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Neuropedagogia infantile completa

Premesse
Quando parliamo di neuropedagogia ci riferiamo al dialogo tra le neuroscienze cognitive e le scienze pedagogiche
>specifico epistemologico.
Neuroscienze: raccolgono l’insieme degli studi condotti sul sistema nervoso dal punto di vista biologico (molecolare,
cellulare, dello sviluppo), anatomico, fisiologico, chimico, matematico, statistico, così come psicologico e linguistico.
Studi che si sono evoluti grazie allo sviluppo tecnologico, in particolar modo delle tecniche di neuroimaging cerebrale
(strutturali e funzionali). Neuroscienze cognitive →studio delle funzioni cognitivi (processi cognitivi).
Pedagogia (scienza debole): scienza che studia l’educazione e la formazione dell’uomo durante l’intero ciclo di vita.
Disciplina quindi che analizza le differenti dimensioni che compongono il complesso processo di formazione
dell’essere umano. Uno studio che ha come oggetto d’indagine l’uomo inserito nei contesti formativi, non formali e
informali quei quali lo stesso sviluppa la sua personalità.
Perché è importante analizzare il cervello? È necessario per acquisire conoscenze che ci portino ad avere una forma
mentis conscia di cosa voglia dire educare. Una delle caratteristiche più importanti del cervello, di base, che ha una
influenza sui processi di apprendimento, è la neuroplasticità.
Il concetto base della pedagogia, l’educabilità, si arricchisce di aspetti provenienti dalla ricerca neuroscientifica.
L’agire educativo è rivolto al far sviluppare, a fare acquisire, all’allievo tutte quelle regole, quei principi e
comportamenti coerenti rispetto ad un contesto sociale. Tutte queste informazioni sono apprendimenti, di conseguenza
apportano modifiche a livello celebrare.
Questo collegamento rappresenta lo specifico epistemologico della disciplina, il dialogo fra neuroplasticità e
educabilità. L’individuo è educabile perché l’individuo è strutturato per apprendere, noi siamo di base programmati
per apprendere.
Programmati per -> i geni prevalgono sull’ambiente. L’ambiente può far sviluppare il massimo potenziale
quantificabile dell’individuo. SBAGLIATO! Gli studi ci dicono che i fattori genetici non sono prevalenti e non sono
sufficienti per determinare le caratteristiche dell’individuo, ma si tratta di una interdipendenza tra fattori genetici e
fattori ambientali. Come noi individui modifichiamo l’ambiente, l’ambiente, a sua volta, agisce su di noi.
Un apprendimento specifico è legato alla formazione di determinate reti sinaptiche che si attivano quando dobbiamo
compiere quel compito. La stessa cosa succede per comportamenti, credenze e azioni, per questo ci si comporta in un
determinato modo piuttosto che in un altro. Ognuno di noi è caratterizzato da una rete neurale che è stata costruita
dalle esperienze individuali vissute da ognuno di noi, inclusi apprendimenti e educazione.
Che cosa vuol dire educare? Trasmettere principi, regole e comportamenti per rendere autonomi l’individuo. Dare un
determinato tipo di informazione che permettano all’individuo di acquisire delle conoscenze che gli permetteranno di
essere autonomo ed essere inserito all’interno della società -> necessario il dialogo.
Non si deve pensare all’educazione dal punto di vista dell’adulto, ma dal punto di vista del bambino. Vedere cosa
succede, anche a livello anatomico, nel bambino a seconda della sua età così da modulare l’insegnamento secondo
esse. Dopo l’acquisizione, quindi la creazione di reti neurali adibite a quel compito, quel compito è automatizzato.
Quindi avvengono processi di automatizzazione, abituazione per diminuire il carico dei processi celebrali.
l’educazione agisce prima della maturazione corticale.
Intelligenza emotiva->Nell’apprendimento l’elemento emotivo gioca un ruolo fondamentale per l’acquisizione di un
dato apprendimento. L’emotività viene elaborata come un’informazione legata a quella conoscenza.
Apprendimento ->processo di acquisizione e/o modifica di differenti tipologie di conoscenze e di abilità pratiche,
comportamentali, sociali, valoriali. Differenti contenuti, differenti formati di informazioni. Quali processi
cognitivi sono implicati nell’apprendimento?
1. Attenzione;
2. Memoria;
3. Pianificazione.

Struttura e funzione del neurone


Il neurone è una cellula complessa che da forma all’architettura del nostro cervello. La sua funzione è quella di
ricevere e di inviare informazioni, da e ad, altri neuroni, in quella fitta rete neurale che configura gran parte
dell’architettura del nostro cervello (un altro tipo di cellule nervose sono le cellule gliali). Quindi il neurone ha una

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funzione di ingresso e una di uscita dell’informazione: il neurone riceve informazioni sia dall’esterno – attraverso i
canali sensoriali, come ad esempio la vista, l’udito, il tatto ecc. -, ma anche dall’interno, dall’organismo (ad esempio
di dolori viscerali). Il neurone può essere diviso in tre parti principali: il soma, i dendriti e l’assone.

Il soma è il corpo del neurone, in esso si trova il nucleo.


I dendriti sono dei prolungamenti che si articolano dal soma creando una fitta rete di ramificazioni. L’insieme dei
dendriti di un neurone viene chiamato albero dendritico, proprio perché la forma ricorda i rami di un albero. Ci sono
differiti prolungamenti: quelli che originano dal soma e quelli che originano da altri dendriti. I dendriti hanno la
funzione di ricevere le informazioni provenienti dall’esterno del neurone e di inviarle al soma per l’elaborazione.
Recenti studi hanno mostrato che in specifici neuroni un singolo dendrite può eseguire da solo operazioni più
complesse, compiendo un’elaborazione che si credeva richiedesse l’attivazione di un intero circuito.
Anche l’assone origina dal soma, ma la differenza consiste nel fatto che l’assone si configura come un singolo
prolungamento (branca principale) che si assottiglia molto e che misura, in lunghezza, da qualche micron ad alcuni
centimetri, fino a raggiungere alcuni metri. A seconda della lunghezza dell’assone, si possono distinguere due
tipologie di neuroni: i neuroni di proiezione, caratterizzati da assoni lunghi fino a tre metri; gli interneuroni,
caratterizzati da assoni corti (circuito neurale locale). L’assone ha la funzione di trasmettere le informazioni
all’esterno del neurone. La parte iniziale dell’assone è detta SIA, è il punto di origine dell’assone. Il prolungamento
termina con le branche collaterali dalle quali si sviluppano i terminali assonali. Il terminale assonale è caratterizzato
da un piccolo rigonfiamento detto bottone terminale assonale. All’interno di esso, vi sono delle strutture circolari,
tondeggianti, chiamate vescicole sinaptiche. Ricordiamo che la funzione dell’assone è quella di trasmettere le
informazioni in uscita ad altri neuroni, in modo specifico ai dendriti, o ad altre cellule specializzate. L’assone passa le
informazioni ad un altro neurone attraverso i collegamenti sinaptici.
Le sinapsi sono i punti di contatto fra i neuroni e consentono il passaggio delle informazioni, in formato di impulsi
nervosi, tra neurone e neurone. L’impulso nervoso si diffonde nell’assone grazie a piccoli e brevi cambiamenti del
potenziale elettrico della membrana cellulare.

Come avviene il passaggio di informazioni tra neurone e neurone?

L’immagine mostra due prolungamenti di due neuroni. A sinistra troviamo il bottone assonale del neurone che invia
l’informazione (neurone presinaptico), a destra invece il dendrite del neurone che riceve l’informazione (neurone
postsinaptico). Sia la struttura trasmittente che quella ricevente sono circondate da delle membrane (pre- o post-
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sinaptica). È importante avere chiaro che la sinapsi è la modalità attraverso la quale i neuroni comunicano,
scambiandosi le informazioni.
Ci sono due tipologie di sinapsi: elettrica e chimica. Le sinapsi elettriche si caratterizzano dal fatto che l’impulso
elettrico passa direttamente da un neurone all’altro, attraverso dei particolari ponti di comunicazione fra le membrane
neuronali, delle giunzioni comunicanti dette anche gap junction, che permettono il passaggio di ioni dal citoplasma di
una cellula a quello dell’altra. Gli ioni sono carichi elettricamente e trasmettono segnali elettrici. Il passaggio del
segnale elettrico avviene quindi direttamente, senza intermediazioni.
Le sinapsi chimiche sono caratterizzate da una differente modalità di comunicazione e di scambio delle informazioni
da neurone a neurone. Le membrane pre- e post- sinaptiche non entrano in contatto, ma vi è la fessura sinaptica,
ovvero uno spazio extracellulare che divide l’assone del neurone presinaptico dal dendrite del neurone
postsinaptico. In questa fessura avviene il passaggio dell’informazione grazie al rilascio di neurotrasmettitori. Questo
tipo di collegamento sinaptico sia chiama asso-dendritico, esistono anche altri tipi di collegamenti sinaptici:
assosomatico, tra assone e soma; asso-assonico, tra assone e assone.

A seconda della loro lunghezza, assoni e dendriti concorrono a formare la sostanza grigia (composta da neuroni le cui
ramificazioni si intrecciano a quelle di neuroni nella zona immediatamente a essi circostante) e la sostanza bianca
(composta invece da assoni lunghi la cui colorazione biancastra è determinata dalla mielina, la sostanza lipidica di cui
sono avvolte e che ha la funzione di facilitare la trasmissione dei segnali elettrici).
Mielina. Sostanza, costituita per il 70-80% da lipidi e per il 20-30% da proteine, che riveste come una guaina le fibre
nervose, con funzione protettiva e isolante della conduzione dello stimolo nervoso tra cilindrassi vicini. Sono
mieliniche le fibre nervose presenti nei centri nervosi costituenti la “sostanza bianca” e nei nervi periferici del sistema
nervoso centrale. Il processo che dopo la nascita porta a un progressivo rivestimento delle fibre nervose con mielina è
noto come “mielinizzazione”.
Nelle forme di vita sufficientemente complesse, come è il caso dell’uomo, i neuroni sono dotati di una grande varietà
di forme (che sono in relazione con l’organizzazione che essi assumono in una determinata area del cervello), si
distinguono in categorie diverse secondo la funzione che sono chiamati a svolgere e si organizzano in nuclei, regioni e
mappe: quest’ultime sono dei sistemi di neuroni organizzati in modo da corrispondere topograficamente ai sistemi di
neuroni che costituiscono gli organi di senso e del movimento.

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Plasticità mentale
Di solito, il sistema nervoso viene considerato come una struttura tridimensionale di elementi neuronali, interconnessi
tra loro a formare una fitta rete di circuiti. Questo modo di concepire il sistema nervoso, che lo descrive come un
complesso diagramma definito da un’enorme quantità di connessioni nervose, è sorprendente e, tuttavia, non
restituisce un quadro completo della situazione, in quanto tralascia uno dei suoi aspetti fondamentali. In realtà, il
sistema nervoso non è una rete statica di elementi interconnessi, come questo modello porterebbe a pensare, ma un
vero e proprio organo vivente plastico (cioè modificabile), che cresce e muta in continuazione in risposta ai suoi stessi
programmi genetici nonché alle interazioni con il proprio ambiente.
Emerge qui il nuovo forte legame tra fattori endogeni e fattori esogeni, aspetti intrapsichici e aspetti sociali, nella
determinazione dello sviluppo nervoso, psicologico e quindi della personalità dell’individuo, nel nostro caso l’allievo.
Lo sviluppo neuronale si svolge attraverso le interazioni che intercorrono tra i neuroni e il loro ambiente,
influenzandone, così, il loro sviluppo, il mantenimento e la riorganizzazione del sistema nervoso. Pertanto, il principio
fondamentale, che regola gli effetti dell’esperienza sullo sviluppo neuronale, è semplice: i neuroni e le sinapsi che non
vengono attivati dall’esperienza non sopravvivono. Il che significa “fanne uso o ne perderai l’uso”.
Un ambiente ricco di stimoli contribuirà alla configurazione di più connessioni neuronali e sinaptiche favorendo il
mantenimento e la riorganizzazione del sistema nervoso.
Pertanto, la quantità dell’esperienza risulta di fondamentale importanza per far sì che la plastica mentale, intesa come
capacità delle reti neuronali e sinaptiche di stabilire nuove connessioni e nuove mappe topografiche, si realizzi
appieno rispetto alle facoltà e ai requisiti genetici.
Riperdendo l’dea di plasticità mentale, è corretto ritenere che essa si concretizzi e traduca nella capacità della mente di
configurare nuove “forme” neuronali attraverso le ramificazioni e i collegamenti con le differenti aree del cervello.
Tali reti, prodotte degli stimoli provenienti dall’ambiente, rispondono a delle funzioni che naturalmente sono legate a
delle esigenze e dei compiti specifici. L’elemento topologico, quindi, e quello morfologico risultano fondamentali per
l’acquisizione dei dati esperienziali e per l’esecuzione di molteplici azioni. Secondo G. Edelman, infatti, il
fondamento precipuo della funzione cerebrale è proprio la morfologia; in tal senso il cervello è il sistema
topobiologico per eccellenza, costituito com’è da mappe e sistemi per la creazione di mappe, nei quali la dipendenza
spaziale è un fattore critico. Pertanto, non è solo la quantità e la densità di reti neuroniche a caratterizzare le
sorprendenti funzionalità del cervello, bensì la disposizione delle cellule in schemi funzionanti. Le arborizzazioni e la
configurazione degli stessi schemi cellulari rispondono sia a meccanismi epigenetici che a fattori ambientali, in una
azione iterativa che ne sancisce l’interdipendenza dinamica. Questo vuol dire che l’assetto anatomico del cervello e
del sistema nervoso è determinato da una serie di eventi che accadono durante lo sviluppo.
Questo processo di accrescimento del sistema di reti all’interno del cervello, frutto della capacità auto-organizzativa
dello stesso, prodotta dal software genetico, non è tuttavia simile in ogni individuo.
Questa variabilità può dipendere anche dalle influenze dell’ambiente che ne co-determina la specifica configurazione.
Dinamicità, plasticità, adattabilità: caratteristiche queste che fanno parte del corredo genetico e che l’ambiente e
l’esperienza possono favorire, od ostacolare.
Il ruolo dell’esperienza sull’interazione genetica - I tre stati neuronali:
• Sviluppo – l’esperienza favorisce lo sviluppo di circuiti nervosi attivi;
• Mantenimento – l’esperienza può favorire il mantenimento di reti neurali preposti per un determinato
comportamento (sia dichiarativo che procedurale);
• Riorganizzazione – l’esperienza può favorire la riorganizzazione delle mappe neuritiche in riferimento a
nuove necessità adattive.
Dinamica di adattamento – Piaget
Secondo la teoria dell’apprendimento di Piaget, l’apprendimento è un processo che ha senso solo in situazioni di
cambiamento. Per questo motivo, imparare è in parte sapersi adattare a queste novità. Questa teoria spiega la dinamica
di adattamento tramite i processi di assimilazione e accomodamento.
L’assimilazione si riferisce al modo in cui un organismo affronta uno stimolo proveniente dall’ambiente circostante in
termini di organizzazione attuale; l’accomodamento, invece, implica una modifica dell’organizzazione attuale in
risposta alle richieste dell’ambiente circostante. Tramite l’assimilazione e l’accomodamento, ristrutturiamo a livello
cognitivo il nostro apprendimento nel corso dello sviluppo (ristrutturazione cognitiva).

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L’accomodamento, o accomodazione, è il processo tramite il quale il soggetto modifica i suoi schemi, le sue strutture
cognitive, per potervi incorporare nuovi oggetti. È possibile riuscirci a partire dalla creazione di un nuovo schema o
dalla modifica di uno schema già esistente, in modo che il nuovo stimolo e il suo comportamento naturale ed associato
possano integrarsi come parte dello stesso.
Assimilazione e accomodamento sono due processi invarianti durante lo sviluppo cognitivo. Per Piaget, questi due
elementi interagiscono a vicenda in un processo di equilibramento, che, ad un livello più alto, può essere considerato
di natura regolatoria, poiché dirige la relazione tra l’assimilazione e l’accomodamento.
Il processo di assimilazione equivale allo stato di mantenimento neuronale; il processo di accomodamento equivale
allo stato di riorganizzazione neurale.
Mente assorbente – Maria Montessori
La Montessori definisce mente assorbente quella dei bambini dai 0 a 3 anni. Questa è una mente prelogica, non è
ancora presente la coscienza, in cui le informazioni sono disordinate; poi diventa mente cosciente, che inizia a dare
ordine alle informazioni, ed è l’ambiente ad influenzare tutto.
Qual è la causa di questi cambiamenti? In una certa misura sono
programmati dai nostri geni. Ma i geni non spiegano tutto: perché ci sono
segnali, segnali elettrici che scorrono lungo le ramificazioni neuronali e
segnali chimici che saltano da una ramificazione all’altra. Questi segnali
costituiscono a cosiddetta attività neuronale. Esistono molte prove
scientifiche che l’attività neuronale codifichi i nostri pensieri, sensazioni e
percezioni, le nostre esperienze mentali. Ed esistono molte prove che
l’attività neuronale può far cambiare le nostre connessioni. E se si mettono
insieme questi fatti, significa che le nostre esperienze possono modificare la
nostra “forma mentis neuronale”.

L’apprendimento, infatti, avviene nel cervello, e quindi ogni processo educativo comporta uno sforzo cognitivo, oltre
che motorio, che si traduce in una modificazione fisiologica del cervello stesso. L’individuo nell’istante in cui viene a
contatto con l’ambiente attua un’azione di incameramento dei dati, i quali modificano “fisicamente” le strutture
mentali, attraverso il collegamento e l’accensione di una serie di cellule nervose che formano una determinata rete
neurale. Premesso che il patrimonio ereditario definisce soltanto le condizioni di base del progetto neurale, è proprio
l’afflusso di informazioni provenienti dagli organi di senso e la continua interazione con l’ambiente che determina poi
in che modo il cervello prende forma.
In altre parole, il modo in cui si insegna può condurre al modo in cui si apprende, cioè può produrre una
configurazione neuronale relativa a quel modello formativo e legata ad un comportamento-apprendimento acquisito.
Diventa allora fondamentale comprendere come alle condizioni di base del cervello, prestabilite geneticamente, si
leghino, per il loro pieno sviluppo, quelle legate all’interazione col contesto educativo.

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H. Gardner – Intervista:
Le scuole esistono perché speriamo che, quando i nostri ragazzi avranno terminato gli studi saranno ancora in grado
di utilizzare ciò che hanno imparato. C’è adesso un’incredibile quantità di prove da svariati ambiti della scienza, le
quali dimostrano che, a meno che gli individui prendano parte molto attivamente al proprio processo di
apprendimento, imparino a fare domande, imparino a fare le cose attraverso la pratica, siano in grado di richiamare
essenzialmente i concetti nella loro mente e a fare le proprie rielaborazioni concettuali quando servono, le idee
semplicemente svaniscono.
Gli studenti possono ottenere ottimi voti che facciano pensare ad una loro comprensione della materia ma, dopo uno
o due anni, di quel sapere non rimane più nulla. Se, al contrario, lo studente porta aventi da solo un esperimento,
raccoglie i dati fa delle ipotesi e le confronta con i dati elaborati per vedere se sono corrette, legge i documenti,
ascolta le critiche e fa ulteriori domande, scrive il suo testo, questo se qualcuno scrive una storia, fa le interviste da
solo, ascolta i racconti degli altri, è il tipo di cose si vorrebbe poter sentire, piuttosto che il semplice memorizzare
nomi, fatti e definizioni che non hanno alcun appiglio per essere ricordati.
L’idea dell’intelligenza multipla deriva dalla psicologia. È una teoria che è stata sviluppata per documentare il fatto
che gli esseri umani hanno molti diversi tipi di capacità intellettuali e che queste capacità sono molto molto
importanti in come i bambini apprendono, di come le persone rappresentano le cose nella loro mente e di come
usano queste elaborazioni per dimostrare come abbiano compreso l’argomento. Se noi tutti avessimo esattamente lo
stesso tipo di mente e se ci fosse un solo tipo di intelligenza, potremmo insegnare a tutti le stesse cose nella stessa
maniera e valutarli nello stesso modo e tutto ciò sarebbe giusto così. Ma una volta che abbiamo scoperto che le
persone hanno menti differenti, abilità differenti, che alcuni sono bravi nel pensare in modo spaziale, altri
nell’imparare le lingue, altri ancora hanno bisogno di provare fisicamente a fare le cose esplorandole attivamente
per capire come funzionano... comprendendo ciò, allora ci rendiamo conto che il modo di insegnare che tratta tutti
alla stessa maniera è decisamente il tipo di educazione più ingiusto.
Perché sceglie un tipo di mente che io chiamo la mente del “professore di diritto”, cioè qualcuno che è molto abile
linguisticamente e logicamente e stabilisce che tu pensi in questo modo, molto bene, ma se tu non pensi così, allora
non c’è alcuno spazio per la tua educazione.
Se sappiamo che un bambino ha abilità visuo-spaziali molto sviluppate, un altro modo di apprendere molto legato
alla manualità, che ad un terzo bambino piace porre domande profonde nel contenuto, ad un quarto piacciono le
storie, non dobbiamo parlare molto velocemente agli allievi, come insegnanti possiamo fornire software, materiali,
supporti di apprendimento in grado di presentare gli argomenti ai bambini in modo che siano interessati e che siano
in grado di apprendere meglio e con i quali i bambini siano in grado di sfruttare in modo produttivo il loro tipo di
intelligenza e, nella misura in cui la tecnologia attuale è interattiva, il bambino sarà in grado di dimostrare la sua
comprensione di ciò che ha appreso nel modo più agevole per il bambino stesso. Noi abbiamo questo mito per cui
l’unico modo di apprendere qualcosa sua quello si leggere un libro di testo o di ascoltare una presentazione su un
certo argomento, e l’unico modo di dimostrare che abbiamo appreso sia quello di rispondere ad un test contenente
domande sull’argomento o forse un saggio con domande tematiche, ma tutto ciò non ha senso. Tutto può essere
spiegato in modi differenti, e l’apprendimento di tutto ciò può essere dimostrato in modi diversi.
Io non credo. Avendo otto tipi di intelligenze diverse, che le cose debbano essere insegnate in otto modi diversi...
ciò sarebbe sciocco... ma noi ci dobbiamo sempre chiedere “siamo riusciti a raggiungere ogni bambino?” ...se non è
così, cos’altro possiamo fare per far sì che questo avvenga?
Credo che affrontiamo troppi argomenti usando troppo materiale facendo sì che gli studenti entrino in possesso di
una conoscenza molto superficiale, larga un miglio e profonda un pollice, ed una volta che essi lasciano la scuola,
quasi tutto viene dimenticato. Io credo che la scuola debba cambiare in funzione di determinate priorità e che si
debba impegnare profondamente nel perseguirle. Prendiamo ad esempio la scienza. Non mi interessa cosa lo
studente stia studiando, se la fisica, la biologia, la geologia o l’astronomia prima di accedere al college; questi sono
dettagli ininfluenti. Ciò che ritengo importante è che il ragazzo abbia appreso il “modo di pensare scientificamente”
per comprendere cosa siano le ipotesi, come esse vengano verificate, capire se esse reggano o meno e se no, come
8rivedere la teoria in merito. Tutto ciò richiede tempo. Non c’è modo di presentare tutto ciò in una settimana né in un
Ma se tu realmente pensi alla scienza in questo modo, quando andrai al college o inizierai a lavorare, saprei
riconoscere quando un concetto è semplicemente un’opinione ovvero un pregiudizio, o se sia basato su dati di fatto
concretamente provabili. La cosa più importante in merito a una prova valutativa è il riuscire a sapere esattamente
che cos’è e a cosa serva, cosa che dovresti essere in grado di fare. Ed il miglior modo per me di pensare a questo è
pensare ad un bambino che impari uno sport o che impari una forma d’arte. Perché c’è una completa assenza di
mistero sulla cosa tu debba fare per essere un quarterback o un pattinatore artistico, o un suonatore di violino. Tu lo
vedi, ci provi, vieni istruito, sai quando migliori e sai come lo riesci a fare rispetto agli altri bambini.
Nella scuola, la valutazione è mistificatrice. Nessuno sa cosa ci sarà nel test, e quando i risultati vengono
comunicati, né gli studenti né gli insegnanti sanno come comportarsi. Quindi ciò che vorrei è illustrare ai bambini
sin dal primo giorno di scuola circa quali siano le prestazioni e le prove sulle quali verranno giudicati.
Diventiamo realistici. Guardiamo al tipo di cose che realmente contano nel mondo. Cerchiamo di essere tanto
espliciti per quando riusciamo ad esserlo, forniamo dei feedback ai bambini non appena ciò è possibile e quindi
lasciamo che questi ultimi elaborino questi feedback così che da soli possano dirsi cosa va bene e cosa non va bene.
[...] e nella scuola la valutazione non dovrebbe essere una cosa che viene fatta su di te ma una situazione nella quale
tu dovresti essere coinvolto come l’agente più attivo.

Intelligenza o intelligenze
H. Gardner promuove l’ipotesi delle intelligenze multiple. L’intelligenza si esprimerebbe in modo adattivo rispetto
alle esigenze e alle richieste di un particolare ambiente e contesto socioculturale. In base a questa premessa, alla
pluralità delle forme di intelligenza dovrebbero corrispondere scelte adeguate e metodologie funzionali rispetto alla
tipicità cognitiva del singolo individuo. In altre parole, l’originalità dell’espressione cognitiva, il carattere intellettivo
e la peculiarità dell’individuo è effetto del diverso modo di memorizzare, strutturare e accomodare a livello cognitivo
i dati provenienti dall’esperienza.
Come risultato di questo studio, ho definito almeno
sette intelligenze diverse: linguistica, logica,
musicale, spaziale, cinestetica-corporea,
intelligenza personale e interpersonale. Ora tutti noi
siamo dotati di queste diverse intelligenze. In ogni
caso, mentre tutti noi possediamo queste
intelligenze, non esistono due persone che abbiano
esattamente la stessa combinazione di intelligenze.
Anche il modo in cui combiniamo
le intelligenze o non le combiniamo è differente fra
le persone, e qui che entrano in gioco le
implicazioni educazionali. Perché o noi possiamo
trattare tutti come se fossero uguali, il che
semplicemente indirizza un tipo di intelligenza, o
possiamo cercare di capire le intelligenze dei
soggetti e personalizzare, individualizzare l’azione
formativa il più possibile.
Le riflessioni che la teoria gardneriana di
intelligenze multiple ci spingono a fare possono
essere le seguenti:
a) L’espressione intellettiva fa parte del corredo generico dell’uomo. Espressione intesa, però, come facoltà
potenziale e non come fattore di ereditarietà;
b) Tale facoltà non è statica, ma dinamica;
c) La forma (rete neurale) così come l’espressione dell’intelligenza (sapere) non è identica da uomo a uomo;
d) L’ambiente socioculturale, e quindi lo spazio educativo, è fondamentale per lo sviluppo e la realizzazione di
quel progetto genetico, e quindi per la crescita di molteplici abilità intellettive;
e) L’aggettivo intelligente è correlato alle performance cognitive dell’individuo in risposta agli ambiti
disciplinari e di sapere appartenerti e promossi dalla comunità in cui lo stesso vive. Un atteggiamento che può

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risultare, ad una popolazione, congruo ad una espressione di intelligenza, in un’altra cultura potrebbe non
essere affatto rilevante.
La chiave di lettura di questi assunti è legata alla connotazione dello spazio educativo che, nella sua dimensione
progettuale e di intervento, così come nella sua dimensione pratica, dovrebbe promuovere un’ampia gamma di
possibilità sia culturali, che strumentali, nonché metodologiche e didattiche attente ai requisiti stilistici e ai ritmi di
apprendimento dei discenti, e soprattutto dovrebbe avere la prerogativa di sviluppare quella plasticità mentale che
porterà gli alunni alla consapevolezza delle proprie strategie cognitive e dei propri stati emozionali.
Al contrario, con il termine di general intelligence C. Spearman sostiene come le diverse abilità e le seguenti
esplicitazioni dell’intelligenza non siano mai del tutto indipendenti le une dalle altre. Sovente, infatti, chi mostra una
spiccata intelligenza linguistica è spesso dotato di capacità almeno discrete anche in altri campi, per esempio in quello
logico e matematico.
Ne consegue un’altra fondamentale distinzione che riguarda due aspetti fondamentali dell’attività mentale e delle sue
interpretazioni operative: l’intelligenza considerata come funzione multiforme o unitaria, in contrapposizione al
talento che rappresenterebbe quelle forme di abilità genetiche determinate e/o concretamente acquisite. Questa
distinzione però sembra non esistere, l’acquisizione di una conoscenza avviene con le stesse identiche modalità,
indipendentemente che sia l’imparare a suonare il piano o il risolvere un’equazione.
L’atto intelligente non è solo quello che agisce nella sfera del sapere e della conoscenza, che trova la sua essenza e il
suo potere nella ragione, ma vi è atto intelligente anche nella virtù del sentimento, della fede e del coraggio,
dell’amore: ciò che D. Goleman definisce col termine di intelligenza emotiva, la cui azione consente di governare lo
stato emozionale dell’individuo, guidandolo così nelle direzioni più vantaggiose.
Contesto e intelligenza
L’azione intellettiva, così, è vincolata al contesto in cui si sviluppa e che la indirizza verso obiettivi cognitivi che sono
accettati socialmente e che ne valutano la congruenza alle “idee”, ai principi, alle esigenze specifiche di quel popolo.
Queste considerazioni ci portano a progettare, in ambito educativo, delle strategie e dei set formativi che sviluppino
molteplici propensioni intellettuali, in modo tale da avverare maggiormente le possibilità di sviluppo nei ragazzi di
atteggiamenti e comportamenti in linea con i loro sili cognitivi e con gli obbiettivi formativi da raggiungere. Pertanto,
l’intelligenza è sempre prodotta dell’interazione dinamica tra fattori genetici e fattori ambientali. L’atto intellettivo è
l’espressione di meccanismi e funzioni neuro-biologiche, ma queste ultime sono influenzate e/o determinate
dall’ambiente: ogni individuo può avere in sé le potenzialità per diventare, per esempio, un ottimo giocatore di
scacchi; ma se vivesse in una società senza scacchi non potrebbe, sicuramente, sviluppare e manifestare tale
potenzialità.

Cognizione ed emozione
Risulta problematico poter definire in modo univoco cosa sia l’intelligenza perché, come abbiamo visto, sulle strutture
e funzioni che la determinano agiscono molteplici variabili, comprese quelle legate alla dimensione emozionale, che
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fanno sì che essa si incrementi ed esprima, o al contrario si decrementi fino a livelli di “autoamputazione cognitiva”.
L’analisi socio-cognitivista vede lo sviluppo dell’intelligenza come prodotto dell’interazione persona-situazione. Ogni
situazione, evento, propone un modello di interpretazione con il quale il soggetto si confronta e dal quale dipende la
risposta cognitiva. In tale prospettiva, la simultaneità e la iterazione del processo uomo-ambiente presuppone
l’esistenza di una forte connessione, di una interdipendenza dinamica fra i tratti distintivi dell’individuo, intesi come
propensioni e stili cognitivo/emotivi, e i fattori contestuali. Al concetto di interdipendenza dinamica, dal quale si
evidenzia l’azione ciclica di contaminazione tra uomo e ambiente, si deve aggiungere la componente che riguarda il
significato che l’individuo dà ai fatti, la valenza attraverso la quale l’individuo pesa e giudica le proprie esperienze. Le
persone, dunque, proprio in virtù delle loro convinzioni, delle loro credenze, costruiscono un insieme di valori su cui
fondano i propri modelli intellettivi e comportamentali. La rappresentazione di un sistema di significati tende a
sottolineare come gli individui sviluppino il senso del loro mondo attraverso i concetti che acquisiscono in una
determinata situazione. Inoltre, il gradiente emozionale con cui i soggetti “colorano” e vivono le esperienze, dandone
significato e valenza, è in stretto legame con la dimensione cognitiva, e diremmo anche metacognitiva, che diviene
rilevante e indicativa nella determinazione del grado di importanza di un evento accaduto. È nel significato che le
persone danno ai fatti a loro accaduti che si precisa la positività o negatività di un’emozione avvertita. Aspetti
cognitivi, emotivi, motivazionali e situazionali
contribuirebbero in misura e tipologie differenti alla conformazione della forma mentis di un individuo; una forma
mentis che si attua anche dalle convinzioni che l’individuo ha sull’intelligenza, così come la percezione delle proprie
capacità e la fiducia di sé.
Le particolari convinzioni che le persone elaborano su se stesse determinano, quindi, le diverse risposte con cui gli
individui si relazionano al mondo e le diverse performance che i soggetti esibiscono durante il percorso educativo.
Sfera emozionale e teorie del sé
Carol Dweck indaga proprio sulle variabili emozionali; in particolar modo sulle idee ingenue che l’individuo sviluppa
o possiede sulle sue caratteristiche intellettive e sulla possibilità di trarre beneficio dall’apprendimento. L’obbiettivo
che la Dweck si pone, attraverso la sua azione d’indagine, è quello di comprendere come gli individui sovente arrivino
a sviluppare stili di pensiero e di comportamento fortemente disabilitanti, pur tuttavia possedendo buone
capacità intellettive. Il principio attorno al quale la Dweck costruisce tutto il suo impianto teorico è la
“convinzione”. Quest’ultima riguarda l’idea che i soggetti hanno dell’intelligenza e il parere che gli stessi hanno delle
proprie capacità cognitive. Infatti, il modo in cui si guarda se stessi e la maniera in cui si considera l’intelligenza
danno luogo a differenti tipi di comportamento.
Il potere dell’”ancora” – Carol Dweck
Ho sentito di una scuola a Chicago in cui gli studenti dovevano passare un certo numero di corsi per diplomarsi, e
se non fossero passati un corso avrebbero ottenuto il voto “non ancora”. Ho pensato che fosse fantastico, perché
senza voto, non viene trasmesso nulla. Ma se prendi una valutazione “non ancora” capisci di essere in fase di
apprendimento. Traccia una strada per il futuro. “non ancora” mi ha fatto capire un evento importante agli esordi
della mia carriera, un vero punto di svolta. Volevo vedere come i ragazzi affrontassero le sfide e le difficoltà. Così
ho dato a dei bambini di 10 anni problemi un po’ troppo difficili per loro. Alcuni di loro hanno reagito in un modo
sorprendentemente positivo, dicevano cose del tipo “adoro le sfide” o “sai, speravo fosse istruttivo”. Hanno capito
che le loro capacità potevano essere sviluppate. Avevano quella che io chiamo “growth mind-set”. Ma altri studenti
l’hanno percepito come tragico, catastrofico. Secondo il loro punto di vista più fisso, la loro intelligenza veniva
giudicata e hanno fallito. Invece di crogiolarsi nel potere dell’ancora, si aggrappavano alla tirannia dell’ora. Allora
cos’hanno fatto? In uno studio, ci hanno detto che la prossima volta avrebbero imbrogliato, invece di studiare di
più, se avessero fallito il test.
In un altro studio, dopo un fallimento, hanno cercato qualcuno peggio di loro, in modo da sentirsi bravi. E studio
dopo studio, sono fuggiti dalle difficoltà. Gli scienziati hanno misurato l’attività elettrica del cervello di fronte ad un
errore.

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A sinistra si vede la fixed mind-set. Praticamente nessuna
attività. Scappano dall’errore, non lo affrontano. A destra, gli
studenti con la growth mind-set, l’idea che le capacità possono
essere sviluppate. Si impegno profondamente. Il loro cervello è
in piena attività, si impegnano profondamente. Elaborano
l’errore, ne traggono un insegnamento e si correggono.

