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Lezione n°00 del 16.05.

2022
Sbobinatori: Federica Zanon e Gloria Simonazzi
Controllore:
Docente: Prof. Rocco Liguori
Argomenti: EMG, ENG,
Sbobina N°17 del 16.05.2022
Sbobinatori: Federica Zanon e Gloria Simonazzi
Controllore: Pietro Pracucci
Docente: Prof. Liguori
Argomenti: EMG/ENG, Malattie del Motoneurone e SLA

EMG/ENG

Questa è l’ultima parte del corso di neurologia e sarà dedicata principalmente alle patologie neuromuscolari,
patologie più frequenti e alcune più rare che riguardano il Sistema Nervoso Periferico.
Durante il corso sono state trattate alcune indagini elettrofisiologiche, come l’EEG (durante la lezione
sull’epilessia), o la polisonnografia, indagine neurofisiologica per lo studio del sonno. In questa parte, verrà
introdotta un'altra indagine, che è l’esame elettromiografico. Si tratta di un esame molto richiesto nella pratica
clinica, dato che le patologie neuromuscolari sono molto frequenti. Lo spettro delle patologie neuromuscolari,
infatti, va dalla semplice sciatica (interessamento radicolare per ernia discale), all’inquadramento di una patologia
del nervo, ad esempio una compressione del nervo mediano (sindrome del tunnel carpale), o una polineuropatia,
una malattia primitiva del muscolo, o delle cellule delle corna anteriori. Se il MMG sospetta una di queste patologie,
richiederà l’esame elettromiografico. Questo esame è complesso nell’esecuzione e richiede un protocollo che va
differenziato a seconda del sospetto clinico che viene posto.
In questa lezione si farà una breve sintesi dell’elettromiografia, per avere un inquadramento teorico dell’esame
elettromiografico ed elettroneurografico. Questi vengono comunemente indicati come “elettromiografia”, ma
nell’esame di per sé non viene esplorata solo l’attività elettrica generata all’interno di un muscolo, ma anche quella
generata in un nervo.

Elettroneurografia (ENG)
Questa in basso è una sezione trasversa di un nervo, che solitamente è costituito da migliaia di assoni. In
piccola parte questi assoni possono essere altamente mielinizzati. Poi ci sono assoni scarsamente
mielinizzati, in numero maggiore, ma quelli in assoluto più numerosi sono quelli non mielinizzati, ossia
gli assoni amielinici (un agglomerato di assoni circondato dalla cellula di Schwann).
L’assone in alto a sinistra è molto più mielinizzato, e lo
si può affermare perché è possibile osservare un
manicotto che lo circonda. Quando si esplora un tronco
nervoso con un esame elettroneurografico di routine, si
riesce ad esplorare solo gli assoni altamente
mielinizzati. Quindi, l’ENG fornisce informazioni
importanti, ma selettive. Infatti, con l’indagine di routine
si sa poco delle alterazioni degli assoni poco mielinizzati
e non si sa nulla degli assoni amielinici. Questo è un
aspetto fondamentale da ricordare.

Un altro elemento sicuramente


importante da considerare è che,
quando si indaga un tronco nervoso, il
grado di mielinizzazione è
caratterizzato da una mielinizzazione
differenziata per età. Il grado di
mielinizzazione nel tronco nervoso di
un neonato è decisamente inferiore
rispetto al bambino, e nel bambino è
minore rispetto all’adulto. Da una certa
età in poi, il grado di mielinizzazione
scende. Dunque, si deve tenere conto
che, quando si esaminano i nervi e si valuta il grado di mielinizzazione, nel bambino si otterranno valori
non paragonabili a quelli dell’adulto. Discorso analogo per l’anziano, che conduce molto più lentamente
rispetto ad un adulto.

Si applicano delle tecniche per lo studio dei nervi, con


l’utilizzo di stimolatori elettrici, che vengono posizionati
lungo il decorso del nervo in più punti. È richiesta una buona
conoscenza del decorso del nervo in esame.
Quando si applica lo stimolo, si va a depolarizzare tutti gli
assoni altamente mielinizzati del tronco nervoso.
All’interno di questo tronco nervoso, ci sono due tipi di fibre:
- Ci sono degli assoni altamente mielinizzati che
conducono informazioni verso i muscoli, quindi sono
assoni motori. Questi assoni dalle cellule delle corna anteriori, attraverso le radici, i plessi e i
nervi, vanno ad innervare i vari muscoli.
- Ci sono anche fibre che trasportano informazioni sensitive, dalla periferia verso il centro.
Quindi, stimolando il tronco nervoso, si ottiene una risposta che permette di comprendere la formazione
delle fibre motorie, che conducono l’impulso al muscolo, e delle fibre sensitive.

