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STORIA MODERNA II

23 settembre 2018

La prima lezione vuole essere una sorta di “misurazione” dei nostri tempi. Il termine misurazione si riferisce al
fatto che definire il nostro oggetto di ricerca è uno dei nostri primi ostacoli: che cos’è l’età moderna?
È proprio con questo interrogativo che si apre il libro “La storia moderna” di Paolo Prodi, che rispondeva
dicendo che:
“L’età moderna non è mai esistita, così come non sono mai esistiti come epoca storica il rinascimento, il
barocco e nemmeno i secoli anche se si continua a parlare di Ottocento e Novecento come se fossero realtà
effettuali. Tutte queste sono soltanto delle astrazioni, concetti usati dallo storico per rendere possibile e
abbreviare il discorso, così come i matematici fanno con le loro formule e per questo bisogna essere molto
precisi nel riferire questi concetti a precise coordinate storiografiche senza pretendere di dar loro alcuna realtà
oggettiva che non possono avere […]”
Non esiste quindi la storia moderna come realtà oggettiva, si tratta di un concetto che gli storici hanno inventato
e che serve come strumento di periodizzazione, come concetto interpretativo. La prova ne è che la nostra
concezione italiana di storia moderna è delimitata da due date indicative: la fine del xv secolo e la rivoluzione
francese. Tuttavia, in Inghilterra, quella che noi chiamiamo età moderna si chiama Early Modern Age (perché la
Modern History per loro inizia nell’800) così come altri. Lo stesso fanno i tedeschi, che non usano il concetto di
storia moderna (Neuzeit) ma quello di prima età moderna (Frühe Neuzeit).
Detto quindi che l’età moderna non esiste, nel libro di Prodi era spiegato perché gli storici si interessano a
questo periodo che definiscono età moderna. Nella visione di Prodi, l’età moderna era “un periodo di gestazione
in cui era stato generato il periodo in cui stiamo ancora vivendo. Per questo lo studio della genesi del nostro
mondo secondo prodi era racchiuso in questa manciata di secoli (XVI, XVII, XVIII), perché lì stavano le radici
del mondo. Egli aggiunge che si trattava di un momento in cui si erano formati dei concetti, delle idee e delle
strutture politiche e religiose che il xxi sec si stava cingendo ad abbandonare.
L’idea che l’età moderna sia una specie di periodo di incubazione per tutta questa serie di pensieri, idee oggetti,
strutture politiche e istituzionali, modi di pensare che sono fondativi del nostro modo… hanno fatto affermare a
una storica tedesca che la Frühe Neuzeit sia una sorta di Musterbuch, ovvero un campionario della modernità,
cioè un periodo di incubazione per liberarsi dalle scorie del passato medievale per costruire lentamente un
presente fatto di innovazioni che lentamente prepari il terreno al xvii e xix sec.
Tutti questi concetti sono stati ripresi da uno storico tedesco che descrive la prima età moderna come un periodo
di transizione.
W. Reinhard, The Idea of Early Modern History, in Companion to Historiography, ed. By M. Bentley
Routledge, London and New York, 1997, pp. 269-279.
«La ‘prima età moderna’ è definita come un’età di transizione, poiché conteneva ancora ben vive dentro di essa le
strutture del mondo e dei modi di vita medievali, ma allo stesso tempo era percorsa da evoluzioni che la stavano
conducendo verso una condizione simili a quella in cui oggi viviamo. Tuttavia, vecchio e nuovo non si possono
separare nettamente. Al contrario, è esattamente la loro vicendevole compenetrazione che caratterizza la ‘prima età
moderna’ come quella parte della nostra età moderna che ancora respinge la sua modernità. Norme e legittimazione
politica erano fondate sull’idea di un mondo stabile e reclamavano pertanto di essere valide in modo permanente. Le
innovazioni erano accettate raramente […]. Speciali strategie erano sviluppate per controllare cambiamenti che
erano divenuti inevitabili. Esse si assomigliavano un po’ dappertutto l’una all’altra, perché cercavano di adattare le
innovazioni e i mutamenti a un ordine immutabile delle cose.
In questo senso Umanesimo e Rinascimento, a dispetto dei loro elementi innovatori, furono possibili solo come un
ritorno immaginario all’età classica dopo un periodo di decadenza. Anche i movimenti rivoluzionari proclamavano
sempre di voler ritornare a un ordine antico che era stato ingiustamente perturbato dalle novità».

È sempre vero che nei momenti di transizione le innovazioni sono accettate raramente? Forse si.
Vedremo come in realtà il periodo dell’età moderna è caratterizzata da un’accelerazione del desiderio di
cambiamento e sottolinea un percorso nel quale le novità e le trasformazioni sono prima rifiutate e contrastate, o
si cerca di inserirle in modelli tradizionali in modo che esse siano accettate e poi queste innovazioni si colorano
di un aspetto che è da tutti favorevolmente accettato, atteso e favorito.
I tempi storici non procedono sempre linearmente e sincronicamente, perché vi sono alcuni momenti o settori
della società che accettano le innovazioni e altri che li respingono, ma questo estratto sull’innovazione che
abbiamo appena letto ci porta ad un’altra considerazione che possiamo trovare nel libro di Prodi: quando
guardiamo un periodo storico qualunque esercitiamo una attività/capacità di intuizione, nel senso che noi posteri
guardiamo al tempo passato utilizzando delle etichette, dei concetti che ci paiono efficaci per descriverlo.
Ciononostante, non dobbiamo dimenticare che lo sguardo di coloro che hanno vissuto questo periodo e che
quindi hanno presumibilmente reagito in maniera diversa rispetto alla nostra visione distaccata nell’interpretare
quello che stavano vivendo. Dobbiamo quindi utilizzare una doppia ottica: la nostra, lontana, che mette a fuoco
e organizza meglio il tutto interpretandolo, ma dobbiamo anche sempre ascoltare la voce dei contemporanei, più
vicina e divergente.
L’ascolto della voce dei contemporanei è l’argomento dei primi saggi del libro: Il pensiero del passato e l’idea
di moderno di Marco Meriggi e Misurare il tempo di Antonio Trampus.

Il pensiero del passato e l’idea di moderno di Marco Meriggi


Nel saggio I troviamo una carrellata di riflessioni che parte dal xvi e arriva al xviii secolo cercando di trovare
quale idea di moderno avessero gli antichi, che si origina da una celeberrima definizione di età moderna che
venne data quando quest’età (nel nostro conto di secoli) stava finendo da Voltaire.
Egli si proponeva di scrivere di storia moderna in modo politico e filosofico. Voltaire ebbe l’idea di utilizzare
l’accezione di storia moderna già nella metà del xvii sec, ed è importante ricordare che Moderna deriva da
modus e significa “recente”, vicino a noi, ma il modo in cui noi lo usiamo non si riferisce più solamente a
qualcosa di nuovo, ma piuttosto a una qualità, a qualcosa di effettivamente trasformatrice.
Pag 19: “vorrei che uno studio serio della storia lo si cominciasse dal tempo in cui essa diventa veramente
interessante per noi: ossia mi pare, verso la fine del XV secolo [quando] nello spirito umano, come nel nostro
mondo, avvenne una rivoluzione che rivoluzione che cambiò ogni cosa.”
Voltaire è nettissimo: prima del xv secolo la storia non è interessante perché non ha ancora compiuto quelle
rivoluzioni che effettivamente hanno cambiato la storia degli uomini e del mondo.
In seguito, Voltaire snocciola gli elementi di questa rivoluzione, che sono l’invenzione della stampa, la rinascita
delle lettere e delle arti (l’Umanesimo, la riscoperta delle arti classiche), l’irradiazione di queste novità culturali
nel continente (il Rinascimento), le scoperte geografiche, l’apertura delle nuove rotte verso l’Asia, l’America e
l’Africa, ma soprattutto l’affermazione politica e militare dell’Europa, e infine la rottura dell’unità confessionale
europea con riforma protestante. Per voltaire questa concatenazione di eventi aveva per lui provocato una cesura
irreparabile nel tempo, che aveva permesso agli europei di raggiungere un culmine, una supremazia intellettuale,
politica ed economica sul resto del mondo che né la Grecia né Roma avevano mai conosciuto
Voltaire con questa definizione di storia Europea intende un’idea di moderno che è non solo recente, ma anche
proiettato verso il futuro, un futuro visto ovviamente in chiave ottimistica e è concepito in chiave di un
progresso costruito dagli uomini, con una venatura laica, mondana, secolare, che si separasse dal vecchio sapere
ecclesiastico che non lasciava gli uomini liberi di muoversi.
Se le storie che v riteneva non interessanti erano quelle lineari, continue che avevano ispirato la lettura degli
uomini del medioevo, che concepivano la storia come un continuum tra la genesi del mondo e la sua fine con la
resurrezione, Voltaire per la prima volta schematizzava questo periodo introducendo una serie di fratture che per
un uomo del settecento erano la grande novità del suo tempo.
La nozione che voltaire ha del tempo e della modernità è quella che si è fatta strada da un inizio quattro-
cinquecentesco in cui gli uomini faticavano ancora a liberarsi della loro eredità medievale: se gli uomini del
medioevo intendevano la storia come un percorso lineare scandito dalla creazione e dalla seconda venuta di
Cristo che vi avrebbe messo fine, Voltaire dice ora il contrario, spiegando che le storie della Bibbia
appartengono a un passato che si deve dimenticare.
Tuttavia, il punto di partenza di queste fratture non è così lineare come Voltaire si immagina: il desiderio di
rottura col passato è una ragione del paradosso della realtà umanistica rinascimentale, che si muove in modo
interpretativo del tempo che non è il suo. Si tratta infatti di un tempo ciclico, che ritorna all’indietro, anche se
concepito in un modo innovatore.
Partiamo da ciò che accade nell’Italia quattro-cinquecentesca, il paese più progredito all’epoca. È l’Italia dei
grandi geni dell’umanesimo e del rinascimento, che si avviano verso la modernità ma con uno scarto rispetto a
quel tempo lineare religioso, adottando una visione rivoluzionaria del ciclo degli avvenimenti, ovvero della
storia come un susseguirsi di cicli di crescita e di decadenza. Si tratta di una visione del tempo che serve agli
intellettuali per recuperare le fonti dell’età classica con una vena polemica verso quella che gli umanisti
chiameranno l’età di mezzo o medioevo.
Lo schema ciclico è quello che anche la cultura classica aveva impiegato in passato, spiegando la storia come un
susseguirsi di corsi e di ricorsi, ascese e decadenza il cui studio doveva permettere agli uomini di imparare da
essa evitando di ripetere gli stessi errori secondo la formula della historiae magistra vitae, che aveva un
presupposto molto interessante, ovvero quello della non-variabilità degli istinti e delle caratteristiche della
natura umana. Presupponendo che le virtù i vizi e la natura degli uomini fossero sempre uguali che si poteva
costruire mentalmente un ciclo didattico della storia che permetteva gli intellettuali italiani di aprire una
furibonda polemica contro la visione religiosa della storia lineare a cui sostituivano questa loro nuova versione
ciclica e continua che avrebbe assolto al compito di indicare la vera strada che gli uomini potevano
effettivamente percorrere per migliorare e per attingere a quella cultura che si pensava essere enormemente più
sviluppata almeno nel periodo del quattro/cinquecento.
Gli antichi erano ai loro occhi così eccellenti e superiori rispetto ai medievali perché essi erano stati più in grado
di imitare la natura, modulando i loro comportamenti su quel regno inarrivabile di eccellenza che era la natura.
Perciò, ecco allora il paradosso: per gli umanisti andare all’indietro significa andare sempre più vicino alle fonti
di un’eccellenza insuperabile, ad una natura priva di quelle assurde idee teologiche e dogmatiche che gli uomini
del medioevo le avevano gettato sopra.
Nicolò Macchiavelli (1469-1523) è una delle migliori testimonianze di questo culto dell’antichità. Machiavelli
ha una vita burrascosa: dopo essere stato segretario della repubblica di Firenze viene esiliato dai Medici a San
Casciano nell’entroterra fiorentino, dove si dedica alla scrittura di lettere ai suoi amici per riconquistare il favore
dei nuovi padroni.
In una lettera del dicembre del 1513, egli scrive a Francesco Vettori descrivendo in uno squarcio letterario la
vita che fa e la grandezza del sentimento di ammirazione che prova per gli antichi.
Mangiato che ho, ritorno nell'hosteria: quivi è l'hoste, per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con
questi io m'ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti
dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San
Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia
sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di
fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui
huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove
io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi
rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà,
non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
Ne’ Il Principe, Machiavelli dice che egli si nutre di due cose: della lezione degli “antiqui” e dell’esperienza
delle moderne – ovvero delle cose che sono accadute adesso, nel suo momento.
In tutte le sue opere, la lezione degli antichi è la premessa necessaria per una premessa cronologica con la quale
lui organizza Il principe, Le historie fiorentine, etc. Nei suoi scritti, tutto quello che succede da Carlo Magno a
Federico II (ovvero dal IX secolo alla metà del XIII secolo) quasi non esiste, perché da essi non posso trarre
nulla di importante.
L’avventura intellettuale di Machiavelli si avvicina a quella di Voltaire. Per quest’ultimo però, gli uomini
dell’età moderna avevano raggiunto un culmine di perfezione che superava quello degli antichi, mentre per
Machiavelli questo non era vero, perché il culmine del prestigio e della raffinatezza rimaneva ben ancorato nei
Greci e nei Romani. Questi due autori sono in qualche modo i primi a delimitare con una certa precisione – che
arriva fino a noi – l’arco cronologico di cui ci interesseremo.
Già in Machiavelli, e in maniera più risoluta in v ciò che appare è una chiara declinazione della storia come
prodotto dell’uomo. Prima di allora, prima di Machiavelli e forse anche dopo di lui, gli autori + tradizionali non
avrebbero parlato di storia come soggetto singolare, ma piuttosto di storie, perché era tipico della visione
religiosa o teologica ritenere che la storia degli uomini si svolgesse sullo stesso piano e con lo stesso passo della
storia naturale. Chiaramente in questo caso siamo di fronte al pieno riconoscimento della iniziativa degli uomini
come facitori di storia, riconoscimento che in Machiavelli è ancora mediato dalla lezione dell’antichità ma che
alla fine, progredendo, arriva a Voltaire e si consolida.
Avendo delimitato grazie a questi due personaggi il tempo e lo spazio che ci interessa, avviciniamoci ora al
saggio di Antonio Trampus, che per certi versi si avvicina ai temi di Marco ma per altri versi ne anticipa di
nuovi che riprenderemo in altri saggi.
L’argomento di Trampus si muove da un altro semplice interrogativo: Per quale ragione gli uomini si sono
sempre sforzati di misurare il tempo?
Secondo Trampus, l’esigenza di orientarsi nel tempo è innata, è nostra da sempre. Ciò è abbastanza evidente
anche perché va di pari passo con un’esigenza di potere: il controllo del tempo è una forma di controllo politico,
esercizio di un potere. Anche per questo l’età moderna ci appare come un laboratorio particolarmente
interessante per verificare come gli uomini abbiano lentamente adottato strumenti di misurazione del tempo più
raffinati facendo in questo modo corrispondere un’esigenza di orientamento individuale con un’esigenza di
controllo anche della vita degli uomini da parte del potere.
L’età moderna è segnata da un passaggio fondamentale, che è quello da una visione di tipo qualitativo del tempo
ad una visione quantitativa del ritmo della vita e dello scorrere dei giorni. Per molti secoli il senso umano del
tempo, o la sua percezione, era stata legata intimamente ai fenomeni naturali: il passare delle stagioni, la vita e
la morte, la rivoluzione della terra, l’alternarsi del giorno e la notte...
Il mondo che si affaccia alla fine del medioevo, invece, sposta questa concezione naturale del tempo – storia
naturale intrecciata a quella degli uomini – quando gli uomini iniziano a sentire l’esigenza di munirsi di entità
astratte per misurare il tempo. Questo avviene in questo periodo con l’introduzione di un’unità discreta di tempo
che è il mese: i calendari con i mesi sono una realtà che prende piede nel medioevo e conquista spazio nel corso
dell’età moderna (cicli dei mesi, libri d’ore, quantificazione dei giorni con le figure dei santi…). L’invenzione
del mese inizia a dare una spiegazione al tempo – vero è che idealmente esistevano già da tempo, ma è in questo
periodo che iniziano a prendere piede per come li conosciamo ora.
La letteratura ecclesiastica associa l’entità mese (soprattutto nei libri d’ore) associa alcuni atteggiamenti
terapeutici o a dei proverbi fatti per calare il mese come entità astratta nella realtà concreta e popolare
dell’epoca, permettendone la diffusione della popolarità.
Collocare i giorni in unità discrete di tempo (i mesi) vuol dire estrarli dal ciclo delle stagioni ed inserirli in una
sequenza numerica. In questo la chiesa ha svolto un ruolo importantissimo, basti pensare ad esempio al Concilio
di Trento in cui è stato emesso il Calendario Giuliano nei primi del 1500. Questa successione di elementi che
derivano da risorse culturali precedenti ma che vengono adottate e trasformate in pratiche quotidiane che ci
avvisa del cambiamento in atto nell’età moderna.
Pagina 36: le fonti iconografiche sono spesso utili per meglio comprendere le transizioni in atto. La Vecchia di
Giorgione – questo quadro del 1506 è una delle immagini più inquietanti del passaggio da medioevo a
rinascimento: questa donna, ritratta con tocchi molto realistici (dentatura, escrescenza sul labbro, volto rugoso,
vestiti…) era stata probabilmente la balia e la domestica di Giorgione secondo gli storici dell’arte. Il nostro
interesse non sta però nella sua identità, tanto più nel cartiglio che essa regge in mano, che reca la scritta “col
tempo”. Questa vicenda è molto curiosa: l’interpretazione classica di questo ritratto era stata collocata in un
contesto moraleggiante, una sorta di memento mori, un’ammonizione verso gli osservatori in modo che si
ricordassero del passare del tempo. Queste interpretazioni vennero esasperate dalla cultura controriformistica, i
cui promotori presero questo quadro come una grande evocazione della mortalità del corpo e dell’immortalità
dell’anima e quindi come un invito a staccarsi dai beni materiali ed accettare religiosamente la morte.
Di recente questa interpretazione è stata completamente rivalutata: in anni abbastanza vicini, a Buda, nella
Galleria Nazionale di Buda è apparso un altro quadro – Ritratto di Giovane, di Giorgione – che ha permesso di
ribaltare l’interpretazione della Vecchia. L’aspetto curato del giovane si ritiene che stesse dietro quello della
vecchia, in funzione di timpano – ovvero una tela che una volta sollevata avrebbe lasciato sbigottito lo
spettatore. L’effetto sorpresa di questa combinazione di due tele sarebbe inquadrabile esattamente in questa
stagione di riscoperta dell’antico ma soprattutto di prospettiva e di avvento di un tempo nuovo perché starebbe
ad indicare – contro la vecchia lettura secondo cui solo con la vecchiaia si potesse acquisire la conoscenza
perfetta – l’affermarsi dell’idea che anche le persone giovani potessero fruire della bellezza e della conoscenza:
non è più quindi necessario raggiungere la vecchiaia per essere saggi, basta essere un giovane maturo e
cosciente di sé e del (suo) tempo.
Questo gioco di rimandi tra vecchio e nuovo è chiaramente sul segno di quella svolta umanistica che accade
durante la vita del pittore – quando si passa dalla concezione del tempo moraleggiante ed ispirata al pessimismo
esistenziale (solo i vecchi hanno la saggezza) a una visione del tempo basata sulla cultura classica, che permette
di riconoscere ai giovani qualità e virtù umane proprie.
Il ritratto ci apre quindi uno squarcio su questa profonda sensazione di cambiamento che la lezione degli antichi
ci da nella prospettiva iconografica.
Possiamo considerare, infine, che la nostra lettura dell’età moderna sia combaciabile con il senso di apertura che
anche i contemporanei ebbero.
24 settembre 2019

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Il confronto con il tempo e con il passare degli anni è una esigenza innata degli uomini, storicamente
determinata e il tentativo di appropriarsene, di misurarlo con precisione è una caratteristica culturale che affiora
durante l’età moderna.
La stessa catena di argomenti vale anche parlando dello spazio, altra coordinata fondamentale per lo studio della
storia. Esiste, quindi, anche un’appropriazione graduale e progressiva dello spazio.
Saggio 4 pag 55: Cartografare lo spazio Massimo Donattini
Nella storia della cartografia la periodizzazione tradizionale dell’età moderna è inutile, perché molto di quello
che ci è arrivato era già attuale nel 700 e la capacità degli uomini di dotarsi di strumenti per visitare lo spazio ha
avuto un percorso molto lungo.
Il punto di svolta per la storia della cartografia ha luogo a Firenze agli inizi del xv sec quando il dotto greco,
Emanuele Crisolora porta a Firenze una copia completa di un libro greco del ii sec dc, ovvero La geografia di
Claudio Tolomeo – geografo alessandrino di cui si scoprono gli scritti prima in forma incompleta e poi via via
ricostruiti. Ecco allora che si diffondono in Europa i primi planisferi di Europa, Africa e Asia. Sulla base di
questa raffigurazione grafica della geografia tolomaica, gli europei iniziano a impratichirsi con questi strumenti.
Il libro è molto tecnico, poco appassionante, basato su fondamenti scientifici, tra cui l’attribuzione di un valore
matematico a ciascun punto delle carte geografiche. Fu poi Tolomeo che sviluppò una griglia di linee verticali e
orizzontali, i meridiani e le parallele, che imprigionano in un reticolo di linee ortogonali la superficie del globo
terrestre. Questo dispositivo logico è tuttora in uso.
Nei primi esemplari di questo genere mancano chiaramente i continenti non conosciuti, l’Europa settentrionale,
la Scandinavia etc… ed il graduale arricchimento della raffigurazione tolomaiche sulla base delle nuove
conoscenze geografiche si svolgerà nel tempo.
Manca sicuramente la possibilità che questa raffigurazione per linee sia utilizzabile dal punto di vista pratico:
nessuno era in grado allora, infatti, di rilevare precisamente la longitudine o la distanza, che potrà essere
misurata solo quando, nel 1756, John Harris, un astronomo scozzese, realizzerà i primi cronometri di precisione
montabili sulle navi, che saranno i primi strumenti per calcolare precisamente la longitudine.
Nonostante queste mancanze/difetti l’eredità che lascia questa sensazionale scoperta di Tolomeo è preziosissima
perché si comincia effettivamente a poter calcolare precisamente lo spazio, che diventa un’entità misurabile e
non più solo descrivibile.
Questo produce un cambiamento anche nella mentalità delle persone: per la prima volta gli europei cominciano
ad avere nelle loro menti l’idea di uno spazio omogeneo e isotropo, cioè uno spazio in cui i luoghi hanno lo
stesso valore matematico, e non naturale o magico. Questa scoperta tolemaica inizia a demagificare lo spazio,
trasformandolo in qualcosa di conquistabile attraverso leggi matematiche.
Si tratta di uno spazio mentalmente raffigurabile e necessariamente ordinato secondo regole matematiche, che
può essere addirittura assoggettato al potere degli stati.
Non è un caso che la matematizzazione dello spazio abbia delle conseguenze importantissime nel modo in cui i
poteri pubblici inizino a concepire la possibilità di dominare non solo sugli uomini ma anche sui territori. Il fatto
che ciò avvenga in concomitanza con la colonizzazione ci dà l’idea di come la raffigurazione degli spazi come
territori che si possono conquistare e dominare diventi anche una delle grandi caratteristiche della raffigurazione
iconografica. A Venezia o nei palazzi dei granduchi medicei a Firenze iniziano ad essere costruiti degli ambienti
in cui si conservano i mappamondi o grandi carte geografiche (sala dello scudo e sala delle udienze palazzo
ducale), e dunque questa stretta relazione tra cartografia e potere politico invade l’Europa.
Le carte geografiche diventano strumenti per abbellire le case ma anche per simboleggiare il potere dei
dominatori. La Galleria delle carte (120 metri di corridoio), nel Vaticano, è dedicata al passeggio del pontefice
Gregorio XIII, fu allestita nel pieno periodo di controriforma (1580-1581) ed è sicuramente uno degli esempi
più imponenti di questa tendenza. La gran parte di queste tavole raffigurano l’Italia, ovvero il potere della chiesa
cartografato.
Nel pieno dell’età coloniale, il cartografo è una figura importantissima, anche socialmente importante perché
arriva appunto a raffigurare la sovranità esercitata a livello geografico e cartografico da parte dei dominatori del
tempo.
Il modo di raffigurazione dello spazio e l’iconografia ci danno quindi delle informazioni sulle trasformazioni
mentali del tempo.
A partire dal tardo ‘400, i cartografi avranno la sfida cruciale di rappresentare un mondo mai conosciuto fino a
quel momento. La raffigurazione iconografica del nuovo mondo avrà un percorso tormentato, con degli
strumenti inizialmente non adeguati.
È certo che esista un nesso tra la rappresentazione cartografica e le esplorazioni perché la conquista e
l’esplorazione accompagnarono in maniera lineare il processo di modificazione delle conoscenze geografiche.
Donattini, pensava invece che il nesso tra questi due processi non fosse sensato, in quanto questa rivoluzione a
suo parere inizia molto prima, così come l’età delle scoperte.
L’idea che all’origine dell’età moderna ci siano le esplorazioni geografiche è, tuttavia, molto convenzionale ed
estremamente radicata.

G. Marcocci, L’Italia nella prima età globale (ca. 1300-1700), in «Storica» 60, anno XX, 2014, pp. 14-15.

«La visione convenzionale della storia del mondo risente in profondità della centralità attribuita all’esperienza
della scoperta, conquista e colonizzazione dell’America, un punto di riferimento obbligato rispetto al quale
misurare gli esiti di relazioni con altre aree del pianeta, che tuttavia hanno sempre al centro, invariabilmente,
l’Europa […]
Ovviamente, non si intende affatto di ridimensionare la portata di un fatto eccezionale come l’arrivo degli
europei in America, un continente che si sarebbe trasformato in breve tempo in un laboratorio di
sperimentazione sociale e culturale di natura globale. Tuttavia, vi è molto da guadagnare se si abbandona
l’idea di una traiettoria della storia del mondo nei secoli a noi più vicini che possa essere riassunta in un
lineare passaggio di testimone, dall’Europa agli Stati Uniti, di una presunta superiorità culturale, tecnologica e
quindi politica sul resto del pianeta, che appare oggi una parentesi limitata e che fu comunque un fenomeno più
complesso di quanto spesso si ammetta. […]
L’enfasi su quello che si può chiamare il “paradigma americano” in sede d’interpretazione storica ha un
duplice difetto: da un lato, relega sullo sfondo le relazioni tra le regioni del mondo esterne all’Europa;
dall’altro, impedisce di cogliere come il movimento della cosiddetta “espansione europea”, da cui scaturì,
come per un accidente, l’arrivo degli europei in America, in definitiva non fu che un episodio, per quanto
clamoroso, del profondo riequilibrio degli assetti geopolitici ormai in atto da tempo nel cuore dello sterminato
continente eurasiatico».
Negli ultimi decenni, la storiografia internazionale ha criticato sempre più il paradigma americano, ovvero l’idea
che l’età moderna inizi con la scoperta dell’America nel 1492. Si tratta certamente di un evento-cesura, ma
certamente non di un inizio così improvviso.
Marcocci si riferisce a una visione convenzionale della storia che isola in un unico rapporto monocausale o
monodirezionale le relazioni tra Europa e America (eredità della storiografia novecentesca). L’Europa, infatti,
stabiliva un rapporto non solo politico e diplomatico, ma anche di filiazione culturale con una sua Parte
(America settentrionale). Questa divisione geopolitica in Blocchi, tipica anche della guerra fredda
successivamente, faceva si che gli storici europei dell’epoca tendessero a guardare al di fuori dei propri confini
sempre in una direzione, ovvero quella dell’America bianca di stampo anglosassone.
Nonostante questa visione ci appaia relativamente incredibile, ha plasmato profondamente la visione della storia
degli europei nei libri di testo che descrivevano una storia fitta di rapporti culturali e commerciali tra le due
sponde dell’Oceano, ma che consideravano gli altri continenti come qualcosa di poco significativo.
La prima parte della citazione ci mette quindi in guardia sul fatto che non si possa intendere la storia
dell’Europa come una storia unicamente di rapporti con la sua cugina americana.
La seconda parte, invece, si concentra di più sulla dimensione di world history, specificando che il paradigma
americano aveva questo duplice difetto: in primo luogo metteva sullo sfondo le relazioni che l’Europa aveva con
altri parti del mondo prima e più intensamente, e in secondo luogo aveva l’effetto di non comprendere che la
scoperta e l’espansione coloniale in seguito era arrivata come un episodio clamoroso ma non unico di un
profondo riassetto geopolitico che era in atto già da tempo nello sterminato continente euroasiatico (dalle coste
inglesi fino all’india).
Per evitare di cadere nella trappola del paradigma americano dobbiamo comprendere che esiste un network di
relazioni che legano gli europei ad altre parti del mondo che vanno conosciuti per capire perché dal XVI secolo
in avanti gli europei diventano i padroni del mondo conquistando il resto del mondo.
Il commercio fu sicuramente uno dei principali motivi di connessione tra i vari paesi e, successivamente, tra i
vari continenti: gli europei fin dal XIV sec avevano rapporti commerciali con la molteplicità di popoli che si
affacciavano sul mediterraneo, ma dal 1453 con la conquista di Costantinopoli occupata da Maometto, il
mediterraneo si trasforma veramente in una grande riserva commerciale ottomana – nemica degli europei.
L’espansione ottomana nella seconda metà del quattrocento aveva ostruito gran parte delle rotte commerciali del
mediterraneo ma anche quelle stradali, che cominciarono a essere da loro controllate. Questa stretta sui prodotti
asiatici (spezi, unguenti…), che erano essenziali, spinse gli europei a cercare gli stessi prodotti altrove.
Quando Marcocci parla di riassetto degli equilibri dello sterminato continente euroasiatico si riferisce proprio a
questo cambio di rapporti di potere territoriale che rompe di fatto una via di comunicazione che in particolare
veneziani e genovesi avevano frequentato per decenni, innescando all’inizio del xv sec, una strabiliante risposta
economica che ha come protagonista (capitolo 18) il Portogallo.
Solitamente identifichiamo le grandi scoperte geografiche con due principali soggetti, Spagna e Inghilterra –
effetto del paradigma -, ma molto prima e molto più imponentemente, i portoghesi avevano conquistato l’Asia,
stabilendo l’Estado de India già a partire dalla metà del 300, quando per la prima volta i portoghesi avevano
conquistato le isole canarie, cercando di diffondere la loro cultura. Dopo questa prima esplorazione atlantica del
300, il Portogallo era caduto in una fase di lunghissime guerre civili, da cui esce negli anni 70 del quattrocento,
dando inizio a una sistematica espansione oceanica destinata a rendere i portoghesi la più grande potenza
coloniale quattrocentesca europea, battendo i rivali spagnoli e italiani. I portoghesi avevano toccato prima le
coste del Marocco, nel 1415, e avevano – nonostante le guerre – conquistato Madeira e le Azzorre negli anni,
spingendosi verso gli anni trenta fino al golfo di Guinea, dove avevano cominciato ad attivare e costruire una
rete commerciale importantissima che sfruttava un solo tipo di merce: gli schiavi. La costa degli schiavi era già
nel 400 uno dei principali sbocchi di rifornimento di schiavi che i commercianti arabi dell’africa subsahariana
riuscivano a conquistare facilmente e poi, spingendosi verso sud, a fornire in cambio di altre merci: è questa la
direttrice della prima rotta degli schiavi.
Importando schiavi, ma anche avorio e Oro (Costa d’oro) i portoghesi si orientarono successivamente verso
Capo Verde e, lentamente, si spinsero all’interno dell’Africa – che rimane un continente sconosciuto agli
europei fino al tardo Ottocento. Questa fase di penetrazione portoghese è importante perché va ricordato che
furono proprio gli schiavi la manodopera importata nelle piantagioni monocolturali dei paesi appena conquistati.
Nella seconda metà del quattrocento, e soprattutto negli anni ottanta e novanta, quando il portogallo acquisisce
un grande personaggio, il re Enrico il navigatore e il suo successore Giovanni – icone del periodo coloniale –
che inaugureranno una seconda fase del colonialismo portoghese, basato sul capitalismo della corona (che
finanzia i viaggi) e su una grande vocazione messialica.
Vedremo che il portogallo e la spagna, nel tardo quattrocento completeranno l’espulsione di arabi ed ebrei dalla
penisola iberica: il regno portoghese basa quindi il suo potere sulla religione cristiana, e questo spiega come mai
l’idea della riconquista venga traghettata come fondamento ideologico della conquista coloniale portoghese.
Quella che gli storici chiamarono la talassocrassia portoghese, quindi, fu quindi un insieme di istinto di
conquista espansiva della monarchia e di ideologia di una crociata anti-islamica o comunque contro qualsiasi
religione che non fosse quella cristiana. La crociata ideologica viene coronata nel 1498 quando Vasco De Gama
riesce a doppiare il Capo di Buona Speranza; la circumnavigazione dell’Africa apre ai portoghesi un’altra
possibilità di espansione economica e di ricchezze straordinariamente importante. I portoghesi continuano a
presidiare zone minimali dell’Africa, che essi chiamano Fattorie, ma che sono essenzialmente luoghi di mare
fortificati, che caratterizzano il loro tipo di colonizzazione a macchie o alla fenicia. Tuttavia, il fatto di aver
doppiato il Capo di buona speranza permette ai portoghesi di entrare con la forza nei grandi circuiti commerciali
conosciuti dal mondo, cioè quelli che gravitano sul mar rosso – il golfo persico – e l’india.
Vasco de Gama in una missione nel 1502 arriverà a lambire le coste dell’India, che diventerà la destinazione
prediletta degli anni successivi, grazie alla sua economia commerciale fiorente, e molto più avanzata di quelle
europee (potenza tessile, ma frammentata politicamente). I portoghesi riusciranno con le loro navi dotate di
cannoni a sfruttare la frammentazione del territorio indiano distruggendo militarmente i potentati locali e
istituendo le loro grandissime basi commerciali (ad esempio Goa, capitale dell’insediamento portoghese,
Silon…). Questa catena sterminata di poderi coloniali portoghesi arriverà quasi fino al Giappone, che li
respingerà successivamente nel corso del 1500.
I portoghesi, come gli europei, sono molto più bravi delle popolazioni coloniali a fare la guerra, e questa – tra le
altre ragioni – è uno dei principali motivi di successo del loro progetto di espansione.
Tensione ideologica, capacità bellica e l’ottima organizzazione istituzionale furono quindi le tre principali
ragioni che resero il Portogallo uno dei progenitori dell’espansione coloniale europea in altri territori.

25 settembre 2019
La spinta all’esercizio attivo della conversione rappresenta una notevole spinta per tutte le potenze coloniali
cattoliche.
Nel 1452 l’espansione coloniale portoghese è già iniziata e il papa Nicolò V emana una bolla pontificia
(romanus pontifex) che ha l’obbiettivo diplomatico di regolare le controversie che i portoghesi compiranno in
nome della lotta agli infedeli. Esso va quindi collocato anche tra i motivi della reconquista dei territori spagnoli
e della cacciata di ebrei e musulmani dagli stessi. Gli infedeli non praticano la fede cattolica e sono quindi
considerati nemici della vera fede e come tali vanno trattati. La bolla, infatti, consente non solo l’occupazione
dei vari luoghi, ma legittima anche la schiavitù degli autoctoni, l’appropriazione di beni… la concessione
pontificia stabilisce quindi una piena facoltà al re Alfonso di invadere, conquistare, sconfiggere e soggiogare
tutti i saraceni nei loro regni, prendere in perpetua schiavitù gli abitanti e convertirli al cristianesimo.
Il testo prosegue proibendo ai cristiani di aiutare i pagani concedendo loro armi o altri strumenti che possano
ostacolare la missione di conversione cattolica.
La conquista e la conversione forzata è una questione che la dottrina della chiesa conosce molto bene, perché
largamente trattato, per esempio, da Sant’Agostino nelle Confessioni, e veniva applicato da vari secoli. La bolla
garantisce ai portoghesi la possibilità di usare la forza qualora gli infedeli tentassero di rifiutare il battesimo.

«Il 1434, in particolare, rappresenta una pietra miliare; in quell’anno, infatti, i Portoghesi superarono il capo
Bojador, in Africa occidentale, che fino a quel momento era considerato il punto estremo oltre il quale non spingersi
nei viaggi via mare. Era l’inizio dei viaggi di esplorazione in grande stile. Ma se fu il preludio a un “epoca mondiale
europea” è solo perché gli imperatori cinesi scelsero proprio in quel momento di interrompere le spedizioni un
tempo svolte dai loro navigatori verso l’Arabia e fino alle coste orientali dell’Africa. La Cina optava per
l’isolamento, mentre gli europei esploravano il pianeta in lungo e in largo e si insediavano nelle nuove terre con
punti strategici per il commercio e per il dominio. È solo per questo che non furono i Cinesi, ma gli europei, a
scoprire il mondo.
H. Schilling, 1517. Storia mondiale di un anno, Rovereto, Keller editore 2018.
I Portoghesi erano avanzati verso Occidente sull’Atlantico fino alle Azzorre e alle Canarie. A Sud avevano esplorato
la costa occidentale dell’Africa e avevano varcato il Capo di Buona Speranza tra il 1497 e il 1499 con la flotta di
Vasco da Gama, e a Oriente si erano spinti nell’Oceano Indiano fino all’India. Nel “Vecchio Mondo” asiatico
avevano stretto rapporti commerciali e fondato insediamenti che governavano e amministravano per mezzo di un
viceré con il nome di Estado da India. La capitale, Goa, era non solo la sede amministrativa e governativa, ma
anche snodo commerciale e punto nevralgico delle rotte che collegavano il subcontinente indiano al Mar Arabico e
alla parte orientale e occidentale dell’Oceano Indiano. Le ricchezze provenienti dall’Asia raggiungevano ormai
l’Europa via mare e non più principalmente lungo la Via della Seta, come facevano in precedenza.
A Oriente la via marittima attraversava il Mar Rosso e passando per Suez arrivava al Mediterraneo orientale prima
di proseguire fino a Venezia; a Occidente doppiava il Capo di Buona Speranza lungo le coste africane fino a
Lisbona, il principale porto transoceanico dell’età moderna. I prodotti più facili e ambiti erano le spezie,
specialmente i chiodi di garofano, ma anche seta, pietre preziose, avorio e porcellana cinese, avvolta dal mistero e
presente nelle collezioni di corte più pregiate, con pezzi singoli».

Tornando alla prima fase di espansione europea, è bene ricordare che si tratta di un processo scatenato da
diverse cause e che questa globalizzazione è iniziata in un periodo molto lontano del tempo, perché nella storia
non vi è mai stato un periodo in cui non esistessero scambi tra i vari popoli del mondo, dunque ogni fase storica
conobbe dei periodi di globalizzazione scatenati da diverse condizioni, prima fra tutte il commercio.
Le condizioni favorevoli alla prima espansione europea furono dettate per esempio dalla scelta isolazionistica
della Cina e dalle pressioni nate accanto alla costruzione dei grandi imperi islamici (Imp Ottomano, Imp
Persiano), che costrinsero gli europei ad affrontare la sfida del mare per trovare delle alternative alle vie
commerciali di terra.
L’emergere di questa prima epoca europea è caratterizzato dalla creazione di passaggi marittimi globali, che
creano delle relazioni e dei modi di scambio sempre più efficaci, consentendo agli europei di passare da piccoli
viaggi costali ai grandi viaggi continentali. Questi ultimi saranno una possibilità di conoscenza e di accesso a
società diverse, mondi culturali sconosciuti, permettendogli di sviluppare una capacità di confronto con gli altri
saperi, ma soprattutto quella di saggiare la loro maggiore capacità di potenza militare, aggressività e tecnologie
belliche, che costituiscono per gli europei un notevole vantaggio.

L’economia mondo
a) un’«economia mondo», quella europea, si formò in coincidenza con l’espansione coloniale seguita alla
scoperta dell’America; si trattava di una forma di sviluppo economico basata sul capitalismo mercantile, il
cui tratto distintivo risiedeva nella capacità di espandersi in modo praticamente illimitato grazie alla
diffusione delle reti commerciali.
b) Nel «sistema dell’economia» mondiale cinquecentesco, esisteva un ‘centro’ europeo che governava e
sfruttava una «periferia» composta da Stati più deboli, i quali fornivano risorse materiali e la manodopera a
basso prezzo.
c) Accanto al «centro» e alla «periferia», esisteva poi una «semiperiferia» composta da stati di secondo piano,
che si trovavano a cavallo tra la periferia e il centro e per questo erano caratterizzati da una certa
instabilità: alcuni di essi, come l’impero cinese, svolgevano un'importante funzione di cerniera tra gli stati
del centro e gli stati della periferia.
I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Bologna, il Mulino 1978-1995.