Come cresciamo i nostri figli? Li cresciamo per “adesso” invece dell’”ancora”? li cresciamo ossessionati dal
prendere 10? Cresciamo figli che non puntano a grandi sogni? Il loro più grande obbiettivo è prendere il prossimo
10 o passare un esame? Si portano dietro questo costante bisogno di approvazione nella loro vita. Forse per questo i
datori di lavoro mi dicono “abbiamo cresciuto una generazione di giovani lavoratori che non arrivano a fine
giornata senza ricompense. Cosa possiamo fare? Come possiamo costruire quel ponte verso l’ancora? Prima di tutto
possiamo lodare in modo intelligente, no all’intelligenza o al talento, sappiamo che non funziona. Lodiamo il
processo intrapreso dai ragazzi: i loro sforzi, le loro strategie, il loro focus, la loro perseveranza, i loro
miglioramenti. Questa lode del processo cresce ragazzi forti e resistenti.

Ci sono anche altri modi per premiare l’ancora. Di recente abbiamo lavorato con scienziati del gioco dell’università
di Washington per creare un nuovo gioco matematico online che premiava l’ancora. In questo gioco gli studenti
venivano premiati per lo sforzo, la strategia e i progressi. I normali giochi matematici vi premiano per le risposte
giuste immediate, questo gioco invece premia il processo. Abbiamo ottenuto più impegno, più strategia, più
coinvolgimento su periodi più lunghi e più perseveranza in situazioni molto difficili. Solo le parole “ancora” o “non
ancora”, lo stiamo vedendo, dà ai ragazzi maggiore fiducia. Crea loro un percorso verso il futuro che genera
maggiore insistenza.
Possiamo cambiare la mentalità dei ragazzi. In uno studio, abbiamo insegnato loro che ogni volta che si allontanano
da un ambiente sicuro per imparare qualcosa di nuovo e difficile, i neuroni del cervello formano nuovi collegamenti
più forti, e con il tempo diventano più intelligenti.
In un altro studio, gli studenti a cui non è stata insegnata questa mentalità continuavano ad avere voti in calo in
questo passaggio scolastico difficile, ma coloro a cui era stato insegnato questo concetto mostravano voti
crescenti. Abbiamo dimostrato questo tipo di miglioramento con migliaia di ragazzi, specialmente studenti in
difficoltà. Parliamo di uguaglianza. Nel nostro paese, ci sono gruppi di studenti con prestazioni perennemente
basse, per esempio, bambini dei quartieri poveri o bambini nelle riserve dei Nativi Americani. Hanno difficoltà da
così tanto tempo che si pensa che sia inevitabile. Ma quando gli educatori creano classi con growth mental-set
radicate nell’ancora, si genera uguaglianza. il significato di sforzo e difficoltà è stato trasformato. Prima, lo sforzo
e la difficoltà li facevano sentire stupidi, tanto da voler gettare la spugna, ora invece sforzo e difficoltà significa
neuroni che creano nuovi collegamenti, collegamenti più forti. Così diventano più intelligenti.

Quali sono i fattori da cui dipendono il successo o l'insuccesso degli studenti di fronte ai molteplici compiti di
apprendimento? C. Dweck ci aiuta a capire come l'idea che gli allievi sviluppano sulle loro abilità intellettive può
influenzare in positivo o in negativo le loro performances di apprendimento, soprattutto di fronte a situazioni nuove e
obiettivi più complessi.
Quando ci riferiamo alla “teoria dell’entità”, con entità indichiamo l’intelligenza -> intelligenza intesa come entità:
credere di non riuscire in quel compito a causa dell’esistenza di questa “entità”. Questo tipo di percezione rispetto al
compito, questo tipo di previsione del fallimento, incide negativamente sullo svolgimento del compito. Nel caso di
effettivo fallimento, o semplicemente per paura del fallimento, l’alunno utilizzerà egli escamotage: chiudersi e non
provare a svolgere il compito, copiare o cercare qualcuno che “ha fatto peggio di lui”.

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L’esito di tale situazione sarebbe una generale incapacità di reazione emotiva/cognitiva in grado di modificare in senso
positivo l’insuccesso. Proprio questa incapacità, che la Dweck e i suoi collaboratori chiamano con il termine impotenza,
sta a descrivere l’idea che alcuni soggetti hanno dell’insuccesso, idea secondo la quale, quando si sbaglia, la situazione
diventa ingestibile e nulla può essere fatto per modificarla. In seguito, hanno esteso il concetto d’impotenza a tutte le
reazioni che gli individui mostrano quando si imbattono nell’insuccesso: denigrazione della propria intelligenza,
demotivazione, stati d’animo negativi, minore persistenza e peggioramento della prestazione.
“Teoria incrementale” - gli “incrementalisti” sono invece gli allievi che rispetto al compito, anche difficile, o non
svolto correttamente, non utilizza degli escamotage. Piuttosto attiva un processo di riflessione, il processo di meta
cognizione: ragiono su quello che ho fatto. Il fallimento non è legato quindi alla non presenza dell’intelligenza, o della
sua insufficienza, ma vengono presi in considerazioni vari fattori legati al contesto, al proprio comportamento ecc.
quindi si effettua un’autoanalisi, autoregolazione. Quindi la metacognizione è costituita in parte dalla consapevolezza
dei processi cognitivi e in parte dalla propria autoanalisi, autoregolazione.
Significato dell’errore: l’errore fa parte del processo di apprendimento, e come tale deve essere inteso dagli alunni.
L’insegnante deve dare gli elementi, gli strumenti per evitare l’errore, tenendolo quindi in conto nell’azione educativa.
L’errore non deve essere fatto vivere in modo frustante dall’alunno, come si fa? Agendo sull’aspetto metacognitivo –
fornendo degli input, chiamati prompting, cioè degli aiuti, delle sollecitazioni di tipo metacognitivo, che portino
l’allievo a ragionare su quello che ha fatto.

L’idea di flessibilità dell’azione educativa sta a quella di plasticità delle reti neurali che configurano i frame cognitivi
ed emotivi degli individui; impostazione pedagogica, quindi, che non può non presupporre una visione incrementalista
dell’intelligenza, coerente con i risultati provenienti dalla ricerca scientifica.
Volendo spostare le riflessioni appena fatte sul fronte teoretico della dimensione didattica, potremmo sostenere che
alla visione dell’intelligenza come entità, o della stessa come incrementale, rispettivamente corrispondano, nel primo
caso, un approccio metodologico più orientato ai contenuti, mentre nel secondo caso uno più orientato ai processi.
L’azione educativa deve, quindi, gioco forza, seguire una duplice direzione: quella contenutistica riguardo l’obiettivo
disciplinare del compito; quella dei processi metacognitivi che indica tra i suoi obbiettivi la padronanza da parte dei
soggetti delle strategie mentali adottate nei diversi atti dell’azione intellettiva e delle variabili psicologiche che la
sottendono. In altri termini la didattica metacognitiva deve favorire non soltanto la conoscenza da parte dell’allievo
delle strategie che la mente adotta nelle varie situazioni di apprendimento curriculare, di informazione-
memorizzazione, di risoluzione dei problemi, ma soprattutto l’approccio metacognitivo deve determinare nell’allievo
una più oculata utilizzazione delle abilità metodologiche e di studio, coerenti con il suo stile cognitivo e con i suoi
ritmi di apprendimento.

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La Dweck ci dice che non possiamo separare ciò che è emozione da ciò che è cognizione, da ciò che porta una
prestazione. Se qualcosa mi piace, mi concentro più facilmente, mi sforzo con piacere ecc. Si deve sviluppare un
atteggiamento metacognitivo, incrementalista nei nostri allievi che gli consentirà di poter ragionare su quello che
hanno fatto, in considerazione del fatto che le abilità possono sempre crescere.

Auto-amputazione cognitiva
Processo di potatura Teoria del sé Tecnologie
Eliminazione delle sinapsi Con auto-amputazione cognitiva si McLuhan -> la tecnologia può sia
inutilizzate. È un processo può intendere anche l’autosabotaggio, estendere che amputare i processi
geneticamente determinato che un agire negativamente sulla cognitivi. Amputare nel senso che non
avviene tra i 2 e i 4 anni. cognizione. Di conseguenza è un riesco più a svolgere un determinato
Successivamente, avviene processo che può avvenire nei casi di compito senza quella determinata
influenzato dall’esperienza. teoria dell’entità. Quando l’alunno si tecnologia.
rifiuta di portare avanti un compito, ➔ Anche la tecnologia agisce sulla
sta influenzando negativamente sui nostra forma mentis, sui nostri
processi cognitivi, modificandoli
suoi processi cognitivi, e quindi
e vincolandoli.
effettua un’auto-amputazione
cognitiva.
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Metacognizione
Definizione del termine metacognizione:
Gli studi sulla metacognizione nascono intorno alla fine degli anni 70, da autori e studiosi come Flavell, all’interno
dei temi riguardanti la psicologia cognitiva. Temi questi curvati naturalmente verso le problematiche educative. In
termini generali, parlare di metacognizione non vuol dire sostanzialmente preoccuparsi di comprendere solo i
differenti processi attivati dagli alunni di fronte alle diverse performance educative e ai differenti compiti di
apprendimento, ma quello di studiare le strategie messe in atto dall’individuo e il grado di consapevolezza che lo
stesso soggetto ha sviluppato rispetto appunto alle strategie utilizzate e ai processi mentali che sottostanno nello
svolgimento di quei particolari compiti. In tal senso, una possibile declinazione del termine metacognizione
avrebbe origine proprio dal prefisso meta-, che configurerebbe quella dimensione mentale dell’andare oltre il dato
cognitivo. Quindi il pensiero inteso come contenuto, utilizzato per focalizzarsi su un complesso processo di presa di
consapevolezza dei meccanismi attraverso i quali si esplica l’attività cognitiva e delle strategie che in termini di
efficacia essa utilizza nelle molteplici situazioni dell’apprendimento. Una consapevolezza metacognitiva che si
tradurrebbe in un doppio pensarsi, mente soggetto e oggetto di indagine, che faciliterebbe la capacità di compiere
scelte strategiche personali appropriate nelle differenti attività di apprendimento. Diversi sono stati i modelli
esplicativi che si sono succeduti e per mezzo dei quali si è tentato di mettere in risalto la complessità delle variabili
che entrano in gioco nel momento dell’apprendere – variabili cognitive, motivazionali, emozionali, situazionali –
che in modo diverso intervengono a condizionare la riflessione sui processi di apprendimento. Questi studi hanno
ampliato il concetto del significato di metacognizione biforcandolo, in un certo senso, da un alto verso un settore
definibile nei termini di conoscenza metacognitiva dall’altro verso quel settore definito nei termini di processi
metacognitivi di controllo.
Cos’è la conoscenza metacognitiva:
La conoscenza metacognitiva è l’insieme delle conoscenze e delle idee che una persona ha sviluppato sul
funzionamento della mente ed include impressioni, intuizioni, informazioni, sensazioni ecc. Attraverso queste
conoscenze il soggetto è in grado di dire, ad esempio, come mai ci si dimentica delle cose, o ancora come si fa ad
imparare, che effetto determina il passare del tempo sulla memoria ecc.
Cosa sono i processi metacognitivi di controllo:
Tali processi riguardano la capacità di verificare l’andamento della propria attività mentale, a mano a mano che essa
si svolge, e di mettere in atto particolari strategie. La componente di controllo include il valutare il grado di
difficoltà del materiale, lo stabilire in che misura si hanno conoscenze relative al settore d’interesse, il mettere in
atto strategie adeguate alla risoluzione del compito, il verificare se l’attività di apprendimento appunto intrapresa
possa portare ai risultati che si tendevano a raggiungere ecc.
In conclusione, viene presentato un esempio che può aiutare a far evincere la differenza tra conoscenza
metacognitiva, processi metacognitivi di controllo, processi cognitivi e comportamenti.
Esempio
L’insegnante dice ai bambini: “ricordatevi di portare domani a scuola i pennarelli perché dobbiamo preparare un
cartellone”.
Nel bambino si potranno attivare diverse risposte psicologiche:
• Conoscenze metacognitive. “qui c’è una richiesta di memoria; in casi simili mi è capitato qualche volta di
dimenticare; mi converrebbe appuntarlo nel diario o appena arrivato a casa preparare subito i pennarelli.
• Processi metacognitivi di controllo. “è un compito abbastanza facile; fra le varie strategie la più opportuna è
quella di scrivere nel diario. Sarà stato scritto in modo chiaro? Ho ricordato in modo corretto?
• Processi cognitivi: il messaggio nel diario ha fatto venire in mente la richiesta e ha portato ad eseguirla.
• Comportamenti. Il bambino ha preparato i pennarelli sopra lo zaino e la mattina dopo li ha messi dentro.

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Teorie dell’apprendimento
Da sempre gli studi sui processi di apprendimento hanno visto svilupparsi paradigmi, teorie e modelli finalizzati a
spiegarne la complessa natura. Ogni paradigma ha, in linea generale, messo in chiaro differenti principi, ritenendoli
fondamentali per descrivere le modalità attraverso le quali l'uomo apprende.
Cos’è una teoria? Formulazione logicamente coerente (in termini di concetti ed enti più o meno astratti) di un insieme
di definizioni, principi e leggi generali che consente di descrivere, interpretare, classificare, spiegare, a varî livelli di
generalità, aspetti della realtà naturale e sociale, e delle varie forme di attività umana.
Qual è la finalità di una teoria dell’apprendimento? Attraverso l’osservazione capire quali sono i processi e descriverli
in modo tale da avere una teoria che possa fornirmi dei riferimenti da poter usare per costruire un progetto educativo
basato su quegli aspetti fondamentali delineati dalla teoria.
Il costruttivismo
Partendo dal cognitivismo, il costruttivismo ne riprende i concetti base e li rielabora e li integra con altri. Rispetto al
comportamentismo, la conoscenza non è legata alla ricezione di uno stimolo ma piuttosto si costruisce; c’è un
intervento rispetto a quel sapere, a quella informazione. Non avviene un apprendimento passivo tramite il meccanismo
di stimolo-risposta. Di conseguenza, nel costruttivismo radicale si considera la realtà, l’oggetto quindi della
conoscenza, comprensibile solo attraverso un’interpretazione soggettiva; non esiste una realtà oggettiva per i
costruttivisti radicali, ma ogni individuo ha una propria interpretazione della sua realtà, quindi delle singole
conoscenze.
Istruttivismo/comportamentismo-> la conoscenza viene acquisita così com’è, senza modifiche da parte dell’individuo,
in modo passivo;
costruttivismo-> non esiste una conoscenza oggettiva, esterna dal soggetto. La conoscenza si crea nell’interazione tra
soggetto e oggetto.
Questo possiamo collegarlo al Connettoma, Sebastian dice che il connettoma di fratelli gemelli è differente e questo
vuol dire che nell’interazione tra strutture ed esperienza, anche se è la medesima per entrambi, viene interpretata ed
elaborata in maniera diversa.
Per i costruttivisti conoscere significa lavorare sull’informazione, e di conseguenza si costruisce su
quest’informazione. Non si apprende in modo passivo, anzi al contrario solo nell’agire partecipativo dei soggetti
avviene l’apprendimento.
Persona originale-> costruzione personale delle conoscenze.
Intelligenze multiple: se io presento un solo tipo di stile, di linguaggio chi presenta le mie stesse caratteristiche riesce
a seguirmi; chi non le possiede invece no. rispetto ad una o due intelligenze, tutte le altre, secondo Gardner vengono
penalizzate, si genererebbe nei soggetti con intelligenze “non sovrapponibili” un auto-amputazione cognitiva.
Costruttivismo e didattica
Il costruttivismo è un paradigma scientifico-culturale che pone come elemento determinate per la creazione di nuove
conoscenze, competenze, comportamenti e principi valoriali, l’agire partecipativo dei soggetti, sia a livello
individuale, come persona originale nei suoi stili e ritmi di apprendimento, che a livello di relazione interpersonale e
di interazione col contesto.
Il conoscere viene considerato come un processo frutto dell’interazione tra individuo e ambiente. La filosofia
costruttivista esalta ed esaspera le posizioni cognitiviste affermando che la nozione di realtà, come anche
l’apprendimento, si forma attraverso la costruzione mentale che avviene con lo scambio di informazioni e l’interazione
con l’ambiente.

Provenienti dagli studi di Merrill - i principi su cui si basa il costruttivismo sono:


• Sapere come costruzione personale. Non esiste un sapere totalmente oggettivo e generalizzabile, poiché
ognuno struttura le conoscenze attraverso la propria personale esperienza;
• Apprendimento attivo. L’apprendimento non è un travaso di conoscenze dal docente all’allievo, ma un
processo esperienziale che deve essere condotto in modo attivo dal discente;
• Apprendimento collaborativo. La nozione di apprendimento collaborativo sottolinea l’importanza
dell’interazione con gli altri per il processo di conoscenza e di apprendimento. Il significato delle impressioni
che riceviamo dall’esterno non è una costruzione personale ma si definisce mediante il confronto con gli altri;
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• Importanza del contesto. L’espressione situated learning (apprendimento situato) si riferisce a una concezione
di apprendimento come processo di acquisizione di conoscenza che si svolge all’interno di un contesto. L’atto
di conoscenza non può darsi se non inserito in un contesto sociale; per questo l’insegnamento dovrebbe
avvenire in contesti realistici.
Il termine “personale”, descritto nella prima delle regole elencate, si riferisce alle strategie adottate dai diversi soggetti
nell’atto dell’apprendere. Pure nell’accezione dello stesso Merrill che ritiene, tuttavia, innegabile l’esistenza di saperi
condivisi comuni e, soprattutto, strutture cognitive simili a più persone, è di fondamentale importanza sostenere che
l’attività mentale è scandita da fasi di interpretazione legate ai meccanismi di decodifica ed elaborazione degli input
che provengono dall’esterno. L’atto dell’interpretare, quindi, definisce il modo attraverso il quale gli individui danno
significato a ciò che li circonda; in altre parole, esso si manifesterebbe come “organizzatore mentale” configurante le
caratteristiche peculiari di ogni individuo, nei termini di stili cognitivi, ritmi di
apprendimento e dimensione esperienziale. Infatti, attraverso i continui scambi con l’ambiente che ci circonda, noi
siamo in grado di costruire la nostra “idea di realtà” che, effettivamente, presenta caratteristiche peculiari e irripetibili
in virtù del fatto che ognuno di noi sceglie e attua delle soluzioni adattive che sono determinate dalla propria
architettura cognitiva, dalla propria organizzazione metacognitiva, dal proprio vissuto sociale, culturale ed
esperienziale.
Conoscere l’allievo nelle sue diverse sfaccettature permetterebbe all’insegnante di sviluppare dei processi formativi
più adatti agli stili cognitivi dei suoi alunni.
Per quanto riguarda il secondo principio del paradigma costruttivista, possiamo affermare che l’apprendimento attivo
si contrappone, decisamente, a una impostazione teorico-operativa che considera il processo educativo come un
semplice passaggio di informazioni da docente a discente, in una modalità lineare e sequenziale.
Il concetto di retroazione – non considerato nella teoria skinneriana – o feedback si inserisce invece quale altro
elemento fondamentale dell’atto dell’apprendere in quanto identifica il processo di elaborazione, di filtro, di
costruzione dei significati rispetto agli input provenienti dall’ambiente. Infatti, la retroazione è il sistema di
autoregolazione con il quale gli individui si adattano alle circostanze e agli stimoli esterni. La caratteristica
fondamentale della retroazione è, quindi, la dinamicità che si traduce nel continuo confronto e scambio di
informazioni tra i soggetti protagonisti dell’atto comunicativo. I processi di auto-regolazione che ne derivano e che
sono il frutto del continuo flusso e riflusso di messaggi e di informazioni provenienti dall’esterno possono a ragione
tradurre il concetto di “azione attiva” descritto negli assunti di base della teoria costruttivista. Tuttavia, affinché vi sia
un atteggiamento partecipativo e costruttivo da parte del soggetto nell’atto dell’apprendere, il feedback non basta.
L’apprendimento efficace, infatti, avviene per mezzo di un atto intenzionale e interessato, da parte dell’alunno, che
mette in moto il sistema di autoregolazione e autorganizzazione dei comportamenti. Il punto di riferimento – il
risultato o l’effetto conclusivo con cui l’intero sistema a feedback o retroazione tende -, in questo caso l’obbiettivo
formativo, può essere raggiunto solo se legato alla motivazione che spinge, appunto, l’allievo a adottare molteplici
strategie utili a tal fine. Senza motivazione, l’apprendimento rimane a un livello superficiale, astratto, mnemonico,
nozionistico.

Parlando di azione e di interazione non possiamo esimerci dal considerare come fattore importante per la
determinazione degli apprendimenti la collaborazione fra i membri dell’ambiente formativo, e il set stesso come
contesto in cui si attuano le relazioni educative e interpersonali. Infatti, l’atto educativo, determinato dallo scambio di
informazioni tra educatore e educando nell’ottica di quel processo che abbiamo definito col termine di retroazione, è,
per definizione, un atto sociale che coinvolge l’insieme dei partecipanti all’azione formativa e che per questo necessità
di metodi e strategie efficaci che permettano lo sviluppo delle piene potenzialità dei soggetti. La conoscenza, infatti, si
costruisce attraverso il continuo confronto con gli altri che porterà a un arricchimento personale, culturale e sociale.
Favorire, quindi, l’interdipendenza positiva e dinamica fra i soggetti del gruppo classe, aiuta gli alunni stessi nella
risoluzione di un problema, nello svolgimento di un compito formativo, nell’acquisizione di determinate conoscenze,
aumentando altresì le doti metacognitive riferite alle strategie applicate per apprendere, agli stili comunicativi e
relazionali, facendo opportunamente leva sulle caratteristiche personali ed espressive dei singoli alunni. Quando c’è
una vera collaborazione per un impegno comune, i membri di un gruppo hanno l’occasione di sviluppare una
conoscenza reciproca, sinceri sentimenti di stima e di amicizia, intensa attenzione verso l’altro. il concetto di
expertise traduce coerentemente l’azione del mettersi a disposizione: esso, infatti, sta a significare come ognuno può
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essere specializzato in qualcosa di particolare, mostrando spiccate doti in settori specifici. Queste verranno messe a
disposizione del gruppo che imparerà, attraverso il confronto, a utilizzarle in caso di futura necessità.
La diversità come valore, intesa come originalità di stile e capacità cognitive dei discenti, è il principio scientifico,
metodologico e assiologico su cui poggia e trova significatività l’apprendimento collaborativo che, pertanto, esalta le
entità educative e sinergiche peculiari a differenza di una tradizione didattica omologante e stereotipata. Ovviamente,
quando si parla di didattica non ci si riferisce soltanto alle tecniche con cui si insegna ma,
necessariamente, ci si rapporta anche agli strumenti da utilizzare e, soprattutto, agli spazi dove l’agire pedagogico si
sviluppa. Il concetto di apprendimento situato, elaborato da Bruner, sta a significare proprio la necessità di
organizzare un luogo di apprendimento la cui architettura risponda non solo alle esigenze teoriche sul quale si fonda
l’impianto didattico stesso, ma anche a quegli obbiettivi formativi che intendiamo offrire. La progettazione e la
gestione del luogo in cui svolgere le attività educative risulta avere grande importanza ai fini della costruzione e del
consolidamento di determinate competenze: da qui l’importanza assegnata al contesto dai teorici del costruttivismo.
Ma definire il contesto solo nei termini di “preparazione” dell’ambiente, adatto a questa o a quella specifica situazione
formativa, ne diminuirebbe il peso scientifico. Il perimetro entro il quale si esplicita l’agire educativo, la cornice in cui
si realizzano le azioni e le relazioni tra i soggetti deve essere pertanto indagata e considerata inseparabilmente in un
processo interattivo e dinamico che ne sancisce la configurazione e riconfigurazione reciproca. Il contesto è, perciò,
legato al nostro perimetro psico-fisico, come a quello sociale e culturale. Ricapitolando:
Come si rende attivo l’apprendimento? Utilizzando:
• Feedback – informazione di ritorno, retroazione. Serve a regolare la comunicazione, l’interazione; è attraverso
esso che si può monitorare il processo educativo o didattico, permette all’educatore di sollecitare l’alunno.
L’insegnante deve rispondere al feedback dell’alunno in modo proporzionale, in modo adeguato. Ma esistono
anche degli aspetti negativi, l’insegnate potrebbe infatti creare un sovraccarico e una conseguente stasi da
parte dell’alunno. Per evitare ciò è possibile far fare compiti di Peer-to-peer, come ad esempio aiutare un
compagno in un determinato compito, così da far sviluppare competenze laterali rispetto alla competenza già
acquisita dall’alunno.
• Motivazione – punto di riferimento necessaria per l’attivazione del feedback. Due tipi di motivazione:
- motivazione estrinseca: il raggiungimento dell’obiettivo è legato ad un premio;
- motivazione intrinseca: il raggiungimento dell’obiettivo è legato all’attività che sto svolgendo, e non a
qualcosa di esterno.
L’obbiettivo dell’educatore è quello di alimentare forme di motivazione intrinseca, la forma più forte e stabile.

Apprendimento collaborativo, ritroviamo questi elementi:


• Interdipendenza – diverse accezioni:
- col mio agire influenzo l’altro e il contesto;
- Interdipendenza tra le aree cerebrali per il funzionamento dei processi cognitivi;
- Interdipendenza dinamica. L’individuo influenza l’ambiente così come è influenzato dall’ambiente;
- Interdipendenza positiva. C’è un’interdipendenza tra i membri che compongono il gruppo, positiva in
quanto finalizzata al raggiungimento di un obbiettivo comune;
• Expertise - si collega al primo principio cioè alla costruzione personale – ognuno ha delle caratteristiche
specifiche e quindi potrebbe essere “più bravo” nel disegno rispetto ad un altro compagno, che di conseguenza
potrebbe avere altre competenze. Quindi si mette a disposizione del gruppo il proprio expertise, la propria
competenza.
L’importanza del contesto – l’individuo non si può decontestualizzare!
- compiti di realtà: determinate conoscenze vengono collegate e studiare riferendosi alla realtà quotidiana
(matematica ->utilizzo del denaro).
Le diverse accezioni del termine contesto:
• luogo e spazio in cui si sviluppano le attività;
• il background culturale, le preconoscenze possono variare l’approccio che si ha col contesto;
• contesto emozionale, sia quello interno dell’allievo o dell’insegnate, sia quello che si crea nella relazione.
Quindi, per i costruttivisti bisogna considerare il contesto in termini di situazione educativa: valutare tutti gli
elementi che ci presenta il contesto e cercare un collegamento tra gli aspetti degli allievi, del compito da

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trattare, e gli aspetti contestuali (collegati alla realtà). I bambini hanno difficoltà a comprendere elementi e
concetti astratti; quindi, la contestualizzazione è necessaria per far comprendere questo tipo di informazioni.

Io sono il mio connettoma: Sebastian Seung


Sebastian Seung sta lavorando ad un progetto molto ambizioso: mappare un modello del cervello studiando le
connessioni tra ciascun neurone. Chiama questo modello il nostro "connettoma", che è tanto personale quanto il
nostro genoma-- e la sua comprensione potrebbe aprire una nuova strada alla comprensione dei nostri cervelli e delle
nostre menti.
Fin ora si conosce in solo connettoma, quello di un minuscolo verme. Il suo semplice sistema nervoso è fatto di soli
300 neuroni. Negli anni 70 ed 80, un team di scienziati ha mappato tutte le 7000 connessioni tra i neuroni
>connettoma.
Il nostro connettoma è di gran lunga più complesso, perché il nostro cervello contiene 100 miliardi di neuroni e
10000 volte più connessioni. Il nostro connettoma contiene un milione di volte più connessioni di quante lettere
abbia il nostro genoma. È una quantità di informazioni enorme. Che c’è in quelle informazioni? Non lo sappiamo
con certezza, ma sono state formulate varie teorie. Dal 19simo secolo, i neuroscienziati hanno ipotizzato che forse i
nostri ricordi – le informazioni che ci rendono le persone che siamo – forse sono conservati nelle connessioni tra i
nostri neuroni del cervello. E forse anche altri aspetti della nostra identità personale, forse la nostra personalità e il
nostro intelletto, forse anch’essi sono codificati nelle connessioni tra i nostri neuroni. Ora potete capire, dunque
perché ho avanzato quest’ipotesi: io sono il mio connettoma. [...] man mano che cresciamo, durante l’infanzia, e poi
invecchiamo, nella maturità, la nostra identità personale cambia lentamente. Analogamente, ogni connettoma cambia
nel tempo. Che tipo di cambiamenti avvengono? Beh, i neuroni, come gli alberi, possono emettere nuovi rami e
perdere quelli vecchi. Delle sinapsi si possono creare, e possono venir eliminate. Delle sinapsi possono ingrandirsi e
possono rimpicciolirsi. Seconda domanda: qual è la causa di questi cambiamenti? Beh, è vero, in una certa misura,
sono programmati dai nostri geni. Ma i geni non spiegano tutto, perché ci sono segnali, segnali elettrici, che scorrono
lungo le ramificazioni neuronali e segnali chimici che saltano da una ramificazione all’altra. Questi segnali
costituiscono la cosiddetta attività neuronale. E ci sono molte prove che l’attività neuronale codifica i nostri pensieri,
sensazioni e percezioni, le nostre esperienze mentali. E ci sono anche molte prove che l’attività neuronale può far
cambiare le nostre connessioni. E se mettete insieme questi due fatti, ciò significa che le nostre esperienze possono
modificare il nostro connettoma. Ecco perché ogni connettoma è unico, anche quello dei gemelli identici. È nel
connettoma che s’incontrano natura e cultura. E potrebbe essere che il semplice fatto di pensare possa cambiare il
nostro connettoma – un’idea che potrebbe farci sentire portatori di un grande potere.
Il connettoma e la didattica come cultura
La dicotomia naturale-acquisito (nature-nurture), che da decenni domina le discussioni sul comportamento, è
ampiamente falsa: tutte le caratteristiche di tutti gli organismi sono realmente il risultato dell’influenza simultanea di
entrambe.
Il fattore al quale la didattica dei processi guarda con maggiore attenzione è l’interazione tra geni-ambiente,
uomocultura, nella matura convinzione di come entrambi, interattivamente, si influenzino.
La cultura è al tempo stesso un fenomeno della mente e dunque cognitivo, e un fenomeno sociale e dunque empirico.
La cultura è cioè un sistema di norme, o atteggiamenti normativi che regolano il modo di agire dei membri della
comunità e al tempo stesso il loro modo di pensare, costruire, partecipare e decidere la realtà stessa in cui vivono. I
due momenti sono strettamente legati e internazionali.
Le conseguenze, in termini neuronali, dell’interazione tra geni e ambiente, uomo e cultura, può essere visualizzata
grazie al connettoma. Il connettoma è l’insieme delle connessioni neurali prodotte dall’esperienza, dall’interazione con
l’ambiente, che ne delinea le forme uniche e le funzioni specifiche.
Ecco perché ogni connettoma è unico, anche quello dei gemelli identici. È nel connettoma che si incontrano natura e
cultura.
La didattica dei processi, quindi, guarda al connettoma, come luogo di convergenza tra caratteri innati e acquisiti,
nella logica sostenuta in premessa che ci dice come la qualità dell’ambiente in cui la persona vive può favorire od
ostacolare lo sviluppo, il mantenimento e la riorganizzazione delle reti neurali del nostro cervello. Quello che si viene
determinando è allora un rapporto co-evolutivo dove l’elemento naturale non è dipendente da quello culturale, e
viceversa, in un’ottica dialogica che ne sancisce le reciproche influenze e contaminazioni.
Vincolo biologico dell’apprendimento -> quando acquisto una conoscenza o vivo una determinata esperienza, i miei
collegamenti sinaptici mutano, muta il mio connettoma. È l’agire dell’apprendimento sulla nostra forma mentis che
determina il vincolo.
21
Il connettivismo – premesse
George Siemens e Stephen Downes, per formulare la loro teoria dell’apprendimento, partono dalla consapevolezza del
fatto che le tecnologie hanno cambiato i modi attraverso i quali le nuove generazioni apprendono. Infatti, il digitale ha
modificato l’informazione in sé (la conoscenza).
e-Knowledge
La digitalizzazione dell'informazione ha indubbiamente rivoluzionato le modalità di fruizione del sapere,
sovrapponendo, in un certo senso, i luoghi e gli strumenti formali della conoscenza, quali per esempio scuola e libro, a
quelli informali del fluido e immateriale ecosistema del cyberspazio. Questa trasposizione dell'informazione in sapere
elettronico – e-Knowledge - ha determinato nuovi tratti della conoscenza stessa e pratiche inedite di diffusione e di
condivisione dei dati.
E (electronic) – knoledge -> conoscenza/informazione elettronica/digitale
Avviene una dematerializzazione dell’informazione al passaggio al digitale; di conseguenza si scompone, le parti
rimanenti vengono definiti atomi. Questi atomi si ricompongono in una nuova rete, in una nuova architettura, internet.
Quindi assume la forma dell’ipertesto, reticolare.
Informazione “non digitale” Informazione digitale

Materiale Dematerializzata ed
atomizzata

Testo (ad es. libro) Ipertesto (architettura di


internet)

Lineare Reticolare

Monomediale Multimediale

Intelligenza sequenziale Intelligenza simultanea


La multimedialità è quella che garantisce all’e-learning un grande pro: la possibilità di usare più media (testo, video,
audio, immagini, schemi ecc.) in contemporanea. Questo è un vantaggio perché si riesce a supportare meglio lo
studente, ogni tipo di studente, sia chi apprende meglio con le immagini, sia quello che apprende meglio con gli
schemi.
Inoltre, differenti tecnologie possono avere effetti sull’elaborazione dell’informazione che stanno veicolando
(affordance) – “il medium è il messaggio”, McLuhan.
[L’intelligenza simultanea collegata all’ipertesto è intrinsecamente legata al multitasking. Il sistema dell’ipertesto può
infatti elaborare informazioni differenti o fare diversi lavori contemporaneamente; da questo deriva la definizione di
molti autori, come Jenkins, di competenza mediale.
Con competenza mediale delle nuove generazioni si intende la capacità di essere multitasking; quindi, da una
caratteristica multitasking dello strumento rispondono processi mentali, a loro volta, multitasking.
Altri autori, però, definiscono l’uso del multitasking negativo per i processi attentivi, soprattutto nei casi di uso
precoce della tecnologia.]
E-knowledge. La conoscenza elettronica. Definizione e caratteristiche.
E-knowledge = conoscenza elettronica →un sapere che per effetto della digitalizzazione dell’informazione, quindi del
sapere stesso, si è trasformato acquisendo tratti, per molti versi inediti, strettamente collegati alle caratteristiche di
internet, del web.
La prima considerazione da fare allora è proprio quella legata alle caratteristiche dell’ecosistema mediale, alle
caratteristiche del cyberspazio, che hanno reso per certi versi liquido, più dinamico, più coinvolgente e altamente
interattivo lo spazio di mediazione del sapere. La rete e il digitale hanno diversificato l’accesso al sapere, a portata di
click, e quindi anche la fruizione del sapere così come hanno cambiato i modi di produrlo e di condividerlo.
Cyberspazio
Il sempre più complesso e multimediale cyberspazio ridisegna costantemente uno scenario trasformato, sempre più
orientato all’informatizzazione delle procedure, alla digitalizzazione delle risorse, alla robotizzazione degli ambienti
di vita.

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Webcasting, podcasting, blogging, ed altri nuovi device promuovono nuove geometrie dei saperi e della
conoscenza, identità ibride, un nuovo senso di appartenenza attraverso il social networking. la conoscenza diviene
transagibile, considerata come prodotto della scambiabilità e dell’integrazione dei saperi, sollecitata dall’infittirsi
delle interfacce attraverso le quali si realizzano le transazioni conoscitive dell’individuo verso i suoi simili e verso
gli artefatti che egli stesso ha generato.