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Qui un esempio di stimolazione
del nervo mediano al polso.
Questo innerva, nell’eminenza
tenar, il muscolo adduttore
breve del pollice. Stimolando a
questo livello, si produce una
depolarizzazione che va ad
attivare il muscolo innervato.
L’onda di depolarizzazione attiva
una risposta strettamente legata
alla quantità di assoni che
vengono stimolati.
La risposta ha due parametri fondamentali che devono essere considerati:
1. Tempo di comparsa rispetto allo stimolo/Latenza (ms). Si parla di latenza, perché si ottiene una
risposta dopo un certo tempo. Il tempo che intercorre tra lo stimolo e la risposta varia in funzione
della distanza dallo stimolo. Se stimolo il nervo al gomito la latenza sarà maggiore rispetto alla
latenza a livello del polso, perché la distanza è inferiore. La latenza sarà ancora maggiore se la
stimolazione avviene a livello dell’ascella.
2. Ampiezza (mV). La risposta è pressocché sovrapponibile, perché si applica uno stimolo adeguato
che è in grado di depolarizzare tutti gli assoni altamente mielinizzati in quel tronco nervoso. Da un
lato si ottiene una latenza, che via via aumenta in funzione della distanza rispetto allo stimolo,
dall’altro si ottiene una risposta, ossia il potenziale d’azione motorio, che ha una sua
configurazione, con forma bifasica, caratterizzata da un primo picco negativo e un secondo
positivo. Della risposta si valuta l’ampiezza (mV).

Riassumendo, quando si stimola un nervo si ottiene una risposta, dopo un certo numero di millisecondi
(latenza) rispetto allo stimolo.

La latenza è espressione della conduzione lungo quel tratto di nervo, ossia indica in quanto tempo lo
stimolo depolarizza e arriva al muscolo. Si può calcolare matematicamente la velocità di conduzione: si
stimola al polso ottenendo una risposta e si stimola al gomito ottenendo un’altra risposta; si esegue una
sottrazione tra la latenza più lunga al gomito e la latenza al polso, dividendo per la distanza gomito-polso
e si ottiene la velocità di conduzione in m/s. La conduzione è direttamente proporzionale al grado di
mielinizzazione del tronco nervoso che si sta esplorando.

Se nel nervo c’è una modifica del grado di mielinizzazione, ad esempio per una patologia demielinizzante
del SNP, ci sarà un rallentamento della velocità di conduzione in quel nervo.

Analizzando i nervi, è importante individuare se il nervo è normale, valutare il grado di mielinizzazione


(e quindi eventualmente si parlerà di una neuropatia demielinizzante) oppure il grado di perdita degli
assoni all’interno del tronco nervoso (neuropatia assonale). Il grado di mielinizzazione si ottiene con lo
studio della velocità di conduzione, che può differenziarsi rispetto alle condizioni normali.

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L’ampiezza, invece, è importante per un’altra
ragione. Questa è una sezione longitudinale di
un tronco nervoso con i suoi assoni. Se si
applica uno stimolo elettrico al polso di una
determinata intensità (es. 7 mA), si ottiene una
risposta diversa rispetto a quella riportata più in
basso. Se si applica uno stimolo di intensità
maggiore, infatti, la risposta aumenta.
L’aumento dell’intensità dello stimolo va a
depolarizzare più fibre altamente mielinizzate.
Questo significa che l’ampiezza è un parametro
fondamentale, in quanto indica il numero di
assoni depolarizzati in quel tronco nervoso, sempre da paragonare ai soggetti normali (ci sono dei valori
di riferimento, che variano in funzione dell’età).
Se si applica uno stimolo di intensità massimale, tale da ottenere la risposta massimale in ampiezza, si ha
una rappresentazione diretta del numero di assoni altamente mielinizzati presenti in quel tronco nervoso.