L’economia mondiale europea è stata interpretata spesso (Saggio di Andrea eco e capi) – seguendo la lezione di
uno storico tedesco Wallerstein, che ha coniato la definizione di – economia-mondo.
All’inizio del xvi sec la conseguenza dell’apertura di questi passaggi globali fa nascere questa economia mondo,
basate su aree chiamati centri, periferia e semi-periferia, secondo una sorta di partizione gerarchica delle varie
aree. Le tre tipologie di aree dividevano i loro compiti secondo un sistema economico equilibrato ma fatto anche
di imposizioni e relazioni obbligate/forzate. Wallerstein credeva nella realtà già capitalistica di questo momento
storico, e considerava il sistema dell’economia mondo europea un anticipo del più esteso e meglio funzionante
capitalismo contemporaneo. Egli intendeva spiegare come spiegare come l’Europa affacciata ad altri continenti
e mondi economici avesse esercitato una supremazia economica perché in essa si era sviluppato un sistema
avanzato basato sulla libertà del lavoro, sullo sviluppo di mercati concorrenziali e sulla protezione
mercantilistica che gli stati esercitavano sulle merci uscite dall’Europa.

È vero che forse gli europei possedevano una razionalità economica più moderna degli altri paesi ma fu
soprattutto la pratica militare e l’esercizio della forza a scardinare completamente i circuiti commerciali
preesistenti. Il sistema economico europeo è certamente in evoluzione, come si vede dall’ascesa dei dati
demografici continui a partire dal 1400, dopo gli ultimi casi di peste, e fino ai successivi casi del 1600.
Questa fase di espansione economica e demografica rende l’Europa davvero il centro del sistema economico
mondiale. Ci sono anche delle profonde ridistribuzioni e specializzazioni delle aree economiche europee, ad
esempio l’Area baltica (polonia, Estonia, Lettonia, Lituania ma anche Ucraina) era rifornimento cerealitico
dell’Europa, mentre l’Ungheria esportava gran parte del bestiame mangiato in Europa (soprattutto le vacche a
Venezia). Il fatto che la popolazione continuasse a crescere significava che la prosperità economica garantiva la
presenza di cibo a sufficienza, e questo era ovviamente il risultato degli scambi commerciali tra i vari paesi.

La visione ottimistica di Wallerstein è messa a durissima prova da un saggio tra i più innovativi del nostro
tempo, ovvero quello di Federica Morelli, dedicato al Lavoro forzato e all’emigrazione.
Federica Morelli mette sotto indagine due grandi fenomeni del vecchio e del nuovo mondo e ci invita a riflettere
in chiave storica su di essi. L’inizio del saggio spiega la ragione per cui negli ultimi 20 anni è nata la disciplina
storica della storia del lavoro.
La Morelli afferma che il lavoro non libero non è l’eccezione, ma la regola nella storia, e specifica la necessità
di conoscere meglio anche la pluralità e la complessità delle forme di lavoro che in maniera spesso volutamente
anacronistica gli storici hanno catalogato come lavoro salariato libero e schiavi.
Osservando i processi lavorativi, possiamo scoprire una pluralità di storie che si mescolano e che ci vengono
disvelate proprio in questo saggio.
Queste forme di lavoro non libero si intersecano ad un altro grande fenomeno, che è la messa in schiavitù degli
uomini che gli europei incontrano nei luoghi che vanno a colonizzare.
Il lavoro non libero è una caratteristica molto più vasta di quanto non crediamo anche nel vecchio mondo – nel
1848, alla fine della rivoluzione, viene emanato un decreto che libera dagli oneri servili qualcosa come centinaia
di contadini che abitano i territori dell’impero asburgico. In effetti, non esiste una grande distanza tra paesi
europei e colonie: gli schiavi sono dappertutto, perché gli europei non avrebbero mai potuto esercitare questo
tipo di lavoro servile nelle colonie se non avessero già conosciuto in Europa delle forme di lavoro non libero. Se
è vero che le colonie sono un caso di sfruttamento senza precedenti, è anche vero che gli europei arrivano
preparati a questo tipo di abuso. Basti pensare all’esempio delle prime colonie dei portoghesi.
Gli schiavi non sono una presenza ignota alla comunità europea del cinquecento: la Crimea, ad esempio, è un
punto di arrivo di una tratta di schiavi molto ricca, che viene ridirezionata in parte verso l’Europa e in parte
verso i Balcani. La schiavitù è un tratto comune anche di tutte le società islamiche.
Ovviamente, quando gli schiavi diventano il motore dell’economia, le percentuali della popolazione schiavile
incrementano incredibilmente. La percentuale è assolutamente maggiore sono le zone in cui sono arrivati per
primi gli europei (Caraibi, 90%), perché vengono trasformate subito in immense zone di produzione agricola
(piantagioni). Gli schiavi sono moltissimi anche in Brasile, dove i portoghesi li importano (+30% della
popolazione) sempre per controllare le piantagioni. Lo stesso discorso vale anche per la Carolina del Sud,
Virginia e altri stati del sud confederato, specialmente alla vigilia della rivoluzione americana (30/40% della
popolazione).
Accanto a queste forme di resa completa in schiavitù della popolazione, che riguarda soprattutto le popolazioni
africane, ci sono altre forme di lavoro coatto: è ad esempio pratica usuale europea commutare le pene dei
criminali in lavori forzati (Carceri europee = invenzione ottocentesca, solo per attendere il processo o per reati
gravissimi). Australia e Nuova Zelanda nascono nel 700 come colonie penali.
In America, invece, abbiamo la servitù a contratto, in cui il proprietario paga il viaggio sulla nave e obbliga in
seguito la persona a lavorare per lui come schiavo. Questa forma di schiavitù riguarda soprattutto gli europei.
L’impero russo, invece, nel 1649 impone un sistema di schiavitù che limita fortemente la possibilità di
muoversi: i contadini sono di fatto legati alla terra, e vi sono pene severissime per chi esce dalla proprietà.
Questo significa che 13/14 milioni di contadini russi sono servi, in condizioni poco lontane da quelle degli
schiavi, e rimarranno vincolati fino al 1861 con il decreto di emancipazione dalla servitù emanato dallo Zar
Alessandro II.
Gli spostamenti forzati della popolazione e il traffico internazionale furono sicuramente all’origine
dell’espansione economica, non quindi la supremazia razionale come pensava W.
Nel saggio di Morelli è poi riassunta la storia della tratta degli schiavi.
Va notato che nell’insieme, dal primo cinquecento fino al 1867 circa 12 milioni di africani vergono esportati
come merci verso gli altri paesi. La tratta parte sotto tono ed il vero boom avverrà nell’ultima parte del
diciottesimo secolo ovvero durante l’illuminismo, e questo crea un paradosso non da poco.
Anche l’America prima del tardo ottocento è un’estensione dell’africa invece che dell’Europa, perché prima del
1820 arrivavano in media 4 africani per ogni europeo.
Il traffico forzato, quindi, muove all’interno dei vari continenti milioni di schiavi, di persone.

30 settembre 2019
L’eccezionalità europea
L’eccezionalità europea è un tentativo di capire come questa parte più arretrata sia stata in grado di
intraprendere una straordinaria fase di conquista degli altri territori del mondo. (saggio di andrea c e di luciano)
Nei due saggi di oggi, avremo due visioni diverse che cercano di acquisire conoscenze e spiegazioni alla luce di
variabili economiche della penetrazione europea degli altri paesi.
Uno degli argomenti preferiti degli storici del novecento, è stato quello di tentare di spiegare questa supremazia
europea, esercizio mentale che trovò culmine nella fase finale dell’ottocento e in tutto il novecento, quando il
vecchio continente europeo era stato in grado di colonizzare durante l’imperialismo maturo tutti i vari “pezzi”
dei continenti.
Questo continente, nel 400 partiva con condizioni di svantaggio rispetto agli altri, ma li aveva superate con un
numero di risorse: si usciva infatti da un’epoca, quella medievale, in cui l’economia europea non era affatto più
sviluppata delle altre, anche perché la ricchezza non era ritenuta una condizione appropriata al perfezionamento
degli uomini, anzi, era vista dai cristiani come qualcosa di negativa.
Come si è passato allora da questa condizione alla caccia alla ricchezza? Come gli europei avevano superato i
problemi che Malthus aveva definito i vincoli di ogni economia agraria?
*Malthus: ogni economia agraria è destinata a fallire perché non sarà più in grado di sfamare la popolazione.
Gli europei, tuttavia, avevano trovato il modo e le risorse per superare questi vincoli.
Max Weber cerca di rispondere a queste domande rintracciando le origini di questa superiore razionalità europea
in un fattore religioso. Ne L’etica protestante, Weber comparava l’Europa cristiana al resto del mondo per
concludere che proprio il cristianesimo, e in maniera particolare il calvinismo nell’età protestante aveva favorito
il sorgere di un spirito imprenditoriale, di un atteggiamento favorevole, di un’economia che si era svincolata dai
condizionamenti del potere politico. Il capitalismo per Weber era questo, la capacità degli europei di liberare se
stessi dai vincoli di un’economia arretrata fondata sull’agricoltura per accumulare risorse e impiegarle in altri
campi, rendendo il denaro un bene impiegato razionalmente.
Per Weber, solo in occidente questa abitudine a trafficare e commerciare aveva portato un denaro che non era
stato occupato per – 22 ma erano state utilizzate per aumentare la capacità economica.
A questa visione, Weber aggiunge un’altra teoria, in Eco e società, in cui presentava un altro dei caratteri
necessari a comprendere la nascita in Europa dello spirito imprenditoriale, del capitalismo commerciale prima e
industriale dopo, che per lui si trovava nelle città.
Le città erano presenti dappertutto, ma per lui solo quelle europee erano state caratterizzate da quella che Weber
chiamava “tensione rivoluzionaria”, una propensione al cambiamento politico ed economico che avevano
caratterizzato il panorama delle città europee.
Le città europee non erano state importanti perché erano più popolate di altre, ma la loro peculiarità era quella di
svolgere la funzione di poli aggregatori dell’economia dei territori circostanti, prelevando ad esempio le
ricchezze dalle campagne per portarle in città e renderle beni di consumo.
Accanto a questa funzione economica, però, per Weber le città europee erano caratterizzate fin dall’inizio da
una rivoluzione politica: i primi comuni erano stati, infatti, i luoghi in cui i ceti dirigenti (borghesi) di queste
città avevano saputo dividere dagli stili di vita e di commercio delle aristocrazie nobiliari la propria esperienza e
la propria capacità di organizzarsi. Weber riteneva che la borghesia cittadina si fosse recata in forme di
comiurationis, o di società politiche unite da un giuramento (comiuratio), e che la capacità per la quale i ceti
borghesi cittadini si stringevano tra di loro escludendo l’aristocrazia, e trasformando un primo nucleo di
famiglie commercianti o imprenditrici in una vera e propria forma politica o comune libero, aveva saldato la
libertà politica alla capacità economica (libertà imprenditoriale) nelle città.
Weber diceva che “non ogni città (Stadt) è un comune (Gemeinde)” in quanto non tutte le città sono delle
comunità o comuni – utilizzando Gemeinde per indicare quel tipo di comunità da cui si era sviluppato il comune
libero con dei cittadini emancipati economicamente e politicamente. Le Gemeinde urbane erano quindi stati i
luoghi fondamentali per lo sviluppo economico europeo per Weber.

M. Weber, La città, Milano, 1950, pp. 15-17. (ed. or. M. Weber, Economia e Società, 1922)
Si può tentare di definire la città in modo assai diverso. Tutte le città hanno in comune questo soltanto: che ciascuna
è sempre un insediamento circoscritto, almeno relativamente; è una borgata, non una o più abitazioni isolate. Anzi,
nella città (ma certamente non solo in questa) le case sono disposte di solito particolarmente vicine l'una all'altra e
oggi si costruiscono di regola muro a muro. L'idea corrente annette alla parola «città», oltre a questa caratteristica,
dei contrassegni meramente quantitativi: essa è una grossa «borgata». Tale caratteristica non è di per sé poco
precisa. Ciò significherebbe, dal punto di vista sociologico: una borgata, ossia un insediamento in case strettamente
confinanti, le quali costituiscono un centro abitato compatto e così esteso, che vi manca la conoscenza personale e
reciproca degli abitanti, caratteristica del vicinato. Di conseguenza, solo le borgate piuttosto estese sarebbero delle
città e l'estensione per cui ha inizio tale distinzione dipende dalle condizioni generali di civilizzazione. Quelle
borgate che nel passato avevano il carattere legale di città, non avevano nella maggior parte dei casi questa
caratteristica. E vi sono oggi dei «villaggi» in Russia che, pur contando migliaia di abitanti, sono assai più grandi di
parecchie vecchie «città» (ad es. nella regione degli insediamenti polacchi del nostro oriente), che comprendono
solo poche centinaia di abitanti. La sola estensione non può decidere in ogni caso.
Se si cerca di definire la città dal punto di vista meramente economico, sarebbe un insediamento nel quale gli
abitanti vivono prevalentemente non di proventi di attività agricole, bensì di redditi industriali e commerciali. Non
sarebbe però conveniente chiamare «città» tutte le borgate di questa specie. Quelle specie di insediamenti, costituiti
da membri d'una schiatta con una sola attività industriale trasmessa di fatto per eredità – i «villaggi industriali»
dell'Asia e della Russia – non potranno classificarsi sotto il concetto di «città». Quale ulteriore caratteristica ci
sarebbe da aggiungere quella di una certa «varietà» delle industrie esercite. Ma anche questa non sembra per se
stessa adatta per costituire da sola una caratteristica decisiva. La città può di massima avere origine in duplice
modo. E precisamente: a) sia con l'esistenza della sede di una signoria, soprattutto di un principato, quale centro,
per le cui occorrenze economiche e politiche si esercitano industrie con specializzazione della produzione e si
acquistano merci. Ma non si usa chiamare «città» la dimora (oikos) d'un signorotto o d'un principe con un
insediamento di artigiani e piccoli commercianti soggetti al pagamento di tributi o di imposte, per quanto numeroso
esso sia, benché una percentuale assai forte delle «città» più importanti sia sorta storicamente da questi
insediamenti o benché per molte di queste (le «città-principato») la produzione per una corte principesca
continuasse spesso ad essere la fonte principale di guadagno degli abitanti. Altra caratteristica che deve coesistere
perché si possa parlare di «città» è l'esistenza di uno scambio regolare e non solo occasionale di merci sul luogo
dell'insediamento quale elemento essenziale del guadagno e dell'approvvigionamento degli abitanti: cioè l'esistenza
del mercato. Però non tutti i «mercati» fanno dell'abitato, in cui hanno luogo, una «città». Le fiere periodiche ed i
mercati per gli scambi con paesi lontani (fiere annuali), nei quali s'incontrano a data fissa commercianti che vi
convengono per vendere le loro merci all'ingrosso e al minuto fra loro od ai consumatori, avevano spesso la loro
sede in luoghi che noi chiamiamo «villaggi».

Tornando a quanto dicevamo nelle lezioni precedenti sulle prime grandi esplorazioni europee e su quel reticolo
di vie commerciali costruite dagli europei.
Questa grande rete di caposaldi commerciali è la prima espressione del colonialismo europeo.
Una delle conseguenze di questo reticolo commerciale che sta alla base della moderna economia europea è stata
l’elaborazione di una teoria su questa dilatazione degli scambi, che da questo momento continuano a crescere
ininterrottamente fino all’800 inoltrato, prodotta da Emanuel Wallenstein che per primo ha coniato l’espressione
di Economia-mondo.
Wallenstein cercava di spiegare questa economia mondo mettendo a punto alcuni concetti, quello id centro,
periferia e semiperiferia, per definire il sistema gerarchizzato dell’economia europea. Dal 1750 in avanti, questo
sistema articolato ma funzionante aveva preso piede anche grazie alle conquiste coloniale, era basato sul
capitalismo mercantile e aveva il tratto distintivo di espandersi in modo illimitato. La sua articolazione era
precisa: c’era un centro che governava e sfruttava altri territori, che comprendevano una periferia e una
semiperiferia al servizio del centro economico. La semiperiferia era per esempio il grande impero cinese, che
non si poteva considerare uno stato sfruttato dagli europei ma che era comunque uno stato cerniera.
In questa articolazione, Wallerstein individuava uno specifico che sarebbe rimasto intatto per tutta la vicenda
secolare dell’Europa moderna, ovvero un’altra spiegazione dell’eccezionalità europea.
Le spiegazioni furono molto diverse: alcuni dissero che il clima era favorevole, o che le risorse primarie erano
più presenti (legno, carbone) … ma il dato di fondo rimaneva quello di una economia europea particolare.

Il saggio di Luciano Pezzolo parte da una storia piuttosto avvincente delle diverse forme di urbanizzazione.
Nell’ultimo millennio, l’Europa è stato il continente che ha registrato il tasso più evidente di urbanizzazione.
Guardando i dati di Medioriente, Cina e africa erano luoghi in cui il tasso di urbanizzazione era più alto
dell’Europa nel nono secolo e nel decimo secolo. Un millennio dopo la percentuale era rovesciata.
Quali fattori permisero tale crescita?
Innanzitutto, per comprendere questa crescita costante dobbiamo considerare le possibilità offerte dalle grandi
città commerciali: tutte le città europee sono nate lungo il corso dei fiumi, che facilitano il commercio. Nel
mondo islamico, invece, le città sorgono nel cuore di arterie di traffico su terra, e quando nel xv secolo avvenne
la grande riorganizzazioni dei commerci, queste città ebbero una minore capacità competitiva, producendo un
notevole ristagno demografico al loro interno.
Il ruolo delle città europee è anch’esso significativo: il contesto in cui si trovavano le città asiatiche è molto
diverso da quello europeo, dato che quest’ultime erano da sempre caratterizzate dallo svolgere un ruolo di
protezione e di rifugio dei cittadini dai pericoli esterni (contesto medievale: numerosi conflitti, la popolazione si
rifugia nei castelli) diverso in ogni caso dalle campagne. In un contesto come quello del grande impero cinese,
invece, in cui lo sviluppo di alcune città garantiva una sorta di pacificazione, questa separazione tra le città e le
campagne non si era mai prodotta.
Le città asiatiche erano e restavano le sedi di un forte potere politico che fungeva da nodo di redistribuzione
delle risorse rurali e fiscali ma sempre in un contesto nel quale la differenza fra la città e le campagne era
praticamente inesistente. Pezzolo ci invita a considerare anche il fatto che una situazione continua di
conflittualità politica come quella che aveva vissuto l’Europa medievale, nel lungo periodo aveva finito col
favorire questa differenza fra città e campagna ed anche la capacità delle città di essere funzionalmente libere
rispetto ai poteri politici originali (chiesa, aristocrazie, monarchie). Ci sono quindi dei ruoli e delle
configurazioni di contesto molto diversi tra le forme di urbanizzazione occidentali e asiatiche, che possono
spiegare perché questo stato di rivoluzione permanente sia stato un elemento potenzialmente positivo, capace di
rendere competitivamente più efficaci le economie europee.

D’altra parte negli ultimi decenni, gli storici si sono dovuti confrontare con uno sguardo sulla contemporaneità e
sui dati che il mondo contemporaneo offre. Il saggio di Caracausi cerca di portare alla nostra attenzione lo
sviluppo di nuove letture dell’eccezionalità europea. Il dato che è esploso negli ultimi vent’anni è quello della
fortissima espansione economica asiatica e, in particolare, di Cina e Giappone. Gli storici moderni si sono
dovuti quindi confrontare con le vecchie teorie, come quella di Weber.
Le società europee erano delle società calde, in continuo fermento, mentre quelle asiatiche erano fredde perché
costrette ad una continua permanenza di elementi intimamente conservatori dal punto di vista economico e
politico, che le condannava all’arretratezza. Il conservatorismo asiatico faceva dire che in quelle aree da sempre
il potere politico era sempre stato dispotico, mentre invece nelle società europee il susseguirsi continuo di
rivoluzioni aveva dato libero sfogo a quelle strutture politiche democratiche che avevano favorito la crescita
delle economie moderne.
Ma come è stato possibile che nel giro di decenni queste aree che sembravano condannate ad una situazione di
arretratezza sono diventate alcune delle aree più produttive e vivaci del mondo?
Mentre la eccezionalità occidentale si stava sbriciolando, anche gli storici moderni hanno cominciato ad
interrogarsi su cosa fosse l’eccezionalità europea e su cosa si basasse. Era davvero tale? Erano davvero gli
europei dotati di risorse più avanzate dei loro vicini asiatici?
Nei primi anni duemila, uno studioso americano, Pomerantz, pubblicò un libro, “La grande divergenza: la Cina,
l’Europa e la nascita della grande economia mondiale moderna”, in cui egli – partendo da un’osservazione sul
nostro mondo – arrivava a smentire quelle teorie che avevano indicato un divario culturale, economico e
politico, tra l’occidente e l’asia.
Pomerantz è partito in questo libro partiva da una constatazione: quella che lui chiamava la grande divergenza si
era prodotta in un periodo molto più tardo rispetto a quello indicato dagli storici, ovvero – per lui – nel tardo
settecento. In quest’analisi Pomerantz passava in rassegna i tipici pregiudizi occidentali sull’arretratezza asiatica
formulando una serie di quesiti:
- Le capacità produttive dell’agricoltura cinese erano davvero così arretrate rispetto a quelle europee? No.
- Gli indicatori demografici ci potevano parlare di una crescita della popolazione europea superiore a
quella asiatica? No.
- Gli strumenti commerciali e le tecniche commerciali erano una prerogativa quropea? No.
- Le capacità produttive della manifattura, la tecnica, dei paesi asiatici erano davvero così arretrate
rispetto a quello europee? No.
Nel testo, pomerantz agiva con intelligenza comparando il luogo per eccellenza delle trasformazioni
economiche europee, l’Inghilterra, con un’area della Cina che è quella del delta del fiume azzurro (che produce
attualmente più del pil di tutta l’italia messa assieme). Comparando queste due aree, P mostrava come la
manifattura, l’industria e l’agricoltura cinese di quel periodo erano sostanzialmente uguali a quelle inglesi. Da
ciò, p deriva una sua personale teoria economica: quando si esaminano le economie dell’antico regime (pre-
industriale) occorre tenere assieme tre fattori, ossia capital intensive (impiego del capitale), labor intensive
(sfruttamento intensivo della forza lavoro) e land intensive (sfruttamento intensivo dei vari terreni).
In questa combinazione tra questi tre fattori, p arriva a spiegare come in partenza essi fossero equilibrati sia
nell’area inglese sia nell’area cinese, ma ad un certo punto questi 3 fattori ebbero bisogno di distribuirsi su un
orizzonte più ampio di quello territoriale iniziale: il passo in avanti per trasformare un’economia agricola in
un’economia che sfrutta il capitale (da land intensive a capital intensive) si verificò solo quando gli stati europei
ebbero la possibilità di dislocare l’area economica basata sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro (labor
intensive) in regioni fuori dal perimetro del vecchio continente europeo. P riprende e aggiorna lo schema di
Wollerstain e spiega che la Cina venne bloccata dalla impossibilità di delocalizzare in aree esterne la produzione
di materie prime – essenziali allo sviluppo economico – e poi di materie commerciabili. Fu solo quando le terre
d’oltremare scoperte dagli europei vennero trasformate in grandi piantagioni intensive e coltivati dagli schiavi
che gli europei poterono staccare la loro economia e usare il capitale per trasformare la propria base economica
da una base agraria a una base industriale.
Le aree governate dagli europei furono coattivamente forzate a produrre certi tipi di materiali, mantenendo uno
status quo economico al servizio di un’altra potenza.
La lezione di Pomerant è che anche i rapporti economici non sono mai isolati dalle variabili politici.

In questa cornice, il contributo delle terre colonizzate all’industrializzazione europee è stato un contributo,
naturalmente sotto forma di sfruttamento, particolarmente importante.
La distruzione del tessuto manifatturiero indiano da parte dell’Inghilterra avvenne nella seconda metà del
settecento, quando la politica inglese provocò una deindustrializzazione delle terre indiane che vennero
convertite in piantagioni di cotone destinato all’importazione verso la terra madre.
il secolo e mezzo di dominio economico europeo (1750-1850 ca) è stato una sorta di parentesi tra un millennio
di dominio economico cinese e un millennio futuro che probabilmente sarà dominato comunque dalla Cina.
All’inizio del XVI secolo si apriva una fase completamente nuova anche dal punto di vista economico che
avrebbe visto i paesi europei, tra cui alcuni poco significativi fino a quel momento, rendersi capaci di
organizzare questa rete globale di commerci che lentamente poi avrebbe scardinato le gerarchie di prevalenza tra
i continenti.

1° ottobre 2019
Riassunto della tesi di Pomerant:
La tesi di Pomeranz è che l’economia occidentale, in condizione di parità sino alla metà del XVIII secolo con quella
asiatica, riuscì a trasformarsi in un’economia capitalistica (capital-intensive) per la concomitanza di una serie di
fattori interni (ad esempio l’abbondanza di materia prime) ma soprattutto “esogeni”.
L’Europa, come la Cina del resto, doveva disporre, per crescere, di sempre maggiori risorse (sia alimentari sia da
impiegare come fonti d’energia) attraverso lo sfruttamento intensivo della terra (ovvero di un’economia land-
intensive).
All’origine della “grande divergenza” vi fu la possibilità per l’Europa poter contare su un flusso costante di risorse
provenienti dai territori coloniali, che le permisero di sostenere la crescita demografica (ovvero il superamento dei
cosiddetti “vincoli malthusiani”) e contemporaneamente di emanciparsi dalla propria agricoltura.
Le ricchezze prodotte attraverso lo sfruttamento della forza lavoro delle colonie (ovvero, attraverso un’economia
labour-intensive) alleviarono la pressione esercitata su «due risorse che in Europa erano effettivamente scarse: la terra
e l’energia», liberando capitali da essere investiti in attività manifatturiere.
L’impero cinese, ma lo stesso discorso vale per il Giappone, in assenza di aree di sfogo coloniali, furono costretti ad
adottare strategie labour-intensive per nutrire la loro popolazione e fronteggiare i problemi ecologici. Alla lunga, tale
sfruttamento intensivo della popolazione e del territorio si rivelò un freno allo sviluppo economico.
Da: K. Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna,
Bologna, il Mulino 2002.

Ci sono studiosi che pur accettando nell’insieme l’ipotesi di Pomeranz hanno proposto altre cause o altre
possibili spiegazioni della corsa europea verso la predominanza economica.
Alcuni hanno insistito molto sulla capacità europea di trasformare le conoscenze scientifiche in applicazioni
tecnologiche, ma c’è in particolare una tesi di un altro studioso americano che ha più segnatamente puntato su
una condizione politica interna.
Questo autore che ha ricondotto la fase di decollo dell’economia europea ad un fattore politico, ovvero il fatto
che l’Europa dal tardo medioevo in avanti si fosse trasformata in un insieme molto diversificato e litigioso di
formazioni politiche diverse e tutte in lotta tra di loro. Questo costante stato di guerra o pace armata aveva
portato in primo luogo al concentrarsi nelle città delle manifatture, dei laboratori artigianali, che convergevano
nei luoghi in cui era possibile sfruttare di una protezione e di salari maggiori
Egli cercava di diversificare Cina e Europa descrivendo la prima come una entità imperiale solida e robusta,
etnicamente solida, con uno stato interno di pace che alla lunga aveva però avuto conseguenze economiche
negative; al contrario, l’Europa aveva sfruttato il proprio stato di competizione politica per diventare più
concorrenziale, più competitiva, sviluppando una capacità espansiva economica maggiore rispetto agli altri
continenti.
La forma politica europea non è come quella degli altri continenti. Fra il tardo medioevo e la prima età moderna
–con eccezione di Carlo V – si dice che la peculiarità europea fosse quella di essere sempre più sbriciolato e che
le sue parti, entità territoriali inferiori nate dal disgregamento dei poteri, si chiamano Stati (capitolo Stati ed
imperi).
Se noi visualizzassimo una carta politica quattro-cinquecentesca, rimarremmo colpiti dal contrasto tra la
disomogeneità europea e l’omogeneità degli altri continenti, specialmente verso est (Impero zarista, Ottomano,
Cinese, Giapponese).
Questo contrasto che risalta tra la stabilità di una parte e la costante mobilità dell’altra è il nostro dato di
partenza.

Il vecchio continente all’inizio del 1500 è un insieme di territori che sono politicamente divisi e diversi sia nella
superficie, sia nel tipo di regime politico.
Abbiamo:
- degli stati cittadini (repubblica di Venezia, Ragusa, Dubrovnik, Francoforte, Augusta) più o meno
grandi e retti solitamente dal regime repubblicano;
- delle federazioni di varie città (Federazione Elvetica, comunità fiamminga);
- delle monarchie rette da signori ecclesiastici (Stato Pontificio, molte aree dell’Impero Romano-
Germanico, come il Principato Ecclesiastico di Trento o quello di Bressanone);
- il Sacro Romano Impero, come un insieme di vari principi, varie città e vari personaggi che eleggono il
loro imperatore.
- Elettivo è anche il re della Res Publica Utiliusque Nazioni (Polonia e Lituania), composta da due
territori che si erano uniti insieme.
C’erano infine le grandi monarchie ereditarie, dinastiche, che si stavano formando proprio del corso del tardo
medioevo e della prima età moderna: Francia, Spagna, Inghilterra (non proto-nazionali).
Questo insieme di territori così variegati era un unicum del suo tempo sia per le dimensioni differentissime di
questi stati e staterelli, sia per il fatto che avessero tutti questi tipi diversi di domini politici.
Questa è una delle straordinarie peculiarità europee.
Gli storici si sono chiesti come mai nella prima età moderna l’europa è arrivata prima a sbriciolare le vecchie
entità imperiali e successivamente a riaccorparle lentamente unendole in un corpo solo. Questo disaggregarsi e
ricomporsi continua anche in seguito, come ad esempio nel periodo del blocco comunista, con il muro di
Berlino etc… Immaginiamo quindi la vita politica europea come un continuo disintegrarsi e riunirsi.
Domanda di c: il disgregarsi dell’Europa può essere paragonata alla brexit???!!!!
Non del tutto. Potrebbe essere considerata come un simbolo del fatto che la realtà politica europea è in continua
evoluzione.
Questo processo peculiare si compie in modo particolare anche sul piano intellettuale: gli sguardi dei
contemporanei che vivono questi momenti sono attirati da questo grandissimo fenomeno, cioè dal fatto che gli
stati si accordino o si frammentino, perché gli organismi politici che precedono l’età moderna seguivano la
teoria politica dominante, che era quella aristotelica e tomistica, e concepivano quindi le entità politiche come
qualcosa di immobile, fisso. Ora invece troviamo continuamente testimonianze che cercano di interpretare e
comprendere questo forte movimento politico, e una spia che ci mostra come stanno cambiando i tempi è la
trasformazione graduale che vediamo svolgersi della parola STATO: la parola stato arriva un po’ tardi, perché
prima si usavano altre locuzioni – imperium, dominium, res publica, … - ma è interessante comprendere come
questa parola che deriva dal termine latino status inizialmente designi in maniera generica la condizione, lo
status concreto di qualcosa. Successivamente verrà usata ad esempio nei comuni italiani del pieno medioevo per
indicare la fazione che governa la città – es Firenze è governata dallo stato ghibellino.
Lentamente, la parola stato si sostantivizza, arrivando ad indicare un potere istituzionale su un territorio.
Il tragitto della parola stato ci indica che qualcosa sta cambiando e che è necessario usare in termini nuovi le
vecchie parole.
L’uso moderno del termine diventa una chiave in Machiavelli, teorico dell’autonomia della Politica.
Effettivamente la parola stato ricorre nelle sue opere e circola ed è presente anche nel Principe (1513-1514).

La novità di Machiavelli sta esattamente nell’aver colto per primo che sta avvenendo qualcosa di assolutamente
nuovo e mai sperimentato in questa forma: la novità dirompente che troviamo, ad esempio, nel Principe
(dedicato a Lorenzo de Medici) è il fatto di avere dei Principati nuovi (capitolo 8 del principe). Il fatto di avere
delle figure nuove, che prima non si davano, che avevano atteggiamenti inusuali è il grande tema del testo di
Machiavelli.
Machiavelli è un contemporaneo delle guerre d’Italia: nel 1480 i francesi di Carlo VIII arrivano in Italia,
attraversando le alpi e arrivando a Napoli, distruggendo l’equilibrio che si era creata in precedenza tra i vari stati
italiani dalla metà del 1400. Egli osserva quindi la frammentazione da parte di altri di quella realtà in cui era
cresciuto, e non può non rimanere stupefatto. I suoi testi sono quindi un continuo rimuginare sulle cause di
quello che sta vivendo, ovvero che la geografia tradizionale si è rotta, che ci sono principi esterni che invadono
l’Italia e – come conseguenza di questo terremoto politico internazionale – che ci sono anche principi nuovi nati
all’interno della penisola italiana che a loro volta scompaginano i tradizionali paradigmi pratici della politica.
N. Machiavelli, Il Principe, cap. VIII, cap. XV e cap. XVIII
«Coloro e’ quali per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengano; e non
hanno difficultà fra via, perché vi volano; ma tutte le difficoltà nascono quando sono posti. [...]. Di poi li stati che vengano
[attechiscano] subito come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e
correspondenzie loro in modo che ‘l primo tempo le spenga, come è detto, che sí de repente sono diventati principi, non
sono di tanta virtù, che quello che la fortuna ha messo loro in grembo, e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli
fondamenti che li altri hanno fatto avanti che diventino principi, li faccino poi».
[...]
«Restano ora da esaminare quali debbano essere le norme di comportamento di un principe con i sudditi e con gli amici. E
poiché io so che molti hanno scritto su questo argomento, temo, scrivendone anch’io, di essere ritenuto presuntuoso,
allontanandomi, proprio nel trattare questa materia, dalle opinioni degli altri. Ma, essendo mio intendimento scrivere cose
utili per chi vuol capire, mi è parso più conveniente seguire la verità effettuale delle cose piuttosto che la loro
immaginazione. Molti, infatti, si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti nella
realtà storica. Perché c’è tanta differenza tra come si vive e come si dovrebbe vivere, che colui il quale trascura ciò che si
fa, per ciò che si dovrebbe fare, impara piuttosto la sua rovina, che la sua salvezza: perché un uomo che voglia sempre
comportarsi da persona buona è inevitabile che cada in rovina in mezzo a tanti che non sono buoni. Per cui è necessario
che un Principe, che vuole conservare il potere, impari a poter non essere buono, e a usare o non usare la capacità di
poter fare del male secondo le necessità.
[…] Lasciando da parte le immaginarie regole di comportamento di un Principe, e trattando quelle che sono reali, dico
che tutti gli uomini di cui si parla, e soprattutto i principi, perché sono più in alto degli altri, possiedono alcune delle
seguenti qualità che arrecano loro o biasimo o lode»
[...]
«Dovete adunque sapere che sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le leggi; l’altro, con la forza. Quel primo è
proprio dello uomo, quel secondo, delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo.
Pertanto a uno Principe è necessario saper bene usare la bestia e l’uomo. […]
Sendo dunque uno Principe necessitato sapere bene la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione. Perché il lione
non si difende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a
sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può pertanto uno signore
prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono
promettere. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la
osservarebbono te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro.

Queste frasi celebri di Machiavelli sono significative e straordinariamente rivoluzionarie, tanto che sta in esse la
ragione per cui verrà messo all’indice, perché scrivendo queste cose egli scarta un tema che gli altri scrittori
politoci italiani continueranno a trattare, ovvero i tiranni. Il periodo in cui Machiavelli scrive è quello in cui
l’Italia è piena di trattati sui tiranni.
Coloro che scrivono dei tiranni, scrivono in parte anche di ciò che sta accadendo, ovvero dell’ascesa di principi
nuovi che arrivano a comportarsi come dei tiranni. Gli scrittori politici usano delle categorie tradizionali per
questo termine: la categoria tradizionale della tirannide proviene dalla filosofia del libro della politica di
Aristotele e tutti adottano la sua distinzione che egli fa tra governi buoni e governi cattivi, governanti buoni o
tiranni (che si curano solo dei propri interessi)
Questa distinzione non compare in Machiavelli; nel Principe, non è mai scritta questa parola.
Machiavelli è si un uomo politico, ma viene da studi giuridici, ignora questa distinzione tra governanti buoni e
cattivi perché è affascinato dal modello dei principi nuovi, da non mostrare nessun interesse per il fatto che essi
possiedano dei titoli giuridici legittimi. Basta, per lui, che siano in grado di esercitare la sovranità.
La novità di Machiavelli è quindi quella di abbandonare la tradizione per abbracciare la modernità e non fare più
riferimento alle categorie aristoteliche.
Del resto, tutte quelle azioni teoricamente riprovevoli descritte a proposito dei tiranni ricadono nella categoria
della tirannide, anche se sono approvate da Machiavelli nei suoi testi. È certo che egli in ogni caso sia in grado
di distinguere tra un principe buono e un tiranno, ma per lui non è possibile applicare queste categorie alle
azioni dei singoli principi.
La fortuna di Machiavelli e la sua straordinaria popolarità successivamente è quella di aver intravisto questo
flusso di trasformazioni e di novità che compaiono nell’Italia di allora perché l’Italia è non solo il condensato
della migliore realtà politica europea, ma è anche – come dimostrano le numerose invasioni dal 1400 – il campo
di battaglia preferito delle principali potenze europee. In quegli anni, grazie alla straordinaria fioritura culturale
e intellettuale italiana, dominare l’Italia significava dominare l’Europa, il laboratorio di elaborazioni teoriche si
infittisce così come si amplia lo scontro tra le nuove monarchie europee, quelle più moderne e potenti, e i vecchi
principati, le vecchie repubbliche, che vengono strangolate e poi divise. Questo porterà a partire dal tardo
Quattrocento, ad un periodo di dominazione straniera che renderà l’Italia del Cinquecento una sorta di grande
appendice della monarchia spagnola.
Il soccombere dell’Italia è legato a quei processi di accentramento politico che interessano soprattutto i territori
dell’Europa occidentale (Spagna, Francia, Inghilterra e Olanda).
Ne La storia d’Italia, Guicciardini scriveva che la nostra penisola era entrata all’epoca in una fiamma che era
entrata come una peste in italia e che aveva trasformato non solo gli stati, ma anche i modi di governare.
Proseguiva osservando come fino a questo periodo in Italia si erano fatte delle guerre corte, ovvero guerre che
duravano pochi periodi, che terminavano anche senza troppi morti, e che tutto questo era stato spazzato via
dall’arrivo dei francesi, più forti, che avevano fatto si che l’unità d’Italia si squarciasse facendo nascere quelle
che lui chiamava guerre velocissime, che avevano portato a occupare immense porzioni di terra italiana, che in
precedenza sarebbero state conquistate solo dopo mesi di battaglia.
Gli stati venivano assegnati velocissimamente, nel tempo di una firma.
In questo senso è giusto parlare dell’inizio dell’età moderna come anche l’inizio di un sistema diplomatico di
Stati che fa intravedere delle gerarchie interne molto precise, che vanno a vantaggio di quei territori che si
stanno accorpando come dinastie con una monarchia stabile (Valois, Tudor, aragonesi, castigliani) e a
svantaggio di quell’area più centrale che per la sua frammentazione è più debole e quindi sottoposti a invasioni e
occupazioni.
Ciò prefigura i graduali processi di accorpamento territoriale che continueranno in seguito.

Sarebbe sbagliato pensare che questi stati siano simili ai nostri stati attuali. Quando usiamo la parola stato, noi
pensiamo immediatamente ad alcune caratteristiche della storia più recente.
Lo stato moderno è un insieme di poteri e di istituzione che esercitano un’autorità su un territorio abitato da
persone o da comunità di persone accomunate da una serie di caratteristiche (lingua, cultura). Questo è, però,
anche una Nazione.
Gli stati dell’antico regime non sono delle forme embrionali degli stati che abbiamo appena descritto o, in
generale, degli stati moderni. Noi usiamo delle parole e dei concetti che ci aiutino a comprendere la realtà, ma
queste parole e questi concetti vanno utilizzati con cautela per evitare l’anacronismo.
Quando usiamo la parola stato dobbiamo renderci conto che nessuno dei criteri che noi usiamo spontaneamente
per definire uno stato va bene per definire gli stati del Quattrocento. Questi criteri (un territorio unito, un popolo
unito da caratteristiche comuni, e un esercizio dell’autorità statale centralizzato) sono figli della trasformazione
che gli stati europei hanno subito dopo la rivoluzione francese ma non vanno bene per gli stati del quattrocento a
cui noi ci interessiamo.