Strumento libro – sequenzialità: lo strumento libro nella sua strutturazione, composizione (le pagine) e nella sua
fruizione-azione (lo sfogliare) ci suggerisce di procedere un passo alla volta, linearmente, e di conseguenza, di
elaborare il sapere seguendo tale percorso (lineare).
la rete (il Web) – reticolare e multimediale: internet, il web, proprio grazie alle proprie caratteristiche (reticolarità e
multimedialità) ci chiama invece ad esplorare, a ricercare, a costruire un percorso logico invece che seguirne uno
precostituito.
La E di electronic riconfigura l’ecosistema della conoscenza che subisce una significativa trasformazione, nel
momento in cui i dati, il sapere, diventano digitali. In questo nuovo schema la trasposizione dell’informazione in
conoscenza elettronica si realizza in molteplici modi, e il passaggio da una fase di acquisizione di semplici dati ad
una fase evoluta di comprensione e di saggezza è inevitabilmente correlato alla digitalità e ai suoi effetti sui
processi di elaborazione del sapere.

Società informazionale e accesso alla conoscenza


Parlare del rapporto co-evolutivo natura/cultura implica necessariamente una profonda riflessione sul modo e sulla
misura in cui le tecnologie telematiche di oggi incidono sull’uno o sull’altro versante. Per far questo bisogna partire
dal presupposto che l’affermarsi della virtualità in molti dei luoghi socio-relazionali e professionali dell’uomo hanno
modificato il nostro accesso alla conoscenza, il nostro rapportarsi al sapere, accelerando i processi cognitivi e
inducendo a quella che viene definita educazione permanente o long life learning. Un carattere elettronico-digitale,
quello che oggi ha il tessuto socioculturale, che inevitabilmente ha i suoi effetti sulla conoscenza, così come sui
processi di elaborazione del sapere.
Con il termine e-knowledge si declina, appunto, la trasposizione dell’informazione in sapere elettronico, quest’ultimo
prodotto della digitalità del suo ambiente di diffusione che ne determina i nuovi tratti:
• Atomizzazione dell’informazione. La conoscenza può essere scomposta e ridotta in unità discrete,
opportunamente ricombinabili;
• Disseminazione. La conoscenza può essere diffusa, distribuita, indirizzata ad un numero elevatissimo di
destinatari senza rischiare di corrompersi;(*)
• Ri-finalizzazione di contenuti. L’opportunità di rielaborazione delle risorse digitali, ridefinendole la struttura e
gli obiettivi formativi e didattici;
• Ri-combinazione. La possibilità di pensare all’architettura della conoscenza in termini trasversali,
interdisciplinari, dinamici e modulari - Un’architettura didattica modulare composta da oggetti di
apprendimento interscambiabili;
• Misurazione. Il carattere quantitativo e qualitativo dell’atomo di contenuto;
• Aggiornamento. Realizzabile con grande flessibilità grazie alle caratteristiche dei sistemi digitali;
• Scambio. La rete promuove forme di condivisione della conoscenza.
(*la validazione dell’informazione è però più difficile da verificare, essendo praticamente impossibile sapere
effettivamente chi ha scritto un determinato articolo, ad esempio. Un libro, un’enciclopedia, un vocabolario ecc.
cartaceo deve passare delle fasi per essere approvato ed infine messo in vendita. Un sito internet può aprirlo chiunque
e può scriverci sopra quello che vuole.)

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Le tecnologie digitali, quindi, hanno modificato l’ambiente di vita in virtù di un differente modo di creare,
rappresentare e diffondere la conoscenza e questo ha portato a un cambiamento anche dei processi attraverso i quali la
stessa viene elaborata, consumata, diramata. I media, pertanto, influiscono in modo significativo sull’attività cognitiva
ridefinendone le modalità attraverso le quali essa si realizza, in termini di memorizzazione, di attenzione selettiva, di
risoluzione di problemi. La disponibilità offerta dalla rete internet di accedere a un numero elevatissimo di
informazioni, così come la possibilità che le stesse possano essere archiviate, rielaborate e condivise attraverso le
funzionalità dei tantissimi device che compongono l’universo tecnologico digitale, producono un diverso rapporto con
la conoscenza e conseguentemente una differente forma mentis attraverso la quale il sapere viene fruito e accolto.
Così la multimedialità, l’ipermedialità, la digitalità entra gioco forza nel sistema formativo, come strumento,
contenuto, linguaggio ambiente operativo e di scambio.
Amber case – we are all cyborgs – l’antropologia dei cyborg
Noi siamo cyborg nel momento in cui interagiamo con un computer o usiamo i nostri cellulari. Allora che vuol dire
essere cyborg?
La definizione tradizionale di cyborg è questa: un organismo a cui sono stati aggiunti componenti esogeni con lo
scopo di adattarlo a nuovi ambienti.
La Case però utilizza il temine cyborg per indicare “una nuova forma di homo sapiens”.
L’utilizzo di strumenti, fin dall’inizio e per migliaia e migliaia di anni, ha sempre determinato modificazioni fisiche
di sé stessi. Ci ha aiutato a estendere il nostro essere fisico, ad esempio andare più veloci, colpire le cose con più
forza, ma c’è sempre stato un limite alla possibilità dell’estensione del nostro fisico.
ma quello a cui stiamo assistendo ora non è un’estensione del nostro essere fisico, ma un’estensione del nostro
essere mentale. E a causa di questo possiamo viaggiare più veloci, comunicare in maniera differente.
Inoltre, un pc è in grado di contenere una quantità enorme di informazioni, dati ecc. che possono sempre essere a
nostra disposizione senza sforzo. Però, è molto più facile perdere queste informazioni, e quando accade ci sentiamo
di aver perso un pezzo della nostra mente.
Adesso, poi, possediamo una doppia identità, grazie ai social network. Tutti in un modo o nell’altro si fanno vedere
online e ad interagiscono con le altre persone. Noi sentiamo il bisogno di mantenere questa seconda vita, tramite
delle presentazioni di noi stessi nella vita digitale (ogni foto, post, contenuto condiviso contribuisce a presentarci
agli altri e a mantenere aggiornata questa nostra seconda vita).
La tecnologia non viene adottata solo perché funziona; viene adottata perché la gente la usa ed è fatta per gli umani.
La tecnologia, come quella degli smartphone, rappresenta un ponte spazio-temporale, che ci permette di
raggiungere qualunque tempo, luogo, sapere, conoscenza ecc. senza effettivamente muoverci, trasportando la nostra
mente.

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È avvenuta quindi una compressione degli spazi e dei tempi: le informazioni arrivano quasi istantaneamente da un
punto all’altro del pianeta, come se si fosse compresso. Inoltre, è come se vivessimo più tempi simultaneamente nel
momento in cui apriamo più pagine web e ne fruiamo in contemporanea. Questa però è anche “un’architettura del
panico”, nel momento in cui non troviamo quello che stiamo cercando o abbiamo dimenticato, ad esempio, dove
abbiamo salvato quel file, o ancora pensiamo di esserci persi una notifica o un messaggio, sopraggiunge il panico.
Di conseguenza abbiamo bisogno di tenere sempre tutto sotto controllo. Questo ci porta, anche in situazioni
“sociali” a controllare continuamente il telefono.
Quindi abbiamo una possibilità, definita “intimità ambientale”. Non è che siamo sempre connessi con tutti, ma in
ogni momento possiamo connetterci con chi vogliamo. Questo porta a delle conseguenze psicologiche: la gente si
prende più il tempo per riflettere, ed è più difficile rilassarsi perché non si riesce più a “disconnettersi”. Inoltre, a
cultura del click, che ci ha abituati ad avere risposte istantanee, ci rende agitati e incapaci di aspettare.
Questo non vuol dire che la tecnologia sia negativa. Anzi ci sta aiutando ad essere più umani, a connetterci tra di
noi. In realtà, finisce per essere più umana che tecnologica, perché stiamo co-creando noi stessi in ogni momento.
Stiamo solo aumentando la nostra umanità e la nostra abilità a connetterci l’un l’altro, indipendentemente dalla
geografia.

I media come estensioni dell’uomo


Oggigiorno le identità collettive non si fondono più unicamente su criteri di vicinanza geografica ma anche su
interazioni che avvengono a partire da temi, idee, passioni. Da centri d’interesse diversissimi e assolutamente
dislocati. (…) il territorio principale è quello semantico, ovvero la zona di significazione. (…) le identità collettive si
costruiscono e si disfano nel territorio semantico e non più nel territorio geografico – McLuhan, Gli strumenti del
comunicare.
In tal senso, l’ecologia digitale della società informazionale ci raffigura sempre più come dei cyborg, simbioticamente
legati agli artefatti tecnologici di cui ci circondiamo e con i quali modifichiamo l’ambiente e, inconsapevolmente o
consapevolmente, noi stessi e le generazioni future. Lo strumento, pertanto, come estensione dell’organismo in senso
sia fisico che mentale comporta la modifica sia della sfera cognitiva, psichica, che di quella relazionale e
socioculturale. È certamente vero che la nostra mente, a livello di sviluppo, mantenimento e riorganizzazione
neuronale, sta co-evolvendo con le molteplici pratiche d’utilizzo delle tecnologie digitali, in un’interazione e
iterazione costante che nel connettoma trova il punto di congiunzione natura-ambiente. Plasticità della mente e
dinamicità degli ambienti virtuali sono gli elementi fondamentali dai quali partire per costruire quell’impostazione
teorico-operativa definita nei termini di didattica dei processi, così come caratteri fondamentali per fondare una
possibile epistemologia della digital education. L’integrazione di più canali comunicativi, quali, appunto, quello
visivo (testo, icone, animazioni) e quello uditivo (parole, suoni), associati alle possibilità multiple di organizzazione
del tempo e alla caratteristica di interattività propria del web, consentono di rendere più flessibile l’azione educativa e
di adattarla alle esigenze cognitive dei singoli individui. Il medium, quindi, nato e usato per esigenze funzionali, ha
nell’economizzazione e nell’estensione potenziale dell’attività umana le finalità del proprio essere. La capacità dello
strumento (meccanico e/o tecnologico-informatico) di emulare, amplificare le funzioni senso-motorie, psicologiche,
cognitive, e di retroagire sull’individuo stesso, determina il nascere di nuove forme mentis (quelle della digital
generation) che influenzano tutti gli aspetti dell’esistenza umana, nonché la stessa rappresentazione del mondo.
Tecnologia e didattica
I media, infatti, hanno una forte influenza sulle attività cognitive, dato che proprio “il cervello è il luogo in cui gli
effetti della tecnologia si traducono in psicologia e si trasformano in cultura ed economia”. Un rapporto dialogico,
quindi, tra uomo e medium che si declina nello scambio iterativo di informazioni e influenze che vanno pensati in
termini sistemici e globali. La tecnologia, infatti, esegue, come precedente affermato, un’azione di feedback sulla
cultura e sull’impianto sociale, modificandone la struttura, gli usi, le pratiche, i valori e i costumi. Nei nuovi media
trovano terreno fertile e possibilità di sviluppo le dimensioni che Thompson indica come componenti fondanti della
comunicazione in generale e, a parer mio, anche in quel tipo di comunicazione specificatamente didattica: la
dimensione simbolica, e cioè l’idea che l’atto comunicativo, come quello didattico, abbia a che fare con la
progettazione, la diffusione e la condivisione di contenuti che per l’uomo abbiano significato; e la dimensione sociale,
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cioè quella che riguarda le metodologie con le quali vengono prodotti i contenuti e le modalità di trasmissione. Queste
due dimensioni sono strettamente interconnesse e possono avere termini di paragone non solo con i tratti
precedentemente esposti dall’e-knowledge, ma si evidenziano nelle caratteristiche stesse dei media, in termini sia
strutturali, che funzionali, e che Thompson definisce nei vocaboli di fissazione, riproduzione, distanziazione
spaziotemporale, competenze e mediazione. Analizziamo adesso questi concetti rapportandoli sempre ai temi della
didattica. Innanzitutto, i media facilitano la conservazione e l’archiviazione dei dati favorendo, così, sia la possibilità
di recupero degli stessi, che l’opportunità di trasmettere il sapere alle generazioni successive. Nel concetto di
fissazione, quindi, trova vigore e legittimità l’idea del medium come estensione cognitiva, dal momento che la
tecnologia si integra con le facoltà psichiche dell’individuo attraverso i propri supporti. Sotto questo aspetto
s’inserisce bene il concetto di riproduzione. L’erogazione e la diffusione del sapere determinato l’altra caratteristica
dei media definita col concetto di distanziazione spazio-temporale con il quale si intende mettere in evidenza
l’emancipazione del messaggio dal luogo e dal tempo in cui esso viene concepito. Si può dire, infatti, che la
dimensione spaziale in internet è letteralmente annullata, dato che la distanza fisica non comporta alcun ostacolo alla
comunicazione, e che il tempo può essere organizzato diversamente, in modo flessibile e dinamico, utilizzando
dispositivi di comunicazione sincrona quali chat, videochiamate, videoconferenze, ecc., oppure strumenti di
comunicazione asincrona quali forum, e-mail, diari, ecc. Lo strumento tecnologico, quindi, assume il ruolo di
mediatore tra formando e formatore, in un prisma di attività che sono legate alle molteplici interfacce dei tools
disponibili online e che definiscono gli ambienti virtuali entro i quali si realizza il processo educativo.
Ma l’appropriazione e la condivisione di attività e contenuti formativi, di forme simboliche e significanti, possono
raggiungersi solamente se vi è la profonda e consapevole comprensione del mezzo digitale, in termini non soltanto
strumentali, ma semiotici, antropologico-culturali, psicologici, didattico-pedagogici, ecc. L’interattività, come peraltro
la multimedialità e la reticolarità sono le caratteristiche principali del web, così come gli elementi costitutivi, assieme
alla condivisione e allo scambio di contenuti, dall’e-learning 2.0. Con il termine e-learning 2.0, Stephen Downes
vuole sottolineare la natura antropologica del cyberspazio e l’esigenza di rivedere la prospettiva attraverso la quale si
guarda il processo formativo on line: non più una visione per così dire teocentrica, prevalentemente orientata
all’erogazione di contenuti, di courseware preconfezionati diffusi attraverso le piattaforme tecnologiche, ma
un’impostazione concettuale che riscopra e valorizzi le modalità spontanee e informali dell’apprendere, prodotte dalla
continua negoziazione sociale dei suoi utenti attraverso i canali si social networking. Questo comporta la ridefinizione
dei modi attraverso i quali si realizzano forme di istruzione on line, sia in termini di progettazione dei contenuti, che
soprattutto in termini metodologici-didattici, lì dove è necessaria la profonda comprensione della natura dei processi
formativi, così come la valorizzazione di strategie cooperative finalizzate all’apprendimento.
Mediamorfosi
Il digitale non ha trasformato solo la conoscenza, ma anche le pratiche di fruizione della stessa.
#mediamorfosi -> Il concetto di mediamorfosi è stato usato da Roger Fidler per descrivere la trasformazione subita dai
media tradizionali; lo utilizziamo in questa sede per indicare invece come si è modificato il fruitore di tali media, cioè
noi.
Non ha caso verrà affrontata l’analisi del rapporto tra tecnologie e apprendimento; andare a descrivere le
caratteristiche di una conoscenza definibile nuova, non solo in termini di contenuti ma di forma di tali contenuti, è
importante perché ci fa capire che noi ci relazioniamo con questo modo di strutturare la conoscenza. Noi ci
muoviamo, agiamo, pensiamo, ragioniamo, facciamo tramite questa struttura, e la consapevolezza di ciò è
fondamentale.
Infatti, è da questa consapevolezza che nascono teorie come quella del connettivismo o articoli come quello di
Prensky sui nativi digitali.

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1. Cloud Computing
Da enciclopedia Treccani - Letteralmente “nuvola informatica”, termine con cui ci si riferisce alla tecnologia che
permette di elaborare e archiviare dati in rete. In altre parole, attraverso internet il c.c. consente l’accesso ad
applicazioni e dati memorizzati su un hardware remoto invece che sulla workstation locale.
Questa “nuvola” agisce sulla nostra memoria, o meglio diventa un’effettiva estensione della nostra memoria. Così la
nostra mente si espande e i suoi contenuti diventano condivisibili: così come le altre menti possono “accedere” alla
nostra memoria, la nostra mente può “accedere” a memorie altrui.
Le tecnologie influenzano e potenziano i nostri processi cognitivi, proprio come afferma McLuan. Esempio di
influenza negativa: auto-amputazione cognitiva (utilizzando sempre la calcolatrice dimentico come si effettuano le
operazioni).
Esempio di potenziamento: invenzione della scrittura (non devo più sforzarmi di ricordare e posso ritornare sugli
stessi concetti senza che essi si modifichino o che si perdano).
2. Smart Eco-System
I motori di ricerca sono basati su sistemi di intelligenza artificiale che forniscono risposte che sono sempre più
coerenti e precise. Il sistema è strutturato in termini semantici, infatti si parla di web semantico. È il nostro utilizzo,
l’uso che ne facciamo, a renderlo intelligente e che lo rende sempre più coerente e preciso. Quindi, l’ecosistema è
determinato dall’ipertesto e dal nostro utilizzo di esso, che lo rende intelligente -> la macchina apprende dal nostro
uso.
3. Tecnologie always-on
Le tecnologie più moderne sono “sempre accese”, così come il nostro cervello che è sempre “connesso”. Di
conseguenza non ci si può estraniare dalla tecnologia, il non utilizzarla provoca comunque un collegamento con essa.
In termini educativi questo tipo di tecnologia ha determinato un grosso cambiamento: l’abbattimento dei confini
spazio/temporali. Si deve pensare a didattiche che diano modo di poter imparare anche al difuori del tempo e dello
spazio scolastico. Quindi ad esempio alla creazione di micro-contenuti fruibili in qualunque momento e condizione,
questa libertà facilita anche la personalizzazione.
4. Ubiquitus Learning
Si possono abitare, in modo virtuale e contemporaneo, più spazi. Ha caratteristiche multitasking. 5.

File Sharing

Condivisione di contenuto istantanea. Punti


di riflessione – mediamorfosi
• I rischi della tecnologia sono legati all’uso della stessa o sono insisti nella natura stessa dello strumento?
• Non si può separare il contenitore dal contenuto - McLuhan;
• Il processo di apprendimento è sempre in divenire – posso acquisire ma anche perdere conoscenze;
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• L’interattività degli strumenti di oggi è aumentata in termini di quantità e qualità, ma soprattutto velocità.
Questa velocità, in casi diversi, potrebbe creare delle interferenze nell’apprendimento di un alunno.
Sovraccarico cognitivo, perdita di attenzione selettiva, ecc.;
• Lo strumento è basato sulla caratteristica social ed è alimentato dalle nostre interazioni, che vengono
permesse dal sistema;
• Il modello per struttura della tecnologia siamo noi, il funzionamento è basato sul nostro funzionamento
cognitivo;
• La struttura ipertesto diventa un nuovo spazio, un nuovo contesto, da tenere in considerazione;
• Apprendimento implicito della tecnologia da parte dei nativi digitali;
• Apprendimento collaborativo evoluto, facilitato e cambiato grazie alla tecnologia.

Il cervello e il tubo
è un dato di fatto, oggi, che le tecnologie digitali abbiano modificato sostanzialmente il nostro modo di vivere la
quotidianità, non solo in virtù della loro diffusa presenza nei molteplici contesti in cui svolgiamo le nostre attività, ma
anche grazie alla loro immediatezza e facilità d’uso. Per tali ragioni diventa necessario riflettere non tanto e non solo
sulle possibilità strumentali che la tecnologia digitale offe all’uomo, quanto su come tali opportunità incidano
sull’uomo in termini:
• Cognitivi, di visione, elaborazione e rappresentazione del mondo, di costruzione della conoscenza;
• Emozionali, di approccio relazionale, di avvicinamento all’altro, di percezione del sé nel cyberspazio; •
Valoriali, teleologici e culturali, emersi e sviluppatisi dal “suolo fluido” connettivo e collettivo del
web.
Da qui ne deriva che ogni artefatto tecnologico è anche un artefatto culturale, cioè incide tanto nella rete sociale,
quanto sull’individuo. L’espressione di McLuhan “il medium è il messaggio” declina proprio tale impostazione
concettuale: le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle
nuove proporzioni introdotte delle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia.
Pertanto, sono le caratteristiche specifiche dello strumento che influenzano il nostro modo di accedere alla
conoscenza, di elaborare le informazioni e di appropriarsi dei contenuti, piuttosto che il contenuto veicolato, in virtù
del fatto che le tecnologie scandiscono i ritmi e i tempi dei rapporti umani. Quello che i media digitali fanno è
trasformare sensibilmente la noosfera [il termine noosfera indica la “sfera del pensiero umano”, cioè una sorta di
“conoscenza collettiva” degli esseri umani che scaturisce dall’interazione fra le menti umane. Più l’umanità si
organizza in forma di reti sociali complesse, più la noosfera acquisisce consapevolezza]
Se, quindi, l’ecosistema mediale influenza significativamente il nostro modo di pensare, di fruire e costruire la
conoscenza, di creare e consolidare relazioni con gli altri, allora è necessario indagare la mediasfera nelle sue
molteplici componenti; da qui ne consegue che ogni tecnologia va studiata e compresa in base agli elementi strutturali
che la compongono e che determinano una particolare organizzazione comunicativa capace di incidere sui modi di
pensare e di agire degli individui, sviluppando così negli stessi una differente forma mentis. È plausibile, pertanto,
pensare che l’uso delle tecnologie telematiche, di internet, dei dispositivi mobili di comunicazione, oltre che
modificare le modalità attraverso le quali si accede ai dati, alle informazioni, ai contenuti, mutano, in funzione delle
caratteristiche proprie dei differenti device che utilizziamo, le connessioni neurali della mente in un processo di
interdipendenza dinamica uomo/ambiente. Tale ipotesi argomentativa può, con le dovute differenze, essere
rintracciata e legittimata dalla celebre frase di G. Siemens che ci dice come il “tubo”, il canale, il veicolo sia molto più
importante, rispetto al contenuto: il conoscere dove recuperare informazioni e conoscenza ha ugual valore della
conoscenza posseduta. L’accostamento ai digital device porta, quindi, a un diverso modo di elaborare le informazioni,
organizzarle, servirsene, così come a una proliferazione di personalità e identità diverse. I dispositivi digitali, il web,
hanno innescato una nuova rivoluzione cognitiva (dopo la scrittura) che ha modificato le gerarchie dei sensi (udito,
vista), il registro sensoriale, i canali privilegiati per fruire e acquisire il sapere, intervenendo fortemente sulla
dimensione intellettiva, in termini di stili cognitivi e strategie di apprendimento. In tal senso, l’utilizzo sempre più
ampio di codici iconici e linguaggi filmici proprio dei sistemi di rete odierni favorisce lo sviluppo di un tipo
d’intelligenza simultanea, in contrapposizione a quella sequenziale favorita dalla lettura e dall’uso do codici alfabetici.
Un mind-shift figlio dello sviluppo tecnologico di fine XX secolo e inizio nuovo millennio. Perciò siamo passati da
una modalità di conoscenza in cui prevaleva la linearità a una in cui prevale la simultaneità degli stimoli e
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dell’elaborazione. In tal senso, allora, è opportuno mettere in evidenza come i margini tra ambiente e individuo
diventano sottili, fragili, così come tra tecnologia e mente, tra tecnologie ed educazione, tra tecnologie e cultura:
quando le tecnologie si adattano all’individuo attivamente, in modo automatico e costante, e l’individuo si dispone
altrettanto attivamente alle tecnologie, accade che il confine che separa lo strumento dal suo utilizzatore diventa
sottile, così che le tecnologie diverranno sempre più parte dell’apparto mentale delle persone.

Battro definisce col termine euristica digitale un tipo di modalità cognitiva basata su una concatenazione di
informazioni di facile accesso, legata a meccanismi semplici di decisione, scorciatoie di percorso che inducono la
focalizzazione dell’attenzione su specifiche informazioni: nell’esplorazione virtuale di un ambiente artificiale di
natura digitale, questa euristica binaria ci permette:
a) Di analizzare le specifiche di contesto dell’ambiente in maniera semplice minimizzando la quantità di
informazioni che deve essere ricevuta e usata per realizzare scelte e decisioni che ci fanno procedere nella
consultazione della pagina web che stiamo leggendo e nel gioco (se trattasi di videogiochi online e giochi di
ruolo, ecc.);
b) Di esplorare la struttura delle informazioni disponibili nell’ambiente (opzioni di gioco o di lettura) per attivare
decisioni rapide e specifiche che servano a portare a compimento il compito proposto (il livello del videogioco
o l’informazione che vogliamo ricavare da internet);
c) Di interfacciare il nostro sistema senso-percettivo con la struttura delle informazioni esterne in maniera
euristica appunto, senza il ricorso a calcoli formalizzati complessi.

Pertanto i sistemi di acquisizione della conoscenza esercitati attraverso l’uso di dispositivi digitali riprogrammano le
connessioni neurali, adattandole alle tipizzazioni funzionali del web, della mobile communication, in una prospettiva
neuro-scientifica, culturale ed educativa ancora da esplorare: limitare il volume di informazioni, valersi dei dati
ottenuti dall’ambiente esterno e accomodare il sistema senso-percettivo alle necessità dell’interfaccia digitale
costituiscono alcune delle facoltà di quello che ho chiamato cervello connesso, e che delinea una maggiore e naturale
propensione dei nativi digitali alla facile gestione delle interazioni con gli schemi digitali. I dispositivi informatici, sia
hardware che software, diventano così protesi del nostro corpo, estensioni della nostra mente attraverso la quale
rappresentiamo il mondo in cui diamo immersi. Le funzioni cognitive, infatti, non si limitano a ciò che fa il cervello,
ma diventano ciò che il cervello riesce a fare grazie a contributi esterni, compresi quelli che ci arrivano dalle
tecnologie, come il computer o lo smartphone. (…) carta e penna o strumenti elettronici sono risorse che servono alle
esigenze del nostro cervello. Si può pensare a essi come a schede che si mettono negli shot di espansione di un
computer: estendono e alterano le nostre capacità di immagazzinare e gestire le informazioni.
Su tali presupposti l’azione educativa deve ridefinire i propri obbiettivi e le proprie pratiche di insegnamento nel
momento in cui si propone di strutturare il proprio set formativo, in modo tale da aderire alle nuove dinamiche che
intervengono nella configurazione di routine e relazioni sociali influenzate dai sistemi digitali attuali, dai multimedia,
dal web.
L’interazione tra medium digitale e uomo è caratterizzata da una doppia matrice di assorbimento double-face che ne
ingloba l’uno o l’altro in modo iterativo e costante: quando usiamo un medium elettronico, il nostro sistema nervoso si
prolunga verso l’esterno, e il medium si prolunga verso l’interno. I media elettronici hanno tale efficacia nell’alterare
il sistema nervoso perché entrambi agiscono con modalità simili e sono fondamentalmente compatibili e quindi
facilmente connessi. Poiché il nostro sistema è plastico, può trarre vantaggio da questa compatibilità e unirsi ai media
elettronici, formando un unico più ampio sistema. Intatti, la natura stessa di questi sistemi consiste nella fusione
(unione) tra il loro essere biologici e artificiali.

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È tempo di connettivismo?
Il connettivismo cerca di descrivere i processi attraverso i quali l’individuo apprende. Il paradigma fondamentale del
connettivismo è la rete, il network – apprendere e conoscere significa creare reti.

Siemens e gli altri autori cercano di fornire una spiegazione dei processi di apprendimento in linea con la crescente
reticolarità del mondo in cui viviamo: la conoscenza e l’apprendimento sono distribuiti nei network di persone e
l’apprendimento consiste nella capacità di attraversare, connettersi e far crescere questi network. Come affermano
Siemens e Tittenberger (2009), infatti, l’apprendimento può essere descritto come una rete a tre livelli distinti:
• Neurale: la formazione di connessioni neurali come nuovi stimoli, input ed esperienze configurano lo
sviluppo fisico del cervello.
• Concettuale: i concetti chiave di un dominio di conoscenza […] formano strutturalmente una rete (così
come un dominio con un altro dominio).
• Esterno: la formazione di reti è stata alimentata dallo sviluppo delle tecnologie partecipative del web (social
networking). La comprensione, in senso reticolare, è un elemento emergente legato alla forma e alla
struttura delle informazioni personali e delle reti sociali dello studente.

Se peculiare è allora il modo attraverso il quale la conoscenza si attua nell’ecosistema mediale, sempre più prodotta
dalle innumerevoli relazioni tessute in internet, è necessario, quindi, chiedersi quale cornice psicopedagogica sia più
adatta a esplorare il complesso processo educativo nel tempo della società informazionale. Ed è per questa ragione che
G. Siemens ha introdotto il termine connettivismo con il quale delinea una nuova teoria dell’apprendimento nell’era
digitale. Esso ha l’obbiettivo di valorizzare maggiormente e in modo significativo la natura relazionale dei
meccanismi di acquisizione della conoscenza che si realizzano negli ambienti virtuali. Conoscere, imparare,
collaborare e cooperare sono processi sociali e comunicativi che nello spazio mediato e interconnesso del web si
ridisegnano con forme e dinamiche specifiche, riformulandone i caratteri. In seguito a quanto detto, il connettivismo
cerca di spiegare, attraverso i suoi principi. Come avviene l’apprendimento in relazione appunto all’universo
tecnologico in cui siamo immersi. Per far questo Siemens utilizza la metafora della rete, con nodi e connessioni, per
descrivere i tratti attraverso i quali si impara: in questa metafora, un nodo è qualsiasi elemento che possa essere legato
a un altro nodo e che contribuisca a determinare un tessuto semantico chiaro e pienamente compreso. Questi elementi
o nodi possono essere informazioni, dati, immagini, sentimenti, e la rete che si determina attraverso le differenti
interconnessioni, i molteplici link e collegamenti di tali nodi è proprio l’apprendimento.
Da qui ne derivano i principi sui quali il connettivismo poggia le sue argomentazioni teoriche:
• L’apprendimento e la conoscenza si fondano sulla differenza di opinione;
• L’apprendimento è un processo di connessione di nodi specializzati o fonti di informazione;
• L’apprendimento può essere residente in applicazioni non umane, nella rete e nei processi di condivisione e
scambio della rete. Inoltre, esso può essere facilitato dai dispositivi digitali;
• La capacità di saper accrescere la propria conoscenza – l’imparare a imparare – è più rilevante rispetto alle
competenze disciplinari già in possesso;
• Apprendimento e conoscenza sono processi continui e dinamici, non possono essere considerati come
prodotti finiti e strutturati;
• Alimentare e mantenere le connessioni è necessario per facilitare l’apprendimento permanente;
• La validità, l’autorevolezza e la certezza del sapere sono l’intento di tutte le attività di apprendimento di
stampo connettivista;
• Prendere delle decisioni è esso stesso un processo di apprendimento: saper scegliere cosa imparare e
discriminare le informazioni utili da quelle inutili sono steps legati alla situazione contestuale, quindi soggetti
a costante mutamento.

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I comportamenti oramai diffusi tra le giovani generazioni (in modo più sobrio anche in quelle più mature) di costante
aggiornamento, scambio e condivisione delle informazioni attraverso i canali del world wide web, legittimano i
principi del connettivismo riguardo alle forme attraverso le quali oggi i ragazzi costruiscono il proprio sapere e
avvicinano la metafora della conoscenza come rete al concetto di intelligenza distribuita dove ciò che è insito nel
singolo individuo connesso alla rete diviene caratteristica di ogni membro della rete stessa, distribuito e posseduto dai
membri non solo come parte relazionale della conoscenza (pensandola nel suo doppio asset di contenuto e relazione),
ma proprio come componente specifica della dinamica di scambio. Analoga considerazione può esser fatta accostando
la natura reticolare della conoscenza alla prospettiva della cognizione distribuita dove, considerando il web come
parte integrante dell’identità individuale, è il contesto (in questo caso tecnologico e digitale) a determinare le linee di
sviluppo del sistema cognitivo umano: l’utilizzo degli strumenti determina il modo di pensare e di agire delle persone,
e ne rende continuamente possibile l’esercizio. Nella prospettiva della cognizione distribuita, infatti, non sono
importanti tanto le risorse mentali interne, quanto l’efficienza complessiva del sistema mentecontesto. In un certo
senso la prospettiva teorica della cognizione distribuita riprende i temi della mente estesa lì dove intende spiegare
l’intelligenza come una facoltà non eminentemente soggettiva ed esclusivamente localizzabile nella mente degli
individui, ma che trova collocazione anche nel mondo esterno. Le attività cognitive (e quindi l’apprendimento) sono
allora il prodotto di un processo di interdipendenza dinamica tra mente e contesto ambientale, strumentale e sociale
(come sostenuto più volte in precedenza). Ne consegue che l’apprendimento efficace si determina dalla capacità degli
individui di accedere, recuperare, elaborare e controllare le conoscenze significative ovunque esse siano collocate.
Medium dell’ubiquitus
Difatti ciò che compone il cyberspazio, l’universo digitale, l’e-knowledge, sono menti e corpi sociali, interconnessi fra
di loro attraverso il fitto intreccio di dispositivi, database, applicazioni; tecnologie capaci di rimodulare le attività
cognitive, di riorganizzare l’economia e l’ecologia intellettuale, di diversificarne struttura e funzioni. Ed è così che le
tecnologie dell’ubiquitus sviluppano sempre più modi di accedere, analizzare, consultare, manipolare ed elaborare le
informazioni in quel processo tumultuoso definito col termine multitasking: in sostanza, i sistemi informatici odierni
permettono sempre più di eseguire, attraverso appunto i supporti di multi-processualità, più programmi
contemporaneamente, ricadendo, quindi sui modi d’uso delle stesse tecnologie digitali che si moltiplicano in relazione
ad essi. Il multitasking, quindi, diviene processo cognitivo, cioè parallelo e frenetico, nell’elaborare i contenuti e nello
svolgere le proprie attività possa incidere negativamente (come alcune ricerche sostengono) sulle capacità di
attenzione selettiva – che sarebbe sostituita da un’attenzione intervallata-, di memoria a lungo termine e sul pensiero
astratto, in virtù dell’eccessivo sforzo del cervello alle prese con compiti multipli. Certamente, però, i nuovi media
digitali hanno rivoluzionato i modi di appropriazione del sapere, così come quelli relazionali, ridefinendo gli approcci
di acquisizione e di rappresentazione del mondo. Ed è così che il cervello connesso sviluppa quelle risposte neurali
capaci di esplicitare facoltà quali il multitasking, la trans-media navigation e networking, con le quali mettere in moto
le peculiari attitudini a gestire, seguire e rielaborare il flusso di storie e di informazioni attraverso piattaforme
(modalities) multiple.
Ecco, allora, che si deliano nuovi stili di apprendimento, nuove strategie di memorizzazione e di elaborazione del
sapere dove i giovani rispondono a un ambiente mediale ricco facendo ricorso al multitasking – scansionano il flusso
informativo per rilevarne cambiamenti significativi e, al tempo stesso, esponendosi a stimoli multipli (Jenkins).
Utilizzando le tecnologie come estensioni cognitive, i nativi digitali non sovraccaricano la propria memoria a breve e
a lungo termine con un overload di informazioni, ma dislocano queste ultime nelle memorie esterne (off line e on
line), servendosi di esse come supporto alle proprie attività.
La diversità tra nativi e immigrati digitali non riguarda la naturale differenza generazionale tra genitori e figli, maestri
e alunni, legata alla dimensione anagrafica, storico-culturale, ma si basa soprattutto sulle particolari architetture
cognitive, in termini strutturali e funzionali, di menti che già dalla nascita si ritrovano ad interagire con tali artefatti
informatici e menti più mature che si sono rivolte alle tecnologie digitali in un secondo momento.
Quello che ne deriva è un progressivo cambiamento socioculturale che coinvolge tanto gli aspetti e gli assetti del vivere
civile, quanto quelli più profondi che riguardano l’uomo in termini cognitivi, emotivi, relazionali. La cultura
partecipativa sta emergendo man mano che la cultura assorbe – e reagisce – all’esplosione delle nuove tecnologie
mediali che rendono possibili, per il consumatore medio, attività come l’archiviare, il commentare, l’appropriarsi e il
rimettere in circolo contenuti mediali in nuovi e potenti modi.

