le cause scatenanti
devono essere rimosse, ad esempio, dunque, dovrò correggere eventuale ipossia,
ipopotassiemia, ipoglicemia o infezioni (compresa la peritonite batterica spontanea
che può verificarsi in caso di ascite)…
2. Applicare la cosiddetta general supportive care, ovvero un insieme di misure utili in
questi pz come la somministrazione di liquidi (correggere l’ipovolemia porta spesso
ad un miglioramento dello stato cognitivo del pz), la correzione delle alterazioni
elettrolitiche, la messa in atto di presidi volti ad evitare le cadute, compresa, se
necessaria, la contenzione (sono pz spesso disorientati e per di più con scarsa
coagulazione, motivo per cui anche cadute banali possono portare a traumi gravi) e la
necessità di evitare un’eccessiva sedazione.
3. Ridurre i substrati ammoniogenici, inibire la produzione intestinale di ammonio e
stimolare il metabolismo dell’ammonio stesso:

a. Gli aminoacidi ramificati evitano la comparsa di ulteriori substrati


ammoniogenici e, in associazione alla glucosata, permettono di dare al pz un
apporto calorico e contemporaneamente impediscono che venga sintetizzato
altro ammonio. La glucosata è importante perché permette l’utilizzo degli
aminoacidi ramificati perché il glucosio è il supporto energetico per i carrier.
b. Gli aminoglicosidi sono utili per sterilizzare il tubo digerente ed evitare la
sintesi di ulteriori ioni ammonio; se ne usano tipi particolari che non vengono
assorbiti, ma rimangono a livello intestinale come la Paramomicina o la

414
Rifaximina. Questo permette di avere antibiotici efficaci e di limitare allo
stesso tempo la tossicità sistemica, specie a livello di occhio e rene.
c. Il lattulosio (20-30mg x2-4/die) agisce sull’apparato gastro-intestinale in vari
modi, ma essenzialmente aumentando la velocità di transito in modo da
ottenere quattro evacuazioni/die e, di conseguenza, una riduzione
dell’assorbimento e un aumento dell’escrezione fecale di azoto. Inoltre,
permette di aumentare l’incorporazione dell’ammonio da parte dei batteri e di
ridurre la formazione di acidi grassi a catena corta che sono potenzialmente
tossici. Viene somministrato per os o, qualora il paziente non sia in grado di
ingerire farmaci, tramite clistere. Da evitare, se possibile, la somministrazione
attraverso sondino naso-gastrico, in quanto questi pazienti presentano spesso
varici esofagee e l’inserimento del sondino potrebbe romperle causando
sanguinamento gastro-intestinale.

Nelle prime fasi il paziente va tenuto a digiuno. Successivamente la dieta dovrà essere
ipoproteica, moderatamente iposodica e associata alla somministrazione di amminoacidi
ramificati assieme a glucosata per permettere all’organismo di usarli. Sono previste da 35 a
40 kcal/kg al giorno (quindi se un paziente pesa 70 kg, sono circa 2500 kcal al giorno): si
tratta quindi di una dieta piuttosto ipercalorica. È poi fondamentale correggere
l’ipopotassiemia se presente, questo perché determina un aumento di produzione di
ammonio. Il soggetto deve mantenere anche un alvo regolare e si deve prestare attenzione
all’uso di diuretico, necessario in pz con ascite: a volte, infatti, un aumento aggressivo del
diuretico comporta una diminuzione eccessiva del volume intravascolare e un conseguente
peggioramento dello stato cerebrale del paziente.

Nella maggior parte dei casi l’encefalopatia porto-sistemica risponde molto bene alla terapia;
ciò non toglie che possono verificarsi nuovi peggioramenti, specie se si tratta di forme acute
su croniche.

Possono poi esserci manifestazioni emorragiche gravi, espressione della coagulopatia, per
contrastare la quale la somministrazione di VitK risulta poco o per nulla efficace. Le linee
guida internazionali dicono che non ci sono dati sufficienti per pronunciarsi a favore o
contro l’utilizzo di concentrati di fattori della coagulazione nel paziente epatopatico con
sanguinamento in atto, a meno che, ovviamente, non si riesca a fermare l’emorragia
altrimenti. In prevenzione, inoltre, la discussione è alimentata dal fatto che l’INR nei pz
cirrotici non sia un parametro affidabile quindi non è automatico che a valori alti si associ un
effettivo aumentato rischio di sanguinamento.

Un’altra complicanza associata all’insufficienza epatica è lo sviluppo di insufficienza renale


acuta (sindrome epato-renale) con alla base ipotensione, ipoperfusione renale e aumento
della pressione addominale (è, dunque, una complicanza delle forme acute su croniche). In
questi casi è necessario:

1. Ripristinare il volume circolante


2. Somministrare amine vasoattive per via endovenosa se c’è ipotensione, come
dopamina e noradrenalina.
3. Evitare agenti nefrotossici

415
MICI
MORBO DI CHRON
È una malattia infiammatoria che colpisce la parete intestinale a tutto spessore. Interessa
generalmente il tenue, e, in particolare, l’ileo terminale; in ordine decrescente di frequenza
può poi colpire colon, stomaco e esofago. Ha carattere granulamatoso e, di coneguenza
stenotizzante, e segmentario. Dal punto di vista epidemiologico, in Italia si hanno 3-4 casi su
100 000, con una lieve prevalenza nel sesso femminile e una maggiore incidenza tra gli ebrei
e i nordici. Ci sono due picchi: il primo a 15-30 anni, con l’ileo come porzione
maggiormente colpita, e il secondo nella 6-7° decade, con la malattia che si configura,
generalmente, come una forma colica. L’eziologia non è nota, si sa, invece, che nella
patogenesi giocano un ruolo importante le infezioni (M.Paratubercolosis, Pseudomonas,
Lysteria, Clamydia, Reovirus, Paramyxovirus), il fumo, una dieta ricca di zuccheri raffinati e
povera di frutta e verdura e una predisposizione familiare (se c’è un parente di primo grado
affetto, il rischio aumenta di circa 15 volte). In particolare, pare ci sia una correlazione con il
locus IBD1 sul Cr16: c’è una predisposizione, ma è necessaria la sovrapposizione di altri
fattori. Ci sono poi i farmaci (antiinfiammatori e anticoncezionali), la struttura dell’epitelio
intestinale e il microbiota, e in particolare l’alterato rapporto aerobi-anaerobi con modifica
del potenziale redox. In pz con questa patologia la risposta immunitaria è alterata: quando
l’ag viene presentato alle molecole MCH2 dei LynT helper si differenziazione in senso T1 con
produzione di IFNgamma e richiamo di altre cellule che, producendo altre citochine,
sostengono l’infiammazione e richiamano i fibroblasti: si arriva, in questo modo, alla
formazione del granuloma che caratterizza questa patologia.

I sintomi sono sistemici, subdoli e generici:

1. Febbricola
2. Alvo alterno: c’è stipsi quando le feci transitano dalla zona stenotica e diarrea quando
l’ostacolo viene superato.
3. Anergia
4. SOF+, ma feci raramente francamente ematiche
5. Dolori addominali di tipo colico per la necessità di avere peristalsi più vigorose; se la
malattia è trascurata, può diventare invalidante e associarsi a fenomeni subocclusivi.
6. Malassorbimento: dimagrimento, anemia a genesi multifattoriale, steatorrea,
protidorrea e zuccheri nelle feci.
7. Presenza di masse pseudotumorali, che in realtà sono ascessi e dilatazioni
8. Artralgie, artriti, spondiliti
9. Irite
10. Eritema nodoso
11. Afte orale

Tipicamente, il decorso di questa patologia prevede l’alternarsi di fasi di remissione e di


attività, con impatto sulla qualità della vita. Tale comportamento, infatti, si associa a un
progressivo peggioramento della malattia: le ricadute sono spesso causa di ospedalizzazione
o di necessità di intervento chirurgico. Se poi si instaurano le complicanze tipiche, si può
avere un impatto anche sulla sopravvivenza. In particolare, un pz con morbo di Chron può
sviluppare stenosi, ascessi che necessitano trattamento chirurgico, perforazione con
peritonite per disseminazione del contenuto intestinale che è settico, fistolizzazione e

416
cancerizzazione (rischio x10). Dal punto di vista patogenetico, la causa di queste alterazioni
è da ricercare nella presenza di granulomi e di iperplasia linfonodale. Queste condizioni
predispongono, infatti, all’insorgenza di linfedema con distrofia della mucosa e tendenza
atrofico-ulcerativa. Sostanzialmente, avremo iperplasia dei folicoli con ostruzione del decorso
linfatico che porta a congestione della mucosa.

Ci sono tre livelli di gravità:

- Lieve: il pz ha meno di 4 scariche/die, SOF+ ma non feci ematiche, no febbre e


VES<30mm/h.
- Moderata
- Grave: il pz ha più di 6 scariche/die, le feci sono ematiche, ci sono febbre e anemia e
la VES è >30mm/h.

Per fare diagnosi è molto importante riuscire a svolgere un’analisi istologica, il problema,
però, è che, essendo il tratto ileale quello più colpito, fare i prelievi può risultare difficile. Si
può ricorrere a pastiglie con ghigliottina temporizzata o all’enteroscopia, che è, però,
invasiva. Dal punto di vista istologico avremo il caratteristico aspetto a ciottolato, ovvero un
insieme di alterazioni diverse, ta cui ispessimento marcato della parete con infiltrato, ulcere a
decorso longitudinale, cicatrici atrofiche, iperplasia come tentativo riparativo, presenza di
granulomi, edema e ghiandole appiattite. ! Spesso la clinica e il quadro endoscopico non
concordano.

Nel caso in cui non si possa fare, altre metodiche diagnostiche sono la videocapsula e la RX
con pasto baritato (o TC): in questo secondo caso vedremo il segno della cordicella (stenosi)
e aspetti spiculari (liquido che penetra nelle ulcere). La triade di Bodart, visibile all’imaging,
comprende ansa terminale stenotica, ansa intermedia rigida e ansa a monte dilatata. Infine,
dal punto di vista biochimico, avremo anemia, ipoalbuminemia e deficit coagulativi da
ridotto assorbimento della VitK. La DD deve essere fatta con enterite tubercolare
(tubercolina+), tumori del tenue (aspetto radiologico diverso), appendicite (leucocitosi e
rialzo degli indici di flogosi molto più marcati) e RCU (quadro istologico diverso).

La prognosi di questi pz varia in base a diversi fattori, in particolare peggiora se l’età


d’esordio è giovane, se sono presenti lesioni penetranti, se il pz fuma, se ci sono alterazioni
extra-intestinali, se ci sono alcune mutzioni o alterazioni sierologiche e se ci sono ab
specifici contro determinati batteri.

Dal punto di vista terapeutico, mentre prima si poneva attenzione solamente al sintomo
(diarrea e dolore addominale), ora, accanto al contenimento della sintomatologia, si vuole
cercare di controllare lo stato infiammatorio della malattia e ottenere una remissione sia
clinica, che endoscopica, al fine di migliorare la qualità di vita di questi pz. Quello che si
deve ottenere è una remissione della malattia al primo intervento (terapia di induzione) e un
mantenimento di tale remissione nel tempo (terapia di mantenimento): agendo
precocemente in questa maniera risulta migliore la sopravvivenza per quel paziente. Come
in tante altre situazioni, per raggiungere questi scopi, si deve ambire a una cura
personalizzata, perché i malati non manifestano la malattia allo stesso modo e non rispondo
alla stessa maniera alla tp (in uno studio si è evidenziato come su 200 pazienti arruolati, il
40% effettivamente riportava un miglioramento e mantenimento dello stato infiammatorio
associato, il 3% riportava un peggioramento dopo una prima remissione, il 20% non aveva
417
nessuna remissione, ma manteneva la sintomatologia cronica nel tempo e il 30%
manifestava periodi di ricaduta e remissione continui, cioè fluttuazione cronica). In
particolare, la personalizzazione della malattia si deve basare su sede, gravità delle lesioni e
gravità dei sintomi del paziente.

Per la terapia di induzione abbiamo a disposizione diversi farmaci. Il primo è Budesonide


alla dose di 9g per os; in questo modo si ha una probabilità di remissione di 2 volte
superiore rispetto all’uso di placebo. Viene considerato come tp di scelta perché ha una
maggiore attività topica a livello della mucosa intestinale e ha una biodisponibilità sistemica
minore, aspetto che comporta una ridotta comparsa di effetti collaterali. L’efficacia rispetto
agli steroidi sistemici è minore, ma a noi interessa soprattutto utilizzarla in pz con malattia
lieve, come giusto compromesso tra l’ottenimento degli obiettivi terapeutici e la
manifestazione degli effetti collaterali. In alternativa, si possono utilizzare anche altri farmaci
come Idrocortisone EV, Metilprednisolone EV o Metilprednisolone o Prednisone per os. I CS,
dunque, come evidenziato da più studi, sono importanti per indurre la remissione, una volta
ottenuta, però, vanno sospesi.

Oltre ai CS, è possibile avvalersi di anticorpi monoclonali, diretti contro TNF-α, contro le
integrine e contro le IL. I più utilizzati sono 3 anticorpi monoclonali sono gli anti-TNFα,
citochina che rappresenta una delle molecole mantenenti l’infiammazione cronica:

- Infliximab: anticorpo monoclonale chimerico, ovvero non totalmente umanizzato,


che ha dunque potere antigenico. Viene somministrato IV a intervalli
progressivamente crescenti. Dopo 2 settimane di trattamento, il 60% dei pz va in
remissione.
- Adalimumab: anticorpo monoclonale umano, somministrato SC a dosi decresenti.
Dopo 4 settimane si ha remissione nel 58% dei casi.
- Certolizumab: è un frammento anticorpale modificato tramite pegilazione e
somministrato SC. In 6 settimane si ha remissione nel 60% dei casi.

Il vantaggio di usare gli anti-TNF è, innanzitutto, quello di non utilizzare più gli steroidi;
inoltre, essi hanno, come detto, buoni tassi di risposta. Il loro effetto è tanto maggiore,
quanto prima viene iniziata la tp. L’efficacia di questi farmaci si manifesta sia dal punto di
vista clinico che dal punto di vista istologico: se inizio la tp in un periodo precoce e ottengo
una remissione precoce, non solo miglioro i sintomi e faccio cicatrizzare meglio la mucosa,
ma ottengo anche una sopravvivenza migliore esente da complicazioni stenosanti, necessità
di ricoveri o interventi chirurgici, stenosi cicatriziali in risposta alla malattia, ulcere
penetranti in altri settori dell’ileo.

D’altro canto, questi farmaci hanno anche dei rischi: ci possono essere reazioni all’infusione,
specie se somministrati SC, e infezioni o riacutizzazione di infezioni (bisogna, dunque,
essere sicuri che i pz non abbiano TBC, HBV, un’infezione sistemica che possa evolvere a
sepsi, Herpes Zoster). Ci sono poi complicanze rare, ma molto temibili: LES indotto dal
farmaco, epatotossicità, demielinizzazione e sviluppo di linfomi.

Inoltre, non tutti i malati di Crohn rispondono bene alla somministrazione del farmaco. In
alcuni casi non c’è proprio risposta (10-30%), probabilmente a causa del fatto che
l’infiammazione non sia sostenuta da TNFalfa e, dunque, devo cambiare farmaco; in altri c’è
perdita di responsività. Per questa seconda evenienza ci sono diverse possibili spiegazioni: il
418
farmaco viene neutralizzato da ab anti-farmaco (sostituisco il farmaco) oppure il farmaco ha
una farmacocinetica accelerata, cioè la molecola viene eliminata troppo rapidamente e non
riesce a raggiungere una biodisponibilità adeguata per ottenere l’effetto terapeutico (misuro
la concentrazione del farmaco e poi vario dosi e intervalli di somministrazione). Ci sono
diversi fattori che possono influenzare la farmacocinetica: farmaci assunti in concomitanza;
alti valori di albumina che lega il farmaco e elevati livelli di TNF-α di base che richiede una
concentrazione maggiore di anti-TNF-α. Al contrario, pz con clearance renale ridotta,
tendono ad avere migliore risposta proprio perché concentrano il farmaco aumentando la
biodisponibilità. Bisogna valutare, più che il picco, la “concentrazione trough”, cioè la dose
ematica presente appena prima della somministrazione della dose successiva quindi al
massimo della distanza dall’ultima somministrazione. Se la concentrazione è troppo bassa, il
pz non sarà coperto adeguatamente e dovrò modulare la dose.

Se gli anti-TNF non sono efficaci o non sono tollerati si può usare il Vedolizumab, un ab
monoclonale contro l’integrina alfa4beta7 che si trova sulla superficie dei leucociti. Questo
farmaco dà intorno al 40% remissione clinica (un po’ meno remissione endoscopica
cicatriziale), senza utilizzo di steroidi, anche qui con una maggior probabilità di ottenere
successo quando la somministrazione del farmaco è precoce (malattia clinica <2 anni).
Apparentemente non c’è il rischio di sviluppare infezioni opportunistiche (riattivazione TBC
e HBV come per gli anti-TNF-α) e non sembra associato a sviluppo di neoplasie come
linfoma: dal punto di vista della sicurezza, sembra, dunque, avere un profilo migliore
rispetto agli anti-TNF.

Anche il Natalizumab è un ab rivolto contro le integrine. Questo farmaco si è rivelato


efficace, ma sono stati riportati tre casi di leuco-encefalopatia multifocale progressiva (poi
rivisti, quindi il farmaco è ancora utilizzabile).

Per scegliere quale farmaco utilizzare tra CS, anti-TNF e anti-integrine, la prima cosa da
considerare è la sede, in secondo luogo si considera l’attività della malattia dal punto di vista
clinico e endoscopico:

1. Sede ileo-ciecale:

→ Malattia di grado lieve: budesonide per bocca.

→ Malattia di grado moderato (clinicamente) ma ancora localizzata (ileo-ciecale):


budesonide o steroidi sistemici, alternativamente anti-TNF-α se pz risulta
intollerante o refrattario a steroidi. In pz con scarsa ricorrenza della malattia (una
sola ricaduta) somministro steroide+immunomodulatore (azatioprina o
metotrexate). In pazienti refrattari a steroide e/o anti-TNF, allora somministro
Vedolizumab.

→ Malattia grave: inizio sempre con steroidi per via sistemica e se la malattia
tende ad avere ricorrenza dopo induzione con steroidi, utilizzo anti-TNF-α. Se pz
refrattario a steroide e/o anti-TNF-α, allora la terza tappa è sempre Vedolizumab.

2. Sede colica diffusa: steroide sistemico. Se malattia ricorrente anti-TNF-α e se pz


refrattario a steroidi e/o anti-TNF-α allora Vedolizumab.

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3. Sede diffusa al piccolo intestino tenue: steroide sistemico (quasi tutti gli studi usano
prednisone), ma bisogna considerare di utilizzare anti-TNF-α in maniera precoce se la
malattia è grave e ricorrente.

In sostanza se il pz ha una clinica grave, lesioni profonde o in sede peri-anale fistolizzanti è


utile usare anti-TNF-α, mentre in tutti gli altri casi uso steroide per os o per via sistemica. Per
altri pz, soprattutto con malattia estesa, se vogliamo avere successo e lo vogliamo avere
anche sulle eventuali complicanze, come sviluppo di linfomi o riattivazione di infezioni
opportunistiche, potremmo pensare di usare direttamente Vedolizumab.

Per la terapia di mantenimento si usano prevalentemente immunomodulatori. In particolare,


l’Azatioprina ha dato buoni risultati. Presenta, però, effetti collaterali quali
immunosoppressione del midollo (riduzione del numero globuli bianchi), pancreatite,
epatotossicità, rischio di infezione (CMV, Epstein Barr, HBV), sintomatologia simile
all’influenza, rischio di sviluppare linfoma aumentato di 4 volte.

In alternativa, si può anche utilizzare 15mg/settimana di Methotrexate, che si è rivelato


particolarmente efficace in pz che sono andati in remissione con lo steroide. Ha, comunque,
anch’esso effetti collaterali: epatotossicità, carenza di folati (legata al suo meccanismo
d’azione), aumento del rischio di infezioni, polmonite da ipersensibilità. Questi effetti
collaterali sono quasi certi e devono essere spiegati al paziente prima di decidere di iniziare
la terapia.

Per scegliere come comportarsi si deve guardare il decorso clinico:

1. Se il pz ha ricadute dopo l’induzione, ma la malattia rimane localizzata, allora si


tende a continuare la terapia di mantenimento, ma aumentando il dosaggio; al più si
può pensare all’opzione chirurgica.
2. Se il pz ha ricadute dopo l’induzione, ma la malattia diventa estesa, allora il
mantenimento deve proseguire con Azatioprina in associazione con anti-TNF-α se ci
sono fattori prognostici negativi.

! Quello che si tende a fare in generale è avere un approccio top down: se malattia è lieve
inizio con uno steroide a basso dosaggio e spero che il pz risponda subito, così che possa
andare avanti con la terapia di mantenimento. Se invece la malattia è moderata, che sia
localizzata o estesa, è meglio iniziare in maniera aggressiva (Infliximab + Azatioprina) e poi
scendere di dosaggio in un secondo momento

RETTOCOLITE ULCEROSA – RCU


È una malattia della mucosa che comincia con interessamento del retto e poi tende a
progredire in senso prossimale, arrivando a coinvolgere prima il sigma e poi tutto il retto in
maniera NON segmentaria. Colpisce individui di 20-40 anni e l’appendicectomia e il fumo
risultano preventivi. Rispetto al Chron, in questo caso la componente genetica è molto meno
rilevante. Dal punto di vista patogenetico, c’è un’alterata immunità cellulo-mediata e/o
umorale con alterazione citochinice; spesso subentrano, poi, fattori psicosomatici.

I sintomi comprendono:

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1. Diarrea muco-sanguinolenta che può portare ad anemia da perdita e a disidratazione,
fino anche allo shock.
2. Dolori alla defecazione
3. Febbre
4. Disprotidemia
5. Artrite, spondilite
6. Eritema nodoso
7. Irite, iridociclite
8. Pioderma gangrenoso
9. Sintomi epatici: colangite, ittero, colestasi, steatosi.

Il decorso può essere acuto, con insorgenza di shock che richiede resezioni e infusione di
liquidi ed elettroliti; à poussées o cronico; in quest’ultimo caso abbiamo sintomi continui con
esacerbazioni dovute a stress o a fenomeni infettivi. A lungo termine possono comparire le
principali complicanze di questa patologia: si può avere megacolon tossico dovuto ad un
danno al plesso di Auerbach con arresto totale della peristalsi e occlusione, perforazioni (più
raramente che nel Chron perché le ulcere sono tipicamente superficiali), ascessi, fistole e k
colon (rischio x30).

Ci sono tre livelli di gravità:

- Lieve: il pz ha meno di 4 evacuazioni/die, c’è poco sangue nelle feci, anemia lieve,
VES<30mm/h, aspetto eritematoso della mucosa e ridotto pattern vascolare.
- Moderato: 4-6 evacuazioni/die, sangue nelle feci moderato, febbre<37.5°C,
FC<90bpm, anemia, eritema marcato, granularità grossolana, segni vascolari assenti e
sanguinamento da contatto.
- Severo: il pz ha più di 6 evacuazioni/die, c’è parecchio sangue nelle feci, febbre,
tachicardia, anemia, VES>30m/h, sanguinamento spontaneo e ulcere.

La diagnosi viene fatta avvalendosi di diverse metodiche di imaging. In particolare, alla


rettosigmoidoscopia con biopsia si vedrà una mucosa con aspetto irregolare e
granulomatoso, la quale tende a sanguinare non appena toccata dallo strumento; avremo poi
aree ulcerate e pseudopolipi infiammatori. All’esame istologico avremo infiltrato
infiammatorio, appiattimento delle cellule della mucosa, assotigliamento della mucosa e
distorsione delle cripte. Se si fa clisma a doppio contrasto si possono vedere lesioni ulcerative
a colpo d’unghia. Si richiedono poi gli esami di laboratorio, ai quali avremo un aumento della
VES, anemia ipocromica da perdita, ipoalbuminemia, ipocalcemia, ipokaliemia da diarrea e
leucocitosi se complicanze.

Come terapia di induzione, la prima cosa che si fa è prescrivere salicilati: 3- 6 g/die di


Sulfasalazina e 1g/die di Mesalazina. Secondi gli studi che sono stati fatti, la Sulfasalazina
porta vantaggi sia sul contollo della sintomatologia, che sulla risoluzione delle lesioni
endoscopiche e radiologiche. Sul versante degli effetti collaterali, entrambi questi farmaci
possono dare cefalea, nausea, vomito, rash, pancreatite, esacerbazione paradossa (ripresa
paradossa della malattia) e nefrite interstiziale. A ciò va ad aggiungersi, per la sola
Sulfasalazina, la possibilità di avere carenza di folati, oligospermia reversibile e soppressione
midollare.

421
I pazienti che rispondo al trattamento di prima linea sono la maggior parte. In particolare,
supposte o clisteri con Salicilati inducono remissione nel 90% dei casi con proctite o
proctosigmoidite di grado lieve-moderato (quindi a livello di retto oppure retto-sigma). Per
chi rifiuta la via rettale, si può provare la somministrazione di salicilati via os (anche se la
somministrazione per bocca è meno efficace). La concomitanza di somministrazione
os+rettale dà, invece, la miglior risposta possibile, ed è dunque da utilizzare soprattutto in pz
con malattia più grave.

! I sintomi migliorano dopo qualche giorno, ma, per avere una guarigione anche della
mucosa, ci vogliono circa 6 settimane, quindi non ci si deve fermare alla remissione
sintomatologica.

Se il pz ha intolleranza ai salicilati, si devono utilizzare gli steroidi per via rettale (schiuma o
clisteri con dosaggi diversi a seconda dell’estensione delle lesioni a livello rettale). Essi,
inoltre, possono essere aggiunti alla tp in caso il pz non risponda ai Salicilati, e in questo
caso preferirò il Beclometasone per aerosol. Gli steroidi sarebbero, invece, da evitare in pz
con manifestazioni exta-intestinali perché danno maggiori effetti collaterali rispetto alla
Sulfasalazina.

Infine, in caso di quadri molto gravi con lesioni molto estese, diarrea mucosanguinolenta,
febbre e calo di peso è necessario il ricovero. Il pz deve essere idratato, si devono aggiustare
gli elettroliti e iniziare una tp con EBPM. Si inizia poi una tp con steroidi per bocca sperando
che risponda. Se dopo 3 giorni non si vedono miglioramenti si passa a immunosoppressori
come il Tacrolimus o ad anti TNF-alfa. Se funzionano, si prosegue con il farmaco che ha
dato effetti, in caso contrario si deve pensare all’intervento chirurgico, specie in caso di
lesioni localizzate, per scongiurare l’insorgenza di megacolon tossico.

Per la terapia di mantenimento, essa è quasi sempre necessaria, a meno che il pz non
presenti solo lesioni lievi del retto, poiché in questo caso si può pensare di sospendere la tp e
riprenderla solo in caso di nuove manifestazioni. Si utilizzano i salicilati, eventualmente
associati all’Azatioprina o anche all’anti-TNFα o al Vedolizumab. Per la Mesalazina bastano
3 somministrazioni alla settimana, con possibilità di via os o via rettale con lo scopo di fare
prevenzione per il cancro del colon.

Ci sono tp innovative per la RCU, tra cui abbiamo alcuni farmaci biotecnologici usati anche
nel Chron come gli anti-integrine, ma anche inibitori di JAK (Tofacitinib) o delle IL
(Ustekinumab). Sia per la RCU che per il Chron, inoltre, si sta sempre più comprendendo il
valore delle alterazioni del microbioma, motivo per cui il trapianto di feci è in corso di
studio e, per ora, ha dimostrato una remissione 5 volte più frequente rispetto al placebo.
Quello che non sappiamo sono gli intervalli di somministrazione (quanto dura questo
microbiota sano) e le metodiche di somministrazione (clisteri, sondino naso-gastrico,
colonscopia).

422
CELIACHIA
La malattia celiaca è un’enteropatia infiammatoria causata, in individui geneticamente
predisposti (HLA-DQ2/DQ8), dall’esposizione al glutine. Il glutine è la componente proteica
della farina di frumento ed è costituito da gliadine e glutenine. Simili a queste molecole sono
anche l’ordeina (orzo), la secalina (segale) e, forse, l’avevina (avena), le quali creano
reazioni crociate. Per le loro caratteristiche chimico-fisiche, glutine e prolamine sono
indigeribili da parte delle proteasi intestinali e hanno un’alta affinità per le molecole HLA
espresse sulle cellule presentati l’antigene della lamina propria. In conseguenza del legame
con queste ultime, c’è attivazione della risposta immunitaria che porta a lesioni intestinali
tramite il rilascio di citochine.

Si tratta di una patologia molto comune, con un’incidenza di 1:100-150 persone,


caratterizzata da importanti lesioni della mucosa del tenue (aumento dell’infiltrato
linfocitario, atrofia dei villi e iperplasia/ipertrofia delle cripte), le quali, estendendosi
distalmente, riducono la superficie assorbente determinando gradi variabili di
malassorbimento. Dal punto di vista clinico, possiamo distinguere tre diverse presentazioni:

1. Asintomatica: la diagnosi viene fatta per positività allo screening anticorpale in


familiari di persone affette o per l’incidentale riscontro di lesioni endoscopiche.
2. Minore: possono essere presenti dispepsia, fastidio addominale, meteorismo, astenia,
sporadiche turbe dell’alvo o sintomi extra-intestinali come anemia, ipoplasia dello
smalto dentario, osteoporosi, determatite erpetiforme, atassia, amenorrea, infertilità,
ipertransaminasemia.
3. Maggiore: ci sono franchi sintomi di malassorbimento come diarrea, steatorrea, calo
ponderale, tetania ed edemi.

Quando c’è il sospetto di celiachia, il primo passo è ricercare gli anticorpi:

- Anti-gliadina: hanno bassissima specificità e il loro uso è limitato ai bimbi con meno di
2 anni.
- Anti-endomisio
- Anti-transglutaminasi: sono i più sensibili e specifici.

Se gli ab sono positivi, si procede con una biopsia duodenale per la conferma istologica: ci
sarà un aumento dei LynT intraepiteliali, iperproliferazione delle cripte con distorsione
strutturale, atrofia dei villi e delle cellule cuboidali.

Le lesioni e, di conseguenza, i sintomi migliorano dopo esclusione del glutine dalla dieta: la
dieta priva di glutine rappresenta, pertanto, il cardine della tp e deve essere seguita in
maniera molto rigorosa e permanentemente. Nonostante le limitazioni, una dieta aglutinata,
specie se improntata al consumo di prodotti naturalmente privi di glutine, assicura un
apporto vario, bilanciato e completo di nutrienti, vitamine e minerali; nelle fasi iniziali,
tuttavia, può essere necesserio sopperire ad alcune carenze che possono manifestarsi a causa
del malassorbimento. Una scarsa aderenza alla dieta è associata ad aumentata mortalità e
morbilità: i pz potranno, infatti, sviluppare digiunoileite ulcerativa o linfomi intestinali (con
occlusioni, perforazioni ed emorragie).

423
ASMA
Si tratta di un disordine cronico infiammatorio delle vie aeree ad andamento accessuale. C’è
un’infiammazione sempre presente alla base, alla quale si sommano talvolta delle crisi,
ovvero episodi ricorrenti di costrizione toracica, sensazione di dispnea acuta, sibili e tosse
secca. In effetti, la patologia asmatica è caratterizzata da iperreattività bronchiale che porta
ad una risposta broncocostrittiva eccessiva a stimoli normali come l’esercizio fisico o l’aria
fredda e questo provoca l’insorgenza delle crisi. Le crisi insorgono soprattutto di notte o nel
primo mattino e si risolvono spontaneamente o dopo assunzione di farmaci, reliquando
talvolta una tosse stizzosa con escreato denso e viscoso.

Allo sviluppo dell’asma concorrono fattori genetici e, soprattutto, ambientali. Si tratta di una
malattia la cui prevalenza è in aumento: in Italia tra i soggetti con più di 14 anni è del 4-5%.
La mortalità è bassa ed è maggiormente imputabile ad asfissia per ostruzione respiratoria
completa; non risulta però in calo perché in Italia solo il 10-15% dei pz ha un controllo
ottimale della patologia mentre un 30-35% ha un controllo scarso e il 50% ha un controllo
buono. Può insorgere in età infantile o in età adulta, nel secondo caso è importante tenere
presente che l’asma è la più frequente malattia professionale respiratoria. Gli fdr possono
essere suddivisi in:

- Fattori dell’ospite: familiarità, ivi compresa quella per atopia (un bambino con
entrambi i genitori atopici ha il 60% di probabilità di esserlo), polimorfismi genici
(influenzano non solo il fenotipo malattia ma anche la risposta alla tp), iperreattività
bronchiale (genetica nel 5% della popolazione generale), rinite, obesità.
- Fattori ambientali: teoria dell’igiene (l’si è portato a produrre IgE e non IgG contro
patogeni), allergeni, sostanze chimiche, farmaci. Ci sono poi alcuni fattori implicati
sicuramente nelle riacutizzazioni di malattia, ma che probabilmente hanno un ruolo
anche nel suo sviluppo, ovvero le infezioni virali in età infantile, ad esempio da virus
respiratorio sinciziale, l’inquinamento e il fumo di sigaretta.