Jean Bodin è un giurista francese (metà cinquecento) che noi ricordiamo come teorico della sovranità assoluta:
lui scrisse un trattato che si chiama I sei libri dello stato, famosi perché vi troviamo scritto che “per sovranità si
intende quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello stato”.
J. Bodin, I sei libri dello Stato (ed. or. 1576), l. I/1, l. III/7)
«Per Stato s’intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno
in comune fra loro. […]
La differenza fra la famiglia e i corpi e collegi, e fra questi e lo Stato, è come quella del tutto rispetto alle parti: poiché la
comunità di più capi di famiglia, o di un villaggio, di una città, di una contrada, può sussistere senza lo Stato altrettanto
bene che la famiglia senza collegio; e così come molte famiglie strette fra loro da legami di amicizia sono membri di un
corpo e di una comunità, così più corpi e comunità, stretti insieme dal vincolo del potere sovrano, formano uno Stato. La
famiglia è una comunità naturale, il collegio è una comunità civile; lo Stato ha, in più, che è una comunità governata con
potere sovrano; ma può essere tanto ristretta da non comprendere né corpi, né collegi, ma soltanto un certo numero di
famiglie. perciò la parola comunità si applica insieme alla famiglia, al collegio e anche allo Stato: mentre per corpo,
propriamente, s’intende l’insieme di più famiglie o di più collegi, o di più famiglie e collegi».
Questa definizione di stato come un insieme di famiglie di collegi di corpi che devono essere governati in modo
giusto è inizialmente sconcertante perché parla allo stesso tempo di un governo su persone e di una sovranità
come potere assoluto. Su queste comunità di persone, lo stato esercita, si, un potere assoluto, ma lo deve
esercitare in modo giusto. L’esercizio della sovranità assoluta, secondo Bodin, non sta nello schiacciare le varie
parti che compongono lo stato, ma sta nel garantire una armonia e una convivenza pacifica fra le stesse.
Bodin usa la formula “potere assoluto” (ab-solutus, sciolto da tutto), ma descriverlo come il teorico
dell’assoluto sarebbe un anacronismo perché a Bodin “assoluto” non suona come sinonimo di assolutismo,
perché fa presente al sovrano che esistono delle leggi naturali e divine, superiori al sovrano, che limitano il suo
potere.
Possiamo immaginare lo stato territoriale europeo come un collage di territori che si comportano, di fronte al
sovrano, come titolari di un certo diritto, di certe prerogative incancellabili – e questo darà atto a numerose
rivoluzioni in seguito.
I documenti più interessanti dell’Europa di allora sono i patti o giuramenti di dedizioni, ovvero delle formule
che i sovrani dovevano utilizzare quando entravano al potere (come i ministri italiani).
1506: Carlo V, re di spagna, gira le regioni spagnole dopo l’incoronazione deve giurare di fronte alle cortes
Questo giuramento è una forma di garanzia, che limita il potere del re europeo.
Riunione delle Cortes di Castiglia, Valladolid 1506, cit. in G. Dall’Olio, Storia moderna. I temi e le fonti, Roma,
Carocci 2002, pp. 131-133
«…Altissimi e potentissimi signori,
I procuratori delle città e dei borghi di questi vostri regni, i quali per vostro reale mandato sono venuti a queste Cortes,
supplicano le Vostre Altezze le seguenti cose:
In primo luogo: Un gran bene e un gran beneficio ricevono i regni quando i principi vengono allevati nei loro regni fin
dalla loro fanciullezza e vengono educati dai nobili del luogo e dai sapienti e da coloro che conoscono le condizioni dei
regni […] supplicano umilmente le Vostre Altezze che vogliano dare ordine che l’altissimo ed eccellentissimo principe don
Carlos nostro signore venga e sia cresciuto ed educato in questi regni e conosca […] la loro condizione e le loro usanze. Il
maggior bene che i sudditi ricevono dai loro re e signori è essere uditi e provvisti di rimedi nelle cose della giustizia, e i
principi e i re che con amore ascoltano i loro sudditi sono più amati, temuti e obbediti, popoli sono molto soddisfatti e
tranquilli; perciò supplicano umilmente le Vostre Altezze che, proseguendo e continuando l’ordine […] dei loro
predecessori, piaccia loro dare udienza pubblica un giorno alla settimana attraverso le loro Reali persone, perché si
compia […] la giustizia, così che i vostri sudditi siano uditi nel più breve tempo e soddisfatti […].
I saggi antichi e le Scritture dicono che […] le leggi e ordinanze devono essere conformi alle province e non possono
essere uguali né avere una stessa forma per tutte le terre; perciò i re stabiliscono che quando si dovessero fare delle leggi,
affinché esse fossero vantaggiose ai loro regni e ciascuna provincia fosse ben provvista, si chiamassero Cortes e
procuratori che esaminassero la materia, e perciò si stabilì che non si facessero né si revocassero leggi se non nelle
Cortes; quindi supplicano le Vostre Altezze che ora e di qui in avanti si osservi e si faccia così; e quando è necessario fare
delle leggi, mandino a chiamare i loro regni e i loro procuratori, perché attraverso leggi fatte in questo modo essi saranno
molto più compiutamente informati circa lo stato dei regni, e i vostri regni saranno muniti secondo giustizia e diritto; e,
poiché senza rispettare questa procedura si sono compilate molte ordinanze, a causa delle quali i vostri regni si sentono
aggravati, [le Vostre Altezze] ordinino che esse siano rivedute e che venga provvisto e rimediato agli aggravi che tali
ordinanze comportano”.
02 ottobre 2019
L’impero Ottomano
Ieri accennavamo alla presenza delle monarchie moderne europee proto-nazionali, che sono diverse dallo
schema tradizionale degli stati nazionali e che continuamente escono dai confini dell’Europa, e osservavamo
anche la continua e selvaggia competizione militare tra queste potenze.
L’impero europeo aveva una grande dimestichezza con altri imperi, per esempio quello russo, quello cinese…
ma tutti questi imperi non erano stati dei vicini pericolosi per gli europei grazie alla loro stabilità e alla loro
distanza geografica, permettendo quindi relazioni diplomatiche.
Il saggio di Alessandro Vanoli dedicato alla crescita di tre grandi imperi (ottomano, persiano, indiano) dimostra
come a partire dal XV secolo il mondo si era riempito di imperi (vedi anche cap. 8), soprattutto quegli islamici,
di cui il più importante fu quello ottomano.
A partire dall’VIII e IX secolo, l’area che si estende dalla penisola anatolica fino all’asia centrale e all’africa
settentrionale era stata islamizzata entrando a far parte della Umma, ovvero la comunità di fedeli islamici.
Questi territori si erano riempiti di formazioni politiche di diverso tipo (soprattutto emirati), che riconoscevano
la presenza di principati molto flessibili e plastici di religione ottomana.
All’inizio del XIV sec uno dei tanti emirati dell’asia, che si regge su una dinastia che viene dall’asia centrale,
riesce a diventare una formazione politica stabile che si fa strada in quest’area, combatte con altri rivali della
zona e alla morte di Osman (uno degli emiri turcomanni, da cui deriverà il termine ottomani) si forma uno
staterello di etnia turca che deve combattere con altre presenze locali e con l’impero romano bizantino. Le
relazioni tra bizantini e turchi sono intense, ma già nella seconda parte del XIV secolo, gli eredi di Osman
riescono ad approfittare delle debolezze bizantine e, grazie agli organismi politici più solidi dell’asia centrale,
essi scelgono di espandersi verso le aree dei Balcani. Nel 1389 conquistano l’attuale Serbia (Battaglia sul campo
dei merli), la Bulgaria nel 1393 e la Romania poco dopo. Nel 1402 gli Ottomani cercano di assediare
Costantinopoli ma non vi riescono a causa delle incursioni che i mongoli stanno facendo dalla Cina verso l’area
centrale. Successivamente, con la battaglia di Varna (1444) si spingono tra la Romania e l’ucraina.
Nel 1453 avremo infine l’assedio e l’espugnazione di Costantinopoli. La conquista di Costantinopoli, guidata da
Maometto II il conquistatore, è un evento che fa inorridire i cristiani, provocando la convocazione di una
crociata, ma è anche l’ultimo passo di una strategia precisa e studiata (appoggiata dalla Repubblica di Venezia,
che ha moltissimi motivi per non inimicarsi un simile vicino) che mette in risalto il peso dell’occidente nei
disegni espansivi dell’impero ottomano.
Maometto II ha ottime ragioni per voler conquistare Costantinopoli:
- Perché insieme a Venezia e Barcellona è il principale porto commerciale;
- Perché è la porta d’ingresso (dardanelli) e uno snodo vitale sia per i rifornimenti cerealifici sia per quelli
degli schiavi;
- Perché ha un’importanza simbolica data dal suo prestigio come capitale dell’impero Bizantino;
- Perché si tratta di una conquista tentata già da molti suoi predecessori.
Dai primi secoli di radicamento degli osmanici, quindi Costantinopoli è un punto fisso dei pensieri politici e dei
piani geografici degli ottomani e con la sua occupazione, Maometto II si può definire Signore dei due mari (Mar
nero e Mar bianco = mediterraneo), ma anche signore di Anatolia e di Rumelia (Rum=greci; terra dei rum =
Europa, terra dei rumani) e quindi legittimo erede della dignità imperiale (dopo Federico III del SRI).
Dopo questa conquista, gli ottomani continuano la loro espansione spazzando via le colonie genovesi dell’area e
cominciano l’occupazione delle parti ancora libere dei Balcani, arrivando fino alla Bosnia e all’Albania.
La prima capitale degli ottomani era Bursa, ma conquistata Costantinopoli Maometto II comincia a organizzare
una concentrazione demografica verso questa città facendo costruire una splendida reggia Topkapi Sarayt (= la
porta del cannone), costruita sulla falsariga di un disegno di tre cerchie al cui cuore abita il sultano, che
normalmente non si mostra al pubblico. L’ingresso alla terza cerchia passa per la “sublime porta”, una porta
riccamente decorata (che per gli europei vale come sinonimo del governo ottomano) e simbolica. Il palazzo
interno assomiglia simbolicamente a una sorta di tenda, che richiama lo spostamento delle prime tribù
osmaniche, il mondo delle steppe…
Questa straordinaria espansione territoriale, che si compie nell’arco di un secolo, pone dei problemi di
organizzazione e di struttura politica che non si erano mai presentati agli ottomani prima. Il modo in cui si
risolve l’organizzazione di questi territori è molto diverso da quelli che vengono adottati dagli europei: una delle
strutture politiche che vengono messe all’opera (anche per catturare la fedeltà dei fedeli cristiani) è il Timar,
un’unità territoriale abbastanza piccola che il sovrano concede in cambio di prestazione del servizio militare. È
diverso dal feudo occidentale perché rimane comunque un dominio sultaniale e non può essere ceduto
ereditariamente: tutto ciò che ha conquistato il sultano è del sultano e non può essere ceduto. Il Timar
rappresenta una struttura fondamentale da cui nasceranno delle unità territoriali più grandi, i sangiaccati.
Questo escamotage di conquista della fedeltà di popolazioni non turche funziona perché la forza militare e
l’autorità politica del Sultano è così grande da costringere anche le popolazioni europee cristiane a venire a patti
con gli Ottomani.
Esiste anche un altro modo per entrare a far parte della burocrazia militare ottomana, che permette di costruire
ex novo una rete di fedeltà e obbedienza, ovvero la raccolta dei bambini (devşirmek): essa costituisce una delle
pratiche più usuali di reclutamento, che ha come target i bambini delle famiglie soprattutto cristiane, che devono
mettere i loro figli a servizio del sultano. I bambini vengono strappati dalle loro famiglie, convertiti all’Islam e
trasferiti in territorio musulmano dove vengono educati (soprattutto a Istambul) e addestrati o come funzionari
civili o come parti della milizia scelta (i Giannizzeri = parola svizzera che significa nuovo fante).
Giannizzeri e timarioti diventano il cuore di un servizio che combina la devozione assoluta al sultano a una
efficiente crudeltà ottomana, che li provvede di una forza tecnica e di una numerosità che nessun altro esercito
può contrastare.
Il successivo obbiettivo ottomano – all’inizio del XVI sec sotto il sultano Selim – è il Medio Oriente (Siria,
Israele, Giordania…) ma non oltre il Mar Rosso, dove si estende un altro impero, quello della dinastia
Saffapide, di fede eterodossa Summita, nelle terre dell’attuale Iran.
Dopo aver redatto un contratto di pace con i persiani, Selim decide di iniziare la conquista delle terre che
appartengono ai Mamelucchi, che avevano il loro centro di potere nell’attuale Egitto.
Nel sultanato di Selim (1512-1520), egli lancia un’offensiva contro i Mamelucchi, che erano alle prese con la
concorrenza commerciale Portoghese; i mamelucchi, già incapaci di affrontare la concorrenza navale portoghese
(cannoni artiglieria navale), chiamano in soccorso gli Ottomani, che arrivano e approfittano della situazione
occupando nel giro di pochi mesi tutto il territorio mamelucco, arrivando sino alla conquista de Il Cairo nel
1517.
La vittoria ottomana del 1517 (anno della riforma di Lutero) è molto importante quindi per dimostrare agli
europei come gli ottomani siano in grado di conquistare ciò che vogliono.
La conquista del Medio Oriente e della penisola arabica è una cesura molto importante anche dal punto di vista
religioso, perché i mamelucchi erano i tesorieri di tre luoghi santi dell’islam:
- Gerusalemme
- Medina
- La Mecca
Gli ottomani, che nella complicata geografia delle dinastie islamiche non potevano vantare un’eredità diretta dal
Profeta Maometto, ma la custodia dei luoghi sacri permette agli ottomani di presentarsi alla comunità
maggioritaria islamica (i sunniti) come i difensori della vera fede islamica contro gli europei e contro gli eretici
sciiti. Questo imprime anche sui territori una sfumatura religiosa che prima non avevano.
Tutto ciò aumenta il grado dei dissidi che gli islamici hanno con i cristiani (che abitano le “terre degli infedeli” o
le “terre del dominio della guerra”).
L’idea di fondere l’azione politica e la conquista territoriale con la motivazione religiosa diventa dominante nel
più importante sultano turco nella prima età moderna, il Figlio di Selim, Solimano il Magnifico o il Legislatore,
che prende in mano le redini dell’impero ottomano alla morte di Selim il Crudele (che aveva inventato la pratica
di uccidere vari eredi tranne uno).
Solimano, che si definisce Schiavo di Dio e Sultano di questo Mondo, si dedica alla guerra religiosa occupando
tutta l’Africa settentrionale (di conquista principalmente aragonese) ed alla conquista velocissima di ciò che
resta dell’Europa libera (in particolare dell’attuale Ungheria). Tra 1526 e 1530, questo sovrano che continua a
farsi chiamare imperatore d’Oriente e d’Occidente penetra tutta quest’area. Nel 1529 è ad un passo dall’ingresso
in Europa con il primo assedio ottomano di Vienna, ed inizia quindi nei suoi programmi un processo di
propaganda bellica proponendosi come:
- Sultano ottomano
- Basileus (imperatore romano d’oriente)
- Kaiser (imperatore romano germanico).
Solimano il Magnifico è l’incarnazione più sentita dell’aspirazione ottomana sull’Europa, e la sua penetrazione
di questi territori ha un solo obbiettivo, ovvero quello di sostituirsi all’imperatore Occidentale Carlo V (eletto un
anno primo). Il loro scontro (capitoli 22 e 23) accompagna varie fasi della grande politica europea della prima
metà del cinquecento

Le incisioni veneziane di Solimano il magnifico, con questo stranissimo elmo che assomiglia da un lato alla
corona imperiale e dall’altro, soprattutto, la tiara pontificia. Da questa strana mescolanza tra la tiara di Clemente
VII e la Corona di Carlo V nasce appunto questo strano copricapo di Solimano il Magnifico, che va a sostituirsi
al turbante classico delle rappresentazioni tradizionali del sovrano ottomano per dare una parvenza più
“europea”.
Questa chiarissima e ostentata ambizione imperiale di Solimano – che si era presentata anche in questa sua
rappresentazione – si poteva vedere anche nei dispacci che mandava a Carlo V, dove si rivolgeva a lui come Re
di Spagna, e mai come Imperatore, perché effettivamente per lui e per la sua corte ottomana, Carlo V non era
che quello.
Solimano ha quindi una politica consapevole ma anche ambiziosa. Il culmine di questa politica si ha nel 1547,
quando di stabilisce un accordo di pace tra Solimano e Carlo V (Tregua di Adrianopoli).
Gli europei, oltre ad essere intimoriti
Domanda: la pace con CV come era stata presa dagli ottomani?
Per gli ottomani è vantaggiosissima: gli ottomani oltre a non menzionare in questo accordo chi sia l’imperatore,
ricevono la garanzia dei territori acquistati e una notevole donazione in denaro dagli Asburgo.
Il papa non è felice ma non è nella posizione di lamentarsi perché gli altri sono più potenti di lui e perché
doveva pensare anche alla riforma luterana.
Gli osservatori europei cercano di spiegarsi come mai gli ottomani fossero così invincibili; leggiamo cosa scrive
Paolo Giovi in questo Commentario delle Cose dei Turchi – i Turcica erano un genere molto in voga all’epoca –
perché esprime un po’ il pensiero degli europei sull’origine della forza militare ottomana, lasciando trasparire un
certo livello di ammirazione.
Dopo il concilio di Trento, in ogni caso, i Turcica e il generale atteggiamento di ammirazione per l’impero
ottomano dovranno sparire.
Ciononostante, gran parte degli intellettuali e osservatori europei (tra cui anche Machiavelli) scriverà
ammiratamente di questa potenza militare.
Tutti gli europei osservano però una differenza fondamentale. Prendiamo Machiavelli: egli dice che le
monarchie sono distinguibili tra europee e non europee, e che tutta la monarchia del turco è governata da uno
signore e gli altri sino servi, mentre la monarchia francese è messa in mezzo ad una moltitudine di signori e il re
di Francia non può togliere alcuni diritti degli aristocratici e dei baroni senza suo pericolo.
La grande divisione tra le monarchie europee e non europee è quella di avere un sovrano turco che di fatto sia un
despota che governa su una moltitudine di servi, mentre i re europei non hanno questo potere assoluto perché ci
sono alcuni diritti inalienabili che non possono togliere ai nobili.
Gli europei, però non colgono due fattori: il primo è che gli schiavi ottomani sono una “slavery élite”, perché
provengono da un’istruzione alla fedeltà assoluta verso il sultano, mentre il secondo è che questa condizione di
completa sottomissione al sultano e la conseguente assenza di diritti individuali nell’impero ottomano non
equivale ad una condizione sociale degradante. Gli schiavi sono socialmente importanti e politicamente rilevanti
pur restando schiavi.

7 ottobre 2019
C.H. Parker, Relazioni globali nell’età moderna 1400-1800, il Mulino, Bologna, 2012,
«La prima età moderna, dal 1500 al 1700, fu caratterizzata dall’ascesa e dal fiorire di tre grandi imperi a maggioranza
musulmana, in Asia e nell’Africa settentrionale, due dei quali di enormi dimensioni territoriali. Essi furono l’impero
Mughal in India, l’impero Safavide in Iran, quello Ottomano nell’area che oggi corrisponde alla moderna Turchia, le parti
meridionali dell’Europa orientale, il Medio Oriente e l’Africa settentrionale abitati da popolazioni che parlano la lingua
araba. Le élites che governavano questi tre imperi erano profondamente musulmane nel credo religioso e nelle loro
ideologie sociali, ma tutte sperimentarono la convivenza con un crogiolo di religioni differenti, che influirono sulle loro
pratiche politiche e le cambiarono nel tempo […].
Anche a trascurare lo sviluppo cinese, iraniano, indiano, si può osservare che questo fu il periodo in cui apparvero sulla
scena mondiale forti strutture statali, guidate da dinastie, che svilupparono le stesse ideologie di potere appellandosi a una
legittimazione divina. In questi imperi, e poi come vedremo negli stati europei, le caratteristiche con cui si formarono
questi dominî furono simili: «subordinazione dei nobili e dei poteri locali, creazione di burocrazie strutturate e costruzione
di eserciti e flotte efficaci. L’imperialismo fu una naturale conseguenza dell’accentramento del potere, poiché la potenza
degli eserciti facilitava la conquista di popoli e territori. La costruzione e il mantenimento dell’impero diede luogo a
quattro processi critici di interazione – commercio internazionale, migrazione, mescolanza etnica e diffusione della
conoscenza – che trasformarono il corso della storia mondiale».

J. Burbank and F. Cooper, Empires in World History. Power and Politics of Difference, Princeton (U.P.), 2010
The world became more interconnected in the sixteenth century, but not because anyone set out to make it that way. Under
Portuguese, Spanish, Dutch, French, and British auspices, state power was used not just to gain access to new goods and
new lands of settlement but to prevent others from doing so. None of the imperial regimes could maintain the monopolies
they sought, but the fact that they tried put pressure on others to build overseas empires, too.
Nor could any empire-or European empires in general, if one wants to impose a retrospective unity on them-actually make
the world its frame of reference. The Ottoman and Chinese empires were too powerful to become enmeshed in a European
web; the interior of Africa was inaccessible. European maritime empires depended on links to commercial networks, in
Africa as well as Asia, that Europeans did not control or even know very much about. The world in the eighteenth century
was still multipolar».

La grande competizione fra monarchie europee fa convergere in uno scontro continuo queste potenze, che
cercano continuamente di ascendere, di espandersi più dei loro rivali.
Per quanto fossero forti, i poteri europei che si affacciavano a una grande fase di espansione oltre i loro confini,
avevano per un lungo periodo di tempo cercato di sopravanzare economicamente e militarmente gli imperi
asiatici o euroasiatici.
L’ascesa degli imperi islamici creò un’ondata di paura nel mondo europeo, ma anche una enorme e rilevante
competizione nel mondo economico: fino al quattrocento, gli europei avevano avuto la possibilità di esercitare
in condizioni favorevoli un’attività di scambio commerciale ed economico con i paesi che si affacciavano sulle
rive settentrionali dell’Africa e col Medioriente.
Fino all’espansione ottomana, le rotte commerciali verso questi paesi erano aperte e fluide, ma dalla fine del
quattrocento, il controllo ottomano bloccò queste vie di comunicazione spingendo gli europei a cercare rotte
commerciali alternative. Quando, però, nel 1517 gli ottomani riuscirono ad annettere l’area della penisola
arabica ai loro domini, questo vitale ramo del commercio con l’oriente, che portava in Europa spezie, carta,
unguenti e alimenti etc venne di nuovo chiuso. Fu in gran parte per resistere alla penetrazione portoghese che gli
ottomani si espansero in quella direzione, cercando di intercettare tutte le diramazioni dei commerci via terra e
arrivando fino alla Serbia con Solimano.
Questa barriera militare ottomana fu il motore fondamentale dell’età delle scoperte, che fu in realtà uno sforzo
di adattamento che gli europei furono costretti ad affrontare per far fronte a dei rapidi e profondi mutamenti
geopolitici. La sfida ottomana fu poi ciò che spinse portoghesi prima e europei dopo a intraprendere la ricerca di
nuove rotte commerciali fuori dal vecchio perimetro.
Prima ancora della classica scoperta dell’America latina, abbiamo l’esperienza portoghese, straordinaria a suo
modo, che è una sorta di incubatrice che imprime un modello molto imitato dagli spagnoli.
Per l’esperienza coloniale portoghese, era stato fondamentale avere una motivazione religiosa che affiancasse
quella economica: quando il Portogallo era un territorio monarchico già compiuto, la spagna non lo era, perché
era stata per buona parte dei secoli precedenti un dominio islamico.
La Reconquista, che porta i regni cristiani spagnoli a espellere le presenze islamiche (i musulmani), ha una
profonda venatura religiosa, quasi crociatica, nel suo intento di riappropriarsi dei territori cristiani. Questo
processo conosce un’accelerazione nei primi decenni del xv secolo e ha come protagonisti due regni
dinasticamente distinti: il regno di Castilla y Leon ed il regno di Aragona, che sono i due pilastri cristiani della
Reconquista e della guerra contro la dominazione araba.
C’è un documento emanato nel 1449, a Toledo, nel regno di Castiglia, che è il primo statuto che i re di Castilla y
Leon promulgano con il beneplacito del pontefice per vietare ai discendenti musulmani ed ebrei anche se
battezzati di accedere a qualsiasi carica civile ed ecclesiastica. È un documento in cui gli storici ravvisano la
prima premessa di una discriminazione raziale, che si pone nell’ottica di considerare gli ebrei e i musulmani
come infami, indegni e incapaci di ricoprire una qualsiasi carica e di godere di benefici pubblici o privati, con
questo documento che stabilisce una chiarissima e dura definizione biologica della politica – perché è evidente
nel testo che gli ebrei, anche quelli battezzati, sono detentori di una perfidia nel sangue che non può essere
cancellata nemmeno con il battesimo – stabilisce una frattura netta tra quelli che verranno chiamati i cristiani
vecchi e i cristiani nuovi, che sono gli ebrei e i musulmani battezzati, che sono costretti a convertirsi, ma che
vengono considerati comunque macchiati di un peccato originario che li rende in qualche modo delle creature
sospette, ibride, escluse e quindi mai del tutto appartenenti alla razza cristiana.
Nel 1469, i due regni di Castilla y Leon e Aragona, con il principato di Cataluna, si unirono dinasticamente con
il simbolico matrimonio di Fernando di Castilla e Isabella di Aragona, la cui unione diede un nuovo vigore e una
nuova forza militare alla politica di cacciata progressiva dei musulmani, che resistettero fino al 1492 nel
Califfato di Granada. Tra il 1478 e il 1483, a suggellare la matrice confessionale della reconquista, Ferdinando e
Isabella decidono di introdurre una magistratura che avrà un’importanza straordinaria per la storia spagnola e
costruita per perseguire l’eresia in tutte le sue forme, conosciuta con il nome di Inquisizione Spagnola
Esisteva un’inquisizione pontificia che aveva il compito di perseguire ogni forma di deviazione confessionale,
ma il tratto caratteristico di quella spagnola era quello di essere una giustizia, un tribunale, un apparato
giudiziario al servizio e agli ordini della monarchia. Questo tribunale organizzato in distretti territoriali e che
aveva al suo vertice un tribunale alla corte (suprema inquisizione), che iniziò subito a perseguire l’eterodossia, a
torturare gli infedeli e gli ebrei, a istituire gli autos da fe (o autodafé o sermo generalis sono atti pubblici in cui
venivano bruciati eretici o libri all’indice). Il gruppo di ecclesiastici inquisitori al servizio del re fu l’unica
istituzione che rimase capace di agire allo stesso modo in tutti i domini del regno, anche in quelli oltreoceano.
Questo non risolveva alla radice il problema degli infedeli, ma radicò nel profondo della mentalità spagnola
l’idea di una inscindibile connessione tra politica e religione: non essere fedeli della religione cristiana
significava essere infedeli anche nei confronti dei monarchi.
Quando cadde l’ultimo frammento di dominio arabo in spagna (Granada), dopo la vittoria finale contro l’islam,
Ferdinando e Isabella emanarono un celebre decreto, (decreto dell’Alhambra) che in maniera draconiana poneva
gli ebrei di fronte alla semplice alternativa di convertirsi (pagando il 45% del loro patrimonio) o lasciare la
Spagna (abbandonando tutto il patrimonio e tutto quello che possedevano). Vi furono molte conversioni, e i
conversos furono presenze non sempre identificabili, ma sempre presenti e mal sopportate. Altrettanto numerose
furono le fughe verso territori più ospitali, come Italia, Africa e l’Impero ottomano, che li accolse (Istanbul ebbe
una grande colonia di ebrei spagnoli e portoghesi) senza fare grandi problemi per la loro fede e limitandosi a
chiedere di giurare fedeltà al sovrano.
I dimmi sono, nel linguaggio ottimano, gli infedeli protetti, che non professano la fede all’islam ma che pagando
una forma di esborso fiscale (calcolata secondo il millet, ovvero il gruppo comunitario) viene protetto dal
sultano. Nell’impero romano germanico, quindi, gli ebrei sopravvivono.
Dopo il 1492, gli ebrei e i musulmani in spagna non esistono più.

Il 1492 è anche l’anno in cui la prima spedizione spagnola tocca le isole caraibiche e da questa piccola
spedizione di tre navi che la spagna mette in mare per superare la concorrenza portoghese si apre una fase
impensata e nuova del rapporto fra imperi e stati monarchici europei ed i territori extraeuropei.
La cosiddetta conquista non fu il frutto di una programmazione da parte della monarchia spagnola, la quale si
limitò a finanziare i primi due viaggi di Colombo, ma la rapidissima penetrazione degli spagnoli nell’America
“latina” fu il risultato di tantissime iniziative individuali o private, spesso non autorizzate dalla corona spagnola,
che però ebbero uno straordinario e insperato successo.
La prima parte della conquista, che portò un centinaio di hidalgos spagnoli a cercare ricchezze in spagna, che
porta Cortez (personaggio curioso, spietato e crudele ma antropologo ante litteram, incapace di inquadrare il
mondo che sta scoprendo) nell’impero Mexica nel 1519. Cortez si disbriga velocemente della resistenza dei
Mexica, ed è la perfetta incarnazione di questa iniziativa individuale senza l’autorizzazione regia, dato che parte
non autorizzato dai governatori spagnoli e che calibra la sua missione come un segno di insubordinazione contro
i sovrani.
La seconda grande conquista territoriale, che porta alla distruzione dell’impero inca con Pizarro, è allo stesso
modo una missione di 180 uomini che partono non autorizzati alla ricerca di risorse materiali (oro soprattutto).
Come Cortez, anche Pizzarro conquista velocissimamente il territorio e a disfarsi di una struttura statale e
imperiale demograficamente invincibile che però in poco più di 20 anni cade in mano ai dominatori spagnoli.
Le ragioni intrinseche di questo processo sono varie, ad esempio il fatto che gli europei portino le armi da fuoco
o il fatto che la guerra degli europei ha come scopo quello di distruggere e conquistare, mentre l’idea della
guerra per gli indios americani era più rivolta al fare prigionieri
- La rassegnazione dei Mexica e degli Incas di fronte alla brutalità degli spagnoli (anche motivata dal
fattore religioso, legato alla concezione ciclica del tempo – almeno per i Mexica, che lo interpretano
come una punizione divina che si deve accettare)
- Il fatto che, soprattutto nell’impero Incas, c’era una divisione in fazioni di cui gli spagnoli approfittano
per far passare alcuni gruppi tra le loro fila
- Il fatto che non vi fu una differenza di principio tra la conquista e la Reconquista, perché uomini come
Cortez e Pizzarro trasportarono in queste terre la stessa violenza fisica, la stessa intolleranza religiosa e
la stessa volontà di persecuzione del diverso che i loro omologhi avevano adottato in spagna qualche
decennio prima contro musulmani ed ebrei.
Un segno di questa profonda omologia di significati e incomprensioni, la si ha anche dal fatto che una volta
arrivati in America latina, gli spagnoli puntarono a ricostruire in quei territori le stesse strutture politiche,
amministrative e religiose adottate in patria. Gli spagnoli non chiameranno mai quei territori colonie fino al
diciottesimo secolo, perché per loro erano solo un prolungamento della spagna territoriale: erano dei vicereami,
territori spagnoli a tutti gli effetti anche se distanti dalla madre patria. Si stabilì così una gerarchia etnico-raziale
che durò fino al XIX sec. I vicereami spagnoli conobbero una gerarchia sociale che si articolava così:
1. Al primo posto gli Spagnoli nati in spagna
2. Al secondo posto i Creoli, ovvero gli spagnoli nati nei vicereami
3. Successivamente tutte le varie specie e popolazioni (anche i nati da matrimoni interraziali)
4. Schiavi africani (importati urgentemente per far fronte alla mancanza di nativi, che morivano come
mosche!!!!)
5. Popolazioni native dei vicereami
Sommando le popolazioni dei vicereami, si contavano circa 25/26 milioni di persone alla metà del XVI secolo.
Questo numero, in poco più di un secolo, diminuirà drasticamente fino ad arrivare a un minimo impressionante
pari a 600 mila persone.
Questa prima apocalisse demografica (saggio di Almiero) è uno dei grandi interrogativi degli studiosi di storia
moderna. Il fatto che nella gerarchia spagnola gli schiavi africani valessero più degli indios era per il fatto che
essi costavano, bisognava pagare per farli arrivare.
Gli storici hanno coniato l’espressione di scambio colombiano per indicare questo scambio bio-ecologico che
riguardava la presenza e l’espansione europea nelle Americhe, indirizzando questo sintagma a tutte le
componenti del territorio (piante, animali uomini) perché immediatamente la presenza delle popolazioni native
venne sterminata dalla diffusione di malattie epidemiche importate dagli spagnoli (1518: vaiolo).
La diffusione di pandemie come quella del vaiolo distruggeva la presenza demografica ma anche gli assetti
sociali e istituzionali del continente.
L’effetto di questa apocalisse storiche portò anche all’arrivo ed all’acclimatamento anche di equini, bovini e
suini, che erano razze animali completamente sconosciute in queste aree e, dall’altro lato, l’arrivo di piante
come le patate, il mais ed altre che si sarebbero ben adattate in Europa.
L’ambizione spagnola e, di fatto, il trasporto delle strutture amministrative spagnole contraddistinse il
colonialismo spagnolo come nessun’altro colonialismo europeo. Va ricordato che la ricostruzione di una spagna
nelle Americhe comportò anche a livello territoriale la ricopiatura esatta del modello spagnolo, che si basava
ancora sull’amministrazione territoriale fondata sulle città, cosa inimmaginabile per questi imperi che avevano
delle grandi capitali ma, attorno ad esse, nessun tipo di sistema amministrativo basato su vari centri cittadini. Gli
spagnoli, allora, intervennero anche violentemente per formare in quei territori dei distretti amministrativi con a
capo delle città – conformi alla loro forma mentis e ai loro schemi organizzativi – e obbligarono i cittadini a
trasferirvisi. Anche questa concentrazione coatta fu una delle cause della diffusione rapidissima delle malattie
epidemiche e della moria della popolazione.
Per concludere questo excursus sulla storia della colonizzazione e della conquista spagnola, torniamo
momentaneamente a quella caratteristica connotazione religiosa che è il tramite ideale tra la reconquista
spagnola e la conquista spagnola.
L’espansione coloniale europea agiva in un contesto di grande competizione, e questo implicò che gli stessi
spagnoli da subito dovessero, nei confronti delle controversie diplomatiche e delle accuse mossegli dagli stati
rivali, difendersi principalmente dall’accusa – fondata – di avere costruito dei domini fondamentalmente
illegittimi. Nel 1493, quando la conquista dell’America era ormai avanzata, per dirimere una controversia
diplomatica sollevata dal portogallo, un pontefice spagnolo e originario della Famiglia Borgia (Alessandro VI)
emanò una famosa bolla pontificia (intercaetera del 4 maggio 1493). Sfruttando una conoscenza molto
approssimativa della geografia tolemaica, ovvero di quel quadrante impreciso tra paralleli e meridiani,
Alessandro VI stilò una linea ideale che passava in senso longitudinale ad una distanza approssimativa tra i
meridiani, congiungendo i due poli. Questa linea, conosciuta come raja, stabiliva una sommaria divisione
occidentale e orientale tra i domini spagnoli e portoghesi. Con questa bolla, il papa stabiliva con un testo
importantissimo per l’epoca che tutti i domini ad occidente della raja spettavano agli spagnoli, mentre quelli ad
oriente spettavano ai portoghesi, e che quindi tutti i territori che gli spagnoli avrebbero conquistato in quell’area
gli sarebbero stati attribuiti legittimamente.
Ovviamente, questa suddivisione sommaria ma efficace venne giudicata da molti rivali della spagna come una
cosa priva di senso, perché concedeva un dominio su terre e su mari che nessuno conosceva ancora. Eppure,
questa decisione pontificia – che il papa emanò in quanto Signore teorico del Mondo – avrebbe avuto una
importanza legittimante straordinaria nei confronti di tutte le confutazioni che da lì in avanti avrebbero
incontrato e respinto attraverso questa formula gli spagnoli.
La bolla era imprecisa e giuridicamente incoerente: il diritto spagnolo dell’epoca – che derivava da quello
romano – aveva messo a punto dei meccanismi giuridici che legittimavano l’appropriazione delle terre emerse
d’oltremare. Da ciò derivava il rituale che i conquistadores spagnoli avrebbero sempre attuato mettendo piede in
tutte le terre americane in nome dei propri re e in nome della santa religione cattolica.
Il dominio sui mari, però era di una diversa natura, e questo fu una delle grandi questioni messe in dubbio dai
loro rivali. Gli spagnoli seppero però sfruttare il presupposto di una concessione religiosa, che aveva
un’implicazione immediata, ovvero il fatto che la concessione del papa consentisse in senso generico agli
spagnoli di conquistare terre e mari in nome della fede ma ordinava allo stesso tempo che per essere effettiva
questa legittimazione giuridica gli spagnoli avrebbero dovuto convertire tutte le popolazioni che avrebbero
incontrato alla fede cattolica.
Il battesimo forzato era uno dei requisiti che anche i portoghesi avevano usato da sempre su tutte le popolazioni
di infedeli, ma l’incontro con le popolazioni americane fece subito capire che esse non si potevano definire
esattamente infedeli. Da ciò nacque un dibattito giuridico infinito, perché era difficile provare che queste
popolazioni non avessero mai ascoltato e conseguentemente rifiutato la parola di Dio (come si poteva dire
invece di ebrei e mussulmani). L’escamotage che venne allora adottato dagli spagnoli fu quello di catalogare gli
indios nella categoria cristiano-medievale dei Barbari, termine che indicava, già da Aristotele, degli uomini che
erano per loro natura servi. La dottrina della servitù naturale dei popoli fu lo stratagemma che usarono
continuamente le parti più conservatrici ed aggressive della politica spagnola per legittimare la conquista dei
territori e la sottomissione delle popolazioni che le abitavano. Contro gli incivili, servi per natura, si potevano
infatti applicare i criteri della “guerra giusta”, perché se che i coloni spagnoli diffondevano il vangelo, essi si
prendevano cura di questa popolazione incivile convertendola e riscattandola dalla loro condizione servile.
La guerra a questi incivili era quindi giusta perché serviva a convertire la loro anima.
Ecco allora che di nuovo gli strumenti utilizzati durante la reconquista venivano applicati anche nei confronti di
popolazioni che avevano culti che agli occhi dei missionari europei erano opera del demonio. Lo sradicamento
di questi culti era quindi un’azione giusta che poteva essere compiuta anche con la forza.
La pratica, per esempio, del cannibalismo, che aveva dei significati spirituali specifici, era comune tra le
popolazioni indios, ma venne subito letta come un segno inequivocabile della loro barbaria, così l’assenza di
una tradizione di scrittura simile a quella europea.
La “Correctio fraterna” era la dimostrazione che si poteva procedere cristianamente nell’uso della forza per
convertire questi popoli perché si aveva la consapevolezza di avere come scopo quello di salvarli dallo stato di
inciviltà e servitù perpetua.

8 ottobre 2019
A.A. Cassi, Ultramar. L’invenzione europea del Nuovo Mondo, Roma-Bari, Laterza, 2007.
p. 90-91 «Certo, le nuove terre erano già abitate all’arrivo dei castigliani; ma da chi? Da uomini o da bestie? E ammesso
che fossero uomini, questi uomini erano legittimi domini delle loro terre? A ben guardare, le loro condizioni di vita
(nudità, assenza di leggi e di scrittura, riti primitivi, perfino cannibalismo e sacrifici umani) non erano forse molto più
simili a quelle degli “schiavi per natura” catalogati dal più grande scienziato di tutti i tempi, Aristotele?»
p. 155 «I saraceni, […] erano anche riconosciuti dai cristiani come legittime controparti negli intensi scambi commerciali
del bacino mediterraneo e come interlocutori in un secolare processo di confronto intellettuale, che non si interruppe
nemmeno durante le Crociate.
In altri termini, ai musulmani era riconosciuto dal diritto comune medievale un proprio statuto giuridico, seppur connotato
in termini spesso antagonistici (erano iusti hostes); dell’indio, al contrario (quanto meno all’inizio della Conquista) non
poteva nemmeno dirsi che fosse infidelis, perché apparteneva ad un “altro mondo”, rimasto a lungo privo perfino
dell’evangelizzazione e, quindi, della possibilità di rifiutarla.
Si trattava di condizioni “naturali” e “culturali” troppo diverse per configurare “posizioni giuridiche” uguali o similare.
I conquistadores affrontarono in armi gli indios con un approccio intellettuale, morale, antropologico radicalmente
diverso da quello con il quale i crociati, e più tardi gli eserciti di Ferdinando e Isabella, combatterono i musulmani».