In sostanza, si applica un’intensità di stimolo adeguata a un tronco nervoso e si ottiene una risposta, in
questo caso motoria. Si valuta la latenza o la velocità di conduzione e la si paragona ai soggetti di
riferimento sulla base dell’età. Poi si ottiene una risposta in ampiezza X, sempre paragonata ai valori
normali. A questo punto, se i valori del paziente rientrano nei valori normali, il nervo conduce
normalmente e ha un’ampiezza (e quindi numero di assoni) sovrapponibile a quella di un soggetto
normale. Se, invece, la velocità di conduzione non è 55 m/s, ma 30 m/s, ci potrà essere una alterazione
della componente mielinica, con un quadro di neuropatia demielinizzante. Viceversa, se nel nervo si ha
una perdita assonale, con assoni rimasti che conducono normalmente ma in numero ridotto, ci sarà un
nervo che conduce bene ma è di ampiezza ridotta.
Questo concetto generale permette di caratterizzare le neuropatie sulla base del meccanismo patogenetico
(non della causa): nel nervo ci può essere un grado di mielinizzazione alterato rispetto alle condizioni
normali, e allora si definisce una neuropatia demielinizzante; viceversa, una riduzione dell’ampiezza
indica una riduzione nel numero di assoni, e allora si parla di meccanismo patogenetico assonale.

Lo stesso vale se si applica uno stimolo elettrico, in questo caso sempre a livello del polso, e si registra
non più l’adduttore del pollice, bensì l’area cutanea innervata da quel nervo.

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In questo caso, l’area cutanea
innervata dal nervo mediano è, per
esempio, l’indice. Il nervo
mediano, infatti, innerva l’indice, la
parte distale del pollice, il medio e
metà dell’anulare. Applicando lo
stimolo all’intensità massimale si
ottiene una risposta che ha le stesse
caratteristiche della risposta
motoria, se non per il fatto che
l’ampiezza è inferiore, sempre con
forma bifasica negativa e positiva.
C’è una latenza. Si divide la latenza
per la distanza tra il punto di
stimolazione e il punto registrazione si ottiene la velocità di conduzione, in questo caso sensitiva, e si
ottiene una risposta in ampiezza che è la rappresentazione del numero di assoni sensitivi che si sta
esplorando.

Questo è il concetto generale


dell’utilizzo dell’ENG, che poi sarà
applicata a ciascun nervo. È
possibile analizzare, in un tronco
nervoso, le fibre motorie e quelle
sensitive, caratterizzarle, e stabilire
se si è in presenza di una patologia
che interessa la guaina mielinica,
oppure una degenerazione assonale,
quindi una assonopatia. Dal punto
di vista del pattern che si trova, si sa
che nella forma assonale la velocità
di conduzione è normale, ma
l’ampiezza è ridotta; nel pattern rallentato nella velocità di conduzione, si ha una disfunzione lungo le
fibre mieliniche riguardante nello specifico la guaina mielinica.

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Elettromiografia (EMG)
L’elettromiografia permette di analizzare
l’attività elettrica generata spontaneamente o
volontariamente in un ventre muscolare.
Parlando di patologie neuromuscolari ci si
riferisce alla parte periferica quindi, per
quanto riguarda l’EMG e l’analisi dei
muscoli, si focalizza l’attenzione sul secondo
motoneurone, che ha origine nella cellula
delle corna anteriori del midollo spinale, sul
suo assone (quindi tronco nervoso) e su tutte
le fibrocellule muscolari innervate da
quell’assone (giunzione neuromuscolare).
L’EMG non dà informazioni rilevanti sulle disfunzioni del primo motoneurone, nella via cortico-spinale,
cortico-nucleare, piramidale.

Quindi, l’EMG sarà importante per tutta una serie di patologie, che vanno dalla malattia del motoneurone,
alla radicolopatia, dalla lesione dei plessi, dei nervi, alla lesione neuromuscolare o alla lesione primitiva
del muscolo.
Questo è un esame invasivo che utilizza aghi. Si tratta di aghi cannula, confezionati in modo che la parte
terminale a becco di flauto dell’elettrodo che si metterà nel ventre muscolare sia un’area di registrazione,
che registra il segnale elettrico.
Quello che si andrà ad esaminare, posizionando l’elettrodo nel muscolo, è se il muscolo è alterato perché
c’è un’alterazione alle cellule delle corna anteriori, oppure se questa è a livello del nervo, della giunzione
neuromuscolare o a livello del muscolo.