In base all’età di insorgenza distinguiamo l’asma infantile (fino ai 18 anni) da quella dell’età
adulta. L’età del soggetto al momento della comparsa di malattia si correla anche alle cause e
alla tipologia: nel bambino risulta, infatti, prevalente l’asma di tipo allergico con aumento
degli eosinofili. L’80% di chi ha un esordio in età infantile non guarisce ma continua ad avere
la patologia anche da adulto, la guarigione è più frequente nel sesso maschile.

In base ai fattori di scatenamento possiamo avere asma mestruale, da intolleranza da farmaci,


occupazionale, da esercizio fisico o allergica (quindi scatenata da allergeni).

In base ai fenotipi clinici, ovvero alla fase in cui la malattia si trova, abbiamo: asma
funzionale, asma riacutizzata o asma cronica. Quest’ultima è più grave delle precedenti
perché si ha un rimodellamento delle vie aeree dovuto alla presenza di fattori di crescita
prodotti dall’endotelio come EGF, IGF, TGFbeta e ET1. C’è attivazione dei fibroblasti e
trasformazione di una parte di essi in miofibroblasti che assumono proprietà contrattili: essi
alimentano l’infiammazione e la deposizione di collagene e facilitano la fibrosi. È importante
considerare che l’infiammazione cronica nelle piccole vie aeree si localizza a livello
dell’avventizia mentre in quelle grandi è tra epitelio e muscolatura liscia: sono dunque

424
soprattutto le piccole vie aeree che risultano essere circondate da un manicotto a occludersi
facilmente. La storia naturale della malattia contempla questo insieme di fasi.

In base all’infiltrato infiammatorio prevalente possiamo distinguere: asma paucigranulocitica,


ovvero con scarsi leucociti per ragioni dovute alla tp o alla malattia stessa, neutrofila,
neutrofila-eosinofila o eosinofila. Questa distinzione va ad individuare il fenotipo di malattia:

1. Asma eosinofila: spesso l’esordio è in età infantile, prevalentemente in soggetti atopici,


ovvero con un aumentato numero di IgE (può associarsi a dermatiti atopiche o riniti).
Tipicamente si ha una sintomatologia importante a cui non corrisponde però una
riduzione della FEV1, ovvero del volume espiratorio massimo durante il primo
secondo.
2. Asma neutrofila: è tipica dell’età adulta e si associa spesso ad obesità, fumo di
sigaretta, sleep apnea e sindrome metabolica. Si ha una riduzione della FEV1 mentre i
sintomi non sono generalmente eclatanti anche a causa del fatto che l’iperrattività
bronchiale è minore; il problema è che risponde molto peggio alla tp rispetto alla
tipologia precedente. Talvolta comunque, specie nelle donne obese, si può avere una
sintomatologia importante nonostante la scarsa infiammazione presente.

Ciò detto, l’asma è un’infiammazione cronica di tipo prevalentemente eosinofilo, orchestrata


da una cascata infiammatoria sensibile agli eosinofili. L’ostruzione è dovuta sia a contrazione
della muscolatura liscia che alla presenza di edema/essudato.

[Dal 2010 è stato sviluppato anche il concetto di endotipo che riguarda i differenti meccanismi
biologici molecolari alla base dei fenotipi. Esso è particolarmente importante perché, comprendendo i
meccanismi alla base, si può cercare di sviluppare tp sempre più efficaci. Abbiamo:

1. High Th2: dal punto di vista fisiopatologico alla base c’è un differenziamento dei lynT cd4+ in
Th2. Essi producono diverse citochine: in primo luogo IL4 recluta i lynB, i quali producono
IgE, in secondo luogo IL2 richiama i mastociti che hanno recettori ad alta affinità per le IgE e,
in seguito al legame, rilasciano sostanze presenti nei granuli e altre neoformate, tra cui
istamina e leucotrieni (attività broncocostrittrice e pro-infiammatoria); infine IL5 richiama gli
eosinofili che danneggiano l’epitelio tramite il rilascio di altre citochine e della proteina
cationica degli eosinofili. Il problema è che gli eosinofili danneggiano anche i fibroblasti che
rispondono proliferando e trasformandosi in miofibroblasti: questo è alla base del
rimodellamento tissutale. Si tratta di un’asma di tipo allergico.
2. Low Th2: si tratta sempre di un’asma di tipo eosinofilo ma alla base ci sono meccanismi
dell’immunità innata. Si hanno infatti cellule linfoidi di tipo C2 appartenenti alla famiglia degli
NK che vengono stimolate dall’epitelio danneggiato e che sono in grado di produrre IL5 e
dunque di richiamare gli eosinofili.
3. Non Th2: generalmente si avrà asma neutrofila. I lynT cd4+ si differenziano in senso Th1 e
Th17: i primi sono prevalenti e rilasciano IFNgamma e TNFalfa reclutando così neutrofili che
producono a loro volta ROS, elastasi e metallo- proteasi che danneggiano la mucosa. Nel
secondo caso si ha invece liberazione di IL17, IL21, IL22, IL26, CCL20.]

Per fare diagnosi il primo passaggio è rappresentato dalla raccolta dell’anamnesi e dalla
valutazione della presenza di fdr. È importante indagare la sintomatologia riportata dal pz dal
momento che è raro assistere ad un attacco acuto e capirne la gravità. In base poi ai fattori
scatenati a cui il pz correla le crisi si può formulare un’ipotesi eziologica: rientrano tra i fattori
scatenanti gli allergeni, alcuni farmaci, perturbazioni ormonali, esercizio fisico (in questo

425
caso aumenta la produzione di una mucina che stimola il broncospasmo)... Per quanto
riguarda i sintomi, i più comuni, come detto, sono tachipnea, fischi e sibili inspiratori,
atteggiamento iperinflativo per cercare di ridurre le resistenze (sono pz che tenderanno ad
utilizzare i muscoli ispiratori accessori per mantenere l’equilibrio a volumi maggiori) e pallore
dato dalla forte scarica di adrenalina che viene liberata perché, in quanto broncodilatatrice,
aiuta a risolvere il quadro. Il silenzio respiratorio è invece tipico dei casi molto gravi.
Esulando dall’attacco acuto il pz può talora avere tosse cronica oppure, nei casi più gravi, la
sintomatologia che teoricamente dovrebbe essere acuta è sempre presente. È comunque
sempre bene non fermarsi solo a quanto riportato dal pz ma procedere con esami strumentali
che danno risultati oggettivi.

In secondo luogo si eseguono le prove di funzionalità respiratoria, ovvero la spirometria. Si


tratta di un esame che permette di valutare la presenza di un difetto ventilatorio ostruttivo
grazie all’indice di Tiffenau (FEV1/CV) e che risulta utile, non solo per la diagnosi, ma anche
nel follow up. L’asma, almeno nella fasi iniziali, determina solamente un’ostruzione
reversibile quindi il risultato sarà generalmente negativo. In questo caso bisogna quindi
procedere con un test di broncostimolazione: esso può essere effettuato in maniera diretta,
quindi con mediatori come la metacolina (è un derivato dell’acetilcolina con emivita di 30
min che garantisce una buona possibilità di controllo) o l’istamina che stimolano
direttamente la muscolatura liscia, o in maniera indiretta, ovvero stimolando la
degranulazione delle cellule infiammatorie che a sua volta darà bronco-costrizione. Se questo
test risulta negativo si può escludere la patologia asmatica perché non esiste un asmatico che
non abbia bronco-reattività (valore predittivo negativo del 100%); il problema è che non è
vero il contrario perché una positività, ovvero una riduzione della VEMS del 20%, non è
sempre correlato alla presenza di questa patologia: è dunque un test poco specifico. Alla
somministrazione del farmaco si può costruire una curva dose risposta: la sensibilità mi
indica quanto sia la dose necessaria per avere una risposta (ovvero quanto il grafico sia
spostato verso dx o verso sx) mentre la reattività è la pendenza della curva, ovvero l’entità
della risposta, quindi della riduzione del VEMS. Nell’asma moderata, ad un certo punto,
anche aumentando la dose di farmaco, si raggiunge un plateau di risposta, mentre, nelle
forme gravi, per raggiungerlo dovrei somministrare dosi che potrebbero portare a morte il pz.
La risposta bronco-costrittiva è data dalla contrazione della muscolatura liscia, che a sua
volta dipende dalla contrattilità e dalla quantità di muscolo presente ma anche dall’elastanza
polmonare (pre- carico) e dall’interazione tra vie aeree e polmone (postcarico). A parità di
accorciamento delle fibre muscolari si devono poi considerare lo spessore della parete
bronchiale, la presenza di muco o essudato e l’edema. Se il risultato della spirometria è
positivo, il pz deve essere sottoposto a un test di reversibilità: gli si fanno fare dei puff con
Salbutamolo e si vede se i valori della spirometria eseguita nuovamente 20 minuti dopo
cambiano. Il test è considerato positivo se si ha un aumento della VEMS di almeno 12%. Una
positività alla spirometria è indice di gravità della patologia perché significa che è già
avvenuto il rimodellamento.

Dal punto di vista laboratoristico, è importante ad esempio la valutazione rast che permette
di ricercare la presenza di IgE nel siero specifiche per determinati allergeni. Si possono poi
dosare le IgE totali per capire se il soggetto è atopico. Si possono poi eseguire prove
allergologiche come il prick test che va a valutare la risposta IgE mediata a diversi allergeni. Si
possono fare bal o espettorato indotto, quest’ultimo usato però solo a fini di ricerca) e
biopsia. Alla biopsia si può notare il danno epiteliale con desquamazione e terminali nervosi
scoperti, l’ispessimento della membrana basale sub-epiteliale con fibrosi disorganizzata e

426
deposizione anomale di collagene e l’infiltrato infiammatorio con edema della sottomucosa a
livello delle grandi vie aeree e sottomucoso e periavventiziale nelle piccole. L’infiltrato può
poi essere di natura eosinofila, e in questo caso la sua entità sarà indice della gravità di
malattia, o di natura neutrofila. C’è poi un rimodellamento, indice di malattia avanzata,
dovuto all’azione di fibroblasti e miofibroblasti: si avranno metaplasia, iperplasia e ipertrofia
delle cellule muscolari lisce, delle ghiandole caliciformi mucipare e delle ghiandole mucose,
neovascolarizzazione e anomalie della deposizione di collagene. Infine, si possono applicare
metodiche di imagin e fare altri esami per ricercare patologie associate come il reflusso, la
rinite, la sleep apnea o la rinosinusite.

!Sostanzialmente la flow chart diagnostica parte dal sospetto clinico, il pz viene poi
sottoposto a spirometria: se essa rileva una sindrome ostruttiva si fa un test di reversibilità
che, se positivo, permette di fare diagnosi di asma; se non la rileva si procede con un test di
broncostimolazione che nel caso risulti positivo permette di porre diagnosi.

La terapia deve essere volta non solo al controllo dei sintomi (broncodilatatori), sia nella
frequenza che nell’entità, ma soprattutto a tenere sotto controllo l’infiammazione di base
(antiinfiammatori). Come prima cosa è importante educare il pz in modo da cercare di
evitare comportamenti potenzialmente lesivi come il fumo (indirizza la risposta in senso Th1)
o l’assunzione di FANS, nel caso in cui siano responsabili. Bisogna poi spiegare bene che la
tp non è importante solo in caso di attacco acuto: va dunque assunta anche in condizione di
apparente benessere. Per determinare l’entità della tp necessaria a raggiungere gli obiettivi
minimizzando gli effetti collaterali i pz vengono divisi in diverse classi in base alla frequenza
dei sintomi, alla comparsa di sintomi durante la notte e ai sintomi respiratori. Avremo dunque
asma remittente o asma persistente lieve, moderata o grave. Ad ogni modo è importante
ricordare che la tp è efficace nei pz con asma eosinofila, ma non lo è particolarmente in
quelli con asma neutrofila.

Tra i farmaci a disposizione si hanno i beta2-agonisti (il simpatico rilassa la muscolatura


bronchiale): in acuto si usano i SABA (Salbutamolo, Terbutalina) mentre per la tp di fondo si
usano i LABA (Salmeterolo, Formoterolo) o addirittura gli ultra LABA (Vilanterolo,
Indaceterolo). I LABA sono in grado di modulare l’infiammazione grazie alla riduzione del
rilascio di mediatori da parte di mastociti ed eosinofili, al fatto che favoriscono un aumento
del battito ciliare, riducono poi lo stravaso e il rilascio di citochine da parte dei lynT.

Sempre con funzione di broncodilatatori si possono poi usare gli anticolinergici.

Altri farmaci ampiamente utilizzati sono i cortisonici che sono in grado di andare ad inibire la
sintesi dei geni pro-infiammatori. Essi vengono somministrati per via inalatoria per
minimizzare gli effetti collaterali, solo nelle forme gravi si deve considerare l’assunzione per
os. Si possono usare, ad esempio, Budesonide, Fluticasone o Ciclesonide.

Altro farmaco possibile è la Teofillina: appartiene alla famiglia delle Metilxantine e, inibendo
l’enzima fosfodiesterasi, porta ad un aumento del cAMP. L’effetto è dunque il medesimo dei
beta2-agonisti, ma il meccanismo è differente.

Infine, specie nei bambini, possiamo usare gli antagonisti dei recettori leucotrienici
(Montelukast, Zafirlukast, Pranlukast): essi vengono assunti per os e permettono di ridurre le
dosi degli steroidi.

427
Recentemente si stanno poi sviluppando anche farmaci immunoterapici che vadano ad
inibire le varie citochine implicate: ad esempio il Mepolizumab inibisce IL5 mentre il
Pascolizumab è un anti-IL4.

Per scegliere quali prescrivere ci si può affidare alla seguente tabella:

STEP1 STEP 2 STEP 3 STEP 4 STEP 5


Prima Considerare ICS a basse ICS a basse dosi ICS a dosi
scelta ICS a basse dosi o LABA medio-alte o Immunotp
dosi LABA
ICS a dosi Aggiungere
Altre Antileucotrieni medio-alte o Tiotropio, ICS ad
opzioni ci antileucotrienici alta CS per os
+ICS a basse dose+antileucotr
dosi ienici
In acuto SABA SABA o ICS a bassa
dose/formoterolo

In caso di attacco acuto grave, evenienza comunque rara, siamo di fronte ad un’emergenza
medica potenzialmente fatale. È necessario:

1. Massimizzare la tp inalatoria sintomatica (broncodilatatore con


beta2agonista+anticolinergico, con o senza steroide), spesso data per via aersolica
fino ai dosaggi massimi consentiti e riducendola quando si assiste al miglioramento
del quadro.
2. Adrenalina 0.1-0.3mg IM in casi molto gravi
3. Steroide sistemico (per esempio 40mg/die EV di Prednisolone), fino a circa 1
settimana dopo la risoluzione del quadro.
4. Continuare la tp di fondo, aggiungendo, se necessario, un anticolinergico a lunga
durata d’azione come il Tiotropio per almeno un mese dopo la riacutizzazione.

ASMA CARDIACO
L'asma cardiaco è una situazione medica caratterizzata da respiro sibilante, tosse, respiro corto od
affanno. Tale sintomatologia è normalmente secondaria a broncospasmo in soggetti con insufficienza
cardiaca congestizia. La condizione è strettamente legata alla dispnea parossistica notturna e ad
accessi di tosse, anch'essi in particolare di notte.
L'aumento della pressione polmonare o bronchiale si associa a congestione che determina un riflesso
nervoso di broncocostrizione. Esistono inoltre altre potenziali cause di broncocostrizione: tra queste
abbiamo la riduzione delle dimensioni delle vie aeree, l'ostruzione causata dal fluido edematoso che
si raccoglie nel lume degli alveoli ed il gonfiore della mucosa bronchiale.Gli attacchi di asma cardiaco
si verificano prevalentemente nelle ore notturne, quando il paziente si trova in posizione coricata
probabilmente a causa del maggior ritorno venoso al cuore. I pazienti affetti da asma cardiaco sembra
abbiano una maggiore tendenza a sviluppare acidosi ipercapnica ed una ostruzione delle vie aeree
periferiche più grave rispetto a quelli con scompenso senza evidenza di asma. All'auscultazione del
torace non si evidenziano rumori umidi, ma prevalentemente fischi e sibili espiratori. I soggetti affetti
da asma cardiaco in genere rispondono in modo molto soddisfacente ad una terapia basata su una
combinazione di broncodilatatori e ossigeno. Da tempo è noto che imprescindibile resta il
trattamento della malattia di base, ovvero dell'insufficienza cardiaca.

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BPCO
La BPCO è una condizione morbosa estremamente diffusa. Solitamente è una patologia
dell’età avanzata e si associa a comorbidità varie, rendendo il quadro generale complesso.
Ad oggi rappresenta la quarta causa di morte, ma si stima che entro il 2020 salirà al terzo. A
livello globale si riscontra un aumento di incidenza della BPCO in quanto l’esposizione a
fattori di rischio sta aumentando. Attualmente la prevalenza è stimata intorno al 12% e i
costi che derivano dalla gestione di questa patologia sono molto ingenti: in Italia si stima che
circa il 6% della spesa del SSN seva a coprire i costi della BPCO.

Il problema è che si tratta di una patologia spesso prevenibile, trattabile, ma non guaribile.
Alla base abbiamo due patologie che comportano due tipologie diverse di difetto: l’enfisema
panlobulare da deficit genetico di alfa1-antitripsina (10%) e la bronchiolite fibrosante (90%),
la quale si sviluppa su un substrato di bronchite cronica. Quest’ultima patologia si instaura,
generalmente, in presenza di due fdr principali, ovvero il fumo di sigaretta e gli inquinanti
ambientali.

I principali meccanismi patologici sono:

- Alterata crescita del polmone;


- Accelerato declino delle funzioni respiratorie;
- Danno del polmone;
- Componente infiammatoria polmonare e sistemica.

I danni riguardano le vie respiratorie, che risultano ispessite, gli alveoli e l’intero organismo.
Ne deriva che avremo conseguenze sia cliniche che funzionali, legate a limitazioni del
flusso aereo. [L’infiammazione, l’ipossiemia che danneggia i tessuti, la riduzione dell’attività
fisica con annesso rischio CV, la malnutrizione che si associa agli stadi severi, lo
sbilanciamento del SNA in senso adrenergico e lo stress ossidativo si associano alle principali
comorbilità: disfunzionalità dei muscoli scheletrici, perdita di peso e cachessia, anemia o
policitemia, patologie CV, depressione, sindrome metabolica e neoplasie polmonari.
Generalmente i soggetti enfisematosi avranno più che altro disfunzioni scheletriche,
osteopenia ed osteoporosi, mentre i soggetti con bronchiolite avranno più frequentemente
irc, sindrome metabolica e ipertensione polmonare]

Classicamente, dal punto di vista clinico, la patologia si caratterizza per un’insufficienza


respiratoria, la quale può avere connotazioni differenti, motivo per cui si differenziano:

1. Pink puffers: prevalgono gli elementi che determinano un enfisema, perciò si


riscontrerà un aumento del volume aereo distale al bronchiolo terminale. Il soggetto è
roseo in quanto l’elevata frequenza respiratoria è in grado di mantenere dei livelli di
saturazione ancora abbastanza adeguata, tale per cui non avremo cianosi o
ipossiemia. Questi pz si presenteranno astenici e con torace a botte, respireranno poi
a labbra socchiuse per far cadere la resistenza il più prossimalmente possibile per
evitare il collasso delle vie aeree distali. Essi useranno poi la muscolatura respiratoria
accessoria.

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2. Blue bloaters: sono soggetti che si presentano cianotici (espressione dell’ipossiemia
severa) e molto gonfi. Si ha grave ipossiemia cronica che determina sia cianosi che un
aumento delle resistenze arteriose polmonari con sovraccarico del ventricolo destr: si
ha una condizione di cuore polmonare che giustifica gli edemi clinicamente evidenti.
Questo è il quadro tipici di soggetti che sviluppano BPCO a partire da una bronchite
cronica (che si diagnostica clinicamente quando c’è una tosse produttiva che perdura
per almeno tre mesi l’anno in due anni consecutivi).

Per qualsiasi pz che si presenta con dispnea, tosse più o meno produttiva, anamnesi positiva
o meno per esposizione a fattori di rischio (quali fumo sigaretta, esposizione
professionale,…), bisogna sospettare una possibile BPCO. La spirometria è un esame
fondamentale nell’iter diagnostico, in particolare, l’elemento chiave per la BPCO è diagnosi
è il riscontro di un FEV1% <0,70 (è il volume espirato massimo in 1sec in rapporto alla
capacità vitale forzata). Si fa eseguire un’inspirazione massima al pz seguita da una rapida
espirazione forzata; si calcola poi la percentuale di questo volume complessivo che è stata
espulsa nel primo secondo. Nelle malattie ostruttive, tra cui si colloca la BPCO, avremo una
riduzione della FEV1% dovuta alla maggiore resistenza delle vie aeree al flusso espiratorio

Gli obiettivi dell’inquadramento diagnostico sono:

- Stabilire qual è il livello di limitazione dei flussi aerei;


- Stabilire l’impatto della malattia sullo stato complessivo di salute del pz;
- Valutare il rischio di eventi futuri (esacerbazioni, ricoveri ospedalieri, morte,…).

Una corretta comprensione dell’impatto della BPCO sul singolo pz combina la valutazione
sintomatica con la classificazione spirometrica e/o il rischio di riacutizzazioni. I pz devono,
dunque, essere sottoposti a spirometria per determinare la gravità della limitazione del flusso
aereo, devono poi essere presi in considerazione il grado di dispnea (questionari mMRC) e/o
i sintomi (questionari CAT); infine deve essere registrata la loro storia di riacutizzazioni
moderate e gravi (compresi precedenti ricoveri):

a. Sulla base dei dati ottenuti con la spirometria il pz può essere inserito in una precisa
classe secondo la classificazione GOLD:

5. VEMS>80% predetto
6. VEMS 80-50% del predetto
430
7. VEMS 50-30% del predetto
8. VEMS <30% del predetto

b. Valutazione dell’entità dei segni e sintomi dati dalla malattia: nella valutazione
mMRC si barrano i sintomi presentati dal pz che corrispondono a diversi gradi da 0 a
4 di gravità crescente e analizzano principalmente l’associazione tra attività compiute
e comparsa della dispnea. Tuttavia, è ormai riconosciuto che l’impatto della BPCO
sui pz va oltre la semplice dispnea, per una valutazione globale dei sintomi si
consiglia quindi di utilizzare misure quali il COPD Assessment Test (CAT) e il
questionario di controllo della BPCO (CCQ). L’uso singolo o combinato dei
questionari permette di stabilire se si è in una condizione di sintomatologia modesta
(CAT<10 o mMRC 0-1) o grave.

c. Valutazione delle esacerbazioni, ovvero dei peggioramenti acuti dei sintomi


respiratori, tali da portare ad un incremento della terapia (aumento della terapia
antibiotica o aumento dell’uso di broncodilatatori o di altro tipo di terapia che
stabilmente il pz assume). Si possono avere riacutizzazioni:

- Lievi: vengono trattate solo con un aumento dei broncodilatatori a breve azione,
short acting;
- Moderate: si trattano con short acting + antibiotici + eventuali corticosteroidi per
os;
- Severe (che richiedono il ricovero ospedaliero).

Dopo aver ottenuto tutte queste informazioni, è possibile classificare il pz: il numero indica
la gravità della limitazione del flusso aereo (grado spirometrico da 1 a 4), mentre la lettera
ottenuta (gruppi A-D) fornisce informazioni sull’entità dei sintomi e sul rischio di
riacutizzazioni, che possono essere utilizzate come guida per la terapia.

Lo scopo del trattamento della BPCO è quello di ridurre i sintomi e le riacutizzazioni. Come
prima cosa è importante identificare e ridurre l’esposizione a fattori di rischio noti come il
fumo e gli inquinanti ambientali o professionali (polveri, fumi, gas...). Le modalità di
intervento non sono solo quelle farmacologiche, ma devono essere affiancate anche da
misure non farmacologiche.

TERAPIA FARMACOLOGICA DELLA BPCO STABILE


La terapia farmacologica si avvale dell’utilizzo di farmaci:

1. Broncodilatatori: sono un elemento cardine per la gestione della componente


ostruttiva di questi pz. I farmaci più utilizzati sono:

a. Beta2 agonisti a breve durata d’azione (SABA): come il Salbutamolo (Ventolin).


b. Beta2 agonisti a lunga durata d’azione (LABA)
c. Antimuscarinici a breve durata d’azione (SAMA): come l’Ipratropio Bromuro.
d. Antimuscarinici a lunga durata d’azione (LAMA): come il Glicopirronio
Bromuro, che è il farmaco più utilizzato, grazie anche al fatto che la sua lunga
durata d’azione permette una sola somministrazione giornaliera.

431
e. Aminofillina (Aminomal): ha una modalità di somministrazione diversa dagli
altri perché si trova in fiale che devono essere date lentamente per evitare
l’insorgenza di gravi aritmie.

Questi possono essere utilizzati sa soli o in associazione: in particolare, tra quelle più
utilizzate ci sono quelle con SABA e SAMA o quella tra LABA e LAMA; esistono poi
delle formulazioni in cui i broncodilatatori sono già associati ai cs.

Esistono diversi tipi di inalatori utilizzabili per la somministrazione dei farmaci.


Questi possono essere:

a. MDI: inalatori predosati (puff), sono in grado di vaporizzare il farmaco.


b. DPI: inalatori di polvere secca, sono dei liberatori di polvere secca, utili nel
caso in cui il pz abbia scarsa coordinazione, che è invece necessaria per
l’utilizzo degli MDI. Questi dispositivi hanno differenti resistenze interne;
questo significa che il paziente deve inalare profondamente e forzatamente fin
dall'inizio dell'inalazione per ricevere la dose corretta che è, di conseguenza,
dipendente dal flusso. Questo è un aspetto particolarmente importante poiché
la disaggregazione della polvere avviene all'interno dello stesso device per cui
più veloce è il flusso, migliore sarà la qualità della dose emessa.
c. SMI (Soft mist inhalers): sono dei nuovi inalatori a emissione di “nebbiolina”
sottile. A differenza degli inalatori classici (dove è presente un singolo
spruzzo), questi hanno uno spruzzo con una cinetica più graduale, che
assicura la presenza del farmaco vaporizzato per un periodo più lungo, in
modo da migliorare l’inalazione del farmaco stesso.

Studi dimostrano che questi farmaci abbiano un ruolo cardine nella gestione del pz
con BPCO e che siano in grado di prevenire, o quanto meno di ridurre, l’entità della
costrizione. Le evidenze ci dicono che:

a. Le combinazioni SABA e SAMA migliorano notevolmente la FEV1 rispetto


all’uso dei singoli farmaci. Nelle forme più lievi e meno accentuate si può
utilizzare un singolo farmaco (SABA oppure SAMA).
b. Le associazioni Long-acting LABA e LAMA portano a miglioramento della
funzione polmonare, della dispnea e riducono le riacutizzazioni.
c. I LAMA sembrerebbero avere un maggiore effetto rispetto ai LABA nel ridurre il
rischio di riacutizzazioni e in parte anche nella riduzione del rischio di ricoveri
ospedalieri.
d. Il trattamento combinato LAMA e LABA riduce notevolmente il rischio di
riacutizzazioni rispetto alla monoterapia.
e. Il tiotropio (LAMA) migliora l’efficacia della riabilitazione respiratoria
(evidenza B)
f. La teofillina ha un modesto effetto broncodilatatore nelle forme stabili e si
associa ad una modesta riduzione della sintomatologia. Perciò la sua rilevanza
terapeutica è meno rilevante rispetto a SABA o LAMA.

2. Terapia antifiammatoria: tra i farmaci più utilizzati abbiamo:

432
a. Corticosteroidi inalatori (ICS): possono essere utilizzati in associazione con
LABA per una migliore efficacia della terapia sia in termini di miglioramento
della funzione respiratoria, dello stato di salute generale e di riduzione delle
riacutizzazioni in pz affetti da BPCO abbastanza severa. La problematica
legata al loro uso regolare è quella di un aumento delle infezioni delle vie
respiratorie. La triplice terapia ICS/LAMA/LABA migliora la funzione
respiratoria e riduce le riacutizzazioni rispetto alle monoterapie ICS/LABA o
ICS/LAMA; non sempre, però, è utilizzata perché, laddove è possibile, si
preferisce controllare la malattia solo con broncodilatatori.

b. Corticosteroidi per os: non sembrano associarsi ad un beneficio maggiore


rispetto a quelli inalatori, a fronte di un aumento degli effetti collaterali. Il
passaggio ai cs per os è indicato solo in soggetti in condizioni critiche, in cui è
necessaria una risposta per poter affrontare la situazione.

c. Inibitori della fosfodiesterasi tipo 4 (PDE4): vanno riservati a pz con


bronchioliti croniche-severe e BPCO grave e con frequenti riacutizzazioni. Il
loro utilizzo è associato ad un certo miglioramento della funzione respiratoria
e una riduzione delle riacutizzazioni in pz che sono in terapia combinata
LABA/ICS (evidenza A).

d. Antibiotici: prescrivere azitromicina o eritromicina a lungo termine può ridurre


il numero di riacutizzazioni, ma questa tp va gestita con molta cautela e
riservata a pz in condizioni particolari perché vi è il rischio di creare resistenze
batteriche e effetti collaterali importanti.

e. Mucolitici (Erdosteina, Carbocisteina, N-Acetilcisteina): possono dare una


discreta riduzione delle riacutizzazioni.

f. Altri agenti anti-infiammatori: la Sinvastatina può essere utile per controllare


l’infiammazione delle placche aterosclerotiche permettendo di stabilizzarle.
Alcuni studi sembrerebbero dimostrare che può avere effetti positivi su alcuni
indicatori clinici in pz con BPCO che assumono questi farmaci per indicazione
da malattia cv e metabolica. Questa rimane comunque un’evidenza molto
marginale.

3. Altri trattamenti farmacologici:

a. In pz con enfisema polmonare si possono utilizzare farmaci che aumentini


l’azione dell’alfa1-antitripsina.
b. I farmaci antitussivi non rivestono un ruolo molto importante nel
miglioramento della sintomatologia.

NON si devono prescrivere farmaci vasodilatatori perché potrebbero addirittura peggiorare


l’ossigenazione.

Per scegliere quali tipi di farmaci prescrivere nelle determinate circostanze ci si può avvalere
delll’algoritmo valutativo ABCD che permette di collocare il pz all’interno di uno delle 4
caselle A-B-C-D e, in base a questo, le linee guida GOLD ci dicono come andrebbe trattato:
433
1. GRUPPO A (pz con pochi sintomi e poche riacutizzazioni): la tp d’attacco è con un
broncodilatatore per cercare di controllare la dispnea. Si possono utilizzare farmaci a
breve o a lunga durata d’azione, si è visto che i LAMA sembrerebbero essere un po’
più efficaci. Indubbiamente l’associazione è migliore rispetto all’uso dei singoli
farmaci, ciò detto si valuta la risposta del pz e sulla base di questo si adatta la tp.

2. GRUPPO B (pz con sintomi più marcati e poche riacutizzazioni): la terapia iniziale è
in farmaco broncodilatatore long-acting. Non vi sono evidenze di superiorità tra
LABA oppure LAMA nel miglioramento della sintomatologia; quello che deve guidare
la scelta è quello che riferisce il pz: si può iniziare con uno dei due e, se la
sintomatologia non è del tutto controllata, si può shiftare all’altro, oppure approcciare
una terapia di combinazione. !La contemporanea presenza di BPCO e di scompenso
cardiaco è molto frequente; il problema è che nel primo caso servono beta-agonisti,
nel secondo beta-bloccanti. Per ovviare a questo problema si possono adottare
diverse strategie: sostituire il β-bloccante con un calcioantagonista, si può limitare la
dose il più possibile oppure si sostituiscono i β-agonisti con farmaci anticolinergici.