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Concentrare l’attenzione sull’ampliarsi dell’accesso alle nuove tecnologie non ci porta lontano se non pensiamo anche
a promuovere le competenze e le conoscenze culturali necessarie per utilizzare questi strumenti al fine di raggiungere
i nostri scopi.
Una necessità quella dell’alfabetizzazione digitale che emerge proprio dalla consapevolezza di come la diffusione
virale della connettività di rete e delle pratiche ad essa associate, soprattutto nei più giovani, hanno ridisegnato
l’architettura culturale odierna.
In tal senso bisognerebbe smettere di considerare internet, cioè il digitale, come tecnica, contenuto e/o archivio, bensì
guardare il cyberspazio come cultura, proprio perché ha a che fare con la vita umana, con la creazione del pensiero
umano.
Le tecnologie digitali, intese nel loro essere fisico come hardware e logico come software, devono essere considerate
protesi del nostro corpo, estensioni della nostra mente, proprio perché le loro caratteristiche funzionali hanno
modificato sostanzialmente il nostro modo di accogliere il mondo, di immaginarlo, di rappresentarlo, anche in virtù di
un progressivo cambiamento dei codici simbolici prodotto dagli innumerevoli scambi comunicativi e linguistici che si
realizzano nel web. È tale consapevolezza che deve essere nutrita e alimentata, quella cioè di valutare i sistemi
informatici e telematici odierni in considerazione dei loro effetti sui bambini, e sugli adulti, per comprenderli e
utilizzarli al meglio.
Enattivismo - premesse
Come abbiamo già visto, i connettivisti (riferimento della mediamorfosi) sostengono che la conoscenza, il sapere è
strutturato diversamente, così come sono diversi gli strumenti che permettono di accedere a questo sapere. Di
conseguenza bisogna pensare ad una nuova teoria dell’apprendimento, cioè il connettivismo, basato sul paradigma
della rete, del network.
Noi siamo strutturati e programmati per apprendere. La conoscenza, adesso elettronica, non è una somma di
informazioni ma è basata sulle relazioni tra le informazioni. La conoscenza e l’apprendimento nel nostro cervello è
ugualmente reticolare. I vari input vengono elaborati in modo specifico e contemporaneo, in un sistema. Infatti, ciò
che è network per i connettivisti per gli enattivisti diventa sistema -> l’insieme di elementi che hanno caratteristiche
specifiche; ma il sistema non si riduce alla somma di questi ma consiste nella relazione tra elementi differenti (al
variare di un contenuto cambia tutto il sistema→ natura dinamica).
o Interazione tra apprendimento/insegnamento/contesto = sistema o Istruttivismo (oggetto) →
costruttivismo (soggetto) → enattivismo (sistema) o Connettivismo (paradigma della rete) →
enattivismo (paradigma del sistema)
o L’enattivismo è una delle teorie dell’embodied cognition (cognizione incarnata) →
superamento dicotomia mente/corpo – individuo-ambiente → al centro l’azione, in relazione
con l’individuo [cognizione (mente)+percezione (corpo)] e l’ambiente (contesto).
Punti principali dell’enattivismo:
• Conoscenza esplicita e tacita (implicita) – dicotomia separata;
Conoscenza tacita (implicita): conoscenze acquisite con l’ausilio dell’esperienza, solo tramite l’azione, come ad
esempio andare in bicicletta – processo legata alla memoria procedurale (implicita) –, oppure ancora sono conoscenze
implicite gli aspetti emozionali;
Conoscenza esplicita: una qualunque conoscenza che acquisisco tramite una esplicita spiegazione o in generale
supporto esterno (tramite una lezione, la lettura di un libro di testo ecc.), come ad esempio imparare a leggere –
processo legato alla memoria dichiarativa (esplicita).
Per l’enattivismo non esiste nessuna separazione tra conoscenze esplicite ed implicito, perché fanno entrambe parti del
sistema →La conoscenza implicita contribuisce a dare senso a quella esplicita, ad esempio, gli aspetti emozionali
possono influenzare l’apprendimento di una conoscenza esplicita.

• Istruttivismo/comportamentismo → conoscenza oggettiva; costruttivismo → conoscenza soggettiva, legata


all’interpretazione; enattivismo → conoscenza caratterizzata dalla relazione tra i vari elementi, determinata
dal processo.
• Rete cognitiva

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Rete cognitiva è intesa come una rete immaginaria tra le cognizioni dei partecipanti al processo. Ogni azione svolta
determina la creazione di una nuova rete o la modifica di una già esistete all’interno del sistema; questo determina il
l’aggiornamento di tutto il sistema.
Il processo di apprendimento/insegnamento non è unidirezionale, ma multidirezionale. È questa multi-direzionalità –
caratteristica del processo – che crea rete cognitiva, una rete di pensiero su un argomento specifico; la rete è quindi
legata, anzi determinata, dalle interazioni che si sviluppano nel sistema. Di conseguenza, sia l’insegnante che gli
alunni sono responsabili di tale rete e del cambiamento del sistema a seguito delle azioni svolte durante il processo.
Bisogna, quindi, agire sulla forma mentis degli alunni, con l’obbiettivo di sviluppare consapevolezza sull’effetto del
loro agire. Questa consapevolezza, dunque, genera anche meccanismi di empatia.
• Enazione
L'enattivismo intende come processo unico l'agire e il conoscere, sottolineando l'importanza e il ruolo fondamentale
che il corpo e la mente hanno nell'azione stessa. In tal senso l'approccio enattivo sottolinea il fitto legame che esiste
tra azione e agente nel processo di apprendimento, in una trama complessa che lega l'individuo agli altri e
all'ambiente. Ciò che conta, ciò che deve essere studiato e su cui si deve lavorare è quindi il processo di interazione tra
insegnate, alunno e contesto.
• Pratiche
La pratica di apprendimento (in generale) è basata sull’azione, io conosco tramite l’azione, tramite il mio agire sul
mondo. Inoltre, io comprendo il mondo tramite l’agire, sia mio che altrui:
- Si comprendono i concetti astratti solo mettendoli in relazione con i concetti concreti: “essere colpiti da un
idea” è un esempio di come vengano utilizzati verbi che in teoria necessiterebbero di un agente fisico per
avere senso, per far assumere senso ad aspetti astratti;
- Il sistema mirror (neuroni specchio) è alla base della nostra comprensione del mondo. I neuroni specchio,
premotori, si attivano sia quando effettuiamo un’azione con un fine, sia quando la guardiamo. Se questi
neuroni si attivano anche quando non siamo compiendo noi stessi l’azione vuol dire che la nostra mente la
simula, e lo fa proprio per comprenderla;
- Inoltre, il concetto di pratica, di fare pratica, è strettamente legato alla simulazione, alla imitazione dei gesti
altrui per riuscire anche noi a compiere quel determinato lavoro.
Di conseguenza l’insegnamento deve basarsi sulla pratica, sul processo, sull’imitazione, perché tutti questi aspetti
sono vincoli biologici per la nostra comprensione e conoscenza del mondo.
• Determinismo: Teorie dell’apprendimento → architettura dell’istruzione
Non c’è un rapporto deterministico tra le teorie e i progetti educativi, non basta utilizzare una determinata teoria per
avere un determinato risultato a seguito del mio progetto educativo. Quella teoria in termini probabilistici può
portarmi a uno specifico risultato, ma nulla è determinato. Per questo non è possibile guardare e affidarsi ad una sola
teoria per la costruzione di un progetto educativo; più conoscenze possiedo, quindi più variabili prendo in
considerazione, più probabilità ho di raggiungere i miei obbiettivi didattici (nessun risultato deterministico, ma solo
probabilistico).

Mente come sistema:


Come Gregory Bateson notò nel 1972, se guardiamo un uomo cieco con il suo bastone, sarebbe problematico cercare
di stabilire dove il suo “io” inizia e dove finisce, nel processo di percezione e comprensione della realtà circostante.
Possiamo porre un confine tra il cervello dell’uomo e il suo corpo? O tra il suo corpo e il bastone che usa per
percepire lo spazio circostante? O persino tra il bastone e la realtà circostante? Gregory Bateson, considerando questi
come confini senza senso, radicò il concetto di mente in un sistema più esteso: “Si può dire che la mente è immanente
in quei circuiti cerebrali che sono interamente contenuti nel cervello; oppure che la mente è immanente nei circuiti che
sono interamente contenuti nel sistema: cervello più corpo; oppure, infine, che la mente è immanente nel più vasto
sistema: uomo più ambiente”.

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Sistema del processo apprendimento/insegnamento

Contest
Insegn nte o
Filosofia
aeducativa
Idea didattico
pedagogica
Disciplin
aCredenz
e
Obbietti
vi
Motivazion
e
Process
o Alunn
oConoscenz
aFamigli
Obbietti
a
Motivazion
vi
eCredenz
Stili
e
Ritmi di
cognitivi
apprendimento

Nello spazio-tempo dell’azione didattica si costituisce un sistema che opera in modo sinergico, scambia conoscenze,
emozioni e sensazioni, elabora concetti e artefatti, dialoga, vive. Vi è un fare comune in cui i processi dell’insegnare e
dell’apprendere viaggiano in modo simbiotico tanto che riesce difficile distinguerli e separarli. Durante tali processi
può accadere che il docente apprenda e l’alunno, spesso inconsapevolmente, “insegni” o, meglio, attivi, anche con i
suoi errori, processi di riflessione dell’insegnante. Conoscenza esplicita e implicita si intrecciano, interagendo e
lasciando segni.
Possiamo coglierne due principi:
• Co-emergenza
Insegnante e allievo emergono, crescono, insieme: l’allievo apprende; l’insegnante tramite i feedback dell’allievo può
ragionare sulla sua strategia, sulla metodologia, scegliendo quella più adatta.

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• Accoppiamento strutturale
Il sistema insegnante-alunno-contesto non è scindibile, e non possono essere analizzati solo alcune parti del sistema.
Ogni parte arricchisce, modifica, determina la struttura del sistema. C’è un legame simbiotico tra i componenti del
sistema.
Ricapitoliamo, per una didattica orientata ai processi sono necessari i seguenti presupposti:
• Neuroplasticità;
• Teoria dell’apprendimento: connettivismo;
• Paradigma epistemologico – filosofia della conoscenza: enattivismo;
• Strategia/metodologie: crossmedialità; digital-storytelling, co-writing. Gli ultimi due ancora da
approfondire.

Enattivismo
L’azione tesse una trama che trasforma i soggetti presenti e il gruppo ed esso diviene un soggetto plurale. Le modalità
con cui uno studente costruisce un testo, risolve un problema, svolge un compito assegnatogli non sono determinate
solo dalle procedure esplicite proposte dal docente, ma sono fortemente influenzate dal modo di fare e dai modelli che
il docente adotta nel suo proporsi come persona e non solo come istruttore.
Durante l’azione didattica si costruiscono reti cognitive, affettive e relazionali. Tale fare non produce conoscenza, ma
è essa stessa conoscenza, non è funzionale a un prodotto finale, ma è essa stessa produzione in quanto la
trasformazione del sistema si reifica durante l’azione o, meglio, è l’azione stessa. Il sistema conosce perché si
trasforma, ma si trasforma perché conosce.
L’approccio enattivo rigetta i dualismi tra sé e mondo, tra corpo e mente, tra oggetto e soggetto, e pone l’attenzione
sull’accoppiamento strutturale tra soggetto e oggetto e sul ruolo dell’embodiment e dell’azione intenzionale.
L’enattivismo vede la conoscenza come un processo in cui mente, corpo e mondo sono connessi. Per l’enazione, agire
e conoscere sono un processo unico e nell’azione sia il corpo, sia la mente hanno un ruolo significativo. Grazie alle
tecnologie, poi, possiamo parlare di corpo diffuso e del valore sociale della conoscenza.
Altra idea centrale è la co-emergenza, per cui i cambiamenti dei sistemi dipendono dall’interazione tra sistema stesso e
ambiente. Sistema e ambiente formano un’unica struttura integrata (coupled) che co-emerge, il che non significa che il
processo porti meccanicamente a un adattamento reciproco.
L’enattivismo prospetta una continuità nella conoscenza tra interno ed esterno, tra mondo e persona. Supera i dualismi
propri delle visioni sia oggettiviste che soggettiviste.
Enattivismo-sistema dei neuroni specchio: L’intersoggettività Mirror non chiama in causa abilità logico-dichiarative e
non si realizza nello spazio intra-individuale. Non è una conoscenza dell’altro effettuata per analogia, in base alla
conoscenza del sé. Ha la specificità di connettere i conoscenti mediante una co-attivazione neuronale che ne
armonizza le disposizioni all’azione, le sensazioni somatiche, le emozioni. Queste ultime sono dimensioni
esperienziali classicamente ritenute non cognitive perché legate alla corporeità. Gli insights sulle funzioni Mirror le
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ridefiniscono con gli ambiti dell’espressione di una conoscenza incorporata che non nasce dal calcolo, ma dalla
sintonizzazione – la condivisione dell’esperienza soggettiva.
Il sistema Mirror ha dato una base scientifica alle metodologie educative basate sull’apprendimento per imitazione.
Enattivismo Instructional Design
L’enattivismo sostiene che l’apprendimento e il La progettazione didattica tradizionale assume che
comportamento non possano, in generale, essere l’apprendimento e i suoi risultati possano essere
predeterminati previsti

Risulta fondamentale la simultaneità tra progettazione È possibile effettuare analisi, scegliere approcci,
e azione didattica, la implementare e rivedere il progetto,
contestualizzazione, gli ambienti di apprendimento, la indipendentemente da come l’evento educativo si
sintonizzazione tra docente e studente, le attualizza, fino a quando vengono raggiunti obbiettivi
microregolazioni, le decisioni al momento prestabiliti

Enattivismo e tecnologie
La continuità mente, corpo e mondo, presente nelle teorie esternaliste e supportata dalle neuroscienze, evidenzia il
forte legame tra biologico e ambienti digitali e posiziona alcune tecnologie in uno spazio intermedio tra corpo e
mondo. Oggi gli artefatti, le nuove tecnologie interagiscono con i processi cognitivi: quando usiamo un medium
elettronico, il nostro sistema nervoso si prolunga verso l’esterno, e il medium si prolunga verso l’interno. I media
elettronici hanno tale efficacia nell’alterare il sistema nervoso perché entrambi agiscono con modalità simili e sono
fondamentalmente compatibili e quindi facilmente connessi. Poiché il nostro sistema è plastico, può trarre vantaggio
da questa compatibilità e unirsi ai media elettronici, formando un unico più ampio sistema. Infatti, la natura stessa di
questi sistemi consiste nella fusione (unione) tra il loro essere biologici e artificiali.

I presupposti di una didattica dei processi


La mente umana si costruisce attraverso le interazioni con l’esterno per mezzo di una continua azione di adattamento
alle novità che le consente di evolversi nelle sue funzioni e di “emanciparsi” dai suoi schemi geneticamente
precostituiti. Conoscere, pertanto, non vuol dire acquisire passivamente e meccanicamente un sapere o una pratica,
inghiottire “a naso chiuso” un’idea, un modello, una teoria, ma vivere/costruire relazioni, connessioni; esse sono
produzioni personali, assegnazioni di senso relative alle modalità del soggetto e del gruppo di vedere il mondo. Ed è
questa verità scientifica che, sottolineando l’originalità delle persone nel vivere e costruire la propria esistenza, la
didattica dei processi adotta come criterio fondante del suo svolgersi teoretico e pratico, in una prospettiva diversa che
mette a fuoco la situazione educativa nel suo svolgersi, nel suo rinnovarsi giorno per giorno, nella complessità delle
sue istanze e dei suoi caratteri, piuttosto che guardarla solo attraverso ragionamenti di causa/effetto tra programma e
progetto disciplinare, insegnamento e apprendimento. Quello che si vuole sostenere in queste righe è che l’evento
formativo non si realizza attraverso procedure meccaniche e causali di trasmissione e ricezione del sapere, o per
mezzo di un rapporto direttamente proporzionale tra teorie dell’apprendimento e architettura dell’istruzione, in termini
di relazione tra conoscenza della mente e delle sue molteplici funzioni e applicazioni didattiche legate a queste
conoscenze, bensì si compie attraverso logiche probabilistiche in cui ogni variabile agisce e reagisce alle situazioni
didattiche che si prospetteranno, in una dialettica che vede i soggetti, alunni e insegnanti, gli artefatti, strumenti e
contenuti, e l’ambiente reale e/o virtuale, agire sinergicamente e in osmosi, influenzandosi, sviluppandosi e
rigenerandosi.
Abbandonare la visione deterministica del processo di insegnamento/apprendimento significa guardare con occhi
diversi il fare educativo, mettere in dissolvenza il carattere diacronico-temporale (oltre che comportamentista)
consegna dell’insegnante/risposta alla consegna da parte dell’alunno, far prelevare, invece, il fare insieme, la
coevoluzione, il carattere sistemico e sincronico del processo educativo che si realizza nell’azione contestualizzata:
nella prima ipotesi, quella diacronica o verticale, studente, insegnante e ambiente sono sistemi relativamente
permeabili, dove il frame relazionale è asimmetrico sia negli scambi, che negli atteggiamenti e nella consapevolezza.
In questo caso l’attività dell’insegnante sta nel far scattare una perturbazione, sperando di attivare negli studenti
processi di equilibrazione e riequilibrazione. Il formatore non può che sperare di perturbare l’attività degli studenti e
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tentare di accompagnatore la loro auto-trasformazione nella direzione desiderata, trasformazione che, essendo
strettamente dipendente dalla struttura interna dello studente, segue traiettorie diverse in persone diverse. In tale
trasformazione, inoltre, la persona si nutre dei suoi vissuti precedenti e li trasforma in esperienza, in sapere, secondo
una traiettoria diacronica.
Da ciò si evince il carattere rigido di tale approccio, nel momento in cui l’esecuzione di una pratica educativa si lega
al solo progetto formativo, alle strategie didattiche da mettere in atto, alla somministrazione dello stimolo e in un
secondo momento allo studente. Nella seconda ipotesi, invece, quella del fare insieme, studente, insegnante e
ambiente fanno parte dello stesso sistema, sono complementari, in un frame relazionale di
interdipendenzacollaborazione, facendo prevalere un’ottica educativa sincronica-orizzontale: durante l’azione
congiunta, docente e studenti co-evolvono e modificano non solo e non tanto i propri saperi, ma anche le loro strutture
interne, le loro organizzazioni globali. Insegnamento e apprendimento sono ruoli che a turno assumono tutti i soggetti
presenti, poiché nella co-evoluzione si trasforma il sistema nella sua complessità e con esso tutti i componenti del
sistema e le loro relazioni.
Un modello educativo, quello proposto dalla didattica dei processi, che favorisce l’azione partecipativa degli allievi
nella costruzione della propria conoscenza attraverso l’interazione, lo scambio comunicativo con il gruppo dei pari e
con l’insegnante e che si realizza e concretezza non solo nelle tradizionali aule scolastiche ma anche online, nei canali
telematici, in internet. Ed è qui che torniamo alle tecnologie e alle particolari forme relazionali che si attuano in rete.
Risiede, infatti, nel valore positivo attribuito dal gruppo al processo sociale di acquisizione della conoscenza ciò che
Lèvy definisce nei termini di intelligenza collettiva e che tiene uniti i componenti del gruppo. In altre parole, sono i
processi sociali di scambio e condivisione del sapere ad alimentare coesione e sviluppo culturale, piuttosto che il
processo del sapere stesso. In tal senso allora bisogna pensare a un’azione formativa che si estenda verso queste nuove
dimensioni e verso questi nuovi spazi virtuali.

La correlazione che deve essere fatta, allora, in ultima analisi, è quella tra cyberspazio, spazio mentale e didattico.
Questi ultimi due elementi analizzati nelle loro dimensioni di virtualità, cioè di poter divenire e tramutarsi in
comportamenti, condotte, apprendimenti e profitti. D’altronde il progetto educativo, come quello didattico, è più che
altro proiettivo; si basa sul conosciuto per costruire percorsi, strategie e obiettivi che si sviluppano in un tempo
prossimo, nel luogo del probabile e quindi del virtuale. Così la virtualità, appunto, che caratterizza gli strumenti
tecnologici di rete come quelli multimediali può considerarsi attributo anche dello spazio mentale. Il cyberspazio è
fluido e inesauribile come una mente, ma non è né esclusivamente materiale né veramente mentale. E senza dubbio è
completamente differente dallo spazio fisico. È un unico ambiente, che permette ogni possibile combinazione,
permutazione e configurazione di reti. Anche lo spazio mentale è virtuale. Entrambi i tipi di spazio richiedono
visualizzazione e design, entrambi giocano con rappresentazioni/simulazioni sensoriali. Entrambi sono dotati di
memoria, entrambi hanno meccanismi di ricerca, recupero e visualizzazione. Entrambi praticano elaborazione
dell’informazione ed entrambi sono dotati di intelligenza. Esiste pertanto un’analogia tra mente e tecnologie,
un’interdipendenza dinamica che sottolinea come le attività cognitive siano e possono essere influenzate dalle
specifiche funzioni che determinati dispositivi hardware e software sviluppano. Ecco che allora si palesa ai nostri
occhi un nuovo contesto culturale, globale, fatto di interconnessioni, intercomunicazioni, link, bit, che danno luce ad
una nuova architettura cognitiva: quella, appunto, connettiva. È l’architettura che provvede all’interconnettività fisica
e mentale dei corpi e delle menti. L’architettura connettiva è basata sulla nozione che esiste qualcosa come le menti
interconnesse e che loro connessioni siano sostenute da tecnologie che permettono loro di riunirsi in momenti
specifici per raggiungere obiettivi specifici. Proprio come l’architettura “solida” facilità e guida l’andare e venire di
corpi nello spazio, l’architettura connettiva, attraverso l’uso combinato di software e hardware, facilita la libera
riunione e separazione delle menti che collaborano a uno scopo qualunque.
L’architettura dell’intersoggettività digitale
Nel tempo tecnologico le modalità attraverso le quali gli individui costruiscono la propria identità intellettiva e morale
sono diverse, sempre più legate al continuo connettersi a Internet e all’uso di spazi d’interazione virtuali che fanno
germogliare nuove competenze, queste ultime non sempre (se non quasi mai) riconosciute, accolte e comprese dalle
istituzioni formative tradizionali, e ancora meno formalizzate. In tal senso Jenkins individua alcune di queste in:
• Gioco: la capacità di fare esperienza di ciò che ci circonda come forma di problem solving;
• Simulazione: l’abilità di interpretare e costruire modelli dinamici dei processi del mondo reale;
• Performance: l’abilità di impersonale identità alternative per l’improvvisazione e la scoperta;
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• Appropriazione: l’abilità di campionare e miscelare contenuti mediali dando loro significato;
• Multitasking: l’abilità di scansionare l’ambiente e di prestare, di volta in volta, attenzione ai dettagli salienti;
• Conoscenza diffusa: la capacità d’interagire adeguatamente con strumenti tecnologici che espandono le
capacità cognitive;
• Intelligenza collettiva: l’abilità di mettere insieme conoscenza e confrontare opinioni con altri in vista di un
obiettivo comune;
• Giudizio: la capacità di valutare l’affidabilità e la credibilità di differenti fonti di informazione;
• Navigazione transmediale: la capacità di seguire flussi narrativi e informatici attraverso una molteplicità di
piattaforme mediali e forme espressive diverse;
• Networking: l’abilità di cercare, sintetizzare e disseminare le informazioni;
• Negoziazione: l’abilità di viaggiare attraverso differenti comunità, riconoscendo e rispettando le molteplicità
di prospettive e comprendendo e seguendo norme alternative.
La digitalizzazione e le nuove forme di visualizzazione del testo sullo schermo schiudono altri modi di fruire la lettura,
di accedere al sapere, altri stili di scrittura, altre maniere di comprendere se stessi e gli altri. Per queste ragioni,
considerare il computer come uno strumento tra altri per produrre testi, suoni e immagini su supporto fisico (carta,
pellicola, nastro magnetico) significa negare la sua fecondità propriamente culturale, vale a dire la comparsa di nuovi
generi legati all’interattività. Lo schermo informatico è una nuova “macchina per leggere”, il luogo in cui una riserva
di informazioni possibili si realizza per selezione, qui e ora, per un determinato lettore. Ogni lettura al computer è una
edizione, un montaggio singolare.
Diventa quindi fondamentale sviluppare nei nostri giovani quelle abilità di decodifica e codifica dei nuovi linguaggi e
stili comunicativi digitali, in termini sicuramente tecnico-informatici e, a maggior ragione, in quelli relazionali,
culturali, con le quali avverare la piena autonomia degli stessi nell’era tecnologica. D’altronde Diventa quindi
fondamentale sviluppare nei nostri giovani quelle abilità di decodifica e codifica dei nuovi linguaggi e stili
comunicativi digitali, in termini sicuramente tecnico-informatici e, a maggior ragione, in quelli relazionali, culturali,
con le quali avverare la piena autonomia degli stessi nell’era tecnologica. D’altronde il supporto digitale consente
nuovi tipi di letture (e di scritture) collettive. Un continuum vario si estende così tra la lettura individuale di un testo
particolare e la navigazione all’interno di vaste reti digitali in cui un numero imprecisato di persone annota,
arricchisce, collega i testi gli uni agli altri grazie ai legami ipertestuali. Ed è così allora che nel tempo dell’user
generated content (contenuto generato dagli utenti) si affermano nuove modalità di consultazione delle informazioni,
nuovi comportamenti, nuove abitudini che si legano sempre più a forme collettive di elaborazione di dati, di scrittura
collaborativa che ridefiniscono non solo le pratiche attraverso le quali si produce conoscenza ma in modo profondo
anche l’architettura dell’intersoggettività (parlante e ascoltatore) e le dinamiche di condivisione degli obbiettivi che
sono insite nella comunicazione. Nello scambio comunicativo, infatti, sono compresi non solo il contenuto
momentaneo della comunicazione (sapere o notizia) ma anche le premesse (contesto psicologico e sociale degli attori
della comunicazione), le presupposizioni (l’intenzionalità) e la comprensione reciproca (costruzione condivisa del
significato –definita “posta in gioco” da Ghiglione). La didattica dei processi lega l’architettura dell’intersoggettività
all’ecosistema mediale, tracciandone particolari caratteri, questi ultimi riconducibili al prolifero germogliare dei
network sociali: in tal senso i principi che definiscono l’azione comunicativa assumono toni più accesi o sbiaditi in
relazione ai comportamenti digitali. Il principio di reciprocità, per esempio, con il quale si scandiscono i tempi e
l’alternanza dei turni nello svolgimento della conversazione, si trasforma nello spazio digitale in considerazione delle
diverse modalità comunicative e d’interazione promosse da internet (sincrone, asincrone, miste/uno-uno, uno-molti,
molti-molti); così come quelli di pertinenza e di coerenza che nell’universo mediale digitale si confrontano con i
livelli di alfabetizzazione informatica posseduti dagli interlocutori che ne influenzano il loro senso di adeguatezza, di
autoefficacia lì dove i temi di discussione incontrino le conoscenze degli internauti o meno. Ciò che acquista maggior
peso nell’architettura dell’intersoggettività digitale, a cui la didattica dei processi guarda con notevole interesse e
ponderata misura, è la natura collaborativa di co-evoluzione dei significati e della conoscenza, lì dove la dicotomia tra
intra-relazionale e inter-relazionale si affievolisce nell’atto di estroflessione di pensieri, ipotesi, opinioni, sentimenti,
emozioni che vengono inglobati, inghiottiti organizzati e poi disseminati dalle macchine informatiche, visualizzati e
proiettati dagli schemi attraverso il web, in modo automatico e soprattutto fuori dal controllo diretto dell’uomo,
dell’autore. Ed è questo un altro elemento di differenziazione che vorrei sottolineare rispetto ai principi della
comunicazione prima esposti, e cioè che dobbiamo prendere consapevolezza del fato che i soggetti dell’agire
comunicativo possono non essere soltanto uomini, ma che le tecnologie informatiche, da tubo attraverso il quale
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mettersi in contatto e comunicare, diventino esse stesse agenti parlanti. Di conseguenza, l’architettura
dell’intersoggettività digitale deve essere definita, a parer mio, da tre poli, emittente, ricevente, tecnologie digitali che,
in modo sinergico e dialogico, ridisegnano in osmosi la dimensione della comunicazione e l’habitat socioculturale
odierno. L’avvento delle nuove tecnologie della informazione e della comunicazione ha, dunque, realizzato potenziali
inimmaginabili eppure presenti negli assetti cognitivi, emotivi e relazionali dell’uomo contemporaneo. Sperimentando
il ricorso a nuovi media, a inediti linguaggi, a imprevedibili combinazioni di essi, stiamo realizzando l’urgenza di
confrontarci sulla necessità di imparare a gestire emergenti forme di linguaggio che, però, non sono detentrici di soli
valori positivi quali l’ampliamento delle possibilità di pensiero, di esperienza, e comunicazione, ma anche possibili di
pericolosi esisti negativi quali lo spaesamento, la frammentazione, l’omologazione, l’isolamento, la manipolazione,
l’annichilimento, la perdita di privacy, il controllo. Ecco perché la didattica dei processi persegue l’obiettivo di
fornire ai ragazzi quegli strumenti concettuali, metodologici ed etici, attraversi la media literacy, affinché siano in
grado in futuro non solo di utilizzare in modo consapevole, critico e obiettivo le tecnologie del terzo millennio, ma
piuttosto di attuare forme comunicative, relazionali e di confronto democratiche fondate sul rispetto reciproco,
sull’accettazione della diversità e sulla tolleranza.

Le pratiche della didattica dei processi: co-writing e digital storytelling


Come detto, l’esponenziale sviluppo delle tecnologie digitali impone una necessaria riorganizzazione generale del
sistema educativo, sia riguardo le metodologie e le tecniche didattiche da adottare per conseguire gli obiettivi
formativi prefissati. Passaggio questo necessario dal momento in cui internet diviene il canale privilegiato dai più
giovani (e non solo) in cui passano e si metabolizzano abitudini, comportamenti, routine, così come informazioni,
sapere, mettendosi di fronte al fatto che la scuola non è più l’unica fonte di conoscenza. I new media, i social network,
così, modificano e ampliano i versanti del sapere, sempre più marcati e orientati verso modelli di copartecipazione, di
co-emergenza, di intelligenza connettiva e collettiva. Ed è in questa direzione che l’insegnante digitale deve svolgere e
improntare la propria attività didattica, facendo prevalere l’elemento pragmatico della formazione, il fare
collaborativo e cooperativo, utilizzando i nuovi artefatti digitali per aderire alle particolari caratteristiche cognitive dai
nativi digitali e creare così un contesto educativo in cui individualizzazione e socializzazione dell’apprendimento
confluiscono in quell’agire didattico-pedagogico che riguarda la formazione personale dell’alunno e la funzione
socializzante della scuola. A tale scopo, allora, la didattica dei processi propone, tra le attività che meglio legano e
traducono l’esperienza del fare insieme con le possibilità offerte sei sistemi telematici 2.0, la scrittura collaborativa
(co-writing) e il digital storytelling come strategie educative, proprio perché in entrambe trovano spazio, e possibilità
di sviluppo, principi e sentimenti quali la partecipazione attiva dei membri del gruppo, l’interdipendenza positiva, il
confronto, la relazione tra pari, la creatività, la consapevolezza e la responsabilità di far parte di una stessa comunità,
il senso di appartenenza dato dalla condivisione del medesimo spazio virtuale oltre che reale (l’aula). Ed è proprio la
digitalizzazione prodotta dai sistemi telematici odierni trasforma il testo, la scrittura e la lettura e in tal senso a
riorienta le pratiche educative in ordine a sviluppare e dare e dare forma al complesso processo di co-writing. Una
trasformazione della scrittura in testo digitale, nel tempo del web 2.0 (3.0/webC), che essenzialmente si realizza nei
seguenti punti:
• Nel trasloco on line, in rete, delle operazioni di scrittura, memorizzazione, annotazione;
• Nei suoi tratti specifici reticolari, ipertestuali, piuttosto che lineari (tipici della carta, del libro);
• Nel suo divenire sempre più dinamica, collaborativa e condivisa;
• Nel suo favorire forme di partecipazione attiva tra gli internauti attraverso suggerimenti, consigli, glosse,
commenti, pareri facilmente scambiabili nei social network;
• Nella sua connotazione multimediale che favorisce forme di racconto inedite, multimodali, creative e di forte
impatto emotivo;
• Nel suo carattere mobile (smartphone, tablet, ecc.);
• Nel suo polverizzarsi e disseminarsi on line seguendo traiettorie ignote, imprevedibili, fuori dal controllo di
chi scrive.
Il testo digitale così è immateriale, non ha bisogno cioè di un supporto fisico sul quale poggiarsi, rivelarsi, oltre che
delocalizzato, multiplo e con autografia sovente dissolta; è diffondibile, nel senso che una volta scritto, il testo può
essere visibile, spedito, inviato e inoltrato a un numero illimitato di destinatari, i quali a loro volta possono
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trasmetterlo, rivederlo, modificarlo; da qui emerge l’altra proprietà del testo digitale, cioè la sua estrema fluidità,
variabilità. Il testo digitale non è mai chiuso ma costantemente in divenire, in un perpetuo work in progress.
Ed è da tale consapevolezza che la didattica dei processi basa le sue istanze metodologiche-educative, proponendo la
scrittura collaborativa e il digital storytelling come possibili strategie formative capaci di sviluppare negli allievi
alcune abilità trasversali, cognitive e metacognitive, congrue con gli obiettivi formativi della digital literacy.

Definizione di scrittura collaborativa: processo sociale iterativo che coinvolge un team focalizzato su un comune
obiettivo, in cui i membri negoziano, si coordinano e comunicano durante la creazione del documento condiviso. Lo
scopo potenziale del CW va oltre l’elementare atto di collezionare singole composizioni in un documento comune,
estendendosi e includendo anche attività pre e post stesura, la formazione del team e la pianificazione del lavoro. Il
CW implica infine la possibilità di utilizzare un’ampia gamma di strategie di scrittura, attività collaborative e singole,
approcci al controllo del documento, ruoli all’interno del team e modalità di lavoro diversificate.
In tal senso, infatti, il co-writing estende il processo di scrittura individuale rendendolo sociale, coinvolgente,
reticolare, giocando su altri complessi fattori interconnessi al filo rosso dello sviluppo della trama del testo quali la
comunicazione, la negoziazione, la condivisione, la ricerca di gruppo, il monitoraggio, l’impegno reciproco, la
gratificazione, la socializzazione, il consenso vicendevole, la democratizzazione; tutti elementi fondamentali per la
riuscita del compito di scrittura collaborativa.

Tra le altrestrategie di co
-writing, la migliore da
usare in accordo con le pratiche educative della
didattica dei processi èscrittura
la in reciprocità
.
Tale strategia fa si che i membri che compongono
il gruppo siano in forte interdipendenza, dato che
tuti lavorano contemporaneamente alla stesura
del testo, all’elaborazione e revisione collettiva di
ogni parte che compone il lavoro. L’agire a più
mani sul testo comporta un costante confronto
fra i membri del gruppo che ridefiniranno le
proprie impostazioni argoment ative per
adeguarle a quelle degli altri.

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[scrittura in reciprocità: Questa strategia prevede che ciascun componente del gruppo lavori, contemporaneamente e in
regime di forte interdipendenza, su ognuna delle parti del prodotto complessivo. Agendo a più mani sul semilavorato,
ogni membro del gruppo deve costantemente ritirare la propria impostazione e le proprie attività per adeguarle alla
produzione di quella che sarà la versione finale dell’elaborato]

Le attività di scrittura collaborativa si intendono fortemente interconnesse e devono essere inquadrate in un processo
dinamico e iterativo articolato nel modo seguente (*):
• Brainstorming – momento creativo di sviluppo di idee per la stesura del lavoro e successiva attività di filtro e
convergenza su quelle che accolgono maggiormente il consenso del gruppo;
• Indice/struttura – definizione di una struttura generale del lavoro, articolata in sezioni e sottosezioni;
• Stesura – primo stralcio di bozza del lavoro, un’anteprima di testo ancora ampiamente rivedibile;
• Revisione – descrizione di una serie di correzioni, rivalutazioni, suggerimenti, consigli, in termini
contenutistici, grammaticali e stilistici finalizzata all’ottimizzazione della stesura del testo;
• Nuova stesura – realizzazione di una nuova versione del lavoro prodotta dall’attività di revisione;
• Editing conclusivo – packaging finale del lavoro, in termini strutturali, grammaticali, stilistici e di layout.