Nell’immagine si osserva una sezione trasversa di un


muscolo. Quello che si vede in colori diversi, nero e
grigio, è la differente distribuzione delle fibre muscolari
di tipo 1 e di tipo 2. In questo caso è stato stimolato un
singolo assone in un nervo per diversi minuti e,
successivamente, è stata eseguita e analizzata una biopsia.
La colorazione è ATPasi: si vedono alcune fibre colorate
di nero, altre di grigio, altre ancora non si colorano.
Questo è dovuto al fatto che c’è stato un depauperamento
di glicogeno in quelle fibre dovuto alla stimolazione
continua. Se si stimola un assone, si va a stimolare una singola unità motoria. Stimolando questo assone
per minuti, si depaupera glicogeno in quelle fibre muscolari innervate da quell’assone. Si può, quindi,
capire come un’area di distribuzione di una singola unità motoria sia estremamente vasta.
Le fibre afferenti alle varie unità motorie non sono tutte raggruppate nel ventre muscolare, ma sono più
distribuite, per motivi fisiologici. Si capisce che, quando si inserisce l’ago all’interno del muscolo e si va
ad analizzare una unità motoria, in realtà non si analizza l’intera unità motoria sherringtoniana, costituita
dalla cellula delle corna anteriori, dall’assone e da tutte le fibrocellule muscolari, ma delle fibre muscolari
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innervate da quella unità motoria se ne analizza una minima parte, significativa. Questo è importante
perché fornisce informazioni circa la funzione di quell’unità motoria.

Attività elettrica spontanea


L’esame elettromiografico si
differenzia in tre fasi principali.
Nella prima fase si inserisce l’ago
nel ventre muscolare e si chiede al
soggetto di rilassarsi, perché non
deve attivare il ventre muscolare,
in quanto si deve valutare se in quel
ventre muscolare c’è un’attività
spontanea patologica, diversa dal
normale.

Denervazione
La più frequente attività spontanea
patologica è quella da
denervazione, data da potenziali di fibrillazione e onde positive. Posizionando l’ago nel ventre muscolare
rilassato si vedono delle onde che si generano spontaneamente. Se si registrano queste onde, significa che
c’è un problema legato o alla degenerazione dell’assone o alla fibrocellula muscolare. In ogni caso, c’è
una interruzione del rapporto terminazione nervosa-fibrocellula muscolare. Questa interruzione è definita,
appunto, dalla denervazione.
Quindi, la fibra muscolare non ha più il contatto diretto con la terminazione nervosa e si agita, perché
cerca di capire cosa sta succedendo e non vuole morire. La fibrillazione è una sorta di allarme, poi ci
saranno dei meccanismi di difesa che intervengono (che vedremo più avanti). Ci saranno dei processi di
reinnervazione a cascata.
La denervazione è l’attività spontanea più frequente, in un muscolo che ha un problema sia primitivo sia
secondario.

Fascicolazione
L’attività di fascicolazione si riscontra in diversi ambiti di patologia neuromuscolare, principalmente a
carico della componente neurogena, perché le fascicolazioni sono delle attività spontanee di cui tutti hanno
avuto esperienza (es. guizzo muscolare al polpaccio). Tuttavia, ci sono tipi e tipi di fascicolazione, più o
meno rilevanti in funzione della sede, localizzazione, diffusione, presenza di patologia correlata. La
fascicolazione si trova molto presente nella patologia del motoneurone, nella sclerosi laterale amiotrofica,
nell’amiotrofia spinale, ma si troverà anche nell’ambito delle polineuropatie, nelle radicolopatie, nella
sciatica. Quindi non è specifica di qualcosa, ma può assumere un significato diverso a seconda della sede
di localizzazione, essendo anche normale in alcuni contesti e in alcuni muscoli. In altri casi può essere
estremamente informativa, come nella sclerosi laterale amiotrofica, con fascicolazioni abbondanti, diffuse
in molti muscoli, che si associano a perdita di forza. Questa è sicuramente l’attività spontanea più
importante.

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Scarica miotonica
La scarica miotonica è un’altra attività spontanea che non riguarda la parte neurogena, l’assone o la cellula
delle corna anteriori, bensì riguarda il muscolo. Si tratta di un’attività spontanea che ha delle caratteristiche
specifiche e riguarda principalmente l’eccitabilità della fibrocellula muscolare, del suo sarcolemma. È
specifica delle patologie solo muscolari, come la miotonia o le sindromi di eccitabilità.

Potenziale di unità motoria


A questo punto chiediamo al paziente di contrarre volontariamente il muscolo, perché attraverso la
contrazione volontaria, a seconda della sua entità, si possono indagare le diverse unità motorie, che hanno
meccanismi fisiologici e anatomici completamente diversi uno dall’altro.
In senso generale abbiamo unità motorie rapide e unità motorie lente. Le unità motorie rapide conducono
molto e si reclutano solamente durante uno sforzo intenso (salto, scatto). Queste si affaticano rapidamente,
e hanno un metabolismo con un meccanismo glicolitico.
Le unità motorie lente, invece, si attivano chiedendo al soggetto di contrarre il muscolo debolmente.
Queste unità motorie si affaticano molto meno e hanno un metabolismo ossidativo, con molti mitocondri.