3. GRUPPO C (pz che presentano riacutizzazioni ma con pochi/assenti sintomi): si


consiglia l’utilizzo di un broncodilatatore a lunga durata d’azione. In particolare, si
raccomanda di iniziare la terapia con un LAMA, in quanto sembrerebbero avere un
effetto leggermente migliore nel ridurre la frequenza delle riacutizzazioni. Se il pz
non trae il beneficio sperato è possibile aggiungere un LABA oppure sostituire il
LAMA con l’associazione LABA/ICS. Se la scelta è la seconda bisogna esercitare
cautela, sia perché lo steroide aumenta la possibilità di avere polmoniti, sia perché
può darsi che il pz abbia effettivamente una polmonite, e non una riacutizzazione, e i
cs sarebbero, dunque, dannosi.

4. GRUPPO D (pz sintomatici e con riacutizzazioni): la terapia può essere iniziata con
un LAMA; successivamente si può poi passare all’associazione LAMA/LABA. Nel caso
in cui la combinazione LAMA/LABA non sia sufficiente, si passa ad una triplice
associazione LAMA+LABA+ICS. Se anche questa risulta essere poco efficace, si può
considerare il Roflumilast in pz con FEV1<50% o una tp prolungata con Macrolidi.

TERAPIA NON FARMACOLOGICA


Rientrano in questa categoria:

1. Educazione ed autogestione del pz in modo da migliorare l’aderenza e la compliance.


2. Attività fisica: se ne raccomanda l’incremento seguendo programmi riabilitativi più o
meno strutturati
3. Vaccinazioni: soprattutto quella antinfluenzale, mentre per quella antipneumococcica
non vi sono evidenze così certe. In particolare, il vaccino antipneumococcico 23-
valente contribuisce a ridurre il rischio di polmoniti negli individui con più di 65 anni
e che abbiano una FEV1 particolarmente compromessa o comorbilità importanti.
4. Programmi di riabilitazione polmonare: sono importanti per ridurre la dispnea,
migliorare lo stato di salute del pz e la sua capacità di fare esercizio. Permette poi di
ridurre le ospedalizzazioni in pz che abbiano avuto riacutizzazioni recenti.
5. Fine vita e cure palliative: queste ultime sono molto importanti per quei pz che sono
arrivati agli stadi terminali della malattia, ovvero che abbiano sviluppato insufficienza
434
respiratoria avanzata. Si possono proporre assunzione di opdiodi che alleviano la
dispnea, tecniche di stimolazione neuromuscolare, agenti antiinfiammatori non
steroidei e i supplementi nutrizionali per aumentare la forza muscolare.
6. Supporto nutritivo
7. Ossigeno-terapia a lungo termine: è indicata in caso di PaO2<55mmHg o di
SaO2>88%; oppure anche nel caso in cui la PaO2 sia compresa tra 55 e 60mmHg o
la SaO2 sia di poco inferiore a 90%, nel caso in cui a queste condizioni si associ
ipertensione polmonare, presenza di edemi periferici suggestivi di scompenso
cardiaco o policitemia. Nei pz affetti da BPCO, comunque, bisogna tener presente
che il target è quello di avere una SaO2 di circa 90%, non si deve puntare a
percentuali superiori perché il rischio sarebbe quello di andare incontro a
compromissione respiratoria, ipercapnia e, eventualmente, coma ipercapnico. In caso
di riacutizzazioni della BPCO, si può cautamente aumentare il livello di ossigeno, ma
soprattutto è necessario ricorrere ad una ventilazione non invasiva (NIV), nel caso vi
sia una tendenza persistente alla desaturazione.

TERAPIA CHIRURGICA DELLA BPCO


È un trattamento di nicchia e per pz selezionati con grosse bolle occupanti molto spazio che
non permettono i corretti scambi alveolo-capillari. In questi pz interventi di lobectomia o di
bullectomia possono dare un importante beneficio complessivo.

RIACUTIZZAZIONI
Si tratta di un peggioramento dei segni e dei sintomi della BPCO che avviene molto
rapidamente e che indica che la tp di base non è sufficiente. Il problema è che se sono più di
due all’anno o se portano ad ospedalizzazione peggiorano notevolmente la prognosi del pz.
Possiamo avere:

1. Riacutizzazioni da cause infettive (75%): nella maggior parte dei casi sono riferibili ad
infezioni virali. Per evitarle si fa il vaccino anti-influenzale e si può decidere di fare una
tp preventiva a base di macrolidi nei mesi invernali. È importante non confondere una
riacutizzazione con un’infezione: a volte si può avere semplicemente una
sintomatologia legata al microorganismo e non a un peggioramento della BPCO.

2. Riacutizzazioni non infettive (25%): possono essere eosinofiliche ed essere dunque


controllate con gli steroidi, o dovute ad altre cause come il reflusso, la carenza di
vitamina D, la depressione…

Le riacutizzazioni sono trattate con intensificazione della tp broncodilatatrice al bisogno,


integrata se necessario con 3-10 giorni di steroidi orali o 3-10 giorni di tp antibiotica nei pz
con aumento di volume o purulenza dell’espettorato o in casi di ventilazione meccanica.
Dopo l’aumento dei broncodilatatori, e l’eventuale somministrazione di antibiotici, nel caso
in cui si sospetti eziologia batterica, si deve rivalutare: se c’è risoluzione o miglioramento dei
sintomi si continua il trattamento che va poi progressivamente scalato e poi si deve
aggiustare la tp in cronico. Al contrario, se non si riscontra un miglioramento, si danno CS
per via orale e, se neanche questi fanno effetto, il pz deve essere ricoverato. In ospedale
questi pz possono avere bisogno della NIV.

435
VERSAMENTO PLEURICO
[La pleura è una sierosa di rivestimento costituita da un foglietto viscerale adeso ai polmoni e a da
uno parietale in contatto con la faccia interna della gabbia toracica. I foglietti sono ricoperti da uno
strato di cellule mesoteliali piatte ed estese che possono acquisire anche attività fibrinolitica e
fagocitaria. Al di sotto troviamo uno strato formato da fasci di collagene paralleli e andando
ulteriormente in profondità troviamo invece una ricca componente fibroelastica. Tra i due foglietti è
presente un liquido con proprietà tensioattive simili a quelle del surfactante che permette l’adesione
tra i due e il corretto funzionamento del sistema toraco-polmonare. In effetti, la pleura, benchè non
necessaria, consente di ridurre al minimo l’energia per muovere i polmoni, pone un limite al
movimento dei polmoni all’interno della gabbia toracica e contribuisce alla deflazione polmonare. La
pleura è importante nella dinamica respiratoria perché la pressione al suo interno è più negativa
rispetto a quella a livello alveolare, il problema è che la pressione è anche più negativa rispetto a
quella dell’interstizio quindi questo facilita il passaggio di liquidi e proteine che vengono però
riassorbiti grazie ai vasi linfatici che vengono definiti stomi. Grazie a questo sistema siamo in grado di
rimuovere fino a 700 mL di liquido al giorno]

Per versamento pleurico si intende una raccolta di liquido nel cavo pleurico superiore a
quella fisiologicamente presente (10-20 mL). A seconda della causa a monte avremo
differenti tipologie di liquido impiegato.

a. Trasudato: scompenso cardiaco, cirrosi epatica, sindrome nefrosica.


b. Essudato: infezioni, neoplasie, pancreatiti, connettiviti, vasculiti, pancreatiti.
c. Emotorace: trauma toracico.
d. Chilotorace: traumi chirurgici, neoplasie.

Dal punto di vista fisiopatologico, le cause dell’accumulo di liquido sono principalmente


due:

1. Aumento della produzione di liquido oltre la capacità massima di drenaggio: ciò si


verifica quando si ha un aumento della pressione idrostatica o una riduzione di quella
oncotica a livello del microcircolo. Altri casi sono quelli legati ad un aumento della
permeabilità o al passaggio di liquido dal cavo peritoneale a quello pleurico.

2. Riduzione della portata dell’efflusso: le cause possono essere una riduzione della
pressione intrapleurica o una riduzione del drenaggio linfatico. Nel caso in cui i vasi
linfatici non riescano a contrarsi, o se sono infiltrati da un tumore oppure ancora se
sono tributari di vasi venosi con pressioni troppo elevate, essi non riescono a svolgere
la loro funzione e si ha accumulo di liquido.

In entrambi i casi si ha liquido presente dove non dovrebbe e questo porta a una retrazione
del polmone e ad un’espansione toracica. Se il versamento si verifica in un soggetto sano,
non si hanno ripercussioni respiratorie perché si abbassano sia la ventilazione che la
perfusione: il rapporto viene dunque mantenuto; nel momento in cui vado a fare una
toracentesi per rimuovere il liquido, invece, devo tenere presente che la perfusione si
ripristina prima della ventilazione e questo può portare ad un calo della saturazione.

Dal punto di vista clinico il pz si presenta generalmente con dolore toracico dovuto
all’infiammazione della pleura parietale, tosse secca per distorsione del polmone e dispnea
modesta per inefficienza meccanica dei muscoli inspiratori che si verifica perché l’espansione
436
della parete toracica li stira oltre il loro punto di lunghezza ottimale. All’EO si riscontrerà
ipomobilità dell’emitorace interessato, abolizione del FVT e ottusità basilare. Auscultando si
può percepire abolizione del mv in sede di versamento e talvolta anche soffi pleurici.
L’esame d’elezione per quanto riguarda le tecniche di imaging è l’RX: in caso di raccolte
abbondanti si noteranno opacità, mentre, in caso di versamenti modesti, il liquido per gravità
tenderà ad accumularsi nelle zone più declivi dunque in posizione ortostatica risulterà
obliterato l’angolo costo-frenico omolaterale. Perché un versamento venga considerato
clinicamente significativo, è necessario che la distanza tra polmone e gabbia toracica sia
>10mm in proiezione frontale con il soggetto in decubito laterale. La TC è utile per valutare
le raccolte saccate o quelle in sede sottopolmonare. Altri esami invasivi a cui si ricorre se non
si riesce a chiarire il caso sono l’agobiopsia pleurica, la toracoscopia (si insuffla aria nel cavo
pleurico e poi lo si osserva in endoscopia) e la broncoscopia.

La toracentesi permette un approccio sia diagnostico che terapeutico, ma viene eseguita solo
quando la distanza tra parete toracica e polmone supera i 10mm. Sul liquido raccolto si
esegue:

a. Esame macroscopico: si valuta l’aspetto, quindi il colore e la torbidità, la consistenza e


l’odore. Per quanto concerne l’aspetto, ad esempio, in caso il liquido sia emorraggico
mi farà pensare a neoplasie, traumi o embolia polmonare; se è nero si correla ad
aspergillosi, se è lattescente può essere chilotorace se non si modifica dopo
centrifugazione mentre se è del colore del cibo si deve sospettare una perforazione
esofagea. Anche la consistenza può indirizzare la diagnosi: l’empiema darà un fluido
denso, il mesotelioma un fluido viscoso mentre in caso di pleurite reumatoide sarà
fibrinoso e di un caratteristico colore giallo-verde. Infine, un odore putrido deve far
pensare ad empiema.

b. Esame chimico-fisico: permette di distinguere in base a varie caratteristiche tra


trasudato ed essudato.

Trasudato Essudato
Proteine <3 g/dL, P/S<0.5 >3 g/dL, P/S>0.5
Glucosio >60 mg/dL <60 mg/dL
LDH <200 U/L, P/S<0.6 >200 U/L, P/S>0.6
WBC <1000/mm3

i. Trasudato: si forma quando la barriera è intatta ma c’è un aumento della


pressione idrostatica o una riduzione di quella oncotica. Possono portare a
questa situazione l’insufficienza cardiaca con edema interstiziale polmonare, la
sindrome della vena cava superiore per incapacità di drenaggio del cavo
pleurico o situazioni in cui del liquido passa dal cavo peritoneale a quello
pleurico (cava inferiore ostruita, cirrosi epatica, dialisi peritoneale).
Generalmente questo tipo di versamento è bilaterale.
ii. Essudato: è il passaggio di liquidi e proteine attraverso una barriera più
permeabile del normale. L’aumento della permeabilità può essere imputato a
diverse cause a livello pleurico, polmonare o delle strutture contigue. A livello
pleurico ci possono essere infiammazioni o neoplasie con ampia produzione di
citochine. La flogosi pleurica può essere secca/fibrosa con dolore e sfregamento
pleurico; essudativo con formazione di liquido edematoso e empiema, ovvero

437
si ha una sovrainfezione del liquido. A livello polmonare ci può essere per
ragioni diverse un edema che poi può arrivare nel cavo pleurico mentre a
livello toracico ci può essere una rottura esofagea o pseudo-cisti pancreatiche.
Un caso particolare è quello della sindrome di Meigs con versamento pleurico
associato ad ascite in presenza di un tumore ovarico. A prescindere dalla
causa, un essudato si localizza principalmente in maniera monolaterale e,
essendo ricco di proteine, si riassorbe più lentamente e può anche lasciare
ispessimenti o aderenze.

c. Esame citologico: i neutrofili risultano prevalenti nelle infezioni batteriche, i linfociti


nelle neoplasie e nella tbc mentre gli eosinofili sono rari. Se i leucociti sono >50 000-
100 000 si parla di empiema. Si può poi provare ad isolare patogeni o a ricercare
cellule tumorali con immunoistochimica.

438
PNEUMOTORACE
Lo pneumotorace (PNX) è una patologia ad esordio improvviso che consiste nell'accumulo
di aria nel cavo pleurico. Quando la parete della gabbia toracica è integra, sulle superfici
esterne dei polmoni si esercita una pressione inferiore a quella atmosferica: questa differenza
di pressione contrasta la tendenza alla retroazione elastica del polmone facendo sì che
l'organo resti insufflato e disteso, senza collassare, in modo che possa svolgere la sua
funzione fisiologica. Lo pneumotorace provoca una riduzione o la scomparsa della pressione
negativa: questo non permette l'espansione del polmone, cosicché questo collabisce in
misura direttamente proporzionale alla quantità di gas penetrata nella cavità pleurica.

La morte per pneumotorace è molto rara, escludendo il caso di pneumotorace iperteso. Un


aumento significativo del rischio di morte si nota comunque nei pazienti anziani e in quelli
con pneumotorace secondario.

Dal punto di vista eziologico, possiamo distinguere:

1. Pneumotorace spontaneo primitivo: è ad eziologia sconosciuta e si verifica spesso in


assenza di malattie polmonari. Viene frequentemente riscontrato in soggetti di sesso
maschile con meno di 40 anni, alti, magri, spesso fumatori. È causato dalla rottura
spontanea di piccole bolle subpleuriche ("blebs"), localizzate agli apici polmonari.
Interessa spesso il polmone destro e ha un'alta probabilità di recidivare (50%). In
realtà, con il tempo si è visto che questa non era una spiegazione sufficiente a
spiegare tutti i casi e inoltre si è osservato che dopo rimozione di queste bolle
potevano ancora esserci delle recidive. Si è pertanto ipotizzato che lo pneumotrace
spontaneo primario possa essere causato da zone di interruzione (porosità) nello
strato pleurico, che possono facilmente rompersi.

2. Pneumotorace spontaneo secondario: nel 70% si correla a BPCO – variante


enfisematosa –, altre patologie che sono state correlate sono asma, fibrosi cistica,
tubercolosi, polmonite, fibrosi polmonare, malattie reumatologiche o neoplastiche.

3. Pneumotorace traumatico: può derivare da trauma contusivo o da un ferita


penetrante nella parete toracica. L'evento più comune è una frattura costale in cui il
moncone osseo penetra la pleura danneggiando il tessuto polmonare. Anche alcune
procedure mediche che riguardano il torace, come l'inserimento di un catetere
venoso centrale o il prelievo bioptico del tessuto polmonare, possono portare ad un
pneumotorace. C’è poi la somministrazione di ventilazione a pressione positiva, sia
meccanica che non invasiva, può provocare un barotrauma che porta ad un
pneumotorace.

Uno pneumotorace può svilupparsi solo se l'aria può entrare attraverso un danno alla parete
toracica o al polmone stesso perché, nonostante la pressione pleurica sia inferiore a quella
polmonare, i due compartimenti non sono fisiologicamente in contatto. I primi sono
solitamente evidenti, come nel caso di ferite da taglio; mentre, nel caso di problematiche a
livello polmonare, possiamo avere presenza di grosse bolle o aree necrotiche, ma nulla che si
veda dall’esterno. Generalmente quando l'aria si forma nella cavità pleurica, essa viene
gradualmente riassorbita spontaneamente; lo pneumotorace iperteso è, invece, una

439
condizione pericolosa per la vita del soggetto causata da un meccanismo a valvola che si
può venire a creare in corrispondenza della rottura del parenchima polmonare o della parete
toracica che ha causato lo pneumotorace e che consente il passaggio di aria solo verso il
cavo pleurico e non viceversa. Per questo motivo, si può verificare l'aumento della pressione
contenuta nello spazio pleurico che, oltre al collasso del polmone colpito, provoca lo
spostamento del mediastino e degli organi in esso contenuti verso il lato opposto fino a
generare l'insufficienza respiratoria e/o sintomi cardiovascolari, legati principalmente al
ridotto ritorno venoso che possono causare la morte del paziente.

La clinica varia a seconda del tipo di pneumotorace:

- Lo pneumotorace primario spontaneo (PSP) tende a verificarsi in persone giovani


senza problemi polmonari e di solito provoca segni e sintomi limitati. Il dolore toracico
e lieve dispnea sono solitamente le caratteristiche predominanti. È raro che possa
causare un pneumotorace iperteso.
- Lo pneumotorace secondario spontaneo (SSP), per definizione, si verifica in soggetti
con significative malattie polmonari sottostanti. I segni e sintomi nell'SSP tendono ad
essere più gravi rispetto a PSP. Solitamente si verifica ipossiemia che può essere
rilevata come cianosi. L'ipercapnia viene talvolta riscontrata, questa può causare
confusione e, in casi molto gravi, portare al coma. L'insorgenza improvvisa di dispnea
in una persona con BPCO, con la fibrosi cistica o altre malattie polmonari gravi,
dovrebbe dunque indurre a compiere indagini per individuare la possibilità di uno
pneumotorace.
- Lo pneumotorace traumatico può essere occulto (non evidente) in metà di questi casi
ma può ingrandirsi, soprattutto se la ventilazione meccanica si rende necessaria.

All'esame fisico i rumori respiratori udibili possono essere ridotti nel lato colpito, in parte
perché l'aria nello spazio pleurico smorza la trasmissione del suono. È importante
sottolineare che il volume dello pneumotorace può mostrare una limitata correlazione con
l'intensità dei sintomi riscontrati dalla vittima, e ci possono essere segni evidenti fisici quando
lo pneumotorace è relativamente piccolo. I risultati più comuni riscontrati nelle persone con
pneumotorace iperteso sono dolore al petto e difficoltà respiratoria, spesso con tachicardia e
tachipnea.

I sintomi di uno pneumotorace possono esser vaghi, soprattutto nei pazienti con un lieve
pneumotorace spontaneo primitivo e, quindi, una conferma della diagnosi, tramite tecniche
di imaging, può essere necessaria. Al contrario, uno pneumotorace iperteso rappresenta
un'emergenza medica e può essere necessario trattarlo prima degli approfondimenti
diagnostici, soprattutto se vi è una grave ipossia, una pressione sanguigna molto bassa, o uno
stato di coscienza alterato. Si può decidere di fare una RX in proiezione postero-anteriore e
talvolta anche laterale: si potrà osservare un eventuale spostamento del mediastino verso il
polmone sano a causa delle differenze di pressioni, ma, soprattutto, questa metodica
permette di misurare l’entità dello pneumotorace e questo ha importanti risvolti dal punto di
vista terapeutico. La TC (l’aria libera appare nera) può essere utile in alcuni casi: ad esempio,
in caso di enfisema, è possibile, per via della presenza di aree anormali del polmone come
bolle (grandi sacche piene d'aria), avere lo stesso aspetto di uno pneumotorace sulla RX, e
quindi è necessario distinguere le due patologie prima di iniziare un trattamento. Può poi
essere utile in caso di trauma se il pz non riesce a stare in piedi e, dunque, la RX non dà
informazioni. L'ecografia viene comunemente utilizzata nella valutazione di persone che

440
hanno subito traumi fisici. L'ecografia può risultare più sensibile rispetto alla RX del torace
nell'identificazione di uno pneumotorace dopo un trauma chiuso. Questa tecnica può anche
fornire una diagnosi rapida in altre situazioni di emergenza e consentire la quantificazione
della dimensione del pneumotorace.

La strategia di gestione dipende dalla gravità dei sintomi, dalla presenza di una malattia
polmonare di base, dalla dimensione stimata del pneumotorace visibile nella radiografia, e in
alcuni casi, sulle preferenze del paziente.

a. Piccoli pneumotoraci spontanei non sempre richiedono un trattamento, in quanto è


improbabile che possano provocare insufficienza respiratoria o pneumotorace iperteso
e generalmente si risolvono da soli. Questo approccio è il più appropriato se la
dimensione stimata dello pneumotorace è piccola (definita come <50% del volume
dell'emitorace), non vi è mancanza di respiro e non vi è presenza di alcuna malattia
polmonare. I tassi di riassorbimento sono compresi tra l'1,25% e il 2,2% del volume
della cavità al giorno. Ciò significa che anche un pneumotorace completo dovrebbe
risolversi spontaneamente in un periodo di circa 6 settimane.

b. Pneumotoraci secondari sono trattati in modo conservativo solo se la dimensione è


molto piccola (1 cm o meno di cavità) e vi sono limitati sintomi. il ricovero in
ospedale è generalmente raccomandato. La somministrazione di ossigeno a velocità di
flusso elevata può accelerare il riassorbimento.

c. Nel pneumotorace traumatico, solitamente viene inserito un tubo toracico. Ogni ferita
aperta del torace deve essere coperta con una chiusura ermetica, in quanto comporta
un elevato rischio di condurre ad un pneumotorace iperteso. Possibilmente si può
utilizzare una chiusura particolare, detta "medicazione Asherman", un dispositivo
appositamente progettato che aderisce alla parete toracica e, attraverso una valvola,
permette all'aria di uscire ma non di entrare nel petto.

d. Lo pneumotorace iperteso solitamente è trattato con una decompressione urgente


mediante ago che viene lasciato in sede fino a quando un tubo toracico viene inserito.

Una strategia terapeutica che può essere presa in considerazione è l’aspirazione: dopo
anestetico locale si inserisce un ago collegato ad un rubinetto a tre vie. Esso può essere utile
in caso di pneumotorace spontaneo primario molto esteso o in quello secondario di medie
dimensioni in assenza di importanti sintomi respiratori.

C’è poi il drenaggio toracico che è il trattamento iniziale definitivo di uno pneumotorace. Il
tubo di drenaggio viene tipicamente inserito in una zona sotto l'ascella chiamato "triangolo
sicuro", dove danni agli organi interni possono essere evitati. Questa zona è delimitata da
una linea orizzontale al livello del capezzolo e dai due muscoli della parete toracica (gran
dorsale e grande pettorale). Si ricorre a questa metodica se l’aspirazione con ago non ha
successo o in caso di pneumotorace iperteso: grazie alla presenza di valvole, infatti, l’aria
può uscire ma non rientrare; è comunque importante che il processo avvenga in maniera
graduale per scongiurare l’insorgenza di un epa. Se anche in questo modo non si riesce a
risolvere la situazione si deve ricorrere alla chirurgia.

441
INSUFFICIENZA RESPIRATORIA
Si definisce come l’alterazione delle pressioni parziali dei gas misurata come emogasanalisi
nel sangue arterioso. Si può quindi avere una riduzione della PaO2 fino a valori inferiori ai 60
mmHh o un aumento della PaCO2 fino a valori superiori a 44 mmHg. Nel primo caso è stato
scelto come cut off questo valore perché è quando esso viene raggiunto che si attivano i
chemocettori periferici e perché al di sotto si comincia ad avere la parte rapida della curva di
dissociazione dell’emoglobina; vanno comunque esclusi i casi i n cui sia presente un shunt
cardiaco dx-sx. Nel secondo caso vanno, invece, esclusi i casi in cui c’è una condizione di
alcalosi metabolica che viene compensata con acidosi respiratoria: serve dunque una
condizione in cui ci sia una riduzione della ventilazione alveolare. I valori fisiologici di
pressione parziale sono:

- A livello dell’arteria polmonare abbiamo una PO2 di 40 e una PCO2 di 45


- A livello della vena polmonare avremo una PO2 di 100 e una PCO2 di 40.

Il quoziente respiratorio è il rapporto tra la produzione di CO2 e il consumo di O2. Esso


fisiologicamente è di 0,85 (250 mL di O2 e 200 mL di CO2) ma è molto legato
all’alimentazione: se assumessimo esclusivamente carboidrati sarebbe uguale a 1 mentre se
mangiassimo solo grassi sarebbe di circa 0,7.

In aria arricchita di O2 si parla di insufficienza respiratoria quando il rapporto tra la pressione


e il flusso di O2 è inferiore a 300.

Le cause alla base di un’insufficienza respiratoria possono essere molteplici:

1. Diminuzione della diffusione di O2: è un difetto raro nel quale la patologia si


manifesta solo ad alte quote o mentre il soggetto svolge esercizio fisico e che è tipico
delle interstiziopatie. Normalmente l’equilibrio tra le pressioni dei gas nei capillari e
nell’aria ispirata viene raggiunto nel primo terzo dell’atto respiratorio: c’è dunque un
ampio margine che evita che la patologia si renda evidente, ma, sotto sforzo, il sangue
scorre nei capillari a velocità molto maggiori e questo non rende sufficiente il tempo a
disposizione perché avvengano gli scambi.

2. Diminuzione del rapporto ventilazione/perfusione: ci sono zone in cui ci sono zone


del polmone correttamente perfuse ma non normalmente ventilate (se c’è un
azzeramento completo siamo nell’ambito di atelettasie o versamenti alveolari
importanti come in caso di epa, polmoniti importanti o di traumi gravi mentre una
riduzione si ha nel caso di broncocostrizione con occlusione non completa delle vie
respiratorie come nel caso di asma o BPCO. Se non lo sono per nulla il rapporto è
azzerato, altrimenti è solo ridotto: nel primo caso siamo davanti a quello che viene
definito effetto shunt perchè il sangue arriva nella circolazione sistemica non
correttamente ventilato, nel secondo caso il sangue sarà invece ipossiemico. In questo
caso, specie se si ha azzeramento, anche aumentando la ventilazione nelle altre zone
non si risolve il problema perché l’emoglobina presente è già comunque
completamente satura; allo stesso modo l’ossigenotp non risulta efficace. Si parla di
insufficienza respiratoria ipossiemica. Si ha un leggero aumento della PaCO2 che
però è sufficiente per portare all’attivazione dei chemocettori centrali e in questo

442
modo viene aumentata la frequenza respiratoria e quindi la quantità di O2 che entra
nel polmone, in realtà però comunque ciò che viene corretta è l’ipercapnia mentre
rimane comunque una bassa PO2. L’ipossiemia che induce vasocostrizione
polmonare in modo da cercare di riequilibrare il rapporto ventilazione perfusione.
L’ipossia alveolare porta invece a vasocostrizione in modo da evitare che vengano
perfuse zone che comunque non sono ventilate, il problema è che a lungo termine il
meccanismo da funzionale diventerà stabile.

3. Aumento del rapporto ventilazione/perfusione: ci sono zone ventilate ma non


correttamente perfuse. Si ha quindi un aumento dello spazio morto: serve un aumento
dello sforzo ventilatorio per avere gli stessi scambi gassosi (questi pz saranno infatti
tendenzialmente dispnoici ma non ipossiemici). È una condizione tipica di chi soffre
di enfisema (in realtà in questo caso è sia ridotta la perfusione perché vengono
distrutti i capillari dei setti ma anche una riduzione della ventilazione: il rapporto è
dunque più o meno mantenuto) o di ipertensione polmonare, si verifica poi quando si
ha embolia polmonare e in questo caso la perfusione sarà uguale a zero. Si verrà a
creare ipocapnia locale e questo porta a broncocostrizione per cercare di riequilibrare
il più possibile perché si cerca di ridurre la ventilazione nelle zone poco perfuse. Per
ridurre la ventilazione si può poi andare a ridurre la quantità di surfactante prodotta in
modo da ridurre la compliance.

4. Patologie dei centri respiratori con ipoventilazione: in questo caso avremo sia ipossia
che ipercapnia.

5. Patologie neuromuscolari: come nel caso precedente l’ipossia sarà associata


all’ipercapnia. Per quanto riguarda la PaCO2 essa dipende da una parte dalla
produzione metabolica, che è molto raro sia talmente aumentata da dare problemi, e
dall’altra dalla ventilazione alveolare, ovvero dall’efficienza muscolare e dal carico
respiratorio. Una riduzione della forza della pompa muscolare può dipendere dai
farmaci (corticosterioidi assunti cronicamente per via sistemica), debolezza
muscolare, acidosi, ipomagnesemia, ipopotassiemia, bloccanti neuromuscolari,
malattie del primo o del secondo motoneurone…

6. Problemi che portano ad avere un eccessivo carico respiratorio:

a. Aumento del carico elastico polmonare come nel caso di fibrosi o


interstiziopatie
b. Aumento del carico elastico della parete: scoliosi, fratture costali, obesità
c. Aumento del carico resistivo delle vie aeree: ostruzioni (edema, secrezioni,
broncospasmo)
d. Aumento della ventilazione: alla lunga sfianca la muscolatura respiratoria.

Fisiologicamente il carico respiratorio è molto modesto i muscoli non sono sfruttati al


massimo delle loro potenzialità, se però aumenta di molto anche una muscolatura
normale fa fatica a sostenerlo.

7. Riduzione della pressione venosa di O2: se il sangue che arriva con l’arteria
polmonare ha livelli molto più bassi di O2 rispetto a quelli fisiologici anche un
polmone che funziona correttamente non sarà in grado di portare ad una normale

443
saturazione. È una condizione che si ha in caso di scompenso cardiaco con riduzione
della gittata (arriva poco sangue in periferia e viene prelevata quindi una grande quota
di O2 dal poco sangue che arriva), in caso di anemia o di pH arterioso alcalino.

TERAPIA
Il trattamento dell’insufficienza respiratoria non è causale, per cui si affianca, senza però aver
pretesa di sostituirle, alle cure indirizzate al processo morboso sottostante che l’ha
determinata. Si utilizzano ossigenotp e ventilazione meccanica, in particolare:

- L’ossigenotp è la tp per l’ipossiemia ed è indicata sempre nel caso di PaO2<55mmHg,


cutoff che sale a 60mmHg nel caso di forme acute o di sottostanti patologie
cardiache. L’O2 può essere erogato con diversi dispositivi, che possono essere distinti
in:

o Dispositivi a basso flusso (cannule nasali, maschere semplici, maschere con


reservoir)
o Dispositivi ad alto flusso (maschere Venturi, sistemi ad alto flusso ed elevata
umidificazione)

- La ventilazione meccanica è utile in caso di ipercapnia e permette di ridurre il lavoro


respiratorio, il ripristino di un miglior pattern ventilatorio e la riduzione della dispnea.
Esiste una ventilazione invasiva, applicata tramite tubo endotracheale o cannula
tracheotomica, e una non invasiva, applicata mediante dispositivi esterni che si
appoggiano sul viso o sul collo del pz. La ventilazione è indicata nel trattamento
ospedaliero dell’insufficienza respiratoria acuta, soprattutto nelle forme ipossico-
ipercapniche, e in regime domiciliare nelle forme ipossico-ipercapniche di
insufficienza respiratoria acuta.

444
PRINCIPI DI TERAPIA ANTIBIOTICA
Gli antibiotici sono farmaci prodotti da miceti, da batteri o per via sintetica che sono in grado
di inibire o distruggere i batteri. Ad oggi è quantomai fondamentale promuoverne un uso
razionale perché, da una parte il fenomeno della resistenza ha subito un’impennata e,
dall’altra, la ricerca e la commercializzazione degli antibiotici si è ridotta nettamente.

In base al meccanismo d’azione, gli antibiotici si dividono in batteriostatici e battericidi. I


primi sono in grado di determinare l’arresto della crescita dei batteri; i secondi li portano,
invece, a lisi e morte. Per quanto detto, in pz con infezioni gravi, neutropenici o con altri
deficit dell’immunità è preferibile usare quelli batterici. Negli altri casi, per scegliere quale
antibiotico usare, ci si può basare sui dati dell’antibiogramma, ma anche su una serie di
informazioni legate al pz come l’età, le comorbidità, i farmaci assunti o eventuali fenomeni
allergici pregressi. La dose deve essere rapportata al peso del pz, alla gravità dell’infezione, al
focolaio e allo stato patologico. In caso di infezioni gravi, inoltre, si deve preferire la
somministrazione EV.