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42
Digital storytelling
Il termine digital storytelling significa letteralmente “racconto digitale”, ovvero una particolare metodologia
comunicativa che mette insieme gli elementi narrativi con le potenzialità e le funzionalità delle tecnologie digitali.
Tale termine fu coniato da Joe Lambert e Dana Atchley che nel 1998 fondarono il Center for Digital Storytelling a
Berkeley.
Il digital storytelling è un tipo di narrazione in cui si trovano sia tratti della scrittura creativa (sceneggiatura), sia
aspetti legati al digitale (testo, voce narrante, immagine, musica).
Data la sua natura collaborativa e ricreativa, l’utilizzo del digital storytelling è adatto anche nella scuola
dell’infanzia. La finalità non è quella di far acquisire un contenuto, piuttosto quella di far nascere un interesse e
alimentare curiosità. Il processo di costruzione di tale media è importante proprio per apprendere le competenze che
l’utilizzo di tale media richiede.

I principi fondamentali su cui si basa il progetto di d-storytelling e i conseguenti passi attraverso i quali costruire un
prodotto narrativo digitale sono i seguenti:
• Punto di vista. Le storie dovrebbero essere personali e autentiche;
• Raccontare qualcosa di cui valga la pena (the dramatic question);
• Che sia coinvolgente ed emotivamente valido;
• La voce narrante. La propria voce è un elemento importante e fondamentale per definire un vero e proprio
prodotto di d-storytelling;
• La colonna sonora che aggiunge enfasi ed emotività al prodotto digitale;
• Economia. Voce, musica, immagini, testo devono essere significativamente integrati in un flusso narrativo
unico che dia spazio all’interpretazione, al tacito, alle metafore;
• Ritmo. Il ritmo è il segreto della narrazione insieme alla vitalità.

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Da qui ne consegue il progetto didattico che nei suoi passi salienti riprende alcuni aspetti tipici della sceneggiatura:
• Mappa. Gli studenti creano una mappa concettuale del racconto, una sorta di storyboard che descriva le linee
generali del lavoro;
• Feed-back, dialogo, confronto attraverso il quale si “aggiusta” la storia con eventuali aggiunte o limature;
• Scrittura della storia;
• Registrazione della stessa;
• Valutazione ed eventuali revisioni; • Chiusura della storia; • Digitalizzazione.

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Progettare un D-storytelling – step:
1. Scegliere l’argomento, lo scopo e il target (utenza di riferimento);
2. Strutturale uno spazio di condivisione del materiale – uso di uno spazio di archiviazione digitale;
3. Stilare il visual portrait o story map (inizio, problema, soluzione, conclusione);
4. Scrivere lo story table o storyboard – è possibile disegnare delle vignette da usare come bozza; 5. Fase di
cooperative learning. Organizzazione e divisione del lavoro;
6. Registrazione audio;
7. Creare la lista dei materiali necessari;
8. Raccogliere il materiale;
9. Montaggio/esportazione;
10. Visione del D-storytelling;
11. Valutazione da parte dei componenti del gruppo – applicazione di possibili modifiche.

La didattica dei processi – riepilogo


Attraverso una analisi critica e multi-prospettica della letteratura scientifica, e all’adozione di alcuni principi iscrivibili
ora alla dimensione delle neuroscienze, ora a quella psicopedagogica, e in ultimo alla dimensione didatticotecnologica,
si è arrivati a tracciare delle linee guida che approdano a un approccio educativo maggiormente orientato agli stili di
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apprendimento degli allievi digitali, piuttosto che alla sola trasmissione di contenuti; un modello formativo che viene
declinato nei termini di didattica dei processi e che segue le trasformazioni socio-culturali, cognitivo-relazionali,
teleologiche ed etiche prodotte dalla pervasività e performatività delle tecnologie digitali.
Elementi principali:
➔ Un approccio metacognitivo, cioè più interessato ai modi dell’apprendere;
➔ Sostenere una didattica dei processi vuol dire pensare al fare educativo come sistema, cioè insieme di elementi
interdipendenti che compongono le maglie del tessuto formativo;
➔ L’individuo ricopre un suolo attivo nel processo di apprendimento attraverso un lavoro di costruzione
personale delle conoscenze. Un ruolo che si svolge attraverso differenti azioni di elaborazione,
rielaborazione e riorganizzazione delle informazioni e che comporta una diversa considerazione del processo
educativo non più considerato semplice travaso di conoscenze dall’insegnante all’alunno;
➔ La conoscenza non ha sede esclusivamente nella mente di una persona, ma anche negli artefatti, nei
dispositivi, negli strumenti esterni di supporto dei quali si attornia. La conoscenza, quindi, il sapere, ha una
natura sia situata che distribuita;
➔ Mente, tecnologie, contesto, educazione sono parole chiave che declinano un diverso modo di pensare l’agire
formativo. L’attività didattica deve studiare i processi attraverso i quali realizzare forme di apprendimento
significative, moltiplicando le strategie così come i linguaggi, rivolgendosi alle tecnologie multimediali e
telematiche, ridefinendo, quindi, fini e mezzi, in virtù di un orizzonte socioculturale sempre più variegato e
complesso.
➔ L’azione educativa deve far da garante alla piena espressione e realizzazione individuale, esaltando il tono
della diversità, intesa come ricchezza comune e non come barriera sociale. Il modello relazionale che si
delinea è quello della interdipendenza-collaborazione con il quale si delinea l’accettazione e la valorizzazione
delle diversità, dirigendosi verso lo sviluppo della complementarità come presupposto fondamentale dell’agire
educativo.
➔ La collaborazione richiede una dinamica aperta di scambi e di influenze che comporta l’interdipendenza e la
simmetria evolutiva; di conseguenza i soggetti risultano attivi e capaci di influenzarsi reciprocamente, in
modo tale da determinare la crescita intellettiva, relazionale, emozionale e motivazionale di entrambi,
insegnante e alunno. Le pratiche cooperative aiutano non solo a migliorare le performance relazionali tra pari,
ma fanno in modo altresì di creare una forte empatia tra docente e discente, un livello alto di sintonizzazione
che potrà portare al conseguimento degli obiettivi preposti, nel rispetto delle caratteristiche peculiari di
entrambi. Emerge così chiaramente l’importanza del gruppo e del ruolo dell’insegnante, così come delle
strategie che utilizza, delle conoscenze pratiche che esso possiede e che si esplicitano in azioni e situazioni i
sempre diverse che contribuiscono a configurare parte del set formativo.
Di quali processi parliamo?

46
Parole chiavi

Le idee di base su cui ruota la proposta di una didattica dei processi sono quelle che vedono nella plasticità mentale,
nel connettivismo, nella teoria dell’azione e nell’enattivismo, gli spunti teorico-operativi, gli elementi epistemici sui
quali impostare l’intervento educativo.
Enattivismo

Connettivismo

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La didattica dei processi si connette alle neuroscienze,
alla psicologia cognitiva, nelle teorie che descrivono il
soistema nervoso come organo vivente dinamico,
flessibile, plastico che si ridefinisce costantemente in
risposta ai suoi stessi programmi genetici che alle
interazioni col priprio ambiente. Una natura quella del
nostro cervello che potremmo definire “mesogena” – termine che indica i processi di sviluppo dell’uomo – e che
declina l’interazione tra le dimensioni endogena ed esogena per mezzo della quale si realizza lo sviluppo intellettivo,
quest’ultimo legato tanto a schemi geneticamente predefiniti quanto all’esperienza che modifica gli schemi stessi. La
concettualizzazione più efficace per tradurre tale reciproca influenza fra variabili endogene e variabili esogene nello
sviluppo di ciò che siamo è, come abbiamo visto, il “connettoma”: è lì che si incontrano i fattori naturali e i fattori
culturali, quelli genetici e quelli ambientali, in una simbiosi strutturale e funzionale che ne declina l’essere. L’essenza
e l’originalità di ogni persona.
La didattica dei processi dialoga con l’enbattivismo, soprattutto per quel che concerne la stretta relazione tra azione e
conoscenza, soggetto e ambiente, apprendimento ed esperienza, lì dove l’enattivismo supera la dicotomia soggettico-
oggettivo e, utilizzando le nozioni di co-evoluzione, di accoppiamento strutturale e determinismo strutturale, asserisce
che il conoscente e il conosciuto – il soggetto individuale e i vincoli esterni – il soggetto e l’ambiente fisico esterno,
sono “biunivoche e simultanee specificazioni le une degli altri”, e si definiscono reciprocamente.
La didattica dei processi, in sisntonia con alcuni assunti della cornice teorica del connettivismo, intende valorizzare le
peculiarità dell’azione didattica nell’era digitale, proprio perché la natura relazionale dei processi di conoscenza che si
attiva nell’escosistema mediale odierno è diversa, sia in termini di routine che di forma mentis.
In tal senso la didattica dei processi propone un approccio educativo cross-mediale attraverso il quale diversificare i
formati dei contenuti secondo i linguaggi propri dei disparati tools digitali, in modo tale da incontrare, come
precedentemente detto, gli stili cognitivi e i canali emozionali e motivazionali privileggiati degli studenti, permettendo
altresì di differenziare le attvità e le pratiche educative utilizzando le particolarti tipologie comunicative e interattive
degli ambienti virtuali.

Il cervello che agisce


Questione-chiave: come si definiscono le dinamiche di azione e quale importanza ha il corpo nella costruzione
dell’insegnamento e dell’apprendimento.
La ricerca, sia sul versante della psicologia cognitiva che su quello più strettamente neuroscientifico, ha individuato
negli ultimi anni una seria di ragioni che consentono di superare la dicotomia mente-corpo – e la conseguente visione
della cognizione come processo autonomo, logico e disincarnato; puramente mentale – dimostrando come il cervello

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sia certamente parte di un sistema integrato e dinamico che è indirizzato alle singole azioni che passano dal nostro
corpo e popolano ogni istante della nostra vita quotidiana. Se si considera il cervello solo come un dispositivo
computazionale il cui compito è di processare informazioni e in questi termini lo si pensa come il centro della
cognizione, si ignora la centralità della forma animata del pensiero umano (Gibbs).
Studi di psicologia cognitiva hanno provato la funzione dell’anticipazione visuo-motoria per la soluzione di problemi
che hanno a che fare con la manipolazione di oggetti nello spazio. Si riescono a pianificare una serie di azioni nella
simulazione mentale perché i meccanismi neuronali che regolano questa attività sono gli stessi che ci consentono di
svolgere le stesse azione nello spazio fisico – immaginare un’azione è un modo per allenarsi a compierla
effettivamente.
Una seconda linea di ricerca interessa la psicolinguistica, in particolare la relazione esistente tra esperienza corporea e
soluzione dei problemi legati all’ambiguità semantica di alcune parole, alla generazione di neologismi o metafore per
designare alcuni oggetti o situazioni, alla costruzione di alcuni modi di dire entrati nell’uso comune. Basta pensare a
espressioni gergali come: “stiamo insieme?”, “come stai?”, o ancora “Non ci sto!”. In tutti questi casi lo stesso verbo,
stare, designa situazioni e stati emotivi differenti. La possibilità di distinguere i diversi significati e di risolvere
l’ambiguità semantica dipende di volta in volta proprio dalle esperienze vissute dal soggetto, ovvero dall’insieme di
percezioni, sensazioni, emozioni legate al verbo stare nelle diverse circostanze.
Sul versante della psicologia evolutiva, il ruolo del corpo nella formazione dei processi superiori della conoscenza è
dimostrato attraverso la funzione da esso giocata, per esempio, nell’elaborazione dell’idea del rapporto di
causaeffetto. Posso imparare che un modo di comprendere le relazioni tra i concetti è di pensarli in termini di cause
ed effetti perché ho fatto esperienza corporea di come, poste in essere determinate azioni, ne seguono altre che in
qualche modo hanno a che fare con quelle che sono state poste in essere. Aree motorie e premotorie del cervello

A queste evidenze ne vanno aggiunte altre sul versante più strettamente neuroscientifico.
Anzitutto, lo studio anatomofisiologico della dislocazione delle aree motorie sulla corteggia ha consentito di
determinare che la loro architettura è molto complessa sia dal punto di vista della loro disposizione che delle loro
connessioni intrinseche (con le altre aree motorie) ed estrinseche (con le altre parti della corteccia: il loro prefrontale,
la corteccia del cingolo, il lobo parietale), che infine, dal punto di vista della specializzazione dei neuroni che le
compongono. Questa complessità e un sistema così articolato di relazioni dimostrano che il sistema motorio è
tutt’altro che periferico e destinato solo alla ricezione degli impulsi motori.
In seconda istanza, studi condotti sui neuroni di F5 e dell’area interparietale anteriore (attraverso la registrazione della
loro attività) hanno consentito di determinare che questi neuroni hanno proprietà visuo-motorie, ovvero sanno tradurre
le informazioni visive relative a determinati oggetti in azioni che riguardano quegli oggetti, e svolgono questo
compito in maniera molto specializzata: essi di differenziano, infatti, per il tipo di azione che sanno riconoscere
(afferrare, rilasciare), per il determinato modo di compiere queste azioni (con forza, con delicatezza) e per il tempo
più o meno prolungato di attivazione nel compierle. Quando gli oggetti di dispongono in un certo modo nel nostro
campo percettivo, quando presentano una certa forma e disposizione, quando le loro affordance suggeriscono un
determinato tipo di uso, il nostro cervello “riconosce” quella situazione e sceglie dentro il repertorio di possibili azioni
di cui dispone quella ritenuta congruente (*). Questo vuol dire che il cervello motorio – come suggeriscono Rizzolatti
e Sinigaglia – è sede di una “comprensione pragmatica” degli oggetti e che la nostra attività percettiva si può
49
interpretare come un’attività attraverso il quale il nostro organismo si prepara a rispondere alle situazioni ambientali
attraverso le sue scelte di azione. Questi neuroni sono noti come neuroni canonici.
[(*) per questo è stata introdotta l’idea che la premotoria ventrale contenga un “vocabolario degli atti motori”, ovvero
un vocabolario motorio in cui ogni parola corrisponde a una popolazione neuronale in grado di mettere in atto
un’azione finalizzata. Alcune parole codificano lo scopo in termini molto generali, come afferrare l’oggetto, strappare
il foglio ecc. Altre codificano più in dettaglio come eseguire l’azione, e altre ancora codificano gli aspetti temporali
dell’azione.
La programmazione di una interazione sensomotoria con l’oggetto sarebbe, quindi, parte del processo percettivo
stesso, in linea con l’idea gibsoniana di affordance. La concezione secondo la quale il mondo circostante viene
percepito primariamente in termini di “possibilità di azione” e “utilizzabilità” entra in psicologia negli anni ’60
tramite il lavoro dello psicologo della percezione James Gibson. Secondo lo psicologo, la percezione ha tre tratti
fondamentali:
• La percezione è sempre una percezione diretta, ovvero non è frutto di un’attività inferenziale su
rappresentazioni sensoriali;
• La percezione è azione: la percezione visiva non è la registrazione passiva degli stimoli esterni, ma un’attività
di ricerca e manipolazione dell’input realizzata, tra le altre cose, dai movimenti oculari, dai movimenti della
testa, e dai movimenti corporei;
• La percezione è percezione di affordance, ovvero percezione di ciò che gli oggetti e il mondo circostante ci
offrono e ci invitano a fare. Conseguentemente, i movimenti del percipiente sono diretti alle affordance
dell’oggetto, cioè alle possibilità interazionali che l’oggetto “offre” all’agente.

Questi studi hanno dimostrato come il sistema motorio sia predisposto alla produzione di azioni complesse tenute
insieme da uno scopo. La compenetrazione tra movimento e senso, o scopo, di quel movimento rappresenta la
controparte neurale di un fenomeno già descritto in passato dai filosofi con il termine di “intenzionalità motoria”.]
Nei primi anni Novanta, ricerche condotte sul cervello delle scimmie hanno consentito di scoprire l’esistenza, nella
stessa area, di altri neuroni, anch’essi dotati di proprietà visuo-motorie. In sostanza si tratta di neuroni che si attivano
non quando si fanno cose, ma quando si vedono fare cose: per questa loro natura mimetica, di rispecchiamento, sono
stati definiti neuroni specchio.

A cosa servono?
Secondo Jeannerod la funzione dei neuroni specchio andrebbe cercata nella produzione di “immagini motorie interne”
che fa da supporto all’apprendimento per imitazione: dalla creazione di queste immagini dipenderebbe la capacità del
soggetto di pianificare ed eseguire un’azione così come l’ha osservata.
Per Rizzolatti e Sinigaglia, invece, la funzionalità dei neuroni specchio ha a che fare con qualcosa di evolutivamente
più originario dell’imitazione dei comportamenti altrui a scopo di apprendimento: essi servirebbero a comprendere il
significato dell’agire degli altri soggetti, ovvero a intuirne le intenzioni con il risultato di poter adottare le strategie
più adatte ad agire di conseguenza. Sottolineano: l’atto dell’osservazione è un atto potenziale, causato
dall’attivazione dei neuroni specchio in grado di codificare l’informazione sensoriale in termini motori e di rendere
così possibile quella “reciprocità” di atti e di interazioni che è alla base dell’immediato riconoscimento da parte nostra
del significato dei gesti degli altri. La comprensione delle interazioni altrui non ha qui nulla di “teorico”, bensì poggia
sull’automatica selezione di quelle strategie d’azione che in base al nostro patrimonio motorio risultano di volta in
volta più compatibili con lo scenario osservato.
Intervista Rizzolatti:
il neurone specchio è un neurone che ha dentro di sé un meccanismo che trasforma l’informazione sensoriale in un
formato motorio. Nel momento in cui io vedo qualcuno compiere un’azione, eccito, dentro di me, un programma
motorio. Quando vedo il compiersi dell’azione e dentro di me c’è un programma motorio simile, vuol dire che io
conosco quel programma motorio perché l’ho già usato in passato. Se devo bere, uso quel programma motorio; se
vedo qualcuno bere, si attiva in me quello stesso programma motorio. Questo per le azioni “fredde” (senza
componente emotiva). Per le azioni “calde” (con componente emotiva) è ancora più “semplice”: quando vedo
un’altra persona piangere, nel mio sistema emozionale si attivano gli stessi neuroni che si attiverebbero se piangessi
io. Di conseguenza viene stabilito un rapporto empatico tra me e l’altra persona.

50
Il neurone specchio comunica lo scopo dell’azione (io prendo/tu prendi), l’intenzione è il “per” (perché compio
quell’azione. Con Fugassi è stato provato come esistano delle catene neurali specializzate che si attivano a seconda
della intenzionalità motoria immediata: se prendo per bere o se prendo per buttare si attiveranno due catene di
neuroni specchio diverse – oltre al neurone specchio che comunica lo scopo (prendere).

Oltre ai neuroni specchio della corteccia premotoria, vi


sono altri neuroni, localizzati nel solco temporale
superiore, che entrano in sintonia con le azioni degli altri. I
neuroni appartenenti all’area del solco temporale superiore
sono infatti sensibili alla direzione dell’attenzione e alle
intenzioni di una persona: essi possono rispondere alla
direzione dello sguardo, dei movimenti della testa e a
quelli del corpo.

51
Intervista a Gallese:
La scoperta dei neuroni specchio che è avvenuta per caso, è stata il frutto maturo di una ricerca condotta in modo
molto diverso dall’allora prevalente metodologia d’indagine neurofisiologica. Invece di studiare il contributo
ipotetico di una certa parte del cervello ad una data funzione percettiva, motoria o cognitiva, il nostro approccio era
molto più ‘aperto’: eravamo interessati a comprendere quali fossero le proprietà funzionali dei neuroni che popolano
le regioni motorie della corteccia cerebrale. In altre parole, non facevamo una sola ‘domanda’ ai neuroni, ma molte.
Volevamo capire, ad esempio, se, quanto e come i neuroni motori, quelli cioè che controllano l’esecuzione delle
azioni, rispondessero anche a stimoli sensoriali, come quelli tattili, visivi o uditivi.
Andavamo decisamente contro corrente nell’ipotizzare e cercare un ruolo percettivo del sistema motorio. Fino ai
primi anni Ottanta del secolo scorso prevaleva l’idea di una stretta divisione del lavoro nelle diverse aree cerebrali,
caratterizzata da una rigida separazione tra percezione, cognizione e movimento.
Giacomo Rizzolatti e il gruppo di ricercatori da lui guidato, di cui, ancora studente, facevo già parte, in quegli anni
mettevano in crisi quella visione, dimostrando come azione e percezione sono integrate da molti neuroni motori che
rispondono anche a stimoli tattili, visivi e uditivi. Questa integrazione avviene in neuroni che controllano
l’esecuzione di azioni, come afferrare oggetti con la mano. Avevamo scoperto che alcuni di questi neuroni,
denominati poi ‘neuroni canonici’, si attivano anche in assenza di movimento, durante l’osservazione degli stessi
oggetti di cui controllano l’afferramento. Grazie a questo meccanismo di simulazione motoria, l’oggetto visto è
‘tradotto’ in uno schema motorio, lo schema normalmente impiegato per afferrarlo. Vedere un oggetto significa
anche simularne l’afferramento. L’oggetto, in questo modo, è precettivamente ‘fatto proprio’ da chi lo guarda,
perché viene mappato grazie ad una simulazione motoria, come target potenziale di un’azione ad esso diretta da
parte dell’osservatore.
Mentre studiavamo le proprietà di questi neuroni, ci siamo accorti che alcuni di essi non si attivavano durante la
visione di oggetti, ma durante la visione delle nostre azioni su quegli stessi oggetti. In seguito, decidemmo di
utilizzare la metafora dello specchio per descriverli: la risposta visiva del neurone rispecchia quella motoria. Lo
stesso neurone che controlla l’esecuzione di una propria azione risponde anche all’osservazione della stessa azione
eseguita da altri. Il meccanismo di rispecchiamento è certamente alla base dei comportamenti mimetici e di
apprendimento imitativo.
La nostra ricerca, insieme a quella di molti altri colleghi in tutto il mondo, ha dimostrato che analoghi meccanismi
di rispecchiamento sono presenti nel nostro cervello anche per le emozioni e le sensazioni. Le stesse aree cerebrali
che si attivano quando ad esempio proviamo disgusto o dolore, oppure esperiamo una sensazione tattile, si attivano
anche quando vediamo gli altri esperire le stesse emozioni e sensazioni.
Ho introdotto il modello della Simulazione Incarnata per descrivere un meccanismo funzionale di base del nostro
cervello che ci mette in relazione con gli altri. In pratica, riutilizziamo le stesse rappresentazioni neurali non
linguistiche che presiedono alle nostre azioni, emozioni e sensazioni per riconoscerle negli altri. La simulazione
incarnata è però solo uno dei meccanismi alla base della nostra intersoggettività, che è fondata anche su modalità
più cognitive e inferenziali di comprensione dell’altro. Probabilmente la simulazione incarnata è il meccanismo più
antico da un punto di vista evolutivo ed il più precoce a manifestarsi dal punto di vista dello sviluppo dei singoli
individui. Secondo la mia ipotesi, grazie alla simulazione incarnata abbiamo la possibilità di accedere in parte al
mondo dell’altro dall’interno. Grazie al riuso di circuiti neuronali che normalmente presiedono alle nostre azioni,
emozioni e sensazioni, siamo in grado di comprendere in termini esperienziali le azioni, emozioni e sensazioni
degli altri. La simulazione incarnata costituisce insomma un meccanismo di base e cruciale dell’intersoggettività.
La novità più radicale della scoperta dei neuroni specchio e dei meccanismi di rispecchiamento poi scoperti nel
cervello umano però è un’altra. È la dimostrazione di quanto fondamentale e costitutiva sia la relazione che ci lega
agli altri. Anche a livello neurofisiologico c’è una dimensione condivisa: non solo le mie azioni, emozioni e
sensazioni sono simili a quelle dell’altro, ma anche la sottostante base neurobiologica è in parte comune. L’altro è
per noi anche qualcosa di più e di diverso da un oggetto da comprendere e interpretare. L’altro è un altro tu. Cosa
esprime il concetto di embodiment? Significa che parti corporee, azioni o rappresentazioni corporee svolgono un
ruolo determinante nei processi cognitivi. Stati o processi mentali sono embodied nella misura in cui sono
rappresentati in un formato corporeo. Uno stesso contenuto, a esempio un’azione o un’intenzione, possono essere
rappresentati in un formato corporeo o proposizionale. L’idea è che il formato corporeo precede sia
filogeneticamente che ontogeneticamente quello proposizionale. Non sappiamo con precisione se il formato
proposizionale sia totalmente separato/separabile da quello corporeo. Personalmente sospetto che non lo sia. Ma
rimane un dato di fatto che questi differenti formati rappresentazionali consentono di costruire contenuti molto
diversificati. Mente e corpo sono due parole che descrivono aspetti diversi ma strettamente intrecciati della nostra
natura biologica. Per secoli abbiamo tenuto separati il corpo dalla mente, la percezione dall’azione e l’Io dal Tu.
Fortunatamente oggi mi sembra che ci si stia muovendo in un’altra direzione, volta appunto a mettere in luce la
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Apprendere dall’esperienza: il cervello, i videogiochi e la scuola
Gli studi sui neuroni specchio ci hanno aiutato a comprendere che il nostro corpo costituisce il dispositivo principale
attraverso il quale, realizzando esperienze, sviluppiamo apprendimento e produciamo conoscenza. Inoltre, l’astrazione
e le generalizzazioni possono produrre apprendimento solo se sono state costruite a partire dall’esperienza corporea
del mondo.
È proprio per questo che James Paul Gee si è dedicato ad una nuova area di ricerca: New Digital Media and Learning.
L’area di ricerca dei NDM&L opera nell’area di confine di tre tradizioni di ricerca:
• New Literacy Studies – idea centrale: leggere e scrivere non sono fatti “mentali” ma attività che si svolgono
“nel mondo”;
• Teoria dell’azione situata – idea centrale: la conoscenza non è un’attività astratta, ha a che fare con situazioni
concrete che cambiano in tempo reale;
• New Literacies Studies – idea centrale: le competenze di letto-scrittura acquisite in relazione alla scrittura
alfabetica non sono le uniche competenze “alfabetiche” da far acquisire ai soggetti, soprattutto in un contesto
di società multi e crossmediale come la nostra.
Normalmente, quando si dice che i ragazzi apprendono fuori dalla scuola in modalità molto diverse da quelle che
vengono loro suggerite a scuola, si tende poi a pensare che quindi la scuola, se vuole cucire questo gap, debba
importare modi e strumenti dell’apprendimento informale: se, dunque, i ragazzi apprendono nell’informale
videogiocando, occorrerà prendere i videogiochi e inserirli nell’attività didattica. Questo modo di pensare è sbagliato,
infatti, l’operazione dovrebbe essere un’altra: nello spirito delle New Media Literacies, utilizzare il videogioco come
laboratorio sperimentale all’interno del quale scoprire quali siano le logiche significative attraverso le quali, in quel
mondo, i giocatori realizzano apprendimento. Cerchiamo di capire come questo sia possibile.
Gee suggerisce di considerare il videogioco come un dominio semiotico. Un dominio semiotico è uno scenario
all’interno del quale parole, immagini, simboli acquistano un determinato significato. Esso si può considerare da due
punti di vista: internamente un dominio semiotico è caratterizzato dai suoi contenuti e dalle regole in base alle quali si
può interagire con essi (grammatiche interne); esternamente è caratterizzato da un gruppo di persone (che Gee
definisce gruppo di affinità) che organizzano e condividono attorno al dominio un sistema di pratiche sociali
(grammatiche esterne). Quando videogiochiamo, noi interagiamo con questo dominio mettendo in gioco la nostra
identità a tre livelli: siamo noi in carne ed ossa (identità reale), che assumiamo la forma di un personaggio all’interno
del videogioco (identità virtuale) e desideriamo che questo personaggio viva all’interno del videogioco la storia che
noi vogliamo che viva (identità proiettiva). L’apprendimento che il videogiocatore realizza videogiocando ha a che
fare con questi aspetti. È sfidato dai contenuti e dalle regole, incuriosito dalle grammatiche interne; si sente parte di
una comunità di esperti (gli altri videogiocatori) con cui scambia consigli di gioco e condivide strategie; è chiamato in
gioco personalmente a più livelli, si sente spronato a mettere alla prova le proprie capacità, lo affascina con il suo
avatar dover affrontare le sorprese che il gioco gli propone, ne progetta lo sviluppo e le azioni. Le tracce semiotiche di
cui il videogioco è costituito rappresentano per il giocatore degli inviti all’azione incarnata e i significati sono sempre
situati e di continuo attivamente costruiti e organizzati dal giocatore.
Anche la matematica (come la fisica, le scienze, o il greco classico) è un dominio semiotico, con dei contenuti
(teoremi, equazioni, funzioni) e delle regole che disciplinano le operazioni che si possono fare su di essi
(grammatiche interne). Ma, per esempio, già le pratiche sociali che attorno a questo dominio si organizzano sono
molto diverse da quelle che si organizzano attorno al videogioco. Inoltre, lo studente in carne ed ossa non trova
nessuna identità virtuale o proiettiva da incarnare nel caso della matematica. Di conseguenza, mancano totalmente le
grammatiche esterne. Non c’è esperienza corporea, i significati non sono situati. Le persone dispongono di significati
situati per le parole quando possono associare queste parole con immagini, azioni, esperienze o dialoghi in un mondo
reale o immaginario. Altrimenti dispongono, al massimo, di significati verbali.

Apprendere dall’esperienza: imitazione, modeling, apprendistato


Oltre che a rinforzare l’idea che l‘apprendimento, anche di concetti astratti, abbia solide basi nell’esperienza corporea,
i neuroni specchio forniscono una spiegazione a quell’importante processo di apprendimento che è l’imitazione.
Tradizionalmente, l’imitazione ha costituito il principio cui si è ispirato il modello di formazione noto come
apprendistato. Questo modello di apprendimento viene previsto per la trasmissione delle competenze relative a quei
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saperi “tecnici” che si apprendono attraverso l’appropriazione delle pratiche di un esperto che il neofita può produrre a
partire dall’osservazione in contesto. Il principio che sta alla base di questa forma di apprendimento esperienziale è il
modeling, ovvero la convinzione che osservare un professionista esperto alle prese con una situazione professionale
tipica serva all’apprendista per comprendere come comportarsi in situazioni analoghe. Ma l’imitazione non opera solo
nell’ambito del modello di formazione dell’apprendistato. Anche modelli didattici e di apprendimento differenti se ne
servono. Per esempio, proprio il modeling costituisce uno degli aspetti che servono a riaffermare il valore della lezione
(frontale) come forma di trasmissione del sapere. Soprattutto in certi casi, quando cioè l’insegnante non “racconta” ma
risolve problemi, sottopone ad analisi un testo, fornisce la sua interpretazione di un classico, la lezione mantiene un
suo importantissimo valore formativo. Tale valore ha a che fare proprio con il modeling e cioè con la possibilità che
viene offerta allo studente di osservare il metodo in azione, di verificare attraverso un’esperienza-modello (quella
rappresentata dall’insegnante) come sia possibile comportarsi in situazioni analoghe. Un ultimo cenno merita la
possibilità di estendere idea e metodo dell’apprendistato oltre i limiti dell’addestramento professionale, se è vero che
quest’idea sta alla base di moderni modelli di apprendimento come l’apprendistato cognitivo o le comunità di pratica.
In questi modelli l’acquisizione di competenze da parte del novizio avviene attraverso la sua partecipazione periferica
legittimata a una comunità all’interno della quale conoscere le pratiche degli esperti, acquisirle per modellamento,
svilupparne una padronanza attraverso l’esercizio e il supporto (scaffolding). Logiche analoghe sono all’opera nel
mentoring in cui l’allineamento di conoscenze e pratiche del novizio con le esigenze di una comunità o
un’organizzazione passa attraverso la relazione privilegiata con un esperto che svolge la funzione di modello e di
accompagnatore.
Apprendistato cognitivo
L’apprendistato cognitivo (espressione coniata da John Seely Brown, Allan Collins e Susan Newman, 1987)
ripropone un aspetto qualificante della forma
prendimento
di ap più diffusa nelle società tradizionali per la
trasmissione delle arti e dei mestieri, ovvero l’apprendistato tradizionale, arricchito di elementi metacognitivi
propri della scuola formale e che si manifesterebbero nella capacità, iscenti,
da parte
di mettere
dei d in atto tutta
una serie di processi di articolazione, riflessione ed esteriorizzazione degli apprendimenti acquisiti. Esso, infatti,
integra le quattro strategie dell’apprendimento tradizionale (modelling, coaching, conscaffolding,
tre fading)
inedite strategie più centrate sulla dimensione metacognitiva del processo (articolazione, riflessione,
esplorazione). Inoltre, tale modello pone le basi teorico operative sul concetto di azione situata, intendendo
quest’ultima come la necessità
i inserire
d l’apprendimento di conoscenze e abilità in situazioni autentiche, ossia in
contesti di attività significative tanto per l’allievo quanto per l’esperto.