Se si vuole avere un’informazione sul tipo di alterazione presente in un dato muscolo, riguardante le unità
motorie, si deve far applicare al soggetto prima uno sforzo debole, per indagare le unità motorie lente, e
successivamente uno sforzo intenso, per indagare le unità motorie rapide.

Per indagare le unità motorie si posiziona l’elettrodo nel ventre muscolare e si chiede al soggetto di
contrarre il muscolo, ossia di attivare volontariamente la corteccia motoria e di far viaggiare
l’informazione lungo la via piramidale, in modo tale da raggiungere le cellule delle corna anteriori e
attivare gli assoni corrispondenti, che vanno poi a innervare quel muscolo. È un meccanismo del tutto
volontario.
C’è un’onda di depolarizzazione che parte dalla corteccia, si dirama nelle varie terminazioni nervose, che
arborizzano nella parte terminale dell’assone, andando a prendere contatto singolarmente con le
fibrocellule muscolari, rappresentate qui sotto da linee.

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L’elettrodo non vede niente se il muscolo non è attivato, ma se al muscolo arriva un’onda di
depolarizzazione propinata dalla parte assonale, l’elettrodo vedrà una serie di attività elettriche generate
da ciascuna fibrocellula muscolare, che si avvicinano all’elettrodo stesso. Le fibrocellule muscolari
attivate sono migliaia, ciascuna con la propria carica elettrica, con la propria attività elettrica, con il proprio
potenziale d’azione. Si registra il potenziale di unità motoria: la rappresentazione diretta della somma
dell’attività elettrica proveniente dalle singole fibrocellule muscolari innervate da quell’assone. Questo è
un concetto molto importante, perché aiuta a comprendere il significato dei parametri che si andranno ad
esaminare con i potenziali di unità motoria.

Durata
Non basta registrare questo potenziale, ma si dovranno analizzare i parametri fisiologici. Un parametro
cruciale è la durata, misurata da quando il potenziale lascia la linea isoelettrica, al momento in cui il
potenziale ritorna nella sua linea isoelettrica. La durata è direttamente proporzionale al numero di fibre
innervate da quell’assone. Se quell’assone innerva 100 fibre, avrà una durata inferiore (5 ms) a un assone
che innerva 1000 fibre (10/15 ms).
Pensando alle patologie, nella patologia muscolare abbiamo una perdita di fibre. Questi parametri
suggeriscono il meccanismo patogenetico alla base delle alterazioni riscontrate.
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Ampiezza
Nella EMG possiamo analizzare anche l’ampiezza, che risulta
correlata al numero delle fibre; tuttavia, è un parametro meno forte
rispetto alla durata.
Si potrebbe analizzare anche il numero delle fasi, ma anch’esso è un
parametro poco significativo.

Ciò che dobbiamo tenere in considerazione è che la durata del potenziale dipende dal numero e dalle
dimensioni delle fibre di una stessa unità motoria.
Ad esempio, la dimensione delle fibre si modifica in caso di degenerazione: le fibre degenerate
diminuiscono di dimensione e di conseguenza le fibre superstiti vanno incontro a ipertrofia per compensare
e dunque aumentano di dimensione.

PUM miopatico e neurogeno


Cerchiamo di dare un significato a quanto appena detto.
Vediamo nelle immagini due unità motorie colorate in modo differente.

Grazie alla EMG siamo in grado di differenziare


miopatie e neuropatie, cioè patologie che interessano
primitivamente la fibrocellula muscolare da patologie che
interessano primitivamente il nervo motorio e quindi
interessano la fibrocellula muscolare in modo secondario.
Infatti, entrambe porteranno alla degenerazione del
muscolo, per degenerazione primaria o per interruzione
della fibra motoria che lo innerva, ma avranno un diverso
potenziale di unità motoria (PUM).

• PUM miopatico – patologia primitiva del muscolo


In caso di degenerazione primitiva del muscolo il numero
di fibrocellule muscolari diminuisce, quindi l’assone
innerva meno fibre → nel PUM la durata è più breve e
anche l’ampiezza è minore.