PENICILLINE (BETALATTAMINE)
Ne fanno parte:

1. Gruppo benzilpenicillina
2. Penicilline antistafilococciche: Oxacillina, Meticillina (sono resistenti alle beta-
lattamasi e sono, dunque, i farmaci di scelta nel trattamento di infezioni da parte di
Stafilococchi non resistenti)
3. Aminopenicilline: Ampicillina, Amoxicillina: hanno uno spettro d’azione più ampio e
possono essere utili anche alcuni Gram– come H.Influenzae. sono, dunque, spesso
usate in caso di infezioni delle vie respiratorie, anche grazie alla sua efficacia contro gli
Pneumococchi. Sono, però, sensibili alle beta-lattamasi, motivo per cui richiedono la
concomitante somministrazione di inibitori della stessa.
4. Carbossipenicilline
5. Ureidopenicilline: Piperacillina. Presenta un eccelente attività contro le infezioni da
Pseudomonas, Klebsiella, cocchi Gram+, Lysteria e alcuni Gram–. Sono utilizzate per
il trattamento di batteriemie, polmoniti, infezioni conseguenti a ustioni e IVU.

Usi terapeutici: vedi singole classi


Effetti collaterali frequenti: ipersensibilità, diarrea, rash, colite, febbre
Effetti collaterali rari: anemia emolitica, trombocitopenia, nefrotossicità, nefriti, epatotossicità
(con inibitori delle beta lattamasi)

CEFALOSPORINE (BETALATTAMINE)
Possono essere suddivise in:

1. Prima generazione: Cefatrizina, Cefazolina. Si usano per infezioni cutanee e dei tessuti
molli da Streptococchi e Stafilococchi non resistenti alla meticillina.
2. Seconda generazione: Cefamandolo, Cefuroxime
3. Terza generazione: Ceftriaxone, Cefixime, Cefotaxime. Spesso vengono associate agli
aminoglicosidi per combatere infezioni gravi da Klebsiella, Enterobacter, Proteus e
H.Influenzae. Sono poi usati nelle meningiti e il Ceftriaxone è il farmaco di prima

445
scelta per la Gonorrea. Rispetto a quelli di prima generazione, dunque, questi farmaci
sono attivi anche sui Gram–.
4. Quarta generazione: Cefepime. C’è indicazione all’utilizzo in caso di infezioni
ospedaliere che devono essere trattate in modo empirico e nelle quali si prevede una
resistenza alle beta-lattamasi a spettro esteso.
5. Quinta generazione: Ceftarolina, Ceftobiprolo. La Cefatarolina è attiva conto Aureus
meticillino-resistente.

Usi terapeutici: vedi singole classi


Effetti collaterali frequenti: ipersensibilità, diarrea, rash, colite, febbre
Effetti collaterali rari: anemia emolitica, trombocitopenia, nefrotossicità, nefriti, epatotossicità
(con inibitori delle beta lattamasi)

CARBAPANEMI (BETALATTAMINE)
Abbiamo:

1. Imipenem
2. Meropenem

Usi terapeutici: sono attivi contro H.Influenzae, anaerobi, la maggior parte delle
Enterobacteriaceae, Pseudomonas, Stafilococchi e Streptococchi meticillino-sensibili. Il
Meropenem è usato nelle meningiti (penetra la BEE solo quando è infiammata); entrambi
vengono poi spesso usati nelle infezioni nosocomiali.
Effetti collaterali frequenti: nausea, vomito, diarrea, flebiti, febbre, convulsioni (Imipenem)
Effetti collaterali rari: coliti, depressione midollare, tossicità renale

MONOBATTAMI (BETALATTAMINE)
In questa classe rientra l’Aztreonam.

Usi terapeutici: è attivo contro alcune Enterobacteriaceae e contro lo Pseudomonas. Viene


usato principalmente per infezioni gravi da bacilli aerobi Gram–, tra cui la meningite.

INIBITORI DELLE BETA LATTAMASI


Sono il Clavulanato e il Sulbactam, i quali vengono associati a farmaci beta lattamici e ne
impediscono la degradazione da parte dei batteri che sono in grado di rompere l’anello.

AMINOGLICOSIDI
Distinguiamo:

1. Amikacina
2. Gentamicina
3. Tobramicina

Usi terapeutici: sono indicati principalmente in caso di infezioni di Gram– e sono farmaci
molto utili, il problema è che, a causa della loro potenziale tossicità, il loro utilizzo andrebbe
limitato alle infezioni gravi, in caso contrario si devono preferire antibiotici con meno effetti
collaterali. Spesso si associano ad antibiotici attivi sulla parete cellulare per coprire al meglio
il pz in caso di infezioni gravi. La Gentamicina è utile in associazioni in caso da infezioni
nosocomiali da Gram– multiresistenti e di IVU da batteri multiresistenti. La Tobramicina è

446
attiva contro lo Pseudomonas. Si somministrano per via sistemica in ambiente ospedliero per
monitorare i livelli plasmatici.
Effetti collaterali frequenti: nefrotossicità
Effetti collaterali rari: ototossicità (perdita bilaterale irreversibile dell’udito ad alte frequenze e
temporanea ipofunzionalità vestibolare), blocco neuromuscolare (può determinare paralisi
respiratoria, utile dare calcio), rash

TETRACICLINE
Rientrano in questo gruppo:

1. Doxiciclina
2. Metaciclina
3. Minociclina
4. Tetraciclina

Usi terapeutici: sono antibiotici con spettro d’azione ampio che sono in grado di agire contro
aerobi e anaerobi, Gram+ e Gram–; il loro uso è però limitato dal fatto che i microorganismi
sono, ormai, frequentemente, resistenti. Ad oggi sono considerati farmaci di prima scelta
nelle infezioni da Mycoplasmi e Chlamydia
Effetti collaterali frequenti: fototossicità, pigmentazione dei denti (bambini), vertigini
Effetti collaterali rari: intolleranza gi, vaginiti, epatiti, anemia emolitica, disturbi visivi

MACROLIDI
Abbiamo:

1. Azitromicina
2. Claritromicina
3. Eritromicina
4. Spiramicina
5. Miocamicina

Usi terapeutici: sono attivi contro i cocchi Gram+ (spesso, però, ci sono resistenze),
Chlamydia, legionella, Campylobacter e Treponemi. Sono utilizzate in caso di infezioni
respiratorie (Pneumococco, H.Influenzae, atipici, compresa la Legionella alle dosi di
500mg/die), spesso in tp empirica in associazione con batteri che possano coprire degli
ipotetici Pneumococchi resistenti, e in generale in caso di infezioni da germi atipici.
Effetti collaterali frequenti: intolleranza gi, tromboflebite (Claritromicina EV)
Effetti collaterali rari: perdita reversibile dell’udito, ipersensibilità, diarrea, aumento delle
transaminasi

(LIPO)GLICOPEPTIDI
Tra questi farmaci possiamo annoverare:

1. Vancomicina
2. Teicoplanina
3. Daptomicina
4. Telavancina

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Usi terapeutici: la Vancomicina è attiva contro la maggior parte dei germi Gram+, compresi
quelli resistenti a Penicilline e Cefalosporine. È un farmaco di scelta nelle infezioni gravi e
nelle endocarditi da Stafilococchi meticillino-resistenti, da Streptococchi o da Enterococchi.
Vanno dati in ambiente ospedaliero per monitorarne la concentrazione plasmatica: la dose
d’attacco è indipendente, dopo bisogna adattare la quantità di farmaco somministrata alla
funzionalità renale del soggetto in modo da non uscire dal range terapeutico.
Effetti collaterali (Vancomicina): nefrotossicità, ototossicità, depressione midollare, rash
Effetti collaterali (Teicoplanina): rash, trombocitopenia, eosinofilia, leucopenia, intolleranza
gi, flebiti, aumento degli enzimi epatici
Effetti collaterali (Daptomicina): aumento CPK, neuropatia, aumento transaminasi

LINCOSAMIDI
Rientrano in questa categoria:

1. Clindamicina
2. Lincomicina
3. Rifampicina

Usi terapeutici: ?
Effetti collaterali (Clindamicina): diarrea, ipersensibilità, intolleranza gi, nausea, vomito
Effetti collaterali (Rifampicina): colorazione rossa di urine, lacrime e sudore, ipersensibilità,
ittero, epatiti, soppressione midollare, aumento del metabolismo epatico

FLUOROCHINOLONI
Possono essere suddivisi in:

1. Ciprofloxacina
2. Levofloxacina
3. Ofloxacina

Usi terapeutici: sono attivi contro batteri atipici, H.Influenzae, Pseudomonas (Ciprofloxacina)
e Enterobacteriaceae. Inoltre, quelli più recenti sono attivi contro gli streptococchi. Sono usati
in caso di prostatiti, uretriti/cerviciti da Chlamydia, infezioni gi, infezioni di ossa e tessuti
molli. Talvolta possono essere usati anche in caso di polmoniti da Legionella o nosocomiali
(Ciprofloxacina)
Effetti collaterali frequenti: intolleranza gi, diarrea
Effetti collaterali rari: lesione tendinea (tendine d’Achille), epilessia nei soggetti predisposti,
lesioni vscolari a carico dei tessuti interstiziali (controindicati in caso di Marfan e di malattie
ereditarie vascolari), aumentato rischio di suicidio, insonnia, irrequietezza, colite,
soppressione midollare

SULFONAMIDI
Abbiamo il Sulfametossazolo che si somministra in associazione a Trimetoprim: in questo
modo si è in grado di agire su due tappe sequenzali nella via di una reazione enzimatica
indispensabile nei batteri.

Usi terapeutici: IVU non compliate, otiti acute, alcune infezioni gi


Effetti collaterali: citopenia (se il soggetto ha di base un deficit di acido folico), reazioni da
ipersensibilità

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POLMONITI
Si tratta di un processo infiammatorio su base infettiva caratterizzato da un accumulo di
cellule infiammatorie e di essudato a livello alveolare, interstiziale o dei bronchioli distali.
Dal punto di vista clinico vengono definite come l’insieme di segni e sintomi suggestivi per
l’età associati alla presenza di almeno un’opacità del campo polmonare alla rx torace.

L’incidenza è massima in età pediatrica e nell’anziano (secondo Romanelli l’incidenza


generale è di 12:1000): questo perché, nel primo caso la competenza del SI è bassa, mentre,
nel secondo, l’SI è senescente e, dunque, non svolge al meglio il proprio lavoro.

Dal punto di vista istopatologico e radiologico possiamo dividere le polmoniti in:

1. Lobari franche: ci sono alveoli ripieni di essudato, si parla di consolidamento.


Possono essere causate da pneumococchi, stafilococchi, streptococchi o Klebsiella.
Alla rx torace c’è opacità massiva, può poi servire fare esami microbiologici su
espettorato o su BAL. In passato si potevano distinguere diverse fasi della malattia,
chiamate settenari, che ad oggi, grazie alla tp antibiotica, è, però raro vedere. [Si
aveva una fase iniziale con febbre elevata con brivido, dolore puntorio se concomitante
interessamento pleurico, dispnea, cianosi, tosse secca e cefalea; all’esame obiettivo si
caratterizzava per ridotta motilità dell’emitorace colpito, dolorabilità, FVT normale, MV
ridotto e presenza di rantoli crepitanti in insipirazione; c’era poi un fase detta
dell’epatizzazione in cui il materiale purulento si accumulo e porta ad avere alla percussione
un suono ottuso, ciò si accompagna a febbre elevata continua, dispnea, cianosi e, talvolta,
anche da agitazione psicomotoria o delirium; infine, c’è la fase della risoluzione con
riassorbimento dell’essudato al quale si associa sfebbramento per crisi e scomparsa dei
sintomi, eccezion fatta per la tosse che tende a permanere più a lungo].

2. Interstiziali: possono essere causate da germi atipici o da virus. Dopo circa 20 giorni
di incubazione si presentano con sindrome influenzale, ovvero portano a
rinofaringite, tracheobronchite, mal di gola, mialgie, febbre serotina, cefalea e tosse
secca con espettorato denso. All’EO non ci saranno tipicamente alterazioni; al più si
potranno percepire rantoli subcrepitanti o ronchi fischianti. Per fare diagnosi ci si
avvale, dunque, dell’RX torace che evidenzia opacità disomogenee e degli esami
ematici che mostrano un rialzo degli indici di flogosi e della conta leucocitaria in
associazione ad alterazioni della formula leucocitaria. Trovare con certezza l’agente
eziologico è molto difficile, quindi generalmente si danno antibiotici ad ampio
spettro. Tra le polmoniti interstiziali rientrano poi quelle da ipersensibilità
caratterizzata da dispnea, brividi, febbre, tosse e cefalea. Si potranno, in questo caso,
avvertire rantoli crepitanti basilari e, solo raramente, il pz potrà essere cianotico. Se si
sospetta che si tratti di queste forme, è fondamentale l’anamnesi perché tipicamente si
correlano a miceti con i quali si può venire a contatto per ragioni professionali. Sono
poi in una categoria leggermente a se stante anche le polmoniti da Legionella perché
si caratterizza da sintomatologia intensa.

3. Broncopolmoniti: sono le forme più frequenti e possono essere causate da


H.Influentiae, Klebsiella, pneumococchi, stafilococchi, streptococchi e batteri
anaerobi. I germi possono arrivare a livello polmonare per via aerea, ematica o
linfatica. Questi pz avranno febbre meno elevata rispetto a quelli con polmoniti lobari

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e la salita della temperatura è generalmente graduale, c’è poi tosse insistente con
espettorato muco-purulento, dispnea e cianosi. La diagnosi viene fatta
radiograficamente perché l’EO può dare indicazioni solo in caso di infiltrato molto
consistent e che può portare a ipofonesi e FVT aumentato. Alla RX vedremo opacità
multiple di diverse dimensioni, ma non con aspetto a vetro smerigliato, cosa che,
invece, è tipica delle forme interstiziali. ! Una delle cause è l’ab ingestis (capitolo
successivo).

4. Ascesso e gangrena polmonare: sono quadri ad oggi rari perché espressione di una
polmonite non risolta adeguatamente per cure non sufficienti. Se si crea un ascesso, la
gestione terapeutica è più complessa perché, anche cambiando o iniziando una tp, è
difficile che il farmaco riesca a raggiungere l’ascesso, quindi a volte si è costretti ad
intervenire chirurgicamente. Le cause sono batteri piogeni che sono in grado di dare
un processo necrotico-suppurativo che, anche una volta che il pus viene rimosso,
lasciano una caverna (ascesso) o creano un processo putrefattivo maggiormente
esteso, spesso a causa di una co-infezione con Gram–. C’è febbre importante con
tosse, espettorato ematico, vaghi dolori al torace, vomica (svuotamente di un ascesso
in comunicazione con un bronco in conseguenza di un colpo di tosse; viene emesso
abbondante materiale putrido e fetido). All’EO si potrà percepire una zona con
ottusità sovrapposta ad una zona timpanica, ci saranno poi rantoli crepitanti a grosse
bolle con timbro metallico e soffio bronchiale con risonanza anforica. La cavità
ascessuale può essere vista con RX o TC e può essere necessario fare DD con processi
neoplastici ulcerati o suppurati oppure con un processo tubercolare.

Dal punto di vista epidemiologico, le polmoniti possono essere divise in comunitarie, ovvero
contratte da soggetti immuno-competenti in comunità, e nosocomiali ovvero tipiche di
soggetti che sono ricoverati in strutture sanitarie. Ci sono poi le polmoniti degli
immunodepressi che sono generalmente causate da microrganismi commensali o ambientali
innocui per i soggetti immunocompetenti. Questa distinzione ha risvolti molto importanti dal
punto di vista terapeutico: è necessario trattare un soggetto nelle prime otto ore perché
altrimenti si alza la mortalità, quindi gli antibiotici somministrati in prima battuta devono
essere scelti in modo empirico perché l’antibiogramma ci mette più tempo ad arrivare. Agire
in fretta è importante perché le polmoniti si associano a complicanze anche importanti:

a. Sepsi con shock settico e vasoparalisi: per evitarla do liquidi e vasocostrittori.

b. ARDS con insufficienza respiratoria acuta ipossiemica refrattaria: quando il pz è in


posizione supina o prona il liquido accumulato comprime anche gli alveoli sani con
conseguente effetto shunt, ovvero si ha perfusione ma non ventilazione. Si deve
cercare di mantenere la ventilazione stabile con tecniche che creano delle pressioni
positive durante l’ispirazioni utili perché impediscono il collasso delle vie aeree.
L’unica tp efficace è comunque trattare la causa a monte. Ad oggi muore un pz su tre,
il problema è però che anche qualora guarisca il pz avrà fibrosi. (!L’ARDS può essere
causata anche da sepsi, pancreatite, reazioni avverse a trasfusioni, inalazione di gas
irritanti o tossici).

c. Complicanze cardio-vascolari: ci sono diversi fattori che concorrono a danneggiare


questo sistema. In primo luogo siamo in una condizione ipossica, in secondo luogo
un’infiammazione sistemica può portare a riattivazione di placche aterosclerotiche, a
450
vasocostrizione (sistemica e affatica il cuore o a livello coronarico e favorisce
l’insorgenza di ischemie e infarti) e a un ambiente vascolare pro-coagulante: si ha
disfunzione endoteliale. È importante che nei pz a rischio si faccia una profilassi
antiaggregante e si continuino eventuali terapie già presenti come quelle con statine o
beta-bloccanti.

d. Disfunzione renale

POLMONITI COMUNITARIE – CAP


Rappresentano la sesta causa di morte nel mondo occidentale e la prima se si considerano
solo quelle di natura infettiva. I principali fattori di rischio per lo sviluppo di polmoniti
comunitarie sono l’età avanzata, una scarsa igiene del cavo orale con proliferazione dei
microrganismi, tp in atto con IPP che favoriscono la polmonite da aspirazione, il fumo,
l’alcolismo e la tossicodipendenza. C’è poi tutto il discorso sulla multimorbilità: sono a
rischio i pz con BPCO, neoplasie, cardiopatie croniche e patologie neurologiche.

Gli agenti eziologici principali sono lo Pneumococco, il Mycoplasma, la Clamydia e la


Legionella; sono, invece, più rari i virus (8%) e H. Influenzae. Possono, dunque, essere sia
forme di broncopolmonite che forme interstiziali, e la sintomatologia sarà diversa a seconda
dell’agente coinvolto. In generale, le cosiddette polmoniti atipiche, quindi quelle sostenute
da batteri intracellulari e da virus, tendono a dare una sintomatologia più sfumata: la febbre,
ad esempio, sarà meno alta e non accompagnata da brividi; ci sarà però sempre la tosse.
Nelle persone anziane ci può essere anche disorientamento s-t. Al contrario, nelle forme non
interstiziali, i sintomi tipici comprendono dispnea, febbre, sudorazione, astenia, mialgie e
cefalea. Anche l’obiettività è diversa: nelle broncopolmoniti avremo abolizione del MV,
comparsa del soffio bronchiale, normalmente attenuato dal filtro alveolare, FVT aumentato e
ottusità alla percussione. Nelle polmoniti atipiche, invece, l’obiettività è spesso negativa.
Agli esami ematici nelle polmoniti sostenute da Gram+ avremo un aumento degli indici di
flogosi (VES, PCR, procalcitonina) e un aumento dei neutrofili, nelle polmoniti atipiche
avremo invece una linfo-monocitosi. Le metodiche di imaging sono, comunque, sempre
fondamentali per porre diagnosi di polmonite: si possono fare RX (in posizione seduta o
eretta e possibilmente a piena inspirazione) o TC che evidenzieranno un addensamento
alveolare (epatizzazione) oppure un aspetto ground glass con reticolazione arborescente
tipica del coinvolgimento della parete alveolare. A queste indagini se ne aggiungono poi
altre che vengono fatte solo qualora la tp empirica non risulti efficace: la broncoscopia
protetta permette, sotto guida imaging, di aspirare un campione di essudato in modo da
poterlo coltivare. La valutazione dell’escreato è difficile perché si rischia di coltivare germi
che sono semplicemente normali colonizzatori: il campione viene, pertanto, considerato
idoneo solo se contiene più di 25 leucociti e meno di 10 cellule epiteliali squamose. Se si
sospetta la Legionella si possono ricercare ag specifici nelle urine, mentre, se c’è
interessamento pleurico, si può prelevare una quantità di liquido pleurico per poterlo
analizzare. Infine, se la febbre è alta durante un picco >38.5 °C si può fare un prelievo per
sviluppare un’emocultura.

È importante capire quali pz siano a rischio e dunque vadano ricoverati e quali invece
possano assumere la tp a casa. In generale si hanno criteri come la saturazione, la
leucopenia, sepsi o acidosi metabolica che sono indice di gravità assoluta, oppure per capire
cosa fare col pz esistono delle scale che permettono di decidere in maniera standardizzata se
la polmonite è grave o meno:
451
a. L’algoritmo PORT tiene conto della frequenza respiratoria (>28/min), della pressione
sanguigna (PAS<90 mmHg), della frequenza cardiaca (>100bpm), dell’eventuale
confusione mentale e dell’età del pz.

b. La scala PSI è quella maggiormente utilizzata e permette di inquadrare il pz in una


classe di rischio compresa tra 1 e 5 basandosi su un punteggio attribuito in base a
fattori demografici, alle comorbitià (neoplasie, epatopatie…), ai parametri associati
all’obiettività e agli indici di laboratorio e radiologici. Dalla classe 3 il pz deve essere
ospedalizzato.

c. Il punteggio CURB65 è più semplificato rispetto al precedente perché tiene conto di


un numero minore di criteri (ogni criterio risultato positivo conta come uno; se si
arriva a 3 la mortalità è del 20%).

i. Confusione di nuova insorgenza


ii. Urea >7 mmol/L o >43 mg/dL o BUN>19 mg/dL
iii. Respiro >30 atti al minuto
iv. Blood Pressure: PAS<90 mmHg o PAD<60 mmHg.
v. Età>65 anni

Sulla base della clinica e delle metodiche di imaging, si deve capire se si tratta di polmoniti
interstiziali o tipiche, perché il trattamento è diverso. Per esempio, se il pz ha bradicardia e
febbre potrebbe avere un’infezione da Legionella. In particolare, se c’è febbre >38.9°C e
bradicardia relativa devo escludere la legionella, quindi devo fare una valutazione
laboratoristica che, in caso ci sia infezione da parte di questo microrganismo, mostrerà
ipofosfatemia, valori elevati di ferritina, lieve e transitorio aumento delle transaminasi e
linfopenia relativa. Si può poi ricercare l’antigene urinario. Se non si verficano queste
condizioni devo considerare Mycoplasmi e Clamydiae. Se il pz ha uno sputo rossastro (non
macchiato di sangue, ma proprio colorato) è P.aeruginosa; mentre, se è verde-grigiastro e
molto puzzolente, devo pensare a Klebsiella.

Un approccio empirico all’antibiotico nei pz con CAP è il seguente:

1. Pz trattati al domicilio –> Amoxicillina (Pneumococco) o Macrolidi (atipici). Nel caso


in cui ci si trovi in un luogo con elevati tassi di resistenza ai beta lattamici, si può
propendere per Levofloxacina o una Cefalosporina.
2. Pz trattati in regime di ricovero in un reparto ordinario: Aminopenicilline con o senza
macrolidi/Cefalosporine/Levofloxacina (Legionella).
3. Pz trattati in regime di ricovero in terapia intensiva: beta lattamico+Fluorochinolone
o beta lattamico+Macrolide; se ci sono fdr per Pseudomonas si possono dare beta
lattamici+flurochinoloni attivi sullo Pseudomonas.

Nei pz che vengono trattati in regime di ricovero in terapia intensiva, in assenza di fdr per
infezione da Pseudomonas come fibrosi cistica o bronchiectasie, si possono usare
Cefalosporine di III generazione o macrolidi oppure Levofloxacina.

452
Ciò detto, è importante riconoscere quelle situazioni in cui si deve sospettare che il pz possa
avere un’infezione da patogeni multiresistenti (BPCO, insufficienza renale, svolgimento di
altre tp). Bi

Importanti sono i criteri per pensare che il paziente possa avere batteriemia: se il pz ha più di
50 anni, dolore pleuritico e PCR>22mg/dL, la probabilità che abbia batteriemia è del 49%.

Oltre agli antibiotici, può essere necessario fare una tp di supporto con O2 (Ossigenotp
tradizionale, tp ad alti flussi, CPAP o NIV); può poi essere utile modulare la risposta
immunitaria.

POLMONITI NOSOCOMIALI
Si tratta di polmoniti contratte almeno dopo 48h dal ricovero, possiamo poi ulteriormente
suddividerle in:

1. Polmoniti acquiste entro 5 giorni dal ricovero (precoci), causate principalmente da


H.Influenzae, S.Pneumoniae, MSSA.
2. Polmoniti acquisite dopo 5 giorni dal ricovero (tardive), causate principalmente da
Gram– e anaerobi, Pseudomonas, Enterobacteriaceae e MRSA.

Spesso il contagio avviene a causa del personale sanitario che non rispetta le norme
igieniche, ci sono poi vie ambientali e strumentali. In particolare: nell’areosol troviamo
aspergilli e virus, nelle acqua Pseudomonas e Legionelle, sulle superfici contaminate si
trovano stafilococchi e virus respiratorio sinciziale, nei cibi si possono trovare dei Gram-
mentre i compagni di stanza sono responsabili dei contagi di virus influenzali, Emofili e
Stafilococchi.

Queste infezioni sono particolarmente pericolose perché, da una parte i germi ospedalieri
sono sottoposti ad una maggiore pressione selettiva e, dunque, sono più spesso
multiresistenti, e d’altra parte perché i soggetti ospedalizzati sono generalmente in una
condizione di fragilità. Sulla base delle condizioni in cui l’infezione è stata acquisita,
possiamo suddividere le polmoniti nosocomiali in:

1. VAP: polmoniti associate alla ventilazione


2. NV-ICUAP: polmoniti in pz in terapia intensiva non ventilati
3. NIAP: polmoniti in pz in reparti diversi dalla terapia intensiva

I sintomi e le metodiche diagnostiche sono le medesime rispetto al gruppo precedente, ciò


che cambia è invece la tp: se la polmonite è lieve o moderata si può usare un solo
antibiotico, generalmente cefalosporine di quarta generazione per un paio di settimane; se
invece il caso è moderato-grave (esordio lento o fattori di rischio importanti associati a
sintomi che indicano compromissione dell’organismo come riduzione della PA e dell’output
urinario o aumento della frequenza respiratoria) sono richiesti almeno due antibiotici ad
esempio una penicillina o un carbapanemico associato a un chinolonico o ad un
aminoglicoside. Inoltre, se si sospetta che la polmonite possa essere sostenuta da uno
S.Aureus servono invece Vancomicina e Teicoplanina. Nel 25% l’eziologia è polimicrobica.

Una prima indicazione circa la tp volta ad orientarsi è la seguente:

453
1. Pz con NIAP grave e fdr per Pseudomonas (precedente uso di antibiotici a largo
spettro, alterazioni strutturali del polmone o gravi patologie sottostanti, tp steroidea)–>
Beta lattamici attivi sullo Pseudomonas/Cefalosporine/Carbapanemici +
Aminoglicoside/chinolonico.
2. Pz con NIAP ad insorgenza precoce –> Beta lattamici con inbitori delle beta
lattamasi/Cefalosporine di III/Chinolonici
3. Pz con fdr per legionella (esposizione a fonti d’acqua infette, precedenti epidemie
nosocomiali) –> Levofloxacina/Azitromicina
4. Pz con fdr per germi anerobi (gengiviti, parodontiti, disfagia, alterazioni dello stato di
coscienza) –> Carbapanemici/Beta lattamici con inibitori delle beta-lattamasi.
5. Pz con fdr per MRSA (CVC, colonizzazione mucosa nasale, alta prevalenza in quella
struttura) –> Vancomicina/Linezolid
6. Pz con fdr per Aspergillus (tp steroidea cronica, neutropenia, tx) –> Amfotericina
B/Voriconazolo

La durata della terapia è importante: dovrebbe essere 14 giorni, però si tende a dire che la
durata può essere ridotta a 7-10 giorni se il pz risponde bene alla terapia antibiotica
intrapresa e non ha fdr come immunodeficienza, terapia steroidea di lunga durata, polmonite
stafilococcica con formazione di cavità, fibrosi cistica… La tp antibiotica non deve essere
accorciata in caso di pz che avevano iniziato una terapia antibiotica inappropriata per il tipo
di germe che è stato individuato con la coltura; immunocompromessi; patogeni
multiresistenti come pseudomonas, acinetobacter e enterobatteriacee resistenti ai
carbapenemici.

POLMONITI DELL’IMMUNODEPRESSO
I patogeni più comuni in questo caso sono Candida, Aspergillo, CMV, Pneumocisti Jirovecii
e riattivazioni di una micobatteriosi. In questi casi riconoscere l’agente eziologico può essere
problematico e per questo si consiglia di cominciare in maniera aggressiva con due farmaci
contro i germi comuni, un antivirale (Ganciclovir) e un antimicotico (Anfotericina), in un
secondo momento si andrà poi a scalare. Per lo Pneumocistii si usa il Cotrimossazolo. Questi
pz devono essere trattati in ambienti protetti come il reparto di ematologia o quello degli
infettivi. Vengono considerati fattori che aumentano la mortalità la neutro/linfopenia,
l’aspergillosi o l’eziologia polimicrobica, infiltrati molto estesi e la necessità di ventilazione
assistita.

454
POLMONITE AB INGESTIS
La polmonite ab ingestis, detta anche polmonite da aspirazione, rappresenta oggi una
patologia piuttosto diffusa: rappresenta, infatti, il 5-15% dei casi di polmonite acquisita in
comunità (CAP). Si tratta, inoltre, di una condizione frequente anche tra i pz ospedalizzati;
non sono però presenti dati a riguardo. Nel tempo si è un po’ ridotta l’incidenza e la
mortalità, sia nei giovani che negli anziani, poiché eventi di questo tipo sono più spesso
riconosciuti e meglio gestiti. Fino a pochi anni fa, compiere una BAL per aspirare il
contenuto gastrico nelle vie aeree non si faceva, oggi avviene immediatamente. Pare che la
mortalità rimanga ancora oggi maggiore per soggetti con età superiore ai 65 anni e per pz
che non vengono assistiti in ospedali universitari, probabilmente perché il personale è meno
aggiornato. In generale, comunque, la mortalità associata alle polmoniti ab ingestis è
maggiore rispetto a quella delle altre polmoniti acquisite in comunità: si parla di un 30%,
contro circa il 12%. Inoltre, nel caso di pz con tumori di testa e collo, se si verifica dopo 2-3
anni dalla diagnosi, pare che sia un fattore prognostico negativo.

Secondo la visione tradizionale, l’isolamento di un microorganismo in seguito a


broncoscopia di un pz con ab ingestis deve essere considerato contaminante, a meno che
non sia un germe che tipicamente dà polmonite. Si riteneva, dunque, che le polmoniti
fossero chimiche, date dal materiale ingerito.

Per definire una polmonite come ab ingestis è fondamentale dimostrare che il paziente abbia
aspirato un volume relativamente ampio di materiale proveniente dal tratto gastrointestinale
superiore e che questo sia colonizzato da batteri: la visione di una mera polmonite da
irritazione chimica è, dunque, superata. Fino a poco tempo fa si rieneva che i polmoni
fossero asettici, studi recenti hanno, tuttavia, evidenziato come la normale flora del cavo
orale possa essere isolata a livello del faringe, o addirittura del parenchima polmonare, senza
che questo determini per forza un quadro clinico. Ciò avvien probabilmente a causa di
microaspirazioni che avvengono durante la notte e permettono la migrazione dei batteri.
Inoltre, nei soggetti fumatori e in quelli affetti da GERD si ha una flora ancora più ricca, pur
rimanendo nell’ambito delle condizioni fisiologiche. Ne deriva che il riscontro di batteri non
è sufficiente.

Sostanzialmente, secondo una visione più moderna delle polmoniti ab ingestis, la polmonite
sarebbe il frutto di una complessa interazione tra il microbioma delle vie aeree e la reazione
dell’ospite, che può essere più o meno intensa. Alcuni fattori esterni, come fumo o
un’immunità più o meno deficiente (HIV) sembra possano favorire questa difettosa
interazione e risposta fra ospite e microbiota. Pare, poi, che ci sia una modificazione della
flora, che deriva non solo dalla interazione fra l’ospite e microbiota, ma anche fra i singoli
microbi già presenti con quelli giunti successivamente, in seguito all’ab ingestis. Quindi, in
sostanza, si ha una migrazione/inalazione di batteri in seguito a micro-aspirazioni; quando
questi si trovano a contatto con una mucosa poco funzionale (scarse difese dell’ospite,
riflesso della tosse alterato, dispersione mucosale diretta), si determina un quadro
infiammatorio, la cui entità dipende dalla tensione di ossigeno (spesso sono batteri anaerobi),
dal pH, dalla temperatura e dall’attivazione delle cellule infiammatorie. La migrazione è
favorita da alcuni fattori, che, dunque, possono essere considerati fdr per le polmoniti ab
ingestis:

455
- Difetto nella capacità di inghiottire il contenuto alimentare e la saliva, come la disfagia,
disordini esofagei come neoplasie, restringimenti, acalasia, fistole, ostruzione
orofaringea.

