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La teoria di periodizzazione più consolidata é quella che individuo l’inizio del medioevo nel
476, con la caduta dell’impero romano d’Occidente. In quell’anno infatti Odoacre depose
l’imperatore Romolo Augustolo e inviò le insegne imperiali a Costantinopoli. Molte altre date
sono state proposte come momento di inizio del medioevo, ad esempio:
● 313 - anno in cui l’imperatore Costantino concesse la libertà di culto ai cristiani
● 324 - anno un cui l’imperatore Costantino rifondò la città di Bisanzio sul Bosforo con
il nuovo nome di Costantinopoli e divenne la seconda capitale dell’impero
● 410 - anno in cui per la prima volta, dopo secoli, Roma fu violata dal saccheggio dei
Visigoti di Alarico
● 622 - anno dell’Egira
Lo stesso analogo processo é stato formulato per individuare una data indicativa per la fine
del medioevo, assimilata al 1492, con la scoperta dell’America per ora di Cristoforo
Colombo. Suddetta data é stata scelta poiché interpretata come un modo per porre al centro
dell’attenzione l’apertura dell’Europa verso l’Atlantico e le grandi rotte commerciali. Altre
date però possono essere ad esempio:
● 1453 - anno in cui si segnò la definitiva caduta dell’impero bizantino di fronte agli
ottomani
● 1348 - anno in cui la grande epidemia di peste nera uccise oltre un terzo della
popolazione europea
● 1522 - anno del concilio di Wars che condannò Lutero e sancì la grande frattura
religiosa tra cattolici e protestanti
● 1492 - anno in cui, oltre alla scoperta dell’America, vi è la fine dell’ultimo dominio
islamico in Spagna
Non esiste una data assolutamente giusta e una data assolutamente sbagliata: esiste solo
un uso sbagliato delle date, perché sarebbe fuorviante pensare che un singolo avvenimento,
per quanto importante, possa mutare le strutture complessive del vivere associato.
5. Negare il medioevo
L’idea di medioevo è stata in seguito plasmata per definire cronologie profondamente
diverse. Nel corso della seconda metà del 900 hanno trovato spazio crescente alcune nuove
linee di ricerca incentrate su aspetti della vita umana, le cui funzioni faticano a rientrare nella
scansione cronologica espressa nell’idea di medioevo.
Studiosi come Jacques Le Goff o Massimo Montanari hanno di fatto negato l’utilità della
nozione di medioevo come strumento di periodizzazione. Hanno rifiutato l’idea di medioevo,
suggerendo cronologie diverse scandite da ritmi di cambiamento propri. In altri termini erano
fermamente convinti che negli anni che vanno dal 400 al 1400 e nello spazio europeo e
Mediterraneo, non potessero avere origine e conclusione tutti i temi e tutti i fenomeni che
vengono associati a quello spazio-tempo.
Possiamo smentire però questa teoria sostenendo l’importanza della periodizzazione come
strumento concettuale utile interpretare la storia.
6. Periodizzare il medioevo
Si possono individuare fasi in cui si addensano mutamenti di natura diversa, fasi quindi di
alto valore periodizzante. Una di esse è indubbiamente il cosiddetto “Tardoantico”.
Quello che fino a metà del secolo XX era considerato semplicemente un periodo di declino
del mondo classico, è emerso con forza come un tempo segnato da una specifica civiltà e al
cui interno si realizzarono mutamenti profondi.
Il medioevo ha al suo interno una suddivisione convenzionale che prevede:
➢ Alto Medioevo, dal IV secolo al X secolo
➢ Pieno Medioevo, dal XI al 1250
➢ Tardo Medioevo, dal 1250 al XV secolo
Ed eventualmente un periodo Tardo Antico.
Il Medioevo fu un processo di profonda ristrutturazione delle forme del vivere associato;
nello stesso ambito cronologico si collocano due altri mutamenti strutturali di grande
importanza:
1) la grande rottura demografica e la conseguente riorganizzazione economica che si
innesca con la crisi del Trecento (dovuta all’epidemia di peste nera del 1348
2) la rottura dell’unità religiosa dell’Europa occidentale, periodo che va dalla ribellione di
Lutero al concilio di Trento
Si delineano quindi complessivamente due lunghe fasi plurisecolari, al cui centro vediamo
convergere mutamenti strutturali di natura diversa.