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• PUM neurogeno – patologia primitiva del nervo
Sarà opposto il caso di degenerazione delle fibre muscolari
secondaria a una patologia neurogena (es. SLA – vedi
dopo). Se l’assone del neurone motorio viene lesionato,
allora le fibrocellule innervate da quell’assone vanno
incontro a degenerazione e cominciano a fibrillare.
Per compensare si innesca il fenomeno della
reinnervazione, attraverso un fenomeno detto sprouting:
gli assoni limitrofi sopravvissuti si arborizzano e vanno a
innervare le fibre muscolari innervate precedentemente dagli assoni degenerati.
L’unità motoria innerverà un maggior numero di fibrocellule muscolari rispetto alla condizione
normale → nel PUM la durata sarà maggiore così come l’ampiezza.

È quindi di estrema importanza eseguire gli esami di EMG e ENG per differenziare una patologia primitiva
del muscolo da una secondaria:
o la EMG ci dice se la patologia è primitivamente miogena o neurogena, quindi, se la sede lesionale
è il muscolo o il nervo;
o dopodichè attraverso la ENG andremo a studiare se la lesione neurogena che abbiamo individuato
dipende da una lesione assonale oppure da una lesione demielinizzante.

MALATTIE DEL MOTONEURONE


Iniziamo a trattare le patologie neuromuscolari a partire dalle malattie del motoneurone, patologie rare
che si presentano con un processo degenerativo a carico dei motoneuroni.
In particolare, le malattie del motoneurone si definiscono malattie del sistema nervoso caratterizzate da
degenerazione dei neuroni di moto (ricordiamo che il I motoneurone è corticale e il II motoneurone è
spinale).

Di queste patologie affronteremo:


- SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), con contemporaneo interessamento di I e II motoneurone;
- amiotrofie spinali, che interessano invece solo il II motoneurone.

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SLA – Sclerosi Laterale Amiotrofica
La prima malattia del motoneurone che analizziamo è la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica).
È una patologia degenerativa che riguarda
contemporaneamente I e II motoneurone.
[Da slide: si ha relativo risparmio di muscoli oculari e sfinteri
esterni, e risparmio del sistema di senso.
“Sclerosi Laterale” indica l’atrofia del fascio piramidale,
“Amiotrofica” l’atrofia muscolare.]

Epidemiologia
È una malattia rara, con un’incidenza di 2,16 casi/100'000 abitanti/anno.
L’incidenza non è uguale in tutte le parti del mondo:
è meno frequente in Africa, Asia e Sud America,
mentre è più frequente in Giappone, Guinea e Isola di
Guam.
Anche le mutazioni alla base sono correlate all’area
geografica: in Europa prevale la mutazione del gene
C9orf72, mentre in Asia prevale la mutazione SOD1.
Circa il 10% delle forme sono ereditarie, con
ereditarietà autosomica dominante o recessiva.

[Slide non commentata]

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Semeiotica
Essendo coinvolti sia I che II motoneurone,
dobbiamo stabilire cosa rappresenta una
perdita della forza generata da un’alterazione
del I motoneurone (corticale) piuttosto che da
un’alterazione del II (spinale).
Di fronte a un determinatore comune, ovvero la
perdita della forza, possiamo stabilire se si tratta
di una paralisi periferica o centrale in base alle
alterazioni che andremo a verificare con la
visita neurologica rispetto a: forza muscolare,
tono muscolare, riflessi osteotendinei.

Quello che rappresenta una perdita di forza centrale (I motoneurone) si caratterizzerà per:
- aumento del tono muscolare (ipertono spastico),
- trofismo muscolare ridotto solo nelle condizioni croniche,
- aumento dei riflessi tendinei (iperreflessia),
- segno di Babinski positivo.

[N.B. Il riflesso superficiale si chiama stimolo cutaneo plantare, e solo se alterato (con estensione
dell’alluce e apertura a ventaglio) si tratta di segno di Babinski.]

Se abbiamo una perdita di forza periferica (II motoneurone) avremo invece:


- tono muscolare ridotto (ipotono),
- trofismo muscolare molto più alterato (l’ipotrofismo è caratteristico delle patologie periferiche),
- diminuzione dei riflessi tendinei (iporeflessia),
- segno di Babinski negativo (lo stimolo cutaneo plantare è normale, perché se la forza è uguale a
zero l’estensore dell’alluce non si contrae).

Semeiologicamente la SLA è una sovrapposizione dell’alterazione dei due sistemi.


Potremo avere un coinvolgimento lombo-sacrale più da II motoneurone, un coinvolgimento cervicale più
da I, o viceversa; l’importante per fare diagnosi è che vi sia un contestuale interessamento di I e II.