- Malattie neurologiche: Parkinson, stroke, sclerosi multipla, SLA, paralisi pseudobulbare.

- Coscienza alterata per: arresto cardiaco, farmaci (sedativi, che devono, dunque, anche
per questa, ragione, essere usati con cautela; se proprio fosse necessario si possono
prescrivere alcune gocce di Alloperidolo), alcool (soprattutto se combinato con
benzodiazepine), anestetici generali, epilessie (che durante l’attacco possono facilitare
l’inalazione), overdose da droghe o farmaci.

- Fattori legati alla ventilazione meccanica (soprattutto se invasiva)

- Alterato riflesso della tosse: Parkinson, farmaci, ecc…

- Aumento di probabilità che il contenuto gastrico vada nei polmoni: SNG, GERD.
Bisogna, dunque, prestare attenzione a mettere il sondino solo quando sia necessario e,
anche in questo caso, bisogna osservare delle cautele come tenere il busto del pz
sollevato di almeno 20-30 gradi. Inoltre, bisogna sempre controllare di averlo posizionato
correttamente.

- Altre condizioni meno influenti: paralisi, anche iatrogena delle corde vocali, paralisi
gastrica (per esempio per complicanza acuta del diabete) e ascite che comprime il
diaframma e favorisce il reflusso.

! L’arresto cardiaco è una condizione fortemente predisponente perché si associa a perdita di


coscienza e spesso porta alla necessità di applicare manovre rianimatorie con compressione
sullo sterno e alla ventilazione. Coesistono, dunque, più fdr.

CLINICA E DIAGNOSI
Il quadro clinico è molto variegato, esso infatti dipenderà:

- Dalla virulenza dei batteri che hanno colonizzato le vie aeree


- Dal fatto che possa trattarsi di eventi ripetuti che vanno a sommarsi (fatto frequente
soprattutto nell’anziano).
- Dallaa sede dove avviene: è diverso che gli episodi si verifichino in casa, in ospedali
universitari o meno o in una RSA.
- Dallo stato più o meno fisiologico delle vie aeree e del parenchima polmonare: pz con
patologie polmonari avranno una compromissione respiratoria di base che renderà di più
difficile gestione una polmonite ab ingestis.

Raccogliendo l’anmnesi, l’ideale sarebbe che qualcuno assista all’aspirazione (!Se chi assiste
ne è in grado sarebbe meglio aspirare subito per abbassare il rischio di avere ab ingestis); in
realtà questo è difficile perché spesso il care giver, specie in caso di anziani, nega di averli
esposti a situazioni pericolose. Si potrebbe chiedere se il pz abbia recentemente dato segni
di disfagia.

All’EO potremo avere:


456
- Dispnea
- Sibili e rantoli diffusi, a cui a volte si associano segni di broncostenosi.
- Tachicardia: è un segno di infezione in atto importante, specie negli anziani in cui la
febbre è solo raramente presente.
- Tosse
- Insufficienza respiratoria con ipossiemia
- ARDS (16% dei casi).
- Segni di alimenti nelle vie aeree.

Per fare diagnosi ci si può poi avvalere di metodiche di imaging: la RX urgente spesso appare
falsamente normale, a meno che non sia presente materiale di grosse dimensioni. Se la
clinica è fortemente suggestiva, non si deve cambiare diagnosi solo a causa di questo
riscontro, che per altro dopo circa 48h tenderà a positivizzarsi. Si può poi fare anche una TC
che, avendo risoluzione migliore, è più facile che mostri che il pz ha una polmonite in fase
iniziale. Il colturale è utile, il problema è che i risultati arrivano dopo tempi lunghi. Spesso si
ha la presenza di batteri anaerobi, che crescono meglio dove c’è bassa tensione di O2, come
Gram+ (peptostreptoccocco), o Gram– (bacilli).

TERAPIA
Su UpToDate si può trovare una classificazione un po’ vecchia delle sindromi da
aspirazioni, che dà indicazioni su come devono essere gestiti i pz, anche sulla base
dell’eziologia (che peraltro comprende anche le forme chimiche che appena sopra ha detto
non esistere ?):

Causa Sequela polmonare Segni clinici Terapia


Dispnea, tachipnea, Ventilazione a
tachicardia; talvolta pressione positiva,
Acidi Polmonite chimica broncospasmo, cianosi fluidi EV, aspirazione
e febbre. Infiltrati alle con cannula di Mayo
basi e ipossiemia
Generalmente
Batteri orofaringei Infezione batterica insidioso; tosse, febbre, Antibiotici
escreato purulento
Dispnea acuta, cianosi Aspirazione tracheale e
Fluidi inerti (es. Ostruzione meccanica e, talvolta, apnea. C’è ventilazione a
lassativi) e riflesso con chiusura edema polmonare pressione positiva
AW alternandola con
Isoprotenerolo
Dipendono dal livello Estrazione del
Materiale particolato Ostruzione meccanica di ostruzione: si va da materiale e antibiotici
apnea acuta a tosse contro infezioni
sovrapposte

Per decidere come agire, si può seguire un algoritmo di trattamento che si basa sulla sede in
cui l’infezione è stata contratta e sulle evidenze radiologiche:

1. CAP con RX normale:

a. Se il pz ha solo un lieve malessere si può semplicemente monitorare la


situazione e somministrare antibiotici solo nel momento in cui si riscontrano

457
sintomi respiratori. Se però il pz è in tp con IPP o con anti-H2 o se c’è
ostruzione del piccolo intestino, c’è indicazione ad iniziare subito la tp
antibiotica.
b. Se il pz è in condizioni gravi, ad esempio se è intubato, la decisione deve
essere presa sulla base del risultato del BAL e generalmente non si devono
attendere più di 48-72h.

2. CAP con RX patologica:

a. Se il pz ha una dentatura non perfetta si può scegliere tra


Ampicillina/Sulbactam, Amoxicillina/Ac.Clavulanico, Carbapanemici o
Fluorochinoloni (la Muiesan non è molto a favore per via degli effetti
collaterali).
b. Se il pz ha una buona dentatura, si può usare anche il Ceftriaxone.

3. Polmoniti nosocomiali e RX normale:

a. Se il pz ha solo un lieve malessere si può semplicemente monitorare la


situazione e somministrare antibiotici solo nel momento in cui si riscontrano
sintomi respiratori. Se però il pz è in tp con IPP o con anti-H2 o se c’è
ostruzione del piccolo intestino, c’è indicazione ad iniziare subito la tp
antibiotica.
b. Se il pz è in condizioni gravi, ad esempio se è intubato, la decisione deve
essere presa sulla base del risultato del BAL e generalmente non si devono
attendere più di 48-72h.

4. Polmoniti nosocomiali con RX patologica ed elevato rischio di MDR:


Piperacillina/Tazobactam (Tazocin: 4-5g x3/die, da dimezzare se la funzionalità
renale è ridotta), Cefepime, Levofloxacina, Carpabanemi; tutti da associare ad un
Aminoglicoside o alla Colistina.

5. Polmoniti nosocomiali con RX patologica senza rischio di MDR: si può scegliere tra
Ampicillina/Sulbactam, Amoxicillina/Ac.Clavulanico, Chinolonici o Carbapanemi.

Nel caso si sospetta che ci sia un’importante componente chimica, a ciò si aggiunge
l’indicazione ad aspirare il più possibile per ridurre il danno, al mantenimeno della pervietà
delle vie aeree e ad astenersi dai CS che rischiano di portare a cronicizzazione.

PREVENZIONE
1. Se si ha a che fare con pazienti intubati con ventilazione meccanica (nei quali il
rischio di ab ingestis è alto) si può pensare una terapia antibiotica profilattica.
2. Non assumere liquidi 2h prima e cibi 8h prima di essere sottoposti ad anestesia
generale e chirurgie
3. In pz con stroke o post estubazione: valutare la disfagia.
4. Somministrare sartani per controllare la PA.
5. Se un pz ha residui di cibo, per quanto piccoli, vanno rimossi.
6. Nella gestione di pazienti in post stroke (o più banalmente che fanno uso di SNG), si
ricordi di mantenerli semisollevati con il tronco, almeno a 20-30 gradi.

458
Non ci sono ancora dati sufficienti per consigliare:

1 Clorexidina (disinfettante del cavo orale) in pz predisposti, per eliminare la possibile


causa dell’ab ingestis
2 Rieducazione funzionale della capacità di deglutizione: è sicuramente utile, non si sa
però quale sia effettivamente l’utilità nella prevenzione dell’ab ingestis.

459
TUBERCOLOSI
La tbc costituisce un importante problema di salute pubblica mondiale, sia per la sua
diffusione che per il fatto che rappresenta una delle malattie infettive con più alta mortalità.
Sebbene sia ubiquitaria, i tassi di incidenza più elevati si riscontrano nei paesi in via di
sviluppo, dove le condizioni socio-economiche disagiate e le condizioni igenico-sanitarie
precarie rappresentano fdr fondamentali per la diffusione dell’infezione.

È una malattia infettiva causata da M.Tubercolosis che viene trasmessa per via aerea da
individui malati attraverso l’emissione nell’ambiente di micobatteri con la tosse, gli starnuti e
l’eloquio; perché un individuo possa risultare infettante è, dunque, necessario che presenti il
micobatterio nelle alte vie respiratorie e che il contatto sia piuttosto stretto e prolungato.
Quando un pz naif viene a contatto con il micobatterio, solo nel 10-15% dei casi si avrà
malattia nel corso della vita, in tutti gli altri rimarrà semplicemente latente. Ne deriva che è
fondamentale distinguere l’infezione dalla malattia tubercolare: nel primo caso, infatti, siamo
in una condizione in cui non sono presenti segni clinici, batteriologici e radiologici di malattia
a fronte di una positività all’intradermoreazione di Mantoux e/o ai test basati sul rilascio di
IFNgamma. Il mantenimento di uno stato di infezione o la progressione a malattia dipendono
dal delicato equilibrio tra le difese immunitarie e l’agente infettivo. Nel caso si arrivi a
malattia conclamata, la tubercolosi potrebbe interessare qualsiasi organo, ma la forma più
frequente è sicuramente quella polmonare. Sintomi classici sono tosse, emoftoe, febbricola,
malessere generale, astenia, sudorazioni notturne e calo ponderale. Tipico è poi il riscontro
all’RX di addensamenti polmonari con possibile escavazione centrale. Per quanto riguarda le
forme extrapolmonari, le sedi maggiormente colpite in ordine di frequenza sono: linfonodi,
pleura e altre sierose, scheletro, apparato genito-urinario, apparato gi, SNC. Un quadro
paricolare, poi, è quello della tubercolosi miliare, tipica di soggetti gravemente
immunodepressi, dovuta a disseminazione ematogena dei micobatter. In generale, è possibile
l’interessamento di un singolo organo oppure di più organi con/senza coinvolgimento
polmonare: ne deriva che la sintomatologia è estremamente variabile e spesso aspecifica,
fatto che coincide inevitabilmente con un ritardo diagnostico.

Il trattamento della tbc è multifarmacologico perché la tp di combinazione permette di


prevenire, o quantomeno, ridurre l’insorgenza di resistenze e perché l’efficacia dei singoli
farmaci viene così potenziata. Secondo l’ipotesi di Mitchson, inoltre, nell’ambito di una
lesione tubercolare, riscontreremo diverse sottopopolazioni di bacilli, che quindi sono più
proni a rispondere a farmaci diversi (bacilli a rapida crescita, bacilli dormienti, bacilli in
ambiente acido e bacilli con gittate metaboliche). La tp standard prevede di somministrare
per due mesi:

1. Isoniazide (5mg/kg/die): inibisce la sintesi degli acidi micolici e ha come effetti


collaterali l’epatotossicità, la neuropatia periferica (per contrastarne la comparsa è
necessario dare contestualmente VitB6) e la comparsa di un rash.
2. Rifampicina (10mg/kg/die): inibisce la sintesi del RNA e può dare epatotossicità,
disturbi gi, colorazione arancione dei fluidi corporei; è poi un potente induttore di
CYP450.
3. Pirazinamide (20-30mg/kg/die): può dare epatotossicità, artralgie, rash, disturbi gi e
iperuricemia.
4. Etambutolo (15-20mg/kg/die): può dare neurite ottica e iperuricemia.

460
In caso di forme miliari o con interessamento di SNC o sierose si possono associare CS.

Si prosegue poi con una tp di mantenimento con solo Isoniazide e Rifampicina per un
periodo di 4-10 mesi. È obbligatorio eseguire controlli periodici fino alla conclusione della tp.

461
PLEURITI
La pleurite è un’infiammazione acuta o cronica della pleura ed è spesso espressione di insulti
virali o batterici. In particolare, spesso abbiamo Adenovirus, virus influenzali, micobatteri o
altri agenti correlati allo sviluppo di polmonite. Tra le cause non infettive che concorrono
all'infiammazione della pleura abbiamo: artrite reumatoide, embolia polmonare, LES,
malattie legate all'amianto, trauma toracico e tumore della pleura. Anche un collasso
del polmone (tipico sintomo dello pneumotorace) può favorire la comparsa di pleurite.

Dal punto di vista clinico, il pz lamenterà tipicamente dolore al petto, esacerbato da respiri
profondi e colpi di tosse. Il dolore trafittivo indotto della pleurite deriva dallo sfregamento e
dall'attrito tra polmone e polmone creatosi durante la respirazione. Malgrado non esista
alcuna relazione dimostrata tra l'insorgere della pleurite e l'attitudine tabagica, è noto che la
cosiddetta "tosse del fumatore" può aggravare il dolore al petto scatenato dall'infiammazione
della pleura. Oltre al dolore al petto, onnipresente, il pz affetto da pleurite riporta altri
prodromi come brividi, febbre, sintomi simil-influenzali, tachiacardia e respirazione rapida e
superficiale. Ci sono poi diversi sintomi associati alla causa alla base.

Normalmente, la pleurite non crea danni nel lungo termine, malgrado l'infiammazione possa
peggiorare o talvolta favorire infezioni polmonari. Tra le complicanze rare, ricordiamo la
formazione di lesioni cicatriziali (aderenze) che possono ostacolare la respirazione. In linea
di massima, è possibile affermare che le complicanze non dipendono tanto dalla pleurite in
sé, quanto piuttosto dalla causa che si pone alle origini.

Il sospetto di pleurite nasce dalla percezione di un dolore trafittivo, vivace e lancinante al


petto. Dopo l’esame obiettivo e la misurazione dei parametri del pz è possibile procedere
con metodiche strumentali:

a. Analisi del sangue: aiutano a comprendere le possibili patologie, come infezioni


batteriche, polmonite, embolia polmonare, lupus e febbre reumatica.
b. Radiografia del torace: oltre ad evidenziare cuore e polmoni, questo test è utile per
individuare possibili siti d'infezione e per accertare un eventuale collasso polmonare,
tumore e frattura delle costole (->pneumotorace). È inoltre possibile accertare un
versamento pleurico, plausibile fattore causale della pleurite.
c. Toracentesi: esame diagnostico e terapeutico che permette di ottenere un campione
di liquido accumulato nella cavità pleurica.
d. Tc: questo test è utile per mostrare eventuali accumuli di liquido nel cavo pleurico.
e. Risonanza magnetica: è in grado di evidenziare una proliferazione neoplastica od un
versamento pleurico, possibili fattori predisponenti la pleurite.
f. Analisi dell'espettorato: identifica il patogeno coinvolto nell'eventuale infezione
coinvolta nella pleurite.
g. Biopsia: esame diagnostico invasivo, utilizzato in caso di neoplasia o tubercolosi
sospette. L'esame consiste nel prelievo di un campione di pleura e nell'esame
microscopico. Permette di capire in modo semplice se si tratti di una pleurite sierosa o
fibrinosa, generalmente correlata dunque a malattie infiammatorie polmonari; una
pleurite suppurativa da disseminazione batterica o micotica verso la cavità pleurica
con raccolta di pus giallo verdastra e rischio di avere aderenze oppure ancora una
pleurite emorragica che è tipicamente associata ad interessamento neoplastico.

462
TERAPIA
In molti casi la causa è virale e la pleurite tende ad autorisolversi in pochi giorni, senza
necessariamente ricorrere a farmaci o cure specifiche.

In caso di accertata pleurite batterica, il trattamento d'elezione è costituito dagli antibiotici,


come Amoxicillina e Moxifloxacina. Per alleviare il dolore durante la respirazione sono
disponibili sussidi terapeutici (FANS), mentre gli antitussivi (in particolare la Codeina) sono
indicati per alleviare la tosse che peggiora il dolore. Anche i cortisonici si rivelano
particolarmente adatti per alleviare l'infiammazione pleurica grave. In caso di versamento
pleurico, si consiglia di procedere con la toracentesi che, oltre ad essere un valido esame
diagnostico, si rivela un ottimo intervento terapico per evacuare il liquido pleurico e
restringere così i tempi di guarigione della pleurite.

463
ENDOCARDITI
Si tratta di un’infiammazione dell’endocardio che riconosce nella maggior parte dei casi
un’eziologia infettiva (spesso batteri, raramente miceti), mentre più raramente può essere
dovuta a processi autoimmuni o ad un insieme di cause. In quest’ultimo gruppo si inserisce
l’endocardite di Loeffler che è una cardiomiopatia restrittiva rara, caratterizzata da
ipereosinofilia e ispessimento fibroso dell’endocardio associato a trombi di solito estesi sulle
pareti ventricolari che possono portare a complicazioni cardiovascolari. Si manifesta con
edema, affaticamento e respiro corto. Generalmente è secondaria ad un danno tissutale
correlato agli eosinofili.

ENDOCARDITI INFETTIVE
È una condizione che sta aumentando nonostante la prevalenza resti bassa; in Europa si
hanno, infatti, 1,7-6,2 casi ogni 100 000 abitanti. È più frequente nel sesso maschile,
eccezion fatta per la fascia di età al di sopra dei 95 anni e il picco di incidenza si ha tra i 45
e i 75 anni.

Fattori predisponenti:

- Generali: emodialisi, ct intravenosa, soggiorno in strutture ospedaliere, scarsa igiene


dentale e situazioni che aumentano in modo generico il rischio infettivo (DM, HIV e
immunodepressione).
! In soggetti a rischio prima di effettuare procedure laringoiatriche o broncoscopiche,
nonostante non vi sia un’efficacia provata, è raccomandata una profilassi antibiotica.

- Locali: presenza di protesi (se compare entro un anno si parla di forme precoci che
hanno una prevalenza dell’1%, altrimenti si parlerà di forme tardive), prolasso
valvolare mitralico, valvulopatie e cardiopatie congenite.

Il batterio si deposita sulla superficie endocardica e replica protetto dal deposito di fibrina
che lo difende dal sistema immunitario e dagli antibiotici. Le sedi più colpite sono le valvole
sx (specie se c’è malattia valvolare, ricoprono il 20-25% dei casi), le valvole dx
(tossicodipendenti) oppure possono esserci interessamenti anche delle valvole protesiche
(25%) o dei dispositivi presenti all’interno del cuore come cateteri, pm o defibrillatori (15%).
Nei casi che colpiscono le valvole fisiologiche, alla base c’è il fatto che si tratta di zone in
cui il flusso è fisiologicamente più turbolento e questo favorisce danni endoteliali che
risultano predisponenti; tant’è vero che lo stesso si può dire anche per altre sedi meno
frequentemente colpite come i setti o le corde tendinee. Nel caso, invece, in cui siano
presenti dispositivi non nativi, essi facilitano la formazione di un biofilm sulla loro superficie.
In tutti i casi comunque si ha la formazione di vegetazioni, ovvero accumuli di
microrganismi, piastrine, fibrina e cellule infiammatorie.

Si possono distinguere:

1. Forme acute: sono dovute a patogeni molto aggressivi come lo S.Aureus. Hanno
decorso rapido e sono rapidamente fatali: anche se trattate la mortalità è del 50%.
2. Forme subacute: sono causata da microrganismi meno invasivi e virulenti come lo
Streptococcus Viridans o gli enterococchi. Essi sono in grado di attecchire solo in

464
presenza di valvole già compromesse e possono permanere anche per mesi o anni
senza causare particolari problematiche.

Il problema principale è che dalle vegetazioni si possono staccare dei frammenti che danno
embolia settica. Questo fenomeno può interessare molti distretti, tra cui l’encefalo (con
ascesso spesso mortale), la retina, la cute e il rene, ed è tipico solo delle forme acute. Ci
possono poi essere patologie causate dall’accumulo di immunocomplessi come le
glomerulonefriti o le poliartromialgie, oppure si possono avere fistolizzazioni tra le camere
cardiache o, talvolta, anche formazione di pseudoaneurismi o aneurismi per rottura della
parete. Infine, quando sono colpite le valvole, si può avere insufficienza acuta delle stesse.

Clinicamente si riscontrano sia manifestazioni legate al fatto che si è in una condizione di


infiammazione sistemica, che manifestazioni d’organo. Tra le prime si possono annoverare
febbre, brividi, malessere, astenia, calo ponderale... Le seconde, oltre alla sintomatologia
cardiaca che comprende possibilità di avere scompenso acuto, insufficienza valvolare acuta
o distacco di protesi, sono costituite anche da segni e sintomi dovuti all’interessamento di
organi a distanza. Ad esempio, a livello cutaneo possono comparire petecchie, emorragie a
scheggia subungueali o altre manifestazioni dovute a fenomeni tromboembolici; a livello
cerebrale si possono avere embolie o ascessi, mentre, a livello oculare, si potrà avere
emorragia retinica (macchie di Roth con un centro pallido formato dai coaguli di fibrina) o
cecità. La presenza di questi sintomi deve portare ad avere il dubbio che possa trattarsi di
endocardite, specie se si associano a soffio cardiaco neoinsorto, alla presenza di embolie di
origine sconosciuta e ad un quadro settico. Ci sono poi notizie raccolte con l’anamnesi che
possono far propendere per questo tipo di diagnosi: presenza di materiale protesico, storia di
endocarditi pregresse o valvulopatie sono infatti condizioni predisponenti. La conferma si ha
però solo con le metodiche di imaging e con le emoculture.

Secondo i criteri di Duke, possono essere considerati come criteri maggiori:

1. La presenza in almeno due colture separate di germi tipici: S.Viridans, S. Bovis,


HACEK (Haemophilus, Aggregatibacter, Cardiobacterium, Eikenella, Kingella) o
S.Aureus.
2. La positività all’esame ecocardiografico per la presenza di vegetazioni (quest’ultima
metodica può essere svolta transtoracica o, se ci sono protesi e/o dispositivi, se non è
diagnostica o se è negativa ma rimane un forte sospetto, si può fare anche
transesofagea. All’ecocardiografia si vedranno le vegetazioni come masse
intracardiache oscillanti ancorate e talvolta si possono vedere anche ascessi o
pseudoaneurismi. Se viene colpita una valvola protesica ci possono poi essere anche
deiscenze con rigurgito paravalvolare).
3. Insufficienza valvolare di nuova insorgenza (?Solo secondo Romanelli)

Ci sono poi altre metodiche di imaging, come la scintigrafia (ipercaptazione) o la rmn


cardiaca. In realtà, l’eccessiva sensibilità delle metodiche non è sempre un bene perché
potrebbero esserci falsi positivi: si potranno ad esempio vedere masse che somigliano a delle
vegetazioni, ma che sono in realtà solo il segno di un’endocardite pregressa (esito fibrotico).

Vengono considerati criteri minori per la diagnosi:

1. Il fatto che il soggetto venga considerato a rischio


465
2. Una temperatura corporea >38°
3. La presenza di fenomeni vascolari o immunologici
4. Il riscontro di emorragie intracraniche o connettivali.
5. Emocoltura positiva, ma che non soddisfa i punti richiesti per essere un criterio
maggiore

La diagnosi può essere posta se sono presenti entrambi i criteri maggiori, se c’è un criterio
maggiore e 3 minori o se ce ne sono 5 minori.

Oltre che dare farmaci per risolvere il quadro infiammatorio è importante anche la
prevenzione. Si utilizza, infatti, una profilassi antibiotica nel caso in cui soggetti ad alto
rischio si sottopongano a procedure invasive che possono comportare una batteriemia: si
somministra 2g di Amoxicillina o Ampicillina 30-60min prima della procedura; in caso di
allergia si da la Clindamicina (600mg).

Per quanto riguarda invece la tp che si deve instaurare in seguito a diagnosi di endocardite,
inizialmente se ne imposta una generica in attesa dei risultati degli esami microbiologici. Un
primo aiuto per decidere il tipo di tp è se il pz presenta una protesi o meno:

- Endocardite su protesi: 15mg/kg/ev di Vancomicina x2, 300-400mg x3/die di


Rifampicina per os o 1mg/kg EV di Gentamicina x3.
- Endocardite su valvola nativa: 15mg/kg/ev di Vancomicina x2 o 1mg/kg EV di
Gentamicina x3.

Una volta ottenuti i risultati [secondo Metra], si fa una terapia empirica basata sulla tipologica
del batterio:

- Se è un gram– si utilizzano Ampicillina+Floxacillina o Oxacillina+Gentamicina


- Se è un gram+ si usano Vancomicina+Gentamicina.

! Sulle domande doce do rocprdare o Carbapanemi

Si deve poi fare tp anticoagulante o, nel caso di pz ad alto rischio di sanguinamento, con
EBPM per 1-2 settimane. Se è presente un’emorragia intracranica e c’è una protesi
meccanica si deve dare eparina non frazionata.

Le indicazioni a tp chirurgica comprendono:

Valvola nativa: Valvola protesica:

1. Scompenso 1. Valvola di recente posizionamento


2. Febbre e batteriemia persistente 2. Disfunzione protesica
dopo 7-10 giorni di tp antibiotica emodinamicamente significativa
3. Estensione perivalvolare 3. Ostruzione
4. Grave ostruzione valvolare 4. Estensione perivalvolare
5. Vegetazione mobile e >10mm o 5. Febbre o batteriemia dopo 7-10
che aumenta giorni di tp anbiotica
6. Embolia ricorrente nonostante 6. Embolizzazione ricorrento
l’antibiotico nonostante antibiotico
466
Se c’è un interessamento dei devices intracardiaci essi devono essere rimossi in toto. Se, ad
esempio, si tratta di un pm e il soggetto ne avesse bisogno si può fare un pacing temporaneo
oppure si può somministrare isoprotenerolo che è un antiaritmico.

Se il pz viene trattato, le endocarditi possono andare incontro a risoluzione mentre, specie le


forme acute, se non curate, portano il pz a morte per scompenso cardiaco o come
conseguenza dell’embolia settica. Devono essere considerati fattori prognostici negativi:

1. L’età avanzata
2. L’endocardite su protesi
3. La presenza di comorbidità, specie cardiache
4. L’insufficienza renale
5. Lo shock settico
6. Segni di scompenso cardiaco
7. Vegetazioni ampie
MIOCARDITI
Si tratta di una patologia infiammatoria del miocardio spesso causata da virus (Adenovirus,
Arbovirus, Coxsackievirus), più raramente da batteri o miceti. Generalmente si hanno forme
acute, le quali possono però cronicizzare e, nel tempo, dare cardiopatia dilatativa.

A seguito dell’infezione i pz possono essere sintomatici o completamente asintomatici. Il


problema è che, anche in questo secondo caso, non tutti vanno incontro a risoluzione ma si
può avere evoluzione verso la cardiopatia dilatativa. I pz sintomatici avranno, invece, una
sintomatologia legata allo scompenso con presentazione fulminante o progressiva. Per
quanto riguarda le forme virali, inizialmente il virus è in grado di determinare un danno
diretto con morte dei miocardiociti; in un secondo momento esso esprimerà degli antigeni
sulla superficie delle cellule e dunque queste ultime verranno attaccate dal sistema
immunitario che si rende responsabile del danno. Si può poi talvolta aggiungere una terza
fase caratterizzata da fenomeni di autoimmunità. Il risultato di questi processi è la
sostituzione delle cellule miocardiche attraverso la fibrosi: si ha, dunque, una situazione
simile a quella dell’IMA. Ciò che cambia sono, però, le sedi coinvolte: le miocarditi sono
generalmente intramiocardiche o subepicardiche mentre gli ima sono generalmente
transmurali.

Tipicamente il pz riferirà sintomi aspecifici tipici degli stati di infiammazione generalizzata


associati a dolore toracico, tachicardia, dispnea e possibili embolie. All’eo si potrà
apprezzare un ritmo di galoppo mentre con ECG si possono avere alterazioni del tratto ST (-
>miocardiociti morti). Si possono poi fare esami biochimici con i quali si può apprezzare un
rialzo delle CKmb e delle troponine oltre a un rialzo degli indici di flogosi. Le metodiche di
imaging più utilizzate sono l’ecocardiogramma, che evidenzia eventuali disfunzioni cinetiche
e trombi, e la RMN cardiaca con la quale le zone infiammate appariranno ipercaptanti. In
alcuni casi si può decidere di completare l’iter diagnostico con una biopsia: essa è comoda
perché permette di individuare il virus responsabile e di fare diagnosi di certezza quando i
criteri di Dallas sono soddisfatti (ovvero quando sullo stesso vetrino sono presenti sia necrosi
che leucociti), il problema è che non sempre si riesce a prelevare la porzione interessata
quindi ci possono essere falsi negativi.

Le principali forme di miocardite sono:

1. Fulminante: è una forma grave a prognosi infausta a breve termine. Provoca, infatti,
uno scompenso cardiaco acuto importante, tale da richiedere un supporto meccanico
alla circolazione o la contropulsazione aortica. Se, però, il pz supera le prime 2
settimane c’è la possibilità di avere un ripristino delle condizioni basali. All’ecocardio
si potrà notare ipocinesia diffusa del vs e pareti inspessite a causa dell’edema.

2. Cronica attiva: si ha nel caso in cui si sviluppi autoimmunità.

3. Eosinofila: è una forma grave e rara dovuta a ipersensibilità a farmaci (antipsicotici,


antibiotici, vaccini) nell’ambito di un’ipereosinofilia. È il caso della sindrome
eosinofila, della sindrome di Churg-Strauss, di alcuni tumori maligni o delle infezioni
da protozoi. Richiede una tp cortisonica.

468
4. A cellule giganti: si tratta di una forma molto aggressiva che, se non trattata, può
portare a morte il pz entro sei mesi. Deve essere diagnosticata rapidamente, anche
ricorrendo alla biopsia. Oltre allo scompenso cardiaco, anche tale da richiedere
trapianto cardiaco o assistenza cardiaca meccanica, può portare anche all’insorgenza
di aritmie ventricolari o BAV. Spesso si riscontra nell’ambito di patologie autoimmuni
come il morbo di Chron.

5. Associata a sarcoidosi: risponde poco alle tp.

469
PERICARDITI
[I foglietti pericardici, il viscerale e il parietale, contengono fisiologicamente una minima
quantità di liquido (50mL) e hanno sia la funzione di proteggere il cuore e di evitare l’attrito
che di trasmettere le variazioni pressorie in modo da facilitare il riempimento cardiaco in fase
diastolica. In effetti, esse sono in continuità con lo spazio pleurico: in ispirazione si ha una
pressione negativa che viene trasmessa anche allo spazio pericardico]

Si tratta di infiammazioni del pericardio che vengono divise dalla ESC in:

- Acute: hanno durata massima di 4-6 settimane e tendono a recidivare.


- Incessanti: durano da 6 settimane a 3 mesi
- Croniche: durano più di 3 mesi
- Ricorrenti: si hanno intervalli liberi da malattia che durano 4-6 settimane.

Dal punto di vista eziologico, ad eccezione dei casi in cui si hanno forme definite
idiopatiche (non si riesce a stabilire la causa perché gli esami di laboratorio non vengono
eseguiti o vengono richiesti troppo tardivamente, si presuppone comunque che la causa sia
di natura virale o immunomediata), possiamo avere forme:

1. Virali: Coxsachievirus, HIV, Adenovirus, EBV, HBV, VZV, CMV o virus influenzali…
2. Batteriche: TBC, stafilococco, streptococco, H. Influenzae, Neisserie, Chlamydia,
Legionella…
3. Micotiche: prevalentemente Aspergilli e Istoplasmi.
4. Da patologie autoimmuni
5. Immuni
6. Post-traumatiche
7. Post miocardite
8. Neoplastiche
9. Post-ischemiche
10. Attiniche
11. Da farmaci
12. Correlate ad altre patologie come l’ipotiroidismo o l’insufficienza renale (pericardite
uremica).