F. Morelli, Il mondo atlantico, Una storia senza confini (secoli XV-XIX), Roma, Carocci 2012, p. 51.
«Contrariamente ai popoli tribali e nomadi, le strutture imperiali create dai mexica e dagli inca, con la loro
centralizzazione del potere, erano una preda paradossalmente più vulnerabile per gli europei. Catturata la figura suprema
dell’autorità, il meccanismo del potere imperiale cadeva nel caos, come Cortés e Pizarro dimostrarono con Montezuma e
Atahualpa. Una volta assicurata la vittoria finale, in gran parte grazie all’aiuto delle popolazioni che erano ostili alla
dominazione dei mexica o degli inca, era relativamente facile resuscitare vecchie linee di comando e rimpiazzare un
gruppo dirigente con un altro. Gli spagnoli si ritrovarono così a esercitare l’autorità su vaste popolazioni che erano
abituate a pagare tributi e ricevere ordini dal centro dell’impero. I conquistatori godettero anche del vantaggio di essere
risultati vittoriosi in battaglia, dimostrando in base alla cosmogonia indigena, la superiorità delle loro divinità. Messi
dunque davanti a popolazioni che si rassegnavano alla sconfitta o che consideravano la vittoria spagnola una liberazione
dall’oppressione azteca o inca, i conquistatori riuscirono a consolidare il loro dominio su questi imperi in modo
relativamente facile».

Nel primo testo si parla di quello che abbiamo visto la scorsa lezione, ovvero della visione degli indios e degli
infedeli da parte degli europei, che li consideravano come una diversità incomprensibile che aveva bisogno di
essere reinventata.
Dal testo di Federica Morelli, invece, apprendiamo una spiegazione interessante sulla sparizione così veloce di
mexica e incas. Secondo Morelli, la loro struttura politica li penalizzò molto, perché una volta messa in crisi
l’autorità dell’imperatore, queste strutture si disfacevano molto più velocemente di altri stati meno organizzati
dal punto di vista istituzionale.

Dal testo di Federica Morelli:


“Gli europei scoprirono sé stessi, ossia di far parte di uno spazio culturale percepito come omogeneo e distinto
in un periodo tra il xv e il xvi secolo grazie a 3 eventi fondamentali:
- Le Esplorazioni geografiche e la conquista delle Americhe
- La Caduta di Costantinopoli, che insediava un impero rivale al centro della cristianità
- La Riforma protestante, che ruppe l’unità cristiana.”

La rottura dell’unità cristiana

Testo di Paolo Prodi: «Se noi immaginiamo il paesaggio europeo come visto dal satellite, è la chiesa parrocchiale
che costituisce il punto di riferimento, sia nei paesi cattolici, sia in quelli passati alla Riforma durante tutta l’età
moderna; dall’alto si vede la chiesa, intorno alla quale si è costituito il villaggio (spesso prendendo il nome del santo
patrono), vicino alla chiesa il cimitero (con la compresenza dei vivi e dei morti, di un al di là umanizzato e recintato)
e le altre strutture della vita associata; lontano, ma a portata di una giornata di viaggio, la città, la cattedrale, le
sedi del potere e della cultura; al di là ancora, verso l’orizzonte., il diramarsi dei cammini dei pellegrinaggi (e delle
strade dei mercanti, spesso non separate) dalla Terra Santa a San Giacomo di Compostella e soprattutto a Roma,
dove tutte queste strade si intrecciano. Alcuni di questi tratti saranno cancellati dalla frattura religiosa del secolo
XVI […] ma il quadro fondamentale delle strutture parrocchiali rimane quasi intatto sino alla formazione delle
attuali megalopoli e delle immense periferie in cui le chiese sono quasi scomparse: solo ora, solo con le generazioni
che si sono affacciate negli ultimi decenni sembra venir meno la funzione di acculturazione generale svolta dalle
parrocchie, dalle chiese cattoliche, luterane e calviniste che siano».

La chiesa si pone come transito filtrante e spiritualmente rassicurante, perché essa si cura della possibilità che i
vivi parlino con i loro morti.
Questo testo è uno scorcio importante sulla presenza così capillare e ramificata che le vecchie generazioni
avevano della chiesa e dei luoghi che si radunavano intorno ad essa. Le chiese sono luoghi di incontro non solo
per la funzione liturgica ma anche, ad esempio, per le decisioni da prendere per guidare la comunità, per i
matrimoni, per i litigi. Anche nei cimiteri si radunano gli uomini per gli affari.
Tutto questo si spezza nel 1517.
L’aspetto istituzionale di Prodi non è l’unico da considerare, dobbiamo pensare, infatti, ad un altro aspetto,
quello culturale, che viene introdotto da questo testo di uno storico tedesco: “Oggi ci appare particolarmente
strana la forza onnicomprensiva della religione, per interpretare in chiave magica o cosmologica gli eventi
mondiali, come facevano allora letterati e non istruiti, uomini colti e uomini del popolo. Negli ultimi secoli
l’illuminismo e le scienze naturali hanno fissato nell’aldiquà e non nell’aldilà il nostro orizzonte di esperienze e
di interpretazioni. Nella vita personale, politica e sociale consideriamo ogni evento come determinato da
processi spiegabili in modo razionale, alla luce della natura e dell’azione degli uomini. Non possiamo definire
spiegazione l’intervento di forze sovrannaturali.”

Il rapporto con la paura della morte e con l’esigenza che una civiltà come quella cinquecentesca sentiva di fronte
al pensiero della morte non è quello che abbiamo noi oggi. Quello che civiltà cristiana sentiva di fronte al
pensiero della morte e, successivamente, della resurrezione e la salvezza della propria anima nell’aldilà aiuta a
spiegare questa riforma.

La rottura religiosa dal punto di vista degli elementi teologici e spirituali

Premessa: (Saggi di Vanoli e Lavenia) se per noi europei gli anni del primo 500 sono gli anni della riforma
protestante, dobbiamo considerare che in quegli stessi anni anche il mondo islamico vive la sua più grande e
durevole frattura, durante la quale una parte importante dell’islam si stacca spiritualmente, territorialmente e
politicamente. Anche questa separazione religiosa del mondo islamico, che dura tuttora, ha conseguenze
attualissime.
La divisione tra sunniti e sciiti si articola così: gli Sciiti rappresentano circa il 15% dei mussulmani nel mondo
ed hanno il loro capoluogo in Iran. Attorno all’Iran esistono paesi nati per lo più in seguito alla Prima Guerra
Mondiale (Iraq, Siria) in cui accanto a delle maggioranze sunnite ci sono delle corpose minoranze sciite molto
influenti, soprattutto dal punto di vista economico.
Oggigiorno, la Siria è spaccata in due da questa terribile guerra civile che ha portato a conseguenze disastrose.
Va ricordato che la Siria della dinastia di Assad è un paese a maggioranza sunnita, ma il vecchio dittatore Assad
apparteneva ad un influente gruppo sciita, gli alauiti, lo stesso vale per l’Iraq, il cui attuale governo è sciita e
rappresenta una minoranza molto importante.
La divisione del mondo sunnita e sciita è una delle cause di guerra più sanguinose del nostro tempo ma nasce da
una divisione cinquecentesca.
Lo sciismo è una branca dell’Islam che non riconosce la dottrina egemone e che si sviluppa da alcune
confraternite religiose nei primi decenni del quattordicesimo secolo. Questa corrente eterodossa si fa risalire a
dei discendenti di Maometto, e viene chiamata sciita perché scia in arabo vuol dire fazione. Gli sciiti sono
quindi dei ribelli pretendono di essere i successori legittimi di Maometto, attraverso la figura di un presunto
discendente di nome Alì. Questa pretesa costituisce il nocciolo dell’eresia sciita.
Una caratteristica particolare dello sciismo è quella di riconoscere non solo di essere i soli eredi della dottrina di
Maometto, ma anche quella di tendere a compenetrare molto più fortemente dei sunniti nell’evento religioso e
politico. In effetti, anche le supreme cariche politiche sono tenute da religiosi e questa compenetrazione tra
politica e religione è più forte nel mondo sciita che in quello sunnita.
Da questa confraternita, nasce e si sviluppa una concorrente religiosa che diventa nel xv sec una componente
politica importante, ma il momento in cui gli sciiti emergono come soggetti politici è tra la fine del xv sec e
l’inizio del xvi sec, quando questa importante corrente religiosa trova nella figura del fondatore della dinastia
iraniana, o persiana, Ismail un riferimento politico: Ismail è il fondatore della dinastia Saffatide, che reggerà
l’impeso persiano fino al 1722. Da quel momento l’Iran diventa la terra d’elezione dello sciismo. In meno di un
decennio, il fondatore di questa dinastia conquista politicamente l’Iran, si istalla a Cabriz che diventa capitale
dell’impero iraniano, ed ingaggia uno scontro molto violento con gli ottomani, che durerà fino a circa il 1520,
quando Solimano il Magnifico li fermerà definitivamente
L’impero iraniano è certamente una potenza politica di secondo ordine rispetto all’impero ottomano o
all’impero Mugal, che si sta formando tra il XV e il XVI secolo in India.

La nascita dell’impero Iraniano e di quello Mugal, ovvero di potenze politiche con una forte base religiosa, ha
fatto parlare (testo di Lavenia sulle religioni) ha fatto parlare di una più generale congiuntura millenaristica che
avrebbe interessato sia il mondo cristiano sia il mondo mussulmano all’inizio del XVI secolo
L’espansione dell’impero iraniano e di quello ottomano si fonda su una base religiosa, così come quella
portoghese e spagnola.

Quando Ismail diviene Scià degli Scià – titolo che sembra esprimere una sorta di divinità – gli osservatori
occidentali che vanno in Iran (numerosissimi in quegli anni) ricordano come proprio il primo Scià della dinastia
Saffatide venga considerato da molti come un Dio, da altri come un profeta, dai suoi soldati sicuramente come
un guerriero che non muore mai e che vivrà in eterno. L’idea di un mondo islamico iraniano che si costituisce –
attraverso la figura dello Scià – come la personificazione di un passaggio quasi divino, come cioè un elemento
che spezza il corso dei tempi e dei millenni è una traduzione abbastanza corretta dell’espressione millenarismo.
Millenarismo in sé significa un tipo di credenza (condivisa sia dai cristiani sia dai mussulmani) dell’arrivo
imminente di un mondo nuovo meraviglioso, senza caos, ordinato, razionale, perfetto divino.
Per arrivare a questo stato di perfezione occorre che vi sia prima una battaglia apocalittica tra il bene e il male: il
nuovo millennio arriva sempre preceduto da una tragedia (guerra, scontro, battaglia tra il bene e il male) che
distrugge un mondo per costruirne uno nuovo.
In quel periodo, quindi, sia nei domini di religione musulmana sia in quelli di religione cristiana abbiamo delle
numerosissime testimonianze iconografiche, letterarie e di tanti altri tipi (che vengono dai vari livelli della
popolazione) che ci dicono come l’Europa di quei tempi fosse percorsa dagli annunci di un’imminente
apocalisse. Questa sensazione che il giudizio di dio e la fine del mondo stessero arrivando erano molto presenti
nelle vite degli uomini era profondamente legata alle guerre che si stavano combattendo (ad esempio in Italia) –
che si pensava preparassero l’arrivo di un’epoca più pacifica. Tutta l’Europa è quindi pervasa da questo
sentimento di ansia.
Uno dei più grandi pittori di questo periodo, Albert Duret, pubblica una serie di incisioni che riguardano
l’apocalisse – l’apocalisse di san Giovanni era letta da tutti in questo momento, specialmente nella parte in cui si
parla delle persecuzioni che i romani avevano esercitato sui cristiani. Il fatto che questo artista abbia prodotto
un’intera serie di incisioni dedicata a questo tema è comunque molto significativo.
Anche l’altare di San Giovanni di Lucas Crana ha una predella sottostante che raffigura il giudizio universale,
commissionato dalla comunità di questo piccolo paese. C’è quindi una connessione molto profonda tra il
sentimento di ansia e l’apocalisse.

Thomas Kaffman, nel testo I redenti e i dannati, una storia della riforma, spiega come questa interpretazione
apocalittica del mondo venisse attizzata un po’ dovunque e come fossero certamente le guerre a provocare la
sensazione che la corruzione e il male fosse dappertutto, ma quest’ansia era provocata anche dalle notizie che
avevano improvvisamente aperto un orizzonte percettivo, sconosciuto e difficile da comprendere per gli europei
(si veniva a conoscenza della scoperta di nuove terre, di esseri viventi mostruosi che le popolavano, di conquiste
degli infaticabili e invincibili turchi, di cannibali, di misteriosi eserciti ebraici che partivano per la Palestina, di
bambini nati deformi…). Una delle caratteristiche delle prime stampe popolari è la diffusione continua
dell’immagine di mostri: le case editrici sfornano di continuo immaginette che raffigurano uomini con la testa di
cavallo, bambini con tre teste… il mostrismo è una produzione topografica che ci conferma appunto la presenza
di questo sentimento d’ansia.

«Questa interpretazione apocalittica del mondo veniva attizzata come brace anche – e soprattutto – tramite le nuove
opportunità comunicative, che influivano sul modo di sentire e di pensare della gente e gradualmente lo cambiavano. Mai
erano entrati a far parte del proprio orizzonte percettivo tante informazioni provenienti da aree lontane del mondo come
all’inizio del XVI secolo. Si veniva a conoscenza della scoperta di nuove terre, di esseri viventi mostruosi che le
popolavano, di conquiste degli infaticabili e invincibili Turchi, di cannibali, di misteriosi eserciti ebraici che partivano per
la Palestina, di bambini nati deformi, di catastrofi climatiche, epidemie di peste, invasioni di cavallette, comete o ogni
sorta di altro evento che veniva diffuso e commercializzato dagli scrittori e dai “cronisti” in fogli pieghevoli, spesso
travestiti da appelli a pentirsi, da segni minacciosi mandati da un Dio in preda alla collera. Anche se, nel complesso, il
numero di coloro che sapevano leggere al di fuori delle città probabilmente era limitato, nell’epoca della rivoluzionaria
riproduzione tecnica della stampa di libri e scritti, le persone erano bersagliate da una quantità infinitamente maggiore di
notizie e di nuovi “giornali” rispetto a qualunque periodo precedente.
[…]
Di fronte a tutti i “segni dei tempi” mandati da Dio, che preannunciavano la prossima fine, era importante espiare ed
essere preparati, quando fosse scoccata la propria ora. L’enorme offerta salvifica della Chiesa cattolica aveva dato una
risposta a questa esigenza; ora serviva allo scopo anche la fede insegnata dai riformatori. La Riforma riuscì ad affermarsi
solo perché era in grado di offrire sostegni plausibili alle preoccupazioni e ai bisogni degli esseri umani che vivevano la
fine dei tempi».

Consideriamo allora il fatto che la riforma protestante non nasca solo dalla corruzione della chiesa, dalla
mondanizzazione, dall’ignoranza dei preti, dalla cupidigia ma nasca soprattutto dalla necessità di offrire
sostegni plausibili alle preoccupazioni ed ai bisogni degli esseri umani che vivevano la fine dei tempi.
La riforma religiosa è soprattutto un momento religioso ed infatti, in questo stato di malessere e di volontà di
trovare una fede nuova, anche i rappresentanti della fede di Roma sono consapevoli di questa necessità di
rivoluzione.
Nel 1513, il Libellus ad Leonem X, scirtto da Querini e Giustiniani (scrittori veneziani), testimonia questa
situazione di grave crisi religiosa, e idue religiosi, che appartengono ad una élite colta, esercitano la loro critica
su due aspetti:
- L’Ignoranza del clero
- L’Assenza di altro metodo di informazione al di fuori della Bibbia, delle sacre scritture

Bisogna ricordare che i testi delle le sacre scritture arrivavano mediati attraverso una letteratura più popolare,
sempre in latino ma molto più semplificati che la teologia e l’ecclesiologia medievale aveva formato. Il bisogno
di tornare al testo originale era in effetti un tema di dibattito che si rifà alla lezione dell’umanesimo.
Molti religiosi colti (tra cui soprattutto Erasmo da Rotterdam) dicono che una delle cause dell’ignoranza e della
corruzione della chiesa è che essa ha perduto il contatto con le sue forme scritturali più originali e più
autentiche: nessuno legge più il vangelo, perché tutti leggono i commentali dei teorici medievali, che hanno
costruito sul vangelo, sulla voce di dio, una struttura di parole vuota e hanno fatto in modo che i testi originari
fossero messi da parte da questa teologia medievale che ha messo tra i testi e i fedeli una sorta di errata
mediazione esercitata dalle figure della chiesa.
Dire che occorre tornare all’autenticità del testo originale, ai testi greci, alle versioni autentiche e non alla
vulgata implicitamente sminuisce e mette in angolo la capacità di interpretare quei testi che la chiesa aveva
rivendicato per se. C’è allora un umanesimo cristiano, una riscoperta filologica dei testi originali che ha
un’importanza straordinaria nel mettere in dubbio l’autorità interpretativa della chiesa (che era comunque una
potenza politica oltre che istituzionale, con un suo esercito). Quest’atto di per sé rivoluzionario, è un atto che si
possono permettere questi uomini particolari, come Querini e Giustiniani, come Erasmo da Rotterdam, uomini
cioè il cui pensiero e le cui opere hanno una circolazione ristretta, élitaria. Di fatto, questa critica si muove
all’interno di un circolo limitato di umanisti sofisticatissimi, o di un gruppo di satire e critiche ai preti ed ai frati
che si muovono in un orizzonte sempre elitario e, per questo, queste critiche hanno una ripercussione molto
limitata. Tuttavia, quando un uomo del popolo si impone su queste cerchie, scatta la rivoluzione.

Martin Lutero, che viene da una famiglia popolana arricchita (il padre faceva l’imprenditore minerario, aveva
fatto studiare il figlio etc), entra nell’ordine agostiniano, diventa professore di teologia, insegna in una università
abbastanza famosa, quella della Sassonia a Wittemberg. Egli è quindi un uomo di lettere, ma è anche un uomo
di straordinarie intuizioni politiche, che capisce che questo processo di depurazione intellettuale non è
sufficiente. Occorre, quindi, dare delle soddisfazioni, dei sostegni, alle preoccupazioni che gli esseri umani
hanno di fronte al mistero della morte ed alla fine del mondo che sta arrivando.
Lutero è da questo punto di vista un uomo che vive la propria fede in una maniera assolutamente tormentata,
lacerante, popolare, accompagnata però da una base teologica molto articolata e profonda che riesce a
trasmettere in modo comprensibile e rapidamente divulgabile.
La teologia luterana, (testo di biasioli) ha una base in alcune letture (lettere di san paolo e sant’agostino) . dalla
tradizione agostiniana, L ricava una visoine molto pessimistica dell’uomo, in modo radicale e angosciante.
Avendo letto e percorso per anni questi testi cercando qualcosa che potesse placare la sua sete di salvezza, che
potesse renderlo un uomo cristianamente autentico, Lutero, in questa concezione così pessimistica dell’uomo,
capisce che le azioni che l’uomo può compiere non lo rende niente di più: tutti quegli atti di pietà che i cattolici
fanno e che la chiesa impone loro di fare (pellegrinaggi, cerimonie, acquisto di indulgenze) sono, nel migliore
dei casi, inutili e, nel peggiore dei casi, delle vere e proprie bestemmie.

Cosa può allora aiutare gli uomini se non queste opere, questi gesti esteriori?
Le opere per Lutero sono dei mezzi di grazia che la chiesa ha falsamente distribuito per usare una sorta di potere
sulle persone: per lui, infatti, gli uomini non possono chiedere la grazia di Dio, perché la grazia viene impartita
DA Dio e a sua discrezione, senza che gli uomini possano osare di chiedere o fare qualcosa per ricevere in
cambio qualcosa di così grande.
Per Lutero, l’unica cosa che ha salvato gli uomini è stata la morte di Cristo sulla croce, ed ogni cosa buona che
gli uomini possono fare sulla terra è casomai il risultato della morte di cristo sulla croce, e non la causa di beni
teologici che gli uomini possono avere.
Se le azioni volontarie non rendono gli uomini migliori e se la grazia non può essere acquistata facendo
l’elemosina o pregando, cadono allora tutti quei rituali e quelle obbligazioni ecclesiastiche che la chiesa impone
ai fedeli. Con questo colpo di ragionamento teologico, tutti i più distintivi e significativi riti della cattolicità
sparivano o cessavano di avere importanza, e la soluzione al problema della salvezza individuale stava
esclusivamente nella fede profonda e costante (e non nelle opere), nella comunicazione personale, non mediata,
tra il fedele e Dio. Tutti i sacramenti, in Lutero, sparivano lasciando il singolo fedele di fronte ai testi, di fronte
al proprio male e di fronte ad una costante interazione con Dio.
In questa teologia della Fede, quindi, le sacre scritture hanno quindi un ruolo fondamentale, ed infatti Martin
Lutero si dedica tra le primissime cose che fa alla scrittura di una Bibbia in tedesco.
Le implicazioni di questa tabula rasa costruita teologicamente furono da subito politicamente rilevantissime: una
delle prime cose che possiamo osservare è che il discorso di Lutero, contro ogni sua previsione, ha avuto una
ricezione popolare velocissima ed enorme.
Le famose tesi di Lutero del 1517, in cui riassumeva i suoi principi fondamentali, erano inizialmente scritte in
latino. Vennero successivamente tradotte in tedesco e smerciate, per essere poi diffuse in tutti i paesi circostanti.
Tra il 1518 e il 1525, un terzo di tutti i libri che si stamparono in Germania furono opere di Lutero e a ciò
dobbiamo aggiungere che la quasi totalità di queste opere erano religiose, oppure vignette satiriche.

Per questo possiamo ritenere che la riforma mise l’umanità di fronte al più grande evento mediatico della storia
– mediatico nel senso che si stamparono a migliaia di queste vignette satiriche, di scritti pro e contro Lutero,
pamphlets che venivano letti, cantati e raccontati sulle piazze… per la prima volta un fatto di eminente materia
religiosa bucava la sfera ristretta degli intellettuali diventando un fatto di larga audience, introducendo la nascita
della prima opinione pubblica.
Certamente non si capirebbe la diffusione della teologia protestante e la straordinaria fortuna di Lutero senza da
un lato la capacità della sua dottrina di toccare delle corde sensibili e dall’altro senza la straordinaria possibilità
che la stampa diede a Lutero, permettendo di diffondere a basso prezzo ciò che veniva stampato. Oltre a questi
due aspetti, ce n’è un terzo che va approfondito in quanto aspetto collaterale che diventerà fondamentale nel
tempo: era naturale che la diffusione del pensiero religioso sempre più in lingue volgari contribuisse da un lato a
depotenziare il valore del latino come lingua di cultura (e quindi il valore anche della chiesa come interprete
della religione attraverso quella lingua) e dall’altro a rafforzare il senso identitario di diverse comunità
territoriali. La stampa in lingua tedesca servì a Lutero per far si che il suo pensiero viaggiasse e che i sostenitori
della riforma, anche tra le popolazioni più umili, fossero raggiunti, ma anche per riunire e attrarre a sé quegli
elementi politici di sostegno senza i quali la riforma sarebbe stata spazzata via probabilmente in qualche anno.
Nel 1517 abbiamo la pubblicazione delle tesi, che infiammano l’opinione pubblica tedesca e si diffondono in
tutta la Germania, inizialmente indisturbate.
La reazione di Roma è un po’ supponente e un po’ in ritardo: arriva nel 1520, quando il papato scomunica
Lutero. Nel 1521, Lutero viene convocato dall’Imperatore Carlo V a Worms, dove si sono riuniti tutti i principi
dell’impero germanico e, in un dialogo faccia a faccia, il semplice monaco rifiuta di abiurare le proprie tesi. Da
questo rifiuto nasce automaticamente la messa al bando, che comporta l’essere considerato un fuorilegge in tutti
i territori dell’impero.
Dopo la messa al Bando, Lutero pubblica un appello in tedesco, intitolato “Alla nobiltà cristiana della Nazione
tedesca”, in cui egli si indirizza ai poteri della Germania indicando loro le “tre muraglie” dietro le quali il papato
si difende e che occorre abbattere, ovvero:
- La superiorità del potere ecclesiastico su quello secolare (vecchia pretesa del Papa)
- La pretesa che la chiesa sia l’interprete esclusiva delle sacre scritture (controllo su tutta la cultura
religiosa)
- Il diritto rivendicato dalla Chiesa di essere solo lei a convocare i concili.
Questo appello ci fa entrare in una fase non più solo teologica, ma in una fase in cui si mette in dubbio la potestà
politica ed economica della chiesa, che era il più grande proprietario terriero dell’epoca.
Lutero, decide, in questo momento, che è ora di smetterla.

9 ottobre 2019

Gli aspetti di tipo politico della riforma protestante


I principi fondamentali della dottrina di Martin Lutero possono essere riassunti nella formula latina “ sola
scriptura, sola gratia, sola fide” – questi principi sono spiegati nei suoi commenti alle lettere di san Paolo, di cui
leggiamo un pezzo: << Infatti, non è attraverso la nostra propria giustizia e saggezza che dio ci vuole salvare,
ma attraverso una giustizia e una salvezza straniera (che non proviene da noi, che non cresce da noi ma che
viene da altrove, che viene dalla grazia che Dio, nella sua infinita onnipotenza, ci concederà ). Si deve perciò
esser umili in queste cose come se non si avesse ancora nulla e attendere la misericordia di Dio. >>

La teologia luterana, quindi, ha una immediata risonanza: sembra che questo messaggio che i fedeli possano
raggiungere da soli la salvezza acquisti subito una grande popolarità.
Le implicazioni immediate della teologia luterana furono non solo religiose, ma anche innegabilmente politiche:
le 95 tesi che Lutero fa circolare in latino nel 1517 per esporre i principi cardini della sua nuova ideologia non
mettevano in dubbio l’autorità pontificia inizialmente, ma già nel 1518, Lutero inizia – commentando i suoi
stessi scritti e parti della sacra scrittura – a derivare conseguenze contrarie all’autorità ecclesiastica, che erano
però già implicite per esempio nel principio “sola scriptura”, ovvero quello che esclude fondamentalmente
l’autorità della chiesa dall’interpretazione dei testi religiosi. Questo principio, questa critica implicita all’autorità
dottrinaria della chiesa comincia, però, a trasformarsi in una chiara dichiarazione di disubbidienza all’autorità
ecclesiastica. Di fatto, quando nel 1518 Lutero comincia ad essere abbastanza noto, c’è un incontro piuttosto
famoso con un cardinale inviato da Roma che discorre con lui cercando di riportarlo su posizioni meno
intransigenti. Questo colloquio, come i tanti altri che si svolgeranno successivamente, risulterà essere inutile e il
cardinale lascia la città di Augusta, dove si è svolto questo incontro e annota sul suo diario, commentando la
dottrina luterana “ciò significa edificare una nuova chiesa”.
La disputa di Augusta, come è stata successivamente chiamata, è certamente l’inizio di una fase apertamente
ostile alla chiesa da parte di Lutero. La chiesa cerca di reagire appoggiandosi all’imperatore, a cui chiede aiuto:
Carlo V, essendo anch’esso vicario di dio temporale su questa terra, riconosce che i due pilastri del potere
medievale, Imperatore e Papa, si trovano in questo momento saldati di fronte alla minaccia di una diffusione di
una dottrina religiosa e teologica che ha però subito chiari riflessi politici.
Nel 1520, la bolla pontificia Exurge Domini viene redatta per condannare Lutero come eretico, e dal 1521 si
svolge un famoso colloquio tra Carlo V e lo stesso Lutero convocato davanti alla Dieta imperiale, ovvero
l’assemblea di tutti i principi.
Lutero reagisce a questa richiesta di ritrattare i suoi principi pubblicamente, protestando la propria autonomia
religiosa, la libertà della coscienza del cristiano anche di fronte ad un’esortazione che viene dal principale e più
importante sovrano d’Europa. Egli risponde quindi con queste frasi:
“Io mi sento obbligato dalle parole della scrittura da me addotte se non vengo confutato attraverso
testimonianze della scrittura o con un chiaro fondamento. E per tutto il tempo che la mia coscienza sarà presa
dalla parola di Dio, io non posso e non voglio ritrattare nulla, perché fare qualcosa contro la coscienza è
pericoloso, e minaccia la salvezza. Che Dio mi aiuti. Amen.”
La coscienza religiosa è dunque qualcosa che luterò non è disposto a barattare con nessun’altra cosa perché la
sua coscienza e la sua libertà religiosa sono il fondamento della salvezza.
Da lì, Lutero verrà bandito anche dall’autorità dell’Imperatore, che lo dichiara “pubblico ribelle” e quindi lo
mette nelle mani di chiunque voglia catturarlo e ucciderlo. Tuttavia, già a questa data si è formato attorno a
Lutero non solo un grande consenso popolare e una grande seguito di persone per lo più umili, ma anche una
solidarietà di tipo politico, perché ci sono dei principi, quelli che dividono il Sacro Romano Impero in tanti
principati, che pur essendo soggetti all’autorità dell’imperatore godono di una certa autonomia politica e che, in
parte convinti dal messaggio luterano, e in parte spinti da una scelta opportunistica, colgono la possibilità che il
contenuto anti-ecclesiastico e anti-imperiale della voce di Lutero offre loro come arma per rinsaldare ancora di
più la loro posizione politica. Alcuni di loro, quindi, sposano la causa luterana andando a coatituire un fronte di
principi tedeschi, che per lo più stanno geograficamente nella parte settentrionale e orientale della Germania
(vicino alla Sassonia dove Lutero operava). Il principe elettore di Sassonia, nel momento stesso in cui Lutero
viene bandito dall’impero, architetta un finto rapimento e lo sottrae da qualsiasi minaccia proveniente
dall’imperatore portandolo in segreto in un castello della Sassonia dove rimarrà nascosto per alcuni mesi.
Durante questo periodo, Martin Lutero si dedicherà alla traduzione in lingua tedesca della bibbia.
Si tratta di una svolta politica che ha delle ripercussioni immediate: la teologia luterana fa cadere come un
castello di carte questa sovrastruttura medievale di riti, pellegrinaggi, preghiere per indulgenza e offerte, cose
che egli ritiene inutili perché le opere non servono a nulla, ma fa anche cadere di conseguenza alcuni principi
fondativi della ecclesiologia e della teologia cattolica, sui quali si era retta la struttura cattolica fino a quel
momento.
I sacramenti, ad esempio, sono tuttora, nella chiesa cattolica romana, sette, e sono la struttura su cui si basa la
religione cattolica ma anche la vita dei fedeli. la parola sacramento è di origine latina ma deriva da un termine
greco che indica “ciò che è segreto” e, per estensione anche tutto quel complesso di riti d’iniziazione religiosa
che si svolgono durante le cerimonie. Essi possono essere quindi indicati come dei momenti individuali e
collettivi che sono obbligatori nella vita dei cristiani, perché introducono alla partecipazione nella comunità
cristiana (es: il battesimo, come vero ingresso alla Chiesa).
I sacramenti sono quindi la struttura basilare della Chiesa Cristiana, ma la loro peculiarità nel momento di cui ci
stiamo occupando è che sono dei riti attraverso cui le persone entrano a far parte della comunità secolare. Essi
non definivano l’individuo solo dal punto di vista religioso, ma lo definivano anche dal punto di vista civile e
sociale: non si apparteneva alla comunità del villaggio senza essere battezzati, e non si era membri del villaggio
se non di praticava l’eucarestia, la confessione…
Quindi, i sacramenti in questo momento sono così importanti perché hanno un doppio valore civile e religioso.
Chi somministra questi riti, ovvero gli ecclesiastici, mostra così facendo la sua autorità religiosa.
Il fatto che la teologia luterana spazzi via 5 di questi 7 sacramenti, e che Lutero consideri utili e necessari
unicamente il Battesimo e l’Eucarestia, scuote l’autorità ecclesiastica riducendola e allontanandola dalla sua
presenza così costante nella vita delle persone di quel tempo, ed è quindi una durissima ferita inferta all’autorità
della chiesa.
Quando Lutero fa pulizia delle cose che ritiene Inutili – all’interno della vecchia autorità ecclesiastica – egli è
consapevole di attaccare direttamente la chiesa (scrive addirittura un trattato che si intitola Della cattività
babilonese della Chiesa, paragonandola a una città piena di vizi e così via) e compie questi attacchi con la
durezza che gli e propria, con parole drastiche ma molto abili.
In questo attacco profondo alla chiesa, Lutero non scorda mai di precisare che nel regno di questa terra,
l’autorità dei principi è intoccabile: scrive infatti che “Il cristiano è signore della propria coscienza nel mondo
della fede e nel mondo della religione, e non è possibile dover essere costretti ad abbandonare i principi
religiosi. Allo stesso modo, nella sfera mondana, il buon cristiano non deve fare altro che obbedire ai propri
signori”. Lutero spiega tutto ciò dicendo che il cristiano, poiché sa che le sue opere materiali non lo conducono
alla salvezza, lascia il mondo delle opere, il mondo secolare della vita di tutti i giorni, il commercio e la parte
non spirituale della sua quotidianità la lascia fiduciosamente nelle mani di un’autorità, che è quella dei principi.
Nel mondo religioso, invece, egli è assolutamente libero.
Questo rapporto tra la libertà interiore della coscienza e l’obbedienza assoluta nella sfera civile e laica, viene
peraltro messo a durissima prova negli anni successivi da una lettura libera dei testi religiosi che lutero non si
avvede di aver provocato, talmente libera da portare a sfidare anche l’autorità politica.
Stiamo parlando delle voci di quei riformatori radicali, che a volte sono persone che circondano Lutero e che
spingono all’estreme conseguenze il principio della libertà di coscienza per invadere la sfera politica.
Quando molti leggono il vangelo e immaginano una comunità cristiana originaria, immaginano anche che quella
comunità abbia avuto come solo principio di condotta la parola di Dio, ed è facile trovare in questi testi delle
affermazioni in cui la legge del vangelo è superiore alla legge civile. Vi sono molti predicatori protestanti che
interpretano, con una radicalità non prevista da Lutero, questo principio comunitario, egualitario, della parola di
dio.
Fra il 1524 e il 1525, questa strada radicale alla lettura dei testi diventa la più grande rivoluzione contadina
europea prima della rivoluzione francese.
La guerra dei contadini, in tedesco der deutsche Bauernkrieg, è un grande evento che mescola assieme aspetti
politici e religiosi e che coinvolge soprattutto i ceti non privilegiati della Germania, quelli popolati dall’uomo
comune, che non possiede privilegi ma che approfitta della ventata di novità implicita nel messaggio di Lutero
per darsi inizialmente al saccheggio delle proprietà ecclesiastiche e dilagando successivamente nelle città dando
il via ad una vera e propria rivoluzione.

I 12 articoli dei contadini della foresta nera, è un testo che viene elaborato nel 1525 e che viene poi diffuso in
tutta la Germania. Si tratta probabilmente dell’opera di un predicatore radicale che esemplifica l’animosità di
questa rivolta contadina. Quando vengono scritti questi articoli, che sono una specie di libretto di protesta dei
contadini insorti, la rivoluzione è già iniziata: si combatte in molte parti della Germania centrale e meridionale
già da tempo. Questo testo ha lo scopo di dimostrare che questa protesta è giusta e si rivolge al lettore cristiano:

Al lettore cristiano
La pace e la grazia di Dio attraverso Cristo.
Vi sono molti anticristi che di recente hanno preso a pretesto le assemblee di contadini per scoprire di scherno
il Vangelo dicendo: “Sarebbero questi dunque i frutti del nuovo Vangelo, che nessuno più debba obbedire, ma
anche sollevarsi ovunque in rivolta?”.
I seguenti articoli confutano tutti questi critici empi e malvagi, in primo luogo al fine di rimuovere dalla parola
di Dio questa calunnia e in secondo luogo per dare una risposta cristiana all’accusa secondo cui tutti i
contadini sarebbero disobbedienti o addirittura rivoltosi.
Prima di tutto, si dice, il vangelo non è causa di rivolte né di disordini, poiché si tratta di un messaggio su
Cristo, su un messia promesso, la cui parola e la cui vita non ci insegnano altro se non Amore, pace, pazienza e
concordia.

Il discorso quindi è chiaro: ci sono degli anticristi che dicono che quello che stanno facendo i contadini è empio
e malvagio, ma in realtà essi non stanno facendo altro che conformarsi alla parola di Dio, al Vangelo.

E se alcuni anticristi e nemici del vangelo resistono alle nostre richieste e istanze, ciò non è dovuto al vangelo,
bensì al suo più pernicioso nemico – il diavolo – che tramite la miscredenza tanta opposizione suscita nei suoi
seguaci. Chi troverà da ridire sulla volontà di dio, che noi stiamo eseguendo? Chi si frapporrà ai suoi
intendimenti, chi in vero si opporrà alla sua maestà? Non ha egli forse dato ascolto ai figli di Israele che lo
imploravano di salvarsi dalle mani del faraone?

Il testo che poi prosegue chiedendo delle cose concrete, ad esempio che tutte le parrocchie possano eleggere il
proprio parroco, che sia abolita la servitù rurale…
Questo prologo pieno di immagini evangeliche da il senso della intima trama religiosa di queste richieste che
diventa sempre più pericolosa agli occhi delle autorità non solo nella rivoluzione contadina, ma anche nella
frangia più radicale degli anabattisti.

Gli anabattisti, questo gruppo di sempre più numerosi artigiani e commercianti che, sulla base di
un’elaborazione teologica molto individuale e molto libera, sostenevano la necessità del battesimo degli adulti,
poiché la libertà del cristiano deve essere anche misurata nell’adesione volontaria alla fede, eliminano di
conseguenza uno dei due sacramenti mantenuti da Lutero per affermare la libertà di scelta individuale del
cristiano.
La reazione dei principi tedeschi (sia quelli passati alla riforma sia quelli ancora fedeli alla chiesa di roma)
contro gli insorti è la più radicale e sanguinosa di tutte, perché per loro il rifiuto del battesimo viene interpretato
come un rifiuto di assoggettarsi non solo all’autorità religiosa, ma anche a quella civile, laica, secolare.
Gli anabattisti sono quindi immediatamente perseguitati e sterminati, mentre con le bande cittadine si usa un
certo grado di clemenza. Questo perché gli anabattisti estremizzano il messaggio di individualità cristiana e di
libertà di coscienza portandolo sul terreno politico e rappresentando una rivalità che va immediatamente
eliminata.
A guidare questa reazione violenta all’insurrezionalismo contadino è, in primo luogo, Lutero che per la sua
concezione molto precisa dei due regni (che sono divisi e regolati l’uno dalla libertà di coscienza e l’altro
dall’autorità dei principi) non può permettere che questa venga infranta stabilendo la superiorità della libertà di
coscienza. Per questo, quando la rivolta prende piede Lutero immediatamente si schiera dalla parte dei principi e
scrive un opuscolo chiamato “Contro le bande assassine e ladre dei contadini”, in cui risponde ai 12 articoli,
dipingendo i contadini come dei ladri.

La descrizione degli atti compiuti dai contadini si chiude con un’esortazione a colpire in pubblico o in segreto
gli stessi contadini, paragonati a dei cani arrabbiati.