Clinica - fenotipi
Clinicamente la SLA è caratterizzata da progressiva debolezza e atrofia muscolare.

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Esistono diversi FENOTIPI clinici che caratterizzano l’esordio della SLA:

- Paralisi bulbare progressiva → l’esordio è


bulbare, il paziente lamenterà un disturbo
nell’articolazione della parola (disartria) o
nella deglutizione (disfagia);
- SLA tipica (esordio spinale) → rappresenta i
2/3 dei casi, l’esordio è spinale o artuale
(riguarda uno o più arti);
- Atrofia muscolare primaria
- Sclerosi laterale primaria
- SLA con coinvolgimento sistemico

L’incidenza della malattia è uguale nei due sessi e l’esordio è variabile: si presenta solitamente sopra i
40 anni, anche se nel 5% dei casi si manifesta sotto i 30.
Come abbiamo detto l’esordio spinale rappresenta i 2/3 dei casi.

La PROGNOSI è infausta, la durata della malattia è variabile tra i 3-5 anni dalla diagnosi.
Segni prognostici sfavorevoli sono: esordio bulbare, età avanzata, rapida progressione.

[nds. Per maggiore chiarezza ho anticipato il paragrafo seguente sull’esordio spinale, che è stato spiegato
a lezione dopo i segni clinici]
L’esordio spinale, che rappresenta i 2/3 dei casi di SLA, esordisce con l’interessamento di un arto, ad
esempio con una mano cadente o un piede cadente. Spesso i pazienti che esordiscono con piede cadente
hanno un percorso di diagnosi estrememente vasto, che passa dall’ortopedico e giunge al neurologo dopo
mesi; questo perché il piede cadente è tipicamente associato a una sciatica, con la differenza che la sciatica
si caratterizza principalmente per il dolore (associato alla perdita di forza), che è invece assente nella SLA.
Un primo campanello d’allarme nella SLA è dunque la perdita di forza in assenza di dolore, la perdita di
forza non associata a un disturbo sensitivo

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Segni clinici
In questa slide vediamo quali sono i SEGNI
che possiamo notare nei pazienti con SLA: ad
esempio l’atrofia dei muscoli facciali e linguali,
le fascicolazioni diffuse e l’atrofia degli arti
superiori e inferiori.

Vediamo che c’è una differenza clinica tra le


fasi iniziali e le fasi avanzate, in particolare che
la sovrapposizione di alterazioni di I e II
motoneurone è più evidente nelle fasi iniziali
della malattia rispetto alle fasi avanzate. Questo
perché quando la forza muscolare diventa zero
ci è impossibile valutare i riflessi periferici.

Diagnosi – esami
Per studiare l’interessamento del II motoneurone possiamo
utilizzare l’EMG su muscoli da più aree corporee possibili.
Questo esame consente di individuare i PUM neurogeni
aumentati di durata e ampiezza, oltre alla presenza di
fascicolazioni, non limitati ad un singolo muscolo, ma estesi
a più regioni.

Invece, per studiare il coinvolgimento del I


motoneurone, oltre all’esame obiettivo con cui
possiamo individuare l’iperreflessia e il segno di
Babnski positivo, possiamo sfruttare la RM ad alta
risoluzione per vedere alterazioni specifiche del fascio
cortico-spinale. Ad esempio, in sezione assiale e
coronale (rispettivamente B e A nell’immagine)
vediamo che il fascio cortico-spinale è iperintenso, a
causa di un eccesso di materiale gliotico.
Ci può essere anche atrofia di aree della corteccia motoria.
Tutto questo suggerisce un processo degenerativo a carico delle ve cortico-spinali.

Diagnosi - criteri
Bisogna prestare molta attenzione alla diagnosi di SLA, perché può essere confusa con altre patologie;
sbagliare la diagnosi di SLA ha un impatto enorme sia dal punto di vista psicologico del paziente sia dal
punto di vista di organizzazione della terapia.
Si seguono perciò dei CRITERI condivisi a livello internazionale.
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Posto che la SLA è una malattia caratterizzata dalla degenerazione di I e II motoneurone, la diagnosi si
considera:
- Possibile → se riesco a identificare, tramite segni clinici o tramite EMG/RM, un coinvolgimento
del I o del II motoneurone solo in 1 regione (Regioni= bulbare, cervicale, tronco, lombo-sacrale);
- Probabile → in 2 regioni;
- Definita → in 3 regioni.