Per fare diagnosi, come prima cosa è importante una corretta raccolta anamnestica perché
non sempre gli esami strumentali sono positivi e perché la diagnosi di pericardite è clinica. Il
pz riferirà un dolore diffuso che interessa tutta la zona precordiale e che avrà le
caratteristiche di essere prolungato, di non insorgere a seguito di uno sforzo e di venire
accentuato con l’inspirazione profonda, con la tosse, in posizione supina (aumenta il ritorno
venoso quindi si distendono le cavità cardiache e il pericardio di conseguenza) e in decubito
laterale sinistro. La posizione antalgica tipica di questi soggetti sarà seduti con il torace in
avanti perché in questo modo i foglietti pericardici risulteranno allontanati. Ci potranno poi
essere dispnea o respiro superficiale. Lo stato infiammatorio generale si traduce in astenia,
dolori muscolari e altri sintomi sistemici. La presenza di trasudato può poi rendersi
responsabile sia della comparsa di sintomi che di complicanze:

470
- Se l’accumulo di trasudato/essudato è acuto anche quantità inferiori ai 100cc sono in
grado di dare tamponamento cardiaco con compressione delle camere cardiache in
generale e, in misura maggiore, di quelle destre che hanno parete più sottile. Ci sarà
un quadro di scompenso cardiaco acuto a bassa portata. Il pz sarà tachicardico e avrà
ipertensione venosa. Per valutarlo si può chiedergli di inspirare profondamente
mentre gli si prova la pressione: questo gesto provocherà per effetto della
compressione da parte della gabbia toracica e dei polmoni, un calo della pressione
arteriosa (che deve essere considerato patologico quando la PAS cala di più di 10
mmHg), un aumento del ritorno venoso e la comparsa della tosse. Si tratta di
un’emergenza che deve essere trattata entro poche ore. Per riconoscerla rapidamente
bisogna verificare che siano presenti i segni tipici della triade di Beck, ovvero bassa
pressione causata dall’ipodiastolia, turgore della giugulare e assenza o attenuazione
dei rumori cardiaci all’auscultazione. È un quadro più frequente nelle forme associate
a TBC, linfomi o altre neoplasie.
- Se l’accumulo è cronico come nel caso di una pericardite uremica, possono essere
tollerati anche 1000cc di liquido. Questa massa importante può, però, andare a
comprimere altre strutture tra cui l’esofago (disfagia), i bronchi o la trachea (tosse), i
polmoni (dispnea), il nervo frenico (singhiozzo) o il nervo laringeo ricorrente
(raucedine).

All’EO solo raramente si possono udire sfregamenti pericardici che sono rumori aspri e vivi
causati dalla presenza di fibrina in assenza di liquido. Si differenziano dagli sfregamenti
pleurici perché non variano con il respiro. Si può poi ricorrere ad esami strumentali:

1. Esami ematochimici: essi possono innanzitutto rilevare uno stato infiammatorio


tramite l’innalzamento della VES, della PCR o della conta leucocitaria. Talora ci potrà
poi essere un rialzo delle troponine indicativo per un quadro di perimiocardite.
2. Emoculture e test specifici per individuare determinati virus o batteri (ex. TSA)
3. ECG: uno dei primi segni visibili sarà la depressione del tratto PR, comparirà poi un
sovraslivellamento del ST diffuso a tutte le derivazioni e con concavità verso l’alto.
Gradatamente queste alterazioni tendono a ridursi e compare un’inversione dell’onda
T che poi si normalizza anch’essa.
4. C’è poi una riduzione generale dei voltaggi.
5. Ecocardiografia TT: talvolta ci sono alterazioni cinetiche. Se c’è versamento esso sarà
ecodenso: la diagnosi definitiva di tamponamento viene posta con ecocardio
bidimensionale perché esso permette di apprezzare, oltre al versamento, anche il
collasso del cuore di dx.
6. Rx torace: individua la presenza di versamento pericardico.
7. Pericardiocentesi per via subxifoidea o, quando possibile, puntura subxifoidea.
Quest’ultima viene praticata solo se il versamento è di natura sierosa e se c’è
abbastanza spazio tra il pericardio esterno e il cuore per non danneggiare il
miocardio. Queste procedure sono importanti sia per drenare il liquido che per
analizzarlo dal punto di vista microbiologico, citologico e iic.

La diagnosi di pericardite acuta richiede almeno due tra:

- Dolore
- Sfregamenti
- Alterazioni dell’ECG
471
- Versamento

Possono poi aiutare anche la presenza di marcatori infiammatori elevati e il riscontro di


un’infiammazione del pericardio alla TC o alla RM. Se, invece, i criteri non vengono
soddisfatti, è opportuno pensare ad una spiegazione alternativa per il dolore toracico (nella
DD è sempre utile considerare anche la pericardite da mesotelioma pleurico). In caso,
invece, si ponga diagnosi, bisogna distinguere se è ad alto rischio o meno: la diagnosi di
pericardite, infatti, non pone automaticamente indicazione al ricovero. L’ospedalizzazione è
appropriata se il pz presenta una delle seguenti caratteristiche:

1. Segni di tamponamento (polso paradosso e conferma con ecocardio)


2. Febbre >38°C
3. Leucocitosi
4. Contemporaneo versamento peritoneale
5. Versamento particolarmente abbondante che ci fa pensare ad una possibile
evoluzione a tamponamento
6. Immunodepressione
7. Aumento delle troponine
8. Traumi associati
9. Tp con anticoagulante

In caso queste condizioni non sussistano si prescrive una tp domiciliare con FANS da
proseguire per una settimana: se non si ottiene la risoluzione il pz va ospedalizzato. In
particolare, la tp di prima linea si avvale principalmente di Ibuprofene (600-800mg ogni 8h)
o Aspirina (500-1000mg ogni 8h) per 1-2 settimane associati a riposo, che comprende
l’astensione dall’attività fisica per almeno 3 mesi e fino alla completa risoluzione dei sintomi.
In alcuni centri si aggiunge poi la Colchicina: esso è efficace e riduce le recidive, ma, spesso,
non è ben tollerato dal pz perché può causare diarrea e talvolta anche pancitopenia; si
somministra, dunque, generalmente a basse dosi (0.5 mg/die). Se dopo una settimana di
trattamento non si assiste a nessuna risposta si passa alla tp di seconda linea che prevede
sostanzialmente la prescrizione corticosteroidi a basse dosi, i quali paiono però associarsi ad
un aumentato rischio di recidiva. I CS possono essere prescritti come primio farmaci solo in
caso in cui ci sia assoluta controindicazione ai FANS o alla Colchicina. In terza linea
abbiamo, infine, le Ig EV, l’Anakinra (inbitore di IL1) o l’Azatioprina. L’ultima spiaggia è la
pericardiectomia.

PERICARDITE CRONICA OSTRUTTIVA


Insorge quando, in seguito ad una forma acuta, permane un accumulo di fibrina e si ha
deposizione di calcio: il pericardio risulta rigido e interferisce con la meccanica cardiaca.
Non ci sarà dolore ma sintomi di scompenso cardiaco (insufficienza diastolica perché il
cuore non riesce ad espandersi per accogliere il sangue) con equalizzazione delle pressioni
destre e sinistre. I sintomi tipici sono dispnea, gonfiore addominale e in generale quelli relativi
a una situazione di congestione venosa, si può poi percepire il cosiddetto pericardial knock,
ovvero il rumore che fa il cuore quando va a sbattere contro il pericardio duro. La causa può
essere idiopatica, mb, irc, infiltrazioni o connettiviti e si tratta generalmente con
pericardiectomia (opzione, invece, che generalmente non viene presa in considerazione nel
caso di pericardite acuta). Nei casi gravi il pericardio viene rimosso in toto mentre in quelli
più blandi si può decidere di rimuovere solo la porzione epifrenica. I problemi collegati alla
rimozione totale sono principalmente dovut al fatto che il cuore non abbia più un fattore
472
protettivo, e dunque risulta più esposto in caso di traumi frontali, e al fatto che non sia più
fisso quindi, durante i cambi di posizione, esso potrebbe spostarsi creando fastidi al pz (per
evitarlo si possono utilizzare due piccole banderelle in goretex). Verrà poi a mancare
l’apporto della respirazione perché non c’è più la trasmissione delle pressioni negative e si
potrebbe avere anche un aumentato rischio di sviluppare aritmie.

473
TAMPONAMENTO CARDIACO
TAMPONAMENTO CARDIACO SUBACUTO
Il tamponamento cardiaco subacuto solitamente è un processo patologico meno drammatico
rispetto al tamponamento cardiaco acuto, soprattutto nelle fasi iniziali, in cui può essere
completamente asintomatico, bisogna però riconoscerlo perché può progredire e portare a
morte il pz. Una volta raggiunti valori critici di pressione intrapericardica, compaiono i
sintomi che sono strettamente correlati all’aumento delle pressioni di riempimento e alla
portata cardiaca limitata. il pz potrà essere disponoico, lamentare dolore o disconfort
toracico, avere edemi periferici o astenia. All’EO riscontreremo ipotensione (!Se di base il pz
è iperteso, potrà diventare solo normoteso, invece che ipoteso), con possibilità di
peggioramento della funzione renale su base prerenale, e riduzione della PA differenziale a
causa ella bassa gittata.

TAMPONAMENTO CARDIACO ACUTO


Il tamponamento cardiaco acuto si caratterizza per esordio improvviso, rapido e può essere
fulminante, mettendo a rischio la vita del paziente se non adeguatamente trattato. Nella
maggior parte dei casi la causa è traumatica, neoplastica (soprattutto kpolmone, k mammella
e linfomi; sono invece rari mesoteliomi, emangiomi o angiosarcomi primitivi del pericardio)
o dovuta all’infezione da TBC; meno frequentemente si possono avere forme idiopatiche,
autoimmuni, post-irradiazione, post-infarto o in corso di dissezione aortica. Tra le cause si
devono poi citare le procedure interventistiche: esse possono causare perforazione
coronarica nel sito di trattamente o possono perforare il ventricolo destro (PM).

Il pericardio è un sacco fibroelastico costituito da un foglietto viscerale e un foglietto


parietale, separati da uno spazio chiamato cavità pericardica. Negli individui sani, la cavità
pericardica contiene da 15 a 50 mL di ultrafiltrato simile al plasma, che è utile per
ottimizzare il funzionamento cardiaco. La questione fondamentale non è il valore assoluto di
liquido presente nella cavità pericardica, ma la rapidità con cui si forma il versamento
pericardico. Si può, infatti, sviluppare un tamponamento cardiaco con piccole quantità di
liquido, se il versamento si sviluppa rapidamente; al contario, se l’aumento del liquido è
anche ingente, ma insorge lentamente, il pericardio si dilatata per adattarsi. Ciò detto, se
viene superato progressivamente il limite di distensione del pericardio stesso, si assiste
all’aumento delle pressioni all’interno della cavità pericardica: si crea così il fenomeno
ultima goccia tale per cui è sufficiente un piccolo aumento di volume affinché si sviluppi un
tamponamento cardiaco. Nel tamponamento cardiaco il principale problema è legato alla
compressione delle camere cardiache come conseguenza dell’aumento della pressione
intrapericardica. Il pericardio è uno spazio fisso: se dovessero aumentare le pressioni
pericardiche si osserverà una limitazione del riempimento ventricolare e una riduzione
dell’output cardiaco.
Le tre principali caratteristiche del tamponamento cardiaco sono:

1. Aumento delle pressioni di riempimento intracavitarie,


2. Limitazione al riempimento diastolico ventricolare,
3. Riduzione della gittata cardiaca.

Sono sufficienti circa 200 mL di liquido se l’accumulo intrapericardico si sviluppa


rapidamente, più di 2 L se l’accumulo avviene lentamente.

474
Si associa clinicamente a dolore toracico, tachipnea, dispnea, nausea, voce roca, sincope o
presincope e singhiozzo. Avremo poi distensione venosa giugulare, o meno frequentemente
dei vasi a livello del cuoio capelluto, e toni cardiaci parafonici. La triade di Beck,
caratteristica per tamponamento cardiaco, prevede la contemporanea presenza di
ipotensione, distensione giugulare e toni parafonici: generalmente non sono presenti tutti e
3, in caso contrario, probabilmente l’arresto cardiaco è prossimo. Altro elemento
caratteristico è la presenza di polso paradosso: il ventricolo destro potrà aumentare il suo
volume di riempimento, durante l’inspirazione, esclusivamente attraverso un incurvamento
del setto interventricolare verso sinistra, a spese del riempimento ventricolare sinistro.
All’auscultazione del torace si potranno sentire rantoli definiti “puliti”, anche se il reperto
non è significativo, non è equiparabile a quello di uno scompenso cardiaco o di un edema
polmonare acuto.

L’ECG mostrerà:

- Depressione del segmento PR (stadi precoci)


- Sopraslivellamento ST in DI, DII, aVL e V3-V6 e riflette l’infiammazione del
pericardio. Occorre fare DD con IMA e ripolarizzazione precoce. La concavità sarà
verso l’alto.
- Inversione dell’onda T quando l’ST torna normale

Avremo poi tipicamente tachicardia sinusale e bassi voltaggi; e si può avere il fenomeno
dell’alternanza elettrica, ovvero QRS con ampiezza alternante a causa del movimento
cardiaco. Se è presente la pericardite, si osservano anche i reperti ECG tipici di tale
patologia.

Dinnanzi al sospetto clinico di un versamento pericardico è necessario:

1. Accertare la presenza del versamento;


2. Stabilire le conseguenze emodinamiche (tamponamento = compressione e ostacolo al
riempimento delle cavità cardiache);
3. Se il paziente non è critico, stabilire la causa del versamento.

La radiografia del torace è utile se il versamento pericardico è >200mL; è però difficile la


distinzione tra versamento pericardico e aumento della ombra cardiaca. Va in diagnosi
differenziale con il lipoma, condizione rara. Quest’ultimo può assumere dimensioni
gigantesche, può essere confuso con un versamento pericardico o con una massiva
cardiomegalia. Inoltre può infiltrare il miocardio e provocare la comparsa di una
comunicazione tra pericardio e ventricolo destro.

L’ecocardiografia è il GS per diagnostica un versamento pericardico e per fare diagnosi di


tamponamento. Nonostante si tratti di una metodica affidabile, ci possono essere dei falsi
positivi in caso di versamento pleurico sx, grasso epicardico, tessuto neoplastico o cisti
pericardiche.

[Cisti pericardiche: si tratta di un raro tumore del mediastino che si localizza per lo più a livello
dell’angolo costo-frenico. Non comunicano con la cavità virtuale del pericardio, sono generalmente
asintomatiche e tipicamente si tratta dunque di incidentalomi. Talvolta, invece, le cisti si possono
rompere, portare ad emorragia, comprimere le strutture adiacenti o possono infettarsi: questi sono i

475
casi in cui è richiesto un intervento. In particolare, si procede per via toracoscopica cercando di
aspirarle. Anche la via percutanea è teoricamente possibile ma è meno sicura].

In passato il versamento pericardico veniva classificato facendo una quantificazione del


volume del liquido, ma si è rivelato un metodo approssimativo. Ora invece si prende come
punto di riferimento lo spessore posteriore del versamento in visione parasternale. Può essere
classificato in:

• Lieve: < 10 mm;


• Moderato: tra 10 e 20 mm;
• Ampio: > 20 mm.

Questa classificazione ha implicazioni pratiche sull’esecuzione della pericardiocentesi.

Nella maggior parte dei casi il trattamento del versamento pericardico deve essere rivolto
alla patologia sottostante più che al versamento stesso; tuttavia, l’evacuazione di un
versamento cronico può essere necessaria in situazioni particolari. Al contrario, il
tamponamento cardiaco richiede invece un drenaggio immediato del liquido, che deve
essere proseguito sino a ottenere un contenuto <25 ml/die di liquido nel sacchetto del
drenaggio stesso. Si fa dunque pericardiocentesi in urgenza che permette un miglioramente
quasi immediato dei sintomi. Il pz deve poi essere costantemente monitorato, controllando
da un lato il drenaggio e dall’altro il versamento pericardico con l’ecocardiogramma. Con il
liquido prelevato si fanno anche l’esame chimico-fisico, citologico e colturale per indagare
la causa e per porre diagnosi eziopatogenetica. Un’eccezione all’utilizzo della
pericardiocentesi in caso di tamponamento cardiaco è la dissezione aortica. In questo caso si
rischia di drenare continuamente sangue (dato che il versamento continua a riformarsi) e allo
stesso tempo, migliorando la dinamica cardiaca, si rischia di peggiorare ulteriormente la
dissezione. Sarà quindi necessario ridurre l’inotropismo utilizzando un beta-bloccante e un
vasodilatatore nell’attesa dell’intervento chirurgico.

NON si devono usare i diuretici perché rischiano di far precipitare il quadro.

C’è indicazione chirurgica se:

• Emopericardio con dissezione aortica di tipo A;


• Rottura miocardica;
• Genesi traumatica;
• Forme purulente nel paziente settico e instabile;
• Versamenti raccolti, saccati.

476
IVU
Sono definite come la presenza di batteri nelle urine in presenza di una reazione
infiammatoria (si parla di batteriuria e piuria; in alcuni casi, quando la funzione di filtrazione
è pesantemente alterata, si ha anche proteinuria, mentre nei casi in cui la struttura
dell’apparato sia danneggiata si riscontra ematuria) e di sintomatologia. In effetti, è
abbastanza comune riscontrare la presenza di batteri in un campione urinario in quanto,
sebbene ureteri e rene siano zone sterili, l’ultimo tratto dell’uretra può presentare una
microflora (Coliformi, Bacillus, Proteus, Streptococchi, Stafilococchi, miceti) di derivazione
anale o perineale. Essi sono la principale causa di IVU perché possono risalire e dunque si
parla di infezioni per via ascendente, meno frequentemente i microrganismi possono seguire
la via ematogena, in corso di sepsi ad esempio; o quella linfatica, solo nel caso di gravi
infezioni intestinali. Se a due urocolture consecutive si riscontrano i medesimi batteri, in
assenza di sintomi, si parla di batteriuria asintomatica.

Le donne fino ai 50 anni sono molto più soggette ad IVU rispetto agli uomini per diverse
ragioni (rapporto 30:1):

- L’uretra femminile è più corta


- Presenza di recettori per alcuni batteri nell’epitelio urinario femminile;
- I rapporti sessuali facilitano lo spostamento e l’ingresso dei microrganismi;
- Durante la gravidanza l’utero può comprimere la vescica.

Nelle donne in questa fascia di età il patogeno maggiormente responsabile di IVU è E.Coli,
occasionalmente si riscontrano Enterobatteri.

Dopo i 50 anni, invece, soprattutto a causa di iperplasie prostatiche, il rapporto si equivale.

Se si tiene in considerazione una popolazione fatta di soli soggetti ospedalizzati la


proporzione tra la frequenza negli uomini e quella nelle donne arriva ad equivalersi. In
entrambi i sessi il ristagno e il reflusso urinario risultano essere predisponenti, così come il
diabete mellito.

L’urina ha azione di detersione meccanica dunque, qualora il flusso urinario fosse interrotto,
è più facile che insorgano IVU; al contrario bere molto è una pratica che aiuta a prevenire
l’insorgenza di queste infezioni.

Si può parlare di:

1. IVU non complicate: riguardano i soggetti in comunità che non presentano fattori
predisponenti o complicanti la gestione clinico-terapeutica. Rispondono bene alla
terapia e, eventuali ricadute, sono di solito dovute a microrganismi diversi: si parla di
reinfezioni. Possono causare disuria (minzione dolorosa), stranguria (difficoltà nella
minzione) , pollachiuria (minzione frequente) e urgenza minzionale.
2. IVU complicate: sono contratte in ambito nosocomiale o da soggetti con fattori come
alterazioni anatomo-funzionali del tratto urinario o comorbilità come DM, neoplasie o
immunodepressione). Sono poi da considerarsi forme complicate quelle che
colpiscono bambini e gravide perché, se non trattate, si associano a complicanze

477
importanti. Gli agenti eziologici, oltre a quelli citati per le forme non complicate,
comprendono anche Pseudomonas, Serratia, enterococchi, stafilococchi e miceti.
Sono generalmente resistenti alla terapia antibiotica e, nel caso di reinfezione, spesso,
la causa è la medesima e dunque si tratta di recidive. Sono asintomatiche.

Un’altra distinzione può essere fatta sulla base del tratto colpito:

1. Infezioni delle alte vie urinarie:

a. Pielonefrite: è un infezione mono o bilaterale del parenchima renale che


coinvolge anche la pelvi. Nella forma acuta i sintomi sono di maggiore entità e
sono causati dall’alterata funzione renale e dalla distruzione del tessuto. Per
poter determinare se l’origine è ematogena o ascendente è opportuno
effettuare anche un prelievo ematico, opportuni risultano anche accertamenti
ecografici e l’esecuzione di test di funzionalità renale. Spesso la causa sono
enterobatteri, batteri anaerobi o cocchi. Segni clinici sono dolore a livello
renale, febbre, malessere, cefalea, minzione frequente.
b. Nefrite: è un infezione del nefrone che può essere di tipo purulento –
stafilococchi o streptococchi – o granulomatoso – miceti come Aspergillus o
Candida in soggetti immunocompromessi –. In entrambi i casi si verificano
proteinuria ed ematuria. Può essere interessato il glomerulo oppure i tubuli o
l’interstizio e la causa sono spesso immunocomplessi. La glomerulonefrite, in
particolare, è spesso una sequela post-streptococcica: complessi antigene-
anticorpo rimangono intrappolati a livello del sistema di filtraggio renale
compromettendolo e portando a iperazotemia e ipercreatininemia, oltre che a
ematuria e proteinuria. Il paziente presenterà nausea, vomito, astenia, edema
ed ipertensione.
c. Tubercolosi renale: è sempre un’infezione che arriva al rene per via
ematogena. Può essere molto pericolosa perché si formano granulomi che
distruggono progressivamente il parenchima renale. Per poter fare diagnosi è
importante ricordare che M. Tubercolosis viene eliminato a intermittenza nelle
urine e, dunque, non basta un solo prelievo: servono almeno tre campioni
presi in tre giorni diversi e poi seminati in Lowenstein-Jensen.
d. Ascessi renali: si tratta di infezioni ematogene suppurative causate
generalmente da S. Aureus che coinvolgono il tessuto adiposo della loggia
retro-peritoneale o la capsula.

2. Infezioni delle basse vie urinarie:

a. Cistite: si tratta di una infezione della vescica che può essere acuta o cronica.
Nel primo caso la causa è prevalentemente batterica, mentre, nel secondo, si
hanno generalmente micobatteri o parassiti e c’è il rischio che il tutto possa
portare nel tempo allo sviluppo di un carcinoma della vescica. La
sintomatologia è legata all’attivazione del sistema immunitario in seguito
all’adesione dei batteri all’epitelio vescicale: vengono prodotte citochine
infiammatorie che, tra le altre cose, richiamano a livello del sito interessato i
fagociti. Se trascurate, queste infezioni possono propagarsi alle alte vie
urinarie.

478
b. Uretrite: può essere un quadro infiammatorio acuto o cronico che colpisce la
prostata. Si parla di infezioni aspecifiche, non gonococciche a trasmissione
sessuale, gonococciche e luetiche.

Per fare diagnosi, il campione principale è quello urinario: si preferisce raccogliere il mitto
intermedio dopo accurata pulizia dei genitali esterni per evitare contaminazioni dalla flora
che viene lavata via con l’urina. In alternativa, si può fare un prelievo sfruttando un catetere
vescicale nei pazienti ospedalizzati o ricorrere a una puntura soprapubica. In questi due
ultimi casi, il riscontro di un qualsiasi numero di batteri deve mettere in allarme perché sono
modalità che non permettono contaminazione. Una volta ottenuto, il campione deve essere
conservato in contenitori sterili e inviato al laboratorio nel più breve tempo possibile, o
almeno conservato a 4 °C. Il laboratorio di biochimica svolge poi un analisi del sedimento
mentre quello di microbiologia prosegue con esami microscopici e urinocoltura:

- L’esame microscopico permette un vaglio preliminare del campion: a ingrandimento


1000X un batterio per campo microscopico equivale a una concentrazione di 10^5
batteri/mL ed è, dunque, indice di infezione in atto. L’esame microscopico permette
poi di evidenziare la presenza di cilindri: quelli ialini indicano una compromissione
del parenchima renale, quelli leucocitari riflettono una risposta importante.

- L’urinocoltura è un esame che permette sia una analisi di tipo quantitativo, che di
tipo qualitativo. In primo luogo vado a valutare la batteriuria: se si supera la soglia di
10^5 batteri/mL è fortemente probabile che si sia di fronte ad una infezione; nel caso
in cui si riscontrino anche leucociti è sufficiente che la batteriuria sia 10^3 batteri/mL.
Un’altra discriminante è rappresentata dal fatto che trovare in coltura diversi tipi di
batteri mi fa pensare ad una contaminazione, mentre trovarne uno solo, e in grandi
quantità, è indice che quel batterio è la causa di infezione. Una volta stabilito che sia
in corso un’infezione bisogna identificare il batterio responsabile e isolarlo per poter
effettuare l’antibiogramma.

Generalmente si comincia con una tp empirica, la quale deve essere dcisa tenendo conto
dello spettro di sensibilità dei probabili microorganismi coinvolti, dell’efficacia della molecola
su popolazioni di pz analoghe a quella in cui si colloca il pz da trattare, della tollerabilità e
dei dati anamnestici. Perché siano efficaci sulle IVU, è necessario che gli antibiotici vengano
escreti in forma attiva nelle urine.

In caso di cistite acuta non complicata nella donna si prediligono trattamenti brevi con
molecole che agiscono a livello topico (per ridurre il rischio di alimentare resistenze) come la
Fosfomicina.

In caso di pielonefrite acuta non complicata, i farmaci di prima scelta sono Levofloxacina e
Ciprofloxacina, le cui dosi vanno aumentate in caso di forme gravi.

In caso di cistite o pielonefrite lievi-moderate complicate, la prima scelta sono Fosfomicina o


Amoxicillina+Ac.Clavulanico.

In caso di cistite o pielonefrite gravi complicate è necessario essere aggressivi si possono


usare Piperacillina+Tazobactam, o Imipenem (+Amikacina)

479
In particolare, per gestire una pielonefrite si deve seguire questo algoritmo:

La batteriuria asintomatica non richiede trattamento antibiotico, tranne nei casi in cui i pz
debbano essere sottoposti a manovre urologiche invasive, in caso di pz immunodepressi o di
donne in gravidanza.

480
FEVER OF UNKNOWN ORIGIN – FUO
Nel 1961 Petersdord e Beeson la definirono come: Febbre superiore a 38.3 °C a ripetute
misurazioni, persistente da almeno tre settimane e che non abbia portato ad una diagnosi
dopo una settimana di ricovero ospedaliero. Ad oggi l’ultimo criterio è stato sostituito da uno
più ampio: la mancata diagnosi dopo almeno 3 visite ambulatoriali, dopo almeno 3 giorni di
ospedalizzazione o dopo 1 settimana di accertamenti mirati e non invasivi condotti
ambulatorialmente (RX torace, ecodoppler e ECO addominale). Ci sono poi tutta una serie di
definizioni diverse che vanno dalla FUO classica, alla Fuo nosocomiale, alla FUO del
paziente neutropenico (immunodeficienza), fino alla Fuo in pazienti con HIV; tuttavia, sono
tutte variabili che ai fini della diagnostica non sono particolarmente rilevanti.

Tra le cause più comuni di FUO ci sono tre grossi gruppi (i big three):

1. Malattie infiammatorie non infettive (vasculiti, autoimmuni, lupus ....)


2. Malattie infettive (TBC al primo posto, soprattutto in passato ma anche oggi di ritorno.
Negli anziani le cause infettive localizzate più frequenti comprendono appendicite
acuta retrocecale, colecistite, diverticolite, ascesso epatico o ascesso prostatico; quelle
intravascolari come le endocardite, quelle sistemiche come brucellosi o leptospirosi,
quelle fungine, parassitarie o virali)
3. Tumori (ematoneoplasie, carcinomi a cellule renali, tumori al colon..)

Ci sono poi i gruppi minori (minor three):

1. Febbre da farmaci, che può essere davvero difficile da identificare perché magari
arriva il paziente con febbre, gli diamo dei farmaci, la febbre non passa mai e
rischiamo di alimentare noi la situazione. Possono determinare questo quadro
Allupurinolo, Captopril, Cimetidina, Eritromicina, Eparina, Idralazina, Idroclorotiazide,
Nifedipina…
2. Febbre fattizia (quella che si procura il paziente mettendo il termometro vicino a
sorgenti calde e che non è così poco comune come si potrebbe pensare)
3. Ipertermia abituale

Per arrivare ad una diagnosi di FUO anamnesi ed esame obiettivo assumono un ruolo
fondamentale; si devono indagare:

- Viaggi all’estero recenti, che fanno includere nella batteria infettiva anche quelle
infezioni che sono poco comuni in Italia
- Esposizione ad animali (domestici o dell’ambiente rurale; da considerare anche il
rischio di epidemie nei macellai)
- Immunosoppressione
- Assunzione di farmaci
- Sintomi locali

Dal punto di vista degli esami di laboratorio, si possono richiedere:

- VES, PCR, PROCALCITONINA (indici aspecifici di floglosi)

481
- Indagini per la TBC: intradermoreazione secondo Mantoux, IGRA, ricerca batteri AA-
resistenti su espettorato (spontaneo, indotto, lavaggio broncoalveolare), test di
amplificazione degli acidi nucleici, test colturale per micobatteri (ricordiamo che la
TBC, soprattutto nelle sue forme miliari difficili da identificare, è una delle cause
principali di FUO. Il problema è che la coltura per la TBC può richiedere tempi molto
lunghi)
- Ricerca anticorpi eterofili o sierologia specifica per EBV
- Sierologia per HIV
- Toxoplasmosi
- Indagini per CMV
- Se le transaminasi sono alte è opportuno richiedere indagini sierologici per capire se il
soggetto sia HVB+ o HCV+
- Brucellosi
- Rickettsiosi
- ANA (antinuclear antibodies; ds DNA, ssDNA, istoni, nucleoproteine,...), ASMA
(anti–smooth-muscle antibodies; epatiti autoimmuni, altro), ANCA (antineutrophil
cytoplasmic antibodies; Wegener, vasculiti), AMA (antimitochondrial antibodies;
cirrosi biliare primitiva)
- Fattore reumatoide
- Emocoltura: serve per escludere di essere di fronte a sepsi ed è dunque fondamentale
che sia negativa per poter parlare di FUO. Se ne devono eseguire almeno tre serie,
prelevate da siti diversi nell’arco di diversi giorni in assenza di trattamento antibiotico.
(Il problema è che l’assenza di trattamento antibiotico è una variabile difficile da
trovare nel paziente che è stato ricoverato dopo giorni di febbre, perché la tendenza
alla comparsa dei sintomi a prescriverlo è estremamente alta). Il problema è
rappresentato dal fatto che un antibiotico può falsare i risultati degli esami; bisogna
ricordarsi che prima di iniziare un trattamento antibiotico si devono avere degli
elementi ben precisi e il consiglio è quello di non essere troppo ansiosi, a meno che il
quadro non sia evidente da subito); per questo motivo ci sono dei terreni di coltura
che contengono delle resine che possono assorbirli consentendo al batterio di
riprodursi.

Può poi essere eseguita una RX torace, che deve essere valutata con cautela per il rischio di
falsi positivi e falsi negativi.

È chiaro che questo iter permette di identificare ed etichettare molte febbri apparentemente
inspiegabili e arrivare ad una diagnosi. Tale diagnosi diventa difficile quando invece siamo
veramente in presenza di FUO e, in questo caso, la possibilità di non riuscire a mettere
un’etichetta all’agente eziologico è molto elevata. Si ritiene che il 3% dei pazienti ricoverati
negli ospedali che funzionano bene presenti una diagnosi di FUO.

Altri esami che possono essere richiesti comprendono:

1. TC torace e addome
2. PET
3. ECO addome
4. Tecniche scintigrafiche di localizzazione (come quella in cui si marcano i leucociti
con indio 111 o quelli in cui i tracciati sono marcati con tecnezio e gallio)
5. Biopsia

482
ANTICOLINGERGICI
Molti farmaci di comune utilizzo nella pratica clinica hanno un’attività anticolinergica. Si
tratta in gran parte di farmaci psicotropi come antidepressivi triciclici, antipsicotici, ma anche
di farmaci che agiscono su altri organi e apparati, come per esempio gli antistaminici di prima
generazione o la furosemide…

I farmaci con azione anticolinergica possono causare:

- Tossicità gastrointestinale: secchezza delle fauci, nausea, stitichezza, crampi


addominali…
- Tossicità urinaria (ritenzione urinaria acuta),
- Tossicità oculare: cicloplegia e ipertensione oculare fino al glaucoma acuto
- Tossicità cardiaca: pare che, soprattutto in soggetti con patologia coronarica, possa
verificarsi un effetto pro-aritmogeno
- Tossicità neurologica, che si può manifestare con confusione mentale, vertigini,
sincope, sonnolenza, letargia e, specie nel paziente anziano, irritabilità, discinesie
precoci e tardive, insonnia. Questi effetti cognitivi negativi si traducono anche in una
peggiore performance fisica negli anziani che fanno uso di questi farmaci. E’ stato
infatti dimostrato che, anche in assenza di reazioni avverse manifeste, i farmaci con
attività anticolinergica possono portare a un peggioramento della mobilità, della forza
muscolare e dell’equilibrio e in ultimo avere un impatto sul livello di autosufficienza in
anziani che vivono a casa.