La rivolta contadina per un momento scuote tutta la Germania, ma verso l’estate del 1526, grazie a una
repressione molto violenta da parte dei principi tedeschi, viene ricondotta all’obbedienza. Nel frattempo, gli
stessi principi – quelli che si erano legati alla riforma – procedono verso un’adesione al protestantesimo capendo
che questo processo stava portando verso una divisione non solo religiosa ma anche politica della Germania. Di
fatto, in due grandi riunioni della Dieta dei principi tedeschi, che si svolgono a Spira nel 1529 e ad Augusta nel
1530, Carlo V – che non muove la sua posizione di alleato e di suddito della cattolicità, pur essendo molto
critico nei confronti del papato – cerca di riportare i principi protestanti all’obbedienza ma, proprio durante la
Dieta di Augusta il più fedele e il più competente compagno di Lutero, Filippo Melantone, stila un testo che
viene conosciuto come la Confessione Augustana.
Questa Convenzione Augustana, nella quale sono condensati i principi della teologia luterana, diventa il
manifesto di riferimento dei principi protestanti.
A questo punto, la Germania è di fatto spaccata in due anche politicamente e la riforma diventa così la riforma
dei principi, perché è una guerra politico-religiosa a volte motivata da una effettiva credenza, altre da una
convenienza politica. Poiché questi principi hanno rifiutato di sottomettersi all’imperatore ed ai suoi ordini,
entra anche nel linguaggio comune il riferimento ad essi come i “protestanti” perché di fatto avevano protestato
contro l’imperatore.
Lutero inizia poi a scrivere legittimando il diritto di resistenza dei principi protestanti, in base anche al principio
vero, reale, tangibile che l’imperatore non è un principe ereditario, ma un principe eletto (dagli altri principi):
secondo Lutero, infatti, questo comporta il fatto che l’autorità dei principi – in quanto elettori – possa anche
opporsi all’imperatore, così come era successo nei concili cristiani prima che la chiesa cattolica diventasse
quello che era, ovvero una sorta di monarchia interna.

Per Lutero esiste quindi un’affinità tra il diritto di resistenza dei principi elettori ed il fatto che il concilio, cioè
l’assemblea dei cardinali e dei vescovi sia superiore al papa – teoria che ovviamente il pontefice rigetta.
Nel 1531, il passo ulteriore di questo contrasto religioso si ha quando i principi protestanti si legano in una
specie di unione, una lega che prende il nome di Lega di Smalcalda – dalla regione della Germania in cui prende
luogo questo giuramento tra i principi. Da qui in avanti, la Germania piomba dentro alle Guerre di Religione,
perché i cattolici – soprattutto l’imperatore, le armate imperiali aiutate dalla Spagna e i principi rimasti cattolici,
tra cui il Duca di Baviera – entrano in una fase di scontri militari furibondi che ormai sono infernali. Anche se la
chiesa offre a Lutero la possibilità di Dialogo, egli rifiuta di scendere a patti: quando nel 1537 il Papa Paolo III
Farnese ordina ad una commissione di cardinali di stendere un testo (Consilium de Emendanda Ecclesia)
cercando di avviare una riforma ecclesiastica, Lutero risponde in maniera sarcastica che ormai non c’è più nulla
da fare e che la chiesa romana non ha più autorità e che anche quel concilio universale che la chiesa vuole
proporre (e che si realizzerà nel 1545 a Trento) è inutile.
I papi, dopo i Concili di Basilea e Costanza negli anni 20 e 40 del Quattrocento non avevano mai più autorizzato
concili ecumenici, perché il concilio era di fatto un’autorità di cui il papa diffidava, ma nelle condizioni in cui si
trova adesso la chiesa, soprattutto in Germania, la minaccia che proprio nella terra dell’impero l’eterodossia
sfugga di mano e diventi un potere, una corrente di opposizione troppo forte induce anche il papa, verso la fine
degli anni 30, a riflettere sulla possibilità di convocare un concilio universale.
È soprattutto Carlo V a richiedere insistentemente al pontefice di fare questo, ma Lutero si prende beffe di
queste cose e, in un trattatello del 1539, fa arrivare con chiarezza la sua parola a Roma, dicendo che se si vuole
convocare il concilio, l’unico principio che lo giustifica è la validità e l’aderenza al testo delle sacre scritture e
non certo l’autorità del papa nel convocarlo. Ogni tentativo di frenare e di contenere la protesta di Lutero
fallisce, quindi, quasi sul nascere.

Nel 1541, quando Filippo Melantone si incontra con il Cardinale Gaspar Cantarini per riflettere sulla possibilità
di trovare una conciliazione, c’è qualcuno che crede ancora che si possa lavorare con i protestanti sul principio
di giustificazione per fede e trovare un compromesso, ma questo ultimo colloquio che si svolge a Ratisbona
risulta essere, nonostante le buone intenzioni dei cattolici, un muro contro muro.
A questo punto, anche la chiesa romana capisce che si va inevitabilmente verso uno scontro che impone alla
chiesa di mettere a punto tutto ciò che può per difendere la propria autorità. Non è un caso che nel 1542 a Roma
si rifondi su base nuova il tribunale dell’inquisizione Romana, svolta decisiva nella storia della chiesa che
possiamo vedere come il primo segnale che la Chiesa di Roma lancia ai suoi nemici per avvisarli che con tutte le
forze e con tutte le armi a sua disposizione replicherà a qualsiasi minaccia nei confronti della sua autorità.
La guerra è una guerra sanguinosissima che ormai dilaga tra vicende alterne: all’inizio sembra che i principi
protestanti – aiutati nascostamente dalla Francia che è nemica di Carlo V – possano vincere, ma nel 1547 Carlo
V sconfigge i protestanti con la grande vittoria di Mühlberg, ricordata soprattutto nel più celebre ritratto di
Tiziano che ritrae Carlo V sul suo cavallo impennato. Questa vittoria si celebra in tutti i posti della cattolicità
(anche villa Margone a Trento ha un ciclo interamente a questo). Carlo V, rinvigorito da questa vittoria, cerca in
un estremo tentativo molto individuale e molto tipico di quest’uomo – che ha una fede profonda e che non
vorrebbe mai vedere la cristianità spezzata – nel 1547 si sente tanto forte da proporre un accordo ai protestanti:
egli chiede ai principi protestanti di reintrodurre il cattolicesimo come unica religione me offre moltissime
concessioni, come ad esempio il matrimonio dei preti, la comunione sotto le due specie…

Questa protesta è un fallimento: il testo stilato (chiamato Interim di Augusta) sarà quindi l’ultima offerta di
Carlo V, che non aveva però l’appoggio del papa e, a quanto pare, neanche il consenso dei protestanti.
I protestanti riavviano la loro campagna militare dopo il 1547, dando inizio a una lunga e stenuante campagna
militare che si protrarrà per i primi anni cinquanta, riducendo la Germania ad un grande campo di battaglia.
Carlo V, logorato dalle fatiche e dalle malattie, abdica nel 1555, dividendo i suoi enormi possedimenti in due
parti: le parti tedesche e centro-orientali che affiderà al fratello Ferdinando, mentre le parti spagnole, italiane e
del nuovo mondo vengono cedute al figlio Filippo II.
Ferdinando, ora imperatore, nel 1555 decide con una scelta politica, di scendere a trattative con i principi
protestanti e nello stesso anno, ad Augusta, stipula la cosiddetta Pace di Augusta.
L’importanza di questo testo, dopo di cui la Germania cessa di essere un luogo di scontri fra cattolici e
protestanti, risiede nel principio che lo guida, ovvero che la pace politica e l’unità religiosa non stanno più sullo
stesso piano. Per preservare la pace, i principi tedeschi si accordano con Ferdinando proponendo una soluzione
politica a questo contrasto stipulando questo testo, che antepone una pacificazione civile e politica a qualsiasi
forma di unità religiosa. Ad Augusta è chiara per la prima volta l’importanza di una scelta politica che sacrifica
e nel mondo cristiano legittima la condizione di separatezza e di convivenza di due fili religiosi diversi, cosa che
fino ad allora era stata del tutto inimmaginabile.

I principi cristiani – protestanti e cattolici – stabiliscono, con la pace di augusta, che esista una legge più
importante, superiore al principio di unità religiosa, e questa legge è la pace.
La pace di Augusta stabilisce anche implicitamente che le questioni politiche vanno trattate diversamente
rispetto all’appartenenza religiosa.
Dalla vicenda tedesca possiamo trarre – oltre alla delineazione di un primato della politica sulla religione e oltre
a questo principio che è possibile convivere tra confessioni diverse all’interno dello stesso territorio – anche la
fine di ogni sogno di impero universale: la fine dell’unità religiosa cristiana acuisce ancora di più quella
frammentazione di tipo politico in tanti stati diversi e di confessioni religiose in tante unità territoriali che
caratterizza la vicenda europea rispetto a quella degli altri territori.
Le guerre di religione che stanno in mezzo alla prima età moderna in realtà sono un fatto solo europeo: non
esistono guerre di religione di questo tipo negli altri imperi.
L’esito di questi contrasti è anche il fatto che la separazione religiosa comincia a dare più rilievo a una forma
d’identità nazionale (linguistica) in senso molto largo: il fatto che l’Impero sia considerato il Padre della lingua
Tedesca – perché il tedesco come lingua volgare era già quello sassone di Lutero – ci spinge a riflettere sugli
esiti della separazione religiosa, tra cui quello dell’enucleazione di spazi territoriali che riconoscono nella
religione e nella lingua un elemento d’identità.
Le guerre di religione in Germania terminano in questo momento con questa soluzione pacificatoria, ma altre
guerre di religione si stanno avvicinando, tra cui quelle che vedono come protagonisti la Francia, i Paesi Bassi e
l’Inghilterra.

14 ottobre 2019

Le guerre di religione
Il continuo e sanguinoso contrasto che scaturisce dalle differenze religiose è una delle grandi peculiarità dell’età
moderna. Questa è la caratteristica che spicca maggiormente nella storia moderna europea, soprattutto se
paragonata ad altre storie in cui il rapporto tra la religione e la politica non è affatto così tormentato come
accade nell’Europa cinque-seicentesca.
Come dicevamo, con la Pace di Augusta, il nuovo imperatore Ferdinando, col consenso di tutti gli stati
dell’impero, ritiene opportuno che la pace religiosa sia mantenuta e accordata a tutti. Al fine di provvedere a che
in futuro non sorgano più dissidi nel reggimento politico, tutti i singoli saranno reintegrati e confermati nei loro
diritti, nella libera giurisdizione tanto negli affari ecclesiastici che in quelli politici.
Questo documento è importante perché è l’inizio di un nuovo ordine che riguarda l’impero romano germanico e
che si basa su due principi evidenti.
Il primo principio è che la sicurezza interna di uno stato, la pace sociale: ciò che deve ispirare la politica dei
principi anche in materia religiosa si concretizza in un equilibrio tra la religione del principe, maggioritaria, e la
liberà di coscienza. Il testo precisa in ogni caso che la libertà di coscienza dei cittadini ha un limite, ovvero il
fatto di riconoscere come valida in quel territorio la sola confessione religiosa professata dal principe. A chi
professa una fede diversa restano due soluzioni: o convertirsi alla religione del principe, oppure trasferirsi in un
altro territorio in cui ci sia un principe di diversa religione. Anche con questo limite, la pace di augusta è una
pace religiosa che per la prima volta ammette che esistano all’interno di una stessa cornice territoriale due credi
religiosi differenti.
Il secondo principio è che tutti gli stati (calvinisti, luterani, cattolici) sono posti sullo stesso piano. Non esiste
una gerarchia come avrebbe voluto il papa.
La pace di Augusta è quindi il primo grande esperimento di pacificazione dei contrasti religiosi in Europa, ed
indica un aspetto delle trasformazioni del rapporto tra religione e politica che di li a poco interesseranno tutti i
paesi europei.

Un altro importante esperimento di pacificazione religiosa, con un forte peso della decisione politica, avviene in
Inghilterra.
Questa appropriazione della religione da parte di un potere statale è il filo rosso anche di un’altra vicenda,
ovvero quella della chiesa anglicana. Il capo della chiesa anglicana è la Regina o il Re.
Questa posizione abbastanza strana per noi cattolici, si pone all’origine di quello che è stato definito uno
“scisma senza eresia”. Intorno agli anni trenta del XVI secolo, il re d’Inghilterra era Enrico VIII, un personaggio
che all’inizio dell’offensiva religiosa in Germania si era schierato con la chiesa di Roma, inizia a costruire per
una decisione politica il distacco della propria chiesa – la prima vera e propria chiesa nazionale europea – che ha
all’origine una controversia di tipo matrimoniale: Enrico VIII aveva chiesto al papa Clemente VII di
permettergli di divorziare dalla moglie, Caterina di Aragona – donna spagnola di altissimo lignaggio e zia di
Carlo V – per sposare una cortigiana, Anna Bolena. Il permesso di divorzio, che i pontefici avevano molte volte
concesso ad altri sovrani sulla base di argomentazione valide, venne rifiutato perché si era nel pieno delle guerre
di religione in Germania e Clemente VII non se l’era sentita di concedere il divorzio a Enrico VIII perché
Caterina era una parente strettissima dell’Imperatore, ed i rapporti della chiesa con l’impero romano germanico
erano già abbastanza deteriorati. Acconsentire quindi al ripudio della zia di Carlo V non avrebbe certo
stemperato le tensioni già presenti. Fu così che Enrico VIII decise di rompere gli indugi: ripudiò il matrimonio
con Caterina d’Aragona, si sottrasse all’obbedienza nei confronti del pontefice tramite un atto approvato dal
Parlamento (Atto di Supremazia) e immediatamente dopo incamerò tutti i beni della chiesa d’Inghilterra
facendoli diventare patrimonio dello stato e della monarchia.
Dal punto di vista teologico, si trattò di un atto puramente diplomatico che non aveva e non ha avuto per lungo
tempo ragioni di carattere teologico. Enrico VIII a differenza dei suoi successori non rinnovò praticamente nulla
nella sua nuova chiesa rispetto ai dogmi, alle pratiche e alle istituzioni della chiesa romana, limitandosi ad
introdurre la lingua inglese al posto del latino come lingua delle predicazioni ecclesiastiche.
La sua scelta pose la chiesa Anglicana, la chiesa del Re d’Inghilterra – separata comunque da un numero ancora
consistente di cattolici inglesi, chiamati da quel momento in avanti con il dispregiativo “i papisti” – di fronte ad
un nucleo molto combattivo di eretici molto fedeli alla riforma, ovvero i calvinisti scozzesi, che saranno poi
all’origine dello scoppio della rivoluzione inglese.
Quello che si può ricordare a riguardo di questo scisma senza eresia è la supremazia di un potere politico sulla
confessione religiosa: a suo modo, anche Enrico VIII riuscì a stabilire, come i principi tedeschi avevano fatto in
Germania, una sorta di pacificazione religiosa del proprio regno, perché consentì in certi termini ai cattolici e ai
riformati delle terre scozzesi che continuassero a praticare il loro culto accanto alla religione dominante. Anche
il caso inglese faceva ricadere le competenze religiose nell’albo di quelle politiche, non istituiva un regime di
tolleranza ma la faceva ricadere nelle competenze politiche.
Il fatto che lentamente intorno alla metà dell’XVI secolo i grandi stati europei avviassero questo processo che
poneva l’accentramento dei poteri statali come il vero discrimine contro le questioni religiose ha fatto scrivere
ad alcuni storici che questo tipo di “riforma dei principi” fosse insita fin dal principio nell’esplosione della
riforma protestante.
Abbiamo visto tra le cause della riforma luterana che uno degli aspetti era stata l’eccessiva mondanizzazione
della chiesa di Roma, ovvero il fatto che la Chiesa di Roma come centro di potere della cristianità era diventata
sempre più uno stato e sempre meno una chiesa: il potere statale del pontefice e la sua fisionomia di sovrano era
divenuta col passare del tempo sempre più forte e più evidente – e quindi sempre più fastidiosa per i suoi
nemici. Quando parliamo di mondanizzazione della chiesa, intendiamo proprio questo, ovvero che la chiesa per
molti fosse stata il laboratorio della formazione della statualità europea. Lo stato della chiesa era già diventato,
nel corso del quattrocento, uno laboratorio di soluzioni burocratiche e diplomatiche che gli altri stati avevano
successivamente adottato.
In questa tensione tra il potere spirituale e quello politico, anche gli stati avevano – prima dello scoppio della
riforma – capito l’importanza di governare i propri sudditi e le loro coscienze, ed avevano cercato di far sì che
certe funzioni religiose e certi personaggi delle proprie chiese fossero sempre più controllati da loro e sempre
meno controllati dalla religione. Uno degli esempi più esplicativi di questo è contenuto nella serie
numerosissima di concordati e accordi tra gli stati e la chiesa di Roma che erano stati sottoscritti nei primi anni
del cinquecento da molti stati europei – come ad esempio la Francia, lo stato di Milano, la Repubblica di
Venezia – grazie ai quali, con una sorta di mercanteggiamento diplomatico, la chiesa aveva consentito ad
esempio che tutti i vescovi della chiesa di Francia fossero nominati dal pontefice ma presentati dai sovrani.
Quindi, se da una parte la chiesa di Roma si era sempre più fatta stato, anche gli Stati europei si erano sempre
più fatti chiesa, acquisendo competenze per ordinare il sistema ecclesiastico.

Lo storico inglese Koenigsberger ha avanzato una tesi interessante e provocatoria che si basa su una formuletta
latina: etziam si Luterus non daretur (= anche se non ci fosse stato Lutero).
Secondo lui, se anche Lutero non ci fosse stato, le probabilità che la chiesa di Roma potesse mantenersi come
chiesa universale erano praticamente nulle.

H. G. Koenigsberger, Politicians and Virtuosi. Essays on Early Modern History, London 1986, pp. 175-176.

«Ciò che è più significativo, ai nostri occhi, del ritiro dell’obbedienza a Roma da parte di Enrico VIII, sono
precisamente le sue ragioni non teologiche e non religiose. Gustavo Vasa [re di Svezia] ruppe con Roma per una
manovra politica diretta contro i suoi nemici politici, il re di Danimarca e l’arcivescovo di Uppsala. Anche senza
Lutero, le chances di sopravvivenza di una Chiesa unita erano minime.
È una tesi provocatoria ma molto intelligente perché riflette sulle tensioni tra chiesa e potere politico che erano
latenti già prima della predicazione di Lutero e che stendono un filo molto più a ritroso nel tempo sulla
possibilità che la chiesa di Roma collassasse come struttura unitaria.
Questo modello non è una legge storica rigida. Non era inevitabile che la Chiesa dovesse sopravvivere al collasso
dell’Impero in Occidente e alla confusione dei secoli successivi come organizzazione unitaria. Ma le condizioni
strutturali e funzionali per una tale sopravvivenza erano favorevoli, e i leader successivi della Chiesa le avrebbero
colte al meglio […].
Per ironia della sorte, fu lo shock della Riforma che diede alla Chiesa cattolica nuove opportunità per sopravvivere
come Chiesa universale almeno in una parte dell’Europa. La Riforma convinse coloro che desideravano preservare
la vecchia Chiesa che era necessario avere una riforma profonda della sua missione pastorale ed educativa, così
come una chiara definizione di certi dogmi controversi.
Soprattutto, la Riforma convinse molti potenti sovrani che era più sicuro proteggere la vecchia Chiesa, che era in
ogni caso sotto il loro controllo, che lasciare libere le forze politiche, morali e sociali sconosciute, ma evidentemente
molto potenti, che sembravano sorreggere i vari movimenti riformatori. Per questo accadde che la vecchia Chiesa
trovasse nuovi e molto agguerriti sostenitori esattamente tra quei principi che avevano fatto il più possibile per
distruggere il suo universalismo.
Il successo o il fallimento di ogni particolare versione della Riforma e il successo o il fallimento nel mantenere, o
ristabilire, l’autorità della Chiesa di Roma in qualunque particolare paese, dipendeva dalle caratteristiche locali,
dalle strutture politiche e dalle decisioni delle personalità politiche di vertice».

L’osservazione successiva di Koenigsberger è che nel momento in cui con la reazione della riforma molti
principi cattolici videro allontanarsi altri principi convertiti che approfittavano della riforma per diventare
vescovi luterani nei loro territori, vollero – per preservare la loro chiesa – proteggere la vecchia Chiesa cattolica,
riconoscendo l’autorità del papa avvicinando però la propria autorità al pontefice (chiedendo quindi particolari
concessioni da parte della chiesa ai principi cattolici).
Questa proposta è una proposta che non tutti gli storici si sentono di condividere, perché si ritiene che comunque
le differenze teologiche pesassero molto all’epoca, ma, d’altra parte, questa prospettiva avvicina i due campi e
va quindi considerata.
Un ulteriore elemento che arriva dagli storici tedeschi che studiano il cuore della riforma protestante è il
concetto di Confessionalizzazione – che sembra protendere per questa soluzione appaiata, questa strada parallela
che cattolici e protestanti assumono dopo la fine la fase più forte delle guerre di religione in Europa.
Nel testo di Vincenzo Lavenia viene spiegato questo concetto di Confessionalizzazione, dall’espressione tedesca
konfessionalisierung, ha alla sua radice il termine latino di confessio, nel senso di adesione ad una confessione
religiosa.
Nella dieta di Augusta del 1530, il teologo di Lutero Filippo Melantone presenta una serie di testi che
contengono i principi dottrinali della religione luterana (confessio augustana). I principi protestanti la
sottoscrivono aderendo ai dogmi luterani.
Tuttavia, il concetto storiografico della confessionalizzazione indica quell’insieme di processi, di azioni e la
messa appunto di principi teologici e catechetici che nei territori sia protestanti sia cattolici vennero messi in
atto allo scopo di saldare il più possibile una confessione religiosa e quindi una professione di fede ad una
istanza politica superiore. Il presupposto della tesi della confessionalizzazione come processo che si svolge
unitamente sia nei territori cattolici sia in quelli protestanti nonostante le differenze è che la
confessionalizzazione – ovvero il lento processo di avvocazione delle fedi, di assorbimento della fede religiosa
dentro gli strumenti dell’unità statale – si sia compiuto in modo paritario in tutte quelle zone.

Wolfgang Reinhard ha cercato di elencare queste azioni che consistettero in


- La riacquisizione di premesse teoriche chiare; ovvero la messa appunto di confessioni riformate
- La diffusione e affermazione di nuove norme;
- La propaganda e proibizione della contropropaganda;
- L’interiorizzazione del nuovo ordine per mezzo dell’istruzione;
- Il disciplinamento dei seguaci (in senso stretto);
- L’adozione di riti;
- La trasformazione della lingua.
Si tratta per lo più di processi culturali che avevano un fine di disciplinare religiosamente i sudditi e che
costituiscono una marcia parallela che coinvolge entrambi i paesi, nonostante le differenze teologiche.

Gli storici ritengono che il concetto di confessionalizzazione sia più esplicativo e più penetrante per
comprendere il rapporto tra chiesa e stato che, nella storia europea, non ha mai fine e continua ad essere
riproposto come elemento caratterizzante.
La confessionalizzazione fu certamente una risposta quasi obbligata che tutti gli stati si trovarono a dover
prendere perché era necessario per rafforzare la propria struttura politica e la propria autorità che i principi laici
si impadronissero delle competenze che la chiesa aveva esercitato in maniera autonoma nei secoli precedenti.

Focus sulla Confessionalizzazione


Il termine alla sua radice rinvia alle professioni di fede (o confessiones) che venivano richieste agli aderenti di un
certo credo religioso. Per fare un esempio, la cosiddetta Confessio augustana fu il testo sottoscritto dai principi e
dalle città riformate durante la dieta di Augusta (1530) che conteneva i precetti cardini della dottrina luterana
elaborati dal teologo Filippo Melantone.
Nel linguaggio storiografico il concetto di confessionalizzazione (che è stato coniato da studiosi tedeschi) oggi indica
quell’insieme di azioni che, nel pieno degli scontri fra protestanti e cattolici, vennero posti in essere dalle autorità
religiose e politiche per “chiudere” il proprio gruppo di fedeli, proteggerlo, rinforzarlo all’interno, e soprattutto
renderlo osservante all’autorità superiore. Tali azioni, secondo lo storico Wolfgang Reinhard, s’incentrarono su:
1. La riacquisizione di premesse teoriche chiare;
2. diffusione e affermazione di nuove norme;
3. propaganda e proibizione della contropropaganda;
4. interiorizzazione del nuovo ordine per mezzo dell’istruzione;
5. disciplinamento dei seguaci (in senso stretto);
6. adozione di riti;
7. trasformazione della lingua.
È sempre il medesimo storico tedesco a osservare che la confessionalizzazione portò agli Stati (sia cattolici, che
riformati) vantaggi molto consistenti:
1) Il rafforzamento della loro identità nazionale o territoriale;
2) il controllo su un rivale potente, come la Chiesa, e non da ultimo il controllo sul patrimonio ecclesiastico
come strumento di potere (questo, ovviamente, prima negli stati protestanti, e solo successivamente in quelli
cattolici);
3) il disciplinamento e l’omogeneizzazione dei sudditi attraverso l’imposizione dell’uniformità religiosa.

Lavenia: La divisione della chiesa occidentale in tre famiglie comportò la fine di un cristianesimo così come il
mondo occidentale l’aveva conosciuto nel tardo medioevo.
Questo allontanamento dal cristianesimo medievale, fu la fine della concezione comunitaria del cristianesimo. Il
cristianesimo medievale era stato essenzialmente comunitario perché lo scopo essenziale dei riti religiosi nella
chiesa medievale era stato quello di integrare la comunità dei fedeli.
Ciò significa che il cristianesimo europeo tardo-medievale era fondamentalmente un insieme di riti che
miravano, attraverso la mediazione della chiesa, a tenere insieme le comunità nelle quali i fedeli vivevano. Era
quindi una chiesa in cui vi era una fortissima partecipazione comunitaria.
Questa essenza collettiva e non individuale della chiesa era ciò che si esplicitava durante i rituali (es matrimoni,
pellegrinaggi) e che permeava quindi tutte le forme di culto con questo ritmo comunitario.
Tutte queste forme di chiesa comunitaria vennero poi private della propria ragion d’essere per l’appunto dal
processo di confessionalizzazione che, lentamente, sia nei paesi protestanti sia nei paesi cattolici, tese a
sostituire questo rapporto tra l’autorità religiosa e i fedeli e tra l’autorità politica e i sudditi, che era concepito
come qualcosa di natura comunitario, ad un rapporto sempre più ristretto alle singole persone.

Da un cristianesimo collettivo a un cristianesimo individuale


Se noi esaminassimo (alfieri) il matrimonio alla luce di queste equivalenze, ci accorgeremmo che questo
passaggio da un cristianesimo collettivo a un cristianesimo individuale è la strada che percorre la risposta
cattolica alla sfida protestante. Questa risposta cattolica si dipana attraverso un evento centrale, che è il concilio
di Trento, (Biasoli) svoltosi nella chiesa di Santa Maria Maggiore – ristrutturata per l’occasione – tra il 1545 e il
1563. Per interrompere e spostare il concilio, nel 1547 il Pontefice, intimorito dalla vittoria e dal potere di Carlo
V che sembra rinvigorito, si inventa che a Trento c’è la peste.
Il concilio di Trento è per antonomasia il luogo in cui i cattolici reagiscono all’offensiva protestante. Carlo V lo
desiderava universale, quindi composto da cattolici e protestanti per poter lavorare a un compromesso, ma i
protestanti, ormai pienamente in mezzo a un contrasto armato si rifiutano di mettere piede a Trento e in quetso
modo il concilio acquista un carattere strettamente cattolico. La risposta dei cristiani cattolici passa subito come
una presa di posizione dal punto di vista teologico contro i protestanti, mettendo in chiaro fin da subito che la
giustificazione per fede protestante è un atto di eresia. Si stila poi una lista molto precisa di deviazioni che la
chiesa non è disposta a tollerare, eliminando ogni speranza di una possibile riconciliazione con i protestanti.
Una questione centrale nelle ultime fasi del concilio di Trento è il canone sul matrimonio: perché un concilio si
occupa di normare un atto che sembrava sciatto nell’unità dei singoli?
Questo accade perché anche il matrimonio, come tutti gli altri sacramenti, fino a quel momento era stato visto
come un rito collettivo: prima di questa data, il matrimonio era un percorso fatto di tappe molto lunghe, che
partivano da un accordo familiare e dalle trattative che le famiglie investivano (sia gli aristocratici che i
popolani), coronati da atti molto laici che fungevano da preparazione all’effettivo matrimonio (visite alla
famiglia, banchetti…); l’autorità della chiesa arrivava solo alla fine, quando il sacerdote, che quasi era una sorta
di funzionario di stato civile, ratificava ciò che altri avevano deciso in precedenza.
Celebrare un matrimonio in chiesa non era quindi necessariamente riconoscere la sacralità di questa unione, ma
era semplicemente riconoscere che ci si univa in un luogo pubblico dove una persona – in questo caso il
sacerdote – fungeva da pubblico ufficiale.
Gli studi degli storici cattolici che si sono interessati della questione del matrimonio, individuano nel periodo
che si apre con la pubblicazione delle tesi di Lutero (1517) e si chiude la fine del concilio di Trento (1563) uno
spartiacque nella storia europea del matrimonio.
Abbiamo detto che Luterò abolì la natura sacramentale del matrimonio, rese possibile il matrimonio anche dei
pastori protestanti e fu chiarissimo nella sua dottrina di separazione dei due regni (quello terreno e quello
ultraterreno) nell’affermare che il matrimonio era un contratto civile e che sul contratto civile aveva potestà
unicamente l’autorità del principe. Questo portò non ad un allentamento del matrimonio o ad una pratica meno
rigorosa di tutte le procedure giuridiche, fu esattamente il contrario: nelle terre luterane quando si cedette ai
principi ed ai loro tribunali l’autorità di legiferare sul matrimonio – e sulla possibilità del divorzio, che era stato
concesso - vennero istituite alcune misure disciplinari rigorosissime contro l’adulterio, contro i legami
prematrimoniali, contro l’omosessualità etc che vennero appaltate all’autorità laica.
Quindi, il matrimonio civile fu una parte della Confessionalizzazione perché diede all’autorità civile una potestà
senza veti e senza limiti al raggiungimento della chiesa.
Per Lutero, in sintesi, il matrimonio è un affare terreno sotto la potestà del principe.
La dottrina cattolica, invece, si mise su posizioni opposte ed in uno degli ultimi decreti emanati dal concilio nel
1563, il decreto Tametsi, che ribadiva la natura sacramentale del matrimonio e quindi assolutamente vincolata
alla potestà della chiesa. Accanto a questo, il decreto Tametsi su chiarissimo nello stabilire come si doveva
contrarre il matrimonio: vi era una sola funzione, quella di procreare figli, ogni deviazione dalla vita coniugale
doveva essere condannata e repressa…
La chiesa continuò a sottolineare che il principio del matrimonio si basava sul libero convincimento degli sposi,
ma anche questo libero convincimento veniva ora limitato dalla riaffermazione del carattere sacramentale di
questo rito, il che in questo decreto si tradusse con alcuni obblighi, come ad esempio l’esposizione di avvisi alla
comunità – come un atto pubblico – oppure l’obbligo che il rito fosse celebrato da un sacerdote, per ribadire
l’autorità della chiesa attraverso la mediazione del celebrante. Il matrimonio restava un sacramento, ma era
ristretto in regole precise.

Decreti e Canoni del Concilio di Trento (1545-1563) Canone sul matrimonio (sess. XXIV, 11 novembre 1563)

«[…] comanda che in avvenire, prima che si contragga il matrimonio, per tre volte, in tre giorni festivi consecutivi il
parroco dei contraenti dichiari pubblicamente in Chiesa, durante la santa messa, tra chi debba contrarre il
matrimonio. Fatte queste pubblicazioni, se non si oppone alcun legittimo impedimento, si proceda alla celebrazione
del matrimonio dinanzi alla Chiesa, dove il parroco, interrogati l’uomo e la donna, ed inteso il loro mutuo consenso,
dica: Io vi congiungo in matrimonio nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, o si serva di altra formula,
secondo il rito consueto in ciascuna provincia.
Comanda, inoltre, che siano gravemente puniti a giudizio dell’ordinario, il parroco e qualsiasi altro sacerdote, che
con minor numero di testimoni assistesse a tale contratto. Il santo Sinodo, inoltre, raccomanda che gli sposi, prima
della benedizione sacerdotale - da riceversi in Chiesa - non abitino insieme nella stessa casa. Stabilisce anche che la
benedizione debba essere impartita dal proprio parroco e che nessun altro, fuorché lo stesso parroco o l’ordinario,
possa concedere la licenza di dare questa benedizione ad altro sacerdote, non ostante qualsiasi consuetudine, anche
immemorabile, - che deve dirsi piuttosto corruzione - o privilegio».

Vi sono casi in cui i tribunali ecclesiastici intervengono per giudicare la validità del matrimonio – richiesta da
uno dei due coniugi in caso di infertilità ad esempio – e se il tribunale considerava la richiesta lecita si poteva
approvare la separazione.
La relazione che la chiesa ha con la sessualità è una relazione piuttosto complicata: il desiderio è unpunto molto
delicato, ed il matrimonio serve quindi a incanalare il desiderio e la tensione sessuale dentro a un quadro
“regolare”, ma non si deve limitare a quello. Il matrimonio ha il fine della procreazione, ed il principio
dottrinale legittima l’atto sessuale solo a questo scopo.
La giurisdizione matrimoniale fu uno strumento che la chiesa usò come mezzo di disciplinamento della società e
dei propri fedeli, per questa ragione, il canone sul matrimonio avrebbe giocato da lì in avanti un ruolo
importantissimo nel far penetrare i dogmi della chiesa anche nella vita più privata delle persone.
Un altro fattore importante era quello che regolamentava i numeri dei padrini sia del matrimonio sia del
battesimo, che all’epoca erano numerosissimi perché costruivano delle reti di parentela che accompagnavano il
matrimonio, ma poiché per la chiesa il matrimonio era un atto tra due sole persone, e per questo il numero venne
stabilito ad un massimo di due (due testimoni allo sposo, due alla sposa, due figure che facciano da padrini al
battesimo).
In questo processo di disciplinamento, anche la confessione venne regolamentata: ad oggi questo sacramento è il
meno praticato, ma all’epoca la confessione ebbe un ruolo centrale nella riaffermazione dell’autorità della chiesa
cattolica e nella vicenda del concilio di Trento. La chiesa comunitaria aveva naturalmente mantenuto la
confessione e addirittura in alcuni momenti si riteneva necessario mostrare un foglietto in cui si dichiarava di
essersi confessati per poter fare la comunione. Tuttavia, noi sappiamo che le confessioni spesso all’epoca erano
dei riti non individuali ma collettivi: nella vita delle comunità rurali, ci sono testimonianze notarili che mostrano
come – ad esempio – in due famiglie che stavano litigando, i due capofamiglia si incontrassero e stabilissero,
confessando reciprocamente le proprie colpe davanti alla comunità, un accordo e un nuovo modo di convivenza.
Questi rituali collettivi servono quindi a preservare o ricongiungere il tessuto comunitario.
Dopo il concilio di Trento, però questi atti di confessione comunitaria cessano e viene ribadita l’obbligatorietà
della confessione – sacramento che i protestanti hanno eliminato.
Durante lo svolgimento del concilio, il papa Paolo IV, uno dei papi più terribili in quanto a intransigenza
antiprotestante, emana un decreto di una durezza straordinaria nel quale si dice che i sacerdoti che avessero
ascoltato durante la confessione un penitente dichiarare di avere libri proibiti, avere frequentato eretici o essere
stato simpatizzante dell’eresia in passato, insomma tutto quello che non erano conformi alla mentalità cattolica,
avrebbero dovuto negare l’assoluzione alla persona e convincerla a recarsi al tribunale dell’inquisizione per
essere assolto in loco – e per fare i nomi degli eretici. Col tempo, quest’obbligo di non assolvere i penitenti per
crimini di eresia o per altri crimini, si estese e diventò uno strumento che sovrapponeva alla figura del sacerdote
quella del giudice, e faceva perdere tutti quegli elementi di socialità e comunitarietà che la comunione aveva in
passato per farlo diventare un atto sempre più chiuso. Il dialogo doveva essere serratissimo tra il fedele e questo
giudice-prete della chiesa cattolica.
La seconda parte dell’XVI sec (quello coi processi contro gli eretici) è quindi il secolo anche della confessione,
che divenne anch’esso uno strumento di:
- affermazione dell’autorità cristiana
- contrastamento dell’eresia
- disciplinamento dei fedeli da parte della chiesa.
Il tribunale dell’inquisizione perseguiva quindi, la stregoneria, la magia, la blasfemia e tutta una serie di
comportamenti ritenuti moralmente contrari alla dottrina cattolica.

15 ottobre 2019

Il tema di oggi si baserà sugli argomenti introdotti da due citazioni introduttive.


La prima citazione risale al 1570, quando Papa Pio V (ex cardinale membro della congregazione
dell’inquisizione nel 1565) si segnalò come papa particolarmente duro contro ogni forma di contestazione verso
la chiesa. Per questo motivo, gli fu dedicata una Pasquinata, un pezzo di carta che veniva posto sotto la statua di
pasquino che attaccava le persone importanti “Quasi che fosse inverno, brucia cristiani Pio siccome legna, per
avvezzarsi al fuoco dell'inferno”.
La seconda, invece, è un pochino più tarda ed è di un religioso o intellettuale divenuto una delle voci critiche
della chiesa più taglienti, ovvero Paolo Sarpi, che era un frate veneziano molto vicino al governo della
repubblica nei primi anni del 600, che al momento era l’unica isola di resistenza alla controriforma cattolica. In
un suo testo, Relazione dello Stato e della Religione in Italia e in diversi stati, egli analizzava un aspetto della
religiosità italiana che si focalizzava sul nesso confessione-penitenza, ovvero quell’obbligo insistito e ripetuto,
continuamente osservato da parte delle autorità dell’obbligo confessionale. Sarpi analizzava storicamente come
dal concilio di Trento in avanti fosse evoluto il problema della confessione e constatava le conseguenze di
questa pratica alla quale la chiesa di Roma teneva così tanto. Egli individuava nell’ordine dei gesuiti, fondato
nel 1540 da Sant’Ignazio di Loyola, l’ordine che era diventato negli anni più attento, disciplinato ed anche più
intelligente al servizio della Chiesa di Roma, e osservava che i gesuiti in Italia “avevano messo in tanta
frequenza e sottilità che molte delle loro divote creature consumano più tempo in istare dinanzi al confessore di
quello che sia il rimanente che spendono nel servizio di Dio e nei loro propri affari. I Gesuiti hanno inventato
la ripetizione della confessione: di una settimana, di un mese ed ancora la confessione generale di tutta la vita,
della quale si vagliano per conoscere gli affetti di tutti”.
Sarpi spiegava come questa azione di controllo da parte della chiesa mirava non solo a disciplinare
maggiormente i fedeli (larga azione pedagogica) ma, più sottilmente, mirava anche a conoscere ciò che
pensavano i cattolici. In questa società in cui tutto doveva essere controllato dalla Chiesa, la confessione
diventava allora una strategia di controllo.
Paolo Sarpi aggiungeva che per questa ragione, non solo la chiesa in Italia aveva aumentato a dismisura il suo
potere, ma che per questo era aumentata anche la stupidità degli italiani, che con tutta questa osservanza e
attenzione ad ogni tipo di precetto religioso era arrivata a tal punto da non far più studiare più le materie come le
matematiche e tutte le arti metafisiche e filosofiche stostituite dallo studio unicamente della teologia e dei
precetti religiosi.

Sarpi, naturalmente, esprimeva un pensiero allora assai minoritario e molto poco condiviso perché sappiamo che
già prima del 1563 la presenza in Italia della Spagna – e quindi di un potere imperiale secolare e molto vicino a
Roma – aveva provocato di fatto una forma di alleanza molto duratura tra la Spagna, i ceti dirigenti italiani al
servizio della spagna e la chiesa di Roma
Si era creato ovvero in Italia un inevitabile accordo tra i poteri dei principi e la santa sede, che da questo aveva
ovviamente guadagnato. La Roma barocca (da San Pietro e i Colonnati del Bernini e tutte le opere e i
monumenti che in questo momento sorgono a Roma) porta il segno del suo essere la Capitale della Cristianità
sopravvissuta alla sfida della riforma e diventata un luogo di straordinario potere per gestire la Chiesa (italiana).
Roma è anche il polmone economico della chiesa, che ridistribuisce tutte le rendite che arrivano sotto forma di
cariche ecclesiastiche, possedimenti, vendita di uffici… Roma e la Curia sono anche uno straordinario luogo di
aggregazione dei ceti dirigenti italiani e di mobilità sociale: da questo punto di vista, Roma, paradossalmente, si
è rafforzata dopo la sfida di Lutero perché la sua centralità e la sua capacità di amministrare una chiesa ora
molto più militante ma anche molto meglio organizzata rispetto al passato, si trasforma anche in un accumulo
straordinario di ricchezze.