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Vedere il mondo dal punto di vista dell’altro
Oltre a svolgere una funzione fondamentale in relazione alla possibilità di apprendere dall’esperienza e dal
comportamento altrui - Imitazione, modeling, apprendistato cognitivo – il circuito dei neuroni specchio gioca un ruolo
importante anche nell’ambito della vita emotiva, in particolare all’interno dei processi di condivisione delle emozioni.
Questi neuroni eliminano la differenza tra il sé e l’altro e ci forniscono un primo indizio su come il cervello ci aiuti a
rispecchiare le emozioni e il comportamento di chi abbiamo davanti. Rizzolatti e Sinigaglia sono perfettamente
allineati nel riconoscere alle emozioni la funzione evolutiva di cui si diceva: le emozioni offrono al nostro cervello
uno strumento essenziale per orientarsi tra le molteplici informazioni sensoriali e per innescare automaticamente le
risposte più opportune, ovvero quelle atte a promuovere la sopravvivenza e il benessere del nostro organismo. La
scoperta delle basi neurologiche delle nostre emozioni, soprattutto della natura specchio della nostra capacità di
sviluppare empatia nei confronti degli altri, riveste una particolare importanza in educazione. L’importanza
dell’educazione nell’accompagnamento dello sviluppo di questo sentimento di empatia è importante perché esso è
ambiguo e può produrre effetti per nulla prosociali. Per esempio, non produce su di noi la stessa impressione (e di
conseguenza la stessa risposta empatica) la vista della sofferenza di qualcuno che conosciamo o che appartiene alla
nostra comunità e di qualcuno che invece ci è sconosciuto o lontano. La pressione sociale nel gruppo dei pari e la
leadership complicano ulteriormente la situazione. L’”effetto Lucifero” lo dimostra: quando in un esperimento chi lo
conduce dice ai soggetti sperimentali che una cosa va fatta, essi la fanno senza preoccuparsi dei suoi effetti: così
anche quando una cavia umana grida (per finta) per le scosse elettriche che loro credono di somministrare, il parere
dello scienziato conta più del dolore della vittima. Da questo tipo di situazioni si ricava che anche un soggetto che
normalmente, nella vita di tutti i giorni, si comporta bene, in alcune altre situazioni si può comportare male. Questo
succede quando non ci si ritiene responsabili (altri ci stanno dicendo cosa fare), quando nessuno ci fa osservare che
quel che si sta facendo è male, quando le vittime delle nostre azioni sono deindividualizzate, rese lontane,
oggettivizzate. L’analisi di tutti questi elementi restituisce importanti indicazioni all’educatore. In primo luogo, sul

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piano neurologico ed evolutivo, consta che l’uomo è naturalmente predisposto ad attivare comportamenti prosociali.
La pressione sociale e la leadership possono, però, intervenire su questa naturale disposizione e distorcerla. Qui si
apre, quindi, lo spazio d’intervento per l’educazione che, come suggerisce la Nussbaum, consiste nell’assecondare gli
istinti empatici e nel minimizzare l’impatto dei condizionamenti sociali. Concretamente un’educazione all’empatia
dovrà:
• Favorire lo sviluppo del “pensiero posizionale”, ovvero della naturale disposizione che grazie ai neuroni
specchio ci fa mettere al posto degli altri provando quello che loro provano in determinate situazioni;
• Insegnare a convivere con le proprie debolezze, senza farne un motivo di vergogna; • Insegnare a conoscere
effettivamente l’altro al di là di facili stereotipie;
• Promuovere la responsabilità e il pensiero critico.
Intervista a Gallese: empatia. È la possibilità di ritrovare nella relazione con l’altro, una relazione di somiglianza.
Una relazione di somiglianza che però è declinata alla dimensione dell’alterità dell’altro: io riconosco e comprendo
l’agire e l’esperire dell’altro, attribuendo quest’agire e quest’esperire all’altro. Quindi non parliamo di un contagio
emozionale, ma nemmeno di un’operazione cognitivamente più sofisticata quale assumere la prospettiva dell’altro.
Piuttosto si parla di una modalità di base di relazione, sia filogeneticamente che ontogeneticamente. Essendo questa
la definizione di empatia, è facile comprendere come e perché il sistema dei neuroni specchio, o meglio il
meccanismo della simulazione incarnata, ne costituiscano una parte assolutamente necessaria. Quando vediamo
qualcuno compiere un’azione, mentre siamo fermi, si attivano le nostre aree motorie, le stesse che si attiverebbero
se compissimo noi in persona l’azione. Come definire l’attivazione di una parte del cervello motorio in assenza di
produzione di movimento? Risulta logico definirla come simulazione di un movimento, così come la simulazione di
movimento si può intendere come l’immaginare di muoversi. Quando si immagina di eseguire un’azione,
rimanendo fermi, si attivano alcune delle parti motorie del nostro cervello che normalmente si attivano quando
eseguiamo quell’azione. Anche in questo caso ci si trova di fronte ad una simulazione: immaginare di eseguire
un’azione equivale a simularla (anche immaginare di vedere qualcosa equivale a simularlo). La simulazione
caratterizza una modalità di funzionamento del cervello, modalità definibile “come se” (come se camminassi, come
se provassi dolore, ecc.). Ancora altri neuroni, i neuroni canonici, si attivano quando si afferra un oggetto, ma anche
quando si guarda quello stesso oggetto. Di nuovo, l’attivazione di un neurone motorio, che normalmente mi fa
eseguire un movimento con la mano, quando guardo un oggetto prendibili con la mano, senza che la mia mano si
muova equivale ancora ad una simulazione motoria.
Quindi la simulazione incarnata è una teoria funzionale che da conto a questa particolare modalità di funzionamento
di parti cospicue del cervello e questa modalità di funzionamento di base del cervello verosimilmente è un
ingrediente importante per spiegare come noi ci rappresentiamo il mondo che sta davanti a noi, in cui noi ci
muoviamo e facciamo esperienze – il mondo degli oggetti e il mondo degli altri.
Decidere per agire: il ruolo della corteccia frontale
Fino a questo momento abbiamo spiegato come buona parte dei nostri comportamenti trovi la propria base
neurobiologica nel circuito dei neuroni specchio: da esso dipende la nostra capacità di collocarci nello spazio in
relazione con gli altri oggetti che lo popolano, la possibilità di imparare dall’esperienza attraverso l’osservazione degli
altri individui, l’utilizzo dell’empatia come forma di previsione rispetto alle conseguenze gradevoli o sgradevoli di
una determinata azione. Tuttavia, il processo di decisione, centrale nella soluzione di problemi che rappresenta il
modo abituale attraverso il quale entriamo in relazione con il mondo, per la sua complessità richiede il
coinvolgimento di altre aree corticali, precisamente i lobi frontali che, come abbiamo già anticipato nei primi capitoli,
per la loro funzione sono stati definiti con una bella metafora: “il direttore d’orchestra” del cervello (Goldberg). Nella
vita di tutti i giorni noi abbiamo a che fare con due tipologie di situazioni problematiche. La prima di esse consiste in
problemi che ammettono una sola risposta, quella corretta, e implicano che tutte le altre possibili risposte siano false.
Per trovare soluzione a domande di questo tipo mi dovrò dunque impegnare a individuare l’unica risposta possibile: a
questo processo si dà il nome di Veridical Decision Making (VDM).
Normalmente, però, i problemi anche quelli più concreti, con cui ci imbattiamo sono tali da non richiedere
necessariamente una sola risposta, quella vera. Al processo che conduce alla soluzione di questa seconda categoria di
problemi di si dà il nome di Adoptive Decision Making (ADM).
La strategia attraverso la quale la decisione matura è molto diversa nei due casi. Il VDM è sostenuto dall’applicazione
di algoritmi e dalla loro routinizzazione dato che, nel caso dei compiti deterministici sui il VDM risponde, le
situazioni tendono a ripresentarsi sostanzialmente nella stessa forma, con le stesse caratteristiche. Completamente
diverso è il caso dell’ADM: qui la difficoltà consiste nel fatto che la situazione problematica è ambigua e il lavoro che

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mi viene richiesto è di sciogliere questa ambiguità e il disporre di soluzioni preconfezionate ma scegliendo di volta in
volta quale pattern applicare, nella consapevolezza che spesso la stessa situazione problematica richiede soluzioni
diverse in momenti diversi.
Goldberg definisce il VDM “cognizione descrittiva”, l’ADM “cognizione prescrittiva”: la prima è episodica e
dichiarativa, la seconda semantica e procedurale. Inoltre, questa distinzione tra VDM e ADM è alla base di una teoria
relativa alla specializzazione dei due emisferi: essa ritiene che “ciascuno dei due emisferi cerebrali è implicato in tutti
i processi cognitivi, ma il grado di coinvolgimento relativo varia a seconda del principio novità-routine”. La prima
formulazione di questa ipotesi è contenuta in un articolo di Goldberg e Costa in cui la specializzazione dei due
emisferi veniva spiegata in modo da non scivolare nel determinismo di una rigida e statica corrispondenza tra una
determinata area e lo svolgimento di un determinato compito. L’idea dei due neuroscienziati è che:
1) La differenza tra i due emisferi cerebrali si possa basare sulla coppia novità-routine cognitiva;
2) L’emisfero destro sia responsabile della ricerca di modelli di soluzione per situazioni nuove che il soggetto
non ha mai sperimentato, quello sinistro costituisca il “deposito” dei pattern di comportamento già
consolidati;
3) Il rapporto tra i due emisferi sia dinamico: la routinizzazione dei processi esecutivi comporta una
localizzazione progressivamente diversa da destra verso sinistra e inoltre i concetti stessi di novità e routine
sono relativi (dipendono dal modo in cui le esperienze di si presentano, dalle età della vita ecc.).
Negli anni successivi, studi sperimentali condotti in base a tecniche encefalografiche e al ricorso a neuroimaging
hanno confermato l’ipotesi di Goldberg e Costa introducendo altre coppie corrispondenti a quella di novità-routine,
come la coppia esplorazione-sfruttamento, o la distinzione tra emisfero critico ed emisfero attore. Questi studi hanno
anche dimostrato che con la ripetizione di un compito – ovvero, con l’apprendimento – l’attività cerebrale passa
progressivamente dalla corteccia frontale destra alla corteccia posteriore sinistra. Questo significa che, a prescindere
dal fatto che comunque diverse parti della corteccia sono sempre attive insieme nella esecuzione di compiti complessi,
il centro di gravità cognitiva di sposta da destra a sinistra in relazione co l’esecuzione di compiti più o meno
innovativi.
Un’ultima considerazione. Nella vita di tutti i giorni, come già accennavamo, è, molto più facile, persino nelle nostre
occupazioni più banali, che ci troviamo in presenza di situazioni che ci richiedono strategie di soluzione di tipo
ADM piuttosto che VDM. Nella scuola accede esattamente il contrario. Nel 90% dei casi, le prove che vengono
sottoposte alla soluzione degli studenti richiedono loro di operare in modalità VDM: c’è una sola risposta corretta e
questa risposta si può dare o attingendo alla memoria a lungo termine, o “applicando” regole o schemi di soluzione
che si è imparato già a impiegare in situazioni analoghe a quelle che nella prova vengono presentate. Capacità di
ricordare e di gestire routine. Rispondere a questa logica tutta la testistica tradizionale, quella delle “prove oggettive”
che proprio nel fatto di richiedere l’attivazione di precise routine e di prevedere una e una sola risposta corretta trova
la garanzia della possibilità di neutralizzare il margine di discrezionalità di chi valuta. Il problema è che nella vita il
90% dei compiti richiede strategie di tipo ADM, non ci sono quasi mai le “risposte giuste”, quasi sempre una
risposta che aveva funzionato in passato non funziona allo stesso modo quando si prova a riutilizzarla. La ricerca di
una “nuova valutazione” che tenga presente di questo fatto, proponga agli studenti prove significative, li metta in
situazione reale di problem solving, misuri la loro capacità di servirsi di processi esecutivi, muove da qui: può
trovare supporto sul piano neurobiologico e non solo dall’aver constatato sul campo che le tecniche tradizionali non
funzionano. Lo sviluppo del cervello e della mente
Lo sviluppo del cervello
Per stimolare il cervello e potenziare le funzioni cognitive è necessario conoscere come e quando si sviluppa, quali
sono i passi salienti delle sue trasformazioni, le tappe critiche dello sviluppo celebrale. È importante tenere a mente
che ogni età ha le sue caratteristiche biologiche e ogni bambino ha una sua individualità.
Come avviene per il resto del corpo, anche il cervello, nel corso dello sviluppo, va incontro a importanti modifiche
che riguardano la quantità – il volume celebrale – e la qualità, il numero di cellule, le loro connessioni, i contatti che
uniscono tra loro i neuroni in una complessa rete da cui dipende il nostro comportamento.
Esempio dei cambiamenti quantitativi: alla nascita il cervello ha un volume che è circa il 60% rispetto a quello di un
adulto, che a 5 anni il volume passa al 75%, a 6 anni al 90% e a circa 12 anni al 100%.
Il cervello, dunque, cresce rapidamente, ma il volume non è un buon indice del potenziale cerebrale: un neonato non
dispone del 60% delle potenzialità comportamentali di un adulto, e nemmeno un ragazzino di 12 anni, il cui cervello
ha ormai le dimensioni definitive, si comporta, presta attenzione, impara e giudica come un adulto. Di conseguenza,
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per valutare lo sviluppo celebrale bisogna considerarne diversi aspetti, partendo da un suo elemento fondamentale: il
numero delle cellule nervose o neuroni. Il cervello è formato da un tessuto, il tessuto nervoso.

La comunicazione nervosa si basa sul fatto che i neuroni hanno la peculiarità di modificare le proprie caratteristiche
elettriche quando si eccitano: queste modifiche fanno sì che a un’estremità del neurone vengano liberate molecole
chimiche, i mediatori nervosi, attraverso cui i neuroni comunicano. La qualità specifica di una rete di neuroni è perciò
lo scambio di informazioni che dipende dalla selettività dei circuiti nervosi, vale a dire dalla presenza di itinerari che
sono tracciati e consolidati dall’esperienza.
Per dar forma ai circuiti nervosi è necessario un lungo lavoro di potatura attraverso cui sono eliminati i neuroni in
eccesso e le sinapsi, ovvero i contatti tra neuroni diversi, inutili. La maturazione del sistema nervoso implica, pertanto,
un lungo lavoro di ristrutturazione in cui sono eliminati neuroni in soprannumero, formate sinapsi essenziali,
consolidati nuovi circuiti, soppressi circuiti ridondanti ecc.

L’eliminazione dei neuroni dopo la nascita è quindi un fenomeno fisiologico. Non a caso il cervello di un neonato ha
tra il 30 e il 60% di neuroni in più rispetto al cervello dell’adulto: nasciamo con una dote di cellule nervose
sovrabbondante, ma dalla nascita in poi parte di questi neuroni dovrà essere eliminata per dare forma a quei circuiti
nervosi che avranno un ruolo definitivo. Anche il numero delle fibre nervose (assoni) che connettono tra loro i neuroni
è più elevato nel cervello neonatale.
Un secondo aspetto del processo di maturazione cerebrale riguarda le sinapsi, i minuscoli punti di contatto tra neurone
e neurone, essenziali per dare forma ai circuiti nervosi.

Dopo la nascita le sinapsi vanno infatti incontro a due diversi processi: la formazione di nuove sinapsi e la potatura di
quelle in eccesso o inutili.

In genere, la produzione di sinapsi riflette alcuni snodi importanti della maturazione di talune funzioni nervose: per
esempio, il picco della formazione si verifica intorno al terzo mese per quanto riguarda la corteccia uditiva e la
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regione temporale superiore – da cui dipende la percezione dei suoni del linguaggio -, mentre la formazione delle
sinapsi è più tarda nella corteccia del lobo frontale da cui dipendono funzioni complesse come alcuni aspetti del
linguaggio e la capacità di analizzare una situazione e scegliere la risposta più adatta, inibendo le risposte irrilevanti.
In generale, maturano più precocemente quelle aree da cui dipendono la decodificazione delle sensazioni (uditive,
visive ecc.) o la produzione di movimenti (attività sensomotorie), che quelle da cui dipendono le funzioni cognitive,
come la corteccia frontale e prefrontale: ciò spiega le diverse tappe di maturazione di un bambino piccolo e il suo
passaggio attraverso stadi diversi che lo portano inizialmente a percepire la realtà e poi a rappresentarla in modo
sempre più ricco e astratto.

Lo sviluppo dell’io
Considerando il punto di vista psicobiologico, l’io dipende da una serie di tappe dello sviluppo, passi in cui si
intrecciano predisposizioni genetiche e fattori ambientali.
1-3 mesi. Nelle prime settimane di vita la sopravvivenza e i comportamenti di un lattante dipendono in gran parte
dall’attività delle strutture situate al di sotto della corteccia, strutture che assicurano sonno, attività alimentari,
sensazioni non molto distinte. La corteccia cerebrale, infatti, non è ancora matura alla nascita.
3-6 mesi. Alla nascita le caratteristiche esterne del cervello (scissure, solchi e lobi da essi delimitati) sono simili a
quelle di un cervello maturo ma molte connessioni tra i neuroni devono ancora essere stabilite e molte fibre nervose
devono ancora essere rivestite da una guaina isolante formata da grassi e proteine, la mielina. Intorno ai 3-6 mesi di
vita iniziano a maturare (nel senso che si stabiliscono connessioni efficienti tra le cellule nervose) le aree occipitali,
temporali e parietali. Grazie alla maturazione di queste aree un bambino comincia a controllare i muscoli del corpo
(prima quelli del collo, poi quelli delle braccia e del tronco, infine quelli delle gambe), a distinguere sempre più
distintamente i messaggi visivi, a riconoscere quelli uditivi.
9-10 mesi. Intorno ai 9-10 mesi la corteccia frontale inizia a maturare rapidamente e si sviluppano le lunghe fibre
nervose che connettono tra di loro le varie parti della corteccia, facendo sì che le aree responsabili della decifrazione
dei suoni, dei messaggi visivi e tattili, della produzione di movimenti si possano scambiare informazioni. Linguaggio,
comunicazione, memoria, apprendimenti, dipendono dal “cablaggio” di queste aree che si scambiano informazioni
essenziali per capire, per esempio, che se si muovono in un certo i muscoli della laringe, della lingua e della bocca,
sono prodotti dei suoni che hanno particolari conseguenze e che quindi devono avere un particolare significato… è
una fase in cui il bambino imita l’adulto, inizia a comunicare in modo intenzionale, fa uso di oggetti. Scopre inoltre
che un oggetto nascosto può essere ritrovato e non cessa di esistere (oggetto permanente).

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1-2 anni. A partire dal decimo mese e sino a oltre la fine del secondo anno di vita, il cervello di un bambino piccolo va
incontro a una profonda trasformazione: tra il primo e il secondo anno di vita la produzione di nuove sinapsi è enorme
– il 150% di quella che si verifica nel cervello di un adulto – perché il cervello di un bambino deve far fronte a nuove
e importanti attività, come acquisire nuovi vocaboli, imparare regole grammaticali (fase definita come: esplosione
nominativa), assortire eventi, esperienze, memorie in categorie, classificandole secondo disparati criteri. 2 anni.
All’età di 2 anni, quando buona parte delle strutture grammaticali è stata acquisita e lo “sforzo linguistico” è meno
intenso, la produzione di sinapsi declina e altrettanto avviene per il metabolismo cerebrale: produrre sinapsi, infatti,
significa anche sintetizzare nuove proteine (di cui le sinapsi sono fatte) e fornire alimento ai neuroni, zucchero
soprattutto, per sostenere la loro intensa attività.
3-4 anni. A partire dalla fine del secondo anno inizia un luogo processo di “potatura sinaptica” attraverso cui,
gradualmente, i ridondanti circuiti cerebrali di un bambino piccolo assumono, grosso modo, la forma che avranno
nell’adulto.
La potatura delle sinapsi dei circuiti cerebrali è in gran parte legata a una competizione tra i neuroni: quei neuroni e
quelle sinapsi che si affermano, val a dire che sono rafforzati dalle esperienze che essi registrano, avranno la meglio
su altri neuroni e sinapsi che invece decadranno e saranno eliminati (competizione sinaptica).
Il processo di maturazione e trasformazione del cervello non cessa, però, con la primissima infanzia: strutture nervose
come la corteccia frontale, responsabile di numerose funzioni superiori, continuano a svilupparsi per parecchi anni –
la maturazione celebrale continua fin oltre i 20 anni.
Le ricerche effettuate in ragazzi tra i 12 e i 20 anni dimostrano che la corteccia frontale, da cui dipendono la
pianificazione e l’organizzazione di molti comportamenti, la regolazione dell’emotività e l’inibizione di risposte “non
appropriate”, matura assai più lentamente di altre aree della corteccia celebrale. Questi nuovi dati sottolineano il peso
della biologia e dimostrano come la maturazione di alcune aree della corteccia frontale sia essenziale per assicurare
una pienezza cognitiva, emotiva e anche morale.

Divenire consapevoli
Vedere non significa comprendere, essere consapevoli del significato di quanto viene percepito dal punto di vista
visivo: con un’analogia di quanto viene potremmo dire che il cervello è in grado si fotografare la realtà prima di
comprenderne il senso. Un caso ormai classico riguarda la capacità di riconoscersi allo specchio. Un bambino al di
sotto di un anno di vita è attratto dalla propria immagine riflessa, vorrebbe toccarla e reagisce con un sorriso al volto
che vede rispecchiato: ma non comprende che quel volto è il suo. Bisognerà attendere un’età compresa fra i 18 e i 24
mesi perché egli si riconosca. Per dimostrare questa capacità, viene generalmente impiegato il test della macchia rossa
ideato da Gordon Gallup; si disegna un pallino colorato sulla fronte del bambino e lo si mette davanti a uno specchio:
se resta indifferente o cerca di toccare la macchia toccando lo specchio vuol dire che non si riconosce, se invece si
tocca la fronte alla ricerca del segno colorato vuol dire che si riconosce ed è autocosciente. Il
riconoscimento della propria immagine riflessa è legato a un maggiore livello di maturazione della corteccia frontale
cerebrale, il che consente al piccolo di comprendere che è diverso e separato dagli altri, in particolare dalla figura
materna con cui è stato in simbiosi nei primi mesi di vita.
Un passo fondamentale sul cammino della consapevolezza si ha fra i 3 e i 4 anni, quando il bambino comincia a
comprendere la differenza che intercorre tra sé stesso e altre persone od oggetti a cui attribuisce una mente. Per
esempio, immaginiamo che un bambino di 3 anni veda un adulto che mette delle palline di vetro nella scatola dei
pastelli da disegno: se gli si chiede se il suo orsacchiotto di pezza, che era assente durante il test, sa che la scatola
contiene le palline, risponderà affermativamente. Il bambino, a questo stadio, non concepisce che la sua propria mente
e quella dell’orsacchiotto (quella che egli attribuisce all’orsacchiotto) possano essere diverse: il bambino, insomma, è
caratterizzato da un forte egocentrismo* che proietta sugli altri.
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[* Piaget indicando il bambino come egocentrico si riferisce propria alla sua tendenza, prima dei quattro anni, di
considerare le sue conoscenze (ma anche paure e piaceri) uguali a quelle di tutti gli altri; come nel caso
dell’orsacchiotto appena visto. Inoltre, la mente del bambino in questa fase è anche caratterizzata dall’artificialismo
(che tutti gli oggetti del mondo siano creazione dell’uomo) e dall’animismo (dare un’anima, nel nostro caso una
mente, ad oggetti o animali). Dai 4 anni, invece, la mente del bambino viene caratterizzata anche dall’idealismo
(capacità di formarsi delle credenze, anche sugli altri) e dalla capacità di utilizzare pregiudizi].
Ripetiamo ora lo stesso test su un bambino di 4 anni. A questa età dirà che l’orsacchiotto pensa che nella scatola ci
siano solo matite, in quanto era assente quando ci sono state messe le palline: ora l’orsacchiotto ha una mente diversa
dalla sua, gli altri possono avere credenze diverse da quelle che ha lui.
[in questo tipo di esperimenti viene analizzata la triade oggetto-agente- altro componente; in questa triade l’oggetto
viene indicato come un elemento proto-dichiarativo o proto-riflessivo.]
L’essere consapevoli, di conseguenza, presenta 2 caratteristiche: una avanzata maturazione neuronale e di seguito lo
sviluppo di una vera e propria teoria della mente (ToM).

Teoria della mente nell’autismo – compito della falsa credenza


La mancanza di teoria della mente è una delle possibili ipotesi psicologiche dell’esordio della sindrome autistica
(Surian, 2005).
Per teoria della mente (TOM) s’intende l’abilità di inferire gli stati mentali degli altri ossia, più precisamente,
pensieri, opinioni, desideri, intenzioni e così via. Con questo termine ci si riferisce anche all’abilità di usare tali
informazioni per interpretare ciò che gli altri dicono, dando significato al loro comportamento e creandosi a livello
mentale una sorta di rappresentazione di ciò che faranno in seguito.
Sono stati validati molti test per misurare la teoria della mente. Il più famoso è il test della Falsa credenza di Sally e
Anne, presentato in figura 2.1, e utilizzato per valutare a che età i bambini normo-tipici riescono a superare
correttamente il compito di falsa credenza di primo ordine. Questo compito indaga l’abilità di comprendere le false
credenze, ovvero quelle situazioni in cui un personaggio viene tratto in inganno da una credenza fasulla sulla realtà
che non corrisponde alla credenza posseduta dal bambino (Baron-Cohen, Leslie & Frith, 1985). Nella scenetta in
figura 2.1 viene raffigurato il compito di spostamento inatteso di un oggetto. L’esperimento consiste nel mostrare al
soggetto questa scena e di chiedergli di prevedere il comportamento di una delle due protagoniste presenti. Alla
domanda: “Secondo te, Sally dove andrà a cercare la biglia?”. La risposta offerta dimostrerà se è superato o meno il
compito di falsa credenza. Si è visto che il bambino normo-dotato comincia ad avere verso i tre/quattro anni una
teoria della mente ben sviluppata (Howlin et al., 2011). Infatti, si può vedere che a partire dai quattro anni, il
bambino risponde correttamente alla domanda, ossia, egli risponderà “nel cesto”.

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Al contrario dei bambini
a sviluppo tipico, nei bambini autistici c’è una sorta di cecità mentale (Howlin et al.,
2011). Questa cecità è dimostrata dalla mancanza, nel secondo anno, delle attività di indicazione
- proto
dichiarativa e di attenzione condivisa ritenuti entrambisori
precur
della teoria della mente (Surian, 2005).

Sembrerebbe che nel bambino a sviluppo tipico la teoria della mente cominci a manifestarsi intorno ai 4 anni. Questa
fase non è sempre “stabile” – I bambini di 3 anni falliscono il compito della falsa credenza; i bambini autistici, in
grande maggioranza, non riesce a risolvere il compito della falsa credenza anche se possiedono un’età mentale di 7
anni o superiore. Non tutti i ricercatori concordano. Alcuni studiosi fanno osservare che fra i due e tre anni i bambini
possiedono già una considerevole conoscenza degli stati mentali e sono capaci di manipolare rappresentazioni che
differiscono dalla realtà, come comprendere il gioco di finzione, creare nell'altro una falsa credenza per ingannarlo,
riconoscere la differenza fra oggetti reali e immagini mentali di oggetti, prevedere il comportamento di altre persone
sulla base di ciò che esse desiderano. I bambini sono in grado, pertanto, di attribuire agli altri pensieri, desideri e
fantasie e questo li porta a poterne prevedere il comportamento, senza tuttavia riconoscere l’esistenza di false
credenze.

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Capacità di meta-rappresentazione. Questa capacità consente al sistema cognitivo di costruire la descrizione di eventi
ipotetici – come le descrizioni di oggetti di finzione, di pensieri, di sogni - i quali, piuttosto che riferirsi alla realtà
esterna, si rifanno ad altre rappresentazioni. La scoperta della mente propria e altrui sarebbe una progressiva conquista
evolutiva.
La ToM di Baron-Cohen
Secondo questa teoria sarebbero 4 i meccanismi alla base della capacità umana di leggere la mente:
• Rivelatore dell’intenzionalità – intentionality detector – ID – (0-9 mesi);
• Rivelatore della direzione degli occhi – EDD – eye direction detector (entro i 9 mesi); • Meccanismo
dell’attenzione condivisa – SAM – shared- attention mechanism (9-18 mesi);
• Teoria della mente – TOMM – theory of mind mechanism (18- 48 mesi).

Rivelatore dell’intenzionalità
Meccanismo innato che si attua attraverso i sensi (vista, tatto e udito), finalizzato a interpretare quasi tutto ciò che sia
dotato di movimento autodeterminato (ad esempio cerca di riconoscere l’intenzionalità di un gesto), o qualsiasi cosa
che emetta un suono non casuale.
Rivelatore della direzione degli occhi
Meccanismo innato che funziona solo attraverso la vista e ha tre compiti di base:
1) rivelare la presenza di occhi o di stimoli simili a occhi;
2) calcolare verso quale bersaglio gli occhi sono diretti;
3) inferire sulla base di ciò che, se gli occhi di un altro organismo sono diretti verso qualcosa, allora
quell’organismo vede quella cosa, cioè interpreta gli stimoli in termini di ciò che un agente vede.
Meccanismo dell’attenzione condivisa
La sua funzione chiave consiste nel costruire rappresentazioni triadiche, che riguardano le relazioni tra un agente, il Sé
(entrambi interessati al medesimo oggetto) e un (terzo) oggetto. In altre parole, l’attenzione condivisa consiste nel
comportamento che i bambini cominciano a manifestare quando mostrano interesse per le cose osservate dall’adulto,
focalizzando lo sguardo in maniera alternata verso un oggetto fissato dall’adulto e verso l’adulto stesso.
Teoria della mente
Meccanismo che permette di inferire dal comportamento gli stati mentali e di prevedere il comportamento sulla base
di quanto una persona sa e desidera.

I movimenti costruiscono la mente


Percepire significa costruirsi una rappresentazione del mondo esterno, per esempio calcolare la distanza a cui si trova
un oggetto sospeso sulla culla o una persona che appare nel proprio campo visivo. L’azione, invece, comincia con
un’ipotesi sulle conseguenze desiderate di un movimento e poi continua nella sua esecuzione.
Le funzioni motorie vanno incontro a un processo di maturazione che non comporta soltanto un progressivo
affinamento della capacità di muoversi e manipolare l’ambiente, ma trascina anche funzioni linguistiche (il linguaggio
è pure fatto di movimenti dell’apparato fonatorio) e cognitive, legate alla capacità di esplorare attivamente il mondo
circostante.
Lo studio del comportamento di un neonato, di un lattante o di un bambino indica una forte sincronia tra sviluppo del
cervello e sviluppo della mente e sottolinea la presenza di un programma genetico, ma anche di un’estrema capacità
del cervello di adattare e modificare le proprie caratteristiche strutturali e le proprie funzioni alle necessità del
momento. Potremmo dire che il sistema nervoso si ispira a un disegno genetico, a informazioni contenute nei geni, ma
devia dal progetto ideale per divenire qualcosa di estremamente individuale, il prodotto di una complessa e irripetibile
interazione tra geni e ambiente. Come abbiamo già accennato, un aspetto fondamentale del processo maturativo
cerebrale, e quindi della mente infantile, riguarda lo sviluppo motorio. Nel corso del suo processo evolutivo, il
cervello ha infatti bisogno di fare esperienze tattili e motorie perché si sviluppino quelle aree sensomotorie che
costituiscono il punto di partenza per la maturazione delle aree superiori, quelle del linguaggio e del pensiero

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complesso. Il corpo è insomma una componente essenziale della mente ed è ben difficile che esistano funzioni
simboliche che non richiedano, dipendano o siano regolate dallo scambio di informazione con esso.
La cosiddetta “sincronia interattiva” nei neonati è il primo segno: bambini di poche settimane di vita producono con il
corpo una serie di micromovimenti in risposta al linguaggio umano; una specie di “danza” attivata dalla voce, dal
ritmo della lingua (qualunque lingua). La stessa “danza” non compare quando il bambino sente altri suoni, il che, da
un lato, indica l’esistenza di una sensibilità innata alla voce umana e, dall’altro, dimostra come il linguaggio non sia
un fatto puramente mentale, ma che coinvolga anche il corpo. Anche chi parla, accompagna il linguaggio con dei
micromovimenti (mimici e del corpo) che rendono le sue verbalizzazioni significative, “calde”, tali da motivare il
piccolo che ascolta a partecipare alla “danza”.
Lo sviluppo della motricità avviene gradualmente dopo la nascita e attraverso tappe ben precise. Dopo qualche
settimana, il neonato è in grado di compiere movimenti grossolani, per esempio di avvicinare al suo corpo un oggetto
tramite un movimento poco selettivo del braccio. Dal secondo al quarto mese può afferrare il proprio piedino,
stringendolo simultaneamente tutte le dita della mano; in seguito, è in grado di orientare le mani e di sviluppare quella
che si chiama una “presa di precisione”, cioè opporre l’indice e il pollice della mano per afferrare un piccolo oggetto,
per esempio un cucchiaio. Queste azioni motorie sono man mano sempre più coordinate e basate su un susseguirsi si
atti che dipendono da memorie che codificano concatenazioni di movimenti in grado di rispondere a situazioni
specifiche. Queste procedure motorie si arricchiscono anche di complesse successioni muscolari volte a imitare le
espressioni facciali dell’adulto. I movimenti degli arti e la mimica formano un nucleo iniziale di schemi motori,
memorie muscolari intorno a cui si addensano le memorie successive, come una specie di bozza che man mano verrà
lavorata dal succedersi di esperienze e attività della mente. Queste stesse memorie muscolari o corporee – il termine
tecnico è “procedurali”, in quanto implicano una serie di procedure e non di significati, come avviene per le memorie
semantiche, verbalizzabili – sono il punto di partenza dei successivi apprendimenti linguistici, anch’essi fondati su
sequenze motorie che non sono molto differenti dall’organizzazione dei movimenti della mano o della testa, ma che
servono per produrre una serie coordinata di suoni significativi. Studi sui neuroni – come i neuroni specchio – hanno
dimostrato come il pensiero cosciente sia strettamente correlato con l’attività di aree della corteccia responsabili di
movimenti reali o “immaginati”: in altre parole, la stessa area del cervello entra in funzione quando immagino un
movimento e quando questo è pianificato. Questo parallelismo tra anticipazione e azione vale anche per
l’immaginazione e la sensazione: così, il solo immaginare un oggetto, per esempio una rosa, porta all’attivazione delle
aree della corteccia visiva che sono attivate anche quando quell’oggetto viene effettivamente visto.

Ricordare e imparare
Sviluppare l’attenzione
Funzioni esecutive. Un insieme di processi cognitivi che permettono di esercitare forme di autocontrollo, di
focalizzare l’attenzione su un determinato compito, di trattenere in memoria un’esperienza e di controllarne
l’esecuzione. Le funzioni esecutive cominciano ad emergere intorno al settimo mese di vita, quando il lattante inizia
ad assumere il controllo di alcune semplici azioni. Tale capacità dipende dalla progressiva maturazione di un’area, la
corteccia cingolata, situata nella parte interna dei due emisferi cerebrali. Le funzioni esecutive fanno parte dei processi
cognitivi di livello elevato: dipendono dai lobi frontali e sono alla base di ogni tipo di comportamento diretto ad un
fine.
Le funzioni esecutive sono basate su una triade funzionale: inibizione ( 1), flessibilità mentale, aggiornamento (2).
L’inibizione è la capacità di sopprimere informazioni non pertinenti interne o esterne, la flessibilità implica di passare
alternativamente da un’operazione mentale ad un’altra (per esempio dalla divisione alla moltiplicazione),
l’aggiornamento comporta modifiche del contenuto della memoria di lavoro – o a breve termine – a seconda
dell’informazione più recente [2 adeguamento del comportamento rispetto al contesto – Frame (contesto)]. Queste tre
componenti non sono ben differenziate siano ai 5 anni, dopodiché divengono più autonome.
[1 le capacità inibitorie sono connesse all’auto-controllo, cioè alla capacità di ritardare la gratificazione. L’assenza di
autocontrollo porta ad un’assenza di inibizione.
Quando durante una lettura ci distraiamo e poi ci riconcentriamo sulla lettura stiamo inibendo la distrazione interna.
L’inibizione può essere traslata anche nel sistema maestra-gruppo classe: nel momento in cui il sistema sta subendo
una perturbazione (informazioni non pertinenti) causata da una distrazione interna – un bambino che magari sta
parlando con un compagno – l’insegnante può richiamare l’attenzione, inibendo quindi perturbazione all’interno del
sistema, rendendolo impermeabile ad esso)].
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Il processo di selezione di alcuni stimoli rispetto ad altri, necessario per l’inibizione, implica l’utilizzo dell’attenzione
selettiva. Questa capacità matura lentamente e passa da una manciata di secondi, nelle prime settimane di vita, a tempi
progressivamente più lunghi.
La labilità dell’attenzione di un lattante o di un bambino piccolo è legata soprattutto all’immaturità della corteccia
frontale che ha il compito di reprimere gli stimoli – esterni e interni – irrilevanti e di conseguenza di permettere e
sostenere l’attenzione nei confronti di uno stimolo particolare. L’incostanza e la breve durata dell’attenzione sono
legate a una scarsa maturità dei meccanismi della motivazione che contribuiscono a sostenere l’attenzione (attenzione
sostenuta – sforzo attentivo prolungato nel tempo) e a contenere la stanchezza. Anche le modalità dell’attenzione sono
diverse nel corso dello sviluppo: non soltanto un bambino piccola ha un’attenzione labile, ma non è in grado di
sostenere due compiti simultaneamente (attenzione divisa).
Anche nei bambini più grandi, l’attenzione è di breve durata: per esempio, un bambino di 6-7 anni comincia a distrarsi
dopo appena 15 minuti, mentre un ragazzo di 15-16 anni è in grado di prestare attenzione per circa 30-45 minuti. Per
favorire l’apprendimento bisogna quindi utilizzare esperienze di breve durata e alternare argomenti e “codici”
sensoriali: per esempio, con un bambino della scuola materna bisogna saper cogliere le fasi di attenzione e ogni
esperienza deve avere un carattere ludico, mentre con i bambini della scuola primaria è opportuno fare pause
frequenti, cambiare argomento di discussione o lettura e stimolare l’attenzione con l’aiuto di immagini, aneddoti,
richiami “leggeri”. Bisogni, inoltre, favorire l’assunzione di un ruolo attivo, spingendo il bambino a individuare ciò
che più lo attrae nella pagina di un libro, le associazioni suscitate da un particolare argomento ecc.: quando più si è
convinti in prima persona, cioè non si è passivi, tanto più l’attenzione è desta.