Gli anziani sono particolarmente suscettibili alla tossicità neurologica dei farmaci
anticolinergici a causa di:

1. Modifiche fisiologiche e patologiche dell’invecchiamento, quali un’aumentata


permeabilità della barriera ematoencefalica e la riduzione del pool di acetilcolina
presente nel corpo
2. Uso di molteplici farmaci con tale azione (è stato provato che farmaci con attività
483
anticolinergica sono assunti dal 90% degli ultrasettantacinquenni nella popolazione
generale)

Visti gli effetti, anche pericolosi, che possono manifestarsi soprattutto nella popolazione
anziana, negli ultimi anni sono stati sviluppati numerosi strumenti per misurare l’effetto legato
all’esposizione cumulativa a tali farmaci: la Anticholinergic Cognitive Burden Scale (ACB), la
Anticholinergic Risk Scale (ARS) e la Anticholinergic Drug Scale (ADS).Nel caso della ABC
abbiamo i farmaci suddivisi in punteggi di 1, 2 o 3: i primi hanno un possibile effetto
anticolinergico; mentre, quelli delle altre due categorie hanno un effetto certo. In pratica è
necessario, per il medico che prende in cura il paziente anziano, conoscere i potenziali effetti
anticolinergici dei farmaci e valutare attentamente l’appropriatezza della prescrizione di un
farmaco non solo basandosi sulle linee guida, ma anche sul carico anticolinergico, al fine di
evitare ospedalizzazioni, sviluppo di disabilità, demenza ed eventi cardiovascolari.

[I farmaci anticolinergici sono principi attivi che esercitano un'attività di tipo antagonista nei confronti
dei recettori per l'acetilcolina. Possiamo distinguere antagonistici nicotinici, che sono sostanzialmente
miorilassanti, e antagonisti muscarinici. Questi ultimi sono farmaci in grado di agire su cinque tipi di
recettori:

- M1, presenti soprattutto a livello di ghiandole, cervello e gangli simpatici;


- M2, localizzati in particolar modo a livello della muscolatura liscia, del cuore e del cervello;
- M3, presenti perlopiù nella muscolatura liscia (come quella gastrointestinale), nel cervello e
nelle ghiandole;
- M4; presenti nel cervello;
- M5; localizzati soprattutto a livello di occhi e cervello.

Il capostipite di questa tipologia di farmaci anticolinergici è l'atropina, una molecola in grado di


antagonizzare in maniera non selettiva tutti e cinque i tipi di recettori muscarinici presenti nel nostro
organismo. Ad oggi, invece, in commercio vi sono farmaci antimuscarinici formulati in maniera tale
da esplicare la loro azione in maniera selettiva, solo nei confronti di determinati tipi recettoriali; tra di
essi abbiamo Scopolamina, Ipratropio, Tiotropio, Solifenacina, Darifenacina, Ossibutinina e
Triesifenidile. In linea generale, si può affermare che le risposte agli antagonisti muscarinici
comprendono:

1. Diminuzione della contrattilità della muscolatura liscia del tratto gastrointestinale e delle vie
urinarie (in particolare, quest'azione è svolta dagli antagonisti dei recettori di tipo M3);
2. Broncodilatazione (dovuta all'antagonizzazione dei recettori M3 presenti a livello
bronchiale);
3. Riduzione della secrezione gastrica e delle secrezioni ghiandolari, comprese la secrezione
salivare e quella mucociliare;
4. Dilatazione delle pupille (midriasi).

Gli agenti antimuscarinici, pertanto, possono essere utilizzati nel trattamento di diverse patologie e
disturbi, quali spasmi gastrointestinali, vescica iperattiva, nausa e vomito (specie se correlati alla
cinetosi), tremori, rigidità muscolare e scialorrea, asma o bronchite cronica. L'azione midriatica degli
antimuscarinici, invece, viene sfruttata in ambito oculistico durante l'esecuzione di esami oftalmici e
visite mediche.

Naturalmente, il tipo di effetti collaterali e l'intensità con cui essi si manifestano possono variare
notevolmente da individuo a individuo, anche in funzione del tipo di principio attivo impiegato, della
via attraverso la quale il farmaco viene somministrato e della sensibilità che ciascun paziente presenta
nei confronti dello stesso farmaco. Ad ogni modo, i principali effetti collaterali ascritti all'uso - specie

484
se prolungato - degli antagonisti muscarinici, sono sostanzialmente un’esasperazione degli effetti
terapeutici:

1. Secchezza delle fauci;


2. Midriasi, offuscamento della visione e fotofobia
3. Difficoltà di minzione (effetto indesiderato che, come abbiamo visto, in alcuni casi si rivela
utile per contrastare i sintomi della vescica iperattiva);
4. Stipsi;
5. Sonnolenza e confusione
6. Tachicardia (raro)]

485
TERAPIA STEROIDEA
Fisiologicamente il nostro organismo produce una certa quantità di steroidi nel surrene. In
particolare, a livello della zona fascicolata e reticolare, sotto stimolo dell’ACTG vengono
prodotti estrogeni, cortisolo e corticosterone; nella zona glomerulare, invece, sotto il
controllo della potassiemia, dell’angiotensina II e, in misura minore, dell’ACTH, viene
prodotto l’aldosterone. Tutti questi ormoni hanno come precursore di colesterolo, fattore che
dunque può essere limitante nella catena enzimatica.

I corticosteroidi, in particolare, hanno effetti su diversi organi e apparati:

1. A livello della muscolatura hanno funzione catabolica: un loro eccesso porta ad avere
ipotrofia degli arti e astenia.
2. A livello del tessuto adiposo c’è una funzione anabolica che favorisce l’accumulo di
grasso, specie a livello addominale; in caso di eccesso potrebbe poi localizzarsi
anche nella zona sovraclaveare (gibba di bufalo) e a livello del volto (facies a luna
piena).
3. A livello osseo c’è una funzione catabolica, tant’è vero che un eccesso favorisce
l’insorgenza di osteoporosi, anche in virtù del ridotto assorbimento di calcio a livello
intestinale e all’aumento dell’escrezione dello stesso.
4. A livello epatico viene favorita la gluconeogenesi con aumento dei livelli di glucosio
circolante finanche all’insorgenza di DM
5. A livello del SNC sono in grado di modificare il comportamento: quando si fa una tp
a dosi elevate, ad esempio in caso di patologia neoplastica, bisogna tenerne conto
perché il pz potrebbe sentirsi agitato inquieto, fino anche ad avere una psicosi acuta.
6. A livello renale aumenta il riassorbimento di sodio e la perdita di potassio: c’è
aumento del volume circolante con ripercussioni anche a livello cardiaco
(ipertrofia). In generale, gli steroidi aumentano la tendenza a ritenere sali e acqua,
fatto che normalmente serve a mantenere l’equilibrio ma che può portare anche a
fenomeni ritentivi.
7. A livello del sistema CV avremo un aumento della gittata, del tono vascolare e
un’aumentata risposta alle catecolamine.
8. A livello immunitario avremo un effetto immunosoppressivo e antiinfiammatorio, che
è il motivo per cui i CS vengono sfruttati in molte malattie reumatologiche, ma è
anche il motivo per cui in seguito a tp molto prolungate, i pz avranno un maggior
rischio di sviluppare linfomi. Riducono la produzione di citochine pro-infiammatorie
e aumentano quella delle citochine anti; favoriscono inoltre l’apoptosi di macrofagi,
cellule dendritiche e LynT.

FARMACOLOGIA
Possono essere somministrati per diverse vie:

- Orale: è riservata a coloro che necessitano di una tp a lungo termine


- EV: permette un’azione più rapida, utile ad esempio in caso di reazioni anafilattiche
- Topica e Inalatoria: permettono una maggior localizzazione dell’effetto, nel primo
caso cutaneo e nel secondo respiratorio, ma non escludono un assorbimento
sistemico.
- Intra-articolare

486
Abbiamo a disposizione diversi farmaci, i quali sono però sostanzialmente sovrapponibili dal
punto di vista della struttura chimica di base, ma con diverse apposizioni che possono
potenziare l’attività minerale-ritentiva o quella anti-infiammatoria. Quindi il primo fattore da
tenere in considerazione nella scelta dello steroide da prescrivere è la funzione che si vuole
ottenere; in secondo luogo bisogna considerare la rapidità d’azione che è correlata anche
alla modalità di somministrazione. È comunque importante tenere presente che in generale
gli steroidi non sono particolarmente rapidi. Altro parametro da valutare è l’emivita. Ci sono:

Attività Attività Emivita Dose Dosaggio


GC MC Equivalente
(Tp sostitutiva)
IDROCORTISONE 1.0 1.0 8-12h 20mg In acuto 50-200mg;
(Flebocortid) in cronico
10-20mg x3
(dipende dal peso)
CORTISONE ACETATO 0.8 0.8 8-12h 25mg In cronico: 10-
(Cortone) 20mg x1
PREDNISONE 4.0 0.8 12-36h 5mg 10- 30 mg/die
(Deltacortene)
PREDNISOLONE 4.0 0.8 12-36h 5mg

METILPREDNISOLONE 5.0 0.5 12-36h 4mg


(Medrol, Urbason)
DESAMETASONE 25.0 0 36-72h 0.75mg
(Soldesam)
BETAMETASONE 25.0 0 36-72h 0.75mg
(Bentelan)
FLUOROIDROCORTISONE 0.0 125.0 12-36h 0.75mg 0.05-0.2 mg/die in
(Florinef) tp sostitutiva(da
stabilire in base alla
PA, a K+ e a Na+

È importante considerare che i CS possono interagire con altri farmaci: ad esempio, essi
aumentano l’effetto anticoagulante del Warfarin. Se il pz prende anticonvulsivanti, essi
possono andare a ridurre l’efficacia dei CS. Interagiscono poi con i macrolidi, con gli
antivirali e con i diuretici che portano ad un peggioramento degli effetti metabolici.

UTILIZZO CLINICO DEI CS


Si tratta di ormoni fondamentali, ma che, se presenti in eccesso, sia per cause patologiche
che iatrogene, possono portare a problemi importanti. Allo stesso tempo, i CS vengono
ampiamente usati come tp per diverse condizioni, le indicazioni comprendono:

1. Patologie autoimmuni, sia di interesse reumatologico che anche, ad esempio, nelle


MICI
2. Patologie infiammatorie acute e, a volte, anche croniche
3. Reazioni di tipo anafilattico: nell’immediato sono importanti l’adrenalina e gli
antistaminici, si può però somministrare anche un CS, generalmente l’Idrocortisone
perché ha azione più rapida, per coprire le ore successive.
4. Immunosoppressione post-trapianto

487
5. Tp sostitutiva nei soggetti che non ne producono a sufficienza, sia in acuto che in
cronico. In particolare, è richiesta nel caso di:
a. Ipopituitarismo con insufficiente produzione di ACTH
b. Insufficienza corticosurrenalica primitiva: in questo caso riprodurre la
regolazione a feedback normalmente presente è difficile; l’unica cosa che
possiamo fare è cercare di ricalcare la produzione circadiana somministrando
la tp nelle prime ore del mattino, perché fisiologicamente il cortisolo è più alto
in questa finestra. I pz affetti da morbo di Addison beneficiano del
Fludrocortisone.
c. Sindromi adrenogenitali.
d. Crisi surrenalica: si dà generalmente idrocortisone EV a dosi molto alte: la
prima di 100-200mg, poi 100mg x4 e poi 50mg. Si tratta di un’emergenza
endocrinologica.
6. Patologie ematologiche
7. Uveiti e cheratocongiuntiviti
8. Condizioni allergiche sia respiratorie che cutanee
9. Malattie broncopolmonari, tra cui l’asma. In quest’ultimo caso saranno necessari sia
farmaci che facciano regredire la costrizione bronchiale, sia i corticosteroidi se la
forma è piuttosto aggressiva. Al fine di facilitare il trattamento in cronico esistono
delle formulazioni in cui i beta-stimolanti, gli anti-colinergici e i CS sono uniti. Tra i
CS utilizzati per via inalatoria, uno dei più prescritti è il Beclometasone (Clenil); nel
caso fosse necessario somministrarli anche per via sistemica si possono utilizzare
Prdnisone o Metilprednisolone.
10. Alcune malattie interstiziali polmonari
11. Stimolazione della produzione di surfactante nei neonati prematuri
12. Sclerosi multipla
13. Sindrome nefrosica in fase avanzata
14. Edema cerebrale (NB, anche il Mannitolo)
15. Edema polmonare non cardiogeno
16. Shock settico: come prima cosa si procede con riempimento volemico e
somministrando noradrenalina. Se questi presidi non fossero sufficienti è possibile
dare idrocortisone EV: come dimostrato dallo studio Corticus, ciò permette di
migliorare la situazione emodinamica, non ha però un grande effetto sulla mortalità.
Dunque, con i CS si ottiene un miglioramento volemico ma, ovviamente, in questo
caso, la cosa importante è impostare una tp antibiotica adeguata.

Secondo le linee guida ci sono delle indicazioni da seguire prima di decidere di iniziare una
tp con CS:

- Va fatto solo se è dimostrato, quindi se c’è una chiara evidenza, che apportino un
beneficio
- Bisognerebbe utilizzarli come extra ratio, quindi tentando prima altri approcci
- Prima di iniziare è fondamentale identificare un obiettivo e somministrare la dose
necessaria e sufficiente ad ottenere quel effetto senza eccedere e senza protrarla
inutilmente, una volta che l’obiettivo è stato raggiunto e si pensa che sia stato fatto in
modo stabile, la tp va sospesa.
- Usare un sistema obiettivo di valutazione della risposta

488
È poi importante considerare che, se la tp deve essere proseguita per tempi prolungati, ci può
essere la soppressione dell’asse ipotalamo-ipofisario: questo evento è improbabile se il pz
prende CS per meno di un mese, magari per bocca e a giorni alterni; è invece qualcosa di
cui tenere conto se la dose è elevata (a partire da circa 20mg/die di Prednisone) per tempi
lunghi. Per questo motivo, se ad un certo punto la tp può essere sospesa, è necessario farlo
gradatamente: ad esempio, per quanto riguarda il Prednisolone, viene suggerito di ridurre il
dosaggio di 1mg a giorni alterni per un periodo di 14 settimane; oppure lo si può sostituire
con l’Idrocortisone, che andrà anch’esso scalato progressivamente, avendo cura di ridurre
sempre prima le dosi lontane dalla mattina. Se si sospendono bruscamente si porebbe
manifestare la sindrome da sospensione, i cui segni e sintomi più frequenti comprendono
anoressia, nausea, vomito, astenia, artromialgie, cefalea, calo ponderale, depressione e
letargia. Il quadro è simile a quello di un’insufficienza corticosurrenalica acuta.Inoltre, nel
caso di tp prolungata, specie se ad alte dosi, bisogna considerare che potrebbero insorgere
segni e sintomi della sindrome di Cushing. Possibili eventi avversi dovuti alla
somministrazione di CS comprendono:

1. Aumento di peso e sviluppo di obesità addominale


2. Ritenzione idrica con conseguente comparsa di edemi in pz predisposti, come coloro
che hanno ipoalbuminemia.
3. Resistenza all’azione dell’insulina, iperglicemia e comparsa di diabete steroideo (1/3
dei pz), che comparirà più frequentemente in soggetti che hanno una predisposizione
di base, ad esempio perché sono sovrappeso, perché hanno familiarità, alterata
tolleranza ai carboidrati o diabete gestazionale in anamnesi. Specie se sussistono fdr,
sarà pertanto utile monitorare la glicemia, la quale tenderà ad alzarsi abbastanza
rapidamente dall’inizio della tp. Se si sviluppa diabete steroideo la glicemia renderà
ad alzarsi soprattutto nelle ore serali, in corrispondenza della seconda dose
giornaliera e tende a ridursi nelle ore diurne. Sono soggetti che necessitano di tp
insulinica, che è quella che permette un miglior controllo glicemico.
4. Osteoporosi e osteonecrosi: interessa circa 1/3 dei soggetti trattati, tipicamente di
sesso femminile. Il problema è il rischio di fratture e, in caso di necrosi della testa del
femore, la necessità di impiantare una protesi. Non si può far altro che somministrare
calcio, VitD e bifosfonati (questi ultimi tenendo presente il rischio di necrosi della
mandibola). Calcio e VitD possono essere usati anche a scopo profilattico in soggetti
con età superiore a 50 anni e nei quali si prevede un trattamento di almeno 3 mesi a
dosi di Prednisone almeno superiori ai 5mg/die.
5. Miopatia con aumento delle CPK, possibile mioglobinuria e rischio di IRA.
6. Aumentata suscettibilità alle infezioni: le quali tenderanno a non procurare segni e
sintomi a causa dell’immunosoppressione del pz. Le infezioni saranno soprattutto
opportunistiche: CMV, HZV, HSV, TBC, miceti.
7. Sintomi psichiatrici fino alle psicosi acute
8. Intolleranza gastrica, fino ad ulcerazioni
9. Sviluppo di cataratta, alla quale può sommarsi la retinopatia diabetica in caso insorga
diabete steroideo.
10. Aumentata facilità al sanguinamento
11. Irsutismo
12. Aumento dei neutrofili: non è particolarmente problematica, bisogna però tenerne
conto per evitare di pensare che il rialzo possa essere dovuto ad un evento infettivo.

489
Essi saranno maggiormente presenti nei soggetti che assumono tp ad alte dosi per lunghi
periodi e in coloro che metabolizzano più lentamente i CS.

490
TERAPIA DEL DOLORE
Col termine dolore si fa riferimento ad un sintomo estremamente soggettivo, a causa della
notevole variabilità della soglia da individuo a individuo e dell’influenza della componente
emotiva. La presenza di dolore presuppone generalmente la presenza di danno tissutale o
eventi patologici, ma non è sempre così: potrebbe trattarsi infatti di un paziente con soglia
particolarmente bassa o di un dolore di natura psicologica; nonostante ciò, il medico è
tenuto a considerarlo sempre reale. Tenendo conto di tutte queste considerazioni, si evince
come le scale utilizzate per oggettivarlo abbiano una validità intrapersonale, diversa per ogni
individuo; stesso discorso per la terapia, che a parità di principi attivi e dosaggi potrebbe non
essere sufficiente per tutti.

La classificazione del dolore prevede una suddivisione secondo:

- Criterio fisiopatologico:

o Dolore nocicettivo: si manifesta nel momento in cui i tessuti risultano esposti


ad eventi dannosi, responsabili dell’attivazione dei nocicettori stessi.
L’intensità correla in maniera direttamente proporzionale al numero di
recettori attivati, mentre è inversa la proporzionalità tra profondità della noxa
patogena e capacità discriminativa. È generalmente dovuto a processi
infiammatori, patologie osteoarticolari, muscolari, vascolari ischemiche o
viscerali, come ulcere, coliche o occlusioni. Risponde bene a quasi tutti gli
antidolorifici e generalmente non crea problemi. Si distingue, in base alla
localizzazione, tra:
§ Somatico: superficiale o profondo, è ben localizzato e può essere
pulsante;
§ Viscerale: profondo, difficilmente localizzabile (il focus neurogenico
può essere distante dal punto in cui viene riferito) e talvolta irradiato;

o Dolore non nocicettivo:


§ Neuropatico: è indotto da alterazioni delle afferenze somatosensoriali di
SNC e SNP, con aumento della trasmissione del segnale da parte dei
neuroni colpiti. Sulla base della localizzazione distinguiamo forme
centrali (secondarie a ictus, sclerosi multipla o traumi midollari) e
periferiche (come la nevralgia del trigemino e quelle secondarie a
infezioni come HIV e Lue, farmaci, diabete, alcol, farmaci, ischemia o
interventi chirurgici). Si può manifestare con:
• Dolore spontaneo: urente, penetrante, poco sopportabile e
difficilmente trattabile (esempio: Herpes Zoster)
• Sintomi in negativo: non si tratta di dolore in senso stretto dal
momento che manca un danno tissutale vero e proprio; si
osservano più che altro fenomeni di ipoestesia, ipoalgesia o
vertigini da perdita di sensibilità del sistema vestibolare;
• Sintomi in positivo: parestesie, ossia una sensazione di
formicolio nel territorio innervato da un nervo soggetto a
compressione, oppure allodinie, che consistono in risposte

491
paradosse a stimoli che normalmente non dovrebbero scatenare
alcun tipo di reazione.
§ Idiopatico: viene generalmente descritto come dolore psicogeno dal
momento che non è possibile individuare una causa organica
scatenante. Richiede un trattamento a base di psicofarmaci.

o Dolore misto: presenta sia una componente nocicettiva (somatica e viscerale),


sia una componente neuropatica, periferica o centrale. Alla base possono
esserci traumi, ernie, artrosi o, nel 10% dei casi, una neoplasia. È il più
frequente in assoluto: si stima che ne sia affetto un paziente su due.

o Dolore totale: in questa forma includiamo, oltre alla quota fisica, anche la
componente psicosociale. Si articola, in maniera molto complessa e variegata,
nei seguenti aspetti:
§ aspetti somatici (dolore e altri sintomi, astenia, comorbidità)
§ aspetti psicologici (ansia, paura della morte, paura del dolore, del
futuro, perdita di dignità, solitudine, abbandono)
§ aspetti sociali (perdita posizione sociale, perdita del ruolo in famiglia,
problemi burocratici, previdenziali)
§ aspetti relazionali (perdita amici)
§ aspetti economici (perdita del lavoro, cure costose)
§ aspetti spirituali (religiosi, cercare un senso e risposte)
§ aspetti sanitari (ritardi diagnostici, fallimenti terapeutici, ostilità,
abbandono dei curanti)

- Criterio temporale:

o Acuto (< 6 mesi): è associato ad una massiva attivazione adrenergica, con


tachicardia, tachipnea, midriasi e sudorazione

o Cronico (> 6 mesi): è una situazione in cui la risposta adrenergica è modulata


ma le ripercussioni sulla qualità di vita sono importanti e per questo va
soppresso In particolare, si associa a disturbi del sonno, anoressia, calo della
libido, costipazione, preoccupazione fino a veri e propri cambiamenti della
personalità (depressione). Le principali cause sono:
§ Dolore dorso-lombo-sacrale
§ Dolore del collo e della spalla
§ Cefalea muscolo tensiva ed emicrania
§ Dolori muscolo-scheletrici come nelle patologie reumatologiche
§ Dolore neuropatico da Zoster, da amputazione, da ischemia cerebrale
con arto paretico fantasma, da neuropatia diabetica o da
schiacciamento del rachide
§ Dolore post-operatorio
§ Dolore oncologico

o Ricorrente

- Criterio prognostico (solo per il dolore cronico):

492
o Benigno: non è legato a prognosi infausta ed è generalmente dovuto a malattie
osteoarticolari. La causa più frequente in assoluto è l’artrosi, che colpisce
indistintamente anziani e sportivi agonisti, in cui prevalgono forme
clinicamente evidenti, e giovani, in cui invece prevalgono le forme evidenti
solo radiologicamente. Altre possibili cause sono le malattie reumatologiche e
gli interventi chirurgici.

o Maligno: è il dolore correlato alle neoplasie, ad eccezione di quelle


mieloproliferative. Dal pdv epidemiologico, il dolore è il sintomo principale
nel 70% dei tumori in stadio avanzato e nel 50% dei pazienti in trattamento;
nel 25% dei casi rappresenta il sintomo di esordio e nel 30% dei casi è molto
intenso. Si ricordi che, come per quasi tutte le patologie, intensità del dolore e
stadio vanno di pari passo. Il dolore oncologico è misto e può essere dovuto a
diversi fattori: invasione delle strutture vicine da parte di neoplasie
voluminose, compresi i plessi nervosi, vari organi e le sierose, produzione di
citochine secondaria ad una sindrome neoplastica; può anche essere dovuto
alla tp, sia chirurgica che medica perché sia rt che ct possono provocare
irritazione e la prima può anche determinare ustioni. Le sedi interessate sono
le medesime del dolore benigno, con ossa, cavo orale e apparato genito
urinario ai primi posti. Clinicamente, i disturbi cui si associa sono i medesimi
citati per il dolore cronico.

Il Clinical Journal of Pain propone una distinzione tra dolore fisiologico, finalizzato ad
impedire all’organismo di peggiorare il danno, e dolore patologico, che non possiede alcuna
utilità e non conduce ad alcuna risposta adattativa.

Si osservano infine delle differenze sulla base del sesso:

- Le donne lamentano principalmente emicrania, dolori legati al ciclo mestruale,


fibromialgie, patologie autoimmuni, malattie dell’articolazione temporo-mandibolare
e colon irritabile.
- Gli uomini lamentano più frequentemente dolore imputabile a cefalea a cluster,
malattia coronarica, ulcere, esofagite, malattie del pancreas e gotta.

Il criterio fisiopatologico si basa sul


modello anatomico della
nocicezione (immagine sopra), dal
quale si evince come sia possibile
andare ad agire
farmacologicamente a diversi livelli
per controllare il dolore.
Attualmente, nella maggior parte
dei casi il dolore risulta facilmente
domabile con la terapia
farmacologica, specie quando si
utilizzano molecole che agiscono a livello centrale. In generale, più le molecole agiscono “a
monte” nel processo di nocicezione e minore sarà la specificità d’azione; questo spiega la
frequente insorgenza di effetti collaterali a carico del sensorio, come parestesie, e dello stato
di coscienza, come sonnolenza o addirittura sedazione.
493
Il medico si trova molto spesso a dover affrontare il dolore: in primo luogo è necessario
riconoscere e valutare il dolore, tenendo in considerazione eventuali aspetti affettivi e
cognitivo-comportamentali che possono influire la percezione del pz; si procede attraverso
lo schema PQRST, uno dei più utilizzati:

- Provocazione/Palliazione: cosa lo induce e cosa lo lenisce


- Qualità: a cosa assomiglia e il tipo di dolore
- Irradiazione
- Severità (intensità)
- Tempo: andamento nell'arco della giornata, acuto/cronico

Esistono altre scale, utilizzate per valutare i diversi aspetti del dolore:

- Scale di intensità monodimensionali


o Analogiche visive (VAS)
o Numeriche (NRS): è la classica scala che valuta il dolore da 0 a 10.
o Verbali (VRS): composta da almeno 6 livelli descrittivi (nessuno, molto lieve,
lieve, moderato, forte, molto forte) a cui poi il medico assegna un punteggio da
1 a 6.
- Scale di sollievo: valutano il tono dell'umore e il distress psicologico; poco usate nel
dolore cronico.
- Questionari multipli: valutano la qualità della vita.

Purtroppo, per i pazienti affetti da decadimento cognitivo, non esistono scale di valutazioni
attendibili, per cui il dolore può solo essere obiettivato osservando le alterazioni
comportamentali correlate: agitazione, insonnia, apatia e psicosi, fino al delirium.

Bisogna poi considerare che, se da una parte il dolore acuto è utile perché ha la finalità di
impedire determinati movimenti o di mandare il messaggio di stimolo pericoloso (ad
esempio, in caso di angina instabile non si dà Morfina perché è importante poter vedere
l’eventuale comparsa di un peggioramento della sintomatologia); d’altra parte il dolore
cronico è indice di qualcosa che non va, di una patologia di base dunque, ma non ha
nessuna utilità e dunque va soppresso per migliorare la qualità di vita del pz. Inoltre, anche
se il dolore cronico viene già controllato con una tp adeguata, talvolta si può sovrapporre un
dolore episodico intenso che richiederà ulteriori trattamenti.

I passaggi successivi sono rappresentati dal trattamento (farmacologico, fisioterapico,


comportamentale) e dal monitoraggio. Nell’anziano in particolare è opportuno prestare
attenzione ai seguenti aspetti:

- Ottimizzazione del riposo notturno


- Alleviamento del dolore a riposo
- Mantenimento e miglioramento dell’autonomia e del tono dell’umore
- Eventuali interferenze tra terapie e comorbidità
- Fattori legati all’invecchiamento: alterata composizione corporea, funzione
epatorenale, albuminemia, funzionalità recettoriale…

494
Dal momento che la maggior parte dei dolori è di tipo osteomuscolare, il primo approccio è
rappresentato dalla fisioterapia già dall’inizio della degenza. La sua utilità infatti è evidente
non solo nelle fasi precoci di una malattia ma anche tardivamente. Le patologie che ne
traggono più beneficio sono la sindrome da immobilizzazione, le metastasi ossee, i disturbi
respiratori, i deficit neurologici ed il linfedema.

I capisaldi nel trattamento farmacologico del dolore sono FANS, analgesici non oppiacei,
oppiacei deboli e forti e farmaci usati come adiuvanti come gli anticonvulsivanti che sono
utili nel dolore neuropatico. In particolare, per un dolore lieve si utilizzano Paracetamolo o
FANS; se poi esso non viene controllato, o se è di entità moderata, si utilizzano oppiacei
deboli, spesso associandoli ad altri farmaci; infine, gli oppiacei forti, anche in combinazione
con adiuvanti, sono utili contro il dolore intenso. Nell’ultimo caso, se l’oppiaceo scelto non
dovesse più funzionare, si è visto che cambiare tipologia risulta essere utile, così come si
potrebbe cambiare anche la modalità di somministrazione: quella da preferire è la via orale
(la gestione della tp domiciliare risulta più semplice e permette di seguire orari fissi da
decidere in base all’emivita del farmaco in modo da capire l’efficacia verificando se tra le
somministrazioni compare comunque dolore), si può però anche somministrarli per via
transdermica o sottocutanea. Durante la tp si devono monitorare PA, FC e FR per capire se le
dosi sono compatibili con il pz. Se neanche questo dovesse funzionare si possono consultare
specialisti, come gli anestesisti o i neurochirurghi che, ad esempio, possono fare
stimolazione spinale o somministrare il farmaco per via epidurale.

In Italia gli analgesici in generale vengono usati meno rispetto ai paesi del nord Europa e
tendiamo ad usare maggiormente FANS e Paracetamolo cercando di ricorrere il meno
possibile agli oppiacei, specie a quelli forti.

Un aspetto cui bisogna prestare attenzione è la via di somministrazione:

- Orale: è la via più sicura, comoda ed economica ma allo stesso tempo è gravata da
un potenziale effetto di primo passaggio marcato e i fattori che possono influenzare
l’assorbimento sono molteplici (esempio: assunzione a stomaco vuoto o pieno);
- Endovenosa: l’inizio dell’effetto è rapido e non c’è effetto di primo passaggio, ma la
durata dell’effetto è inferiore e il rischio infettivo (sepsi, endocardite) non è
trascurabile, specie nel contesto della somministrazione di antinfiammatori.
- Sublinguale: vista l’ampia vascolarizzazione della sede l’inizio dell’effetto è molto
rapido, ma vi si può fare ricorso solo per sostanze liposolubili, pena l’irritazione della
mucosa e l’inattivazione da parte degli enzimi salivari.
- Intramuscolare o sottocutanea: vi si ricorre solo per sostanze non assorbibili per via
gastroenterica e l’assorbimento è più lento rispetto alla sublinguale. È poco utilizzata
perché si prediligono le altre vie.
- Rettale: l’effetto di primo passaggio è ridotto, l’assorbimento è lento, ma è poco
pratica se non per le applicazioni topiche.
- Transdermica: è una via pratica, con accumulo nella cute e passaggio in circolo con
minime oscillazioni della concentrazione plasmatica ed effetto di primo passaggio
assente. È la via preferita per la somministrazione dei nitroderivati, accompagnati da
sostanze che non li rendano edibili dalla flora batterica cutanea.
- Transmucosale: si possono utilizzare sia la mucosa nasale che quella orale. È una via
pratica e ad assorbimento rapido, ma è utilizzabile solo per farmaci liposolubili.

495
- Epidurale o intratecale: è la via più comunemente utilizzata nel post-operatorio ed è
sfruttata per dare analgesia profonda, ma si tratta di una manovra complessa.