CAPITOLO 6: Le città
In questo capitolo si affrontano le trasformazioni dell’assetto urbanistico e del ruolo politico
della città dal IV al XII secolo.
2. La città vescovile
Le grandi vie consolari, insieme con le rotte costiere, avevano costituito una sorta di rete
infrastrutturale di cui le città costituivano i nodi funzionali.
In questo momento si registra il fenomeno, anche a seguito della crisi economica, unita a
una pressione fiscale sempre più forte, di migrazione verso le campagne. Quei pochi rimasti,
che potremmo considerare come l’elité cittadina, furono invece protagonisti di grandi
trasformazioni di quegli spazi urbani. L’intero impianto delle città fu profondamente
ristrutturato: lo spazio del foro rimase una piazza pubblica sede del mercato alimentare
giornaliero, le terme, le arene e in genere tutte le costruzioni monumentali caratteristiche dei
municipia romani furono destrutturate e talora reimpiegate in uso abitativi o produttivi. Il
nuovo polo urbano divenne la chiesa vescovile, dando al vescovo la carica di punto di
riferimento sia politico che religioso. Le sepolture si trasferirono in città, attorno e dentro alle
chiese.
Tutte queste trasformazioni sul piano religioso portarono la religione Cristiana ad affermarsi
ancora di più, come unica comunità guidante.
Nel primo caso, la crescita demografica e l’aumento della produzione agricola, avevano
aperto gli individui a svolgere attività diverse dall’agricoltura, spostandosi vicino alle mura.
Qui, andarono via via a insediarsi contadini, cavalieri e artigiani, creando dei veri e propri
borghi. Tra la fine del secolo XI e i primi decenni del secolo successivo, le élite locali presero
l’iniziativa di innalzare circuiti murari che includevano in una stessa cinta abitanti vecchi e
nuovi. Ovviamente, nell’Italia centro settentrionale, questa nuova costruzione non fu ben
vista dall’allora re Federico I Barbarossa, il quale, con ben sei spedizioni, fece radere al
suolo le mura costruite intono alle città di suo dominio. Solo successivamente, scendendo a
compromessi con i propri sudditi, concederà loro le carte di franchigia, ovvero dei
documenti che permettevano una gestione autonoma di attività commerciali e produttive da
parte dei cittadini.
É forse in questo aspetto che possiamo riscontrare, oltre alla conformazione urbanistica
totalmente diversa, una prima differenza rimarcata tra le città del nord Europa e quelle
centro-settentrionali dell’Italia. Le prime infatti erano riuscite ad accaparrarsi molti diritti
senza combattere, poiché concessi direttamente dal sovrano, le seconde invece sì erano
battute e opposte più e più volte, ricostruendo continuamente le mura che avevano una
funzione protettiva.
Le città sorte spontaneamente sono assai diverse da quelle fondate, poiché quest’ultime si
organizzano su assi viari ortogonali e sono racchiuse da un perimetro murario che si apre in
corrispondenza delle strade.
spontanea, anche se gestita razionalmente dai monasteri urbani che riconvertivano in tal
modo le loro terre a uso residenziale. Molti soggetti cominciarono a trasferirsi in prossimità
delle vecchie mura, in cerca di lavoro e di più favorevoli condizioni di vita. Nella seconda
metà del secolo XII, anche i nuovi Borghi furono inglobati nelle mura. Questo fenomeno
prende il nome di urbanesimo.
I numero patti che nel corso del secolo XII le città strinsero fra loro e con le comunità rurali
mostravano una precisa gerarchia giurisdizionale. Tale gerarchia si esprimeva attraverso
diritti e obblighi differenziati e regolati dai patti, in un primo tempo, e poi dagli statuti cittadini.
Questi obblighi riguardavano ad esempio: gli oneri fiscali, militari e l’accesso al giudizio
arbitrale. Includere nuovi abitanti nel corpo urbano significava allora richiamare a nuove
responsabilità i residenti nei borghi, anche se la loro piena partecipazione politica non
avvenne che nei primi decenni del secolo XIII.
dei governanti (consoli). Detto in altri termini, in questo momento della sorta, l’imperatore
Federico I Barbarossa, concede il diritto di signoria/feudo alle città in cambio della loro
fedeltà vassallatica e il continuo pagamento dei tributi. Questo accordo è passato alla storia
come la Pace di Costanza, e tutt’oggi è riconosciuto come il trionfo degli italiani sugli
stranieri, l’origine delle “libertà italiane” o la vittoria delle autonomie locali sul centralismo.