Fattori prognostici
L’evoluzione della SLA è variabile: in media la durata della malattia è di 3-5 anni, ma ci sono pazienti in
cui il decorso è molto più breve o molto più lungo.
Lo scopo della ricerca è, quindi, identificare dei biomarcatori che possano rappresentare dei fattori
prognostici e predire in quanto tempo evolve la malattia.

Esempi di studi recenti:


- Nello studio a sinistra è stato preso come fattore prognostico il grado di denervazione (visibile
all’EMG), e si è visto che a un maggior grado di denervazione corrisponde una prognosi peggiore.
- Nello studio a destra si è preso in esame il coinvolgimento del muscolo genio-glosso (visibile
sempre tramite EMG), che se coinvolto correla a una prognosi peggiore. Questo è legato anche al
fatto che il coinvolgimento di questo muscolo linguale è associato all’esordio bulbare con disartria
e disfagia, già di per sé fattore prognostico negativo.

Terapia farmacologica
Non esiste ad oggi un farmaco efficace contro la SLA.
L’unico farmaco curativo è il Riluzolo, che viene prescritto a tutti i pazienti pur avendo un’efficacia
limitata. Quando farmaco, che agisce bloccando i canali del sodio, è stato il primo farmaco ad essere messo
in commercio e vi erano grandi aspettative, ma purtroppo si è rivelato un fallimento: aumenta la
sopravvivenza in media di 3 mesi; è efficace solo nelle forme a esordio bulbare, negli anziani e se iniziato
nelle prime fasi; non è efficace su forza, respirazione e qualità della vita.
Tuttavia, non vi è paziente malato di SLA che non venga trattato con il Riluzolo.

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In questo studio recente sono stati messi a
confronto i pazienti trattati con Riluzolo a diversi
dosaggi e i pazienti trattati con placebo: vediamo
che la curva di sopravvivenza non cambia.

Qualche anno fa in Giappone è fatto uno studio su un nuovo


farmaco, l’Edavarone con risultati che sembravano molto
promettenti; purtroppo, però, in seguito lo studio è stato
replicato e i risultati non sono stati riconfermati.

Da questo studio è emerso però un risultato molto interessante


(non visibile nella slide): nell’insieme dello spettro delle SLA
trattate, un gruppo di pazienti, per motivi ancora sconosciuti,
si distacca dal resto dei pazienti trattati e ha miglioramento
significativo di malattia. Si sta cercando di capire il perché.

Quando parliamo di SLA non ci riferiamo a una singola malattia, ma piuttosto a uno spettro di malattie
diverse; per cui più che un singolo farmaco in grado di curare la SLA si stanno cercando farmaci efficaci
contro alcune di queste forme.

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Un esempio di terapia mirata contro una
forma specifica di SLA è quella per la forma
di SLA familiare legata alla mutazione di
SOD1 (superossido desmutasi 1), per la
quale si sta mettendo a punto una terapia
genica utilizzando oligonucleotidi antisenso.
Teniamo a mente che questa forma è rara (le
forme familiari di SLA sono il 10%) e che la
mutazione di SOD1 è poco presente in
Europa (è più presente in Asia), ma questa
forma rappresenta comunque uno spiraglio di terapia. Si è notato che i pazienti trattati possono avere un
beneficio che riguarda non solo la sopravvivenza ma anche un aumento della forza muscolare.

Terapia di sostegno
Non essendoci ancora una terapia farmacologica
efficace, è fondamentale il sostegno ai pazienti con
SLA nelle varie fasi progressive della malattia.
Si possono proporre presidi ortopedici per far fronte
alla debolezza, poi con l’avanzare della patologia i
pazienti andranno monitorati spesso per l’eventuale
insorgenza di insufficienza respiratoria (si può
proporre da presidi non invasivi fino alla
tracheostomia) e di disfagia (si può proporre una
PEG se necessario).

Il paziente con SLA viene seguito da diversi specialisti, dai fisioterapisti ai nutrizionisti e gli assistenti
sociali, che rientrano in quello che in ambito sanitario chiamiamo PDTA (Percorso Diagnostico
Terapeutico Assistenziale). Il PDTA è un insieme di specialisti che in modo integrato prendono in carico
il paziente e lo esaminano a 360°; negli ospedali organizzati esistono PDTA dedicati a diverse patologie,
come il diabete, lo stroke e anche la SLA.
Questo tipo di approccio ha sicuramente rappresentato il migliore risultato nel trattamento della SLA.
Dobbiamo ricordare che la patologia non si spegne nel momento in cui non si ha una terapia.

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