Ci sono due cose da tenere a mente: una è la controversia luminaristica che si gioca attorno alle parole di
controriforma e di riforma. Come tanti concetti storiografici che noi usiamo, controriforma suscita un tipo di
definizione che si attaglia bene all’origine di questo nome, ma che all’epoca non veniva chiamata con lo stesso
termine: la parola controriforma, con il suo significato avversativo, é in sé una parola che viene usata per la
prima volta nella Germania del 1800 – dalla traduzione tedesca di gegenreformation – dagli storici protestanti
della Germania settentrionale, che lo applicarono in modo denigratorio e svalutativo perché per loro – che
vivano sotto una dinastia calvinistica in una Germania in cui gran parte della popolazione era di fede luterana e
in cui si attivavano all’epoca dei notevoli processi per la riforma industriale – denotava la diversità di esiti della
riforma e della risposta cattolica. Per questi storici protestanti, la riforma era un momento di liberazione
progressiva della Germania dal papato, dalla superstizione dei cattolici etc, mentre la controriforma etichettava
quei paesi come l’Italia e la Spagna che erano notevolmente in ritardo in confronto a loro. Quindi per lungo
tempo controriforma ha avuto questo significato.
Sempre in Germania negli anni settanta del secolo scorso, vi fu un gruppo di storici cattolici che produsse
l’espressione riforma cattolica – Katholische Reform – per sottolineare il fatto che Roma aveva reagito in modo
duro nei confronti dei protestanti (persecuzioni, guerre), ma aveva anche avuto un altro tipo di risposta non
unicamente violenta o basata sulle armi della repressione, ovvero una risposta che puntava ad una riforma
interna alla chiesa. È vero infatti, ad esempio, che con il concilio di Trento erano state stabilite alcune regole,
come la creazione di seminari in ogni diocesi per la formazione dei preti, l’obbligo per i vescovi di risiedere
nelle loro sedi diocesane, l’obbligo di tenere in ogni parrocchia i registri dei battesimi, dei funerali e dei
matrimoni, in modo che la vita anche dei fedeli fosse registrata e quindi sorvegliata…
È difficile intendere e separare le misure che la chiesa mette in campo per migliorare sé stessa e per disciplinare
la propria attività da quelle che sono emanate per reprimere il dissenso religioso, ma occorre sempre ricordare
che il concilio di Trento fu anche questo, ovvero un tentativo di riorganizzare in modo coerente e sotto ogni
punto di vista (dogmatico, teologico…) la struttura della chiesa.
Quei gesuiti con cui se la prendeva Sarpi – che diventeranno in questi anni l’ordine religioso più importante
della chiesa – furono, accanto ad altri ordini più vecchi come i domenicani e i francescani, gli strumenti tramite i
quali la chiesa si preoccupò anche di “ricattolicizzare” l’Europa, perché ci si accorse a Roma che migliaia di
contadini italiani, spagnoli e portoghesi non conoscevano i dogmi ecclesiastici e che la loro frequenza alla
chiesa si limitava alle cerimonie più importanti. Per questo, missionari di questi ordini religiosi venivano spediti
“nelle indie di quaggiù” o “nelle nostre indie” (meridione italiano), in cui vi era una forte necessità di istruire i
fedeli al rispetto dei dogmi.

Il secondo aspetto è altrettanto interessante.


L’Europa rimasta cattolica non era un’Europa egualmente obbediente nello stesso modo a Roma: i decreti del
concilio di Trento (massa enorme di testi legislativi che affrontavano vari temi) non furono accolti dappertutto
allo stesso modo. Nella Spagna cattolica, nel Portogallo cattolico e nella parte della Germania ancora cattolica,
il concilio venne accolto dai principi nei suoi aspetti teologici e dogmatici ma non nei suoi aspetti disciplinari.
Gli episcopati spagnoli, francesi, tedeschi e portoghese rimasero – dal punto di vista dottrinale – certamente
fedeli a Roma, ma la loro dipendenza dai principi rimase quella stabilita prima del concilio di Trento. Per
questo, i vescovi tedeschi continuarono ad essere eletti dai nobili tedeschi e poi confermati dal papa, i vescovi
francesi furono allo stesso tempo fedelissimi nella dottrina a Roma e nel resto al potere statale secolare.

Accanto agli ordini religiosi e al concilio di Trento, una delle armi della controriforma fu il tribunale
dell’inquisizione. Esisteva un tribunale dell’inquisizione addetto a controllare l’eterodossia già in età medievale,
ma nel 1542, nei piani di riforma della Curia di Roma venne istituita una congregazione cardinalizia per la
dottrina della fede, un ministero ad hoc centralizzato e specializzato che aveva il compito di giudicare e di
organizzare la repressione dell’eterodossia nel tribunale dell’inquisizione.
L’inquisizione romana venne estesa con l’istituzione di tribunali dell’inquisizione minori in ogni sede diocesana
(come sedi delegate) in cui venivano mandati tutti i fedeli che chiedevano l’assoluzione per i crimini di eresia e
non potevano essere assolti dai preti normali.
L’inquisizione fu quindi uno strumento molto agile con cui la chiesa di Roma si occupò dell’eresia, ma
l’inquisizione Romana fu un fatto esclusivamente italiano: non ci sono tribunali dell’inquisizione che valichino
il confine a nord delle alpi o il confine del regno di Napoli – che è dominio spagnolo e che, come tale, ha già la
propria inquisizione suprema.
Anche questa sfumatura che ci disegna un concilio di Trento applicato nella sua interezza esclusivamente in
Italia, ci da una chiave di lettura utile per comprendere come questa vicinanza tra chiesa e stato si innerva nella
storia europea.

Il calvinismo, una religione di lotta e di conquista

Abbiamo detto che Spagna, Italia, Inghilterra e alcuni territori tedeschi regolano con una pratica divisione delle
funzioni i loro rapporti tra chiesa e stato.
Non è ovunque così, perché ad esempio in Francia e nelle Fiandre spagnole (attualmente Belgio e Olanda) si
assiste ad un episodio di lotta religiosa piuttosto serio che conduce ad una mobilitazione e ad un’intensità di
violenza che nessun’altra guerra di religione ha prodotto e sperimentato fino ad ora.
Il soggetto che anima questi contrasti religiosi ha delle caratteristiche ed una capacità di irradiazione delle
dottrine teologiche e poi politiche che il luteranesimo non ebbe mai. Stiamo palando del Calvinismo, che si
diparte da un luogo particolare: Ginevra.
Il calvinismo è una branca della riforma che prende il nome da un pastore francese, Juan Calvin (1509-1564)
che influenzato dallo spirito della riforma e in lotta con la chiesa cattolica francese, ad un certo punto della sua
vita (tardi anni trenta) decide di fuggire dalla Francia e trova rifugio perché è chiamato a predicare a Ginevra,
importante e molto dinamica città della confederazione Elvetica, della svizzera francese. Luogo di mercanti e
centro culturale assai vivace, Ginevra fu la destinazione di Calvino grazie alla chiamata di un altro predicatore
francese, stanziato in una città molto ostica nei confronti di Roma e abitata da eretici e oppositori della chiesa
romana. Calvino in pochissimo tempo diventa una figura eminente all’interno della città, trasformando
l’amministrazione civile di Ginevra in una sorta di dipendenza personale: l’organizzazione della chiesa che
Calvino riesce a costruire all’interno della città di Ginevra è fatta da organisti, concili nei quali siedono a fianco
a fianco ecclesiastici e magistrati laici (di fede riformata). In breve tempo, Ginevra diventa una città in cui
Calvino e gli ecclesiastici che lo seguono svolgono un ruolo dominante nelle faccende laiche, terrene.
Per questo, il Calvinismo – e Calvino in particolare – si pone in una linea di rottura molto netta e molto evidente
rispetto al luteranesimo.
Abbiamo osservato che x Lutero il problema del rapporto tra mondo spirituale e mondo terreno si risolve fin
dall’inizio con una cesura nettissima: il principe si occupa delle cose terrene e i fedeli delle loro anime senza
interferenza tra i due.
Calvino risolve diversamente questo problema del rapporto tra i due regni: nei testi teologici, Calvino lavora per
trovare una soluzione che avvicini il regno di dio e quello degli uomini, rendendo quest’ultimo molto più
penetrato dalla religione rispetto a quello di Lutero. La soluzione, per Calvino, è affermare che le due autorità
(quella spirituale e quella laica) hanno lo stesso compito, ovvero quello di stabilire un ordine religioso e politico
che sia lo specchio della grandezza di Dio.
Il punto di partenza teologico di Calvino è molto agostiniano, e ancora più cupo rispetto al pessimismo luterano,
ma l’uomo che immagina calvino non è un uomo come quello di Lutero che rifiuta di portare il messaggio di
Dio nelle cose che fa. L’originalità di Calvino sta nel cercare di far si che ciò che Lutero aveva diviso (mondo
terreno e aldilà) fosse ri-avvicinato, affermando che l’uomo che agisce secondo i comandamenti di Dio esprime
una vocazione che dio gli ha dato e agendo in questo modo egli sta – in un certo senso – portando il mondo di
dio sulla terra.
Dice calvino che alcuni uomini hanno per vocazione il compito di infondere la parola di dio anche nelle loro
opere di questo mondo; agire secondo questo principio nel mondo significa corrispondere ad una vocazione che
dio ci ha dato e anche il successo delle cose di questo mondo può essere una testimonianza della volontà e della
benevolenza di Dio nei nostri confronti.
Se per Lutero la salvezza è nella fede, per calvino la salvezza sta anche nel costruire una comunità di santi, cioè
nel far si che Ginevra sia una comunità cittadina votata alle leggi di dio e organizzata in maniera conforme.

Il dinamismo di calvino si spiega anche forse con l’origine cittadina del movimento: la città di Ginevra era
moderna, commerciale, artigianale, e quindi la confessione di calvino è implicitamente più dinamica e
l’ottimismo che egli ha nei confronti del potere di dio si riversa in un certo ottimismo nel successo degli uomini
– che è prova della sua volontà.

R. Bainton, La riforma protestante, Torino, Einaudi 1958, pp. 108-110.


«La caratteristica più originale del calvinismo consistette nel suo attivismo, come affiora dalla sua opera più
conosciuta l’Istituzione della religione cristiana.
«L’Istituzione di Calvino espone una concezione di Dio, dell’uomo e della Chiesa che ci permette di capire come mai
il calvinismo sia stato il più dinamico fra i vari tipi di protestantesimo. L’attivismo calvinista deriva da un ottimismo
nei riguardi di Dio, che contrasta con il pessimismo verso gli uomini. La concezione che Calvino aveva dell’uomo
era altrettanto lugubre – e forse perfino più catastrofica – di quella di Lutero e degli anabattisti». Ma da questa
diagnosi terribile sulla debolezza dell’uomo, che in Lutero permetteva solo un rassegnato interessamento alle cose
umane, Calvino invece «traeva un invito risoluto all’azione nell’ambito della società».
C’è insomma una concezione diversa di Dio. Se il testo principale di Lutero era: “i tuoi peccati sono rimessi”, quello
di Calvino era invece: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?” […] Questo Dio ch’è in grado di compiere quanto
ha promesso, ha nei riguardi dell’umanità un proposito che deve attuarsi nel quadro della storia. Qui sta una delle
differenze più significative fra Calvino e i riformatori precedenti: egli ripudia la loro aspettativa di un imminente
ritorno del Signore e proietta la catastrofe finale in un futuro indeterminato. Calvino sostituì al giorno grande e
imminente del Signore il miraggio della repubblica dei santi sopra un piano terrestre».

Questo spiega anche come mai il luteranesimo rimanesse una confessione religiosa ristretta, limitata alle aree
della Germania in cui era nata, mentre il calvinismo fu da subito una confessione esportabile: i calvinisti e la
fede calvinista si sparsero velocemente da Ginevra in moltissimi luoghi europei (anche in Italia, a Modena,
Lucca, e soprattutto nelle città francesi).
Il calvinismo aveva una forza di coesione straordinaria, anche grazie al suo immaginario di una “Repubblica di
Santi”, per cui quando arrivò nelle città delle fiandre e della Francia meridionale ebbe subito un largo consenso.
Questa espansione così veloce della confessione calvinistica in terre cattoliche provocò due grandi conflitti di
religione, che videro fronteggiarsi le comunità calviniste nelle Fiandre spagnole e il governo cattolico spagnolo
(Filippo II) da una parte e le comunità calviniste nelle città francesi contro i “cristianissimi” francesi, dall’altra.
Lo scontro tra questa straordinaria capacità di proselitismo e questa espansione calvinista in Francia e in Spagna
si calò in due contesti che apparivano abbastanza solidi ma che erano in realtà segnati da numerose fragilità:
nonostante la Spagna fosse una superpotenza europea con tutti i suoi domini oltremare, l’estensione eccessiva
dei suoi domini creava un equilibrio molto fragile, che necessitava di una continua protezione dei propri confini
in un periodo in cui già la Spagna combatteva nell’Atlantico contro l’Inghilterra, nel Mediterraneo contro
l’impero Ottomano e aveva appena smesso di combattere in Germania contro i protestanti (1555).
La fragilità istituzionale francese si originò invece dopo la morte di Enrico II nel 1559, nella successione di un
paio di re che morirono troppo giovani o che erano troppo deboli per regnare adeguatamente. Questo creò le
condizioni attraverso le quali ad un potere del re molto debole si cercò di rimediare con una serie di reggenze
(tra cui ricordiamo quella di Caterina de’ Medici, regina madre con Francesco II di Francia, successore di Enrico
e marito di Mary Start) di membri della famiglia reale o di altri personaggi delle grandi famiglie aristocratiche
cattoliche, come i Guise.

L’incapacità sul fronte spagnolo di far fronte a molti teatri bellici e la debolezza interza della Francia, provocano
una successione di conflitti terribili, che arrivano al limite dell’antropofagia.
I conflitti in Francia iniziano con la morte di Enrico II nel 1559 e terminano nel 1598 con la pubblicazione
dell’editto di Nantes, mentre la guerra che oppone i calvinisti delle fiandre spagnole e la Spagna sarà molto più
lunga e per questo verrà rinominata la “Guerra degli Ottant’anni” (inizia nel 1568 e termina nel 1648).
In questi conflitti di religione la motivazione e la matrice religiosa va sottolineata ulteriormente, perché al fondo
di questa orribile ondata di violenze c’è un’altra particolarità della confessione calvinista, ancora pìù lontana
dalla teologia luterana originaria.
In questo senso, abbiamo visto Lutero che invitava i principi al massacro dei contadini insorti dicendo che “il
principe ha la spada e ciò che fa il principe è bene, è giusto, è legittimo” – conseguenza della separazione dei
due regni.

Calvino, nei suoi testi, scrive certamente che i sudditi devono obbedire e sottomettersi volentieri agli ordini dei
propri principi, pregando per la loro salvezza, ma c’è un limite a questa obbedienza: siccome l’obbedienza a
questi principi ci distoglie dall’obbedienza al vero Signore, che è DIO, se i signori comandano qualcosa contro
le leggi di dio noi non dobbiamo obbedirgli, perché è meglio obbedire a dio che obbedire agli uomini.
In questa posizione così contraria alla dottrina luterana sta una matrice potenzialmente rivoltosa che il
calvinismo ha verso l’autorità statale. La causa della diffusione e della resistenza così ostinata e a tratti violenta
che i calvinisti oppongono in nome della difesa della fede sta esattamente nella convinzione che non si possa
recedere davanti alla potenza di dio, e che anche quando l’autorità statale li obblighi ad andare contro i principi
della loro fede bisogna rispondere loro con la violenza e le armi.
La violenza di questi scontri si mescola ad altre strategie politiche: ad esempio, la gdr in fr vede da una parte la
fazione cattolica, responsabili della Notte di San Bartolomeo nel 1572 in cui uccisero migliaia di protestanti, e
dall’altra quella degli ugonotti francesi. In questa lotta, la fazione calvinista trova un appoggio nella famiglia dei
Borbone-Navarra, che funge da gruppo di aggregazione in Francia, in cui abbiamo anche la presenza delle
truppe spagnole alleate con i cattolici.
Le città calviniste olandesi cercano, invece, l’aiuto dei principi tedeschi riformati e quello dell’Inghilterra.
Si tratta quindi di un teatro bellico giocato su più piani e su più livelli politici.

L’esito dei conflitti religiosi

L’esito del conflitto francese è stato originato in parte dalla rinuncia di considerare – ad un certo punto, quando
il sangue è stato versato oltremisura – la religione come un buon motivo per cui combattere: nella fase finale
della guerra, nei tardi anni ottanta ossia quando la guerra era diventata un combattimento tra i tre Enrichi (Re
Enrico III guida il regno, Enrico di Guisa guida i cattolici e Enrico di Borbone guida i calvinisti), il Re nel 1589
viene ucciso da un frate passato al calvinismo, che mette all’opera quelle teorie di resistenza estrema al sovrano
qualora i suoi comandi fossero contrari alla religione (per questo si parla degli ambienti calvinisti di questo
periodo come ambienti monarcomani, ovvero ambienti nei quali si teorizza che sia legittimo uccidere il monarca
se egli comanda cose contrarie alla religione). A questo punto, con l’uccisione del re per motivi religiosi, è come
se tutti i partecipanti a questo conflitto si avvedono che la guerra sta portando a togliere quell’aura di sacralità e
rispetto che sta attorno alla monarchia ed alla figura del re: le morti dei sovrani precedenti non erano mai
avvenute per causa religiosa, e quindi questa sensazione di una violenza religiosa fuori controllo (anche Enrico
di Guisa era stato pugnalato per motivi religiosi qualche anno prima ) porta ad una sorta di velocissima linea di
accordo tra le parti, che favorisce il pretendente al trono per via matrimoniale di matrice calvinista, cioè Enrico
Borbone Navarra, che viene nominato re nel 1593.
Enrico IV, a questo punto, abiura la fede calvinista (Paris vaut bien une messe!) e nel 1598 proclama l’Editto
di Nantes, che rientra in quella scia di trattati di pace religiosa che, come quello di Augusta, sono stati scritti per
risolvere la questione religiosa: il re è unico ed è cattolico, la Francia, quindi, è cattolica.
Tuttavia per pacificare i calvinisti – dai quali lui proviene – Enrico IV assicura con questo editto che vi siano dei
luoghi nelle città in cui essi possano professare e praticare la propria fede. L’editto concede anche la presenza di
alcuni calvinisti nel parlamento francese ed anche un centinaio di piazzeforti armate.

I fattori politici e religiosi che sono così importanti per mantenere all’interno del regno francese una presenza
protestante/calvinista tollerata sono altrettanto importanti per concludere il conflitto religioso tra i calvinisti e i
cattolici delle fiandre spagnole.
L’insurrezione e la diffusione del calvinismo hanno riguardato soprattutto le province settentrionali, quelle che
noi conosciamo oggi come l’Olanda (dal nome dell’allora più importante provincia del frazionato territorio delle
fiandre). Attraverso un lungo periodo di violentissime guerre tra cattolici e armate spagnole (che risalgono
attraverso le alpi dal Camino de Espana – Lombardia, Svizzera, Olanda), questa guerra viene vinta dai
protestanti calvinisti.
Il paese si è spaccato nel 1581 tra una lega di provincie settentrionali calviniste e una lega di provincie
meridionali rimaste alla spagna, ma il fenomeno fondamentale all’origine di un atto che viene stipulato nello
stesso anno, ovvero in piena guerra, e che viene considerato l’atto di nascita delle province Olandesi, ci permette
di osservare (oltre al ripudio di Filippo II come re) qualcosa di nuovo: si parte da una considerazione calvinista
della giustificazione della disobbedienza ad un re non ritenuto cristiano nel senso calvinista e nel seguito del
testo questo atto di libertà religiosa si trasforma in un atto di libertà politica di quella comunità dal giogo della
spagna. I ribelli olandesi, soprannominati dagli spagnoli all’inizio della guerra “i pezzenti”, giocano a questo
punto – non seguendo l’esempio tedesco ma piuttosto di quello inglese – la difesa dei propri privilegi di fede e
della propria libertà di coscienza come arma per giustificare il diritto di resistere all’autorità statale, ma anche
come un collante di tipo nazionale che tiene insieme uno stato.
Le provincie unite d’Olanda – come si chiameranno da questo punto in avanti – ritrovano nella confessione
religiosa un cemento utile a tenere assieme una Repubblica, perché la confederazione delle provincie unite
d’Olanda è davvero una delle prime repubbliche europee.
Questa commistione tra virtù religiose e virtù politiche, tenute insieme da un amalgama di tipo repubblicano o
antimonarchico, e quindi straordinariamente moderna, fa dell’esperienza di queste provincie unite d’Olanda
contro il re di spagna un esempio a cui tutti gli intellettuali del tempo guarderanno come la prima prova che in
Europa si è verificata una guerra vittoriosa da parte di una Repubblica contro una Monarchia.
Così come l’uccisione dei re francesi era stata una avvisaglia che l’autorità monarchica poteva essere contestata
o messa in dubbio, così anche la vittoria delle provincie unite d’Olanda contro il re più potente dell’Epoca,
Filippo II e poi Filippo III, dimostrava che c’era nella cultura politica europea qualcosa di diverso e di
alternativo alla monarchia. La repubblica dava quindi la possibilità di costituirsi in una forma politica che non
desse a un re i poteri che fino a quel momento si credeva fossero normalmente e giustamente attribuiti.

26 luglio 1581 Dichiarazione d’indipendenza delle Province Unite d’Olanda. [In G. Dall’Olio, Storia
moderna. I temi e le fonti, Roma, Carocci, 2017, pp. 200-201].

«E’ a tutti evidente che un principe posto da Dio al governo di un popolo per difenderlo dall’oppressione e dalla
violenza, come il pastore il suo gregge; e Dio non creò il popolo schiavo del suo principe, per obbedire ai suoi ordini
a ragione ed a torto, ma creò piuttosto il principe per il vantaggio dei sudditi (senza i quali egli non potrebbe essere
principe) e per reggerli secondo giustizia, per amarli ed aiutarli come il padre i suoi figli, o il pastore il suo gregge,
e per difenderli e proteggerli finanche a costo della vita. E quando egli non si comporti così, ma al contrario li
opprime, tentando di violare loro antiche consuetudini e privilegi esigendo la loro servile ubbidienza, allora egli non
è più un principe, ma un tiranno e i sudditi non devono considerarlo in altro modo.
Sia noto a tutti con questa dichiarazione, che essendo stati ridotti a questo estremo, come si è detto innanzi, noi
abbiamo unanimemente e formalmente dichiarato, e con questo atto presente dichiariamo che il Re di Spagna ha
perduto, ipso jure, ogni diritto ereditario alla sovranità di questi paesi, e siamo decisi d’ora innanzi a non
riconoscere la sua sovranità e giurisdizione né alcun suo atto relativo ai territori dei Paesi Bassi, né a far uso del
suo nome come principe, né a sopportare che altri lo faccia».

16 ottobre

R. Descendre, Il discorso dell’ambasciatore, in G. Pedullà, S. Luzzatto, Atlante della letteratura italiana, II,
Dalla Controriforma alla Restaurazione, a cura di E. Irace, Torino, Einaudi 2001, p. 303.

«Cose le quali doverebbero chiarir ogni uno che le armi con quali si possono vincer gli eretici cresciuti in tanto
numero, non devono esser di ferro, ma di foco di carità e di pietà. E questo si tocca con mano in quel regno, perché
le guerre, più presto che distrugger l’eresia, l’hanno maggiormente ampliata et in cambio di estirpar l’ugonottismo,
vi hanno impiantato in molti l’ateismo. […]
Quantunque li re siino veri monarchi nel regno loro, si hanno però voluto spogliar di certa possanza assoluta e
sottoponerla alla legge, vestirne di essa li consigli e li parlamenti, non altrimenti di quello fecero li imperatori di
Roma […]. E però, avendo alcuni risguardo a questo, dissero ch’il governo della Francia sia un stato misto di tutti
tre li stati, regio, de’ senatori e del popolo».

Pronunciato qualche mese dopo l’Editto di Nantes da Pietro Duodo a Palazzo ducale, Venezia, nel gennaio del
1598. Duodo, ambasciatore italiano alla corte francese, legge al cospetto del Senato la relazione sulla sua
missione diplomatica in Francia, illustrando la tradizione istituzionale e le guerre religiose alla Serenissima.
L’ambasciatore veneziano, quando parla dei tre stati, evoca la divisione aristotelica delle forme di governo tra
monarchia, aristocrazia (senatori) e democrazia (popolo). L’acutezza di quest’uomo sta nel vedere nella fine
delle guerre di religione non solo l’eliminazione di un pericolo (attraverso la spogliazione decisa dai sovrani re,
ovvero la scelta autonoma di una sottomissione dell’autorità monarca al potere della legge, ai consigli
rappresentativi e agli organismi parlamentari dello Stato) ma come un segno che la Chiesa non può unicamente
ricorrere alla forza e usare strumenti ambigui per eliminare le eresie, ma deve gestire questa vicenda con nuovi
mezzi: carità e pietà.

Le guerre di religione in alcuni casi hanno scosso l’autorità monarca e in altri casi l’hanno rafforzata, ma in
questo caso l’autorità del monarca è stata colpita a livello della sua sacralità, perché costantemente messa alla
prova (due re di Francia uccisi da religiosi).
L’idea anticlericale della monarchia era abbastanza in voga all’epoca, specialmente tra i calvinisti, e andava a
eliminare quella visione del re che simbolizza quella commistione tipica dell’eredità medievale che univa rex et
sacerdos, tipica ad esempio della religione protestante.
Se spostassimo il nostro sguardo ad oriente verso un altro tipo di autorità vedremmo invece che questo tipo di
commistione per esempio con gli Zar è assolutamente indiscussa, tanto che ogni Zar viene canonizzato alla sua
morte, entrando a far parte delle figure più importanti della chiesa ortodossa.
Nelle terre europee, specialmente dopo le guerre di religione, la visione di monarchia e religione come due
entità unite inizia a sgretolarsi. Questo non vuol dire, tuttavia, che il potere monarchico è meno forte o che non
vi siano dei tentativi di riaffermare questo principio di legittimazione religiosa della monarchia.

Le rivoluzioni inglesi nascono precisamente da questo tentativo di rimettere insieme l’unità di chiesa e
monarchia.

Le due rivoluzioni inglesi

David Hermintage ha rilasciato di recente un’intervista con un periodico italiano nella quale, dopo aver speso
parole non esattamente elogiative nei confronti dell’attuale Primo Ministro Inglese, ha affermato che
“l'Inghilterra sta vivendo la sua più grande crisi costituzionale dai tempi della Rivoluzione”.
Questa Rivoluzione va indagata a partire dalle sue premesse religiose, che sono centrali anche in uqesto caso.
La prima parte del xvii secolo e gli ultimi del xvi sono occupati dalla magnifica figura di Elisabetta I, figlia di
Enrico VIII e di quel matrimonio incriminante con Anna Bolena che aveva dato origine alla Chiesa Anglicana.
Il regno di Elisabetta I è segnato in particolare dal contrasto profondissimo con la Spagna, che si gioca
soprattutto a livello coloniale. È un regno nel quale l’Inghilterra cresce economicamente e demograficamente
con un’intensità mai vista in precedenza (indice di un benessere politico visto che la popolazione raddoppia
nella seconda metà del XVI secolo), con una società ricca e molto dinamica. La supremazia demografica della
città di Londra era senza paragoni (1/4 della popolazione viveva nella capitale), e questo sviluppo tumultuoso
sia dell'Inghilterra in generale sia della sua capitale nello specifico è dovuto soprattutto all’intensificarsi dei
traffici transoceanici, allo sviluppo dei traffici con le Fiandre – aiutate dall’Inghilterra nella lotta contro la
Spagna – e con i Balcani.
L'Inghilterra comincia in questo periodo a costruire quella sua politica aggressiva di vocazione marittima (Blue
Water Policy) e diventa quindi una grandissima potenza militare soprattutto nei mari.
Nel frattempo, tuttavia cominciano a venire alla luce quelle ambiguità della costituzione e delle premesse della
anglicana che Enrico VIII, compiendo un atto esclusivamente politico di scissione, si era ben curato dal
sistemare. Fino al regno del figlio di Enrico VIII, che è Edoardo VI, la chiesa anglicana vive una condizione
molto poco precisata dal punto di vista dogmatico e dei riti, perché tutto sembra rimasto molto vicino alla chiesa
romana (in particolare per la gerarchia ecclesiastica, tutta soggetta al potere del re).
Sarà quindi Edoardo VI ad iniziare tra 1547 e il 1563 i primi tentativi di sistemazione della chiesa anglicana per
meglio allinearla con la riforma continentale.

Nel frattempo, in Scozia si radica – molto velocemente – il calvinismo. In un primo momento il flusso calvinista
viene accettato per certi versi dalla chiesa anglicana: anche se il re Edoardo VI assimila in parte il contenuto
della dottrina e della teologia calvinista all’interno della chiesa anglicana, ma in buona sostanza lo sviluppo nel
regno di scozia della dottrina calvinista è uno sviluppo autonomo e staccato dalla contemporanea trasformazione
della chiesa anglicana, che si muove soprattutto quando diventa regina Elisabetta I.
Con Elisabetta I, infatti, si arriverà ad una più precisa definizione dei dogmi e anche della struttura della Chiesa
anglicana, che intende sempre più abbandonare la chiesa romana avvicinandosi alla sua identità definitiva.
Nel 1563, Elisabetta I pubblica i “39 articoli di fede”, che le costeranno la scomunica da parte del papa nel 1570.
L’avvicinamento progressivo alla riforma non muta, però, la forte dipendenza che la chiesa e gli uomini di
chiesa (tutti) hanno nei confronti del monarca – dipendenza di matrice romana, derivata dal passato papista.
All’interno della chiesa anglicana si sviluppa una corrente di dissenso, che vorrebbe recidere definitivamente il
legame con la chiesa romana. I sostenitori di questa corrente si autodefiniscono “i puritani”, parola che deriva
dal termine inglese purity. I puritani sono quella parte della chiesa inglese che non sopporta la gerarchia
religiosa così fastosa e simile alle pratiche romane, ed il loro gruppo spinge perché ci si separi definitivamente
dalla lettura originaria della chiesa anglicana di influenza romana.
La chiesa anglicana è scossa da questo dissenso sempre più partecipato.
A ciò si somma la già accennata “febbre calvinista” della Scozia, senza dimenticare che in Irlanda c’era ancora
una notevole maggioranza cattolica.
Scozia, Irlanda e Inghilterra sono realtà politiche indipendenti: il Regno di Scozia è indipendente e governato
dai cattolici; nonostante i suoi re siano imparentati con i monarchi inglesi, non dipendono dalla legislazione
dell’Inghilterra, né dal monarca, mentre il Galles fa parte del Regno Inglese così come l’Irlanda (dal 1540).
L’Irlanda è soggetta all’autorità inglese grazie ai nobili mandati a colonizzarla ma essendo un’isola conserva
ancora un briciolo di indipendenza, anche perché la stragrande maggioranza della popolazione è cattolica.
La particolare forma di organizzazione che la Chiesa Scozzese (Kirk) è una chiesa presbiteriana, parola di
origine greca che significa anziana (dal nome calvinisti scozzesi detti “presbiteriani”), ovvero un insieme di
comunità ognuna retta da presbiter anziani che sono responsabili della comunità locale e che sono eletti dalla
stessa. Le comunità più piccole eleggono altri rappresentanti che partecipano al sinodo presbiteriale che si
riunisce nella capitale, Edinburgo.
Una struttura comunitaria di questo tipo è lontanissima e ostile dall’episcopalismo anglicano, perché sono due
modelli radicalmente differenti: uno comunitario elettivo e uno gerarchico a base monarchica.

Alla morte di Elisabetta I, per una vicenda tipica delle monarchie dell’antico regime, ovvero quella
dell’esaurimento di una linea dinastica, ovvero quella dei Tudor. La regina vergine, che ha scelto di non
congiungersi con nessuno per dedicarsi anima e corpo alla guida del suo regno, non ha quindi eredi. Questo
porterà sul trono di Inghilterra uno Stewart, un re Scozzese: Re James VI di Scozia, che dal 1655 diventa James
I, Re d’Inghilterra e di Scozia.

Nel 1609, il primo Re Stuart, James I si trova a dover affrontare una congiura cattolica: infatti, va ricordato che
anche dopo la pubblicazione dei 39 articoli di fede, quindi dopo la definizione più decisa della chiesa anglicana,
i cattolici non spariscono, ma rimangono una cospicua minoranza. Da questa minoranza nasce appunto questa
congiura cattolica, chiamata La Congiura delle Polveri, del 1605, chiamata così perché vennero scoperti
all’ultimo momento sotto il Parlamento, dei barili di polvere esplosiva ipoteticamente posixionati dei cattolici
per far esplodere il parlamento e il re. Tutto questo porta ad un’ondata di persecuzione nei confronti dei
cattolici, generando instabilità, frizione, fratture all’interno dello stato.
Il momento, però, in cui scoppia la crisi che definirà il punto di non ritorno, lo troviamo quando – morto James I
e salito al trono un altro Stewart, Carlo I (1625) – lo abbiamo quando Carlo I, incapace di tollerare la spinta 36
dei nobili scozzesi, che sono i suoi vecchi sudditi, nel 1638 arriva ad uno scontro con i Covenanters, ovvero i
nobili scozzesi che si sono riuniti in un’assemblea ed hanno sottoscritto il National Covenant, che conferma la
loro opposizione alle interferenze del loro vecchio re – ora re d’Inghilterra – giurando assoluta fedeltà ai principi
della chiesa calvinista. È guerra aperta.
Nel 1641 insorgono anche i cattolici irlandesi, rendendo ancora più instabile la situazione inglese e duplicando i
campi di battaglia. La guerra che Carlo I vuole combattere ha bisogno ovviamente di uomini, denaro, cavalli,
armi, rifornimenti, e questi strumenti di guerra non possono che essere forniti dal Parlamento Inglese, che come
oggi si divide tra House of Commons (la camera bassa) e la House of Lords (camera dei pari) e che aveva il
potere di decidere e approvare i finanziamenti necessari al Re. La necessità di combattere irlandesi e scozzesi
non vede il parlamento affatto d’accordo, tanto che nei mesi successivi all’entrata in guerra, il Parlamento e il
Paese si spaccano in due parti (1643): la guerra che doveva combattersi tra il re e gli insorti si trasforma ben
presto in una guerra civile, in quanto la alta borghesia, l’aristocrazia e il clero appoggiano il re, ma c’è un’altra
parte della popolazione inglese (specialmente al sud) che sostiene invece i principi dei puritani e del parlamento,
staccandosi dall’esercito reale e formando un altro esercito, quello delle teste rasate o teste rotonde, in cui i
soldati si rasavano la testa per indicare la loro lontananza dall’altra fazione.
L’esercito del parlamento era chiamato a combattere contro l’esercito regio, e possedeva degli eccellenti
comandanti, tra cui spicca un tipico esponente puritano della gentry (parte della camera bassa), ovvero Oliver
Cromwell, che diventerà il capo delle teste rotonde (insieme a Thomas Fairfax) e in particolare della cavalleria
dell’esercito parlamentare, che lentamente avrà la meglio sui soldati del re.

Carlo I ed Edoardo I erano diventati re di Inghilterra e di conseguenza avevano assunto la posizione di Capi
della Chiesa Anglicana Inglese. Questo comportava un tentativo necessario di riportare le altre confessioni
presenti sul suolo inglese in una posizione più vicina o più conforme a quella professata dal re.
Carlo ed il suo entourage, formato da persone aristocratiche con una visione molto tradizionale della monarchia,
insomma una corte che tenta di introdurre in Inghilterra quelle pratiche di tipo assolutistico che erano in voga
nelle altre monarchie europee (Francia soprattutto).
Nel 1638 le contraddizioni tra lo stile di vita del monarca e l’ideologia dei ribelli scozzesi esplodono,
traducendosi inizialmente nella sottoscrizione del National Covenant – che comunica a Carlo che non
asseconderanno le sue richieste di controllo della chiesa scozzese – e, successivamente, il rifiuto del modello
episcopalista anglicano, espresso in maniera così radicale, porta allo scoppio della guerra di religione, che è
anche una vera e propria guerra civile, influenzata anche dalla convinzione che il re non possa imporre alcunché
in materia religiosa.
Gli irlandesi in questa vicenda entrano intorno al 1540, quando Enrico VIII si è proclamato di fatto Re d’Irlanda
con un gesto di forza. L’Irlanda era già stata colonizzata con la forza dagli inglesi, quindi c’era già un rapporto
di sudditanza tra i due stati, ma gli irlandesi venivano una dinastia cattolica, quindi la maggioranza della
popolazione o la quasi totalità, era cattolica.
Nel 1638, quando gli scozzesi si sono ribellati hanno offerto un pretesto per l’attacco irlandese, indebolendo la
monarchia inglese tanto da spingere i nobili irlandesi cattolici ad aprire anch’essi un fronte contro gli inglesi,
aggiungendo al conflitto anglicano-calvinista un conflitto anglicano-cattolico.

Le guerre civili e le guerre di religione inglesi vedono all’inizio una spaccatura fisica nel paese, ma già nel
1644-1645 la partita militare è ormai sciolta a favore del parlamento e dell’esercito puritano. In uno di questi
scontri tra le truppe del re Carlo I e gli scozzesi, il re viene catturato, ma invece di tenerlo prigioniero, gli
scozzesi lo consegnano al Parlamento che, con una scelta straordinariamente rivoluzionaria, decide di metterlo
sotto processo. Questo atto spaventa terribilmente tutte le monarchie europee.
Nel processo imbastito dal parlamento, a cui la camera dei Lord era contraria, Carlo I protesta animatamente
contro lo speaker della camera dei comuni ma alla fine le udienze, il materiale e gli interrogatori portano
eventualmente alla decisione del parlamento di decapitare il re.
Fu in assoluto la prima volta che un re moriva per decisione del parlamento.
Si dice che prima della decapitazione Cromwell si sia avvicinato al re e abbia detto: “ Ti dico, ti taglieremo la
testa con la corona sopra”. Si tratta di una precisazione che ci fa capire alcune cose: Cromwell allude a una
simbologia che deriva dalla letteratura politica calvinista e quindi dai testi di protesta che i calvinisti hanno
usato per giustificare la loro protesta. Questa dottrina è detta la Dottrina del doppio corpo del Re.
Guardando le sepolture medievali di alcuni sovrani inglesi e francesi, possiamo vedere come le arche funebri
venissero costruite su due livelli: su un piano, generalmente il più visibile, il re veniva rappresentato vestito e
con tutti i simboli della sovranità, mentre al di sotto c’era il corpo di un cadavere o di uno scheletro. Questa
raffigurazione tipica di certi ornamenti funerari allude al fatto che il corpo del re sia duplice: da una parte
mortale (cadavere) e dall’altra immortale (regalità), perché la sovranità passerà ad un altro corpo. Questa
simbologia allude all’eternità del potere di una dinastia regale, che passa agli eredi la sovranità senza mai
interrompersi. Questa doppia natura, questo doppio corpo del re mortale e immortale è stato spesso – anche nel
corso della guerra di religione – evocato come giustificazione della legittimità di uccidere il corpo del re perché
la sua sovranità comunque sarebbe sopravvissuta, ma in quel corpo non era più legittima (e doveva essergli
tolta).
La dottrina del doppio corpo del re è ciò a cui allude Cromwell con quella frase, perché sta a simboleggiare il
modo in cui dividerà il corpo dalla corona.
Nel processo l’accusa e i sostenitori dell’accusa ricorrono a questa metafora e, adattandola al contesto inglese,
fanno trasparire la chiara connessione che lega la immortalità del potere del re non al suo corpo ma a quello del
parlamento.
Nelle testimonianze e nelle arringhe che ci rimangono del processo, si ribadisce frequentemente che il re è “the
Head of Commonwealth”, la testa dello Stato, ma il Parlamento è “the Soul of Commonwealth”, quindi l’anima
dello Stato. La metafora della testa e anima dello stato suggerisce che il cuore dell’Inghilterra non stia nel corpo
del re ma piuttosto in quello del parlamento.
Con un’altra metafora organicistica si dice che l’anima del Commonwealth è l’unica capace di capire quando il
corpo del Paese è ammalato, quando cioè vi sono dei motivi che permettono che si tagli la testa al re ma che la
corona continui e passi la propria autorità ad un altro sovrano.