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I fattori di interferenza, soprattutto il sovraccarico cognitivo causato dai tanti e frenetici stimoli derivati dalle nuove
tecnologie, portano alla presenza della cosiddetta attenzione fluttuante.

Dal punto di vista concettuale l’attenzione si può spiegare sulla base di due famiglie di teorie: le teorie selettive e le
teorie motorie. Per le teorie selettive l’attenzione è il risultato di un processo attraverso il quale i segnali in entrata
sono filtrati e separati dal nostro sistema percettivo. Questo processo è mediato dalla funzione di modulazione della
serotonina e della dopamina che trasportano il segnale attenzionale: quando questo viene attivato involontariamente,
cioè quando l’attenzione è richiamata dallo stimolo sensoriale (bottom-up), sono i neuroni sensoriali che sollecitano le
cellule che producono serotonina; quando invece l’attenzione viene “pilotata” consapevolmente dalla corteccia (top-
down), allora sono i neuroni della corteccia ad attivare le cellule che rilasciano dopamina. La dopamina viene prodotta
dalle cellule del mesencefalo. Gli assoni di questa parte del cervello inviano segnali alla corteccia prefrontale e ai
gangli della base, che sono le zone deputate al controllo dei comportamenti volontari. Si dimostra dunque una certa
coerenza nei meccanismi che regolano l’attenzione e in generale l’attività cosciente dell’individuo. Nel caso, invece,
delle teorie motorie l’attenzione non è il risultato di una selezione, quanto piuttosto della riorganizzazione sistemica di
una mappa generale. Quando un elemento interno (una scelta, un orientamento, un piano di azione) o esterno (una
percezione, una novità proveniente da un fatto nuovo o inatteso) interviene a modificare il disegno della mappa
globale, le sue diverse parti si riorganizzano: l’attenzione sarebbe legata a queste variazioni.
Indipendentemente da come si possa spiegare la sua genesi, non c’è dubbio tra gli studiosi che esistano due principali
forme di attenzione: l’attenzione involontaria (quella che poco sopra abbiamo definito bottom-up) è sostenuta da
meccanismi neurali automatici ed è prodotta da uno stimolo esterno (un lampo, un rumore sospetto ecc.); l’attenzione
volontaria, invece, consiste nell’attribuire a stimoli esterni che di per sé non avrebbero salienza, un valore che ha
relazione con ciò cui si intende prestare attenzione (per esempio, quando si guida, le segnalazioni stradali, i semafori,
le mosse degli altri automobilisti che di per sé non richiamerebbero la nostra attenzione, divengono rilevanti nella
misura in cui hanno a che fare con il compito principale che in quel momento si sta eseguendo). L’importanza di
questi due tipi di attenzione in funzione della relazione del meccanismo dell’attenzione con il fenomeno della
memoria è rilevante: infatti l’attenzione involontaria gioca un ruolo soprattutto nella memoria implicita, la volontaria
nella memoria esplicita.

Riconoscere e rievocare
La prima forma di memoria che si sviluppa in un bambino piccolo è la memoria di riconoscimento. All’età di 5-6 mesi
un bambino può riconoscere un evento famigliare, ma l’evento deve essere presente per stimolare la memoria, dato
che egli non è ancora capace di rievocare: il volto del fratellino può essere riconosciuto quando è di fronte, ma lo
schema di quel volto non può essere recuperato nella memoria se il fratellino è assente. Questa prima e più semplice

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forma di memorizzazione comporta tempi brevissimi e diventa più stabile tra gli 8 e i 12 mesi, quando di passa da una
forma molto precaria a una forma più stabile (o memoria di lavoro, come è stesso chiamata) che permette di ricordare
un evento per tempi più lunghi, come avviene in un adulto che riesce a mantenere in memoria un numero telefonico,
senza doverlo trascrivere, per una manciata di secondi.
La capacità di tenere a mente un’esperienza passata e servirsene per fare un confronto con una differente realtà, vale a
dire mettere a confronto tre loro schemi diversi, si manifesta verso gli 11-12 mesi. L’abilità di richiamare e trattenere
uno schema in memoria – memoria di rievocazione – consente di comprendere la derivazione della paura degli
sconosciuti e la paura del separarsi delle figure famigliari. All’avvicinarsi di una persona sconosciuta, un bambino di 9
mesi ne studia il viso, rievoca automaticamente gli schemi dei volti conosciuti, confronta i due scemi, li trova
incongruenti e viene assalito dall’incertezza: come conseguenza può anche mettersi a piangere e cercare con lo
sguardo il genitore, il che non accadeva in precedenza perché non aveva ancora una memoria a lungo termine. Il fatto
che questi cambiamenti si verifichino in tutti i bambini più o meno della stessa età fa ritenere che queste capacità
dipendano da trasformazioni strutturali che si verificano nel sistema nervoso centrale, sia a livello dell’ippocampo, un
nucleo che ha il compito di collegare tra loro i diversi aspetti di un ricordo (visivi, uditivi, tattili ecc.), sia a livello
della corteccia frontale, che gioca un ruolo chiave nella memoria rievocativa.
Mentre la memoria di riconoscimento compare abbastanza precocemente e consente di riconoscere volti, situazioni od
oggetti noti, e quindi di notare ciò che c’è di nuovo in un particolare ambiente, la memoria semantica, legata ai
significati, compare molto più tardi ed è associata allo sviluppo del linguaggio: sin quando questa importante funzione
non si sviluppa, le memorie si basano soprattutto su associazioni, anche se queste comportano accoppiamenti tra
alcune parole proferite dagli adulti e alcuni oggetti o situazioni. Il linguaggio permette invece di richiamare memorie
non legate a oggetti o situazioni contingenti e quindi di distaccarsi dal presente.

Tipologie di memoria
È importante fare una distinzione tra abitudine e memoria: la prima è un’azione meccanica riflessa a breve termine,
la seconda, a lungo termine, consiste nel richiamare dopo un certo tempo qualcosa che è già stato fissato nella
memoria primaria.
Di conseguenza la memoria si presenta in due forme; la memoria primaria – implicita, non dichiarativa (o
procedurale), con registrazione, associativa – implicata nella formazione di abitudini, nel condizionamento o nelle
routine motorie (come andare in bicicletta, allacciarsi le scarpe ecc.), e la memoria secondaria – esplicita, dichiarativa,
senza registrazione – che riguarda informazioni comunicabili.
La memoria dichiarativa è la memoria per i fatti, per le idee e per gli eventi, ossia per quelle informazioni che possono
essere riportate a livello conscio sotto forma di proposizione verbale o come immagine visiva. Si tratta del tipo di
memoria a cui si riferisce comunemente quando si ricorre al termine “memoria”: la memoria che consente di ricordare
il nome di un amico, le vacanze dell’anno precedente, una conversazione avuta la mattina […] Anche la memoria non
dichiarativa proviene da esperienze, ma essa viene espressa sotto forma di cambiamento
comportamentale e non come rievocazione mentale. A differenza della memoria dichiarativa, quella non dichiarativa è
inconscia.
La memoria dichiarativa può essere ulteriormente suddivisa in memoria episodica, riguardante le informazioni
specifiche di un contesto particolare come un momento o un luogo – ne è una sottocategoria la memoria
autobiografica- e memoria semantica, riguardante idee e affermazioni indipendenti da uno specifico episodio. Mentre
la prima forma di memoria si basa su un legame non-cognitivo tra uno stimolo e una risposta e, generalmente, può
non implicare la coscienza, le memorie di tipo semantico fanno invece capo (salvo eccezioni) a processi cognitivi
coscienti. Infine, un’ulteriore differenza tra i due tipi di memorie consiste nel fatto che quella di tipo associativo-
procedurale è già evidente ai livelli inferiori della filogenesi e si presenta precocemente sin dalle prime fasi dello
sviluppo umano; al contrario, la memoria di tipo dichiarativo comprare più tardi nel corso della filogenesi (con i
mammiferi superiori) e si sviluppa più tardi di quella associativo-procedurale nel corso dello sviluppo postnatale.
Come già accennato, la memoria è distinta pure a seconda della durata: la memoria a breve termine – o memoria di
lavoro – che ha una capacità di circa 6-7 elementi, che verranno dimenticati dopo “l’uso”; la memoria a lungo
termine, virtualmente infinita, si occupa del mantenimento delle informazioni, come volti, episodi della vita o
apprendimenti.

La memoria di lavoro accompagna nel collegamento tra quello che devo fare (di nuovo) e ciò che già so.
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Cos’è la Memoria di Lavoro?
Baddeley e Hitch nel 1974 ipotizzano la Memoria di Lavoro (ML) come una struttura a capacità limitata che
mantiene ed elabora delle informazioni per un periodo di tempo limitato. Il termine ML è stato introdotto per
focalizzare l’attenzione su un tipo di memoria che non fosse solo un mero magazzino passivo, ma un meccanismo
attivo che permetta l’elaborazione e la manipolazione di varie tipologie di informazioni e dati (Baddeley e Hitch,
1974).

Homunculus
Il modello originale elaborato dagli autori propone l’esistenza di tre componenti funzionali: un processore centrale,
detto Esecutivo Centrale, considerato come una specie di omino in miniatura grottesco e sproporzionato
(homunculus) che gestisce le risorse attenzionali e coordina i due servosistemi, il Ciclo Fonologico e il Taccuino
Visuo-spaziale, adibiti rispettivamente alla elaborazione e alla memorizzazione delle informazioni verbali e
visuospaziali. Nel 2000 Baddeley, per completare il modello e rendere ragione di alcuni dati sperimentali, ha
introdotto l’Episodic Buffer: una componente, anch’essa dalla capacità limitata, che si avvale di un codice
multidimensionale in grado di formare collegamenti tra informazioni di diversa natura (es. verbale, visuo-spaziale)
e provenienza (ambiente esterno, memoria a lungo termine), e che permette di creare degli episodi integrati
(Baddeley 2000, 2003). La ML si può immaginare come un ponte collocato al centro tra la percezione delle
informazioni stesse e la memoria a lungo temine, tale da permettere e favorire una comunicazione in tempo reale tra
le impressioni del nostro mondo esterno e la nostra memoria storica sedimentata con gli anni e le esperienze. La ML
consente, quindi, di acquisire e manipolare informazioni per fornire risposte e in caso prendere delle decisioni
adeguate.

Ma cosa accade nel quotidiano? Come e quando viene usata la memoria di lavoro?

Il Ciclo Fonologico
Il Ciclo Fonologico è adibito al mantenimento e all’elaborazione di informazioni verbali: entra in funzione se si
ascolta una frase o un racconto. Per dare un senso compiuto ad un’intera frase, o a ad un intero racconto, è necessario
conservare nozioni e in seguito assemblarle insieme. Sentendo la frase “Anna mi ha chiesto di andare a vedere
“Bohemian Rhapsody” martedì sera”, è necessario ricordare che il soggetto della frase è Anna, mantenere in
memoria il verbo fino a quando non si sa a cosa è collegato quel verbo (ovvero a vedere Bohemian Rhapsody), e
bisogna mantenere il titolo del film fino a quando non si sa quando è stato proposto di andare. È come fare un
puzzle: i pezzi vengono mantenuti da una parte fino a quando non si trovano quelli da incastrare nel modo giusto. E
così accade con la memoria di lavoro: le informazioni vengono mantenute in memoria, per tempi brevissimi, fino a
quando non si trova la possibilità di assemblarli nel modo giusto. Senza l’impiego della memoria di lavoro, e in
questo caso del Ciclo Fonologico, le informazioni andrebbero perse prima di poterle combinare in un pensiero
logico, coerente e completo.

Il Taccuino Visuo-Spaziale
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Il Taccuino Visuo-spaziale funziona in modo analogo al Ciclo Fonologico, ma mantiene in memoria informazioni
visuo-spaziali. Viene utilizzato, ad esempio, quando si cerca per le strade del quartiere la propria macchina
parcheggiata. In questo caso si fa un confronto tra l’immagine della propria “Panda Fuxia” (recuperata dal taccuino
visuo-spaiziale) e le macchine presenti nella strada per decidere se quella di fronte a me è la mia o quella del mio
collega di lavoro (Logie, 1995). Entra in funzione, ad esempio, in pausa pranzo, quando il capo propone di andare a
pranzo da “Peppe”. In questo caso si ipotizza, in una zona conosciuta, la traiettoria, la possibilità di girare a destra
invece che a sinistra o la possibilità di andare dritto, collegando sulla mappa spaziale recuperata e mantenuta attiva
dal Taccuino Visuo-Spaziale il punto di partenza (ufficio) e il punto di arrivo (“Peppe”). In questo modo, quindi, si
struttura il percorso più veloce ed efficiente per giungere dall’ufficio a “Peppe”.
Ma la ML Visuo-Spaziale viene attivata anche al parco quando la mamma, che deve lavorare al computer, ha la
necessità di controllare il figlio che sta giocando sullo scivolo. Per assicurarsi che il bimbo stia bene, ogni tanto, la
mamma guarda la scena da lontano (bambino che gioca sullo scivolo), la mantiene in memoria mentre sta lavorando
al computer, e rialzando lo sguardo effettua un confronto tra i dati visivi immagazzinati
precedentemente in maniera temporanea nel Taccuino Visuo-spaziale e i dati a diposizione on-line, per capire se il
bambino ha cambiato gioco o se ha cambiato compagno di gioco. In questo modo, quindi, si crea una sequenzialità
di comportamento del bambino che genera tranquillità e comprensione delle attività del bambino stesso (Baddeley
2017).

Colloquio tra le varie componenti e comunicazione con gli altri tipi di memoria
La ML, grazie all’Esecutivo Centrale e all’Episodic Buffer, ha la possibilità di interagire con altri tipi di memoria e
di comunicare con magazzini che hanno codifiche diverse (verbale o visiva). Per esempio, durante l’infanzia, si
costruisce un magazzino semantico di dati, che conserva in memoria il significato degli oggetti, le caratteristiche e le
immagini degli stessi. La tigre può essere vista e immagazzinata temporaneamente dal Taccuino Visuo-Spaziale
come un animale con le strisce, e tale informazione viene inviata alla memoria a lungo termine tramite l’Episodic
Buffer. Con il passare del tempo, grazie all’esperienza, si aggiungono altre informazioni registrate per esempio dal
Loop Fonologico: che è un grande gatto, che è un mammifero, che vive nella giungla e che è carnivoro.
Quindi l’informazione iniziale (animale con le strisce) conservata nella memoria a lungo termine viene man mano
ampliata e aggiornata tramite l’Episodic Buffer e, nel caso specifico, il Loop Fonologico. In questo modo, si ha
quindi la possibilità di ampliare il magazzino semantico a lungo termine utilizzando la memoria di lavoro come
ponte tra la percezione e la memoria a lungo termine (Baddeley 2000, 2017).

Conclusioni
La ML è fondamentale in molteplici compiti che quotidianamente siamo tenuti a svolgere. La ML con le sue
componenti permette di interfacciarci con quello che percepiamo per mantenerlo temporaneamente in memoria,
supportando processi complessi come il problem-solving e la presa di decisioni.

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Fatte tali osservazioni, si può considerare quali siano le reti neurali da cui dipendono questi diversi aspetti della
memoria. È ormai assodato che le memorie procedurali hanno al loro centro un circuito che parte dalla corteccia
motoria, va ai gangli della base e da essi, attraverso il talamo, ritorna alla corteccia motoria. Questo circuito è alla
base delle memorie che riguardano abitudini e abilità elementari e ricorrenti, come avviene per le azioni ripetitive.
Un secondo circuito, che riceve informazioni dalla corteccia motoria primaria e dalle aree della corteccia associativa
sensoriale, raggiunge invece il cervelletto, da qui le informazioni sono convogliate al talamo e da questo nucleo
tornano alle aree motorie della corteccia frontale e parietale: tale circuito fa sì che le risposte motorie ad alcuni
stimoli diventino quasi riflessi automatici, come può avvenire quando ci si blocca per un ostacolo improvviso. Studi
su lesioni cerebrali hanno mostrato che le memorie di tipo dichiarativo si basano sia sul circuito ippocampocorteccia
temporale, sia su strutture appartenenti al diencefalo. In modo schematico, la regione temporale è connessa con
l’amigdala e l’ippocampo, e quest’ultimo con il diencefalo tramite il fornice, in una sorta di circuito della memoria
di cui, ovviamente, fa parte tutta la corteccia cerebrale, che è connessa con quella temporale e, in modo diretto, con
lo stesso ippocampo e diencefalo. Tutte queste strutture nervose sono implicate nella cosiddetta “memoria esplicita”
che implica un riconoscimento cosciente delle esperienze che abbiamo avuto e che possono affiorare
spontaneamente o essere trasformate in memorie esplicite, devono passare per le strutture del lobo temporale
mediale – come la corteccia entorinale – le quali sono una sorta di imbuto che filtra tutte le sensazioni e percezioni, e
l’area temporale mediale, attraverso ippocampo e amigdala, che ne connotano specifiche
caratteristiche (memorie spaziali, emotive ecc.); le emotive vengono successivamente “assemblate” nel diencefalo e
registrate sotto forma di memorie stabili nei circuiti del cervello. Il circuito della memoria corteccia
temporaleippocampo- diencefalo consente di connettere tra di loro le diverse componenti degli episodi della vita
quotidiana (sensazioni, immagini mentali, emozioni, valutazione della realtà) per trasformarle in memoria episodica,
in eventi della nostra storia individuale. Riassumendo, i circuiti alla base della memoria procedurale e di quella
dichiarativosemantica sono diversi e fanno capo rispettivamente ai gangli della base e al circuito corteccia temporale –
ippocampo – diencefalo. In genere, questi due circuiti sono attivati simultaneamente e in parallelo. Inoltre, questi due
sistemi della memoria possono interagire in modo competitivo, ma in generale il sistema ippocampo- corteccia
temporale mediale entra in funzione quando si tratta di apprendere nuove esperienze, specialmente basate su forme di
memoria dichiarativa; in seguito, quando l’evento diventa più noto e si ripete nel tempo, si attiva il sistema striatale.
Come abbiamo visto, la memoria dichiarativa si riferisce a significati e concetti per i quali non è importante ricordare
il momento e la situazione nei quali essi sono stati appresi: è una memoria che contiene le conoscenze sul mondo in
forma organizzata. Similmente a quanto si verifica per la memoria procedurale, anche quella dichiarativosemantica
non è unitaria bensì suddivisa in diversi compartimenti e competenze. Questa suddivisione è determinata dal fatto che
sia molto più facile memorizzare qualcosa che ha comportato un’interazione diretta e un coinvolgimento della
motricità, piuttosto che un concetto astratto: ecco il motivo per cui soprattutto i bambini devono fare esperienze dirette
e associare ai movimenti e alla manipolazione l’acquisizione di nuovi concetti.

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Conoscere la conoscenza

Damasio lavora alla costruzione di quella che lui stesso definisce una “neurobiologia della razionalità”, ovvero una
spiegazione su base neurobiologica di quell’insieme complesso di processi che portano l’uomo a organizzare le sue
percezioni in conoscenze fattuali, categorizzarle, ricavare da questa categorizzazione elementi per anticipare
comportamenti futuri di un fenomeno e prendere decisioni: in una parola quello cui abitualmente si dà il nome di
conoscenza. I dispositivi neurali alla basa di questo percorso, secondo il neuroscienziato, sono tre: l’attenzione di base,
la memoria operativa e gli stati somatici che, attribuendo valore ai contenuti delle nostre percezioni, favoriscono il
concentrarsi dell’attenzione e la persistenza della memoria.

La teoria della selezione dei gruppi neuronici


La TSGN di Edelman rappresenta una compiuta fisiologia dell’intelletto umano.
La teoria si basa su tre principi, che regolerebbero il funzionamento neurale:
1) Il primo principio riguarda la selezione in fase di sviluppo, ovvero le trasformazioni anatomiche che nel
cervello intervengono nella fase de4l suo sviluppo (non solo prima della nascita) e che sono legate a cause che
con questo sviluppo hanno a che fare (movimenti, estensione, nascita e morte dei singoli neuroni). Il risultato
di questa fase è la formazione del repertorio primario, “una popolazione variabile di gruppi di neuroni in una
data regione del cervello, incluse le reti di neuroni che emergono attraverso processi di selezione somatica”.
2) Il secondo principio riguarda la selezione esperienziale, ovvero le trasformazioni funzionali (non anatomiche)
che il cervello subisce in virtù del fatto che i suoi comportamenti producono grazie a dei meccanismi
biochimici il rafforzamento/indebolimento delle relazioni sinaptiche. Il risultato di questa selezione è la
formazione del repertorio secondario, ovvero un insieme di sinapsi attive che funzionano come un circuito.
3) Il terzo principio riguarda il rientro, il processo di segnalazione che spiega come interagiscono tra loro le
mappe celebrali formatesi attraverso i due meccanismi di selezione di cui abbiamo già fatto cenno. I due
processi di selezione non intervengono su singoli neuroni ma su gruppi di neuroni, ovvero insiemi di cellule
adiacenti collegate tra loro (connessioni intrinseche) e con le cellule appartenenti ad altri gruppi (connessioni
estrinseche). La selezione di più gruppi neuronici e la loro organizzazione coerente produce una mappa. Ogni
mappa è specializzata ed è funzionalmente distinta dalle altre, ma i suoi gruppi di neuroni possono essere
collegati con gruppi neuronici di una o molteplici altre mappe. Il segnale del rientro avviene lungo queste
connessioni e comporta che quando un gruppo neuronico di una certa mappa viene stimolato,
contemporaneamente, attraverso il rientro, viene selezionato anche qualche altro gruppo neuronico di altre
mappe.
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L’associazione dei segnali che provengono da un insieme di mappe connesse tra loro tramite rientro con il
comportamento senso-motorio dell’animale è la categorizzazione percettiva. Esse è resa possibile dalla creazione di
una mappa globale la cui funzione è di porre in relazione i processi di selezione che avvengono nelle diverse mappe
locali a seguito di segnali sensoriali, con singole parti del cervello dotate di funzioni specifiche (come l’ippocampo o il
cervelletto) e i movimenti del soggetto al fine di elaborare una risposta di comportamento adeguata.
Questa teoria ci fa capire che il cervello è un sistema complesso, che può modificarsi nel tempo, che risente della sua
stessa organizzazione e che produce risposte sulla base di decisioni che emergono dall’interazione di tutti i fattori
coinvolti nella mappa. In secondo luogo, quando si afferma che l’esito del processo è la formulazione di una “risposta
adeguata”, si tratta di determinare cosa si intenda per l’adeguatezza di questa risposta. Essa dipende dalla sua coerenza
rispetto a determinati valori che sono fissati su base evolutiva (ritmo respiratorio, stimoli sessuali, stimoli legati
all’alimentazione) o esperienziale e servono a mantenere le condizioni che hanno a che fare con la sopravvivenza
dell’individuo (livelli omeostatici).

L’ipotesi del marcatore somatico


Una risposta a come esperienzialmente si determinino i valori in base ai quali decidere se una nostra risposta
comportamentale a un problema o a una situazione è adeguata o meno viene dalla teoria del marcatore somatico di
Damasio. Con questa teoria si cerca di dimostrare il ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella vita anche cognitiva
dell’individuo e spiega quello che accade quando nell’orientarci per una risposta piuttosto che un’altra siamo guidati
da quello che il sapere comune chiama “il nostro intuito”, come quando di fronte a una certa situazione cominciamo a
sudare, o una persona che non abbiamo mai incontrato ci incute “istintivamente” scarsa fiducia – la valutazione
“emotiva” è parte integrante dell’analisi “cognitiva” del problema.
Come si possono definire i marcatori somatici?
Esempi speciali di sentimenti generati a partire dalle emozioni secondarie. Quelle emozioni e sentimenti sono stati
connessi, tramite l’apprendimento, a previsi esiti futuri di certi scenari.
Emozione. L’insieme di cambiamenti dello stato corporeo che sono indotti in miriadi di organi dai terminali delle
cellule nervose, sotto il controllo di un apposito sistema del cervello che risponde al contenuto dei pensieri relativi a
una particolare entità, o evento. Le emozioni si suddividono in primarie e secondarie, a differenza di quelle primarie
che sono tendenzialmente innate e legate al funzionamento del sistema limbico, le emozioni secondarie sono acquisite
e comportano il coinvolgimento della corteccia frontale e delle cortecce somatosensitive.

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Sentimento. La consapevolezza da parte del soggetto dei cambiamenti organici che costituiscono la sua risposta
emotiva a una determinata situazione.
Come opera il marcatore somatico?
Pressoché tutte le nostre esperienze sono accompagnate da sensazioni piacevoli o spiacevoli che si possono definire
stati somatici. Nella misura in cui questi stati somatici insorgono in corrispondenza con determinate immagini
mentali, “marcano” in qualche modo queste immagini, vengono appunto definiti marcatori somatici. Alcuni di questi
marcatori sono innati, ovvero dipendono da emozioni primarie, ma la maggior parte di essi si generano nel nostro
cervello in relazione con le emozioni secondarie e sono quindi il risultato del bilanciamento delle nostre preferenze
interne con un insieme di fattori esterni che comprendono eventi che ci possono accadere, norme etiche, valori e
convenzioni su cui nelle diverse culture il processo di socializzazione e di istruzione si costruiscono.
I fattori interni influiscono sulla generazione dei marcatori attraverso piacere e dispiacere (ogni individuo di comporta
in modo tale da perseguire situazioni piacevoli e sfuggire da quelle spiacevoli), quelli esterni attraverso ricompensa e
punizione.
Riassumendo, il marcatore somatico è lo stato somatico che, accompagnando sulla base dell’esperienza pregressa il
presentarsi reale di una situazione o il nostro immaginarla come possibile, ci aiuta a fare previsioni su cosa ne
potrebbe derivare comportandoci di conseguenza.
La previsione e la conseguente scelta di un comportamento possono avvenire a livello conscio o inconscio. Lo schema
neurale, ovvero l’associazione del marcatore con una determinata categorizzazione di stati pregressi, è lo stesso, ma è
diverso il suo funzionamento. Nel primo caso (conscio) la nostra scelta sarà guidata dal sentimento, ovvero il
marcatore somatico sarà stato posto al centro dell’attenzione: quando “sento” che di una persona mi posso fidare, vuol
dire che questa persona genera in me emozioni (stati somatici) che presentandosi insieme mi portano
inequivocabilmente a comprendere che quando questo succede posso “abbassare la guardia” e attivare un dispositivo
di fiducia. Ma io potrei scegliere di dare fiducia a quella persona anche senza che lo schema neurale sotteso al
funzionamento del marcatore salga a livello di coscienza.
Il “luogo” in cui le mie esperienze pregresse vengono “archiviate”, marcate attraverso l’associazione a esse di
emozioni positive o negative e utilizzate per ricavare inferenze previsionali sulla base di cui orientarmi nel mio
comportamento in presenta di esperienze simili che mi si potranno presentare, sono le cortecce prefrontali.

La capacità di previsionale (evolutivamente molto importante, perché da essa dipende la capacità dell’individuo di
fuggire da eventi dannosi e ricercare eventi positivi) secondo Frith va ricercata nell’attività di un particolare tipo di
neuroni, noti come cellule di ricompensa, che sono attivi nei gangli della base e la cui funzione è di rilasciare

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nell’organismo dopamina. Le ricerche di Schultz ne hanno dimostrato l’intima relazione con il meccanismo di
previsione che è alla base dell’apprendimento.
Isolato un campione di scimmie, Schultz fa apprendere loro che a distanza di circa mezzo secondo dalla comparsa di
un lampo esse vengono ricompensate con del succo di frutta. Man mano che l’esperienza viene ripetuta e le scimmie
associano segnale e ricompensa la scarica dopaminergica si ha subito dopo la comparsa del segnale luminoso, molto
prima dell’assunzione del succo di frutta: questo significa che i neuroni dopaminergici non ratificano la ricompensa,
ma appunto la anticipano. Questo dimostra che la funzione dei neuroni dopaminergici non è semplicemente quella di
rinforzare un comportamento che prevede ricompensa, quando piuttosto quella di guidare il nostro apprendimento
aiutandoci a migliorare il nostro sistema di previsioni sulle cose del mondo.
Questo meccanismo di previsione è basato sull’attribuzione di “valore” ai diversi segnali che provengono
all’organismo. L’evento, il luogo, l’azione che precede una ricompensa acquista valore. Nella misura in cui
prevediamo che la ricompensa si presenti dopo di questo evento, esso continua ad acquistare valore; se viceversa la
nostra predilezione di dimostra falsa e quel che segue è una punizione, l’evento si svalorizza. In questo modo noi
andiamo a costituire una “mappa di valori” che sono il risultato delle nostre esperienze, dei nostri errori, delle
correzioni che sulla base di questi errori abbiamo apportato alle nostre previsioni sul mondo. Per dirla con Edelman, si
ha apprendimento quando il comportamento produce nelle mappe globali delle modificazioni sinaptiche tali da
soddisfare questi valori.

Cosa è e come avviene la conoscenza? Conoscere è prevedere, ovvero imparare ad attenersi cosa ci si potrà presentare
sulla base del modello della realtà che ci siamo formati a partire dalle strutture a priori, risultato dell’evoluzione, che
sono presenti nella nostra mente già alla nascita e dalle precedenti esperienze che abbiamo avuto. Questa attività
previsionale è possibile solo nella misura in cui le nostre esperienze vengono categorizzate in base al valore che esse
assumono per noi. Tanto nella teoria dei marcatori somatici di Damasio che nella funzione dei neuroni dopaminergici
messa in luce da Schultz, il valore ha a che fare con il riconoscimento di ciò che è per noi positivo o negativo,
favorevole o dannoso, si fonda cioè su dispositivi innati di regolazione che hanno a che fare con la sopravvivenza e la
conservazione della vita.
Nessuno di questi due processi – la previsione e la categorizzazione – sarebbe possibile senza la fondamentale
funzione dell’attenzione e della memoria che, nel continuum che porta dalla memoria di lavoro a breve termine a
quella di immagazzinamento a lungo termine, costituisce proprio la condizione senza di cui nessuna categorizzazione
o previsione sarebbe materialmente possibile.

L’intelligenza emotiva
Grazie ai rapporti che esistono tra sistema limbico e corteccia cerebrale, l’emozione esercita un effetto assai sottile sul
modo in cui valutiamo la realtà, prendiamo decisioni, interagiamo socialmente con le altre persone, com’è evidente da
quei casi clinici in cui si verificano lesioni del sistema limbico. Il sistema limbico e la corteccia frontale sono connessi
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tra loro da numerosissime vie nervose: se queste vie sono lese, o se è lesa la corteccia frontale, si verificano profonde
modifiche della vita sociale e della capacità di prendere decisioni.
Questi problemi non derivano da una perdita dell’intelligenza “razionale”, ma da una perdita di quella che D. Goleman
(2011) ha definito “intelligenza emotiva”, vale a dire dalla difficoltà ad analizzare e valutare alternative diverse o a
prendere decisione giusta in tempi brevi.
Basata su due questioni:
- Le emozioni sono “intelligenti” (hanno cioè una funzione adattiva imprescindibile e come tali vanno ascoltate
e interpretate);
- Il comportamento razionale non è proprio di chi si mantiene impassibile e neutrale, ma di chi sa fare un uso
intelligente delle emozioni, imparando a riconoscerle e a comprenderne il messaggio.
Gran parte delle nostre azioni e decisioni (come visto al paragrafo precedente) implica valutazioni emotive: non
percepire questa componente “non razionale” può portare a uno stato di indecisione o a non valutare le conseguenze di
ciò che si fa, ad avere quelli che la società definisce comportamenti “asociali” o “antisociali”. Goleman ha affrontato
la differenza tra “mente razionale” e “mente emozionale”, spiegando come la prima sia una modalità di comprensione
della quale siamo solitamente coscienti, mentre la seconda è un sistema di conoscenza impulsiva e potente. La
nozione di intelligenza emotiva implica una distinzione tra le competenze personali e le competenze sociali. Le prime
si riferiscono, in generale alla capacità di cogliere i diversi aspetti della vita emozionale, mentre le competenze sociali
si riferiscono alla modalità in cui comprendiamo gli altri e ci rapportiamo con loro. Queste capacità maturano a partire
dall’infanzia. I bambini, per poter apprendere in modo efficace, devono aver sviluppato delle capacità fondamentali di
cui fanno parte:
• La fiducia in sé stessi;
• La curiosità, basato sul fatto che la scoperta è un’attività positiva e fonte di piacere; • L’intenzionalità;
• L’autocontrollo vale a dire la capacità di modulare e controllare le proprie emozioni in modo appropriato
all’età (controllo interno);
• La connessione, ossia la capacità di impegnarsi con gli altri, basata sulla sensazione di essere compresi e di
comprendere gli altri;
• Il desiderio e la capacità di scambiare idee, sentimenti e concetti con gli altri;
• La capacità di cooperare, l’abilità di equilibrare le proprie esigenze con quelle degli altri in un’attività di
gruppo.
L’autoconsapevolezza emozionale implica lo sviluppo della capacità di riconoscere precocemente la propria emotività
a livello fisiologico (le sensazioni), a livello verbale (saper esplicitare cosa si prova, attraverso parole in grado di
descrivere un evento), a livello cognitivo (saper riconoscere ed elaborare i propri pensieri, emozioni e sentimenti),
favorendo il monitoraggio e la gestione dell’emozione.
Riassumendo, l’intelligenza emotiva include una dimensione intrapersonale e una interpersonale, reciprocamente
interdipendenti. Goleman articola l’intelligenza emotiva in cinque abilità fondamentali:
• Auto-consapevolezza (capacità di riconoscere le proprie emozioni);
• Auto-controllo (capacità di regolare e gestire le proprie emozioni);
• Motivazione (capacità di canalizzare le energie emotive per raggiungere scopi e obbiettivi);
• Empatia (capacità di comprendere le emozioni altrui);
• Arti sociali (capacità di stabilire relazioni significative e di comunicare in modo efficacie).
A livello scolastico, si può puntare a un ampliamento del repertorio linguistico e della capacità degli studenti di
parlare di sé stessi, con sé stessi e con gli altri (alfabetizzazione emotiva), per evitare episodi di violenza (su di sé o
sugli altri) o la chiusura in sé stessi dei bambini e dei ragazzi.