2. il comune cavalleresco
Il vuoto di potere dovuto alla guerra civile costrinse le élite urbane ad affrontare alcuni
specifici problemi: il dilagare della violenza, l’uso dei beni comuni, la protezione dei propri
interessi economici. Nacque così il comune. Non tutto fu inizialmente ideato e progettato,
ma fu un susseguirsi di eventi e riforme che portarono via via questa entità a formarsi
sempre di più. Si sperimentò dapprima un organo di governo che aveva forse dei precedenti,
l’assemblea generale dei cives (cittadini) uniti da un giuramento (arengo). A questa
assemblea fu affiancato il consolato, una magistratura collettiva e a termine: i consoli
(consoles) erano almeno due e restavano in carica un anno. Questa carica, ripresa dalla
cultura romana, fu usata molto all’interno del contesto medievale.
Ideologicamente il comune s’identificò fin dall’inizio con la città e la cittadinanza, ma molte
famiglie ne rimasero ai margini. L’eclissi dei poteri tradizionali ridusse la centralità politica
urbana. Salvo rare eccezioni, all’inizio del secolo XII gli aristocratici urbani emigrarono in
campagna o rimasero ai margini del comune. Questa scelta favorì l’egemonia dei milites.
Tutti potevano diventare militari, sebbene dovessero essere in grado di acquistarsi in
autonomia il cavallo e inserirsi nelle reti di relazione urbane.
I compiti che oggi noi reputiamo fondamentali nell’operato del governo, quali ad esempio la
riscossione e l’imposizione delle tasse, la giustizia e la scrittura delle leggi, si affermò solo in
seguito, nel XII secolo.Fin dal principio non mancarono però da parte dei comuni, le
spedizioni militari di conquista, portate a termine dai milites.
Verso il 1150 i comuni divennero istituzioni sempre più stabili ed affermate.
Con l’ascesa al trono di Federico I, avvenuta nel 1152, si riaffacciò in Italia l’impero. Egli
voleva accrescere il proprio prestigio (honor) e ampliare le proprie basi signorili, e per farlo,
servivano un maggior controllo dei poteri locali e una rete di ufficiali che ne prorogasse
l’autorità. In Italia Federico si confrontò con un mondo nuovo: le città erano numerose e
dominate da un gruppo sociale complesso, mentre le campagne erano divise in piccole
signorie. Barbarossa voleva egemonizzare signori e città, eliminando il regno normanno per
agire da protagonista sulla scena europea e mediterranea. Federico tienne alcune diete,
come ad esempio quella di Roncaglia, per affermare la propria centralità politica e la natura
regia di certi diritti e proventi (regalie). Le regalie consistono in diritti di natura regia come ad
esempio:
● imporre le tasse
● battere moneta
● costituire i magistrati
● dichiarare guerra
● erigere le mura
La sua intenzione non era cancellare i poteri locali, ma affermare la derivazione dell’impero.
Per farlo ricorse al “feudo di signoria”, una finzione giuridica: chi deteneva i regalia
riconosceva di averli ricevuti in feudo dall'impero e di dover perciò fedeltà vassallatica
all’imperatore. A questa scelta però i comuni non reagirono molto felicemente, forse
influenzati da un’ideologia ostile al controllo dello straniero. Molti comuni, di fronte a questa
situazione, decisero di allearsi tra di loro creando delle vere e proprie alleanze. Sebbene
l’ostilità molti comuni decisero di sottostare al volere dell’imperatore anche se furono
immediatamente intimoriti dall’arrivo al trono del successore di Federico I, Enrico VI.
Quest’ultimo aveva mire espansionistiche, che soddisfò con la conquista del regno di Sicilia
e un’idea ben chiara dei poteri che spettavano all’imperatore. Solo la sua morte improvvisa e
l’approdo sulla scena politica del Papa Innocenzo III, permisero ai comuni di prendere fiato e
di vedere finalmente rispettate le clausole sancite all'interno della Pace di Costanza.
documentazione che tutelava le giurisdizioni dei comuni (libri iurium), furono messe per
iscritto le leggi che regolavano la vita della città (statuti) e soprattutto si affermarono consigli
di varia taglia che affiancassero l’arengo.
I podestà divennero abbastanza rapidamente dei professionisti.