Quando Carlo I viene giustiziato nel marzo del 1649, il Commonwealth of England di cui si parla viene in effetti
proclamato. Viene istituita quindi la prima Repubblica inglese guidata non dal re ma da un lord, Oliver
Cromwell, che tra il 1650 e il 1651 agisce come una specie di dittatore (uno dei primi atti che fa è reprimere
duramente la rivolta scozzese e irlandese, approfondendo le ostilità tra Scozia e Inghilterra e Irlanda e
Inghilterra). Anche la repubblica inglese si macchia quindi degli stessi crimini di repressione.
Il protettorato di Cromwell che dura dal 1653 al 1658 ed il suo regime dittatoriale si concludono con la sua
morte nel 1660: dopo aver tentato di passare la carica al figlio, si vede frenato dal parlamento che cerca di
ritornare ad una situazione più ordinata e più pacifica, dando inizio alla fase della Restaurazione Stewart, in cui
Carlo II Stewart ritorna in Inghilterra dopo l’esilio a Versailles e cerca di ricostruire l’ordine all’interno dello
stato.
Carlo II Stewart, come il fratello che gli succederà, è cattolico. La presenza di un re cattolico su un trono
anglicano porta a contrasti abbastanza evidenti soprattutto con il parlamento e ciò che rende in particolare la
sovranità 1.11 è la sua chiarissima volontà di prendere come esempio di esercizio del potere la monarchia
francese, che è allora retta da Luigi XIV.
Una delle azioni che James II cerca di instaurare appena giunto al governo è un editto del 1685 con il quale
Luigi XIV aveva abolito il valore e le cause dell’editto di Nantes.

L’editto di Pois del 1685 è una delle esemplificazioni più precise di quello che gli storici, in relazione alla
politica di Luigi XIV, hanno identificato come un tentativo di riconfessionalizzare la monarchia francese dopo
le guerre di religione e dopo questo periodo di tolleranza.

Questa politica chiaramente intollerante di Luigi XIV nei confronti delle altre religioni – e orientata a rimettere
in sesto la figura del Re come Sacerdote e capo indiscusso della chiesa, come monarca dotato di attributi sacrali
– comincia a favorire notevolmente i cattolici, fino al punto da scontrarsi con il parlamento che, nel 1688,
reagisce a questo comportamento “troppo indulgente verso i papisti e, di riflesso, anche verso la Francia”
deponendo pacificamente il re James II che viene esiliato in Francia.
Con una manovra ereditaria spregiudicata ma anche molto brillante, il parlamento trasmette la corona alla Figlia
di James II, Mary, che è sposata con un nobile olandese, William III of Orange che ha il privilegio di essere un
calvinista. William III viene portato in Inghilterra, paese di cui non conosce nemmeno la lingua. Attraverso
questo colpo di stato attuato in piena legalità parlamentale, permette al parlamento – e soprattutto alla camera
bassa (quella elettiva) – di stipulare un celeberrimo documento, il Bill of Rights 1689, in cui si vengono
chiaramente fissati i confini tra il potere del re e quello del parlamento.
Questa serie di precisazioni di tipo giudiziario, fiscale, ma anche personale limitano il potere del re spostandolo
sul fronte parlamentare.
Il fatto che il parlamento prenda queste decisioni importanti e dia inizio alla cosiddetta “Rivoluzione Gloriosa”,
condotta senza spargimento di sangue, perché era intimorito dall’eccessiva ammirazione di James II nei
confronti del Re Sole e della monarchia assoluta francese e perché mirava ad una manovra anti-francese, ci dice
che il Bill of Rights e la Glorious Revolution mettono nel cuore dell’Europa un modello di rapporti tra
parlamento e sovrano che comincia a camminare su una strada unica e molto diversa rispetto alle altre
monarchie europee: l’Inghilterra inizia a muoversi verso la monarchia parlamentare, in cui il sovrano divide la
sua autorità con il parlamento, e questa unicità spicca ulteriormente di fronte alle altre monarchie europee, prima
fra tutte quella francese.
Accanto alla repubblica Olandese, anche questa Inghilterra parlamentarizzata diventa il paradigma della
possibilità di uscire dalle strettoie e dall’arbitrarietà di certi tipi di governo.
Per tutto il XVIII secolo, l’esempio inglese e quello olandese costituiscono le possibili alternative di tutte le
figure di intellettuali e politici oppositori delle monarchie a cui i governi europei sembrano persistentemente
legati. Questo è uno degli effetti più profondi delle guerre di religione inglesi, che nate come scontri di tipo
confessionale, rendendo contradditorio il rapporto tra potere, legittimazione sacrale del potere e esercizio del
potere arrivano a produrre due possibilità o due tipi di governo che hanno fornito delle alternative ai quali
aspirare.

Linea di successione inglese :

Monarchs of England, Wales and Ireland (Tudor)


HENRY VIII 1509 – 1547 C/P
EDWARD VI 1547 – 1553 P
JANE GREY 9 days, 1553 P
MARY I (Bloody Mary) 1553 – 1558 C
ELIZABETH I 1558-1603 P

British Monarchs
- The Stuarts
JAMES I and VI of Scotland 1603 -1625 P
CHARLES 1 1625 – 1649 (English Civil War)
- The Commonwealth – declared May 19th 1649
OLIVER CROMWELL, Lord Protector 1653 – 1658
RICHARD CROMWELL, Lord Protector 1658 – 1659
- The Restoration
CHARLES II 1660 – 1685
JAMES II and VII of Scotland 1685 – 1688 C
MARY II 1689 – 1694 P and WILLIAM III of Orange 1689 – 1702
ANNE 1702 – 1714
- The Hanoverians
GEORGE I 1714 -1727
GEORGE II 1727 – 1760
GEORGE III 1760 – 1820
GEORGE IV 1820 – 1830
WILLIAM IV 1830 – 1837
VICTORIA 1837 – 1901

21 ottobre

J.A. Goldstone, Perché l’Europa? L’ascesa dell’Occidente nella storia mondiale 1500-1850, Bologna, il Mulino
2010, pp. 214-215.

«In Spagna, in Italia, in Polonia e in alcune zone della Germania la Controriforma sfociò nella repressione delle
eresie e delle idee eterodosse e nell’imposizione della fede cattolica tradizionale. Questi stati misero al bando i libri
che minacciavano l’ortodossia cattolica e cercarono di limitare l’operato di autori ritenuti ‘pericolosi’. […] Anche
la Francia e l’Olanda, pur in modo meno violento, e la Gran Bretagna, fino al 1640, cercarono di restaurare
l’uniformità religiosa dello stato e di costringere i dissidenti alla clandestinità e all’esilio. Tuttavia in alcuni stati
[….] fu preservata la tolleranza religiosa e l’Europa occidentale divenne una scacchiera di stati diversi che
seguivano confessioni differenti: cattolica, calvinista e luterana. Da una parte e dall’altra del continente, il risultato
dell’affermazione e della diffusione del protestantesimo nel XVI e XVII secolo fu che l’autorità della chiesa cattolica
– e dell’attività filosofica e scientifica associata al suo insegnamento – venne gravemente indebolita. Ciò fornì ai
filosofi una motivazione ulteriore per ricercare nuovi presupposti di certezza su cui basare la conoscenza.
I pensatori europei volsero quindi le spalle alla prima e alla seconda grande fonte di conoscenza e di autorità – la
tradizione e la religione – e si misero alla ricerca di nuovi sistemi di conoscenza».

Bisogna ricordare che nel periodo analizzato nella scorsa lezione, nonostante si crei una sovrapposizione tra il
Re d’Inghilterra e il Re di Scozia, Inghilterra e Scozia sono due regni ancora indipendenti ed hanno due
parlamenti, uno a Londra e uno a Edimburgo.
Il regno inglese è un regno multiplo, formato da diverse unità indipendenti in origine e aggregatesi tramite
conquista militare : nel 1540 Enrico VII si era proclamato re d’Irlanda, mentre per la vicenda scozzese abbiamo
un mantenimento di una condizione di autonomia e un legame personificato dalla figura del re fino al 1707,
quando dopo una lunga trattativa svolta da commissioni inglesi e scozzesi si giunge alla ratifica dell’Atto di
Unione (Union Act), con cui Inghilterra e scozia diventano un unico regno sotto un unico monarca della dinastia
Orange.
Dal 1707 il parlamento di Edimburgo cessa la sua attività e i suoi parlamentari vengono accolti nel parlamento
inglese. Ufficialmente, il 1707 segna la nascita di quello che noi chiamiamo Regno Unito (United Kingdom) o
Gran Bretagna (Great Britain), governato da un unico sovrano protestante in accordo con un unico parlamento e
con un’economia fondata su un unico mercato, un’unica organizzazione commerciale inglese dentro la quale gli
scozzesi trovano ragion d’utilità molto concreta.
Questa autonomia è stata riconquistata nei primi anni 2000 a seguito di un referendum proposto dallo Scottish
National Party.
Nel 1714 si ripresenta una situazione in cui l’unico erede al trono era una regina, Mary, dichiaratamente
cattolica. In questo caso, il parlamento promulgò un atto in cui si diceva chiaramente che la regina era
Uncapable, cioè incapace di governare. In seguito a questo atto, il parlamento scelse come successore ed erede
al trono un membro della famiglia tedesca degli Hanover che venne insediato in quanto protestante e quindi
garante del rispetto dei valori della confessione religiosa dell’Inghilterra.
Questo lontano cugino della regina Anna, Giorgio I di Hanover, diede inizio ad una dinastia che durerà per tutto
il diciannovesimo secolo.

La rivoluzione scientifica
Nel saggio di Antonio Trampus abbiamo visto che una delle più significative trasformazioni dell’età medioevale
è il passaggio da una visione qualitativa ad una visione quantitativa del tempo, ovvero del modo di contare i
mesi, i giorni e gli anni ed il confrontarsi con lo scorrere del tempo.
Trampus mostrava come un sensibile scostamento da una visione qualitativa del tempo si fosse prodotto quando
erano state adottate delle unità di tempo astratte, quantitative, nella comprensione del mondo.
Allo stesso modo, Donattini ci invitava a comprendere come un’altra sensibile innovazione nella cultura degli
strumenti intellettuali degli uomini fosse rappresentata dall’idea di uno spazio quantitativamente misurabile. La
riduzione dello spazio ad un qualcosa di omogeneo e isotopo, ovvero formato da punti misurabili che hanno tutti
lo stesso valore calcolabile con proprietà matematiche, è una premessa grazie alla quale nel periodo delle grandi
esplorazioni la mentalità degli europei sovrappone una visione quantitativa alla precedente visione qualitativa,
permettendo lo sviluppo di una rappresentazione cartografica più accurata, attraverso strumenti via via più
precisi. Questi strumenti aiutano a pensare allo spazio non solo come un’entità misurabile, ma anche come
un’entità fungibile, che si può conoscere, colonizzare e utilizzare.
In effetti, anche la logica del mercato, dei traffici e degli scambi commerciali funziona solo a partire da queste
premesse: quando, nel corso del Seicento, soprattutto grazie all’opera dei cartografi più importanti dell’Europa
seicentesca (che sono gli olandesi, non a caso provenienti da una potenza coloniale), si comincia a rappresentare
il globo terracqueo come una unica grande mappa, si entra nel pieno dello sviluppo di quella matematizzazione
dello spazio che era stata teorizzata da Tolomeo.
Questi elementi temporanei e spaziali ritornano in una definizione molto bella a pagina 44, in cui si constata che
la storia dell’ambiente è segnata dalla grande perdita della concezione organicistica del mondo:
“Il mondo che abbiamo perduto era organico”.
Ciò significa che attraverso la cosiddetta rivoluzione scientifica, nel corso del XVII secolo si era imposto un
modello di investigazione basato sul controllo dell’ambiente e finalizzato alla produttività che segnò la fine di
una visione organicistica della natura, esemplificabile nella separazione tra ciò che è umano e ciò che è naturale.
Questa visione organicistica è anche meccanicistica, ovvero funzionante secondo delle leggi matematiche che
gli uomini conoscono o possono studiare.

La rivoluzione scientifica europea che noi collochiamo all’interno del XVII secolo, ha delle premesse scaturite
da un processo evolutivo originatosi prima del XVII secolo, decisamente multiforme, che attraversa molti campi
dell’atteggiamento umano, scientifico e tecnico allo stesso momento.

L’umanesimo e il rinascimento furono un importante cantiere per le idee centrali della rivoluzione scientifica,
come quella capacità di ridurre lo spazio tridimensionale ad una raffigurazione bidimensionale attraverso leggi
matematiche. Questa premessa fu decisiva per le scoperte successive.
Gli artisti dell’umanesimo cercavano di impadronirsi dello spazio attraverso precisissime leggi matematiche e
fisiche, che ne permettessero la riproduzione in maniera più verosimile possibile (come faceva ad esempio Piero
della Francesca).
Anche l’impatto delle scoperte geografiche diede un contributo notevole non solo in campo economico o
politico, ma soprattutto nell’ottica di cambiamento del modo di percepire e di classificare la realtà.
Le notizie delle scoperte geografiche posero gli europei di fronte ad una duplice e difficilissima possibilità:
La prima era quella di essere posti di fronte ad un ampliamento imprevedibile e gigante di novità umane,
naturalistiche, religiose (in quelle terre nessuno conosceva Dio, nonostante in ambito europeo si pensasse che la
Sua parola fosse arrivata in tutto il mondo) che provocarono una certa ansietà, un’incertezza a livello
psicologico.
Accanto ad una trasformazione repentina delle nozioni culturali, le scoperte geografiche influirono
notevolmente anche sulla necessità di classificare e ordinare queste conoscenze, portando ad un’esigenza di
cambiare la percezione e le sensibilità delle persone.
L’insieme di questi problemi e dei modi con cui vennero affrontati furono all’origine di quella che Max Weber
chiama il Disincanto del mondo: in una celebre conferenza del 1917 (La scienza come professione), Weber parla
di questo “disincantamento” o “disincanto” (Ernüchterung) che vuole togliere gli aspetti magici e incantati al
mondo. Lo scopo di questa conferenza era di dimostrare come l’uomo moderno non avesse di fatto maggiori
conoscenze scientifiche degli altri, perché gli antichi possedevano spesso migliori conoscenze scientifiche, ma
ciò che stava al fondo di questo processo era l’attitudine che gli europei avevano sviluppato in maggior grado
rispetto agli altri Paesi di essere consapevoli o di possedere una consapevolezza che fosse possibile conoscere
esattamente le leggi del funzionamento di ogni fenomeno naturale.
“l’uomo europeo che non sa come funziona un mezzo di trasporto o un meccanismo, ma sa che può scoprirlo, sa
che sono delle leggi e delle conoscienze scientifiche e tecniche a cui quetso uomo europeo può ricorrere per
scoprire e sopravanzare la convinzione che certi fenomeni si muovano ricorrendo a forze magiche o misteriose.
Secondo Weber, si trattava quindi di un’attitudine, di una consapevolezza che permetteva di applicare certe
conoscenze scientifiche e fondare questo processo che è stato anche a volte connotato con l’espressione
demagificazione del mondo.
La rivoluzione scientifica è inquadrata esattamente in questo processo, e vuole via via rimuovere queste forze
misteriose non esattamente quantificabili per poterle sostituire con delle forze scientifiche e misurabili.

Nel mondo dell’uscita dalla riforma protestante, un mondo basato sulla lettura individuale, non mediata, ad un
certo punto accade qualcosa di imprevisto:

T. Kaufman, I redenti e i dannati. Una storia della Riforma, Torino, Einaudi 2018. p. 253
«Nei confronti della tradizione religiosa grande era il potenziale di conflittualità. Rifacendosi ai metodi storico-
filologici dell’Umanesimo, i seguaci della Riforma fecero moltissimi sforzi per spiegare i testi su cui si fondava la
formulazione di un dato giudizio teologico. [...]
Poiché la Bibbia era l’unica istanza di verità riconosciuta come infallibile, aumentarono le prospettive legate alla
sua interpretazione. Menti acute come Sebastian Franck si scagliarono contro la «bibliocrazia», contro il potere
del cosiddetto «papa di carta», il testo biblico, e sensibilizzarono alle ambivalenze del principio riformatore della
«sola Scrittura». [...] Contrariamente all’obiettivo che i riformatori si proponevano di raggiungere e praticavano
in prima persona, il principio della «sola Scrittura» ha aperto la strada a una relativizzazione delle pretese di
verità religiosa dovuta all’esegesi; il che può promuovere l’indifferenza o la tolleranza, suscitare il dubbio o la
grandezza d’animo.
Naturalmente i riformatori, interessati a rendere il cristianesimo più profondo e a rinnovarlo, non hanno
assolutamente inteso promuovere sviluppi che portassero a prendere le distanze o addirittura ad allontanarsene.
Non fu la Riforma di per sé a fomentare tendenze secolari, laiciste ed ateiste; a farlo furono però l’inclinazione
del cristianesimo d’Occidente a farsi plurale, indotta dalla Riforma, e la concorrenza confessionale . Il quadro
religioso-culturale dell’Europa occidentale, che con il suo secolarismo rappresenta un caso particolare nel contesto
mondiale, è anche il risultato di sviluppi a lungo termine avviati dalla Riforma nel nostro continente».

Una volta che ci si avvicina al testo biblico, può accadere che qualcuno si rivolti contro il testo affermando che
questa bibliocrazia, questo continuo riferirsi al testo come qualcosa di vero per forza, è insufficiente ed è anche
una prigione dalla quale qualcuno sente di dover uscire.
La pluralità confessionale suscita in queste circostanze anche dubbi nelle parti contrapposte e da questa
contrapposizione teologica può esserci qualcuno che dubiti della veridicità della bibbia o dei vangeli con un
conseguente deragliamento dalla religione.
Era plausibile quindi che alcuni fedeli si avvicinassero ai testi biblici con un sentimento di dubbio o anche di
insufficienze.

Questa lenta divaricazione, che si produce già all’interno del mondo protestante e che provoca moltissime
frizioni (tra quelli che vogliono prendere la Parola di Dio alla lettera e quelli più inclini ad interpretarli perché
credono la bibbia un testo storico, e non religioso o legislatore ), dà origine ad un processo di storicizzazione e di
demagificazione dei testi sacri che sta all’origine della rivoluzione inglese.
C’è un nesso molto chiaro che gli studiosi hanno evidenziato tra la lotta contro il potere divino del re
(assolutismo) nei primi anni del seicento e la lotta contro le filosofie e le credenze che sorreggono questo potere.
Lo storico inglese Christopher Hill, negli anni Sessanta del Novecento, cercò di dimostrare esattamente che la
premessa della rivolta contro il re (i primi 3 Stuart) era nata negli intellettuali puritani fuori dalle università,
contrapponendosi alla forma di cultura ufficiale e attingendo invece a conoscenze scientifiche di tipo
matematico e fisico (una conoscenza nuova che non aveva sede all’università), molti dei sostenitori della guerra
contro il principio monarchico avevano costruito un basamento scientifico alla rivoluzione puritana.
Alcune delle frange più agguerrite e radicali del gruppo dei puritani, avevano
l’idea che la scienza avrebbe salvato il genere umano dalle conseguenze del
peccato originale.
La convinzione di un potere scientifico che aveva quindi un forte margine di
emancipazione democratica era stato un elemento capace di tenere insieme le
esperienze più radicali delle rivoluzioni inglesi.
Questa diffusione di una scienza irregolale, non universitaria, fondati su corsi
e teorie del sapere che non godevano dello stesso prestigio delle materie
canoniche (giurisprudenza, teologia…) aveva animato quindi la scena
intellettuale ancora prima della rivoluzione scientifica vera a propria.
Nell’Inghilterra del primo seicento aveva gradualmente messo radici una
complessa ma molto popolare scienza alternativa veramente rivoluzionaria,
ma ancora fissa nell’obbiettivo teologico dell’aristotelia.
Nel saggio di Maria Pia Donato si commenta l’immagine del frontespizio di un saggio scientifico pubblicato nel
1605 da Francis Bacon (On the Advancement of Learning): l’immagine rappresenta un veliero (la conoscenza)
che oltrepassa due obelischi (scienza e filosofia), sovrastate dal mondo visibile e il mondo delle idee che si
tendono la mano dilatando le conoscenze di un mondo che si è aperto anche grazie alle esplorazioni geografiche.
L’immagine sta a suggerire che il commercio delle scienze (nave) oltrepassando i limiti della scienza e della
filosofia (sapere pratico e intellettuale), ampliano l’orizzonte della conoscenza possibile. Questo tipo di
conoscenza non ha come fine solo la contemplazione di Dio e delle leggi della religione, ma ha come fine
l’accrescimento della potenza dell’uomo.
Francis Bacon nel 1620 scriverà un altro trattato famosissimo, Nuova Atlantide, di genere utopistico, nel quale
racconta di una popolazione ignota, i Betsalemiti, che abitavano una terra lontana e promessa e la cui attività era
quella di fare esperimenti, secondo l’idea che le scienze pratiche possano accrescere la potenza dell’uomo.
I titoli che si vedono sul basamento degli obelischi stanno a indicare come il potere politico serva a sorreggere e
incrementare la scienza.
Francis Bacon (1561-1626)
He was the son of Sir Nicholas Bacon, Queen Elizabeth’s Lord Keeper, and was born at York House, in the Strand, on the
22nd of January, 1561.  His mother was the Lord Keeper’s second wife, one of two sisters, of whom the other married Sir
William Cecil, afterwards Lord Burleigh.  Sir Nicholas Bacon had six children by his former marriage, and by his second
wife two sons, Antony and Francis, of whom Antony was about two years the elder.  The family home was at York Place,
and at Gorhambury, near St. Albans, from which town, in its ancient and its modern style, Bacon afterwards took his titles
of Verulam and St. Albans. His classification of human knowledge was celebrated, and very influential in the progress of
science. He kept one clear purpose in view, namely, the control of nature by man. He wished to take stock of what had
already been accomplished, to supply deficiencies, and to enlarge the bounds of human empire. He was acutely conscious
that this was an enterprise too great for any one man, and he used his utmost endeavors to induce James I to become the
patron of the plan. His project admits of very simple statement now; he wished to edit an encyclopedia, but feared that it
might prove impossible without coöperation and without state support. He felt capable of furnishing the plans for the
building, but thought it a hardship that he was compelled to serve both as architect and laborer. The worthiness of these
plans was attested in the middle of the eighteenth century, when the great French Encyclopaedia was projected by Diderot
and D'Alembert. The former, its chief editor and contributor, wrote in the Prospectus: "If we come out successful from this
vast undertaking, we shall owe it mainly to Chancellor Bacon, who sketched the plan of a universal dictionary of sciences
and arts at a time when there were not, so to speak, either arts or sciences. This extraordinary genius, when it was
impossible to write a history of what men knew, wrote one of what they had to learn."
(adapted from The Advancement of Learning, ed. by H. Morley, 1893 and An Introduction to the History of Science by W. Libby, 1917) 

Gli aspetti tecnologici e pratici della rivoluzione scientifica sono giustamente ricordati perché il mondo culturale
europeo arriva alla cesura del seicento con due solidissime impalcature del passato: il mondo dell’università e la
scienza classica, l’eredità culturale greco romana. Ci sono però due grandi novità ovvero la scoperta dei nuovi
mondi e la scoperta della stampa: sono due cose che tradizionalmente non associamo ma che sono fondamentali
perché in questo intrecci di fattori vecchi e nuovi si colloca la possibilità di comprendere come l’avanzamento
delle scienze (e la rivoluzione scientifica) fosse possibile solo attraverso questo incremento improvviso di
conoscenze e dall’organizzazione delle tecniche di conservazione e divulgazione del sapere.

Galileo Galilei

Galileo Galilei si trova al centro di questo circolo di informazioni, di vecchio e di nuovo che si mescolano e
rappresenta, attraverso le sue vicende individuali l’insieme di questi passi che conducono alla rivoluzione
scientifica.
Galileo è stato docente universitario a Padova negli ultimi anni del Cinquecento, poi a Pisa dal 1603: egli
rappresenta nella trasformazione delle scienze l’incastro che si crea tra il sapere tradizionale (scienze
tradizionali, come la teologia) e l’innovazione che accade quando dentro l’università si inseriscono le sue
scoperte di carattere astronomico e matematico.
La vicenda di Galileo, che verrà processato e costretto ad abiurare tutte le sue teorie, si muove su una
ricchissima ed eccezionalmente capace base di carattere matematico: la scoperta delle leggi del moto, cioè di
una legge matematica che si scontra con il bagaglio tradizionale della fisica aristotelica (basata sul principio
qualitativo del mondo secondo cui gli oggetti si muovono perché spinti da una intrinseca natura – il moto deriva
da una particolare congiunzione di forme e materia).
Nell’universo aristotelico, la terra sta al centro perché l’elemento che la compone attira tutti i corpi celesti che
sono fatti della stessa materia, perché essi non potranno che muoversi verso di lei, che rappresenta il centro
dell’universo (è più importante degli altri pianeti, perché ci sono gli uomini creati da Dio).
Le leggi del moto di galileo scompaginano completamente questa idea arrivando a dimostrare che non ci sono
qualità intrinseche per le quali un corpo si muove e che sono delle variazioni di forze misurabili, in relazione
l’una con l’altra, a creare il movimento. Il moto, per Galileo, è una realtà misurabile a partire da chi osserva e la
relatività del moto è semplicemente il cambiamento di uno stato (metodo comparativo) misurato sulla base di
chi osserva.
Questa teoria viene successivamente esportata nella teoria eliocentrica, che era stata elaborata già da un
astronomo polacco, Nicolò Copernico (De Rivolutionibus), ma che lui amplia fondandola e pubblicizzandola
sulla base di sensazionali scoperte. Il Galileo matematico è anche colui che si occupa di costruire gli strumenti
(come il telescopio o il cannocchiale): questi strumenti esistevano già in precedenza per guardare da lontano i
nemici, ma con Galileo (quando ancora era a Venezia) viene messo a punto con degli artigiani il primo
cannocchiale con cui nel 1610, nel trattato Siberius Nuncius, si annuncia che ci sono più stelle di quelle
conosciute in precedenza. Galileo scopre anche che questi corpi celesti, la luna prima di tutti, sono corruttibili,
ovvero che la teoria degli immacolati corpi celesti (perfetti globi senza scanalature o difetti) è falsa – nel
Siberius Nuncius Galileo li disegna addirittura, scioccando il pubblico.
Galileo è tante cose assieme: un grande studioso, uno scrittore, un astrologo, un disegnatore… la sua
raffigurazione della luna con i suoi crateri è forse la più antica raffigurazione realistica della luna che noi
possediamo, e serve per dimostrare la sua teoria.
Quando Galileo inizia a pubblicare e pubblicizzare le sue teorie e le sue scoperte, la Curia Romana ne intuisce la
pericolosità: dopo che per decenni le novità copernicane erano passate in silenzio, il ribaltamento che le opere di
Galilei iniziano a teorizzare e a diffondere attraverso la stampa, suscitando un eco pubblico, questo principio di
critica alla tradizionale dottrina teologica e religiosa conduce nel 1633 alla denuncia da parte dei gesuiti. Il
processo iniziò a Roma il 12 aprile 1633 e si concluse il 22 giugno 1633 con la condanna per eresia e con
l'abiura forzata delle sue concezioni astronomiche.
Gli ultimi anni della sua vita vennero passati in esilio nella sua villa di Arcetri.

Questa vicenda paradigmatica della messa in circolo di saperi scientifici e novità tecniche è in particolare
sottolineata e messa in luce (saggio sulla Rivoluzione scientifica) perché di questi saperi scientifici non sono
protagonisti per lungo tempo nelle università, ma sono invece centrali nello sviluppo di quella struttura non
ufficiale che sono le accademie: nell’Europa del secondo Seicento, ad opera dei sovrani di tutta Europa, si
sviluppa una rete di Accademie patrocinate dal potere politico che raffigurano esattamente lo scarto che si è
prodotto tra l’insegnamento dei pilastri del sapere (giurisprudenza, teologia) e le scienze di carattere applicativo,
nuovo, fino a quel momento concepite come scienze di carattere preparatorio (matematica, fisica, medicina…) e
che trovano un contesto favorevole al loro sviluppo proprio in questi luoghi.
La scienza moderna non esiste senza le tecniche e studiare “non solo ciò che si scriveva ma anche ciò che si
faceva” ha conferito alla rivoluzione scientifica negli ultimi anni un aspetto molto più tecnico e applicativo che
ha permesso di inserire gli uomini di scienza nel contesto _______.
La rivoluzione scientifica nasce quindi nelle Accademie, sotto la protezione dei principi, tra una collaborazione
di scienziati che lavorano in cantieri, arsenali, fonderie…
L’elemento magico è stato scalzato non solo dalla razionalità, ma anche dal fatto che gli uomini di scienza
riuscirono a influenzare il modo di sfruttare l’ambiente che l’avvento della scienza aveva creato.

K. Thomas, La religione e il declino della magia. Le credenze popolari nell’Inghilterra del Cinquecento e del
Seicento, Milano, Arnoldo Mondadori, 1985.

p. 729 In quali circostanze declinò la credenza nella magia in Europa?


«La prima di esse fu quella serie di mutamenti intellettuali che costituirono la rivoluzione scientifica e filosofica del
XVII secolo, cambiamenti che esercitarono influenza decisiva sul pensiero dell’élite intellettuale, e che a mano a
mano si diffusero influenzando il modo di pensare e il comportamento del popolo nel suo complesso. L’essenza della
rivoluzione fu il trionfo della filosofia meccanicistica che comportò il rifiuto sia dell’aristotelismo scolastico sia della
teoria neoplatonica che per qualche tempo aveva minacciato di prenderne il posto; e in una con il crollo della teoria
microcosmica, si verificò la distruzione dell’intero fondamento intellettuale dell’astrologia, chiromanzia, alchimia,
fisiognomica, magia astrale e affini. L’idea che l’universo fosse soggetto a immutabili leggi naturali, tolse di mezzo
la visione miracolistica, indebolì la fede nell’efficacia fisica della preghiera, diminuì la fede nella possibilità di
diretta ispirazione divina. In concetto cartesiano di materia relegò gli spiriti, i buoni come i cattivi, in un mondo
puramente mentale, e l’evocazione cessò di essere un’ambizione condivisibile».

pp. 732-733.
«Non è possibile attribuire semplicemente il cambiamento alla rivoluzione scientifica: c’erano troppi “razionalisti”
prima e ci furono troppi credenti dopo, perché una spiegazione così lineare appaia plausibile. Converrà pertanto
affrontare il problema da un altro punto di vista e, anziché appuntare l’attenzione sullo statuto intellettuale delle
credenze stesse, esaminarle nel loro contesto sociale. […] “La magia assume il predominio laddove scarso sia il
controllo sull’ambiente”, mentre una volta divenute disponibili le tecniche adeguate, la magia appare superflua e
scompare, mantenendo la propria presa solo nel caso di quei problemi per i quali gli uomini continuano a non avere
soluzioni adeguate. sono dunque la scienza e la tecnologia a rendere superflua la magia: maggiore è il controllo che
l’uomo esercita sul suo ambiente, minore il ricorso a rimedi magici».

p. 735
[...] il declino della magia coincise con un netto avanzamento delle capacità di sottoporre a controllo l’ambiente.
Sotto molti, importanti, aspetti, le condizioni materiali di vita durante la seconda metà del Seicento migliorarono
decisamente. La pressione demografica. che durante il secolo precedente era stata fonte di molti inconvenienti, si
attenuò; i miglioramenti introdotti in agricoltura comportarono un aumento della produzione dei generi alimentari, e
nella seconda metà del XVII secolo la campagna inglese divenne in pratica autosufficiente in fatto di cereali,
l’aumento delle importazioni servendo a calmierare i prezzi in periodi di penuria. L’espansione del commercio
oltremare e la nascita di nuove industrie ebbero per effetto la diversificazione economica dell’ambiente. Dopo il
1665 non si verificarono più grandi pestilenze, e la peste sparì completamente dall’Inghilterra durante il settimo
decennio del secolo. Nel 1700, gli abitanti dell’Inghilterra godevano di un livello di vita più alto di quelli di ogni
altro paese al mondo, salvo l’Olanda. Simili circostanze di portata generale non possono non aver contribuito ad
aumentare la fiducia in sé stessi degli esseri umani. Una certa responsabilità, quanto alla diminuita attrazione delle
soluzioni magiche, è forse da attribuire a un complesso di altri sviluppi. […] Tra di essi, in primo luogo, il generale
miglioramento delle comunicazioni… ».

22 ottobre 2019

Le rivoluzioni atlantiche di Federica Morelli (Americana e Haitiana)

La rivoluzione scientifica e la rivoluzione inglese sono una buona introduzione al tema di oggi perché
sdoganano anche nel linguaggio contemporaneo il significato che noi attribuiamo al termine “rivoluzione” (per
noi una frattura violenta, un momento di non ritorno), che in ambito astronomico ha il significato di eterno
ritorno, della rotazione infinita di un corpo attorno ad un altro corpo in un’orbita circolare o ellittica, mentre con
queste due rivoluzioni questo termine inizia a denominare una cesura, una fase di non ritorno rispetto ad un
passato dal quale si prendono le distanze.
Il succo di queste due rivoluzioni è quello di aver fondato un regime politico inglese diverso da quelli europei
perché possedeva un governo guidato da una maggioranza parlamentare.
La rivoluzione scientifica sdoganò una visione non più organica e religiosa ma meccanicistica del mondo.

Nella stessa cornice di tempo si situano due personaggi che non sono scienziati, ma che ebbero un enorme
contributo sul piano delle dottrine politiche per fare entrare in questo corpo di ide (l’idea del mondo
meccanicistico introdotto dalla rivoluzione scientifica e così via) i principi di artificialità, di non organicità che
gli scienziati applicavano in quegli anni al mondo della natura. Si tratta di Thomas Hobbes e John Locke.
Thomas Hobbes viene ricordato essenzialmente per il Leviatano, opera in cui Hobbes rappresenta con questa
metafora di una figura mostruosa la crescita e l’affermarsi del potere statale particolarmente energico, deciso.
Hobbes era stato segretario di Francis Bacon e – prima della scrittura del Leviatano - aveva scritto molte altre
opere, soprattutto trattati (come il De Cives) scritti prima della rivoluzione che noi ricordiamo non solo come
testi preparatori al leviatano ma come testi fondativi del principio del gius naturalis.
Alla base della teoria politica del giusnaturalismo c’è l’assunto che ogni associazione politica si basa su una
convenzione tacita o espressa tra chi partecipa a questa cultura.
Il problema di Hobbes è il seguente: come si esce da un immaginario Stato di Natura in cui non c’è un principio
d’ordine (un’autorità) e in cui gli uomini si combattono ferocemente?
Hobbes ritiene che ad un certo punto, da questo Stato di Natura, si esce con un patto tra cittadini: da questo
pactum associationis, i cittadini che hanno stretto questo patto sono indotti a delegare gran parte della loro
autorità ad una figura centrale, quella del sovrano (pacto subbiectionis – quando i cittadini decidono che per la
loro incolumità la loro libertà va sottoposta ad un potere centrale che li protegga).
In questo modo, Hobbes riversa in questa sua teoria politica e nell’immagine che egli si cre di una qualsiasi
comunità politica un tratto evidente di artificialità perché è ovvio che con queste premesse ogni forma di
governo è non-naturale – perché la natura è lo stato di conflitto permanente, da cui si esce solo con un patto.
Il patto è una sorta di passaggio che crea qualcosa di artificiale: lo stato, che è una convenzione astratta.

T. Hobbes, De cive, 1642


«La maggior parte degli scrittori politici suppongono o pretendono o postulano che l’uomo sia un animale già atto
sin dalla nascita a consociarsi [...] e su questo costruiscono le loro teorie politiche come se non vi fosse bisogno per
conservare la pace e l’ordine di tutto il genere umano, di null’altro che di una concorde osservanza, da parte degli
uomini, di determinati patti e condizioni che essi stessi chiamano senz’altro leggi. Ma quest’assioma è falso, benché
accettato dai più; e l’errore proviene da un esame troppo superficiale della natura umana. Infatti, ad osservare più a
fondo le cause per cui gli uomini si consociano, e fruiscono di reciproci rapporti sociali, si noterà facilmente che
questo consociarsi non avviene in modo che, per natura, non possa accadere altrimenti, ma è determinato da
circostanze contingenti. Se l’uomo, infatti, amasse il suo simile per natura, cioè proprio in quanto è uomo, non vi
sarebbe nessuna ragione perché ciascuno non amasse indifferentemente tutti gli altri nella stessa misura, proprio
perché si tratta allo stesso modo di uomini; e dovesse invece frequentare piuttosto quelli la cui amicizia conferisce a
lui, a preferenza di altri, un qualche onore o una qualche utilità. Noi non cerchiamo quindi, per natura, amici, ma ci
avviciniamo a persone da cui ci venga onore e vantaggio: questo cerchiamo in primo luogo, e quelli solo
secondariamente. [...]
Insomma, è chiaro per esperienza a chiunque consideri un po’ più addentro le cose umane, che ogni associazione
spontanea di gente nasce o dal bisogno reciproco oppure dal desiderio di soddisfare la propria ambizione; onde
coloro che vi partecipano sperano di ricavarne o un qualche utile o [...] stima e onore da parte dei compagni. [...]
Se è vero poi che le comodità di questa vita possono essere aumentate dal reciproco aiuto, è pur vero che questo si
può ottenere molto meglio dominando sugli altri che unendosi a loro su un piano di uguaglianza: onde nessuno potrà
dubitare che gli uomini, per loro natura, sarebbero portati, se non vi fosse il timore, piuttosto a dominare che ad
associarsi. Bisogna dunque concludere che l’origine delle grandi e durevoli società deve essere stata non già la muta
simpatia degli uomini, ma il reciproco timore».

Inizialmente Hobbes confuta la tesi secondo cui l’uomo è una creatura politica, affermando che per natura
l’uomo non è adatto a consociarsi.
Il mondo dei patti è una creatura convenzionale, un edificio artificiale di cui noi possiamo conoscere le leggi
esattamente come gli scienziati, avvicinandosi al mondo della natura, riconoscono in questo non un mondo retto
da presupposti che non si conoscono ma, anzi, come fatto di precetti che si possono indagare e conoscere.
È per questo che Hobbes viene riportato come il primo teorico dell’artificialità degli stati, con una risonanza al
mondo analogo degli studi sulla natura.

Accanto a Hobbes si pone John Locke (1632-1704), uomo della rivoluzione, di famiglia puritana,
tendenzialmente più liberale.
Hobbes e Locke hanno le stesse premesse scientifiche, ovvero che esista uno stato di natura che può essere
indagato con le leggi della scienza dal quale gli uomini scelgono volontariamente di uscire attraverso un patto.
Secondo Locke l’uscita dallo stato di natura degli uomini non converge verso un patto di soggezione che spoglia
gli uomini di alcuni loro diritti per cederli al sovrano e crede invece che esistano diritti e libertà inalienabili a cui
l’uomo non può e non deve rinunciare uscendo dallo stato di natura. Per questo, egli sostiene che ogni potere è
tirannico, ogni formulazione sul potere del re con origine divina è illogica e – di conseguenza – il potere del
sovrano non più ledere questi diritti naturali, che gli uomini trasportano dallo sdn alla società. Questi diritti, per
Locke, sono il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà.
La differenza tra Locke e Hobbes è la cessione di questi diritti fondamentali che vengono delegati ad
un’autorità, in parte o nella loro interezza, per la sicurezza del singolo e l’appartenenza alla comunità.