L’aggressività nel bambino


Aggressività e violenza sono anche forme di comunicazione attraverso cui un bambino/un ragazzo può esplicitare il
suo disagio.
Intorno a 1-2 anni un piccolo può colpire, stillare e anche mordere, ma di solito questi comportamenti non sono
considerati un problema, mentre le stesse azioni sono percepite come inappropriate in un bambino di 3-4 anni: si
ritiene infatti che a questa età un piccolo dovrebbe avere maggiore controllo, anche se il suo cervello, dal punto di
vista emotivo, è tutt’altro che maturo e la sua capacità di moderare le proprie reazioni è assai scarsa. Stare calmi e
controllarsi, ance in ambiente scolastico, non dipende però soltanto da una forma di autocontrollo e autodisciplina che
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fa capo alla supervisione esercitata dalla corteccia cerebrale, ma pure dalla comprensione delle regole sociali e morali
– fino ai 5/6 anni si ha una scarsa comprensione di ciò che è socialmente accettabile. Inoltre, quando i bambini sono
molto eccitati, dimenticano quelle norme che invece rispettano in situazioni normali.
i giochi di movimento e in generale le attività motorie favoriscono l’affiatamento e l’empatia, e incoraggiano i
bambini a giocare insieme. Al contrario, un bambino che non ha modo di giocare e di esplorare liberamente
l’ambiente può manifestare varie forme di violenza o adottare comportamenti prepotenti e aggressivi per ottenere
attenzione, per essere riconosciuto. Rispondere ai comportamenti violenti di un bambino o di un preadolescente con
comportamenti violenti non fa altro che innescare un circolo vizioso: la punizione, infatti, può essere percepita
comunque come una forma di attenzione, seppur in negativo.
Giochi di movimento e giochi virtuali
Gioco e apprendimento sono strettamente intrecciati: giocare è utile sia per gli apprendimenti aspecifici, cioè per
promuovere la maturazione delle funzioni cognitive, sia per promuovere apprendimenti specifici, cioè per imparare
nozioni, concetti, strategie in modo ludico, senza fatica.
negli anni dell’infanzia il gioco è importante perché un bambino impara a padroneggiare i propri movimenti e, in
seguito dai 2 ai 6-7 anni, passa alla fase del gioco simbolico, che implica lo sviluppo della fantasia e la capacità di
formale ipotesi. In questi giochi il ruolo dell’adulto dovrebbe essere il minimo, per non interferire con lo sviluppo
dell’autonomia e dell’individualità del bambino.
il gioco di ruolo inizia intorno ai 6-7 anni e dura tutta la vita. È attraverso i giochi di ruolo che si imparano le regole
del gruppo (e quindi della società), sia che i ruoli si riferiscano alla realtà – quella della famiglia, della classe ecc. -,
sia che si riferiscano alla realtà all’immaginario, per esempio quello televisivo. Gli adulti possono intervenire in
questa fase proponendo o fornendo alcuni modelli per giochi di ruolo: in tal modo si può favorire la capacità di
imparare un insieme di regole, una capacità generale che sarà utile in altri ambienti.
La connotazione emotiva dell’esperienza ci introduce a un altro argomento particolarmente importante: quello relativo
al tipo di attività praticate oggi dai bambini, alla crescente contrazione dei giochi tradizionali a favore di quelli virtuali
che mettono in gioco l’emozione ma non sviluppano l’intelligenza emotiva.
La realtà virtuale è fatta prevalentemente di immagini bidimensionali invece che di parole, di passività invece che di
esperienze attive sensoriali e motorie in spazi a tre dimensioni su realtà e materiali diversi, viventi e non, soffici e
duri, caldi e freddi: essa non è perciò l’ambiente ideale per favorire lo sviluppo della mente infantile, che è concreta,
basata sull’interazione diretta, su una serie di tentativi, anche infruttuosi, promossi dal bambino e non prefigurati dal
programma, su tempi lenti anziché rapidi. Queste caratteristiche della mente infantile furono descritte da Maria
Montessori nel volume la mente del bambino: prima ancora della nascita delle neuroscienze e della psicologia
cognitiva, la pedagogista aveva notato come le esperienze dirette e le impressioni che esse lasciavano non si
limitassero a penetrare nella mente del bambino, ma la formassero: “esse si incarnano in lui. Il bambino crea la
propria “carne mentale”, usando le cose che sono nel suo ambiente. Abbiamo chiamato il suo tipo di mente, Mente
Assorbente” (Montessori).

Immagini, immaginazione e immaginario


Il confine tra immagini mentali e immaginazione è spesso tenue. Per un bimbo, un sasso può trasformarsi in
un’automobilina, uno stecco in un treno, una patata nella testa di una bambola: attraverso la fantasia, immaginando
una realtà diversa rispetto a quella sensoriale, sono creati nuovi mondi che suscitano emozioni.
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Oggi, a causa della pervasività dei media e delle tecnologie dell’immagine, esiste una forte differenza tra immaginario
e immaginazione: il primo è una specie di viaggio organizzato; l’immaginazione un percorso che va costruito, passo
dopo passo, e che mobilità risorse cognitive.
L’immaginario, pur con tutto il suo fascino, è prevalentemente passivo, l’immaginazione implica invece un’attività
creativa della mente, si basa sul pensiero simbolico, sulla capacità di creare un’immagine di qualcosa, sul saper “far
finta che”, come avviene in molti giochi infantili. la diffusione di un mondo mediatico ha reso più sfumati i confini tra
vero e falso, fattuale e virtuale, realtà e rappresentazione. I media, e tra essi la televisione, hanno il potere di far
sembrare falso ciò che è reale (la guerra, per esempio) e rendere reale ciò che è finzione (gli avvenimenti nei reality
show). Questa confusione deriva dal fatto che il nostro cervello è prevalentemente visivo, crediamo a ciò che
vediamo, e un bambino, che ancora non possiede grandi capacità di analisi e ha una mente concreta, ritiene che tutto
ciò che è rappresentato visivamente esista davvero. Nella lettura, invece, la mente deve prestare immagini alle parole,
i tempi sono lenti, tutto va rielaborato.
il massiccio flusso di informazioni e notizie al quale siamo quotidianamente sottoposti dai mezzi di comunicazione di
massa ha come effetto una sorta di auto-anestesia, di desensibilizzazione: uno stesso stimolo o una stessa immagine,
monotona e ripetitiva, non attira più la nostra attenzione e infine viene ignorata. È questo il meccanismo che porta alla
desensibilizzazione nei confronti della violenza o in generare delle immagini che suscitano emozione.
È noto orami che le immagini osservate al televisore hanno un impatto maggiore e sono più stabili e invasive di quelle
che ci siamo formati in autonomia, rappresentandoci idealmente la realtà. È importante, allora, aiutare i bambini a
sviluppare le capacità di visualizzazione, in modo da indurli di lavorare di fantasia. Inoltre, è consigliabile limitare
l’uso dei media digitali prima dei 6-7 anni, così da non interferire con lo sviluppo della sua mente.

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Il “cervello che legge”
Il problema della Literacy, del rapporto tra sviluppo delle competenze di letto-scrittura e organizzazione neurale.

L’idea che esista una relazione precisa tra il sistema attraverso cui l’uomo comunica (la sua tecnologia di

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comunicazione) e il modo in cui il suo pensiero si va strutturando non è una novità. È possibile ricondurla a una linea
di filiazione teoria che con Meyrowitz (1985) si può definire “teoria del medium” e che è contraddistinta dall’idea che
l’impatto maggiore sulla storia della nostra cultura non venga prodotto dei contenuti dei medi, ma dalla loro
architettura. Il vero messaggio – citando McLuhan – non è il contenuto che i media veicolano, ma il mezzo stesso. De
Kerckhove riprende queste idee e le utilizza sulle “psicotecnologie” (*). Tre ipotesti fanno da linee-guida alla sua
teoria del Brainframe:
• La corrispondenza tra struttura ortografica e direzione della scrittura (è il modo in cui un alfabeto organizza la
sua scrittura che incide sul fatto che essa si orienti, per esempio, da sinistra a destra);
• La relazione tra direzione della scrittura e dinamica della lettura (le scritture che richiedono un riconoscimento
di segni basato sul contesto si orientano da destra a sinistra, quelle che invece richiedono un riconoscimento di
segni basato sul loro allineamento in una sequenza si orientano da sinistra a destra);
• La capacità della scrittura di retroagire sul cervello condizionando le sue abitudini di elaborazione dei dati in
suo possesso.
In buona sostanza, l’idea è che il modo in cui una determinata forma di scrittura è organizzata richieda al nostro
cervello l’attivazione di determinate routines e che queste finiscano per condizionare in generale come noi costruiamo
la nostra attività cognitiva. La scrittura definisce la nostra cornice mentale. È questo in forma sintetica il contenuto
della teoria del Brainframe: imparare a leggere e scrivere un testo alfabetico condizionerà le operazioni di base della
coordinazione occhio-cervello. Queste ultime a loro volta producono un effetto di feed-back su altri processi sensoriali
e psicologici.
Brainframe occidentale: coordinazione occhio-cervello/direzione della scrittura; linearità e contiguità/sequenzialità –
temporalità; scomposizione/analisi; scomporre e ricomporre; concettualizzazione-astrazione.

Tocca allora chiedersi, leggere modifica il nostro cervello?


La risposta può essere cercata su base neurobiologica. Degli studi condotti, attraverso tecniche di brain imaging, sul
cervello di soggetti che leggono in lingue diverse hanno dimostrato innanzitutto che il cervello si adatta a leggere
diversi sistemi di scrittura e facendolo attive vie nervose differenti. Ma soprattutto fanno vedere chiaramente come,
trasversalmente rispetto alle diverse lingue, le regioni cerebrali implicate nell’atto della lettura siano le stesse:
1. La circonvoluzione temporale superiore posteriore sinistra;
2. La circonvoluzione frontale inferiore sinistra;
3. La regione occipitotemporale sinistra (due foci: la regione fusiforme posteriore/occipitale inferiore e la
circonvoluzione fusiforme media.
L’insieme di queste regioni viene definito sistema universale di lettura e dimostra, come suggerisce la Wolf che
“leggere in qualsiasi lingua cambia il cervello”.

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La Wolf ricostruisce il processo che conduce ciascun bambino dal non saper leggere a farlo in maniera fluida e vi
individua cinque tappe che definisce in relazione ai diversi profili di lettore che di ciascuna di esse sono protagonisti:
il pre-lettore emergente, il lettore neofita, il lettore decodificante, il lettore fluido, il lettore esperto.
Il pre-lettore emergente è il bambino in quell’età, che normalmente precede i 5/6 anni, in cui tutto un insieme di
esperienze ancora al di qua del compito dell’alfabetizzazione strettamente inteso creano le condizioni perché possa
(o non possa) diventare un giorno un lettore esperto. Questa fase è caratterizzata da alcune esperienze di fondamentale
importanza: il fatto che il bambino associ l’ascolto della lingua scritta con una situazione piacevole e accogliente;
l’apprendere dalle illustrazioni dei libri i nomi delle cose arricchendo il suo lessico, ovvero favorendo il suo sviluppo
semantico; la progressiva formazione nel bambino della capacità di riconoscere e analizzare i fonemi delle parole
(sviluppo fonologico), di comprendere via via frasi più complesse (sviluppo sintattico), di apprendere a usare le regole
sociali della lingua parlata (sviluppo pragmatico).
Il passaggio al lettore neofita è da porre in relazione con l’inizio dell’apprendimento alfabetico. Esso normalmente si
colloca tra i cinque e i sette anni di vita del bambino per precise regioni biologiche. L’atto della lettura richiede
l’integrazione di un complesso di informazioni che provengono da diverse aree del cervello. Questo implica una
adeguata velocità nella trasmissione dei segnali e il compiuto sviluppo di tutte le aree coinvolte, in modo particolare la
circonvoluzione angolare che è fortemente coinvolta nel lavoro di “regia” delle varie informazioni. Ora, la velocità di
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trasmissione dipende dalla mielinizzazione delle fibre nervose e questo processo, nel caso di alcune aree come la
circonvoluzione fusiforme, non si completa prima dei 5 anni.
Man mano che il bambino acquista sicurezza si avvia versi la fase del lettore decodificante (o semi-fluido) che
trapassa gradualmente in quella del lettore fluido. In questa fase egli deve passare dalla lettura esitante dei primi passi,
in cui il riconoscimento e la composizione dei fonemi per ottenere parole più complesse e poi periodi di senso
compiuto avviene con lentezza e per così dire “ad alta voce”, alla lettura quasi sicura di chi legge con buona
padronanza dei processi. Il supporto a questa transizione è garantito sul piano teorico-linguistico dal potenziamento
della visione a blocchi (sight chunks) e della visione a parole (sing words): se già conosco i tre blocchi “in”, “contr” e
“are”, il riconoscimento nella lettura della parola “in-contr-are” diventa più facile; lo stesso capita, al livello superiore,
quando il riconoscimento non è effettuato sui blocchi ma direttamente sulle parole che essi concorrono a comporre.
Sul piano neurale questi processi sono sorretti dallo sviluppo di alcune funzioni non linguistiche che però sono
importanti in relazione alla performance linguistica: si pensi a funzioni come la memoria di lavoro o a funzioni
esecutive come la capacità di ricorrere all’analogia e di sviluppare inferenze.
Il cervello del soggetto che legge fluidamente presenta una progressiva riduzione dell’attività biemisferica a favore di
una “specializzazione” della parte sinistra e anche un utilizzo progressivamente sempre minore di superficie corticale:
nella misura in cui esso sviluppa schemi e forme efficaci di riconoscimento visivo e diventa abile nel richiamare alla
memoria in tempo breve le informazioni semantiche che gli servono, la sua attività si fa decisamente più economica
ed efficace.
Il punto di arrivo di questa avventura evolutiva (che in fondo si può leggere sia a livello individuale che della specie) è
lo stadio del lettore esperto. Esso è contraddistinto dal fatto che egli è in grado di leggere praticamente ogni parola in
mezzo secondo (non ci rendiamo conto dell’enorme complessità di questa pratica proprio grazie alla velocità in cui la
mettiamo in pratica dopo averla resa automatica – automatismo).

La Wolf sinteticamente afferma che sono fondamentalmente tre i vantaggi neurobiologici che provengono a un
cervello che legge: l’arricchimento del repertorio emotivo, la capacità di riconoscere configurazioni, lo sviluppo di
capacità inferenziali.
Infine, sul piano strettamente semantico, mente si legge si attivino tutta una serie di processi esecutivi che consistono
nell’anticipare quello che potrà succedere attraverso le informazioni che si sono ricavate dal contesto, nel riportare
quello che stiamo leggendo alle nostre esperienze e viceversa attraverso una fitta rete di atti identificativi e proiettivi,
infine nell’integrare il testo riempiendo con l’immaginazione gli spazi che rimangono percettivamente vuoti e andando
oltre il testo attraverso il lavoro dell’interpretazione – entrare dentro la lettura e poi andare oltre.

Multiliteracy. Essa fa riferimento, in primo luogo, alla realtà complessa entro cui il soggetto si trova immerso oggi,
dal punto di vista del compito della sua alfabetizzazione. Questa realtà è fatta dei molti linguaggi specializzati delle
singole discipline e delle singole aree di sapere, ma anche delle differenze di valori e culture che si sperimentano in
una società sempre più interculturale. Stando alla terminologia di Gee, ciascuno di noi e dei nostri studenti si trova
oggi a giocare la partita dell’apprendimento e della costruzione dei significati in molti domini semiotici differenti,
ciascuno con le sue grammatiche interne ed esterne. Tutto questo richiama la necessità di promuovere un
apprendimento flessibile e dinamico in gradi di muoversi trasversalmente rispetto ai diversi setting e sistemi di codici.
Ma vi è anche una seconda dimensione della multiliteracy che fa riferimento alla indispensabile multimodalità di
approccio che si richiede al soggetto che si rapporta a un universo semantico come quello della società attuale che è
segnato non solo da una molteplicità di saperi e di culture, ma anche da una pluralità di linguaggi e di sistemi di codici
(con le relative modalità di percezione) che eccedono la dimensione tradizionale:
- Il linguaggio orale;
- Le diverse forme della rappresentazione acustica (musica, suoni ambientali, rumori);
- La rappresentazione tattile (sinestesia, contatto fisico, sensazioni epidermiche, oggetti manipolabili, artefatti,
aromi);

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- La rappresentazione gestuale (movimenti delle mani, espressioni del volto, sguardo, postura del corpo,
abbigliamento, costruzione).
Questa molteplicità di espressioni mette in conto l’emergere di nuove pratiche testuali, il nuovo ruolo del lettore che,
grazie ai link ipertestuali e alle tecnologie autoriali, è sempre più produttore, partecipante attivo, infine la ridefinizione
delle relazioni sociali.
Proviamo a vedere in che senso questo tipo di situazione interpelli le neuroscienze e, a partire da esse, la didattica.
Multimodalità, multimedialità, pluralità di linguaggi integrati sono aspetti che stanno trasformando i supporti grazie ai
quali facciamo appropriazione del sapere. Le forme testuali di oggi abbandonano sempre di più il supporto cartaceo
per quelli digitali, esistono nella e dell’interazione intrattengono con il lettore, favoriscono approcci improntati a una
logica temporale e non spaziale (ovvero si caratterizzano per una successione di azioni ed eventi, piuttosto che per una
presentazione simultanea), non coinvolgono solo la vista ma allo stesso tempo l’udito e sempre più significativamente
la dimensione tattile come fatto notare precedentemente. Imparare a “leggere” queste forme chiede di sviluppare
competenze che sono in larga parte nuove rispetto a quelle che generazioni di bambini, noi compresi, hanno sempre
sviluppato leggendo sui supporti tradizionali improntati alla forma libro. Henry Jenkins ha censito undici di queste
competenze che secondo lui richiedono oggi di essere sviluppate in maniera coerente rispetto alle caratteristiche del
contesto socioculturale che abbiamo sinteticamente descritto. Tra queste, quelle che possiamo legare alla multiliteracy
sono: simulazione, appropriazione e navigazione transmediale.
- Simulazione. Si tratta di una competenza procedurale (Bogost, 2005), cioè della capacità di guardare le cose
da prospettive diverse, da punti d’osservazione differenti, elaborando molteplici schemi interpretativi. Anche
la lettura, attraverso la relazione con il mondo immaginario descritto dall’autore, ci permette di creare mondi
possibili (dialogo interiore – virtuale), senza tuttavia che questa attività venga sorretta dall’esperienza
percettiva che dentro lo spazio della simulazione viene supportata (cyberspazio).
- Appropriazione. Fa riferimento ai modi attraverso i quali ci impossessiamo dei significati, producendone
creativamente altri. L’interazione coi media digitali mette in evidenza la possibilità di produrre conoscenza
(non solo fruirne), creare contenuti, significati, non solo immaginandone di nuovi, ma riorganizzando,
rifinalizzando, ridefinendo in forme nuove quei significati di cui disponiamo. In tal senso si sviluppano e
germogliano le pratiche del ripping, burning, sharing, downloading, ecc., che presuppongono capacità di
networking e intelligenza distribuita: nella misura in cui molte nostre operazioni cognitive trascendono lo
spazio in senso stretto mentale e trovano nei supporti tecnologici e negli ambienti on line la loro collocazione,
e quindi tale attività di appropriazione concerne anche la capacità di recuperare, filtrare informazioni
provenienti dal ciberspazio.
- Navigazione transmedia (o crossmedia). L’abilità, cioè, di ricercare e utilizzare le informazioni recuperate
attraverso il passaggio da sistemi informatici, piattaforme tecnologiche, ambienti digitali diversi,
sinergicamente legati in un continuum esperienziale che vive in un iterativo processo di importazione ed
esportazione delle informazioni in contesti nuovi, diversi, multimodali.

Una reazione possibile allo sviluppo di queste neocompetenze è che esse rappresenterebbero la conferma della nascita
di una nuova intelligenza digitale producendo trasformazioni neurologiche così significative sul cervello umano da
decretare il superamento del “cervello alfabetico” costruito attraverso secoli di dominio culturale della lettura fonetica.
Proprio questa previsione alimenta le preoccupazioni di chi pensa che se l’acquisizione delle nuove competenze
comporta la perdita delle vecchie, allora lo sviluppo dei media digitali finirebbe per produrre, sul lungo termine, il
venir meno di quelle abilità cognitive fondamentali che la ricerca ha dimostrato essere strettamente connesse con il
mondo alfabetico: la capacità di calcolo, di argomentare, la consapevolezza riflessiva, la capacità decisionale e i
processi induttivi e deduttivi. Prendiamo in considerazione, però, adesso questi punti. Anzitutto l’evoluzione
tecnologica non procede mai per sostituzioni, ma per integrazioni: ogni nuova tecnologia – anche con l’avvento della
scrittura rispetto all’oralità primaria è stato così – non prende mai il posto della precedente, ma le si affianca. In
secondo luogo, proprio perché quello in cui viviamo è un contesto multimediale e multimodale, dobbiamo confidare
nel fatto che gli individui sviluppino fin da piccoli l’abitudine a muoversi in esso lavorando cognitivamente su diversi
tipi di forme testuali, da quelle letterarie tradizionali a quelle ipermediali attuali. L’insegnante dovrebbe favorire
questa versatilità promuovendo la loro capacità di essere BITESTUALI o

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MULTITESTUALI, cioè capaci di leggere i testi in modo flessibile in modi diversi. Le due forme testuali (analitico,
inferenziale, lineare vs sincretico, simultaneo, multitasking) devono essere considerate in una logica di
interdipendenza dinamica.

Il cervello visivo
Punto chiave: Come si fa a costruire una comunicazione adeguata con e tra gli studenti?

Teoria della visione


Gli studiosi Hubel e Wiesel (anni ’50 – Università di Harvard) dimostrarono che i neuroni della corteccia visiva non si
attivano tutti nello stesso modo. Ciascuno di essi risponde a un determinato elemento dell’immagine: un neurone è
sensibile a una linea orizzontale, un altro a una linea verticale; un neurone a un bordo che separa una zona di luce da
una di buio. Alcuni reagiscono a stimoli monoculari (occhio destro o sinistro), altri binoculari, ecc. nella corteccia
visiva i neuroni sono disposti in super-circuiti, che decodificano i differenti input visivi che poi vengono integrati nei
centri visivi superiori (quali la parte inferiore del lobo temporale), che ne ricompongono il “puzzle”. Questi neuroni
iniziano a maturare le proprie capacità di codificare gli stimoli visivi subito dopo la nascita, soltanto però se l’occhio è
esposto a tali stimoli. L’importanza della varietà dell’esperienza visiva è determinare per arricchire il repertorio di
voci (linee, oggetti, colori, ecc.) e di riferimenti incrociati (linee che formano un quadrato, ecc.) – Rizzolatti, Vozza
(2015).

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La visione è il processo di scoperta, a partire delle immagini, di cosa è presente nel mondo visivo e di dove esso è.
Questo implica che il cervello ha due vie di elaborazione parallele, una che si occupa delle caratteristiche delle
immagini, una che si occupa della sua locazione nello spazio: via del cosa e via del dove. Entrambe le vie iniziano
nella retina, lo strato di cellule fotosensibili nella parte posteriore dell’occhio. L’informazione visiva (luce riflessa-
lunghezza d’onda) viene rifratta dalla cornea dell’occhio e proiettata sulla retina. L’immagine retinica risultante è
essenzialmente un pattern di luce che cambia d’intensità e lunghezza d’onda nello spazio e nel tempo. Le cellule della
retina si dividono in due categorie: bastoncelli e coni. I bastoncelli sono sensibili all’intensità della luce e sono usati
per la visione in bianco e nero. I coni sono meno sensibili alla luce ma condividono informazioni sul colore. I coni
sono di tre tipi, ciascuno dei quali risponde a lunghezze d’onda diverse, che vanno a formare tutti i colori dello spettro
visibile. I coni si trovano prevalentemente nel centro della retina (fovea: dove vengono registrati i dettagli visivi più
fini; i bastoncelli della visione in bianco e in nero sono prevalenti nelle zone periferiche della retina. La retina invia
l’informazione visiva al corpo genicolato, che la trasmette alla corteccia primaria.

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Come funziona il cervello visivo

L’attuale teoria della visione immagina il processo della visione come un sistema di specializzazione funzionale. Il
nervo ottico conduce i segnali visivi in V1 che svolge una funzione di centrale di smistamento degli stessi servendosi
per la trasmissione di V2. Tutte le aree (V3, V4, V5 ecc.) sono deputate al processamento di singoli aspetti del segnale
visivo: il colore, la forma, il movimento ecc. Questa specializzazione è dovuta al fatto che i singoli neuroni hanno
sviluppato una sensibilità selettiva per un determinato aspetto dello stimolo visivo e non per altri (alcuni reagiscono al
colore, ma non alla forma o al movimento; e tra quelli che reagiscono al colore ve ne sono che reagiscono solo al
bianco e non ad altri colori).
L’organizzazione di queste cellule è modulare. Questo significa che le cellule sensibili allo stesso aspetto dello
stimolo visivo non si trovano necessariamente tutte nello stesso luogo. Esse sono viceversa organizzate in nodi
composti da sottosistemi di cellule specializzate (blob) in V1, da strisce sottili di cellule anch’esse specializzate in V2,
dalle cellule di una determinata area specializzata (V3, V4 ecc.); ciascuna di queste aree specializzate sviluppa
relazioni sinaptiche sia, a ritroso, verso le strisce di V2 e i blob di V1 relativi alla loro specializzazione, sia verso le
altre aree. Dal punto di vista funzionale, questa organizzazione modulare lavora in parallelo, ovvero componenti
diverse dello stesso segnale vengono processate, nello stesso tempo, in nodi diversi. Quando in uno di questi nodi
l’attività neurologica conduce alla rappresentazione esplicita di un determinato attributo (per esempio il colore) senza
bisogno di ulteriori elaborazioni, quel nodo prende il nome di nodo essenziale. “un nodo essenziale è una parte del
cervello che, se distrutta, causa un deficit specifico per una classe di percetti: per esempio, il volto, il movimento, il
colore, o la percezione della paura.” Al fatto che ci si renda conto di queste rappresentazioni esplicite (ovvero che
siano percepite) si è il nome di micro-coscienza.

Presupposti del cervello visivo:


• La visione non è un processo di registrazione passiva ma di attività di elaborazione dei dati percepiti da parte
del cervello: non è l’occhio, ma è il cervello che “vede”;
• Non è possibile separare localizzandole le due attività della percezione delle forme e delle figure e della
comprensione del loro significato: l’esistenza di nodi essenziali dimostra che in presenza di determinate
condizioni (come la consapevolezza di una modificazione del percetto) una sede percettiva funziona al tempo
stesso come sede di elaborazione dei dati che essa percepisce;
• L’organizzazione del cervello visivo è sistemica (ovvero basata su una specializzazione distribuita di
“competenze” funzionali) implica che tutte le aree visive coinvolte svolgono una funzione importante
nell’ambito dell’economia generale della visione.

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Costanza e ambiguità nella percezione visiva
Torniamo alla funzione principale del nostro cervello visivo che è quella di dare un ordine, semplificandone la densità
informativa, all’insieme delle immagini che si affollano davanti ai nostri occhi. La possibilità di fornire questo ordine
dipende dalla capacità del nostro cervello di individuare delle regolarità, sia a livello percettivo che cognitivo.
L’attività grazie alla quale queste regolarità vengono individuate, tralasciando gli aspetti specifici che il singolo
oggetto presenta per isolare quel che invece lo rende comparabile e riportabile ad altri oggetti, si definisce astrazione.
Il nostro cervello è capace di due forme di astrazione. La prima di esse – la chiameremo astrazione percettiva – è la
conseguenza della specializzazione dei singoli neuroni visivi. Per esempio, i neuroni che sono selettivi rispetto
all’orientamento delle figure nello spazio tenderanno ad “astrarre” (ovvero a considerare in maniera esclusiva) gli
elementi che sono riconducibili al solo orientamento spaziale, disinteressandosi completamente dal colore, della forma
o delle dimensioni. Ad analoghe conclusioni conduce lo studio, con tecniche di neuroimaging, della relazione
esistente tra un certo tipo di attività che viene fatta svolgere al soggetto e le porzioni della corteccia che si illuminano
corrispondente a questa attività – si è in grado di categorizzare le esperienze sulla base delle loro caratteristiche
percettive o del giudizio che si formulano su esse.
La seconda forma di astrazione – che possiamo definire astrazione identificativa – non riguarda la specializzazione
dei singoli neuroni ma la tendenza generale del nostro cervello di riconoscere dietro alla variabilità delle diverse
percezioni la permanenza di alcune caratteristiche (costanza percettiva) che consentono di cogliere un’identità
“dietro” a queste percezioni. Se non ci fosse possibile riconoscere questa costanza percettiva quel che otterremo
sarebbe solo un flusso sempre variabile di percetti rispetto ai quali sarebbe impossibile definire un senso. Il
concorso di questi due tipi di astrazione consente di giungere a definire una delle leggi fondamentali in base alle
quali il cervello visivo agisce: la legge della costanza.
Essa ci dice che il cervello è interessato unicamente alle proprietà invarianti, essenziali e non-mutevoli degli oggetti,
delle superfici, delle situazioni, e di molto altro ancora, laddove le informazioni che riceve non sono mai costanti,
bensì cambiano di istante in istante. Per il cervello è imperativo eliminare tutto ciò che non gli è necessario per
identificare oggetti e situazioni, ovvero concentrarsi solo sulle caratteristiche essenziali e costanti dell’evento
percettivo.
Quando il campo percettivo suggerisce già quali siano le regolarità in base alle quali ricercare la costanza, il compito
del cervello è abbastanza semplice. Ma questa situazione non si presenta sempre. Normalmente, invece, il campo
percettivo è ambiguo, ovvero presenta al cervello più soluzioni tutte altrettanto valide, secondo una gamma di
probabilità che va da un’ambiguità “semplice”, in cui tra le soluzioni probabili ve ne sono di più probabili, a
un’ambiguità “complessa” che è il caso in cui tutte le soluzioni si presentino come equiprobabili.
Esempi di ambiguità del primo tipo sono quelli che la psicologia della percezione da tempo conosce in relazione al
fenomeno delle illusioni ottiche, dove l’ambiguità è sufficientemente stabile: per quanto in maniera non
semplicemente univoca, risulta abbastanza facile dirimerla facendo prevalere una delle possibili percezioni in conflitto
(ambiguità limitata, ambiguità bistabile). Le cose stanno diversamente nel caso dell’ambiguità che abbiamo definito
complessa, come avviene per le sculture, le immagini della pittura, o della fotografia. L’instabilità dell’immagine non
dipende dai suoi caratteri percettivi, ma dalla sua dimensione cognitiva: possiamo dire che si passi da un’ambiguità
percettiva a un’ambiguità semantica. L’ambiguità cognitiva derivata da una tela attiva il nostro cervello e libera il
gioco delle interpretazioni. Si verifica, infatti, l’attivazione contemporanea di più aree corticali: oltre a quelle della
visione, con le loro diverse funzioni, anche quelle della memoria (perché i diversi stimoli che l’osservazione
dell’opera induce evocano volti, esperienze o situazioni già vissuti) e dell’emozione. In questa “inferenza” tra
differenti attività corticali (e nel corrispondente “conflitto delle interpretazioni” che a livello superiore si sviluppa) si
può forse individuare la base neurofisiologica di quello che la filosofia dal Settecento definisce “piacere estetico”.

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Modularismo fodoriano e didattica

Come abbiamo visto, nei nuovi orizzonti educativi virtuali la conoscenza elettronica deve essere pensata nel suo
duplice asset di contenuto e di relazione, in virtù delle caratteristiche proprie della rete internet di ipertestualità,
scambio e condivisione delle informazioni. Pertanto, riflettere sul tema modularismo e didattica modulare può servire
a legittimare un tipo di organizzazione educativa, rispetto ai contenuti, più rispettosa dei modi attraverso i quali i
processi cognitivi accolgono, elaborano e memorizzano tali informazioni. Infatti, l’organizzazione modulare dei
contenuti rispecchia la trasformazione del sapere prodotta dall’avvento delle tecnologie telematiche, così come
agevola un’organizzazione disciplinare flessibile e interrelata più adatta a sostenere l’ipotesi di una didattica dei
processi.

Modulo. Dal latino modulus, diminutivo di modus, significa misura, regola, modello, ma anche sezione di
un’apparecchiatura con caratteristiche specifiche. Nel concetto di modulo esistono quindi due dimensioni: una
strutturale e una funzionale.

Modularismo fodoriano. Fodor con la definizione di mente modulare indica l’architettura della stessa, spiegando come
i nostri meccanismi psicologici siano regolati e attivati da domini cognitivi ben distinti gli uni dagli altri. Questi
domini hanno struttura e compiti diversi e nella loro forte specificità risiede la maggiore funzionalità. In tal senso i
moduli sarebbero scatole specializzate e autonome l’una dall’altra, che generano output per i sistemi cognitivi centrali.
Dispositivi neurali, quindi, che mediano il rapporto con l’ambiente esterno con precise funzioni: inviare informazioni
derivate dall’ambiente convertendole in rappresentazioni, mantenendone il contenuto conoscitivo. Il transito in
direzione bottom-up delle informazioni attraverso i sistemi di input coincide con la loro con la loro trasformazione in
simboli omogenei al linguaggio del pensiero. Questi domini hanno, quindi struttura e compiti diversi e nella loro
specificità funzionale, così come nella loro autonomia e impermeabilità, risiede l’alta operabilità. Questo modo di
procedere della mente, che utilizza delle strutture indipendenti l’una dall’altra, così come l’iter seriale di analisi e
scomposizione degli stimoli, per Fodor riguarda esclusivamente i momenti in cui veniamo colpiti dagli stimoli esterni,
differentemente dai processi cognitivi centrali. Una visione molecolare fodoriana che non esclude un’attività molare
della mente.

Gli strumenti di neuroimaging hanno evidenziato come i processi mentali abbiano caratteri e modalità di
funzionamento sia dominio-specifici e seriali che dominio-generali e paralleli. A questo proposito si può parlare di
zone di convergenza che fungono da raccordo delle informazioni dove gli elaboratori di input si interfacciano
reciprocamente rendendo le proprie inferenze disponibili e condivisibili reciprocamente.
Il funzionamento del cervello visivo è un esempio di ciò: si tratta di un sistema di specificazione funzionale che si
esplicita con la sensibilità selettiva dei diversi neuroni e cellule che lo compongono. Un’organizzazione modulare,
parallela e simultanea dedita all’elaborazione degli stimoli visivi esterni, stimoli che vengono inizialmente processati
in modo separato per poi convertire in un'unica elaborazione formatasi nell’area associativa (zona di convergenza).

Connessionismo. Su tali presupposti il connessionismo ha poggiato le proprie basi scientifiche e argomentative, con le
quali modellizza la mente come una rete neurale artificiale dove le rappresentazioni corrispondono a patterns di
attivazione dei neuroni. Grazie all’elaborazione distribuita in parallelo tale struttura reticolare e funzionale ricava la
rapidità di elaborazione delle informazioni.

Nonostante l’apparente siano apparentemente opposte come teorie, è possibile definire una zona di convergenza tra il
modularismo fodoriano e il connessionismo: una visione sistemica della realtà, dove la metafora della rete, esplicitata
nel termine connessionismo, aggiunge valore all’integrazione e alla sinergia di più elementi, sia strutturali che
funzionali e informativi, mantenendo intatta l’idea di autonomia delle parti che compongono la stessa realtà.

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È mantenendo in mente questa concezione di realtà che si deve costruire una didattica modulare. Ma facciamo un
passo indietro, un modulo didattico è un insieme di unità di apprendimento, specifico per dominio ed autonomo grazie
alla relazione (collegamento) con gli altri. Inoltre, ogni modulo è modificabile. Di conseguenza dobbiamo
considerarlo come un sistema dinamico basato su una concezione reticolare della conoscenza (e-knowledge). In
questo senso, le caratteristiche di componibilità, integrabilità e riutilizzabilità, proprie della programmazione
modulare in ambito formativo, trovano nuovo vigore nell’ottica della didattica dei processi, in virtù di quella
necessaria impostazione interdisciplinare e cross-mediale che superi il nozionismo e la linearità delle prassi didattiche
relazionali. Conoscere vuol dire cogliere le peculiarità del sapere nella piena consapevolezza che esse sono tasselli di
un mosaico molto più ambio e complesso che probabilmente non sarà mai pienamente compreso. Ciò che deve
importare per l’educatore che adotti l’ipotesti teorico-operativa della didattica dei processi è il modo in cui i soggetti
costruiscono i propri saperi, le proprie idee, si appropriano delle teorie ricostruendole e reinventandole seguendo i
propri caratteri distintivi: l’insegnante si definisce in tal senso come “maestro di cerimonia”, cioè come colui che deve
favorire e sviluppare la creatività, forme di conoscenza a partire dagli interessi e dal background esperienziale dei
propri alunni, e non invece avere come obiettivo quello di inculcare agli stessi contenuti decontestualizzati, statici. A
tal riguardo, l’azione didattica deve necessariamente puntare su di un’attenta programmazione che preveda percorsi
formativi differenziati, tipologie comunicative multimodali, strategie e tattiche educative adeguate alle specifiche
situazioni di apprendimento. Modulare l’azione didattica, sotto l’impostazione che definisce appunto quest’ultima
come orienta ai processi, significa progettare, misurare l’erogazione dei contenuti e delle attività di pratica in
proporzione alle differenti caratteristiche dei soggetti: ciò serve, per in definitiva, a produrre effetti gradevoli, piacere
nello studiare e, quindi, solide competenze.

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