1. Cavalieri e cittadini
A cavallo fra i secoli XII e XIII, le società cittadine dei comuni italiani vissero una profonda
trasformazione politica. In quella fase erano i milites a esercitare un predominio completo
nelle città. Essi esprimevano un modello di preminenza sociale basato, oltre che
sull'esercizio della violenza, sull'ostentazione del lusso e su una preminenza anche di tipo
culturale. In questa fase della storia i comuni sono detti consolari, poiché sono governati dai
cavalieri. Dalla fine del XII secolo, le cariche ricoperte dai militari furono messe in
discussione da una parte cospicua della popolazione costituita dai mercanti e dagli artigiani.
Questo processo fu chiamato “ rivoluzione commerciale”. Infatti, verso i primi anni del 200,
vi furono numerose rivolte urbane che andarono a colpire la supremazia dei milites. Da
questo momento compare sulla scena un nuovo soggetto: il popolo.
Il popolo era la forma politicamente organizzata di tutti coloro che non appartenevano al
gruppo dei militari e che intendevano rappresentare istanze e interessi spesso contrapposti
a quelli dei loro antagonisti. Proprio nel tutelare i propri interessi, il popolo era stato in grado
di organizzarsi in vivaci e diverse forme di associazionismo.Le più note potevano essere
quelle che riunivano chi praticava lo stesso mestiere o la stessa professione, dette anche
Arti. Le associazioni avevano originariamente finalità di mutuo soccorso, ovvero assistere i
membri delle vittime di infortunio o di malattie, aiuto per gli orfani e alle vedove. Ma non solo,
regolamentavano anche la concorrenza: fissando i prezzi minimi dei prodotti e dei salari per
i dipendenti e definendo le caratteristiche minime di qualità della produzione. altri diversi tipi
di societàs potevano essere ad esempio le vicinìe, Associazioni che organizzavano Le
Contrade o Cappelle.
Tutte queste spontanee forme di aggregazione cominciarono ben presto a coordinarsi tra di
loro, tramite giuramenti che diedero vita da associazioni più ampie e che trovarono infine
un'espressione unitaria nel popolo.
5. Guelfi e Ghibellini
I conflitti violenti caratteristici della società cittadina di fine 200 sono stati interpretati a lungo
dalla storiografia come degenerazione di un pacifico sistema democratico che in realtà non
era mai esistito. Durante le lotte contro Federico II , aveva visto formarsi nelle città due partiti
(partes):
➢ GHIBELLINI: A favore della politica Imperiale
➢ GUELFI: contrario alla politica Imperiale
In alcune città questo ordinamento popolare si radicalizzò per disciplinare innanzitutto i
conflitti; in altre invece alcuni protagonisti degli scontri riuscirono a imporre un dominio
personale sulle istituzioni urbane, dando vita alle prime forme di signoria urbana (Milano,
Padova e Verona).
In un estremo tentativo di disciplinare le forme della lotta politica, alcuni regimi popolari
emanarono provvedimenti detti antimagnatizi, perché si rivolgevano contro i Magnati, una
nuova categoria sociale non ben definita, con stili di vita simili a quelli dei milites. In
quest'ottica molte famiglie appartenenti al popolo furono bandite come magnatizie e membri
della milizia furono resi attivi nei regimi di popolo. Le norme contro i Magnati condannavano
la violenza come strumento di lotta politica e vietavano le fedeltà di parte che prevalessero
sulla lealtà dovuta alle istituzioni cittadine.
Nei decenni tra Due e Trecento, gli esperimenti signorili, in molti casi di breve durata, si
alternarono a fasi più o meno lunghe di ritorno a governi collegiali di stampo comunale.
La discesa in Italia di Enrico VII cambiò le carte in tavola, ponendo fine all’egemonia.
In quel tempo, si affermò sempre di più la figura del signore del popolo, al quale si
attribuivano per lo più magistrature straordinarie che esibivano la matrice popolare della loro
leadership. I signori condizionavano pesantemente la vita politica cittadina, esercitando un
effettivo potere decisionale, grazie soprattutto alle vaste reti di alleanza e clientele che
possedevano.
La condizione più comune delle città dell’Italia centro-settentrionale alla fine del medioevo,
era quella di città soggette, che fosse a un potere di natura principesca, come quello dei
Visconti-Sforza, o di natura repubblicana, come quello di Venezia o di Firenze.