PARACETAMOLO
Agisce a livello centrale inibendo le COX e attivando le vie serotoninergiche discendenti, ha
effetto antipiretico e analgesico, ma non antiinfiammatorio. Può essere somministrato per via
orale, rettale o EV, talvolta in associazione con oppiodi deboli, ma non a dosi superiori a
3mg/die poiché il principale effetto collaterale di questo farmaco è l’epatite acuta che si
manifesta in caso di elevato dosaggio.

FANS
Hanno azione analgesica, antiinfiammatoria e analgesica e vengono ampiamente usati in
caso di dolori muscoloscheletrici; sono, invece, meno efficaci sul dolore intenso. Possono
essere associati a oppioidi deboli ma non fra di loro. Sul versante degli effetti collaterali,
possono danneggiare lo stomaco, aumentare il rischio di sanguinamento (a tal proposito,
quello con profilo di rischio migliore è l’Ibuprofene; nei pz con questi tipo di rischio,
comunque, è da preferire il Paracetamolo), e danneggiare il rene (sono controindicati in caso
di insufficienza renale), riducendone la funzionalità (vasocostrizione sull’arteriola afferente) e
portando, tra le altre cose, ad iperpotassiemia. Bisogna poi ricordare che i FANS aumentano
la PA, specie se in associazione agli ACE-ib; si dovranno allora preferire i calcio-antagonisti.
Gli inibitori selettivi della COX2 come il Celecoxib non vanno, invece, ad alterare i valori
pressori, quindi, in pz magari già ipertesi sono da preferire.

Dal momento che sono tutti efficaci, per decidere quale scegliere è importante considerare:

1. L’età del pz
2. L’eventuale presenza di tp concomitante con anticoagulanti
3. La funzionalità renale
4. L’emivita del farmaco: alcuni devono essere dati più volte al giorno, altri offrono
invece la possibilità di ridurre le somministrazioni perché l’emivita è più lunga, come
nel caso del Piroxicam.

Possibili effetti idiosincrasici, quindi non prevedibili e che si verificano solo in alcuni pz
sono:

- Reazione anafilattica, specie con ASA (se un pz presenta fattori come la poliposi
nasale, edema laringeo, rinite allergica, orticaria e broncostenosi sarà maggiormente
predisposto).
- Sindrome di Stevens Johnson: si ha eritrodermia con desquamazione della cute e
delle mucose.
- Sindrome di Lyell: si ha un episodio di epidermolisi bollosa con lesioni che si aprono
con fuoriuscita di siero e disidratazione e poi cicatrizzano molto lentamente con
rischio di sovra-infezione.

In pz che assumono FANS non selettivi è importante che le dosi siano quelle minimi efficaci
e che i pz, specie se hanno un’anamnesi positiva per ulcera peptica, vengano monitorati e
protetti con IPP

496
OPPIOIDI – GENERALITÀ
Sono sostanze esogene che mimano l’azione di peptidi endogeni in grado di modulare
nocicezione, funzioni gastro-intestinali, funzioni endocrine e del SNA, meccanismi di
gratificazione e dipendenza e i processi di memoria. Più in particolare:

- Recettori mi: analgesia, ma anche effetti collaterali come depressione respiratoria,


effetti gi e cv, dipendenza.
- Recettori kappa: analgesia spinale e sedazione, ma anche effetti collaterali come
miosi.
- Recettori delta: analgesia, ma anche effetti collaterali come allucinazioni, disforia,
attivazione respiratoria e vasomotoria.

In particolare, ci sono effetti collaterali associati alla fase di induzione (nausea e vomito,
sedazione, prurito, disturbi cognitivi) e altri che compaiono nella fase di mantenimento
(stipsi –> lassativi, dieta, idratazione, enteroclismi; mioclonie –> Clonazepam; depressione
respiratoria –> Naloxone; Xerostomia –> Saliva artificiale, pilocarpina; ritenzione urinaria)

A livello di questi recettori, gli oppiodi possono comportarsi come:

1. Agonisti puri (Morfina, Metadone, Fentanil) o parziali (Tramadolo, Codeina,


Buprenorfina). La differenza è che i primi non hanno effetto tetto, quindi possono
portare ad effetti collaterali anche molto intensi.
2. Antagonisti
3. Agonisti/antagonisti

OPPIOIDI DEBOLI
Rientrano in questa categoria:

1. Codeina: ha bassa affinità per i recettori mi e, dunque, la potenza analgesica è ridotta.


2. Tramadolo (Contramal): ha un duplice meccanismo di azione perché si comporta
come agonista parziale del recettore mi e come SNRI. La potenza, poi, viene
aumentata quando comincia il metabolismo epatico poiché uno dei prodotti ha
attività 2-4 volte superiore. Può essere somministrato per via orale o rettale e le dosi
devono essere ridotte nei pz con insufficienza renale.
3. Tapentadolo (Palexia)

Può essere utile associarli ai FANS, con i quali si trovano spesso in combinazione fissa come
nel caso di Paracetamolo+Codeina. Hanno comunque un effetto tetto tale per cui, oltre ad
una certa dose, aumentandola ulteriormente, non si otterranno più benefici.

OPPIACEI FORTI
Il capostipite è la Morfina, da cui poi sono stati sviluppati diversi derivati. Gli oppiacei
agiscono su vari recettori inibendo il sistema nocicettivo ascendente e il sistema di controllo
discendente; agiscono poi sulla mediazione delle molecole infiammatorie. Agendo sui
medesimi recettori, possono dare sedazione, disforia e depressione respiratoria; quest’ultimo
effetto collaterale è molto temuto, ma, in realtà, nel caso si manifestasse, sarebbe comunque
sufficiente somministrare l’antidoto e, inoltre, se viene accuratamente dosata è molto difficile
che questa complicanza possa insorgere. In alcuni casi il farmaco è già disponibile associato
all’antidoto, come con il Targin (Ossicodone+Naloxone). La depressione respiratoria si ha
497
per effetto sui recettori Delta: i farmaci che hanno maggiore affinità per questo recettore,
ovvero Morfina, Fentanil e Sulfentanil, sono quelli che hanno grande efficacia antidolorifica,
ma anche maggior probabilità di causare depressione respiratoria. Al contrario, la
Buprenorfina, ad esempio, non agisce sui recettori delta. Altri effetti collaterali che possono
manifestarsi in corso di trattamento con oppiacei comprendono: nausea, vomito, stitichezza,
secchezza delle fauci, globo vescicale, sedazione, sudorazione eccessiva e prurito. Per
gestirli si può consigliare, ad esempio, l’uso di lassativi o di antiemetici e di bere molto. In
caso ci siano alterazioni dello stato di coscienza o di cianosi, come nel caso
dell’insufficienza respiratoria, si può usare l’antidoto. Generalmente, se la dose è ben
calibrata non vi si dovrebbe ricorrere, talvolta però ci possono essere accumuli dovuti, ad
esempio, ad un deterioramento della funzione renale.

La Morfina è ancora oggi l’oppiaceo forte maggiormente utilizzato, bisogna tuttavia


esercitare alcune cautele poiché, avendo metabolismo epatico, la dose deve essere
aggiustata sulla base della funzionalità di quest’organo. Viene poi eliminata per via renale.
Bisogna, inoltre, ricordare che passa la BEE e può quindi dare effetti sull’umore. Ha varie vie
di somministrazione, tra cui quella da preferire è quella orale. Le formulazioni disponibili
comprendono:

- Morfina solfata (cps): l’effetto permane per 8-10h. Il dosaggio iniziale è di 10mgx2-
3/die (se invece non si passa dal secondo step, quindi dagli oppiacei deboli, si può
dimezzare il dosaggio).
- Oramorph (gocce): trova applicazione principalmente in caso di dolore episodico e
all’inizio della tp per cercare il dosaggio giusto. È poi utile per pz che faticano a
deglutire.
- Morfina Cloridrata (fiale) : EV o SC, si inzia con dosi minori di una fiala che è da
10mg; rispetto alla dose data per OS, infatti, il rapporto deve essere 1:2-3. La via
sottocutanea è utile in pz con patrimonio venoso esaurito, ad esempio a causa della
ct; la somministrazione EV può, invece, essere scelta per pz che hanno già accessi
venosi o in pz con un importante stratto di adipe che inficerebbe la somministrazione
SC.

Buprenorfina e Sulfentanil sono poi disponibili in cerotti transdermici che vanno cambiati
ogni 3 giorni. Il Fentanil esiste poi anche in Spray: venendo assorbito per via transmucosale
ha una latenza d’azione molto breve e può essere utile nel trattamento del dolore episodico
di importante entità. La Buprenorfina, invece, è utile in caso di soggetti con ClCr<30mL/min:
essa è, infatti, escreta per via fecale, quindi si riduce il rischio di accumulo.

Andrebbero presi per un lasso di tempo non eccessivo perché possono creare dipendenza
fisica e psicologica e perché si va incontro a fenomeni di tolleranza, tale per cui è necessario
aumentare continuamente la dose. A differenza di quanto si pensi, la tolleranza non si
instaura rapidamente e comunque si può cambiare farmaco per aggirare questo fenomeno.

ADIUVANTI
1. Farmaci con effetto analgesico diretto:

a. Antidepressivi
b. CS (utili, ad esempio, in caso di dolore neoplastico da effetto massa perché la
riduce)
498
c. Anestetici locali
d. Antistaminici
e. Neurolettici
f. Anticonvulsivanti come il Pregalabin che deve essere inizialmente dato ad un
dosaggio basso di 25mg, ma può poi essere aumentato,
g. Bifosfonati

2. Farmaci utili per contrastare gli effetti collaterali:

a. Antiemetici
b. Lassativi

3. Farmaci con effetto analgesico indiretto:

a. Antispastici
b. Antitussigeni
c. Miorilassanti
d. Ansiolitici, come la Clonidina che è utile perché toglie la componente
angosciante del dolore grazie al suo effetto sedativo a livello centrale
e. Antidepressivi
f. Antiacidi

Infine, abbiamo il Mannitolo che è utile per controllare l’edema cerebrale.

499
ANAFILASSI
È una sindrome multisistemica causata dall’improvviso rilascio di mediatori chimici da parte
delle mastcellule nella circolazione sistemica. In particolare, spesso si tratta di reazioni IgE-
mediate a cibi, farmaci (!antibiotici), punture d’insetto o da qualsiasi sostanze in grado di
causare la degranulazione delle mastcellule. L’incidenza varia dall’1.5 a 7,9 per 100000
persone all’anno.

La morte può sopraggiungere per problemi riguardanti le vie aeree superiori, le vie aeree
inferiori o entrambe, e/o una compromissione delle funzioni cardiovascolari (shock).
Peranto, si tratta di una situazione che deve essere gestita come una fase di emergenza,
ovvero valutando i punti ABCDE:

A. Airways: devo riconoscere un’eventuale ostruzione delle vie aeree, la quale può
essere dovuta a depressione del SNC, sangue, vomito, corpi estranei, traumi, infezioni
o infiammazioni, ingestione di caustici, laringospasmo, anafilassi (edema della
glottide). Nel caso in cui risultino chiuse, è possibile utilizzare ausilii come cannule
orofaringee o nasofaringee, intubazione tracheale oppure si può somministrare O2 ad
alti flussi.

B. Breathing: si valuta la respirazione, quindi:

Osservo l’espansione degli emitoraci, la deformità, il colorito


Palpo in modo da poter apprezzare crepitio, enfisema sottocutaneo, dolorabilità in
relazione a traumi, fratture costali o pneumotorace.
Ascolto e verifico la presenza o l’assenza del murmure vescicolare o la presenza di
rumori patologici. ! Nel caso di un’anafilassi posso trovarmi spesso di fronte a un
broncospasmo e auscultare rumori secchi, sibili a volte udibili senza il
fonendoscopio.
Conto la frequenza respiratoria, che va annotata.
Saturimetro

Le cause di un’alterazione della respirazione, da tenere in considerazione per fare


diagnosi differenziale, sono depressione del SNC, alterazioni neuromuscolari, fratture,
patologie polmonari, emotorace, infezioni, asma, embolia polmonare, ARDS. Per
trattare un problema della respirazione, posso somministrare O2, trattare la causa
sottostante e supporto il respiro, se necessario ventilando il pz. Se c’è broncospasmo è
utile il Salbutamolo. Per tutti i pazienti con insufficienza respiratoria, è bene calcolare
il rapporto PO2/FIO2 che è utile per comprendere la gravità dell’ipossiemia, la quale
sarà grave se il risultato è <200.

C. Circulation: devo valutare la perfusione periferica tramite il tempo di riempimento


capillare, il polso radiale, la PA e il turgore giugulare. È poi richiesto un monitoraggio
ECG e il reperimento di due accessi venosi, utili anche per poter fare reintegrazione
volemica che, in caso di anafilassi, deve essere di 20mL/kg. Infine, si deve monitorare
la diuresi e quantifarla con cateterismo vescicale. Le cause di arresto
cardiorespiratorio sono molte ed è bene ricordarle per porre diagnosi differenziale:

500
tamponamento cardiaco, SCA, aritmie, cardiopatie, intossicazioni, ipossia,
ipovolemia, ipotermia e alterazioni EAB.

D. Disability: si devono valutare le condizioni neurologiche del pz.

E. Exposure: nel caso di shock anafilattico valuto l’esposizione del paziente.

Le linee guida europee per la diagnosi di anafilassi affermano che la diagnosi è altamente
probabile quando c’è insorgenza improvvisa di una situazione patologica, rapida, che
coinvolge la cute, le mucose o entrambe (prurito, flushing, edema della lingua, del palato e
dell’ugola) in associazione ad almeno uno tra sintomi respiratori e ipotensione o altri segni di
disfunzione d’organo.

In alternativa, è necessario avere 2 o più di questi criteri che si sviluppano in seguito al


sospetto di un’esposizione pregressa ad un allergene:

1. Interessamento della cute o della mucosa o di entrambi.


2. Sintomi respiratori
3. Ipotensione o disfunzione d’organo
4. Sintomi gastrointestinali (crampi addominali e vomito)

Infine, si può considerare l’anafilassi in seguito all’insorgenza di ipotensione in seguito


all’esposizione ad un allergere conosciuto.

Questa condizione è più probabilmente fatale nei seguenti casi:

• Il paziente risponde poco all’adrenalina.


• L’adrenalina viene somministrata troppo tardi.
• La dose di adrenalina è troppo bassa.
• Il sito di somministrazione non è adeguato (se data sottocute per esempio, la modalità
migliore è quella intramuscolare).
• Scadenza dell’adrenalina.
• Il paziente non è posto in posizione supina. E’ importante che in qualsiasi condizione
di ipotensione il paziente sia posto in posizione clinostatica.
• Se il paziente assume β-bloccanti può avere una minore risposta al trattamento. Può
essere necessario ripetere le dosi e somministrare glucagone.
• Il paziente è allergico al sodio metabilsolfito contenuto nell’epinefrina come
antiossidante.

TERAPIA DELL’ANAFILASSI
Se sospetto una diagnosi di anafilassi somministro subito: 0.3-0.5mg di Adrenalina IM (è la
modalità da preferire perché l’aumento della concentrazione è più rapido ed è più sicura),
ripetendo eventualmente la dose ogni 5-15min. Se non risponde con dosi multiple, si può
fare un’infusione EV di Adrenalina; in alternativa si può fare una somministrazione intraossea
o intratracheale di adrenalina, in casi limite in cui l’accesso venoso non è disponibile. La
somministrazione nebulizzata, tramite aerosol, può essere giustificata per edema della
laringe e distress respiratorio.

501
L’adrenalina viene utilizzata perché, agendo sui recettori alfa1 è in grado di indurre
vasocostrizione e di inibire l’edema delle mucose; agendo sui recettori beta2, inoltre,
permette di contrastare la broncocostrizione (azione svolta anche dai beta2-agonisti che
possono essere dati in associazione). Infine, agendo sul cuore, l’adrenalina porta ad un
aumento della FC e della FE.

Parallalamente, se il paziente non ha edema della glottide, e non necessita di intubazione,


deve essere messo in posizione orizzontale, con estremità inferiori sollevate per
massimizzare la perfusione degli organi vitali. Le donne gravide vanno invece posizionate
sul lato sinistro per evitare che l’utero gravidico vada a comprimere la vena cava.

Inoltre, deve essere iniziata la somministrazione di fluidi.

Posso poi associare Noradrenalina e Vasopressina, così come beta-agonisti in aerosol. Gli
Antistaminici (anti H1 e anti H2) sono farmaci di seconda linea, non c’è una vera
dimostrazione che siano così efficaci. I Corticosteroidi, avendo un’azione più lenta, non
hanno grande efficacia nell’acuto, ma riducono il rischio nelle anafilassi bifasiche o
protratte. Spesso viene somministrato prednisolone 1-2 mg/kg.

Il ricovero ospedaliero può essere necessario per i pazienti con gravi sintomi, con bassa
risposta al trattamento, in quelli che in passato avevano avuto reazioni anafilattiche protratte
o presentano gravi comorbidità. In ogni caso, i pz devono essere monitorati per 4-8h.

Alla dimissione bisogna prescrivere Adrenalina autoiniettabile (0,3 mg) e informare il


paziente o i famigliari su come utilizzarla in caso di bisogno.

502
INTOSSICAZIONI
Negli USA la prima causa di morte per evento traumatico sono gli avvelenamenti e le
intossicazioni acute, per la maggior parte legati a farmaci, in particolare farmaci prescritti. Le
cause, comunque, sono molto diverse a seconda della nazione, dell’ambiente e del tipo di
servizio offerto. Le cause più comuni di intossicazione in Italia sono:

- Alcool: molto comune, poco più frequente negli uomini che nelle donne
- Farmaci: più comune nelle donne (M 11% vs F 42%)
- Sostanze stupefacenti: più comune negli uomini
- Prodotti industriali, domestici e personali: più comune nelle donne (sono inclusi
anche in questa categoria i prodotti utilizzati per la pulizia)
- Monossido di carbonio: non molto diverso tra i due sessi, leggermente di più le donne
- Alimentari
- Veleni animali

L’assunzione volontaria di tossici con scopo autolesivo è più frequente nelle donne che negli
uomini e in un terzo dei casi viene assunta più di una sostanza. Un tentativo di suicidio ha
una percentuale di mortalità del 2% negli uomini e dell’1% delle donne. Anche se la
mortalità immediata non è così elevata, i soggetti che hanno tentato il suicidio una volta
hanno un rischio di mortalità più elevato per i tentativi futuri.

Di fronte ad un pz intossicato, la prima cosa è il triage iniziale, spesso effettuato da coloro


che trasportano il soggetto al presidio ospedaliero. La priorità, come in tutte le emergenze è
la stabilizzazione del paziente e delle sue funzioni vitali, motivo per cui, se esse fossero
alterate:

- BLS (Basic Life Support)


- Se vi è alterazione della coscienza è utile la somministrazione di Tiamina 100 mg, per
via endovenosa o intramuscolo (per encefalopatia di Wernicke: se c’è un abuso di
alcol si può sviluppare un deficit di tiamina), di Destrosio 25 g (per ipoglicemia), di
Naloxone 0,4-2,0 mg (se sospetto assunzione di oppiacei, in presenza di midriasi). Il
Flumazenil è un’antagonista delle benzodiazepine, bisogna però valutare se darlo
perché spesso i pz hanno assunto sia la benzodiazepine che gli antidepressivi e
l’effetto delle prime è utile per evitare le crisi comiziali che, altrimenti, si
assocerebbero ai secondi.

Si ricovera in tp intensiva se c’è depressione del SNC, letargia, GCS<6, distress respiratorio,
ipossia, insufficienza respiratoria, ipotensione, convulsioni. Talvolta, poi, alcuni antidoti che
possono essere somministrati richiedono un controllo stretto.

Una volta stabilizzate le funzioni vitali, si cerca di fare diagnosi, che sarà fortemente basata
sull’anamnesi, sia di quanto riportato dal pz stesso, pure mantendo alcune riserve, sia di
quanto detto dai soccorritori. È importante venire a conoscenza della modalità e circostanze
della presunta intossicazione/contatto: quando è stata assunta la sostanza tossica, quanto è
alto il paziente e quanto pesa e la sua età. Aiutandosi anche con le indagini tossicologiche,
si definisce il tipo di tossico e la quantità stimata.

503
Con l’esame obiettivo si devono valutare:

- Habitus: psicotico, abuso di alcol/droghe.


- Occhi: miosi (oppioidi, sedativi-ipnotici), midriasi (allucinogeni, simpaticomimetici,
anticolinergici, antidepressivi triciclici), la presenza di nistagmo, di iperemie
congiuntivali
- Apparato neuromuscolare: ipotono (sedativi-ipnotici), ipertono (simpaticomimetici),
tremori, fascicolazioni, distonie
- Cute: se presenti eritemi, segni di ustioni o necrosi (acidi e basi forti), flittene nei punti
di decubito (barbiturici), arrossamento e congestione del viso, con secchezza cutanea,
correlati a midriasi e tachicardia (anticolinergici), sudorazione (colinergici), segni di
agopuntura lungo il decorso delle vene (tossicodipendenza), dissociazione tra colore
e condizioni respiratorie (IR senza cianosi=cianuri; cianosi senza IR=meta-
emoglobinemia)
- Mucose/orofaringe: disepitelizzazione fino ad ustione (ingestione di caustici);
- Urine: caratteristiche macroscopiche, discromia, odore, quantità
- Contenuto gastrico: si deve raccogliere e conservare un campione prima di fare
gastrolusi per fini medico legali, per gli odori da correlare all’alito, per il colore
caratteristico e per verificare la presenza di sangue o frustoli necrotici (sostanze
caustiche)
- Alito: risulta essere indicativo dell’assunzione di alcune sostanze. Per esempio, in
caso di intossicazione da etanolo l’alito sa di acetone per la chetoacidosi alcolica, in
casi di intossicazione da cianuri sa di mandorle amare, con l’arsenico sa di aglio, con
gli idrocarburi sa di naftalina. Alti casi particolari, al di là delle intossicazioni, sono
l’insufficienza epatica con fœtor hepaticus e il tipico odore di urine infette in sepsi.

Inoltre, si devono valutare la PA, la satuazione e fare ECG ripetuti perché, alcune sostanze
come gli antidepressivi triciclici, possono dare aritmie, in realtà, comunque, quasi tutti gli
psicofarmaci danno allungamento del QT. Le aritmie più temute sono soprattutto quelle
ventricolari, provocate da cocaina, amfetamine, la teofillina, antidepressivi, fenotiazine. Ci
sono anche alcuni farmaci da tener presente che non ci aspetteremmo essere tossici come
alcuni antibiotici (azitromicina, chinolonici e macrolidi) che hanno un potenziale effetto
proaritmico. Ci sono poi una serie di sostanze che possono dare bradicardia e BAV come i
beta-bloccanti, i calcio antagonisti, la digitale, i sedativi, gli ipnotici.

Può capitare un quadro caratterizzato da uno stato di agitazione e iperattività


(simpaticomimetici), la classica sindrome fight-flight (combatti-fuggi), fino alle convulsioni e
all’ipertermia, che può essere legato a certe sostanze come la cocaina, ecstasy. Un’altra
condizione è la sindrome anticolinergica correlata a antidepressivi triciclici, atropina,
antipsicotici e antispastici: si presenta con tachicardia, aritmie, confusione e convulsioni. I
farmaci che inibiscono il reuptake della serotonina possono scatenare una sindrome
serotoninergica caratterizzata da agitazione, delirium, ipertono, tachicardia, tachiaritmia.

Sul versante degli esami biochimici e strumentali, possiamo fare EAB se sospetto
un’intossicazione da monossido di carbonio, un EEG in caso di episodi comiziali di sospetta
origine tossica o un EMG che rileva danni polineuropatici da esposizione cronica a sostanze
(alcol etilico, solventi) ed espressioni neuropatiche da intossicazioni acute (veleno di
serpente, insetticidi, organofosforici).

504
APPROCCIO TERAPEUTICO
1. Decontaminazione (riduzione dell’assorbimento della sostanza tossica): prima di
effettuarla, devo considerare di che sostanza si tratta, quindi il suo grado di tossicità,
la quantità e la tossicocinetica dell’agente tossico; bisogna poi considerare quanto
tempo è trascorso dall’esposizione e le condizioni cliniche del paziente come l’età, il
peso, la gravità dei sintomi ed eventuali comorbidità. La decontaminazione si può
fare con:

a. Carbone attivato: si lega alle sostanze tossiche e ne riduce la quantità assorbibile.


Il suo utilizzo è ristretto a sostanza specifiche (NON serve contro liticio, sali
ferrosi e cianuro) e prima si riesce ad usarlo, maggiore sarà l’effetto. Viene
somministrato in polvere, per os o con sondino, alla dose di 0.5-1g/kg. Presenta
poi alcune controindicazioni: non può essere usato se mancano i riflessi di
protezione delle vie aeree, se ci sono lesioni del tratto gi e se sono stati ingeriti
dei caustici. Possibili complicanze sono vomito, polmonite ab ingestis e stipsi. Il
paziente viene tenuto sotto osservazione e se nel giro di 6-8 ore ha emesso delle
feci tracciate (feci nere) significa che la sostanza precedentemente assunta è stata
già espulsa perché il carbone ha già fatto tutto il transito.
b. Svuotamento gastrico (emesi, che non si fa quasi mai, e gastrolusi). La gastrolusi,
in particolare, è indicata in caso di ingestione recente di sostanze potenzialmente
letali. Ha una buona efficacia, alla quale però si associano complicanze come la
polmonite ab ingestis, perforazioni, ipossia o aritmie. Non può essere fatta se c’è
rischio di aspirazione, se sono stati ingeriti caustici, idrocarburi o sostanze
schiumogene, se ci sono lesioni esofagee o gastriche.
c. Catarsi salina (si fa quasi sempre)
d. Irrigazione intestinale (usata quasi mai)

2. Depurazione (eliminazione della sostanza già assorbita): per eliminare una sostanza
può essere utile aumentare il flusso urinario, cosa che però è possibile fare solo in pz
in cui si può idratare abbondantemente. A volte si può ricorrere all’emodialisi.
3. Uso di antidoti o farmaci specifici
4. Trattamento sintomatico

INTOSSICAZIONE DA MONOSSIDO DI CARBONIO


L’intossicazione da CO è una causa tipica di avvelenamento accidentale negli USA e causa
circa 800 morti all’anno. La CO è un gas inodore, incolore, insapore, non irritante, derivante
dalla combustione incompleta di materiali organici che ha la capacità di legare hb con
affinità molto superiore all’ossigeno. Nel momento in cui si ha il sospetto, dunque, è
possibile richiedere il dosaggio della COhb. Fisiologicamente, quest’ultima dovrebbe essere
di 1-2% o, nei fumatori, del 5-6%; nel caso invece di un pz con intossicazione sintomatica
avremo valori superiori al 15%. Se, invece, si misura solo la saturazione, non avremo un
riscontro patologico.

Le manifestazioni cliniche sono varie e dipendono da diversi fattori come la concentrazione


di CO, il tempo di esposizione, le condizioni generali, l’età del paziente (peggio nell’infanzia
e nell’età avanzata) ed eventuali comorbidità come malattie cardiovascolari, anemia,
patologie polmonari. Le classiche manifestazioni cliniche per esposizione cronica sono
cefalea, astenia e stordimento-vertigine, (difficoltà di concentrazione, parestesie, dolore
toracico, palpitazioni, disturbi visivi, nausea, diarrea, dolore addominale). Spesso queste
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alterazioni sono sfumate e può essere facilmente confusa con altre malattie e quindi la
diagnosi si fa se si ha il sospetto.

È fondamentale la rimozione immediata del paziente dalla fonte di CO. Si somministra


subito O2 al 100% in maschera ad alti flussi senza ricircolo, almeno a 10-15 L/min, si
controlla la COHb, si monitorano le vie aeree e vanno tenuti in osservazione anche
eventuali persone presenti sulla scena. Se tutto va bene e se la terapia con ossigeno viene
somministrata per tempo, funziona molto bene, e il paziente viene dimesso quando i livelli
di CO <10% e con la scomparsa dei sintomi. Se non si interviene tempesitvamente il pz può
essere ricoverato in modo che i suoi parametri possano essere strettamente monitorati.
L’ossigeno in ambiente iperbarico consente di rimuovere rapidamente l’agente tossico e
l’ipossia, dunque è un’opzione da considerare se non si ottiene la risoluzione rapida dei
sintomi. Non ci sono evidenze ma esiste un consenso di esperti relativo ai cut-off oltre ai
quali è richiesto il trattamento in camera iperbarica: livelli di CO superiori al 25% (in donne
gravide basta 20%), se il paziente perde coscienza, in caso di acidosi metabolica grave (pH
< 7,1) ed infine evidenza di danno d’organo ischemico (dolore toracico, alt. ischemiche
ECG, alt stato mentale). La terapia iperbarica non presenta grandi controindicazioni e si è
visto che riduce la morbilità, migliorando le sequele neurocognitive. Dopo la camera, si
continua la terapia con ossigeno ad alti flussi in ambiente normobarico e quando la COHb
scende sotto il 10% e il paziente è asintomatico, può essere dimesso.

INTOSSICAZIONE DA COCAINA
La cocaina inibisce il reuptake della norepinefrina e della dopamina a livello pre-sinaptico,
quindi si ha un aumento di catecolamine a livello post-sinaptico, con un iperstimolo dei
recettori che provoca un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. Ad
un’ora dall’ingestione di cocaina c’è un aumento di 23 volte della probabilità di avere un
infarto e a 3 ore il rischio è 4 volte superiore rispetto a chi non fa uso di cocaina.

Se un paziente si presenta con dolore toracico che si riesce a correlare alla cocaina, si danno
antiaggreganti, ma la terapia è basata soprattutto sull’utilizzo di benzodiazepine, sui
vasodilatatori come nitroglicerina o nitroprussiato, e bisogna stare attenti a non dare i beta-
bloccanti (come nel feocromocitoma), perché se dai il beta-bloccante si rischia di perdere
quel poco effetto dilatante dei beta periferici. Quindi, se si vuole dare un beta-bloccante si
deve dare un alpha-bloccante prima.

OVERDOSE DI OPPIACEI
La prima cosa da fare in caso di sospetto è la raccolta anamnestica per capire di che
sostanza si tratti; ad esempio, il Metadone ha emivita lunghissima e deve tenerne conto e
perché nelle ore successive alla ripresa per capire come gestire il pz devo capire il motivo
per cui abbia assunto queste sostanze. Per la conferma di una sospetta intossicazione da
oppiacei si deve fare anche l’EO, ad esempio, spesso essi daranno miosi pupillare con
pupille a capocchia di spillo, reperto comunque non onnipresente. Il miglior predittore di
intossicazione da oppiacei è l’insufficienza respiratoria, che non si configura
necessariamente come una bassa saturazione, ma potrebbe presentarsi solo come
ipercapnia. Durante un’overdose di eroina si può poi avere tendenza alla bradicardia e
vasodilatazione con lieve riduzione della PA. Possono poi comparire manifestazioni
epilettiche o alterazioni secondarie all’ipossia cerebrale. Alcuni oppiacei hanno poi
un’importante rischio aritmico, motivo per cui è utile fare un ECG.

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Tra i fattori che influenzano la prognosi e la probabilità di avere overdose abbiamo:

- Co-assunzione di eroina con altre sostanze, soprattutto alcol, benzodiazepine e


cocaina (“Speedball”, ossia cocaina + eroina o morfina, aumenta 2,7 volte il rischio di
overdose fatale di eroina); motivo per cui, devo sempre accertarmi che nell’organismo
del pz non siano presenti altre sostanze.
- Se un pz ha recentemente provato a disintossicarsi e ricade nell’abuso avrà una
diminuita tolleranza e sarà più facile che sviluppi overdose; invece, al contrario di
quanto si pensa, non ci sono evidenze importanti che indichino un reale peso della
sostanza con cui la droga è tagliata.
- Se l’oppioide è assunto EV aumenta la probabilità di overdose.

Per contrastare l’attività degli oppioidi e i loro effetti sull’organismo si può somministrare
Naloxone, ovvero un antagonista dei recettori per gli oppiacei. Deve comunque essere
gestito con cautela: in primo luogo, la durata d’azione è di massimo 45min quindi, in caso di
oppioidi a lunga durata d’azione una dose potrebbe non essere sufficiente. In secondo luogo
una delle complicanze dell’uso di questo farmaco è l’edema polmonare acuto con rantoli,
ipossia ed espettorato schiumoso. Altre complicanze sono l’ipotermia, legata al fatto che il
farmaco da vasodilatazione ed il paziente sta in un luogo freddo, polmonite ab ingestis e
rabdomiolisi. In teoria, se viene somministrato in ambiente ospedaliero, il pz non dovrebbe
essere dimesso fino alla stabilizzazione dei parametri vitali e al raggiungimento di un
punteggio alla GCS di 15; in realtà, però, spesso il pz firma per potersene andare.

Sembra che stiano per arrivare sul mercato altri antidoti ancora più efficaci.

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