Locke riserva una grande attenzione al diritto alla proprietà, come possiamo vedere in questo testo:

John Locke, i Due trattati sul governo (1690)


«Poiché gli uomini, come s’è detto, son tutti per natura liberi, eguali e indipendenti, nessuno può esser tolto da
questa condizione e assoggettato all’altrui potere politico senza suo consenso. Un uomo si spoglia della sua libertà
naturale e accetta i vincoli della società solo quando decide insieme con altri uomini di associarsi e unirsi tutti in
una comunità, per viver bene, nella tranquillità e nella pace reciproca, assicurandosi il godimento delle loro
proprietà e una maggiore protezione contro coloro che a quella società non appartengono. Questo può esser fatto da
un gruppo di uomini, perché non lede la libertà di tutti gli altri, che restano come prima nell’indipendenza dello stato
di natura. [...]
Il grande e fondamentale intento per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la
salvaguardia della loro proprietà. A tal fine lo stato di natura è per molti rispetti inefficiente Vi manca in primo
luogo una legge stabile, fissa e notoria, accettata e riconosciuta per comune consenso come criterio del giusto e
dell’ingiusto e come comune misura per decidere di ogni controversia. Per quanto infatti la legge di natura sia
chiara e intelligibile a tutte le creature razionali, gli uomini, traviati dall’interesse e ignari di essa per mancanza di
riflessione non sono portati a riconoscerla come legge per loro vincolante nell’applicazione ai loro casi particolari».
(segue sotto)

È utile notare la giustificazione che Locke e molti altri autori inglesi di quel periodo costruiscono mentre
l’Inghilterra sta allargando le sue pretese coloniali: abbiamo osservato che dobbiamo sempre ricordare il fatto
che l’espansione coloniale europea avviene sotto forma di competizione tra stati: prima Portogallo e Spagna, poi
Portogallo, Francia, Spagna e Inghilterra…
Come abbiamo visto nel caso spagnolo, questo regime di competizione e di contrasto sui diritti coloniali sfocia
anche in dispute di ambito giuridico, facendo elaborare a ogni stato una dottrina che giustifichi i loro atti.
Quella spagnola si è costruita sulla base di una correzione religiosa e di una conversione forzata degli abitanti
delle colonie.
Gli inglesi, invece, hanno elaborato – già nella seconda metà del XVI secolo, durante la guerra con gli spagnoli,
un insieme di confutazioni politiche e giuridiche che mirano a rappresentare il colonialismo spagnolo come
qualcosa di essenzialmente violento, sbagliato ingiusto, illegittimo
Questo insieme di confutazioni rappresenta quella che viene chiamata la “leggenda nera del colonialismo
spagnolo”.
Dall’altra parte di queste confutazioni stanno invece le ragioni che gli inglesi pongono a loro vantaggio per
giustificare ciò che stanno facendo soprattutto nell'America settentrionale e nelle Indie inglesi (Caraibi, Jamaica,
Bahamas…).
Una delle teorie che più spesso viene invocata per giustificare il colonialismo inglese è proprio questa che
Locke formula pensando ai diritti degli inglesi delle colonie.
Scrive Locke che: «Neppure è così strano come a prima vista può sembrare che la proprietà del lavoro potesse
contare più della comunità della terra. È infatti il lavoro che crea in ogni cosa la differenza del valore, e basta
considerare quale differenza vi sia fra un acro di terra piantato a tabacco o zucchero, seminato a frumento o orzo, e
un acro della stessa terra lasciato in comune senza che nessuno lo coltivi, per comprendere che la parte di gran
lunga più grande del valore è data dai frutti del lavoro.
Non v’è di ciò dimostrazione più chiara di quella offerta da diversi popoli d’America, ricchi di terra e poveri di tutti i
beni della sussistenza. La natura ha donato loro non meno generosamente che ad altri popoli la materia prima della
ricchezza, cioè un suolo fertile, capace di produrre in abbondanza tutto ciò che può servire per il cibo, il vestiario e
il piacere; ma, quella terra non essendo messa a frutto dal lavoro, essi non hanno la centesima parte dei beni di cui
noi godiamo; e il sovrano d’un ampio e fertile territorio mangia, alloggia e veste peggio d’un bracciante inglese».
Il messaggio nascosto è quello che vede gli inglesi guardare alle colonie con l’occhio di quei giuristi che
considerano che le terre non coltivate o non fruttificate dal lavoro umano delle res nullinus, ovvero “cose di
nessuno” che possono essere legittimamente occupate. Questo aspetto meno piacevole delle dottrine lockiane ci
può mettere di fronte da un lato alla straordinaria carica di liberazione della rivoluzione inglese e dall’altro come
all’interno della teoria politica della rivoluzione inglese si nascondano quei precetti e quell’insieme di dottrine
che stanno rendendo l’Inghilterra la grande potenza coloniale in espansione dell’Europa.
Uno dei primissimi atti di Cromwell (diventato nel 49 Lord protettore del Commonwealth) fu uno dei
“Navigation Acts”, che vennero emanati nel 1_51. Si trattava di disposizioni che proibivano l’ingresso nei porti
d’Inghilterra di qualsiasi nave proveniente dall’Asia, dall’Africa e dall’America se almeno la metà
dell’equipaggio non fosse stato composto da marinai inglesi (con capitano inglese). Accanto a questo, gli Atti
stabilivano che tutte le merci provenienti dall’Europa – non quindi dai territori d’oltre Atlantico – potessero
estrare esclusivamente su navi inglesi.
Questi atti erano chiaramente una definizione della politica economica mercantilistica che proteggeva con
l’autorità politica la ricchezza commerciale, stabilendo che la bilancia commerciale di un paese fosse la sua base
di ricchezza e che, in particolare per l’Inghilterra che era un paese che viveva dei commerci, sarebbe stata una
ricetta di grande investimento e di grande redditività.
Dalla fine del XVII secolo, mentre il colonialismo spagnolo entra in una fase di lenta decadenza ed anche gli
olandesi che sono stati la potenza coloniale che è succeduta ai portoghesi nel traffico attraverso l’Oceano
atlantico e quello indiano, l’Inghilterra si avvia a sostituire gli Olandesi come la potenza coloniale in Asia e
avvia una politica di contrasto sempre più aggressiva nel XVIII sec contro i suoi rivali in America (Spagna e
Portogallo a Sud, Francia a Nord). Il culmine di questo contrasto è nella più importante ed anche più disastrosa
guerra settecentesca (in termine di vite umane), ovvero la Guerra dei Sette anni.

Questi tre grandi conflitti occidentali, nei quali l’Inghilterra entra parzialmente spesso limitandosi a finanziare le
potenze in guerra, sono diversi dalla Guerra dei Sette anni (1756-1763) perché essa è vista come la prima guerra
mondiale: per la prima volta si combatte su un terreno continentale in Europa e, allo stesso tempo, su due altri
teatri bellici lontanissimi, che sono l’India e l’America settentrionale.
Dunque, la Guerra dei Sette anni è il primo conflitto mondiale di grandi dimensioni nel quale gli europei si
misurano su teatri diversissimi. Per questo, la guerra si chiama in modo diverso a seconda della visione di chi lo
racconta:
- per gli europei è la Guerra dei Sette anni perché dura appunto 7 anni
- per gli Americani è la French-Indian War
- per gli indiani è la Guerra del Carnatico …
il risultato finale di questo conflitto è quello di depauperare le finanze delle potenze europee.
La Francia, schierata contro l’Inghilterra, dopo la sconfitta cade in uno shock fiscale che genererà lo scoppio
della rivoluzione francese.
La guerra rivoluziona anche la presenza coloniale degli europei nelle loro precedenti dominazioni, e in
particolare alla fine della Guerra dei Sette anni gli inglesi scalzano i francesi dai loro possedimenti in India e ne
diventano i padroni europei.
Alla fine della French-Indian War, gli inglesi che già possedevano delle colonie nell’Atlantico, scalzano i
francesi costringendoli ad abbandonare i possedimenti coloniali acquisiti nell’attuale Canada. Gli inglesi
diventano assoluti dominatori dell'America settentrionale.

Le indie occidentali (Jamaica, Caraibi, Bahamas, Antille)


Nel 1763 l’Inghilterra si ritrova padrona del continente Nord Americano, ma ha risentito anch’essa moltissimo
della Guerra dei Sette anni che ha creato un deficit finanziario e una situazione di tensione con i coloni
americani che, a differenza di quelli spagnoli, avevano potuto contare fino a quel momento, su un regime
politico molto lasco, duttile, flessibile. Concedendo alle colonie americane una forma di autogoverno quasi
completo, gli Inglesi avevano fornito loro anche il diritto di essere rappresentati in parlamento, in quanto sudditi
inglesi. Questa autonomia diventa problematica nel momento in cui l’Inghilterra di Giorgio III tenta di
coinvolgere le colonie facendo gravare su di loro almeno una parte del deficit finanziario originato dalla Guerra
dei Sette anni. Iniziano quindi a sorgere alcuni momenti di tensione fiscale, innanzitutto nel 1764-1765 quando
Re Giorgio II vuole imporre delle tasse indirette (Stamp Tax, Sugar Act…) con una tradizionale politica di
carattere mercantilistico.
Il tentativo di centralizzazione dell’economia inglese è ritenuto dai coloni come un atto non esattamente
conforme alle loro aspettative, in quanto essi auspicavano di poter iniziare a commerciare liberamente anche con
i paesi vicini, ovvero quelli dominati dagli spagnoli, non dovendo sottostare all’uso dei navigli della East-Indian
Company, che era imposto dai britannici.

La Compagnia delle Indie Orientali era un’enorme organizzazione commerciale sui generis virtualmente privata
ma in realtà sostenuta dalle famiglie della grande aristocrazia inglese e dalla corona in primo luogo, che aveva a
sua disposizione un esercito – che governava militarmente e formalmente l’India – e che aveva un potere
incredibile non solo nell’economia ma anche nell’abilità di corrompere l’autorità statale.
La Proclamation Line era stata decisa alla fine della Guerra dei Sette anni dal parlamento inglese, che aveva
tracciato questo confine invalicabile dai coloni a protezione degli abitanti di queste confederazioni indiane che
avevano aiutato gli inglesi durante la guerra e che avrebbero quindi dovuto godere della loro protezione. La
Proclamation Line era un elemento che verrò contestato successivamente.
Questa serie di misure nel 1766 portarono i delegati dei coloni ad affermare che essendo loro impossibilitati a
recarsi in parlamento, non era legittimo che essi deliberassero sulle questioni che li riguardavano in loro
assenza. La lenta e sempre più graduale situazione di tensione sfocia in una serie di episodi, tra cui il
famosissimo Boston Tea Party.
Dopo questo episodio di lotta al governo ritenuto illegittimo, nel 1774 i rappresentanti delle colonie americane
si ritrovano in un congresso dal quale esce questa dichiarazione di messa a fuoco dei diritti che i coloni inglesi
anche in America non possono abrogare:

La dichiarazione dei diritti delle colonie (14 ottobre 1774)

[…] Che i nostri avi, i quali per primi si sono stabiliti in queste colonie, godevano, al tempo della loro
emigrazione dalla madrepatria, di tutti i diritti, libertà ed immunità dei sudditi nati liberi nel regno
d’Inghilterra […].
Che il fondamento della libertà inglese, e di ogni governo libero, è il diritto del popolo di partecipare al
proprio consesso legislativo; e siccome i coloni inglesi non sono rappresentati nel parlamento britannico, e per
circostanze di luogo ed altre non possono convenientemente esservi rappresentati, essi hanno diritto ad un
pieno ed esclusivo potere di legislazione nelle loro rispettive assemblee legislative provinciali, nelle quali sole
può essere salvaguardato il loro diritto di rappresentanza, in materia di tassazione e di politica interna, salvo
soltanto il diritto di veto del loro sovrano, nei modi che sono stati fino ad ora consueti, ma, tenendo conto
dell’impero delle circostanze, ed in considerazione dell’interesse reciproco di entrambi i paesi, di buon grado
acconsentiamo all’applicazione di quelle leggi del parlamento britannico che siano in buona fede limitate alla
disciplina del nostro commercio esterno e che abbiano lo scopo di assicurare alla madre patria i benefici
commerciali di tutto l’impero, nonché il vantaggio commerciale dei rispettivi membri di questo; escluso però
ogni concetto di tassazione interna od esterna, avente il fine di ricavare entrate dai sudditi d’America senza il
loro consenso […].

Il congresso, dopo aver steso questa dichiarazione/petizione, stabilisce che entri in vigore un blocco
straordinario di tutte le navi che provengono portando prodotti inglesi, irlandesi o delle Indie caraibiche. È un
attacco evidente al cuore della ricchezza inglese, ed è un’implicita dichiarazione di guerra.
Un anno dopo, nel 1775 Giorgio III dichiara lo stato di ribellione delle colonie e la guerra ha inizio.
Si possono osservare alcuni elementi costitutivi della ribellione di queste colonie americane: già nel testo della
Dichiarazione dei Diritti delle XII colonie è chiaro che essi sentono di appartenere al parlamento, ma la
rivendicazione dei diritti originari di libertà di cui i coloni si sentono frodati fa già intravedere quello che sarà
l’elemento portante delle guerre di propaganda che l’America farà contro gli inglesi per legittimare la bontà
della loro ribellione. Questo elemento, ovvero il rifiuto di un modello gerarchizzato di società, è la principale
differenza rispetto alla successiva rivoluzione francese, che nasce come un tentativo di mutare l’ordine della
monarchia francese.
Fin dall’inizio la Rivoluzione Americana è un tentativo di creare un modello di società completamente nuovo
rispetto a quello in cui i coloni vivevano.

La società americana lentamente dissolve quel senso di deferenza verso le gerarchie sociali tradizionali perché il
tumultuoso affermarsi di centinaia e migliaia di coloni che potevano diventare proprietari terrieri influì nel venir
meno di questa gerarchia perché si aveva la sensazione di avvicinarsi ad essere dei grandi latifondisti inglesi,
cosa che rendeva la società americana capace di muovere una guerra contro l’Inghilterra in nome di un progetto
di trasformazione complessiva e radicale della propria società.
L’elemento di contraddizione che esploderà nel corso della guerra era il rapporto dei coloni bianchi con le
popolazioni locali: si stima che inizialmente le popolazioni native fossero circa 5 milioni di abitanti, che
sarebbero diventati non più di 800 mila alle soglie del XIX secolo. Inoltre, la questione degli schiavi e della
popolazione nera era un problema latente, che si ingrandirà man mano.
Esisteva nelle colonie americane una eccezionale e inusuale distribuzione del possesso coloniale tra le persone,
ed esisteva soprattutto negli stati del sud, nelle colonie meridionali (dai quali arriverà l’impulso più forte alla
ribellione) una distribuzione della proprietà che assomigliava in qualche modo all’Inghilterra tradizionale e dove
viveva una fortissima percentuale di popolazione nera. Verso le colonie americane alla fine del 500 arrivavano
tra i trecento e i quattrocento schiavi all’anno, ma nell’ultimo decennio del settecento ne arrivarono
ottocentomila. La popolazione delle colonie stava crescendo velocissimamente (1750 = 1 milione e 200 mila
abitanti; 1775 = 2 milioni e mezzo) e possiamo affermare che circa un quinto di quei due milioni e mezzo della
popolazione in quel momento erano neri.
Quando re Giorgio II proclamò lo stato di ribellione delle colonie, la popolazione nera degli schiavi combatté al
fianco degli inglesi durante la guerra civile, le ex-colonie francesi non si schierarono con i ribelli e nemmeno le
Indie occidentali presero parte alla ribellione.
La rivoluzione prese immediatamente una leadership formata dai grandi proprietari del sud.
Fino alla guerra civile americana l’indipendenza formale americana dall’Inghilterra avrebbe lasciato una
frattura sia a livello territoriale sia per quanto riguarda la differenza tra i coloni e la popolazione nativa.
Gli inglesi, per legittimare questa ribellione, fecero propri i principi citati da John Locke e a quei testi in cui si
parla delle selvagge terre americane che i coloni hanno messo a frutto.
Il discorso rivoluzionario americano è anche una lenta distruzione del mito della rivoluzione britannica, che per
i coloni americani rappresenta soltanto una oppressiva estorsione.
Quando nel 1776 Thomas Jefferson scrive la Dichiarazione di Indipendenza (il 2 luglio), non sta solo
rivolgendo un commiato all’autorità inglese, ma sta proprio mettendo nero su bianco un tipo di governo
differente. Nel 1783 a Parigi, si stipula una pace tra i rappresentanti del Congresso Americano e la potenza
inglese che ratifica l’indipendenza dei neonati stati uniti d’America.
Di lì in poi inizia un dibattito, una discussione intensa tra i coloni americani sulla forma da dare agli Stati Uniti
d’America e questa forma viene riconosciuta e messa su carta nel 1787, anno in cui viene pubblicata la
Costituzione degli Stati Uniti d’America.

L’Ordinanza del nordovest (1787) per i futuri stati della Confederazione.


«L’Ordinanza ignorava gli americani nativi quali attivi partecipanti di questo processo gli “abitanti liberi” erano i
coloni bianchi), e l’autorità che essi esercitavano su gran parte della regione. Gli indiani vi erano nominati per
garantire che non sarebbero stati privati delle terre senza il loro consenso; che sarebbero stati trattati con lealtà,
giustizia e umanità; che non sarebbero stati invasi o disturbati se non in “giuste e legittime guerre autorizzate dal
Congresso”. La formula era protettiva contro possibili prevaricazioni di avventurieri dei singoli stati. Ma affermava
il diritto degli Stati Uniti di condurre quelle guerre che poi furono necessarie per imporre la loro sovranità contro
un’accanita resistenza armata. L’Ordinanza non era solo coeva alla stesura della nuova Costituzione; ne era anche
un’integrazione, e quasi ne condivideva il carattere fondante. Inventava un sistema per estendere la repubblica
dentro il continente creando non colonie dipendenti nel senso europeo del termine, bensì in prospettiva, quello che
Jefferson chiamò “un impero per la libertà, quale mai è stato visto dalla Creazione a oggi”. Nessuna costituzione,
aggiunse Jefferson “fu mai così ben congegnata, come la nostra, per garantire contemporaneamente un impero
esteso e l’autogoverno” (1809). Era evidente che libertà e autogoverno non riguardavano gli americani nativi».

Nel 1787 viene emanata una ordinanza del Nord-ovest che risolve in maniera molto sbrigativa la questione
della proclamation line, dando il via alla grande espansione dei coloni americani sotto forma di una libertà di
agire contro le popolazioni native. Questa ordinanza è una delle aporie più evidenti nel testo delle Costituzioni,
in cui si contrapporranno i federalisti e i confederalisti.
I federalisti, rappresentati da James Madison, sono coloro che ritengono che l’unione colonie debba avvenire
sotto la protezione e il vincolo di uno stato più forte, mentre i confederati sono coloro che ritengono che
l’autonomia delle colonie sia un principio non controllabile da un centro.
Questa dialettica tra potere centrale e potere degli stati (tutt’ora presente nella politica americana) viene risolta
dalla confederazione con un sistema di compromessi che riguarda particolarmente il sistema elettivo della
camera e del senato.
La presenza dei nativi viene ignorata dalla costituzione, perché le confederazioni di indiani sono ritenute nazioni
straniere, che non hanno diritto ad essere citate né rappresentate, così come la popolazione degli schiavi.
Nella costituzione c’erano quindi i cittadini, la popolazione bianca, non c’erano gli indiani e non c’erano gli
schiavi neri, che vengono indicati con la perifrasi “altre persone” che li esclude da questi diritti.

28 ottobre 2019

L. Hunt, La rivoluzione francese. Politica, cultura, classi sociali, Bologna, Il Mulino 1989, pp. 221-222
«Prima del 1789 non stava prendendo forma un governo alternativo: non esisteva un partito rivoluzionario
segreto, né un’organizzazione politica di massa. Circolavano le idee del repubblicanesimo, della virtù, della
trasparenza e persino della democrazia grazie ai philosophes e al movimento indipendentista americano. Ma
nessuno si batté per realizzarle fino al momento in cui la monarchia non cominciò a crollare [...]. La guerra
americana era stata cara e la corona aveva contratto debiti ingenti. Ma la cosa più importante era che i suoi
creditori chiedevano un’estensione della partecipazione politica delle classi superiori. Ciò ebbe come
conseguenza la convocazione degli Stati Generali: questa prima apertura non fu però in ultima analisi di
natura economica. I debiti non erano in sé insormontabili; lo stato inglese era ancora più indebitato.
L’apertura fu creata invece da una crisi della cultura politica dell’ancien régime: i finanzieri nobilitati, i
magistrati e gli ufficiali dell’esercito chiedevano mutamenti fondamentali del sistema, e furono le loro richieste
“politiche” a mettere in moto la spirale montante degli avvenimenti. La crisi della monarchia di fronte alla
“rivoluzione aristocratica” fu solo il primo atto. Fu l’intensità delle tensioni interne all’élite dell’ancien régime
l’elemento distintivo della Rivoluzione francese rispetto alla guerra d’Indipendenza americana e alla guerra
civile inglese del 1640».

La rivoluzione francese e la rivoluzione Haitiana

La comparazione di questi due eventi, la rivoluzione francese e quella haitiana, è solitamente insolita, eppure,
come scrive Federica Morelli, negli ultimi venti anni la rivoluzione di Haiti (1789-1804) è stata uno dei
principali argomenti di studio degli storici moderni per il semplice fatto che essa inaugurò e si svolse attraverso
una serie di episodi senza precedenti (p397):
- introduzione di una rappresentanza coloniale in un’assemblea metropolitana
- fine della discriminazione razziale
- prima abolizione della schiavitù in un’importante società schiavista
- creazione del primo stato indipendente dell’America Latina

Le rivoluzioni atlantiche per la storiografia di fine 900 erano le rivoluzioni (prima inglese, poi americana e poi
francese) che erano segnate “dalla condivisione di elementi di cultura riconducibili alla civiltà ebraico-
cristiana, alla legge romana, alla ragione greca”.
Erano insomma il benefico circuito culturale di ideali democratici di rappresentanza politica e di emancipazione
che si erano stretti a creare, alla fine del seicento, una sorta di comunanza di idee e una grande eredità per il
periodo successivo, che da queste rivoluzioni avrebbe imparato le nozioni liberali di termini come
“democrazia”, “rappresentanza” ...
In questa accezione di “rivoluzioni atlantiche” non c’era alcun posto per questa microscopica rivoluzione
haitiana, che pure era nata dalla rivoluzione francese.

Haiti

Nell’arcipelago caraibico, isolette del mar dei caraibi avevano una notevole rilevanza economica per le potenze
europee (Francia, Spagna, Inghilterra). In queste isole dal tardo 500 si era installata quella forma di schiavismo
o economia coloniale di grandi piantagioni che rappresentavano per l’economia europea un inesauribile e
fondamentale serbatoio di ricchezze.
Per regolamentare questa forma di sfruttamento alimentato sempre più massicciamente dall’arrivo di navi
cariche di schiavi (cinquecento e seicento), Luigi XIV aveva emanato nel 1645 il cosiddetto Code Noir, il primo
e più organico tentativo di regolamentazione tra la popolazione bianca e quella schiava nera.
La popolazione nera rispetto ai coloni bianchi era sproporzionata a dismisura, dato che più del 90% degli
abitanti dell’isola era composto dalla manodopera schiava e un numero molto più basso di coloni bianchi
rappresentava la classe dirigente.
Il Code Noir stabiliva una serie di norme basate sulla concezione di schiavitù del diritto romano che da un lato
determinava una sorta di freno alla possibilità di maltrattamenti che i proprietari bianchi potevano esercitare, -
questo perché gli schiavi erano un bene mobile, costoso, che andava protetto e preservato come valore
economico molto importante – dall’altro però consolidava in forma giuridica determinati. Diritti in mano al ceto
bianco. C’erano delle regole sull’alimentazione, sui vestiti, sulle punizioni e così via.
Il codice, nella sua crudeltà, stabiliva che la manodopera di queste centinaia di schiavi andava protetta.
Nel corso della guerra dei sette anni, quando dal 1756 al 1763 Francia e Inghilterra si erano combattuti in
Francia in India e in America, il mercato degli schiavi aveva avuto una drastica riduzione, ma dopo il Trattato di
Parigi, il traffico era ripreso con una. Intensità molto più alta di prima, incrementando in maniera evidente la
produzione delle isole caraibiche. Santo Domingo era diventata in quegli anni la colonia più ricca del mondo. La
monarchia francese ne deteneva l’assoluto monopolio, apprezzandone la necessarietà specialmente a seguito
della guerra dei sette anni, quando le difficoltà fiscali non permettevano di ripagare le perdite di denaro e le
spese militari affrontate nel conflitto.
La condizione di forte crisi politica ed economica aveva rapidamente condotto la Francia in una situazione
drastica dalla quale non si sarebbe mai più risollevata fino allo scoppio della Rivoluzione.
La monarchia francese era una delle grandi potenze europee, forse la più grande su base militare: era una
monarchia vecchia, una delle prime grandi monarchie moderne, con una aristocrazia solidissima, deteneva un
potere di controllo sulla gerarchia ecclesiastica ferreo, ed era quindi uno stato centralizzato (invece la monarchia
inglese aveva un potere decentralizzato – parlamento). Tutti questi elementi portarono ad un divario tra un
potere antico e forte ed una situazione di grave instabilità economica che attraversò tutti gli ultimi decenni del
XVIII secolo mettendo a nudo alcuni elementi di fragilità di cui i contemporanei non si accorgevano.

Il contrasto tra l’esempio inglese e quello francese


La monarchia inglese dopo la seconda rivoluzione del 1649 aveva preso la strada di una sorta di compromesso
di. Potere tra l’autorità regia e il parlamento. Questo rapporto ben equilibrato tra la rappresentanza del paese e il
suo centro politico aveva consentito all’Inghilterra una stabilità istituzionale e coloniale che aveva resistito
anche dopo la rivoluzione americana.
La monarchia francese, invece, era fortemente centrata sul potere del sovrano, Luigi XIV, con un apparato
burocratico fortemente controllato dalla monarchia ma con l’assenza completa di una rappresentanza del paese.
Lo si vede molto bene dalla vicenda degli stati generali.

Gli stati generali in Francia erano essenzialmente l’equivalente del parlamento britannico: la rappresentanza era
elettiva, scelta dai vari parlamenti provinciali, e divisa secondo l’appartenenza a tre ceti, ovvero il clero,
l’aristocrazia e il “terzo stato” (coloro che non avevano privilegi).
Gli stati generali avevano rappresentato nel corso dell’età moderna tra cinque e seicento una. Sorta di assemblea
e di istanza di colloquio tra il sovrano e la parte più fortunata dei suoi sudditi.
Questa struttura politica, con una costituzione sempre più isolata nel potere della monarchia e dei suoi
funzionari da una parte e dall’altra una rappresentanza politica sempre più debole – dato che nel 1614 si erano
tenuti gli ultimi stati generali e da quella data non erano più stati convocati – aveva rafforzato il potere
assolutista del sovrano, ma aveva anche reso più distante la voce dei sudditi e della monarchia, rendendo
impenetrabile agli occhi del re la suddivisione del proprio regno, che rimaneva sostanzialmente ancora in essere,
ma la cui rappresentanza davanti al re era totalmente inadeguata.
Quando ormai verso i tardi anni settanta del seicento Luigi XVI tentò di rimettere in sesto la sua
amministrazione fiscale per recuperare una sorta di udienza presso la propria popolazione e per ritrovare il
consenso degli stati generali, lo iato che si era prodotto fra gli stati ed il monarca entrò in rapida collisione.
Le istanze di resistenza alle complicate ingegnerie finanziarie imposte dal sovrano furono sempre più visibili, e
fu proprio la nobiltà francese che si irrigidirono maggiormente di fronte alle richieste di Luigi XVI.
L’aristocrazia francese, per quanto fosse stata deprivata nel tempo dei suoi poteri, aveva comunque un diritto di
partecipazione alle scelte del sovrano, ma quando la situazione divenne via via più difficile e le richieste del re
sempre più insistenti, fu l’aristocrazia a proclamare che il re stava rompendo quel contratto costituzionale che
doveva regolare il rapporto tra il re e la popolazione più privilegiata.
La corte reagì in maniera goffa, perché tento – con una mossa che rivelava di fatto la perdita di contatto tra il re
e la società – di ripercorrere la strada della convocazione degli stati generali dopo quasi due secoli.
Gli stati generali, fino al 1614 rappresentavano di fatto la dialettica tra il re ed i propri sudditi, ma la sua
riconvocazione nel 1788 diedero il via ad una serie di proteste e rivendicazioni che, invece di assecondare la
prova del re, finirono col renderla del tutto opposta alle sue aspettative.
Iniziarono anche delle fortissime tensioni sul potere elettorale: la Francia all’epoca era un paese da 18 milioni di
abitanti, di cui gli aristocratici erano all’incirca 300 mila.
Quando si dovette decidere quanti deputati avrebbero potuto votare, ebbero inizio i conflitti: il terzo stato
richiese infatti di votare non per corpo (1 aristocrazia, 1 clero, 1 terzo stato), ma per testa.
In seguito alla redazione di moltissimi cahiers de doléances (petizioni di protesta verso il re), il terzo stato si
mobilitò per ottenere che quantomeno la somma di aristocratici e degli ecclesiastici fosse almeno pari con quella
dei rappresentati del terzo stato. Il fatto di essere presenti in questo modo era già una disarticolazione delle
dinamiche sociali.
Furono in tutto mille i deputati che si presentarono alla corte di Versailles, dove si dovevano riunire, ma con una
rappresentazione inedita: non più divisi per corpi o per ordini ma con una gerarchia nuova, che rappresentava
una società civile inedita. Questa assemblea si dimostrò immediatamente del tutto aliena dal soddisfare le
richieste del re.

Prendendo in considerazione lo sguardo di uno straniero che osserva da fuori la vicenda, possiamo vedere come
questa convocazione veniva concepita:

E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, (ed. or. 1790)


«Quel che mi colpì subito della convocazione degli Stati Generali fu un grande cambiamento sopravvenuto
nella prassi tradizionale. La rappresentanza del Terzo Stato era composta di seicento membri, eguale quindi
alla rappresentanza degli altri due ordini presi insieme. Se gli Stati avessero deliberato separatamente il
numero non avrebbe avuto importanza, eccetto che nel comportare una spesa maggiore. Ma quando divenne
chiaro che i tre Stati dovevano riunirsi a deliberare insieme, allora il motivo di questa rappresentanza
numerosa, e l'effetto che ne sarebbe derivato, divenne d'un tratto ovvio. Una diserzione minima dei membri
degli altri due ordini avrebbe riversato il potere di ambedue nelle mani del terzo. Infatti, l'intero potere della
nazione venne presto a trovarsi in un solo corpo, il Terzo Stato. La composizione di esso assunse quindi
importanza di primo piano. [...]
C'erano, sì, alcune eccezioni degne di nota; ma la massa era composta di oscuri avvocati di provincia, di
amministratori di piccole giurisdizioni locali, di procuratori di campagna, di notai e dell'intera baracca degli
arbitri delle liti municipali, dei fomentatori e capi delle guerriglie vessatorie del villaggio. Dal momento in cui
lessi la lista vidi distintamente quel che ne sarebbe seguito, e con grande esattezza [...]»

Burke coglie che la rappresentanza di questo stato (composto per lo più da avvocati di provincia, membri del
basso clero parrocchiale privo di privilegi etc) stava modificando la classica divisione sociale, che era destinata
a sfuggire al controllo del re.
Ci si avviava velocemente, quindi, all’esplosione di una società civile nuova.

Nelle prime settimane di giugno 1789, ad un certo punto il terzo stato decide di riunirsi da solo e il 17 giugno si
proclama Assemblea Nazionale, giurando nella sala della Pallacorda.
Da qui hanno inizio tutti quegli eventi che porteranno alla presa della Bastiglia, il 14 Luglio 1789, data che
segna l’inizio della vera e propria Rivoluzione.

Uno dei rappresentanti del terzo stato era un ecclesiastico, Emmanuel-Joseph Sieyès, che viene citato anche nel
saggio di Lavenia a pagina 403, e che fa circolare nelle prime settimane di riunione degli stati generali, un
opuscolo che s’intitola “Che cos’è il Terzo stato?”.
Questo libretto si apre con un elenco di interrogativi retorici:

<< Le plan de cet écrit est assez simple. Nous avons trois questions à nous faire.
I. Qu’est-ce que le Tiers état? — TOUT.
II. Qu’a-t-il été jusqu’à présent dans l’ordre politique? — RIEN.
III. Que demande-t-il? — À ÊTRE QUELQUE CHOSE.
On va voir si les réponses sont justes. Jusque-là, ce serait à tort qu’on taxerait d’exagération des vérités dont
on n’a pas encore vu les preuves. Nous examinerons ensuite les moyens que l’on a essayés, et ceux que l’on doit
prendre, afin que le Tiers état devienne, en effet, quelque chose. Ainsi nous dirons :
Ce que les ministres ont tenté, et ce que les privilégiés eux- mêmes proposent en sa faveur.
Ce qu’on aurait dû faire.
Enfin, ce qui reste à faire au Tiers pour prendre la place qui lui est due. >>

Il terzo stato punta ad essere un tutto, una Nazione di cui lui è l’unico rappresentante: ciò significa che per il
terzo stato, il clero e l’aristocrazia non hanno più il diritto di rappresentare la Francia, perché sono i lavoratori, i
ceti produttori che devono rappresentare la nazione politica.

Le definizioni del termine “nazione” individuano un insieme di individui che condividono alcune caratteristiche
culturali, per esempio la lingua, ma non incontreremo mai una definizione i cui termini indichino l’insieme dei
cittadini che godono degli stessi diritti politici.
Quando, quindi, i rappresentanti del terzo stato cambiano il loro nome da Stati Generali ad Assemblea
Nazionale, fanno passare il messaggio che esista una sola istanza del corpo politico, riempiendo il significato
politico di “nazione” dei soli rappresentanti del terzo stato.
Dall’89 in avanti, questa forza del terzo stato di proclamata
si come nazione politica non avrà più limiti: la sua azione all’interno dello stato sarà talmente incisiva e ben
organizzata che – a partire dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che si fa qualche giorno dopo
la presa della bastiglia – avvistiamo di fronte a noi l’iter dei successivi episodi che portano alla abolizione degli
oneri feudali, all’abbattimento delle vecchie gerarchie ecclesiastiche e sociali e a tutte le riforme che lentamente
verranno promulgate dai rivoluzionari.
Tutti questi atti hanno come esito, nel gennaio del 1793, la decapitazione di Luigi XVI e renderanno la Francia
monarchica un lontano ricordo nel giro di soli quattro anni. L’Ancien Régime verrà sostituito da una iniziale
monarchia costituzionale e poi dalla repubblica.

26 agosto 1789 l’Assemblea Nazionale proclama la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino
Art. 1. Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere
fondate che sull’utilità comune.
Art. 2. Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo.
Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.
Art. 3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può
esercitare un’autorità che non emani direttamente da essa.
Art. 4. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; così, l’esercizio dei diritti naturali di
ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della
società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla legge.
Art. 5. La legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla legge
non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina.
Art. 6. La legge è espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere
personalmente o per mezzo di loro rappresentanti alla sua formazione. Essa deve essere eguale per tutti, sia
che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo eguali ai suoi occhi, sono egualmente ammissibili a
tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo le loro capacità e senza altra distinzione che quella delle
loro virtù e del loro ingegno.

La tensione rivoluzionaria è anche all’origine di una spaccatura all’interno del fronte rivoluzionario: la Riv Fra,
con la sua assemblea nazionale, viene ricordata anche perché porta il primo esempio di un parlamento in cui
varie anime – dalle più estreme alle più moderate – si dividono sedendosi come accade nei parlamenti moderni,
ovvero alla sinistra i più rivoluzionari e alla destra i più conservatori.
Tra l’89 e l’93 l’assemblea inizia a dividersi in gruppi come per esempio i “giacobini” (i più radicali, dal
convento dei domenicani di Saint Jacobe), i girondini (i più moderati, dal dipartimento della gironda) …
Questa divisione tra partiti ha al suo interno la possibilità do creare spaccature, ma è proprio questa
radicalizzazione che ci fa ritornare ad Haiti, in cui è riflesso immediatamente quello che accade a Parigi.

La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino diceva chiaramente al primo articolo che:
“Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate
che sull’utilità comune.”
Questa dichiarazione era nuova e rivoluzionaria perché non si metteva in primo piano il diritto della proprietà: si
parlava esplicitamente di uomini.
Verso settembre dell’89 le notizie della rivoluzione arrivano ad Haiti e sconvolgono l’equilibrio della colonia:
da un lato, i coloni bianchi vogliono l’autonomia da Parigi per proteggere il loro status sociale, e dall’altra, gli
schiavi affrancati (i “liberi” di colore) gli schiavi veri e propri vedono uno spunto per richiedere quello che
desiderano. Scoppiano così nel 90 e nel 91 due grandi rivoluzioni: la prima, del 90, è guidata dai liberi di colore,
mentre la seconda dagli schiavi veri e propri, e si concentra nella zona a nord di Haiti, quella delle piantagioni.
I bianchi sono inorriditi da queste reazioni e chiedono l’intervento degli inglesi per una protezione.
A Parigi, però, anche il ceto rivoluzionario riflette e teme che la rivoluzione schiavista sia dannosa per
l’economia francese.

Santoro M., Il tempo dei padroni. Gerarchia, schiavitù, potere nell'antropologia di antico regime (Haiti
1685-1805), Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 192-193.
Discorso di Robespierre:

«Vi è un grande interesse connesso con la conservazione delle colonie; ma questo stesso interesse è
subordinato alla Costituzione: l’interesse supremo della nazione e delle colonie stesse è che voi non rovesciate
con le stesse vostre mani le basi di questa libertà. Periscano le colonie se volete conservarle a questo prezzo.
Si, se occorre scegliere tra perdere le colonie o sacrificarvi la vostra felicità, la vostra gloria, la vostra libertà;
io lo ripeto: periscano le vostre colonie! Se i coloni vogliono costringerci, con le minacce a decretare ciò che è
più idoneo ai loro interessi. Io dichiaro, nel nome dell’Assemblea, nel nome di quei membri di questa
Assemblea che non intendono rovesciare la Costituzione, nel nome dell’intera nazione che vuole essere libera,
che noi non sacrificheremo ai deputati coloniali né la nazione, né le colonie, né l’umanità intera».

Robespierre tra il 93 e il 94 sarà il leader indiscusso del periodo del Terrore, in cui le violenze e gli scontri
crescono a dismisura e in cui la politica giacobina si erge per staccarsi dal passato monarchico.
In questo discorso c’è tutta l’ambiguità che i funzionari francesi del terzo stato si trovano a dover esplicitare nei
confronti della rivoluzione e della emancipazione auspicata dagli schiavi, perché è come se fossero costretti a
indietreggiare di fronte alle richieste sia di indipendenza dell’assemblea coloniale (i coloni bianchi volevano la
loro assemblea nazionale indipendente) sia di emancipazione degli schiavi.
Il compromesso fu quello di concedere il diritto di voto non agli schiavi, ma unicamente ai mulatti che fossero
nati da entrambi i genitori liberi (o bianchi o schiavi liberati).
Nella colonia, però, questo decreto emanato a Parigi fu subito sabotato e quando in Francia iniziarono le guerre
tra francesi e altre potenze europee (fase più complicata della rivoluzione), il governatore francese si trovò
boicottato dai coloni bianchi e privo di comunicazione con la Nazione. Tutto questo si tradusse nella più grande
ondata di ribellione di schiavi neri della storia, guidata dal leader Toussaint Louverture, che portò ad una
proclamazione di una forma di stato indipendente.

Quando la rivoluzione francese si trovò di fronte all’esigenza di difendersi con le armi, la guerra, a cui tutto si
riduceva, doveva essere combattuta con armi nazionali, non della monarchia francese, ma dei cittadini che
difendevano la Nazione.
Questo interesse nazionale salvò la rivoluzione francese, ma la condannò anche a quello che sarebbe diventata
dopo il 99, cioè un’ascesa definitiva per Napoleone Bonaparte.
Questa rivoluzione nata come tentativo di emanciparsi, produsse si un regime non più monarchico, ma si ritrovò
con il colpo di stato del 1799 in un regime imperiale a carattere nazionale: Napoleone disse, in quell’occasione,
che la rivoluzione era finita nei nomi dei supremi interessi della Nazione francese, davanti alla quale tutti quegli
ideali che avevano guidato il movimento rivoluzionario (libertà, uguaglianza, fratellanza, tolleranza) venivano
messi da parte.

L’esigenza di difendere la rivoluzione fu ciò che impedì il dialogo tra la rivoluzione di Haiti e quella francese:
gli schiavi lottavano per la libertà individuale, per dei diritti naturali che non dovevano trovare un freno nel bene
supremo del paese. Quando la Francia rivoluzionaria si trasformò in una nazione libera, tutte le altre esigenze,
comprese quelle dei diritti dimenticati degli schiavi, dovevano naturalmente passare in secondo luogo in favore
de:
- L’amore per la patria
- La difesa della nazione
- I diritti dei cittadini francesi (che erano superiori a quelli degli schiavi).
Le sorti di Haiti o di Santo Domingo erano segnate dall’arrivo di Napoleone, che nel 1799 divenne la persona e
l’autorità politica indiscussa della Nazione francese. Fu proprio napoleone che nel 1802 decise che per aiutare la
rivoluzione e la Francia occorreva stroncare nel sangue l’insurrezione degli schiavi di Haiti, che nel frattempo
avevano conquistato sanguinosamente buona parte dell’isola.
Nel 1802 sbarcò ad Haiti una flotta di navi francesi che si trovarono di fronte una guerra d’indipendenza
organizzata militarmente dalla popolazione schiava. Questa spedizione punitiva (1802.1803) fu particolarmente
brutale, ma fu anche fallimentare, perché nonostante la chiara superiorità militare dei francesi, l’esercito
francese fu decimato dagli schiavi e dalle malattie che popolavano l’isola.
Dopo aver perso circa 4 mila soldati, i francesi abbandonarono Haiti.
Nel 1803, uno schiavo nero emancipato proclamò l’Indipendenza dalla dominazione coloniale francese. I coloni
bianchi rimanenti furono o costretti a lasciare l’isola o massacrati dagli schiavi.

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